Verso la prima prova© Loescher Editore - Torino
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TIPOLOGIA B ANALISI E PRODUZIONE DI UN TESTO ARGOMENTATIVO
• La tipologia B sarà proposta con tre prove di diverso ambito, a
partire da un testo compiuto o da un estratto significativo
ricavato da una trattazione più ampia.
• Il testo scelto sarà un testo argomentativo di tipo saggistico o
giornalistico (in particolare, articoli in forma di editoriale
scritti da intellettuali o esperti di fama).
• I tre testi saranno scelti all’interno dei seguenti ambiti:
artistico, letterario, storico, filosofico, scientifico,
tecnologico, economico, sociale.
Che tipo di prova è? È una prova di tipo strutturato perché si
compone di due parti: • prima parte: comprensione e interpretazione
sia di singoli passaggi sia dell’insieme (ad
esempio: quali sono le sequenze essenziali del discorso? Quale la
tesi viene sostenuta? Quali risorse espressive per sostenere
l’opinione? Fai il riassunto ecc.);
• seconda parte: commento argomentativo sulla tesi o il tema
proposti nel passo, con even- tuali vincoli.
PRIMA PARTE (COMPRENSIONE E INTERPRETAZIONE DEL TESTO) Come si
propone di saggiare le capacità e le competenze specifiche dello
studente? • Attraverso richieste di attività come il riassunto; •
attraverso quesiti specifici su singoli passaggi o sull’intero
passo; • attraverso l’individuazione delle sequenze e/o dei nuclei
informativi di cui si compone il
testo; • attraverso l’individuazione dei rapporti logico-sintattici
che legano tra loro i passaggi; • attraverso l’individuazione della
tesi, dell’antitesi, delle argomentazioni e della loro tipo-
logia; • attraverso l’analisi e la valutazione delle soluzioni
espressive adottate per sostenere una
tesi ecc.
SECONDA PARTE (COMMENTO ARGOMENTATIVO) Come si propone di attivare
le capacità di produzione autonoma? • Attraverso la richiesta di un
testo discorsivo coerente e coeso che rispetti una
progressione
tematica efficace; • in forma di commento argomentato, in cui lo
studente sarà chiamato a esprimere una sua
opinione motivata sulla tesi e/o il tema trattato/i dal testo
proposto; • nel rispetto delle caratteristiche tipiche di una
scrittura argomentativa più o meno vinco-
lata (eventuali vincoli testuali da soddisfare potranno essere
indicati o meno nella consegna).
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Ambito artisticoi Bénédicte Savoy Restituiamo. Ma con gioia In due
minuti e trenta secondi, il 28 novembre 2017, Emmanuel Macron ha
spazzato via in un solo colpo svariati decenni di atti e di
discorsi ufficiali francesi in materia di patrimonio cultu- rale e
di musei. L’ha fatto in un «luogo dove non si può barare», come
l’ha definito, la sovraffol- lata aula magna di un’Università
africana, sotto gli occhi del presidente burkinese Roch Kaboré e
degli obiettivi delle telecamere di France 24.
L’ha fatto a nome della gioventù, genio tutelare invocato sette
volte: «Appartengo a una ge- nerazione di francesi per i quali i
crimini del colonialismo europeo sono incontestabili e fanno parte
della loro storia». «Voglio che nell’arco di cinque anni si siano
verificate le condizioni per delle restituzioni temporanee o
definitive del patrimonio culturale africano all’Africa». Applau-
si e fischi. Su Twitter, l’Eliseo rincara la dose: «Il patrimonio
culturale africano non può essere prigioniero dei musei europei».
[…]
La storia delle collezioni africane è una storia europea, un affare
di famiglia se si vuole, in cui curiosità estetica, interessi
scientifici, spedizioni militari, reti commerciali e «opportunità»
di ogni genere hanno contribuito ad alimentare le logiche del
dominio, dell’affermazione e del- le rivalità nazionali. I musei
delle capitali europee sono i depositari della creatività umana, ma
anche, non per colpa loro, di una storia più triste e troppo
raramente raccontata.
Ancora oggi, in Francia come altrove in Europa, la semplice parola
«restituzione» suscita au- tomaticamente una reazione di
arroccamento in posizioni difensive. Di questo tipo di reazione
diede dimostrazione pubblica François Mitterrand nel 1994 quando,
per ringraziare Helmut Kohl per la restituzione da parte della
Germania di 27 quadri francesi sottratti dai nazisti, commentò:
«Quanti conservatori dei nostri Paesi, quanti responsabili dei
nostri grandi musei devono questa sera provare una certa
inquietudine. E se questo si generalizzasse? Non credo di sbagliare
nel pensare che questo esempio resterà isolato e che il contagio si
arresterà molto in fretta».
Restituzioni e contagio; prudenza politica e terrore dei musei:
apparteniamo a una gene- razione che ha conosciuto soltanto
restituzioni dolorose o strappate dopo lunghe lotte. Nessu- no in
Francia ha dimenticato la «guerra di trincea» sostenuta nel 2010
dai conservatori della Bi- bliothèque Nationale de France quando, a
margine di trattative commerciali, Nicolas Sarkozy si era impegnato
a restituire alla Corea del Sud quasi 300 preziosi manoscritti
provenienti da una spedizione punitiva dell’esercito francese nel
1866. Nessuno dimentica in Italia il mezzo secolo di negoziati che
fu necessario per rendere all’Etiopia l’obelisco di Axum sottratto
da Mussolini nel 1937. E a nessuno a Berlino piacerebbe se un
giorno si restituisse alla Tanzania l’immenso scheletro fossile del
più grande dinosauro del mondo, il Brachiosaurus brancai,
«importato» nel 1912 dai territori allora soggetti al protettorato
del Reich.
Si possono per il futuro ipotizzare restituzioni felici e condivise
nel duplice interesse dei popoli e degli oggetti? È possibile
pensare a restituzioni in cui la posta in gioco non sia pura- mente
strategica, né semplicemente politica o economica, ma anche e
veramente culturale? L’annuncio fatto a Ouagadougou1 sembra
rispondere positivamente alla domanda. Trae forza da un cambio di
generazione. Suggerisce che una condivisione è possibile. E, contro
ogni aspet- tativa, non ha suscitato quella levata di scudi
istituzionale cui ci hanno abituato (ancora un riflesso
incondizionato) le discussioni di questi ultimi anni. […]
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Ora che si fa? Prima di tutto, in fretta e senza fare finta, si
uniscano al dibattito france- se voci multiple di attivisti,
intellettuali, responsabili politici, professionisti di musei,
africani d’Africa e africani della diaspora, mecenati, insegnanti,
artisti, persone che auspicano le resti- tuzioni e persone
contrarie. Ci si metta intorno a un tavolo, ci si ascolti.
Successivamente si faccia bene attenzione a non interferire nella
sfera decisionale altrui. Quando, dopo Waterloo, la Francia
restituì all’Europa le opere trasferite a Parigi durante la Ri-
voluzione e l’Impero, non spiegò al papa e ai sovrani di Germania,
Austria, Spagna ecc. il modo corretto per valorizzare e conservare
le loro collezioni. Ci vollero in molti casi vari decenni e
dibattiti contraddittori perché questi Paesi avessero politiche
culturali «moderne» e infrastrut- ture adatte. […] Allo stesso
modo, nel 1945 gli americani non dissero ai francesi come trattare
le opere da loro recuperate nella Germania nazista e lo Stato
francese non esitò, al ritorno di queste opere, a venderne diverse
migliaia all’asta. Bisogna lasciare a quanti recuperano le opere
l’attenzione e il tempo di trovare le soluzioni per loro
migliori.
E poi, e soprattutto, bisogna permettersi di sognare: immaginare
delle configurazioni giu- ridiche inedite, testare nuove forme di
collaborazione, come quelle praticate da dieci anni dalla Fondation
Zinsou nel Benin2, inventare dei modelli flessibili, adattati alle
realtà di un conti- nente immenso […]. Bisogna pensare in piccolo e
in grande, a corto e a lungo termine. Bisogna pensare,
naturalmente, a quelli che riceveranno le opere, ma non bisogna
sottovalutare quelli che, in Francia e altrove, si sentiranno forse
feriti nel loro «orgoglio patrimoniale» o nella loro «identità
culturale».
Bisognerà prendersi il tempo necessario per spiegare all’opinione
pubblica di «casa no- stra» che cosa è stato fatto e perché,
raccontare ai visitatori dei musei come si erano formate le
collezioni, come, quando e a quale prezzo queste opere sono
arrivate da noi. Bisognerà rimette- re in discussione certe
«evidenze» e certi «tabù» museografici. Se dobbiamo percorrere
questa via, dobbiamo percorrerla con gioia, una gioia responsabile,
prudente e consapevole che dia un’anima a questo grande progetto
del XXI secolo. «Voglio che nell’arco di cinque anni si siano
verificate le condizioni per delle restituzioni temporanee o
definitive del patrimonio culturale africano in Africa», ha detto
Macron. Scommettiamo…
(B. Savoy, Restituiamo. Ma con gioia, «Il Giornale dell’Arte», 384,
marzo 2018)
1. Ouagadougou: capitale del Burkina Faso. 2. Benin: il Benin è un
altro Stato dell’Africa occidentale. Ex colonia francese, confina a
nord con il Burkina Faso.
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Comprensione e interpretazioneI
1 Individua i cinque blocchi in cui è organizzato il testo. Li
elenchiamo qui sotto, ma nell’articolo non si trovano in
quest’ordine. a. due capoversi pongono la questione delle
collezioni di arte africana a partire da una dichia-
razione di Emmanuel Macron; b. un capoverso contiene la tesi; c. un
capoverso esplicita la contraddizione che caratterizza le
collezioni di arte africana; d. quattro capoversi mostrano a quali
condizioni la tesi può essere sostenuta; e. due capoversi portano
esempi delle difficoltà legate alle restituzioni.
2 La tesi si trova all’inizio, a metà o alla fine del testo?
Riassumila. 3 Perché il patrimonio culturale africano è definito
«prigioniero dei musei europei»? 4 Come spieghi l’uso della
metafora della «guerra di trincea»? 5 L’autrice utilizza alcune
domande dirette: come spieghi questa scelta stilistica? 6 Riassumi
l’articolo utilizzando circa 250 parole.
CommentoI
7 Scrivi un testo lungo al massimo tre colonne di foglio protocollo
in cui sostieni oppure con- futi l’opportunità di restituire alcune
opere africane ai Paesi d’origine. Dovrai fondare le tue
argomentazioni sugli esempi storici riportati nell’articolo,
ragionando sul significato sociale e politico delle istituzioni
museali.
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Ambito artisticoi Mario Coppola Il ruolo dell’architettura
nell’Antropocene Dalle colonne di Domus EcoWorld, Leonardo Caffo1
muove una durissima critica al modo in cui la progettazione – dal
design all’urbanistica – affronta la crisi ambientale. Il filosofo
definisce gli sforzi compiuti dall’architettura green come
«retorica» e spiega come sia venuto il momento di agire
concretamente sull’impatto dell’antropizzazione, concludendo: «Il
futuro ha l’aspetto di una capanna, non di un grattacielo».
Come dargli torto: gli sconquassamenti provocati dalle attività
umane sono talmente im- mensi e devastanti per gli equilibri
planetari che, di certo, né la vegetazione né i pannelli foto-
voltaici, messi su qualche edificio, possono costituire un rimedio.
Anche perché l’innalzamento della temperatura di altri due gradi,
sufficiente a innescare catastrofi di proporzioni apocalitti- che
perfino in questo secolo, sotto i nostri stessi occhi, sembra ormai
inevitabile.
Prima degli allarmi lanciati negli ultimi decenni dalla comunità
scientifica internaziona- le, questo appello, con la stessa durezza
sferzante, fu urlato al mondo da Paolo Soleri2 negli anni Sessanta:
l’architettura e la città, prodotti dello sviluppo culturale e
tecnologico della civiltà occidentale, sono intrinsecamente
insostenibili e, per questo, compito dell’architetto è immagi- nare
nuovi scenari, nuove soluzioni. Soleri era un rivoluzionario, usò
il termine «frugale» rife- rendolo alla costruzione di edifici e
spazi comuni e capì che, restando nelle metropoli, avrebbe fatto
solo retorica. Perciò si auto-esiliò nel deserto dell’Arizona e
diede vita a Cosanti e Arcosanti: arcologie, micro-città,
ecosistemi umani in armonia con il resto del pianeta, utopie
viventi fatte di cemento modellato col terreno, di sudore, di mani
e di corpi. A Cosanti, pochi anni fa, Soleri è morto senza essere
riuscito nell’impresa, tanto coraggiosa quanto solitaria, di
salvare il mondo. La storia dell’architetto torinese dimostra la
spietata tesi di Manfredo Tafuri3: l’architettura, per quanto
ispirata da buoni propositi, non realizza utopie. Ecco perché
accusare gli architetti di retorica e simbolismo rischia di essere
improduttivo: a meno che non scelgano l’Aventino, come fece Soleri,
gli architetti sono per definizione dei creatori di forme, di
figure, di simboli; e non hanno alcun potere sulla dimensione
concreta di cui parla Caffo.
Nel migliore dei casi sono ingaggiati da entità pubbliche
democratiche e progressiste, nel peggiore da governi autoritari o
da privati senza scrupoli: ad ogni modo – e non è sto- ria nuova –
gli architetti non agiscono per loro conto ma negli interessi di
qualcun altro; qualcuno che, quasi certamente, fa parte del grande
paradigma economico-culturale fondato sull’antropocentrismo.
Dunque, purtroppo, nessun architetto avrebbe la forza di convincere
i suoi clienti ad abbandonare la strada dei grattacieli, delle
industrie e degli aerei, anche se è la strada per l’annientamento:
ormai tutti conoscono le previsioni degli scienziati sulle con-
dizioni future del nostro pianeta, eppure, ciò nonostante, a un
committente che chiede una torre, o una modesta casa in campagna,
non si propone una capanna senza essere liquidati in pochi
secondi.
Insomma, l’edificazione va regolamentata alla luce delle esigenze
dell’ambiente. Solo in questo modo sarà possibile progettare
secondo nuovi schemi cui tutti, architetti, committenti
1. Leonardo Caffo: filosofo e saggista siciliano. 2. Paolo Soleri:
architetto, scrittore e urbanista torine- se (1919-2013).
3. Manfredo Tafuri: storico dellarchitettura (1935-94).
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e fruitori, dovranno adeguarsi. Siamo quindi nel dominio della
politica, che, in democrazia, rap- presenta la volontà della
maggioranza: è questo il campo in cui si può pianificare,
attraverso le leggi, aree “protette”, lasciate al non-umano,
bandire alcune tipologie architettoniche, proibire materiali e
tecnologie, incentivarne altre, ridurre il costruito o sostituirlo
con villaggi di capan- ne. Questa, semplicemente, non è
giurisdizione dell’architetto.
L’architettura esiste solo quando c’è trasformazione di un
ambiente, ed è nel modo in cui ciò accade, cioè nel come l’ambiente
viene trasformato, che l’architetto può intervenire, sce- gliendo
che il suo manufatto sia di pietra, terra o cemento, che ospiti
alberi e altre specie (a patto che, con le leggi attuali, la
committenza accetti di perdere spazio) e da quali geometrie sia
modellato. Perché l’architettura è sublime inutilità, è spazio,
cioè linee, superfici, volumi: nient’altro.
Ciò non significa che gli architetti debbano restare a guardare
mentre si distrugge la Ter- ra. L’arte, nel suo piccolo, influenza
il mondo toccandone la coscienza (Argan), e anche l’architet- tura,
mera istanza di forma, in questo perimetro d’azione ha un potere e
una responsabilità: quella di esprimere l’identità dell’uomo, i
suoi desideri, i suoi intenti più profondi. E, se da un lato
esprime tutto questo, dall’altro può ispirare un’idea, può dar
corpo a un sogno. Nel nostro tempo, l’Antropocene4, l’architettura
può – deve – persino inventare e rappresentare uno scenario
diverso, di coesistenza e simbiosi con la biosfera, suggerendo una
strada nuova che, però, starà al mondo (e alla politica) ignorare o
intraprendere.
(M. Coppola, Il ruolo dell’architettura nell’Antropocene, «Domus»,
27 novembre 2018)
Comprensione e interpretazioneI
1 Spiega la funzione di ciascun capoverso nel confutare la tesi di
Caffo e corroborare quella dell’autore. Il primo, ad esempio,
espone la tesi da confutare.
2 Trovi che la scelta di spiegare il ruolo dell’architettura nella
chiusa del testo sia efficace? Motiva la tua risposta.
3 Perché l’autore, pur delineando un ruolo attivo e positivo per
l’architettura, parla di «sublime inutilità» (r. 47)?
4 In che senso un architetto può essere definito «retorico» in
relazione alle tematiche ambien- tali?
5 Quali sono i limiti del campo d’azione dell’architetto secondo
l’autore? In che modo, all’interno di questi limiti, l’architettura
può diventare un modello positivo?
6 Riassumi il testo in 200 parole.
CommentoI
7 Scrivi un testo argomentativo in cui sostieni o confuti la
posizione dell’autore stabilendo un confronto con almeno un caso in
cui – nel Novecento – l’arte e l’architettura abbiano avuto uno
stretto legame con ideali utopici.
4. Antropocene: il termine indica l’epoca geologica attuale, in cui
l’ambiente è fortemente influenzato e modifica- to dall’azione
dell’uomo.
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Ambito artisticoi Walter Benjamin L’opera d’arte nell’epoca della
sua riproducibilità tecnica Con la fotografia, nel processo della
riproduzione figurativa, la mano si vide per la prima volta
scaricata delle più importanti incombenze artistiche, che ormai
venivano ad essere di spettan- za dell’occhio che guardava dentro
l’obiettivo. Poiché l’occhio è più rapido ad afferrare che non la
mano a disegnare, il processo della riproduzione figurativa venne
accelerato al punto da es- sere in grado di star dietro
all’eloquio. L’operatore cinematografico nel suo studio, manovrando
la sua manovella, riesce a fissare le immagini alla stessa velocità
con cui l’interprete parla. Se nella litografia era virtualmente
contenuto il giornale illustrato, nella fotografia si nascondeva il
film sonoro. La riproduzione tecnica del suono venne affrontata
alla fine del secolo scorso. Questi sforzi convergenti hanno
prefigurato una situazione che Paul Valéry1 definisce con que- sta
frase: «Come l’acqua, il gas o la corrente elettrica entrano grazie
a uno sforzo quasi nullo, provenendo da lontano, nelle nostre
abitazioni per rispondere ai nostri bisogni, così saremo
approvvigionati di immagini e di sequenze di suoni, che si
manifestano a un piccolo gesto, quasi un segno, e poi subito ci
lasciano». Verso il 1900, la riproduzione tecnica aveva raggiunto
un livello che le permetteva non soltanto di prendere come oggetto
tutto l’insieme delle opere d’arte tramandate e di modificarne
profondamente gli effetti, ma anche di conquistarsi un po- sto
autonomo tra i vari procedimenti artistici. […]
Anche nel caso di una riproduzione altamente perfezionata, manca un
elemento: l’hic et nunc dell’opera d’arte – la sua esistenza unica
e irripetibile nel luogo in cui si trova. Ma proprio su questa
esistenza, e in null’altro, si è attuata la storia a cui essa è
stata sottoposta nel corso del suo durare. In quest’ambito
rientrano sia le modificazioni che essa ha subito nella sua strut-
tura fisica nel corso del tempo, sia i mutevoli rapporti di
proprietà in cui può essersi venuta a trovare. La traccia delle
prime può essere reperita soltanto attraverso analisi chimiche o
fisiche che non possono venir eseguite sulla riproduzione; quella
dei secondi è oggetto di una tradizio- ne la cui ricostruzione deve
procedere dalla sede dell’originale.
L’hic et nunc dell’originale costituisce il concetto della sua
autenticità. Analisi di genere chi- mico della patina di un bronzo
possono essere necessarie per la constatazione della sua auten-
ticità; corrispondentemente, la dimostrazione del fatto che un
certo codice medievale proviene da un archivio del secolo XV può
essere necessaria per stabilirne l’autenticità. L’intero ambito
dell’autenticità si sottrae alla riproducibilità tecnica – e
naturalmente non di quella tecnica soltanto. Ma mentre l’autentico
mantiene la sua piena autorità di fronte alla riproduzione ma-
nuale, che di regola viene da esso bollata come un falso, ciò non
accade nel caso della riprodu- zione tecnica. Essa può, per esempio
mediante la fotografia, rilevare aspetti dell’originale che sono
accessibili soltanto all’obiettivo, che è spostabile e in grado di
scegliere a piacimento il suo punto di vista, ma non all’occhio
umano, oppure, con l’aiuto di certi procedimenti, come
l’ingrandimento o la ripresa al rallentatore, può cogliere immagini
che si sottraggono intera- mente all’ottica naturale. È questo il
primo punto. Essa può inoltre introdurre la riproduzione
1. Paul Valéry: scrittore, poeta e filosofo francese
(1871-1945).
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dell’originale in situazioni che all’originale stesso non sono
accessibili. In particolare, gli per- mette di andare incontro al
fruitore, nella forma della fotografia oppure del disco. La
cattedrale abbandona la sua ubicazione per essere accolta nello
studio di un amatore d’arte; il coro che è stato eseguito in un
auditorio oppure all’aria aperta può venire ascoltato in una
camera.
Le circostanze in mezzo alle quali il prodotto della riproduzione
tecnica può venirsi a tro- vare possono lasciare intatta la
consistenza intrinseca dell’opera d’arte – ma in ogni modo de-
terminano la svalutazione del suo hic et nunc. Benché ciò non valga
soltanto per l’opera d’arte, ma anche, e allo stesso titolo, ad
esempio, per un paesaggio che in un film si dispiega di fronte allo
spettatore, questo processo investe, dell’oggetto artistico, un
ganglio che in nessun oggetto naturale è così vulnerabile. Cioè: la
sua autenticità. L’autenticità di una cosa è la quintessenza di
tutto ciò che, fin dall’origine di essa, può venir tramandato,
dalla sua durata materiale alla sua virtù di testimonianza storica.
Poiché quest’ultima è fondata sulla prima, nella riproduzio- ne, in
cui la prima è sottratta all’uomo, vacilla anche la seconda, la
virtù di testimonianza della cosa. Certo, soltanto questa; ma ciò
che così prende a vacillare è precisamente l’autorità della
cosa.
Ciò che vien meno è insomma quanto può essere riassunto con la
nozione di «aura»; e si può dire: ciò che vien meno nell’epoca
della riproducibilità tecnica è l’«aura» dell’opera d’arte. Il
processo è sintomatico; il suo significato rimanda al di là
dell’ambito artistico. La tecnica della riproduzione, così si
potrebbe formulare la cosa, sottrae il riprodotto all’ambito della
tradizio- ne. Moltiplicando la riproduzione, essa pone al posto di
un evento unico una serie quantitativa di eventi. E permettendo
alla riproduzione di venire incontro a colui che ne fruisce nella
sua particolare situazione, attualizza il riprodotto. Entrambi i
processi portano a un violento rivol- gimento che investe ciò che
viene tramandato – a un rivolgimento della tradizione, che è
l’altra faccia della crisi attuale e dell’attuale rinnovamento
dell’umanità. Essi sono strettamente lega- ti ai movimenti di massa
dei nostri giorni. Il loro agente più potente è il cinema.
(W. Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità
tecnica. Arte e società di massa, trad. it. di E. Filippini,
Einaudi, Torino 1998)
Comprensione e interpretazioneI
1 Descrivi la struttura argomentativa del testo e spiega
sinteticamente la tesi di Walter Benja- min.
2 Quali cambiamenti ha introdotto la fotografia nella fruizione
dell’opera d’arte? 3 Cosa intende Benjamin con «aura» (r. 52)? E
perché egli ritiene che venga messa in crisi dalla
fotografia e dal cinema? 4 Che ruolo ha secondo te la citazione di
Paul Valéry? 5 Ti sembra che Benjamin fornisca una valutazione dei
cambiamenti innescati dalla fotografia e
dal cinema oppure che ne analizzi gli effetti in modo distaccato?
Motiva la tua risposta basan- doti sul lessico e sulla struttura
logica del testo.
6 Riassumi il testo in 200 parole circa.
CommentoI
7 Ti sembra che l’«aura» dell’opera d’arte abbia subito un
ulteriore cambiamento nell’epoca di Internet? Esprimi la tua
posizione in un testo di tre colonne al massimo.
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Ambito letterarioi Italo Calvino Esattezza Cercherò prima di tutto
di definire il mio tema. Esattezza vuol dire per me soprattutto tre
cose:
1) un disegno dell’opera ben definito e ben calcolato; 2)
l’evocazione d’immagini visuali nitide, incisive, memorabili; in
italiano abbiamo un
aggettivo che non esiste in inglese, «icastico», dal greco
eikastikós; 3) un linguaggio il più preciso possibile come lessico
e come resa delle sfumature del pen-
siero e dell’immaginazione. Perché sento il bisogno di difendere
dei valori che a molti potranno sembrare ovvi? Credo
che la mia prima spinta venga da una mia ipersensibilità o
allergia: mi sembra che il linguag- gio venga sempre usato in modo
approssimativo, casuale, sbadato, e ne provo un fastidio intol-
lerabile. Non si creda che questa mia reazione corrisponda a
un’intolleranza per il prossimo: il fastidio peggiore lo provo
sentendo parlare me stesso. Per questo cerco di parlare il meno
pos- sibile, e se preferisco scrivere è perché scrivendo posso
correggere ogni frase tante volte quanto è necessario per arrivare
non dico a essere soddisfatto delle mie parole, ma almeno a
eliminare le ragioni d’insoddisfazione di cui posso rendermi conto.
La letteratura – dico la letteratura che risponde a queste esigenze
– è la Terra Promessa in cui il linguaggio diventa quello che vera-
mente dovrebbe essere.
Alle volte mi sembra che un’epidemia pestilenziale abbia colpito
l’umanità nella facoltà che più la caratterizza, cioè l’uso della
parola, una peste del linguaggio che si manifesta come perdita di
forza conoscitiva e di immediatezza, come automatismo che tende a
livellare l’e- spressione sulle formule più generiche, anonime,
astratte, a diluire i significati, a smussare le punte espressive,
a spegnere ogni scintilla che sprizzi dallo scontro delle parole
con nuove circostanze. Non m’interessa qui chiedermi se le origini
di quest’epidemia siano da ricercare nella politica,
nell’ideologia, nell’uniformità burocratica, nell’omogeneizzazione
dei mass-me- dia, nella diffusione scolastica della media cultura.
Quel che mi interessa sono le possibilità di salute. La letteratura
(e forse solo la letteratura) può creare degli anticorpi che
contrastino l’espandersi della peste del linguaggio.
Vorrei aggiungere che non è soltanto il linguaggio che mi sembra
colpito da questa peste. Anche le immagini, per esempio.
Viviamo sotto una pioggia ininterrotta d’immagini; i più potenti
media non fanno che trasformare il mondo in immagini e
moltiplicarlo attraverso una fantasmagoria di giochi di specchi:
immagini che in gran parte sono prive della necessità interna che
dovrebbe caratte- rizzare ogni immagine, come forma e come
significato, come forza di imporsi all’attenzione, come ricchezza
di significati possibili. Gran parte di questa nuvola d’immagini si
dissolve im- mediatamente come i sogni che non lasciano traccia
nella memoria; ma non si dissolve una sensazione d’estraneità e di
disagio.
Ma forse l’inconsistenza non è nelle immagini o nel linguaggio
soltanto: è nel mondo. La peste colpisce anche la vita delle
persone e la storia delle nazioni, rende tutte le storie informi,
casuali, confuse, senza principio né fine. Il mio disagio è per la
perdita di forma che constato nella vita, e a cui cerco d’opporre
l’unica difesa che riesco a concepire: un’idea della
letteratura.
(I. Calvino, Lezioni americane. Sei proposte per il prossimo
millennio, Garzanti, Milano 1988)
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Comprensione e interpretazioneI
1 Analizza e illustra gli snodi argomentativi del testo di Calvino.
2 Spiega l’affermazione «La letteratura – dico la letteratura che
risponde a queste esigenze – è la
Terra Promessa in cui il linguaggio diventa quello che veramente
dovrebbe essere» (rr. 14-16). 3 Spiega l’affermazione «Ma forse
l’inconsistenza non è nelle immagini o nel linguaggio
soltanto:
è nel mondo» (r. 36). 4 Valuta le scelte espressive operate
dall’autore, soffermandoti sul ricorso al linguaggio meta-
forico e ai campi semantici oppositivi ricorrenti (campo semantico
oppositivo: un insieme di parole che rinviano a un’opposizione di
significato, ad esempio: «alto-basso», «caldo-freddo»,
«giusto-sbagliato» ecc).
5 Riassumi il testo in 8 righe.
Commentoi
6 Considera il messaggio di Italo Calvino in relazione alla
situazione odierna. Ti sembra mostrare ancora spunti di attualità?
Argomenta la tua posizione in un commento di almeno tre colonne di
foglio protocollo, da cui si evinca la tua tesi corredata da esempi
tratti dalla realtà contem- poranea e dal mondo dei media.
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Ambito letterarioi Tullio De Mauro Scuola e linguaggio Se noi
sottolineiamo il fatto che al momento della unificazione politica
soltanto lo 0,8% della popolazione italiana conosceva l’italiano,
non è per dire che i dialetti erano zizzania1, erano malerba, ma
per fare tutt’altro discorso. Che cosa era male? Era male l’uso
obbligatorio ed esclu- sivo del dialetto. Dov’era il drammatico?
Non nella capacità del calabrese o del piemontese di parlare
piemontese, ma nel fatto che il parlare calabrese per il calabrese
e piemontese per il pie- montese era una specie di steccato e di
ghetto. Il male era nel fatto che il calabrese non sapeva parlare
altro che calabrese e il piemontese non sapeva parlare nient’altro
che il piemontese. […] Quella che poteva essere (ed è, come
vedremo) una ricchezza di mezzi espressivi (il possesso di questo
idioma familiare e locale) diventava una pesante palla al piede,
una gabbia.
La situazione era da questo punto di vista drammatica, perché, al
di fuori del nucleo to- scano di circa mezzo milione di persone e
al di fuori di un piccolo nucleo romano di circa settantamila
persone, per il resto, su una popolazione di circa 20 milioni di
abitanti quelli che parlavano italiano erano circa 160 000 o,
meglio, quelli che avrebbero potuto parlare italiano erano 160 000.
Perché, ovviamente, voi capite che Alessandro Manzoni, uscendo di
casa a Mi- lano, non aveva senso che abbordasse in italiano la
persona che incontrava, perché al 99% non sarebbe stato
capito.
Dimodoché, come Manzoni stesso ci racconta, parlava dialetto lui,
il più grande prosa- tore italiano, abitualmente; e lui stesso
scriveva al ministro Broglio (ministro della pubblica istruzione
dal nome singolare, quasi profetico, diciamo) che l’italiano, nel
1868, era ancora una «lingua morta». […]
Se voi andate a vedere i momenti di sviluppo del processo di
acquisizione dell’istruzione da parte delle classi popolari, vi
accorgerete che la spinta di questo processo non è in una de-
cisione delle classi dirigenti, ma è largamente nelle spinte e
nelle necessità maturate in quelle che la «Civiltà cattolica»2
chiamava «classi infime». Perché diciamo questo? Perché sulla carta
l’obbligo dell’istruzione in Italia esisteva dal 18593, ma è
rimasto inoperante finché non è stato conquistato e realizzato
dalle classi popolari, anzitutto con la grande emigrazione4. […] Se
voi andate a guardare statisticamente come vanno le cose, vedrete
che nelle zone di maggiore emi- grazione si verificano i più alti
incrementi di frequenza contadina e operaia nelle scuole. […]
Altri momenti di questo lungo processo di conquista della capacità
di usare la lingua ita- liana sono le massicce migrazioni interne
che hanno sconvolto completamente la demografia del Sud, del Centro
e del Nord dell’Italia, o la diffusione dell’ascolto televisivo, a
partire dal ’53, che, come risulta dai dati, ha inciso più della
scuola. Vale a dire: se uno ha fatto cinque anni di scuola
elementare e non ascolta mai la televisione e uno ascolta
abitualmente la televisione e
1. zizzania: il senso letterale, su cui De Mauro voluta- mente
gioca, indica il nome di un’erba infestante e, per- tanto,
considerata nociva per le piantagioni. 2. «Civiltà cattolica»:
rivista dei Gesuiti, schierata dopo l’Unità d’Italia su posizioni
reazionarie e contrarie all’e- stensione dell’obbligo
dell’istruzione elementare.
3. dal 1859: si riferisce alla legge Casati, varata nel Re- gno di
Sardegna e poi estesa al neonato Regno d’Italia; rendeva
obbligatorio il primo biennio della scuola ele- mentare. 4. grande
emigrazione: allusione ai fenomeni migra- tori degli italiani
all’estero (America del Sud e del Nord) tra il 1880 e il
1914.
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non ha fatto la scuola elementare, capisce e parla meglio
l’italiano chi ascolta abitualmente la televisione e non ha fatto
la scuola elementare, specie in area meridionale.
C’è dunque un influsso positivo che viene anche dalla
«malfamatissima» televisione italiana; ma ciò si spiega per il
fatto che in Italia la scuola funziona così male che persino Caro-
sello5 riesce ad avere una funzione utile.
Terzo fatto importante è la diffusione dell’obbligo scolastico che
ha portato agli inizi degli anni Sessanta il limite dell’obbligo
dalla quinta elementare alla terza media, che ha determina- to una
enorme crescita della scolarità, soprattutto giovanile. […]
In questa situazione, voi capite che le cose, dal punto di vista
della lingua, si sono profon- damente modificate. Sapete che i
dialetti si sono modificati, assorbendo parole ed espressioni
italiane, addolcendo la loro fisionomia aspramente autonoma, e che
è cresciuto enormemen- te il numero delle persone che parlano
abitualmente l’italiano. Attualmente6 una valutazione globale è
difficile; probabilmente siamo sul 50% della popolazione: cioè
entrando in un negozio un italiano su due parla abitualmente in
italiano, ma un italiano su due parla abitualmente in
dialetto.
Ci troviamo dunque di fronte ad una situazione cambiata, ma,
purtroppo, ancora piena di dislivelli drammatici; e di questa
stratificazione sociale, che ancora esiste, dobbiamo renderci conto
per capire quello che la scuola può e deve fare. Si tratta di
dislivelli, anzitutto tra regioni della penisola, nel possesso di
beni e nella capacità di accesso alle istituzioni culturali di
base.
(T. De Mauro, Scuola e linguaggio, Editori Riuniti, Roma
1981)
Comprensione e interpretazioneI
1 Riassumi brevemente il contenuto del testo. 2 Analizza i
connettivi logici (congiunzioni) e semantici (espressioni e frasi
di raccordo, di ordine
ecc.) più utili a ricostruire la progressione delle idee nel testo.
3 Individua la tesi. 4 Nel passo l’autore fa rapidi cenni alle
cause dell’estensione dell’italiano: ripercorri questi cenni
esplicitando quanto in essi resti eventualmente implicito. 5
Analizza il rapporto tra dialetti e lingua nazionale proposto da
Tullio De Mauro nel testo. 6 Soffermati sul nesso che, secondo De
Mauro, lega l’acquisizione progressiva dell’italiano da
parte della popolazione e la democrazia.
CommentoI
7 Il testo corrisponde a una conferenza tenuta dal linguista Tullio
De Mauro nel 1974. Rifletti sull’attualità delle sue tesi e
argomenta la tua posizione in un commento basato su un’analisi
della “salute” della lingua italiana nella società
contemporanea.
5. Carosello: programma televisivo che, tra il 1957 e il 1977,
andava in onda tutti i giorni dalle 20:50 alle 21:00. Trasmetteva
filmati come sketch comici di teatro legge-
ro e intermezzi musicali. 6. Attualmente: il dato che segue si
riferisce al 1974, anno della conferenza da cui è tratto il passo
proposto.
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Ambito letterarioi Umberto Eco Non fate il funerale ai libri
È sperabile che, quando questa Bustina1 uscirà, la buriana si sia
calmata, ma mentre scrivo la mia estate è ossessionata da intere
pagine culturali dei quotidiani i quali discutono se eventuali
contratti degli autori per mettere le loro opere sui vari Kindle o
iPad non preludano alla definitiva scomparsa del libro e delle
librerie. Un quotidiano ha persino messo in bella evidenza una foto
dei bouquinistes del Lungosenna dicendo che questi venditori di
libri (vecchi) sono quindi destinati a sparire, senza considerare
che, se davvero non si stampassero più libri, fiorirebbe proprio un
ghiotto mercato librario vintage e le bancarelle, unico posto dove
si potreb- bero trovare i libri di una volta, vivrebbero di nuova
vita.
In realtà la domanda se siamo arrivati al tramonto del libro è
iniziata con l’avvento del personal computer (e fanno ormai
trent’anni), tanto che alla fine Jean-Claude Carrière2 e io ci
siamo stancati di rispondervi e abbiamo pubblicato una lunga
conversazione intitolata provo- catoriamente «Non sperate di
liberarvi dei libri».
Sostenere un lungo avvenire per il libro non significa negare che
certi testi di consulta- zione siano più comodi da trasportare su
una tavoletta, che un presbite possa leggere meglio un giornale su
un supporto elettronico dove può amplificare il corpo tipografico a
piacere, che i nostri ragazzi possano evitare di inrachitirsi
portando chili di carta nello zainetto. E neppure si vuole
sostenere a ogni costo che per leggere Guerra e pace sotto
l’ombrellone sia più comoda la forma-libro; io ne sono convinto, ma
i gusti sono gusti, e auguro solo a chi ha gusti diversi di non
incappare in una giornata di blackout. Ma la vera ragione per cui i
libri avranno lunga vita è che abbiamo la prova che sopravvivono in
ottima salute libri stampati più di cinquecen- to anni fa, e
pergamene di duemila anni, mentre non abbiamo alcuna prova della
durata di un supporto elettronico. Nel giro di trent’anni il disco
floppy è stato sostituito dal dischetto rigido, questo dal dvd, il
dvd dalla chiavetta, nessun computer è più in grado di leggere un
floppy degli anni Ottanta e quindi non sappiamo se quanto c’era
sopra sarebbe durato non dico mille anni ma almeno dieci. Quindi,
meglio conservare la nostra memoria su carta.
Inoltre c’è una bella differenza tra toccare e sfogliare un libro
fresco e odoroso di stampa e tenere in mano una chiavetta. Oppure
tra ricuperare in cantina un testo di tanti anni fa che reca le
nostre sottolineature e le nostre note a margine, facendoci
rivivere antiche emozioni, e rileggere la stessa opera, in Times
New Roman corpo 12, sullo schermo del computer. E anche ammesso che
chi prova piaceri del genere sia una minoranza, su sei miliardi di
abitanti del pianeta (ma saranno otto entro quindici anni), ci
saranno abbastanza appassionati da sostenere un fiorente mercato
del libro. E se poi usciranno dalle librerie e vivranno solo su
Kindle o iPad i libri usa e getta, i best seller da leggere in
treno, gli orari ferroviari o le raccolte di barzellette su Totti o
sui carabinieri, tanto meglio, tutta carta risparmiata.
Anni fa deprecavo che nelle vecchie e ombrose librerie di un tempo
chi vi entrava per cu- riosità fosse affrontato da un signore
severo che domandava che cosa cercasse, e il malcapitato,
1. Bustina: «La bustina di Minerva» è una rubrica che Umberto Eco
tenne ogni settimana sull’ultima pagina dell’«Espresso» a partire
dal marzo del 1985.
2. Jean-Claude Carrière: scrittore e regista teatrale
surrealista.
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intimidito, usciva subito. E giustamente trovavo più incoraggianti
le nuove librerie-cattedrale dove si può stare seduti o
accovacciati per ore a scoprire e sfogliare di tutto. Ora però, se
le tavo- lette elettroniche assorbiranno tutto il mercato dei libri
usa e getta, potrebbero ritornare buone le librerie dei tempi
andati, dove gli affezionati andranno a cercare i libri che non si
gettano. E poi, ricordo che anche in quelle librerie un ragazzo che
faceva amicizia col libraio poteva lo stesso sostare per ore a
curiosare tra gli scaffali.
Infine ricordiamo che mai, nel corso dei secoli, un nuovo mezzo ha
sostituito totalmente il precedente. Neppure il maglio ha
sostituito il martello. La fotografia non ha condannato a morte la
pittura (se mai ha scoraggiato il ritratto, il paesaggio e
incoraggiato l’arte astratta), il cinema non ha ucciso la
fotografia, la televisione non ha eliminato il cinema, il treno
convive benissimo con auto ed aereo.
Dunque avremo una diarchia tra lettura su schermo e lettura su
carta, e in ogni caso au- menterà in modo astronomico il numero
delle persone che impareranno a leggere – visto che persino gli sms
sono potenti strumenti di alfabetizzazione dei ripetenti. E, se
aumenterà l’anal- fabetismo di ritorno nella vecchia Europa
decadente e malthusiana3, avremo miliardi di nuovi lettori in Asia
e in Africa. E, per chi leggerà a cavalcioni del ramo di un albero
nella foresta subtropicale, andrà sempre meglio un libro di carta
che uno elettronico.
(U. Eco, Non fate il funerale ai libri, «L’Espresso», 5 agosto
2010)
Comprensione e interpretazioneI
1 Qual è la tesi sostenuta da Eco? Quali frasi, nella vasta serie
di esempi e riflessioni, consentono di metterla a fuoco?
2 Quali posizioni estreme intende confutare Eco? 3 Pur nel tono
leggero e ironico del testo, si colgono connettivi e scelte
espressive proprie del
testo argomentativo. Rintracciali. 4 Riassumi il testo in 10
righe.
CommentoI
5 Argomenta le tue posizioni adottando uno stile agile e
utilizzando, come avviene nel testo di Umberto Eco, la tecnica
della confutazione. Se la tua posizione ricalca quella espressa da
Eco, dovrai utilizzare esempi e riferimenti diversi da quelli
presenti nel testo.
3. malthusiana: il malthusianesimo è una dottrina economica che si
rifà alle idee delleconomista inglese Thomas Malthus (1766-1834),
secondo le quali cè una forte relazione tra crescita demografica e
diffusione della povertà.
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Ambito letterarioi Benedetta Craveri Marc Fumaroli: «Un’Europa
fondata sulla cultura» A partire dall’età dell’Umanesimo fino alla
fine dell’Antico Regime, nell’Europa insanguinata dalle ambizioni
dinastiche, dalle guerre di religione e dalle rivalità tra le
grandi potenze, lette- rati – oggi diremmo intellettuali – di
nazionalità e di fedi diverse non smisero mai di dialogare tra di
loro in piena libertà di pensiero, uniti nella ricerca comune del
bello, del buono e del vero. Una società nella società, per la
quale il veneziano Francesco Barbaro coniò, nel 1417, il nome di
Respublica litteraria.
Essa si servì come lingua di comunicazione internazionale del
latino, e per quanto invi- sibile, fu di grande importanza per la
storia della cultura europea. A questa esperienza Marc Fumaroli1
dedica La République des Lettres (Gallimard), una raccolta di saggi
che testimoniano di una lunga, dotta e appassionata
frequentazione.
Quando è iniziato il suo interesse per la Repubblica delle lettere?
«Quando ho letto l’epistolario di Petrarca e ho capito che mi
trovavo davanti all’invenzione di una forma di relazione del tutto
nuova, che connoterà la corrispondenza di Erasmo come quella di
Voltaire. Nelle sue lettere Petrarca forniva agli uomini di alta
cultura l’esempio di una solida- rietà amichevole, di una
socievolezza all’insegna della delicatezza e della fiducia, capace
di tra- scendere le tensioni polemiche e i conflitti passionali in
nome di un livello di civiltà superiore. Una forma di saper vivere
che darà luogo a quello che chiamiamo civiltà europea».
A quando risale questa lettura? «Agli anni della mia formazione. È
stato il Petrarca filologo, innamorato dei testi antichi, a far- mi
capire come l’educazione umanista abbia il vantaggio di introdurci
in un universo del tutto diverso da quello in cui viviamo. È questa
distanza fra il mondo dei libri e il mondo reale che permette di
acquisire un atteggiamento critico e che consente di vivere su due
diversi registri, di giudicare l’uno attraverso l’altro, di non
limitarsi a quello dell’attualità». […]
Non sempre, però, le relazioni tra membri della Repubblica delle
lettere erano così ecu- meniche e amichevoli. Basta pensare alla
guerra fra Poggio Bracciolini e Lorenzo Valla a proposito del De
rerum natura di Lucrezio. «Ma anche le liti più aspre si svolgevano
in un’atmosfera che era di considerazione reciproca. Quando Bayle
affermava che “la Repubblica delle lettere era una guerra
permanente, dove il padre non esitava a condannare il figlio”,
intendeva dire che l’onestà intellettuale imponeva tanto
l’autocritica che la critica, a garanzia contro i ciarlatani e le
idee false».
1. Marc Fumaroli: Fumaroli, che qui rilascia un’intervista al
quotidiano «la Repubblica», è uno storico e saggista francese,
membro dell’Académie Française dal 1995. È noto in particolare per
aver ripreso gli studi sulla retorica nel mondo
universitario francese.
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Nell’Età dell’eloquenza lei rinnova gli studi di retorica e ne
riafferma l’importanza. Perché, come sosteneva anche Ezio Raimondi,
è essenziale per lo studio delle lettere? «La retorica è una
griglia interpretativa ma, in primo luogo, è un’educazione delle
forme. Essa insegna a non considerare la parola come l’espressione
egoista del proprio io ma come il desi- derio di rivolgersi
all’altro. Non è un sistema di dogmi, è il risultato di
un’esperienza profonda del linguaggio, è il ricorso a una
tradizione, a dei modelli che ci permettono di adattare il nostro
discorso alle circostanze. E con essa le relazioni sociali sono più
feconde. La retorica è una vit- toria sulla violenza».
Se la retorica è l’arte di adattarsi al pubblico cui ci si rivolge,
essa non risponde anche agli obiettivi della produzione culturale
contemporanea? «La retorica non si riduce a un adattamento servile
della parola all’opinione pubblica e al po- litically correct
anonimo. Se così fosse il suo ideale sarebbe la pubblicità di massa
o, peggio, la propaganda populista. Essa ha imparato da Socrate che
per persuadere bisogna screditare gli errori correnti. La
letteratura e la poesia attuali, quando sfuggono alla tirannide
della pubblicità commerciale e ideologica, si rivolgono a individui
che cercano di sottrarsi al condizionamento sociale, e non già alla
folla che chiede di essere condizionata».
Lei dichiara di vivere in due temperie culturali diverse. Ma quando
smette di colloquiare con gli autori del passato e si confronta con
il mondo contemporaneo, il suo approccio è fortemente polemico.
«Quello che mi ha consentito di passare dalla dimensione di
studioso del passato a quella dell’attualità è innanzitutto il
problema dell’educazione dei giovani. Un problema fondamen- tale,
che è al cuore della tradizione classica e umanistica, e di cui
abbiamo sottovalutato troppo l’importanza. Oggi, in Francia come in
Italia, l’educazione si pone come obiettivo di acclimata- re i
giovani al mondo in cui sono nati, là dove sarebbe necessario
insegnare loro il contrario di quanto si vede dalla mattina alla
sera sui loro schermi. Il che non significa un rifiuto del mondo
attuale, ma l’invito a guardarlo in una prospettiva critica».
Cosa pensa delle discussioni seguite alla tragedia di Charlie
Hebdo2 su libertà d’espressio- ne e diritto o meno alla blasfemia?
«La libertà d’espressione è una delle grandi conquiste moderne
della civiltà europea, perseguita fin dall’inizio dalla Repubblica
delle lettere. Ma la libertà d’espressione non può voler dire una
li- bertà “espressionista”, senza legge, senza regola, senza tatto.
La libertà d’espressione, come la liber- tà tout court, implica
padronanza di sé e considerazione per l’altro. Anche la satira ha i
suoi limiti. E la blasfemia non è il metodo più sottile ed efficace
per rendere odiosi il fanatismo e la barbarie».
(B. Craveri, Marc Fumaroli: «Un’Europa fondata sulla cultura», «la
Repubblica», 21 marzo 2015)
2. tragedia di Charlie Hebdo: Charlie Hebdo è un periodico
settimanale satirico francese; il 7 gennaio 2015 nella sua sede
furono uccise, in un attentato di matrice islamica, dodici persone,
tra le quali il direttore, a seguito della pubblicazione di
vignette irriverenti nei confronti dell’Islam.
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Comprensione e interpretazionei
1 Ricava dalle risposte di Marc Fumaroli una sintesi dei temi
affrontati, la sua tesi e le relative sottotesi.
2 Rielaborando le parole dello studioso, spiega che cosa intende
per «Repubblica delle lettere» e perché la considera un valore
ancora attuale.
3 In alcuni punti dell’articolo l’intervistatrice avanza delle
possibili obiezioni a quanto sostenuto da Marc Fumaroli. Individua
i passaggi precisi e la sostanza delle obiezioni mosse, quindi
ricava dalle risposte le contro-obiezioni dello studioso.
4 Spiega e commenta l’affermazione «La retorica è una vittoria
sulla violenza» (rr. 37-38). 5 Individua la relazione logica che
lega l’ultima domanda al resto dell’intervista.
CommentoI
6 L’intervista affronta il tema dell’educazione, che si ritiene
finalizzata non ad aiutare i giovani ad “acclimatarsi” nella
situazione attuale, bensì a formare la loro capacità di guardare il
mondo secondo una prospettiva critica. Sei d’accordo con questa
tesi? Ritieni che scuola e istruzione davvero offrano strumenti per
assumere uno spirito critico? Argomenta la tua posizione dopo avere
commentato le affermazioni di Marc Fumaroli.
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Ambito letterarioi Ezio Raimondi L’estetismo di d’Annunzio e la
volgarità del mondo moderno La volgarità del mondo moderno fa
sempre da retroscena o da cornice all’estetismo dannun- ziano, e ne
rappresenta alla fine il polo negativo, il contrappunto dialettico.
Viene alla memoria l’esordio del Piacere, dove si spiega, con una
correlazione quanto mai sintomatica e scoperta- mente ideologica,
che «sotto il grigio diluvio democratico odierno, che molte belle
cose e rare sommerge miseramente, va anche poco a poco scomparendo
quella special classe di antica no- biltà italica, in cui era tanto
viva di generazione in generazione una certa tradizione familiare
d’alta cultura, d’eleganza e di arte» […].
Mentre scorge nel realismo della grande città contemporanea la
morte dell’arte e intrave- de il difficile rapporto tra letteratura
e incipiente società di massa, il d’Annunzio avverte anche però,
all’interno del mondo borghese, un’inquietudine diffusa,
un’esigenza di sottrarsi all’ordi- ne della razionalità quotidiana,
di cui non possono più essere interpreti a suo avviso, dopo il fal-
limento di uno Zola, né i discepoli del pessimismo di Schopenhauer
né gli scrittori della morale evangelica slava e a cui può dare
invece una risposta la «grande orchestra wagneriana», poiché
«soltanto alla musica è dato esprimere i sogni che nascono nella
profondità della malinconia moderna». Queste ultime parole si
leggono nella «Tribuna»1 del 1893 e hanno un’importanza che non è
certo sfuggita ai critici: ma per intenderle sino in fondo,
conviene forse collegarle a quanto il d’Annunzio sosterrà, due anni
dopo, nell’intervista con l’Ojetti2, rifacendosi appunto alle idee
degli articoli su Zola, Wagner e Nietzsche, ma in un contesto più
ricco e con l’occhio rivolto al destino della letteratura nel mondo
moderno. A differenza di coloro che temono, con la fine del secolo,
il naufragio di tutte le cose belle e di tutte le idealità,
l’intervistato dichiara tra l’altro che il mercato editoriale, dove
«migliaia e migliaia di volumi si propagano come fo- glie d’una
foresta battute da un vento d’autunno» e dove i giornali, anziché
uccidere il libro, lo rilanciano tra un pubblico più largo,
dimostra la vitalità dell’opera letteraria meglio di qualsiasi
ragionamento: ed è una vitalità, poi, che dipende proprio dalle
nuove strutture della società capitalistica e dall’appetito
sentimentale della «moltitudine», la quale ha bisogno di una proie-
zione al di fuori della vita borghese d’ogni giorno. […]
Al d’Annunzio dunque non sfugge il bovarismo che fermenta nel cuore
delle masse mo- derne, e anche se egli considera la letteratura di
consumo, che vi corrisponde, come un prodotto di corruzione
rispetto a un’arte illustre, è chiaro però che il fenomeno ha per
lui un significato decisivo, in quanto indica una direzione lungo
la quale deve muoversi lo scrittore in armonia con lo spirito del
proprio tempo […] alla ricerca di una rispondenza tutt’altro che
occasionale tra la letteratura e il pubblico mediante un rapporto
che è insieme una legge di mercato. Il co- siddetto istinto
dannunziano appare anche, in fondo, il frutto di un calcolo, di
un’intelligenza che anticipa e asseconda con le proprie invenzioni
le inquietudini, i furori nascosti di una so- cietà in equilibrio
precario. […] L’idea della bellezza che chiude il dialogo con
l’Ojetti, e che poi
1. «Tribuna»: giornale quotidiano fondato a Roma nel 1883.
2. Ojetti: Ugo Ojetti (1871-1946), giornalista e scrittore
italiano.
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si ritrova, a tacere del resto, in tutti i romanzi, comporta una
protesta informe contro il mondo borghese delle cose grigie,
disumane, disperse, e con la promessa di “continuare” la natura in
un ciclo infinito di esaltanti epifanie esige un’identificazione di
arte e vita, che alla lunga si traduce, per la letteratura, nella
necessità di trascendere di continuo se stessa, di farsi gesto,
evento mitico d’una esistenza totale.
Assunta così quale principio unico di verità, la religione della
bellezza diventa però nello stesso tempo un mezzo per blandire il
pubblico nel suo amore dell’irrazionale e per suggerirgli una
nostalgia anarchica, i cui contenuti prendono quasi il valore di
ambigue formule magiche.
(E. Raimondi, Volgarità e importanza del pubblico moderno secondo
d’Annunzio, da Una vita come opera d’arte, in I sentieri del
lettore, il Mulino, Bologna 1994, vol. III)
Comprensione e interpretazionei
1 Ricava da ciascun capoverso la frase tematica (o le frasi
tematiche) che ne condensa il senso. 2 Rileggi il secondo capoverso
e analizza i connettivi che meglio consentono di comprendere
la
progressione delle idee, individuando anche il tipo di rapporto
logico che istituiscono tra un passaggio e l’altro (causa-effetto,
correlazione, opposizione, parallelismo ecc.).
3 Riassumi l’ambiguo rapporto che, secondo Raimondi, d’Annunzio
instaura con il pubblico delle sue opere letterarie.
4 Come valuta d’Annunzio la «vitalità del mercato editoriale» dei
suoi tempi? Come si può con- ciliare questo suo giudizio con il
disprezzo verso l’arte di consumo?
5 Raimondi, per definire l’atteggiamento del pubblico moderno,
parla di «bovarismo» (r. 27). Dai una definizione precisa del
termine e spiega in che senso può essere usato per indicare le
aspettative delle masse di lettori del tempo.
6 In che senso d’Annunzio può affermare che la grande diffusione
dei giornali ai suoi tempi non è in concorrenza con il libro, ma al
contrario ne può supportare e rilanciare la diffusione?
Commentoi
7 Esponi sinteticamente la tesi esposta nel testo. Commenta, alla
luce di questo giudizio, la novità introdotta da d’Annunzio nel
rapporto con il pubblico e rifletti su altri casi letterari, au-
tori e generi a te noti, il cui successo sia dovuto a un approccio
simile. Esprimi quindi una tua opinione sull’idea che la
letteratura, o l’arte in genere, debba corrispondere in primo luogo
al gusto del pubblico.
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Ambito letterario – Testi a confrontoi Testo 1 Gian Biagio Conte
Radici classiche ed Europa moderna L’Europa è la sua storia. E
questa sua storia è in gran parte storia delle idee filosofiche
dell’Oc- cidente: non la storia di un’unica idea che permette una
sola tradizione, ma la storia di una tradizione che permette le
idee più diverse. Non è la storia di una prigione mentale, è
piuttosto la storia – talvolta dolorosa, talvolta impazzita – della
provincia del mondo che ha conosciuto la fioritura più varia e
ricca di idee (buone e cattive), spesso in contrasto tra
loro.
Nella fase di globalizzazione, quale è quella verso cui siamo
inevitabilmente sospinti, ri- cercare l’identità è opportuno; anzi
è necessario, altrimenti questa si perde; ma perderla signi-
ficherebbe un indebolimento dei rapporti con le altre culture. Non
avremmo niente da portare agli altri. Ma il nostro Umanesimo
occidentale deve anche modulare un modo diverso per ri- entrare in
possesso della tradizione classica. Non ci basta più un modello di
classico assoluta- mente universale, ove la cultura europea si
esima dal confronto con le altre culture: dobbiamo prepararci ad
una «cena collaticia», ad un éranos greco, quel tipo di banchetto
in cui ciascuno porta la sua quota per allestire la cena comune.
Proprio perché si abbia qualcosa da offrire, bi- sogna – da un lato
– non perdere le proprie radici – dall’altro – non abbarbicarsi
immobilmente ad esse.
Nel panorama della mondializzazione e del multiculturalismo,
termini di cui tanto si fa abuso, esiste una sorta di strabismo da
evitare. Con un occhio si guarda a una cultura planetaria che
risulterebbe, alla maniera dell’esperanto, dalla convergenza e
fusione delle varie culture; con l’altro si percepisce che le
culture politicamente ed economicamente più deboli si chiu- dono a
riccio su se stesse applicando il cosiddetto fondamentalismo (e si
sa che i fondamen- talismi sono soprattutto paura di uno
sradicamento). Raddrizzare gli occhi, guardando avanti, significa
essere consapevoli che i processi storici possono condurre al di là
di una semplice convergenza: possono produrre cioè una polifonia.
Dal che risulta sbagliato tanto proporre la propria cultura come un
superclassico per l’intera umanità, quanto abbandonarla in cerca di
mediazioni superficiali. Per l’Occidente non perdere una delle sue
tre radici – Atene, Roma, Gerusalemme – significa anche portare una
maggiore ricchezza nell’incontro-scontro con le altre culture
mondiali. […] Se non rinfreschiamo i nostri pensieri l’identità
scompare, lavata via. Noi permaniamo soltanto trasformandoci, e
l’identità non è qualcosa di dato, insomma, ma di ininterrottamente
costruito. La staticità non esiste nella storia. Se applichiamo con
libertà questo modello alla cultura umana, l’identità
dell’Occidente, già composta di tanti fili intrec- ciati (già
plurima, già plurale), si conferma soltanto rinnovandosi. Nella
nostra futura ma pre- vedibile prospettiva, le grandi culture,
rimaste a lungo isolate o più recentemente conosciute solo da
grandi specialisti, sono destinate a incontrarsi nelle esperienze
di centinaia di migliaia di uomini (milioni di Musulmani in Europa,
di Latinos negli Stati Uniti, di Indiani in Sud Africa ecc.).
Questo dovrà trasformare anche la nostra immagine dell’antichità
nel senso che le radici dell’Umanesimo greco-latino vanno ripensate
in confronto con le radici delle altre civiltà. Il confronto ora
diventa macroscopico ed anche le competenze di frontiera vanno
inventate.
(G. B. Conte, Identità storica e confronto culturale: dieci punti
sulla tradizione umanistica europea, Utet, Torino 2006)
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Testo 2 Maurizio Bettini Contro la relazione radici-identità
L’associazione fra tradizione e identità ricorre sempre più
frequentemente nel nostro dibattito culturale, quasi che l’identità
collettiva – l’identità di un certo gruppo – dovesse essere conce-
pita come qualcosa che deriva direttamente e unicamente dalla
tradizione. Una delle afferma- zioni oggi più circolanti [...] è
proprio la seguente: «l’identità si fonda sulla tradizione». Basta
rammentare gli anatemi che negli scorsi anni sono stati lanciati,
anche in Italia, contro l’im- migrazione, in particolare islamica,
e i mutamenti culturali che da essa sarebbero provocati. [...] A
giudizio di chi la pensa in questo modo, accettare la crescita
delle comunità islamiche nel nostro Paese significherebbe
automaticamente mettere a repentaglio la nostra identità di
italiani, di europei o di occidentali, a seconda delle circostanze.
Queste persone sembrano dare insomma per scontato il fatto che
l’identità sia un prodotto della tradizione, delegando con questo
al passato [...] il potere di dirci «chi siamo» nel presente.
L’esempio forse più esplicito di questo atteggiamento ci viene da
un discorso che Marcello Pera, allora Presidente del Senato,
pronunciò alcuni anni fa [...]: «I fondamenti morali li offrono le
tradizioni. La nostra storia è giudaico-cristiana e greco-romana.
Scendiamo da tre colline, il Sinai, il Golgota, l’Acropoli. E
abbiamo tre capitali: Gerusalemme, Atene, Roma. Questa è la no-
stra tradizione. Da qui sono nati i nostri valori [...]».
La posizione è chiara: l’identità viene dalle tradizioni
(giudaico-cristiana e greco-romana) e risiede in specifici luoghi
mitologizzati, veri e propri monumenti della memoria culturale
quali il Sinai, l’Acropoli e il Golgota, ovvero Gerusalemme, Atene
e Roma. Il rapporto causa/effetto che viene stabilito fra
tradizione e identità [...] emerge direttamente dalle stesse
metafore che [...] vengono usate per parlarne. Quando si vuole
indicare la tradizione culturale di un gruppo o di un paese,
infatti, l’immagine più ricorrente è quella delle radici. [...].
Questa immagine ha la ca- pacità di suggestionare fortemente
qualsiasi discorso su identità e tradizione, e per un motivo
abbastanza semplice: in un campo così astratto come quello delle
determinazioni filosofiche o antropologiche, l’immagine delle
radici permette di sostituire il ragionamento direttamente con una
visione [...]. Nessuno ha mai visto la propria tradizione,
tantomeno avrà visto la propria identità, ma tutti nella loro vita
hanno visto delle radici: in una discussione sulla tradizione,
anche il più accanito dei tradizionalisti avrebbe difficoltà a
dirci quale tradizione effettivamen- te intenda come la «vera»
tradizione del gruppo, e da che cosa sia concretamente
rappresentata per lui questa tradizione. Lo stesso discorso vale
per quella cosa che chiamiamo identità. Ecco il motivo per cui è
molto meglio spostare tutto sul piano della metafora, e far
balenare allo sguardo dell’ascoltatore semplicemente delle radici.
Questa immagine, infatti, come direbbe Cicerone, «pone al cospetto
dell’animo ciò che non potremmo né distinguere né vedere» [...].
[Inoltre] tramite questa immagine vitale, la tradizione viene
chiamata a far parte addirittura dell’ordine naturale, e
dall’intrinseca validità di quest’ordine – chi oserebbe mai
contrastare la natura? – riceve automaticamente anche la propria
giustificazione. […] Il rapporto di determi- nazione fra tradizione
e identità assume in questo modo l’aspetto di una forza che
scaturisce direttamente dalla natura organica. Se un albero è quel
certo albero perché è cresciuto da quelle radici, noi siamo noi
perché siamo cresciuti dalle radici della nostra tradizione
culturale. In un certo senso, è come se noi non potessimo essere
altrimenti. [...]
Come se non bastasse, la metafora delle radici ha dalla sua non
solo la forza della vita, ma anche quella, potremmo dire, della
posizione relativa. Basta considerare qual è la collocazione
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di questa componente della pianta rispetto alle altre. Le radici
stanno in basso, cioè al fondo rispetto a tronco, rami, foglie. Di
conseguenza il paradigma metaforico arboricolo viene insen-
sibilmente, ma altrettanto inevitabilmente, messo in risonanza con
ciò che è fondamentale. [...]. Ne deriva che le radici – in quanto
costituiscono la base della pianta – sono non solo forti e vive, ma
anche fondamentali. Se dunque si congiungono per via di metafora
radici e tradizione, si fa di quest’ultima qualcosa non solo di
biologicamente necessario, ma anche di fondamentale nell’esperienza
e nell’identità di una persona. [...]
Inutile dire che il ricorso alla metafora arboricola punta a questo
scopo: costruire un vero e proprio dispositivo di autorità che,
attraverso i contenuti evocati dall’immagine, si alimenta di nuclei
semantici forti quali la vita, la natura, la necessità biologica,
la gerarchia di posizione e così via. [...] Una volta che questo
dispositivo di autorità sia stato messo in movimento, la con-
seguenza non può che essere la seguente: l’identità culturale
predicata attraverso la metafora delle radici viene estesa a un
intero gruppo, indipendentemente dalla volontà dei singoli. [...]
Una volta «radicati» in una certa tradizione, scegliere
autonomamente la propria identità cul- turale diventa impossibile,
ci si può solo riconoscere in quella che altri hanno costruito per
noi. Eppure, se Voltaire poteva scrivere che «ogni uomo nasce con
il diritto naturale di scegliersi una patria» a maggior ragione si
dovrà dire che ogni uomo nasce con il diritto naturale di sce-
gliersi una cultura.
(M. Bettini, Contro le radici. Tradizione, identità, memoria, il
Mulino, Bologna 2012)
Comprensione e interpretazioneI
1 Individua il tema/problema che i passi hanno in comune. 2 Scegli
nel passo di Conte una frase che a tuo avviso sintetizza al meglio
la sua posizione e
commentala. 3 Allo stesso modo, scegli una frase particolarmente
significativa del brano di Bettini e commen-
tala.
CommentoI
4 Elabora ora un commento argomentativo ai due testi, articolato
come segue: a. presenta le tesi esposte dai due studiosi mettendo
in evidenza gli eventuali punti di con-
vergenza e le differenze; b. inquadra il tema affrontato in un
contesto di riferimento che permetta di coglierne l’attua-
lità e le implicazioni nella società contemporanea; c. esprimi un
tuo parere motivato sul tema e sulle posizioni espresse dai due
autori.
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Ambito storicoi Carlo M. Cipolla Sull’utilità della storia Nel
corso della storia ricorrono frequenti situazioni che mostrano tra
di loro rimarchevoli ana- logie. Ma per quanto marcate possano
risultare tali analogie ogni situazione storica rimane unica ed
irripetibile. Si può indulgere in un rozzo parallelo dicendo che
esistono individui che si somigliano ma ciò non toglie che ciascuno
di essi sia unico ed irripetibile. Il fatto fondamen- tale della
irripetibilità della storia conferisce un particolare significato
al detto tradizionale «historia magistra vitae». In effetti c’è
incompatibilità tra l’affermazione che la storia si ripete e la
norma che «la storia è maestra di vita» perché, se una data
situazione si ripetesse, coloro che una volta hanno perduto, la
volta seguente, traendo vantaggio dall’esperienza, si comporte-
rebbero in maniera diversa per evitare di essere nuovamente
perdenti e per via di questo loro comportamento diverso la nuova
situazione si differenzierebbe da quella precedente.
Henry Kissinger scrisse una volta che la storia «non è un libro di
cucina che offre ricette già sperimentate». Una tale affermazione è
il corollario del postulato precedente che la storia non si ripete.
A questo punto mi immagino che ci sia chi si chieda a che serve
allora studiare la storia. A mio modo di vedere la domanda è
rozzamente stupida. Ogni forma di sapere si giusti- fica in quanto
tale. Nel caso specifico della storia ho anche difficoltà a
concepire una società ci- vile che non sia interessata allo studio
delle proprie origini. La storia ci dice chi siamo e perché siamo
quel che siamo. «Noi uomini siamo sempre coinvolti in storie»,
scrisse Wilhelm Schapp. Tutto ciò per me è elementare. Ma sono
convinto che non siano pochissimi coloro che con- siderano una tale
posizione elitistica e socialmente ingiustificabile. Per costoro,
ammalati di utilitarismo benthamita1, […] penso che sia opportuno
fare ulteriormente rilevare che lo studio della storia ha un
significato eminentemente formativo. Come scrisse Huizinga2, la
storia non è soltanto un ramo del sapere ma anche «una forma
intellettuale per comprendere il mondo». Anzitutto lo studio della
storia permette di vedere nella loro corretta dimensione storica
pro- blemi attuali con cui dobbiamo confrontarci e, come scrisse
Richard Lodge3 nel 1894, «esso offre l’unico strumento con il quale
l’uomo può comprendere a fondo il presente».
D’altra parte lo studio della storia rappresenta un esercizio
pratico nella conoscenza dell’uomo e della società. Tutti noi si
tende ad essere provinciali, intolleranti ed etnocentrici. Tutti
noi si ha bisogno di compiere sforzi continui per esercitarci ad
essere comprensivi e in- telligenti di sistemi di vita, scale di
valori, modi di comportamenti diversi dai nostri – il che sta alla
base di ogni convivenza civile tra gli individui come tra i popoli.
Lo studio della storia è essenziale al riguardo. Studiare la storia
vuol dire compiere un viaggio nel passato che la ricerca storica
comporta. Viaggiare apre gli occhi, arricchisce di conoscenza,
invita ad aperture menta- li. Più lungo è il viaggio e più distanti
i paesi visitati, più robusto è il challenge4 alla nostra visione
del mondo. Per questo io credo che gli storici che si occupano di
società più lontane nel tempo
1. utilitarismo benthamita: ci si riferisce al filosofo e giurista
inglese Jeremy Bentham (1748-1832), teori- co dell’utilitarismo,
secondo cui ogni individuo tende naturalmente al proprio utile, che
non confligge ma si armonizza con il bene comune. Bentham contesta
dun- que la tradizionale condanna cristiana dell’egoismo.
2. Huizinga: Johan Huizinga (1872-1945), storico olan- dese. 3.
Richard Lodge: Lodge (1855-1936) è stato uno storico britannico. 4.
challenge: sfida.
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35 dalla nostra abbiano, a parità di altre condizioni, un senso
storico più sottile ed affinato degli storici di età a noi più
vicine. Con questo non voglio, né intendo dire, che lo studio della
storia o il viaggiare bastino a fare di un uomo un saggio. Se così
fosse i professori di storia sarebbero tutti dei saggi – il che è
ben lungi dall’essere vero. Il viaggio e una conoscenza della
storia sono condizioni necessarie ma non sufficienti alla
comprensione degli eventi umani.
(C. M. Cipolla, Introduzione alla storia economica, il Mulino,
Bologna 2003)
Comprensione e interpretazioneI
1 Il brano si presenta diviso in tre capoversi: ti sembra che tale
divisione rispecchi l’andamento dell’argomentazione dell’autore? Se
non è così, spezza i paragrafi esistenti con dei nuovi a capo.
Infine, dai un titolo a ogni capoverso ottenuto.
2 Quale similitudine, nelle prime righe del brano, è utilizzata
dall’autore per spiegare l’irripetibi- lità dei fatti
storici?
3 Qual è il problema – la domanda di fondo – da cui prende le mosse
Carlo Cipolla? 4 Riepiloga, per punti, gli argomenti proposti da
Carlo Cipolla per giustificare l’importanza dello
studio della storia. 5 Che cosa intende dire l’autore con la frase:
«Più lungo è il viaggio e più distanti i paesi visitati,
più robusto è il challenge alla nostra visione del mondo»? 6 È
corretto affermare che, secondo Cipolla, gli storici dell’antichità
hanno «un senso storico più
sottile ed affinato» di quelli – poniamo – dell’età contemporanea?
In che senso? 7 Sulla base di quanto hai letto in questo brano,
indica quali affermazioni, a tuo parere, l’autore
potrebbe sottoscrivere: a. La storia ci insegna a capire quali
valori, quali visioni del mondo sono più giuste delle altre. b.
Studiare la storia è importante, ma ancor più importante è
viaggiare per conoscere il mondo
direttamente. c. Studiare la storia è importante anche a
prescindere da qualsiasi criterio di utilità della disci-
plina. d. La storia è «maestra di vita» perché nel presente si
ripetono situazioni già vissute nel pas-
sato. e. La storia è «maestra di vita» in quanto ci racconta
qualcosa di noi, delle nostre origini. f. Senza conoscere la storia
è impossibile capire il presente.
CommentoI
8 Scrivi un testo argomentativo di almeno due colonne di foglio
protocollo in cui esporrai il tuo punto di vista sull’importanza
della storia nella formazione degli individui e nel governo delle
società e degli esseri umani. Dichiara in particolare la tua
posizione circa: a. l’affermazione per la quale studiare la storia
è importante per il semplice fatto che «ogni
forma di sapere si giustifica in quanto tale»; b. l’utilità della
storia: se la storia non si ripete mai, gli insegnamenti del
passato sono davvero
utili?
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Ambito storicoi Giovanni De Luna L’uso pubblico della storia al
tempo del web Uno storico che parla in prima persona, che si
propone con la consapevolezza che i gesti e le parole sono parte
essenziale della sua lezione esattamente come i contenuti che
sviluppa, è uno che ha accettato di scendere nella grande arena
dell’uso pubblico della storia, raccogliendo una sfida che ha come
posta in gioco la capacità di costruire quelle rappresentazioni del
passato in grado di diffondere sapere storico. Da questo punto di
vista, sembra quasi che restituire una faccia e un corpo agli
storici sia una reazione all’impalpabilità del web, a una
virtualità che ha progressivamente disincarnato la storia per
consegnarla in maniera confusa e dimessa al mondo piatto e grigio
della rete.
Riguardo alla televisione, la rottura con i ruoli tradizionali è
stata ancora più drastica. Gli inizi erano stati tutt’altro che
promettenti, con l’accusa alla Tv di impoverire il senso del tempo
e della storia nell’uomo moderno scagliata da chi vide (McLuhan1)
l’epoca del villaggio globale contrassegnata da una marcata
contiguità tra luoghi e culture che in precedenza apparivano
lontanissime tra loro, avviluppate da un tempo diafano, sottile,
appiattito sull’istante, da con- sumarsi febbrilmente e
voracemente. Questo non impedì ad alcuni storici prestigiosi di
transi- tare direttamente dall’accademia ai palinsesti della Tv: in
Francia, alla fine degli anni Settanta, Fernand Braudel e George
Duby2 collaborarono assiduamente a fortunate serie televisive,
ispi- randosi ai temi della loro produzione scientifica. In quelle
esperienze, però, non si avvertiva nes- suna consapevolezza delle
implicazioni insite nel passaggio dalla scrittura all’audiovisione:
tra- sportare di peso nell’universo televisivo le regole
stilistiche e argomentative del racconto scritto non era certamente
la soluzione più adatta per alimentare un fecondo interscambio. I
due mon- di restarono sostanzialmente separati alimentando, da un
lato, l’indifferenza o il disprezzo di quelli che consideravano
l’apparire in Tv una gravissima infedeltà nei confronti della
propria disciplina, dall’altro, il senso di delusione di quelli che
avevano accettato di collaborare e che, abituati a comunicare
attraverso la parola scritta, si erano trovati smarriti rispetto ad
un altro tipo di linguaggio, fatto di immagini, parole, musica, e
di un diverso senso del tempo e del ritmo.
Oggi tutto questo appare superato e tra gli storici si è diffusa la
consapevolezza che si pos- sa utilizzare anche la Tv per raccontare
la storia in modo efficace e credibile. Consapevolezza confermata
dal successo che ha una trasmissione come Il tempo e la storia che
la Rai ha scelto di trasmettere su una rete generalista in una
fascia oraria in precedenza occupata da una soap opera. La sfida
per uno studioso è acquisire familiarità con le specificità del
modello narrativo televisivo e confrontarsi con le possibili
contaminazioni tra questo e quello del racconto storico
tradizionale, in una sintesi che offra allo storico uno strumento
originale, in grado di sciogliere le contraddizioni e i dubbi del
passato. Il crocevia di questo passaggio sembra essere proprio la
personalizzazione del suo ruolo. Perfino nei manuali (roccaforti
della tradizione) sono compar- se le fotografie degli autori, quasi
a volere dare alla parola scritta il tono colloquiale e disteso
dello studio televisivo e rendere riconoscibile un’autorialità
anche fisicamente palpabile.
1. McLuhan: Marshall McLuhan (1911-80) fu un socio- logo e filosofo
canadese.
2. Fernand Braudel e George Duby: Braudel (1902-85) e Duby
(1919-96) sono ritenuti tra i massimi storici del Novecento.
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Resta una considerazione sul tributo che la storia e gli storici
pagano a uno spirito del no- stro tempo segnato da una progressiva
individualizzazione delle forme in cui la cultura viene prodotta e
viene consumata. La storia, uscita dall’accademia, si è imbattuta
in questa deriva, ne è stata avvinta, conquistata e ha preteso che
gli storici offrissero al pubblico anche i loro vissuti e la loro
personalità. D’altronde lo aveva scritto tanti anni fa Edward
Carr3: leggendo un libro di storia occorre innanzi tutto prestare
attenzione allo storico, per «sentire che cosa frulla» nella sua
testa: «Se non sentiamo niente, o siamo sordi o lo storico in
questione non ha nulla da dirci».
(G. De Luna, L’uso pubblico della storia al tempo del web, «la
Repubblica», 1 novembre 2015)
Compressione e interpretazioneI
1 Osserva la fonte al fondo del brano: come vedi, l’articolo –
apparso originariamente su un quo- tidiano – è stato privato del
titolo. Ripristina tu un titolo coerente con il contenuto del
testo.
2 Spiega il significato dei seguenti termini o espressioni. Laddove
essi abbiano un senso metafo- rico, scegli la definizione che
meglio si adatta al contesto e al pensiero dell’autore. a. Arena b.
Impalpabilità c. Villaggio globale d. Avviluppate e. Diafano f.
Palinsesti g. Roccaforti
3 Ti sembra che l’autore esprima una posizione di apertura o di
chiusura nei confronti della «con- taminazione» tra accademia e
televisione?
4 Quali sono gli elementi critici che De Luna individua nel
rapporto tra storia e intrattenimento televisivo?
5 Perché secondo te l’autore definisce «piatto e grigio» (r. 8) il
mondo del web?
CommentoI
6 Ti capita di fruire – a casa o in classe – di contenuti storici
veicolati da media diversi dal libro o dalla carta stampata? Per
esempio in tv o su YouTube? Quali differenze intercorrono tra
queste diverse modalità di divulgazione della conoscenza? Ritieni
si tratti di una commistione innaturale e in ultima analisi
impossibile, oppure pensi che il sapere storico possa trarre nuove
energie dal dialogo con la multimedialità? A partire da una
riflessione sul cosiddetto «uso pub- blico» della storia (che
cos’è? A che cosa serve? È opportuno/utile/inevitabile?) esponi, in
un testo argomentativo di almeno due colonne di foglio protocollo,
una tua riflessione originale sul tema del rapporto tra sapere
storico e nuovi (e vecchi) media.
3. Edward Carr: Carr (1892-1982), inglese, è stato uno storico,
giornalista e diplomatico.
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Ambito storicoi Massimo L. Salvadori Un bilancio del Novecento e
uno sguardo al futuro Mi sono schierato tra quegli studiosi che
ritengono che il Novecento sia stato un «secolo lungo», anzi il più
lungo della storia: perché mai in cento anni il mondo è mutato
tanto rapidamente [...].
Ho sottolineato che il Novecento è stato un secolo di violenze e
tragedie quali non si erano sino ad allora viste. Hegel1 aveva
definito il passato «storia di un macello universale». Ebbene ciò
non fu mai tanto vero quanto durante il periodo di cui stiamo
discorrendo. Occorre subito aggiungere che le violenze e le
tragedie novecentesche furono rese possibili non solo dall’a-
sprezza dei conflitti politici, sociali, ideologici, religiosi,
etnici e razziali e da guerre spaven- tose – dimensioni del vivere
di per sé antichissime ancorché concepite e vissute in forme del
tutto nuove – bensì dal fatto che gli uomini e i loro Stati si
trovarono ad avere a disposizione strumenti di annientamento di una
potenza enorme via via crescente forniti dalla scienza e dalla
tecnologia. Se prima degli inizi del Novecento tale potenza restava
pur sempre entro certi limiti, con il risultato che l’aggressività
umana fu anch’essa relativamente contenuta nei suoi effetti, a
partire da allora quest’ultima poté svilupparsi avendo a
disposizione un potenziale distruttivo in grado di superare ogni
confine precedentemente immaginabile. Dal che è deriva- ta la
grande violenza che ha segnato il secolo, di cui le stragi commesse
durante le due guerre mondiali e gli altri maggiori scontri
bellici, il terrorismo dei regimi totalitari con i loro campi di
sterminio, l’Olocausto e il lancio delle bombe atomiche sul
Giappone sono state le punte estreme. Il significato umano e
simbolico di una simile violenza ha impresso un marchio in-
delebile sul secolo.
Il divampare dei conflitti culminati nella morte di decine e decine
di milioni di esseri umani, nell’annientamento spirituale e fisico
di minoranze e di inte