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Vol. 45 • N. 177 - sip.it · Le fotocopie per uso personale del lettore possono essere effettuate...

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Nefrologia pediatrica (a cura di A. Edefonti) Attualità in nefrologia pediatrica: recenti progressi nella diagnosi e nella terapia delle nefropatie glomerulari Terapia della sindrome nefrosica idiopatica: presente e futuro Le nuove sfide del trapianto renale pediatrico Neonatologia (a cura L. Ramenghi) Update sulla displasia broncopolmonare: novità in tema di prevenzione e terapia Nutrizione enterale e parenterale del neonato prematuro Frontiere (a cura di A. Biondi, A. Iolascon, L.D. Notarangelo, M. Zeviani) Genetica e patologia della filtrazione renale Focus (a cura di G. Andria) Le miopatie congenite Periodico trimestrale POSTE ITALIANE SPA - Spedizione in Abbonamento Postale - D.L. 353/2003 conv.in L.27/02/2004 n°46 art.1, comma 1, DCB PISA Aut. Trib. di Milano n. 130 del 17/03/1971 - Stampa a tariffa ridotta - tassa pagata - Aut. Dirpostel Pisa n. 1/36131/4/1 del 10/09/1993 - Taxe perçue - Italia Finito di stampare presso le Industrie Grafiche della Pacini Editore, Pisa - Maggio 2015 Vol. 45 • N. 177 gennaio-marzo 2015
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Nefrologia pediatrica (a cura di A. Edefonti)

Attualità in nefrologia pediatrica: recenti progressi nella diagnosi e nella terapia delle nefropatie glomerulari

Terapia della sindrome nefrosica idiopatica: presente e futuro

Le nuove sfide del trapianto renale pediatrico

Neonatologia (a cura L. Ramenghi)

Update sulla displasia broncopolmonare: novità in tema di prevenzione e terapia

Nutrizione enterale e parenterale del neonato prematuro

Frontiere (a cura di A. Biondi, A. Iolascon, L.D. Notarangelo, M. Zeviani)

Genetica e patologia della filtrazione renale

Focus (a cura di G. Andria)

Le miopatie congenite

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DirettoreGeneroso Andria, Napoli

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Redazione ScientificaRoberto Della Casa (Redattore Capo)Simona FecarottaIris Scala

ISSN 0301-3642

Vol. 45 • N. 177gennaio-marzo 2015

Redazione EditorialeLisa AndreazziTel. 050 3130285 [email protected]

AmministrazionePacini Editore S.p.A.Via Gherardesca, 156121 PisaTel. 050 313011 - Fax 050 [email protected]

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Nefrologia pediatrica (a cura di Alberto Edefonti)

Presentazione .............................................................................................................................................. 1

Attualità in nefrologia pediatrica: recenti progressi nella diagnosi e nella terapia delle nefropatie glomerulariAlberto Edefonti, Marta Lepore, Roberta Villa, Marisa Giani ........................................................... 3

Terapia della sindrome nefrosica idiopatica: presente e futuroAndrea Pasini, Elena Monti, Giovanni Montini ..................................................................................... 14

Le nuove sfide del trapianto renale pediatricoLicia Peruzzi ..................................................................................................................................................... 25

Neonatologia (a cura Luca Ramenghi)

Presentazione .............................................................................................................................................. 33

Update sulla displasia broncopolmonare: novità in tema di prevenzione e terapiaMaria Pierro, Fabio Scopesi, Luca Ramenghi ........................................................................................ 35

Nutrizione enterale e parenterale del neonato prematuroGianluca Terrin, Mario De Curtis ............................................................................................................... 41

Frontiere (a cura di Andrea Biondi, Achille Iolascon, Luigi D. Notarangelo, Massimo Zeviani)

Genetica e patologia della filtrazione renaleMaria Pia Rastaldi .......................................................................................................................................... 53

Focus (a cura di Generoso Andria)

Le miopatie congeniteChiara Fiorillo, Marina Pedemonte, Federica Trucco, Giacomo Brisca, Claudio Bruno, Carlo Minetti ...................................................................................................................... 65

Prospettive in Pediatria

INDICE N. 177gennaio-marzo 2015

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Gennaio-Marzo 2015 • Vol. 45 • N. 177 • Pp. 1 Prospettive in Pediatria

Nefrologia pediatrica

I temi prescelti per la sezione di Prospettive in Pediatria dedicata tradizionalmente alla nefrologia pediatrica sono questa volta le nefropatie glomerulari e il trapianto renale pediatrico.Le nefropatie glomerulari, trattate nel primo articolo, rappresentano un settore rimasto per molti anni cristalliz-zato, dopo le grandi innovazioni nosologiche e classificative, basate sull’istologia, proprie degli anni ’60 e ’70. Negli ultimi anni si è assistito peraltro ad una rapida evoluzione delle conoscenze, guidata dall’applicazione a questo campo degli studi genetici.Novità diagnostiche e terapeutiche riguardano le malattie del collagene IV: la malattia da membrane basali sottili, un tempo considerata a prognosi favorevole, tanto da essere associata al termine di ematuria familiare benigna, e la sindrome di Alport, nelle femmine X-linked, possono entrambe avere evoluzione a IRT in età adulta. D’altro canto, gli ACE-inibitori e i sartani si sono dimostrati in grado di ritardare l’evoluzione sfavorevole della malattia, in misura dipendente dalla precocità di inizio della terapia.Il vecchio concetto che le glomerulonefriti siano malattie meramente acquisite è stato ridimensionato, grazie alla scoperta che mutazioni genetiche codificanti per proteine della via alternativa del complemento sono responsabili delle glomerulonefriti C3 – mediate, che comprendono vecchie conoscenze, come la malattia a depositi densi, e nuove entità, come la Glomerulonefrite a depositi isolati di C3.È cambiato in questi anni anche il mondo della sindrome nefrosica cortico-resistente su base immunologica. La comprensione dei meccanismi molecolari di comunicazione tra podocita e linfociti ha condotto all’utilizzo di nuovi anticorpi monoclonali, come abatacept e ofatumumab, Questi, assieme alle cellule staminali, hanno confermato le speranze di guarigione per una malattia caratterizzata nella maggioranza dei casi da evoluzione verso l’IRT.E indubbio che debbano essere cercate nuove strade anche per la terapia della sindrome nefrosica idiopatica cortico-sensibile e questo è il tema del secondo articolo della sezione. Anche qui, i corticosteroidi rappresen-tano vecchi farmaci, per i quali, inoltre, gli schemi terapeutici risultano estremamente disomogenei, sia per il trattamento del primo episodio, sia per l’associazione con i farmaci risparmiatori di steroidi, in caso di cortico-dipendenza.Nuove prospettive riguardano l’identificazione di indicatori clinici e farmacogenomici precoci di cortico-dipen-denza, allo scopo di disegnare terapie corticosteroidee e immunosoppressive personalizzate, in grado di ridur-re la dose totale di steroidi e quindi gli effetti collaterali. Tra i nuovi farmaci per il trattamento dei casi cortico-dipendenti, il rituximab, anticorpo monoclonale anti-CD20, è certamente il più promettente, in quanto consente da solo di mantenere la remissione, altrimenti possibile solo con l’associazione di più immunosoppressori e steroidi, ma il bilancio rischi-benefici del farmaco non è a tutt’oggi del tutto chiarito.Il trapianto renale rappresenta la migliore opzione terapeutica per il bambino con Insufficienza Renale Termi-nale, soprattutto se confrontato con la dialisi extracorporea. Il terzo articolo della sezione esamina come, negli ultimi 25 anni, i miglioramenti nella terapia immunosoppressiva abbiano ridotto drammaticamente il rischio di rigetto acuto e perdita del rene. Allo stesso tempo,tuttavia, i risultati a lungo termine riguardo alla sopravvivenza dell’organo e alla incidenza di varie complicanze indicano la necessità di implementare nuovi schemi e farmaci immunosoppressivi,Protocolli di minimizzazione delle dosi di steroidi ed inibitori della calcineurina e nuovi farmaci di induzione nella fase pre- e post-trapianto promettono di ridurre il ritardo di crescita e gli altri effetti collaterali, inclusi quelli cosme-tici, evitando anche la tossicità renale da ciclosporina. Nuove metodiche di laboratorio per la diagnosi di anticorpi anti-HLA del donatore, in grado di ridurre l’incidenza di rigetto cronico, e nuovi protocolli di trattamento dei soggetti iperimmunizzati, che includono anche metodiche di aferesi,in preparazione e dopo il trapianto di rene, rappresen-tano importanti aree di applicazione per il miglioramento dei risultati del trapianto renale pediatrico.

Alberto Edefonti

UOC Nefrologia e Dialisi Pediatrica, Fondazione Ca’ Granda, IRCCS Ospedale Maggiore Policlinico, Milano

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Gennaio-Marzo 2015 • Vol. 45 • N. 177 • Pp. 3-13 Prospettive in Pediatria

Nefrologia pediatrica

Attualità in nefrologia pediatrica: recenti progressi nella diagnosi e nella terapia delle nefropatie glomerulari

Alberto Edefonti Marta Lepore Roberta Villa Marisa Giani

UOC Nefrologia e Dialisi Pediatrica, Fondazione Ca’

Granda, IRCCS Ospedale Maggiore Policlinico, Milano

Si individuano, nell’analisi della letteratura degli ultimi anni sulle nefropatie glomerulari, tre grandi tematiche:1) Il nuovo inquadramento nosologico delle malattie del collagene IV e la terapia con

ACE-inibitori della sindrome di Alport. È stato segnalato che la malattia delle membrane basali sottili, un tempo considerata

a prognosi favorevole, condivide alcune mutazioni genetiche della sindrome di Alport (SA) e può anche avere evoluzione a IRC in età adulta. Si controindica quindi l’uso del termine fuorviante di Ematuria familiare benigna. L’evoluzione infausta della SA non sarebbe inoltre limitata ai maschi, ma si estenderebbe anche alle femmine affette da SA X-linked. Terapia di scelta dell’Alport, malattia un tempo non trattata, sono oggi gli ACE-inibitori e i sartani: essi ritardano la progressione verso l’IRT in misura dipendente dalla precocità di inizio della terapia. Nel caso compaia il fenomeno di “escape”, con ripresa della proteinuria, l’aggiunta di anti-aldosteronici è in grado di ripristinare l’effica-cia terapeutica degli ACE- inibitori.

2) La nuova entità nosologica delle glomerulonefriti C3 mediate. Il vecchio concetto che le glomerulonefriti siano malattie meramente acquisite è stato

ridimensionato, grazie alla scoperta che mutazioni genetiche codificanti proteine della via alternativa del complemento sono responsabili delle glomerulonefriti C3 mediate, tra cui la glomerulonefrite a depositi isolati di C3, distinguibile rispetto alla classica glomerulonefrite post-infettiva, in quanto caratterizzata da ipocomplementemia persi-stente oltre i due mesi dall’esordio e decorso cronico. L’attivazione persistente della ca-scata del complemento su base genetica (fattore H, fattore I, e altri) o autoanticorpale, a seguito di un trigger spesso infettivo, è responsabile del danno renale. Trovano quindi indicazione gli anticorpi monoclonali, come eculizumab, in grado di bloccare la cascata del complemento, con riportati iniziali successi terapeutici.

3) I nuovi anticorpi monoclonali e la terapia con cellule mesenchimali nella sindrome ne-frosica corticoresistente su base immunologica.

La patogenesi implica meccanismi di comunicazione tra podocita e linfociti e coinvolge molecole CD80, espresse dai podociti, e CTLA4. Queste scoperte hanno condotto all’utilizzo dapprima di rituximab, anticorpo anti CD20, efficace nelle forme cortico-dipendenti, ma non nelle cortico-resistenti, poi di nuovi monoclonali, come abatacept, inibitore di CTLA4, e ofatumumab, che hanno portato a remissione casi cortico-resi-stenti da glomerulosclerosi focale, confermando le speranze di guarigione per una malattia sinora ritenuta, in gran parte dei casi, incurabile. Anche le cellule staminali mesenchimali sono state impiegate nel trattamento della glomerulosclerosi focale: la segnalazione di un primo caso coronato da parziale successo terapeutico apre la stra-da a trial clinici più ampi.

Riassunto

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A. Edefonti et al.

Metodologia della ricerca bibliografica L’articolo fa seguito alla precedente revisione della let-teratura nefrologica pediatrica 2007-2009, pubblicata su Prospettive in Pediatria (Mastrangelo et al., 2011). Per quanto riguarda il quinquennio 2010-2014, è stata seguita la stessa metodologia di ricerca bibliografica: dopo un’ampia discussione tra gli autori e i colleghi nefrologi pediatri dell’UOC di Nefrologia e Dialisi pe-diatrica di Milano su cosa di rilevante fosse cambiato negli ultimi anni nella pratica clinica, il tema delle ne-fropatie glomerulari è stato identificato come quello più significativo dal punto di vista dei cambiamenti nella diagnosi e nella terapia.La ricerca degli articoli rilevanti è stata condotta sulla banca bibliografica Medline, utilizzando come motore di ricerca PubMed. Le parole chiave impiegate sono: Alport syndrome, TBDM, C3 glomerulopathy, mono-clonal antibodies, proteinuric diseases, nephrotic syndrome, focal segmental glomerulosclerosis, mes-enchimal stem cells.

Sono stati inoltre considerati altri articoli rilevanti pub-blicati negli anni precedenti a conoscenza degli autori ed altri ricavati dalla bibliografia delle pubblicazioni tratte da PubMed.

IntroduzioneLe nefropatie glomerulari rappresentano un settore della nefrologia pediatrica rimasto per molti anni cri-stallizzato, dopo che le grandi innovazioni nosologi-che e classificative degli anni ’60 e ’70 del Novecento avevano portato all’identificazione delle diverse entità anatomo-cliniche (ossia dei diversi tipi di glomerulo-patie), che rappresentano tuttora la base dell’opera-tività clinica.Negli ultimi anni, tuttavia, si è assistito a una sorpren-dente evoluzione delle conoscenze, guidata, come in molti altri campi della medicina, dall’applicazione degli studi genetici avanzati al campo delle nefropatie glomerulari.Ciò è vero non solo per le glomerulopatie su base ge-netica, ma anche per le glomerulonefriti e la sindrome

We reviewed the recent literature on glomerular diseases and identified three major themes:1) Collagen IV diseases include both Thin Basement Membrane Disease (TBDM) and

Alport Syndrome (AS). TBDM, formerly known as Familial Benign Hematuria (FBH), ac-tually shares some gene mutations with AS and may develop proteinuria and progress to End-stage renal disease (ESRD) in adulthood. Moreover, not only males with AS may progress to ESRD, but also females with X-linked gene mutations, even at a young age. AS has long been considered a non- treatable disease, but recent papers have shown that ACE-I and ARB can decrease the rate of progression to ESRD of patients with AS, provided treatment is started very early. If proteinuria reappears, as a consequence of the “escape” phenomenon, anti-aldosterone drugs may restore their efficacy.

2) The old concept that glomerulonephritis are simply acquired diseases has been deeply modified after the discovery of gene mutations codifying for proteins of the alternative way of complement, which are responsible of the so-called C3-mediated glomerulopa-thies. They include the recently described C3 Glomerulonephritis, which is different from the post-streptococcal glomerulonephritis in the presence of isolated C3 deposits at immune-fluorescence, persistence of low C3 levels two months over clinical presenta-tion and chronic course of the disease. The persistent activation of the complement cascade, of genetic or immune origin, often following an infectious trigger, is responsible of the renal damage: monoclonal antibodies, like eculizumab, which block complement cascade activation, can then be utilized, with some initial success reported.

3) The pathogenesis of steroid-resistant nephrotic syndrome (SRNS) of immunological origin (due to the presence of a circulating factor), implies the activation of CD80 mol-ecules, expressed by podocytes, and CTLA4: anti-CD20 antibody rituximab proved to be effective in steroid-dependent NS, but not in SRNS. New monoclonal antibodies like abatacept, a CTLA4 inhibitor, and ofatumumab, led to remission a small series of patients with SRNS and Focal Segmental Glomerulosclerosis (FSGS). Moreover, mes-enchimal stem cells induced partial remission and stabilized proteinuria in a patient with SRNS and FSGS with recurrence of the disease in the transplanted kidney. These promising results open the way to larger clinical trials in SRNS.

Summary

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Attualità in nefrologia pediatrica: le glomerulopatie

nefrosica idiopatica,in particolare la forma corticore-sistente.Obiettivo della revisione è quindi:• aggiornareleconoscenzesullemalattiedelcolla-

gene IV, con particolare riferimento all’evoluzione delle diverse forme di sindrome di Alport, ai rap-porti tra sindrome di Alport e malattia da membra-ne basali sottili e alla terapia di queste condizioni;

• descrivereicaratteridistintivi,patogeneticieclini-ci, delle glomerulopatie C3 mediate e in partico-lare della nuova entità glomerulonefrite a depositi isolati di C3;

• evidenziarelenuoveopzioniterapeutichedellasin-drome nefrosica corticoresistente, a partire dalle nuove ipotesi patogenetiche, quali i nuovi anticorpi monoclonali e le cellule staminali mesenchimali.

Nuovo inquadramento nosologico e terapia delle malattie del collagene IVLe malattie del collagene IV comprendono tutte le pa-tologie genetiche caratterizzate da alterazione delle catene α3-α4-α5 del collagene IV, che rappresentano i maggiori costituenti della membrana basale glome-rulare.

Rapporti tra sindrome di Alport e malattia delle membrane basali sottiliÈ noto che l’80% delle famiglie con sindrome di Al-port (SA) ha trasmissione X-linked, e la grande mag-gioranza delle restanti presenta una modalità di tra-smissione autosomica recessiva. La malattia X-linked (SA-XL) è causata da mutazioni nel gene COL4A5 (Feingold et al., 1985), mentre la forma autosomica recessiva (SA-AR) dipende da mutazioni in omozigosi o eterozigosi composta del gene COL4A3 o COL4A4 (Mochizuki et al., 1994). Da ultimo, la SA autosomica dominante rappresenta la forma più rara, associata a mutazioni in eterozigosi del gene COL4A4 o COL4A3 (van der Loop et al., 2000).Gli eterozigoti per mutazioni in COL4A3 e COL4A4 sono portatori di SA-AR ed è stato recentemente sco-

perto che possono presentare, alla biopsia renale, le alterazioni caratteristiche della malattia da membrane basali sottili (TBMD) (Rana et al., 2007). Questa os-servazione pone importanti problemi nosologici.La TBMD, caratterizzata clinicamente da microema-turia persistente e da diffuso assottigliamento della MBG alla microscopia elettronica, è stata per molto tempo considerata un’entità nosologica a sé stante, rappresentando, secondo alcuni, il quadro istologico della cosiddetta Ematuria Famigliare Benigna. In re-altà, è stato dimostrato che il 40% dei casi di TBMD presenta mutazioni in eterozigosi di COL4A3 o CO-L4A4, tipiche della forma recessiva di SA, permet-tendo quindi di inquadrare la TBMD come un’entità appartenente allo spettro della SA (Tab.  I) (Pierides et al., 2009). A conferma di ciò, sono emerse recenti evidenze cli-niche di pazienti con TBDM e mutazione COL4A3-A4 che sviluppavano proteinuria e poi insufficienza renale terminale (IRT) in percentuale ingravescente con l’età (Tab. II) (Deltas et al., 2014). Malone ha re-centemente sottolineato che il quadro istologico delle forme evolutive di TBDM è spesso caratterizzato da lesioni sovrapposte di glomerulosclerosi focale (Ma-lone et al., 2014). In considerazione di ciò, si consiglia di abbandonare il termine di Ematuria Famigliare Be-nigna, che ha ostacolato negli scorsi anni il corretto inquadramento e follow-up dei pazienti con ematuria familiare e di considerare la stessa Malattia da mem-brane sottili come una malattia del collagene IV, con le implicazioni diagnostiche e prognostiche relative (Vivante et al., 2013).

Evoluzione delle femmine con SA X-linkedUna seconda novità riguarda il rapporto tra sesso e progressione della SA.Da tempo è nota la differente evoluzione a IRT tra maschi e femmine con SA-XL, con un rischio di evo-luzione in IRT entro i 30 anni di età in più del 50% dei maschi e intorno ai 60 anni nel 15-30% delle femmine (Jais et al., 2003). Tale prognosi è stata recentemente ridiscussa, in quanto anche le femmine con SA-XL

Tabella I. Spettro delle malattie del collagene IV.

TBMD SINDROME DI ALPORT

Familiarità Sì Sì

Trasmissione AD XL/AD/AR

Alterazioni oculari o sordità neurosensoriale

No Sì

Mutazione COL IV > 40% COL4A3-A4 80% COL4A55-15% COL4A3/A4

Microscopia elettronica Assottigliamento MBG Assottigliamento MBGReticolazioniSlaminamenti

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A. Edefonti et al.

possono presentare già in epoca precoce un quadro clinico di rilievo, con proteinuria patologica persisten-te ed eventualmente IRT (Rheault, 2012). Tra i fattori prognostici negativi sono stati identificati l’inattivazio-ne casuale sfavorevole del cromosoma X, il tipo di mutazione e la sordità (Rheault, 2012). Un follow-up precoce è quindi fortemente raccomandato anche nelle femmine con SA-XL. Si consiglia inoltre di sco-raggiare le madri con mutazione XL dalla donazione del rene ai figli maschi con SA (Temme et al., 2012).

Strumenti diagnosticiUn ulteriore punto emerso dalla recente letteratura riguarda l’approccio diagnostico alla SA e, in partico-lare il ruolo dell’indagine molecolare nella sequenza diagnostica (Savige et al., 2013). La diagnosi di SA si è da sempre basata sulla anamnesi personale e fami-liare e sulla dimostrazione, all’esame ultrastrutturale, di tipiche alterazioni, quali slaminamenti, reticolazio-ni, ispessimenti e assottigliamenti della membrana basale glomerulare (MBG). Negli anni ’80-’90 si era anche proposto lo studio immunoistochimico delle ca-

tene del collagene IV sulla biopsia renale o, più age-volmente, sulla biopsia cutanea, ma l’indagine non ha avuto significativa diffusione (Kashtan et al., 1989).Negli ultimi anni si è andata affermando l’analisi gene-tica, che è stata oggi elevata a esame di primo livello (Savige et al., 2013). L’analisi genetica costituisce uno step imprescindibile nel percorso diagnostico, poiché consente di chiarire (laddove non lo fosse l’albero genealogico) la modalità di trasmissione (X-linked o autosomica) della malattia, che, assieme alla natura della mutazione identificata (delezione, frameshift, …) orienta il clinico nella elaborazione di una prognosi più accurata. Tuttavia, la percentuale di casi con assenza di mutazioni patogenetiche è tuttora rilevante, sia con la metodica DHLPC, sia, seppure in grado minore, con il sequenziamento di nuova generazione (Next Ge-neration Sequencing, NGS) (Artuso et al., 2012). Per questo motivo, l’indagine ultrastrutturale tramite biop-sia renale rimane un passo necessario nel processo diagnostico dei casi sospetti per SA (Fig. 1).

TrattamentoL’orizzonte è radicalmente cambiato rispetto al passa-to, dopo che diversi studi hanno provato l’efficacia di ACE-inibitori e sartani nel rallentare la velocità di pro-gressione della SA. Nello studio di Gross et al. (2012)il trattamento con ACE-I ritardava lo sviluppo di IRT in misura proporzionale al momento di inizio della te-rapia: se questo avveniva in assenza di insufficienza renale o di proteinuria elevata, il raggiungimento della IRT era più tardivo (Fig. 2).Inoltre, l’aspettativa di vita dei pazienti trattati con ACE-I rispetto ai pazienti non trattati era significativa-mente aumentata (Gross et al., 2012).L’aggiunta di un antialdosteronico alla terapia con ACE-I e sartani determinerebbe un’ulteriore riduzione

Tabella II. Evoluzione dei pazienti con malattia da mem-brane basali sottili (TBMD) (Pierides, 2009).

Microematuria isolata 100% (sotto 30 anni) 66% (tra 31-50 anni)30% (tra 51-70 anni) 23% (sopra 71 anni)

Proteinuria e insufficienza renale cronica

8% (31-50 anni)25% (51-70 anni)

> 50% (sopra 71 anni)

Dialisi e trapianto 18 pazienti/127 (14%)[età media 60 anni]

Figura 1. Flow-chart delle microematurie glomerulari persistenti.

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Attualità in nefrologia pediatrica: le glomerulopatie

della proteinuria, contrapponendosi al meccanismo di “escape” dell’aldosterone, risultato clinico confermato in un recente studio, che ha evidenziato anche una ri-duzione dei livelli di TGF-beta, promotore della fibrosi aldosterone-mediata (Giani et al., 2013).Per quanto riguarda l’uso di ciclosporina A (CsA) nei pazienti con proteinuria e SA, i risultati si sono rivelati piuttosto discordanti e limitati. Nel 2010, il lavoro di Massella et al. (2010) su una casistica di 15 pazienti trattati con tale farmaco ha evidenziato come la CsA sia efficace nel ridurre la proteinuria, ma abbia un ef-fetto temporaneo, con il ritorno ai valori di inizio trat-tamento in meno di 3 anni. Pertanto il suo utilizzo nei pazienti con SA è sconsigliato (Massella et al., 2010).Rimane quindi il fatto che la SA sia comunque da con-siderare oggi malattia necessitante terapia farmacolo-gica con ACE-I.

Le glomerulopatie C3 mediate e la nuova entità anatomo-clinica della glomerulonefrite a depositi isolati di C3

Le glomerulopatie C3 mediateUn’errata regolazione del sistema del complemento è riconosciuta, da anni, come l’evento centrale nella patogenesi di molte nefropatie, tra cui la glomerulone-

frite post-streptococcica (GNPS), la glomerulonefrite membranoproliferativa tipo I e la glomerulonefrite a depositi densi (DDD) (Vernon e Cook, 2012). Anche per la sindrome emolitico-uremica atipica, nonostante un quadro clinico molto differente, è stata documen-tata un’alterata regolazione della via alternativa del complemento.Nel 2010 è stata introdotta la definizione di ‘glome-rulopatie C3-mediate’ (C3G) che comprende tutte le glomerulonefriti dipendenti da tale meccanismo pa-togenetico, alcune già note (DDD), altre solo recen-temente descritte (C3GN e CFHR5, nefropatia eredi-taria endemica in Cipro), le cui caratteristiche essen-ziali sono riassunte nella Tabella  III (Fakhouri et al., 2010; Servais et al., 2013).

Figura 2. Sindrome di Alport: progressione della malattia in rapporto alla terapia con ACE-inibitori (da Gross et al., 2012, mod.).Rispetto ai pazienti non trattati (linea rossa), che hanno la progressione più rapida, l’inizio della terapia con ACE-i nei pazienti con una clearance della creatinina < 60 ml/min ritarda la comparsa di IRT di 3 anni in media (linea gialla). L’inizio della terapia in presenza di sola proteinuria > 0,3 g/die, ritarda la comparsa di IRT di 18 anni in media (linea verde). L’ini-zio della terapia ancora prima dell’insorgenza di proteinuria sembra associato ad assenza di progressione della malattia (linea blu), ma il dato merita uno studio prospettico ad hoc.

Tabella III. Glomerulopatie C3 mediate.

Criteri diagnostici

Presenza di depositi di C3 alla immunofluorescenza

Assenza di Immunoglobuline alla immunofluorescenza

Forme cliniche

Malattia a depositi densi (DDD)

Glomerulonefrite a depositi isolati di C3 (C3GN)

Nefropatia da CFHR5

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A. Edefonti et al.

Eziopatogenesi delle glomerulopatie C3 mediateL’analisi dei dati clinici ed istologici consente di inse-rire la C3GN in uno spettro di malattie ai cui estremi si trovano la glomerulonefrite post-streptococcica e la malattia a depositi densi. In particolare, il reperto istologico alla microscopia ottica della C3GN è, in più della metà dei casi riportati in letteratura, di tipo mem-branoproliferativo (GNMP-like) (Servais et al., 2012).Rimane esclusa da questo spettro la glomerulonefrite membranoproliferativa di tipo I, che viene considerata una malattia da immunocomplessi, comportante anche l’attivazione della via classica del complemento (Fig. 3). La C3GN è un esempio chiave di patologia associa-ta a una errata regolazione della via alternativa del complemento, su base genetica o acquisita (Servais et al., 2007). I principali difetti comprendono le muta-zioni di alcuni fattori di regolazione (CFH, CFI, MCP, CFHR) o dei componenti della via alternativa stessa (C3, CFB), ovvero la presenza di autoanticorpi diretti contro le componenti della via alterna o i fattori di re-golazione, come ad esempio il C3NeF (autoanticorpo diretto contro la C3 convertasi della via alternativa) e gli autoanticorpi anti-CFH (diretti contro il fattore H) (Cook, 2013) (Fig. 4). Molte di queste mutazioni sono state nel passato associate alla patogenesi della SEU atipica e della DDD. Tali realtà cliniche condividono quindi i me-desimi fattori di suscettibilità e a un’attivazione incon-trollata della via alternativa del complemento possono corrispondere malattie fenotipicamente differenti. Nella C3GN, ad esempio, l’infezione sembra funzionare da trigger, determinando un’attivazione della via alterna-tiva che, in presenza di un controllo o funzionamento difettoso della cascata del complemento, rimane persi-stentemente attiva nonostante la risoluzione dell’infe-zione, e continua a depositare prodotti di degradazio-ne, cronicizzando il danno renale (Sethi et al., 2013).

La glomerulonefrite a depositi di C3La C3GN è una glomerulonefrite solo da pochi anni riconosciuta ed ancora oggi non completamente chia-rita dal punto di vista clinico ed istologico. È definita da 3 criteri: (1) depositi isolati di C3 nella biopsia re-nale con tecnica di immunofluorescenza, (2) assenza di altre immunoglobuline (3) quadro ultrastrutturale non tipico per DDD (Servais, 2007; D’Agati e Bom-back, 2012).Dal punto di vista clinico, la malattia insorge con sin-drome nefritico-nefrosica o con microematuria asso-ciata a proteinuria di modesta entità; nel 40% dei casi si associa una riduzione persistente dei livelli di C3, spesso molto bassi (Sethi et al., 2012; Servais et al., 2012). Un’anamnesi positiva per infezione streptococ-cica è stata descritta, in una piccola popolazione, con una frequenza del 55%. La C3GN non è pertanto fa-cilmente distinguibile dagli altri tipi di glomerulonefrite ipocomplementemica, inclusa la GNPS. La persisten-za di sindrome nefrosica, le recidive di macroematu-ria, la persistenza di ipocomplementemia oltre le 12 settimane o di anomalie urinarie, soprattutto proteinu-ria, oltre 6 mesi dall’esordio, devono far ipotizzare una diagnosi diversa rispetto alla GNPS (nella fattispecie MPGN I, DDD, C3GN) e rendono necessaria l’esecu-zione di biopsia renale.L’evoluzione della C3GN è tuttora controversa. Nella serie di Sethi, con periodo medio di follow-up di 25-30 mesi, nessun paziente presentava insufficienza rena-le cronica (Sethi et al., 2012), ma nella casistica di Servais, a 10 anni in media dall’esordio, il 30% dei pa-zienti aveva sviluppato un’insufficienza renale cronica ed un ulteriore 16% aveva presentato valori di protei-nuria elevati (Servais et al., 2012). Il decorso sembra dunque cronico-recidivante, meno aggressivo rispetto alla DDD e con possibili remissioni spontanee nel lun-go periodo. Un attento follow-up, con valutazione pe-

Figura 3. Spettro delle alterazioni anatomopatologiche delle glomerulopatie C3 mediate.La C3GN si pone in uno spettro di continuità tra la glomerulonefrite post-streptococcica e la malattia a depositi densi, quanto a presenza di alterazioni istologiche e depositi ultrastrutturali.

GNPS: glomerulonefrite post-streptococcica; DDD: glomerulonefrite a depositi densi; C3GN: glomerulonefrite a depositi isolati di C3

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Attualità in nefrologia pediatrica: le glomerulopatie

riodica di proteinuria e funzionalità renale, è pertanto fortemente raccomandato.

Terapia della C3GN Le opzioni di trattamento per i pazienti con C3GN sono scarse. I corticosteroidi e gli altri immunosop-pressori, suggeriti dalla natura infiammatoria del qua-dro istologico, hanno dato risultati inconsistenti. Le terapie sintomatiche con ACE-inibitori o antagonisti dell’angiotensina II sono prescritte per il controllo del-la proteinuria e/o dell’ipertensione. Pazienti con una mutazione in uno o più geni codifi-canti per le proteine regolatrici del complemento, che determinano una difettosa funzione della ‘cascata’ complementare (via alternativa), potrebbero essere trattati con infusioni di plasma per sostituire la protei-na alterata, sulla falsariga di quanto è stato effettuato da Licht in due fratelli con DDD e deficit di CFH con risposta soddisfacente (Licht et al., 2006). Recente-mente, eculizumab, anticorpo monoclonale contro la frazione C5 del complemento, è stato utilizzato con parziale successo, sul piano clinico e istologico nel

trattamento delle C3GN (Tab. IV) (Herlitz et al., 2012). Gli studi a disposizione non consentono di giungere a conclusioni definitive riguardo a un possibile vantag-gio derivante dal trattamento con eculizumab.

Nuovi anticorpi monoclonali per il trattamento delle sindromi nefrosiche corticodipendenti e corticoresistenti

Meccanismi patogenetici della proteinuriaLa proteinuria è una manifestazione clinica comune a un gruppo eterogeneo di glomerulopatie caratteriz-zate da sindrome nefrosica, tra cui le più frequenti in età pediatrica sono la malattia a lesioni minime e la glomerulosclerosi focale segmentale.È stato riconosciuto, negli ultimi 15 anni, che una struttura podocitaria alterata, per varie cause, com-promette il meccanismo di filtrazione, con perdita di

Figura 4. Sistema del complemento: vie di attivazione e ‘cascata’ complementare (mod. da Cook, 2013).Tappe della via del complemento nel soggetto normale. Nel cerchio blu le tappe della via alternativa del complemento; nei cerchi rossi i fattori di regolazione, quali CFH e CFI, e il loro punto di azione lungo le fasi della cascata (ad esempio la C3 convertasi per i fattori CFH e CFI).

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A. Edefonti et al.

proteine nelle urine e sviluppo di sindrome nefrosica.L’articolo di Maria Pia Rastaldi (2015), in questo stes-so numero (Genetica e patologia della filtrazione re-nale, pag. 53), consente di stabilire le basi per la com-prensione dei meccanismi patogenetici responsabili del danno podocitario e della recente applicazione di nuovi anticorpi monoclonali per il trattamento dei pa-zienti corticoresistenti.

Positività B7-1 e abataceptRituximab è stato il primo anticorpo monoclonale im-piegato nella sindrome nefrosica del bambino, con successo nelle forme corticodipendenti (Ijima et al., 2014), ma senza risultati significativi nelle forme cor-ticoresistenti, che rimangono quindi difficilmente cu-rabili e progrediscono in pochi anni, almeno nel 50% dei casi, verso l’IRT. Per questo motivo assumono particolare valore due articoli relativi all’uso di nuovi anticorpi monoclonali nella SNCR.E stato recentemente scoperto che i pazienti affetti da GSFS possono essere B7-1 positivi o negativi, in base alla presenza o assenza nei campioni bioptici della proteina B7-1 (Yu et al., 2013). B7-1, nota an-che come CD80, è una molecola co-stimolatoria delle cellule T, espressa sulla superficie di cellule dendri-tiche, cellule NK e linfociti B attivati. Anche i podociti possono esprimere B7-1: infatti l’iniezione di lipopo-lisaccaride (LPS) nei ratti può indurre l’espressione di tale molecola sul podocita e causare proteinuria e scomparsa dei pedicelli (Reiser et al., 2004). Il mec-canismo molecolare responsabile del danno consiste nella inattivazione della beta1 integrina, che conduce al distacco dei processi pedicellari dalla membrana basale glomerulare e quindi allo sviluppo di proteinu-ria. Questo processo può andare incontro a risoluzio-ne con l’impiego di abatacept (CTLA4-Ig), anticorpo monoclonale anti-CD80, inibitore di B7-1. Abatacept, già approvato per il trattamento dell’artrite reumatoide, è stato somministrato a quattro pazienti affetti da GSFS rituximab-resistente, recidivata dopo trapianto di rene, e a un paziente con GSFS primiti-va resistente agli steroidi. I pazienti avevano podociti B7-1 positivi alla biopsia: in tutti i casi si è avuta riso-luzione della proteinuria nefrosica, con ottenimento di una remissione completa o parziale (Yu et al., 2013).

Ofatumumab per i pazienti rituximab-resistentiL’efficacia di un altro anticorpo monoclonale anti CD20, ofatumumab, è stata riportata in una paziente di 19 anni, affetta da sei anni da SNCR da GSFS, resistente a tutti gli immunosoppressori, incluso ritu-ximab. Ofatumumab era stato somministrato per una concomitante leucemia linfatica cronica, in quanto ef-ficace nei tumori a cellule B rituximab-resistenti: nella paziente la remissione completa della proteinuria è stata raggiunta dopo la sesta dose.Visto l’effetto sorprendente, gli autori hanno deciso di somministrare ofatumumab a quattro bambini affetti da SNCR non responsiva a rituximab, due con un quadro istologico di GSFS e due di malattia a lesio-ni minime (Tab. V). L’anticorpo monoclonale è stato somministrato settimanalmente per un totale di sei infusioni, senza il verificarsi di severi effetti collaterali: la remissione è stata raggiunta in tutti i pazienti. Un bambino ha presentato una recidiva a distanza di due mesi, trattata con successo con corticosteroidi, e ha mantenuto la remissione per 6 mesi; negli altri tre casi la remissione è stata mantenuta per tutta la durata dell’osservazione senza necessità di assumere alcun altro farmaco (Basu, 2014). Abatacept e ofatumumab sembrerebbero quindi in-durre la remissione clinica in quei casi per i quali le at-tuali opzioni terapeutiche sono limitate: ci riferiamo al sottogruppo di pazienti (B7-1 positivi) affetti da SNCR da GSFS, la cui evoluzione verso l’IRT è particolar-mente frequente (Yu et al., 2013; Basu, 2014).

Cellule staminali mesenchimali nelle patologie renali proteinuricheDi grande attualità è l’interesse per le proprietà ri-generative tissutali e immunomodulanti delle cellule staminali mesenchimali (CSM), che hanno mostrato un effetto benefico in modelli sperimentali di infarto miocardico, malattie neurologiche, danno renale acu-to (Morigi et al., 2008) e cronico (Zoja et al., 2012).

Proprietà delle cellule staminaliSi tratta di cellule morfologicamente simili ai fibrobla-

Tabella IV. Risultati nei pazienti sottoposti a trattamento con Eculizumab (Herlitz et al., 2012).

ID sCreat Basale

uProt/uCreatBasale

Durata Follow-up

sCr post-trattamento

uProt/uCreatpost-trattamento

DDD1 2 0,7 52 w 1,4 0,5

DDD2 1,2 4,5 52 w 1,7 1,7

C3GN1 1,6 2,6 52 w 2,3 1,4

C3GN2 1,8 4,4 52 w 2,3 3,7

C3GN3 1,7 0,1 52 w 1,4 0,09

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Attualità in nefrologia pediatrica: le glomerulopatie

sti, dotate di un alto potenziale rigenerativo e di pro-prietà immunomodulanti. Per quanto riguarda le proprietà rigenerative, grazie alla capacità di stimolare la secrezione di agenti anti-apoptotici, pro-angiogenici e anti-fibrotici, esse contri-buiscono alla rigenerazione di tessuti danneggiati, tra cui il parenchima renale (Imberti et al., 2007). La loro azione è mediata da un effetto paracrino e dalla li-berazione di vescicole extracellulari, che, contenendo lipidi e diversi trascritti funzionali di mRNA, microR-NA, RNA non codificante e occasionalmente DNA genomico, possono trasferire informazioni genetiche responsabili di modifiche transitorie o persistenti nelle cellule bersaglio (Gatti et al., 2011). Quanto all’azione immunomodulante, sono state di-mostrate l’induzione delle cellule T regolatorie, l’ini-bizione della divisione dei linfociti T attraverso l’arre-sto del ciclo cellulare, il blocco della differenziazione dei linfociti B e delle cellule dendritiche e la riduzione dell’attività delle cellule NK e CTL (Reinders et al., 2010).

Cellule staminali e GSFSLe CSM si sono dimostrate sicure ed efficaci in ma-lattie immunomediate, come la GVHD e il LES: si è pensato quindi di utilizzarle anche per modulare i meccanismi coinvolti nella patogenesi della SNCR da GSFS su base non genetica. Una prima segnalazione di impiego di CSM derivate da midollo osseo si riferisce a un ragazzo di 13 anni, affetto da GSFS, in cui la malattia aveva recidivato

dopo trapianto di rene. A causa della mancata rispo-sta a rituximab e di una risposta solo parziale a fre-quenti sedute di plasmaferesi, che comportavano un impatto negativo sulla qualità di vita, è stato iniziato un ciclo di infusione di CSM midollari. Dopo la terapia cellulare, la proteinuria si è stabilizzata e il paziente non ha necessitato plasmaferesi per 50 giorni: questa risposta iniziale ha condotto ad altri due cicli di CSM, che hanno consentito la stabilizzazione della protei-nuria e l’interruzione della plasmaferesi. Il beneficio legato all’impiego delle CSM è probabilmente dovuto a una modulazione del microambiente infiammatorio: dopo le infusioni si è infatti osservata una riduzione di fattori infiammatori circolanti, quali CD40L, IL-16 o TGF-alfa, e una migliorata funzionalità podocitaria (Belingheri et al., 2013).

Cellule staminali e sindrome di AlportNegli ultimi anni sono comparsi studi sulla terapia del-la SA in modelli animali: l’infusione di cellule del mi-dollo osseo derivate da topi wild type ha comportato una riduzione della proteinuria ed un miglioramento della funzione renale e dell’ultrastruttura glomerulare. Le cellule del midollo osseo sono state evidenziate nei glomeruli e sembrano differenziarsi in podociti ca-paci di esprimere e produrre normali catene α3 e α5 di collagene IV (LeBleu et al., 2009).Ulteriori studi nell’animale da esperimento dovranno confermare queste osservazioni, che aprono prospet-tive terapeutiche per una patologia frequentemente evolutiva verso l’IRT.

Tabella V. Caratteristiche dei 5 pazienti trattati con Ofatumumab (Basu, 2014).

Paziente Età al trattamento

Pregresse terapie

Rapporto proteinuria/creatininuria (mg/mg)

Basale A 6 settimane A 6 mesi

1 19,1 Ciclofosfamide ev, tacrolimus, Rituximab

13,76 0,12 0,14

2 8,6 Ciclofosfamide ev, ciclosporina, tacrolimus,

rituximab

21,17 0,08 0,07

3 7,4 Ciclofosfamide ev, tacrolimus, rituximab, galattosio

9,32 0,15 0,53

4 5,3 Ciclofosfamide ev, ciclosporina, tacrolimus,

rituximab, galattosio

11,21 0,10 0,08

5 6,5 Tacrolimus, micofenolato mofetile, rituximab

9,5 0,09 0,09

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A. Edefonti et al.

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** Recente articolo che descrive l’utilizzo dell’ofatumumab per i pazienti pediatrici resistenti al rituximab.

Belingheri M, Lazzari L, Parazzi V, et al. Allogeneic mesenchymal stem cell infusion for the stabilization of focal seg-mental glomerulosclerosis. Biologicals 2013;41:439-45.

** Primo caso di infusione di CSM in un paziente affetto da GSFS, che ha rag-giunto un equilibrio clinico tale da non dover richiedere trattamenti plasmafe-retici.

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** Articolo che si sofferma sulla impor-tanza di introdurre una nuova classificazio-ne clinico-diagnostica che raggruppa tutte le glomerulonefriti associate a un’alterata regolazione del complemento.

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** Studio italiano che dimostra l’efficacia del triplo blocco del SRAA nel trattamento della sindrome di Alport in termini di ridu-zione dei valori di proteinuria.

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** Primo studio che dimostra come l’in-troduzione precoce di una terapia farma-cologica con ACE-inibitori nella sindrome di Alport sia utile ed efficace nel rallentare l’evoluzione della malattia.

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** Primo studio controllato randomizzato sull’uso del Rituximab nei bambini affetti da SNI corticodipendente o a frequenti re-cidive.

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Box di orientamento

Dopo anni di stasi, anche il mondo delle nefropatie glomerulari sembra essersi risvegliato, grazie a interes-santi contributi sul piano diagnostico e terapeutico.I primi riguardano le malattie del collagene IV, ormai considerate uno spettro di malattie che comprendono sia le forme di sindrome di Alport (SA) a diversa trasmissione genetica, sia la Malattia delle membrane ba-sali sottili. Quest’ultima condivide con la SA alcune mutazioni genetiche e può presentare anch’essa, in età adulta, proteinuria ed evoluzione a IRC/IRT. Le forme familiari di ematuria glomerulare, un tempo classificate come ematuria familiare benigna, richiedono quindi un follow-up prolungato. La terapia di elezione della SA è oggi rappresentata dagli ACE-inibitori, eventualmente associati ai sartani e agli anti-aldosteronici: essi ritardano la progressione verso la IRT in misura dipendente dalla precocità di inizio della terapia.Alcune glomerulonefriti (GN), un tempo considerate acquisite, hanno invece la loro origine in mutazioni ge-netiche dei fattori che regolano la via alternativa del complemento, causandone l’attivazione persistente e il successivo danno renale cronico. Le cosiddette GN C3-mediate comprendono la già nota malattia a depositi densi e la forma recentemente descritta di GN a depositi isolati di C3, che si differenzia dalla classica GN acuta post-streptococcica in quanto caratterizzata da ipocomplementemia persistente, depositi isolati di C3 alla immunofluorescenza e decorso cronico.Nelle sindromi nefrosiche corticoresistenti su base immunologica, da presenza di fattori circolanti respon-sabili del danno podocitario, sono stati utilizzati con successo, per ora in piccole casistiche, nuovi anticorpi monoclonali, come abatacept e ofatumumab. La segnalazione di utilizzo delle cellule staminali mesenchimali in un primo caso di glomerulosclerosi focale segmentaria recidivata su trapianto renale, coronato da parziale risposta terapeutica, conferma le speranze di guarigione per una malattia sinora ritenuta, in gran parte dei casi, incurabile.

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Attualità in nefrologia pediatrica: le glomerulopatie

Kashtan CE, Ding J, Gregory M, et al. Clinical practice recommendations for the treatment of Alport syndrome: a statement of the Alport Syndrome Research Collab-orative. Pediatr Nephrol 2013;28:5-11.

* Nell’articolo vengono proposte delle raccomandazioni per il trattamento dei bambini con sindrome di Alport

LeBleu V, Sugimoto H, Mundel TM, et al. Stem Cell Therapies Benefit Alport Syn-drome. J Am Soc Nephrol 2009;20:2359-70.

* Panoramica dei risultati ottenuti da esperimenti finalizzati a esplorare il poten-ziale di una terapia con cellule staminali nei topi knockout COL4A3.

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* Modello animale di danno renale acuto in cui le cellule staminali midollari aiutano la rigenerazione tubulare e prolungano la sopravvivenza.

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** Interessante studio clinico-genetico

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* Review che indaga le proprietà renopro-tettive delle cellule staminali mesenchimali e il loro potenziale impiego terapeutico.

Rastaldi MP. Genetica e patologia della filtrazione renale. Prospettive in Pediatria 2015;45:53-64.

Reiser J, von Gersdorrf G, Loos M, et al. Induction of B7-1 is associated with nephrotic syndrome. J Clin Invest 2004;113:1390-7.

Rheault MN. Women and Alport syn-drome. Pediatr Nephrol 2012;27:41-6.

** Recente review che esplora la storia naturale delle femmine con sindrome di Al-port X-linked e che discute criticamente sui probabili fattori in gioco nel determinare una prognosi peggiore.

Savige J, Gregory M, Gross O, et al. Expert guidelines for the manage-ment of Alport syndrome and thin base-ment membrane nephropathy. J Am Soc Nephrol 2013;24:364-75.

** L’articolo offre alcune raccomanda-zioni per un corretto inquadramento dia-gnostico della sindrome di Alport e una successiva impostazione del follow-up clinico-terapeutico.

Savige J, Sethi S, Nester CM, et al. Mem-branoproliferative glomerulonephritis and C3 glomerulopathy: resolving the confu-sion. Kidney Int 2012;81:434-41.

Servais A, Frémeaux-Bacchi V, Lequin-trec M, et al. Primary glomerulonephritis with isolated C3 deposits: a new entity which shares common genetic risk factors with haemolytic uraemic syndrome. J Med Genet 2007;44:193-9.

** Prima casistica di pazienti con C3GN descritta in letteratura

Servais A, Noël LH, Roumenina LT, et al. Acquired and genetic complement abnor-malities play a critical role in dense deposit disease and other C3 glomerulopathies. Kidney Int 2012;82:454-64.

** Analisi retrospettiva di dati clinici, ana-tomopatologici e genetici, di un gruppo di pazienti con C3GN.

Servais A, Noël LH, Frémeaux-Bacchi V, et al. C3 glomerulopathy. Contrib Nephrol 2013;181:185-93. 

Sethi S, Fervenza FC, Zhang Y, et al. Atypical postinfectious glomerulonephritis is associated with abnormalities in the al-ternative pathway of complement. Kidney Int 2013;83:293-9.

Sethi S, Fervenza FC, Zhang Y, et al. C3 glomerulonephritis: clinicopathological findings, complement abnormalities, glo-merular proteomic profile, treatment, and follow-up. Kidney Int 2012;82:465-73.

** Studio clinico e genetico di una coorte di pazienti con C3GN.

Temme J, Peters F, Lange K, et al. Inci-dence of renal failure and nephroprotec-tion by RAAS inhibition in heterozygous carriers of X-chromosomal and autosomal recessive Alport mutations.  Kidney Int 2012;81:779-83.

* Lo studio analizza il decorso clinico di eterozigoti di SA-XL e un sottogruppo di pazienti con TBMD.

Vernon KA, Cook HT. Complement in glomerular disease. Adv Chronic Kidney Dis 2012;19:84-92.

* Interessante panoramica sul ruolo del sistema del complemento nella patogenesi di alcune malattie glomerulari.

van der Loop FT, Heidet L, Timmer ED, et al. Autosomal dominant Alport syndrome caused by a COL4A3 splice site mutation. Kidney Int 2000;58:1870-75.

Vivante A, Calderon-Margalit R, Skorecki K. Hematuria and risk for end-stage kid-ney disease. Curr Opin Nephrol Hypertens 2013;22:325-30.

Yu C-C, Fornoni A, Weins A, et al. Abata-cept in B7-1–positive proteinuric kidney disease. N Engl J Med 2013;369:2416-23.

** Studio che apre una nuova via al trat-tamento di malattie renali, documentando l’espressione di una specifica molecola a livello glomerulare.

Zoja C, Garcia PB, Rota C, et al. Mesen-chymal stem cell therapy promotes renal repair by limiting glomerular podocyte and progenitor cell dysfunction in adriamycin-induced nephropathy. Am J Physiol Renal Physiol 2012;303:F1370-81.

* L’infusione di cellule staminali midol-lari in ratti con nefropatia indotta da adria-micina ha esercitato un effetto antiapop-totico e limitato la deplezione di podociti, riducendo la sclerosi e l’infiammazione glomerulare.

CorrispondenzaAlberto EdefontiUOC Nefrologia e Dialisi Pediatrica, Fondazione Cà Granda IRCCS Ospedale Maggiore Policlinico, via Commenda 9, 20122 Milano - E-mail:[email protected]

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Gennaio-Marzo 2015 • Vol. 45 • N. 177 • Pp. 14-24 Prospettive in Pediatria

Nefrologia pediatrica

Terapia della sindrome nefrosica idiopatica: presente e futuro

Andrea Pasini Elena Monti

Giovanni Montini

Programma di Nefrologia e Dialisi Pediatrica,

Azienda Ospedaliero Universitaria Sant’Orsola-

Malpighi, Bologna

Steroids have always been the therapy of choice for idiopathic nephrotic syndrome (INS), yet optimal doses for first episodes and relapses (80% subjects) remain undetermined. In Italy, a recent study has highlighted an alarming lack of homogeneity in INS treatment regimens at onset, which is more evident in pediatric units compared to peditaric nephrol-ogy units. Incongruences can also be seen internationally as although numerous guidelines exist, they are contradictory. The 2012 KDIGO recommendations failed to resolve several controversial issues (duration of steroid treatment for first episodes/relapses, definition of steroid resistance, choice of second-line immunosuppressive drugs), which influence INS-related complications. Possibly, the identification of early indicators of steroid dependence (total steroid dose, response to treatment time, age of onset) and pharmacogenetic studies on glucocorticoid receptors (showing that clinical response and side effects may not be exclusively dose-related, rather they also depend on an increased constitutional sensitiv-ity or resistance) will eventually lead to tailored regimens. The use of rituximab in steroid-dependent subjects requiring powerful immunosuppressive treatment has given excellent results, however longer follow-up is needed to confirm them. Ofatumumab, however, offers a more interesting treatment option for steroid-resistant subjects not affected by genetic forms of the disease. Our contribution will therefore focus on the most recently published data, with the intention of providing useful information regarding a rational and shared therapeutic approach for this disease and for a critical evaluation of the current lines of research.

Summary

Gli steroidi rappresentano da sempre la terapia elettiva della sindrome nefrosica idiopatica (SNI), ma le dosi ottimali da utilizzare per il trattamento del primo episodio e delle ricadute, che avvengono nell’80% dei soggetti malati, non sono ancora definite. In Italia, uno studio recente ha evidenziato un’estrema disomogeneità di trattamento, all’esordio, più evidente nei centri pediatrici (60%) rispetto a quelli di nefrologia pediatrica. Non esistono linee guida in-ternazionali uniformemente condivise; anche le recenti raccomandazioni KDIGO (2012) non hanno risolto alcune aree di controversia e d’incertezza (durata del trattamento steroideo, definizione di steroido-resistenza e scelta degli immunosoppressori di seconda linea). Studi in corso sull’identificazione di indicatori precoci di cortico-dipendenza (tempo di risposta agli steroidi, età all’esordio) e studi di farmacogenetica sui recettori dei glucocorticoidi permette-ranno di adottare terapie immunosoppressive “personalizzate”, allo scopo di ridurre la dose totale di steroide e i conseguenti effetti collaterali. L’uso del rituximab nei pazienti corticodi-pendenti che richiedono una significativa immunosoppressione ha dato ottimi risultati, ma necessita di studi a lungo termine. L’ofatumumab è invece il farmaco più interessante nel trattamento dei soggetti corticoresistenti non affetti da forme genetiche.Il nostro contributo si focalizzerà quindi sui dati più recenti della letteratura, con l’intento di fornire informazioni utili per un approccio terapeutico razionale e condiviso a questa pato-logia e per una valutazione critica delle linee di ricerca attualmente in atto.

Riassunto

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Terapia della sindrome nefrosica idiopatica: presente e futuro

AbbreviazioniCD: corticodipendentiCNIs: inibitori delle calcineurineCR: corticoresistentiFR: frequenti recidiveGSSF: glomerulosclerosi segmentaria focaleIS: immunosoppressoriISKDC: International Study of Kidney Disease in ChildrenKDIGO: Kidney Disease Improving Global Outcomes PDN: prednisone RCTs: studi randomizzati controllati (randomized controlled trials) RR: rare recidiveSNI: sindrome nefrosica idiopatica

Metodologia della ricerca effettuata La ricerca degli articoli rilevanti degli ultimi 5 anni è stata condotta sul motore di ricerca PubMed, utiliz-zando come parole chiave: Idiopathic nephrotic syn-drome, steroid regimen, immunesuppressive drugs, rituximab, steroid dependent, steroid resistant, ofatu-mumab. Sono stati inclusi solo articoli in lingua ingle-se. Sono stati inoltre considerati altri articoli rilevanti pubblicati negli anni precedenti a conoscenza degli autori e altri ricavati dalla bibliografia delle pubblica-zioni tratte da PubMed.

IntroduzioneLa sindrome nefrosica idiopatica (SNI) è una malattia rara (2-7 casi/anno/100.000 soggetti di età 0-14 anni), caratterizzata da proteinuria elevata, ipoalbuminemia ed edemi. Presenta una eziopatogenesi multifattoria-le, su base immunologica, coinvolgente i linfociti T e B, l’immunità innata (toll like receptors) e modificazio-ni epigenetiche (Elie et al., 2012). Le forme cortico-resistenti (CR) presentano alterazioni delle proteine del citoscheletro podocitario e/o fattori circolanti che interagiscono con la membrana basale glomerula-re (Sinha e Bagga, 2012). L’età media all’esordio è 3-4 anni, con il 90% dei casi < 7 anni. È solitamente idiopatica, però esistono forme congenite (esordio <6 mesi di vita) o secondarie a patologie sistemiche e glomerulo nefriti (Tab. I). Solitamente si associa a un quadro istologico di lesioni minime (85%); dopo i 10 anni di età aumenta l’incidenza di forme a prognosi meno favorevole (glomerulosclerosi segmentaria fo-cale, GN membranosa) (Eddy e Symons, 2003).La Tabella  II mostra come vengono classificati i pa-zienti in base alla risposta alla terapia steroidea. L’80-90% di essi è cortico-sensibile (CS); però circa la metà di loro avrà frequenti recidive (FR) o sarà cor-ticodipendente, con la possibilità che la malattia con-tinui anche dopo i 18 anni di età nel 15-25% dei casi, a seconda delle casistiche considerate. La prognosi comunque rimane eccellente, con normale funzione

Tabella I. Cause di sindrome nefrosica in età pediatrica (mod. da Eddy e Symons, 2003).

Cause di SINDROME NEFROSICA PEDIATRICA*

Cause geneticheSindrome nefrosica tipicaSindrome nefrosica congenita (finnish type)Glomerulosclerosi segmentaria focale (GSSF)Sclerosi mesangiale diffusaSindrome di Denys-DrashDisplasia immuno-ossea di SchimkeSindrome di Nail-patellaSindrome di AlportSindromi multisistemiche Sindrome di Galloway-MowatMalattia di Charcot-Marie-ToothSindrome di JeuneSindrome di CockayneSindrome di Laurence-Moon-Biedl-BardetDisordini metabolici Sindrome di AlagilleDeficit di alfa-1 antitripsinaMalattia di FabryAcidemia glutaricaMalattia da accumulo di glicogenoSindrome di HurlerDisordini del metabolismo delle lipoproteineMalattie mitocondrialiDrepanocitosi

SINDROME NEFROSICA IDIOPATICAMalattia a lesioni minimeGlomerulosclerosi segmentaria focale (GSSF)Glomerulonefrite membranosa

Cause secondarieInfezioniEpatite B-CHIV-1MalariaSifilideToxoplasmosiFarmaciPenicillaminaOro, mercurioFarmaci antinfiammatori non steroidei (FANS)PamidronatoLitioEroinaInterferoneMalattie immunologiche o allergicheMalattia di KastlemanMalattia di KimuraPuntura d’apeAllergie alimentariAssociata a malattie maligneLinfoma LeucemiaIperfiltrazione glomerulareOligomeganefronemiaObesità patologicaAdattamento alla riduzione dei nefroni

* Può essere anche conseguente a patologie infiammatorie glo-merulari, solitamente associata a un quadro di glomerulo nefrite (vasculiti, nefrite lupica, GN membrano-proliferativa, nefropatia da IgA)

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A. Pasini et al.

renale e remissione stabile a 10 anni nell’85%. Per evitare gli effetti collaterali legati all’uso prolungato degli steroidi (ipertensione, obesità, osteoporosi, etc.) negli anni sono stati migliorati gli schemi terapeutici e introdotti immunosoppressori (IS) risparmiatori di steroidi. Le dosi ottimali di steroidi all’esordio e nelle recidive non sono state tuttavia ancora definite. I soggetti CR hanno invece una prognosi severa, con rischio elevato di insufficienza renale già a 5-10 anni dalla diagnosi. Devono essere sottoposti a biopsia re-nale, test genetici e, nei casi senza mutazioni, a tera-pia con IS.Il nostro contributo si focalizzerà sulla terapia ste-roidea all’esordio e in corso di recidiva, sui farmaci risparmiatori di steroidi (in particolare il rituximab) e sul trattamento dei soggetti CR. Verranno inoltre bre-vemente presentate le novità nel campo della ricerca e della terapia steroidea personalizzata, sulla scorta di studi di farmacogenomica.

Trattamento steroideo all’esordioL’anamnesi e la valutazione clinica e laboratoristica permettono di escludere le forme secondarie a pato-logie sistemiche e a glomerulonefriti, che necessita-no di un approccio terapeutico legato alla patologia di base. La biopsia renale va eseguita solo in casi sele-zionati (Tab. III). Gli steroidi rappresentano la terapia d’elezione. Il pri-mo protocollo (ISKDC), proposto nel 1966, prevedeva prednisone (PDN) giornaliero per 4 settimane, segui-to da 4 settimane a giorni alterni. L’elevato numero di recidive ha portato a utilizzare schemi con dura-ta e dose totale di PDN maggiori (APN, 1988). Una revisione sistematica della letteratura (Hodson et al., 2000) ha dimostrato che terapie protratte per 3-6 mesi riducevano del 30% il rischio di recidiva. In realtà, un recente RCT su 150 bambini ha chiarito che prolun-gare la durata della terapia, mantenendo la stessa

Tabella II. Definizioni correlate alla Sindrome nefrosica.

Diagnosi SNI Edema,PrU/CrU ≥ 2 mg/mg,ipoalbuminemia ≤ 2,5 g/dL

Remissione completa PrU/CrU < 0,2 mg/mg oAlbumina allo stick urine < 1+ per 3 giorni consecutivi

Remissione parziale Riduzione della proteinuria ≥ 50% PrU/CrU compreso tra 0,2 e 2 mg/mg

Remissione assente Riduzione della proteinuria < 50% PrU/CrU persistentemente > 2 mg/mg

Corticoresistenza (CR) Mancata remissione dopo 8 settimane di terapia steroidea

Recidiva Ricomparsa di PrU/CrU ≥ 2 mg/mg

Rare recidive (RR) < 2 recidive nei primi 6 mesi o < 4 recidive in un successivo periodo di 12 mesi

Frequenti recidive (FR) ≥ 2 recidive nei primi 6 mesi o ≥ 4 recidive in un successivo periodo di 12 mesi

Corticodipendenza (CD) 2 recidive consecutive in terapia steroidea o < 2 settimane dalla sua sospensione

PrU: proteinuria; CrU: creatininuria

Tabella III. Indicazioni per l’esecuzione della biopsia renale e per l’invio al nefrologo pediatra.

Indicazioni per la biopsia renale Indicazioni per l’invio al nefrologo pediatra

All’esordio

• Età < 1 anno • SN secondaria (porpora di Schonlein-Henoch, LES, etc.)• Bassi livelli di C3 e C4, macroematuria o ipertensione

marcata• Insufficienza renale non attribuibile all’ipovolemia• SN associata a sindromi (Denys Drash, Frasier, etc.)

e tumore di Wilms.

• Esordio < 1 aa di vita; storia di familiarità per SN• SN con ipertensione, macro/microematuria persistente,

ridotta funzione renale, e segni extrarenali (artrite, sierosite, rash, etc.)

• Complicanze: edema refrattario, trombosi, infezioni severe, steroido-tossicità

• Corticoresistenza• Forme a frequenti recidive o corticodipendenti

Dopo il trattamento iniziale

• Steroido-resistenza

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Terapia della sindrome nefrosica idiopatica: presente e futuro

dose totale di PDN, non riduce la frequenza delle re-cidive (Teeninga et al., 2013). Rimane da verificare l’efficacia di protocolli con dosi più elevate di PDN. Con questa finalità sono in corso due RCTs, in Gran Bretagna (PREDNOS/2010) e in India (CTRI/2010) che paragonano protocolli con dosi totali diverse di PDN (Hodson e Craig, 2013). Nel frattempo le linee guida internazionali suggeriscono all’esordio schemi terapeutici di 12-18 settimane, con dosi totali di PDN più elevate del protocollo ISKDC (Tab.  IV). In Italia non esistono linee guida condivise. Uno studio ese-guito in 9 regioni ha mostrato un’estrema disomoge-neità di trattamento, più evidente nei centri pediatrici rispetto a quelli di nefrologia pediatrica (Pasini et al., 2014) (Fig. 1). Ciò ha portato all’adozione di un pro-tocollo condiviso dalla Società Italiana di Nefrologia Pediatrica per il trattamento del primo episodio di SNI, riassunto nella Tabella IV.

Trattamento delle recidive L’80% dei bambini CS avrà almeno una recidiva: una metà ne avrà poche (RR), gestibili con brevi cicli di PDN; gli altri diventeranno FR o CD. Il rischio di di-ventare FR-CD è aumentato in caso di tardiva rispo-sta al PDN (>  10 giorni dall’inizio), precocità della prima recidiva (< 6 mesi dall’esordio), età < 4 anni all’esordio e sesso maschile (Nakanishi et al., 2013; Vivarelli et al., 2010). In Italia è in corso uno studio multicentrico (184 soggetti) nel tentativo di persona-

lizzare la dose totale di PDN in base al rischio di recidiva.Soggetti con RR: le diverse linee guida consigliano una terapia steroidea giornaliera fino alla remissione, seguita da 4 settimane di PDN a giorni alterni (Tab. V).Soggetti con FR e CD: la strategia comunemente adottata, ottenuta la remissione, è quella di utilizzare PDN a giorni alterni con decalage prolungati (almeno 2-3 mesi) e, nei CD, di mantenerlo per 9-18 mesi al dosaggio minimo efficace senza steroido-tossicità. Le linee KDIGO nelle situazioni più severe suggeriscono anche un uso giornaliero del PDN, al dosaggio mini-mo efficace (Tab. V).

Farmaci risparmiatori di steroidi Quando la dose di PDN necessaria per mantenere la remissione è > 0,5-0,7 mg/kg a giorni alterni e/o ha comportato steroidotossicità (rallentata crescita, iper-tensione, obesità, etc.), diventa necessario l’utilizzo di farmaci “risparmiatori di steroidi”. Non ci sono RCTs che dimostrino l’assoluta superiorità di un farmaco ri-spetto agli altri e non c’è uniformità di comportamen-to. Posologia, vantaggi e svantaggi sono riportati in Tab. VI e commentati qui di seguito.Levamisolo: in una revisione degli studi pubblicati è ri-sultato in grado di ridurre il rischio di recidiva del 57% (Hodson et al., 2008). Va assunto per 12-24 mesi (dato l’elevato rischio di recidive dopo sospensioni precoci) e in associazione con PDN a basse dosi. È

Figura 1. Studio retrospettivo multicentrico italiano sul trattamento del primo episodio di SNI: durata (A) e dose totale di PDN utilizzato (B). Le linee rosse rappresentano gli intervalli raccomandati dalle recenti linee guida della KDIGO (Kidney Disease Improving Global Outcome, 2012). Si può notare come circa il 35% dei soggetti sia stato sottoposto a trattamen-to steroideo di durata maggiore o con dosi totali di prednisone (PDN) più elevate rispetto quanto suggerito dalle linee KDIGO. Il 15% dei soggetti è stato sottoposto invece a trattamento con durata o dosi totali di PDN inferiori.

A B

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A. Pasini et al.

meno efficace nei CD. Non è in commercio in Italia, ma può essere procurato dalle farmacie.Ciclofosfamide: in passato farmaco di prima scelta nei FR-CD, permette una remissione stabile, di dura-ta variabile, dopo la sua sospensione. Una revisione sistematica della letteratura ha mostrato una maggio-re efficacia nei FR (remissione nel 72% a 2 anni vs 40% nei CD) (Latta et al., 2001). È meno efficace nei maschi e sotto i 4 anni di età (Azib et al., 2011). Ciclosporina (CyA) e Tacrolimus (TAC): la CyA garan-tisce una remissione stabile nel 60-90% dei bambini CD (KDIGO, 2012). Alcuni autori suggeriscono di non superare i 24 mesi di terapia, per il rischio di nefro-tossicità (80% a 4 anni). Uno studio recente ha evi-denziato un maggiore rischio di recidive in età adulta dopo terapia con CyA (Fujinaga et al., 2013), ma va notato che i casi trattati con CyA erano anche quelli piu’ a rischio di continuare la malattia oltre i 18 anni. Il TAC viene usato sempre più spesso per ovviare agli effetti collaterali “cosmetici”della CyA, anche se non ci sono RCTs che dimostrino la stessa efficacia (Dotsch et al., 2006). Anche il suo uso prolungato può essere nefrotossico.Micofenolato Mofetile (MMF): il suo utilizzo nei FR-CD sta aumentando, perché, pur essendo meno ef-ficace della CyA, ha minori effetti collaterali e non è nefrotossico (Dorresteiin et al., 2008). Garantisce una remissione a 6 mesi nel 75% dei soggetti CD, con elevato rischio di recidiva alla sospensione (Baudouin et al., 2012).Rituximab (RTX): rappresenta una svolta importante nella terapia dei CD. È un anticorpo monoclonale anti-CD20, che determina una deplezione temporanea dei B linfociti circolanti. Nato per il trattamento dei linfomi tipo B, numerosi lavori ne hanno dimostrato l’efficacia nella SNCD. Questo risultato conferma il ruolo dell’im-munità B-cellulare nella patogenesi della SN, inizial-mente considerata legata esclusivamente a disrego-lazione dei linfociti T. Il primo RCT è italiano: i bambini CD trattati solo con RTX avevano a 3 mesi la stessa percentuale di remissione di quelli trattati con PDN e CyA (Ravani et al., 2011). Un secondo studio italiano

prospettico (46 bambini) ha mostrato la sua efficacia nel medio termine (remissione senza altra terapia nel 50% dei casi a 6 mesi e nel 20% a 12 mesi, prolun-gata di 4 mesi a ogni infusione successiva) (Ravani et al., 2013). Nel 2014 su The Lancet è apparso uno stu-dio su 48 bambini CD randomizzati a RTX o placebo, che ne ha dimostrato inequivocabilmente l’efficacia (Iijima et al., 2014). Nel commento editoriale si obietta che in realtà i soggetti trattati con RTX non “guarisco-no”, ma passano dalla dipendenza agli IS a quella al RTX, con possibili rischi legati alle ripetute infusioni (Hodson and Craig, 2014). Non è chiaro quindi se il RTX debba essere riservato solo ai severi CD o pos-sa essere un farmaco di prima linea. Non sono inoltre ancora codificati lo schema infusionale migliore (1 o più infusioni settimanali) e la necessità o meno di as-sociare un IS. Particolare attenzione va posta infine al rischio di gravi, anche se rare, reazioni avverse, (miocardite fulminante, fibrosi polmonare fatale, colite ulcerosa, leucoencefalopatia progressiva multifocale) (Sihna e Bagga, 2013).In attesa delle risposte da RCTs con follow-up pro-lungati, il RTX rappresenta un’interessante opzione terapeutica nei CD: le linee KDIGO lo consigliano nei FR-CD che necessitano dell’uso combinato di PDN e IS e/o presentano effetti collaterali severi.

Trattamento dei soggetti CRIl 10-15% circa delle SN pediatriche presenta CR, con rischio di insufficienza renale nel 50% dei casi entro 5 anni dalla diagnosi. Non c’è accordo unanime sulla durata della terapia steroidea necessaria per definire un soggetto CR: le linee KDIGO suggeriscono un trattamento mini-mo di 8 settimane, altri propongono 4 o 6 settimane più tre boli di metilprednisolone. La biopsia renale è necessaria perché il quadro istologico (Lesioni glomerulari minime, Glomerulosclerosi segmenta-ria focale (GSSF) e GN proliferativa mesangiale le più frequenti) può orientare la terapia o definire la prognosi. Circa un terzo delle forme CR (metà dei

Tabella IV. SINEPE (Società Italiana di Nefrologia Pediatrica): trattamento condiviso dell’esordio di Sindrome nefrosica idiopatica e della prima recidiva.

Trattamento dell’esordio di SNI

Prednisone (PDN) Posologia Durata

60 mg/m2 (max 60 mg) Mono o bi-somministrazione giornaliera 6 settimane

40 mg/m2 (max 40 mg) Al mattino a giorni alterni 6 settimane

Trattamento della prima recidiva

60 mg/m2 (max 60 mg) Mono o bi-somministrazione giornaliera Fino al 5° giorno compreso di remissione

40 mg/m2 (max 40 mg) Al mattinoa giorni alterni

4 settimane

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Terapia della sindrome nefrosica idiopatica: presente e futuro

casi familiari e il 25% di quelli sporadici) è dovuto a mutazioni genetiche coinvolgenti struttura o fun-zione del podocita (NPHS1, NPHS2, ACTN4, etc.), l’attività di canali ionici (TRPC6) (Grahammer et al., 2013) o deficit enzimatici (Diomedi-Camassei, 2007) (Fig.  2). Queste forme mostrano generalmente un precoce esordio della proteinuria, resistenza a ste-roidi e IS e progressione verso l’insufficienza rena-le. Uno studio genetico precoce può evitare terapie

inefficaci e dannose e fornire a pazienti e famiglie un counseling genetico e informazioni sulla prognosi. (Giglio et al., 2015)L’approccio terapeutico suggerito dalle linee KDIGO per i soggetti CR è riportato in Figura 3.CyA e TAC sono gli IS di prima scelta e la loro effica-cia va valutata dopo almeno 6 mesi di cura. In caso di remissione, anche parziale, la terapia dovrebbe proseguire per almeno 12 mesi. In letteratura c’è una

Tabella V. Confronto delle linee guida internazionali esistenti sul trattamento della sindrome nefrosica cortico-sensibile.

Children’s NS Consensus

Conference USA, 2009

Haute Authoritè de SantèFrance, 2008

Indian revised guidelines, India

2008

KDIGO international guidelines

2012

Prednisone al 1° episodio

2 mg/kg/die x 6 sett1,5 mg/kg/gg alterni x 6 sett

No decalageDurata: 12 sett

60 mg/m2/die x 4 sett60 mg/m2/gg alterni x 8 sett

Decalage di 15 mg/m2 ogni 2 settDurata: 18 sett

2 mg/kg/die x 6 sett1,5 mg/kg/gg alterni x 6 sett

No decalageDurata: 12 sett

60 mg/m2/die (o 2 mg/kg/die) x 4-6 sett40 mg/m2 (o 1,5 mg/kg) gg alterni x 2-5 mesiCon decalageDurata minima: 12 sett

Prednisone nei pz con RR

2 mg/kg/die fino al 3° ggdi remissione

1,5 mg/kg/gg alterni x 4 sett

60 mg/m2/die fino al 6° gg di remissione

60 mg/m2/gg alterni x 4 sett Decalage 15 mg/m2/gg alt ogni 4 sett

2 mg/kg/die fino al 3° gg di remissione

1,5 mg/kg/die x 4 sett

60 mg/m2/die (o 2 mg/kg/die) fino al 3° gg di remissione

40 mg/m2 (o 1,5 mg/kg) gg alterni x 4 sett

Prednisone nei pz FR e CD

2 mg/kg/die fino al 3° gg di remissione

1,5 mg/kg/gg alterni x 4 sett

Decalage di 0,5 mg/kg/ gg alt in 2 mesi

60 mg/m2/die fino al 6° gg di remissione

60 mg/m2/gg alterni x 4 sett

Decalage di 15 mg/m2/gg alterni ogni 4 sett fino a 15 mg/m2 x 12-18 mesi

2 mg/kg/ie fino al 3° gg di remissione

1,5 mg/kg/die x 4 sett

Decalage di 0,5-0,7 mg/kg/gg alterni e continuare x 9-18 mesi

60 mg/m2/die (o 2 mg/kg/die) fino al 3° gg di remissione

40 mg/m2 (o 1,5 mg/kg) gg alterni condecalage per ≥3 mesiminima dose a gg alterni o giornaliera per mantenere la remissione

Farmaci risparmiatori di steroidi

Nei pz FR:1. CPA 2 mg/kg/die x 12

sett2. MMF 25-36 mg/kg/die

x 1-2 anni3. CyA 3-5 mg/ kg/die o

TAC 0,05-0,1 mg/kg/die x 2-5 anni

Nei pz SD:1. CyA 3-5 mg/ kg/die

o TAC 0,05-0,1 mg/kg/die

2. MMF 24-36 mg/kg/die3. CPA 2 mg/kg/die x 12

sett

Nei pz FR e CD:1. Lev 2,5 mg/kg/gg alterni2. CPA 2 mg/kg/die per 8-12

sett3. CyA 150 mg/m2/die4. MMF 1200 mg/m2/die

Nei pz FR e CD:1. Lev 2-2,5 mg/kg/

gg alt (1-2 aa)2. CPA 2-2,5 mg/kg/

die per 12 sett3. CyA 4-5 mg/kg/

die o TAC 0,1-0,2 mg/kg/die x 1-2 anni

4. MMF 800-1200 mg/m2/die x 1-2 anni

Nei pz FR e CD:1. CPA 2 mg/kg/die x

8-12 sett2. Clorambucile 0,1-0,2

mg/kg/die x 8 sett3. Lev 2,5 mg/kg/gg

alterni x ≥1 anno4. CyA 4-5 mg/kg/die x

≥ 1 anno5. TAC 0,1 mg/kg/

die x ≥ 1 anno se eccessivi effetti estetici di CyA

6. MMF 1200 mg/m2/die x ≥ 1 anno

KDIGO: Kidney Disease Improving Global Outcomes; RR: rare recidive; FR: frequenti recidive; CD: cortico-dipendenti; CPA: ciclofosfami-de; MMF: micofenolato mofetile; CyA: ciclosporina; TAC: tacrolimus; Lev: levamisolo

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A. Pasini et al.

debole evidenza sull’efficacia dell’associazione con steroidi, mentre ACE-inibitori e/o sartanici sono rac-comandati. In caso di insuccesso vengono proposti MMF e/o boli di steroidi, mentre la ciclofosfamide an-drebbe evitata, mancando un’evidenza di efficacia e per la sua tossicità. Alcuni reports mostrano risultati positivi con il RTX, ma un RCT italiano su 31 pazienti in CyA non ha evidenziato miglioramenti nei soggetti randomizzati a ricevere anche 2 infusioni di RTX (Ma-gnasco et al., 2012).La presenza di fattori circolanti “di permeabilità” nel siero di pazienti affetti da SNCR ha indotto già dagli anni 90 all’uso di tecniche di rimozione di plasma o frazioni plasmatiche (plasmaferesi, immunoadsorbi-mento, LDL-Aferesi), applicate in piccole casistiche con risultati incoraggianti.

Novità nel trattamento dei CRPer il trattamento dei soggetti CR che non rispondono alla terapia convenzionale il farmaco più promettente

sembra essere un anticorpo monoclonale Anti-CD20 umanizzato, l’ofatumumab (Basu, 2014), ma altri far-maci sono in corso di sperimentazione: l’adalimumab (anticorpo monoclonale anti-TNF), i tiazolinedioni (approvati dalla FDA per il trattamento del diabete tipo 2) e il galattosio. Sono attualmente in corso anche studi sull’utilizzo di cellule staminali mesenchimali per controllare i fenomeni cellulari e umorali coinvolti nel-la patogenesi della GSSF.Infine da qualche anno la ricerca si sta focalizzando sull’importanza cruciale del podocita: diverse proteine e pathways intrapodocitari, che regolano la sua strut-tura e funzione, giocano un ruolo fondamentale nello sviluppo della malattia. La loro manipolazione potrebbe rivelarsi un suggestivo approccio terapeutico: sono in corso di sperimentazione terapie con inibitori del signa-ling trasmembrana (p38 MAPK) o di citokine (IL-13); o con farmaci (regolatori dell’omeostasi redox) in grado di ridurre lo stress ossidativo, meccanismo coinvolto nella SN (Greenbaum et al., 2012; Wang et al., 2014).

Tabella VI. Posologia, monitoraggio, vantaggi e svantaggi dei farmaci “risparmiatori di steroidi” utilizzati nel trattamento dei soggetti con SN cortico-sensibile a frequenti recidive o cortico-dipendente.

Farmaco Dose Monitoraggio Vantaggi Svantaggi

Levamisolo 2-2,5 mg/kg/gg alterni

Emocromo dopo 2 settimane, poi ogni 3-6 mesi

Remissioni prolungate nei FRPoco costosoPochi effetti collaterali a breve e lungo termine

Necessità in molti casi di associazione con steroidi a basse dosiMeno efficace nei soggetti CDRicadute alla sua sospensioneProblemi di reperimento

Ciclofosfamide 2 mg/kg/die in 2 dosi per 12 sett(dose max 168 mg/kg)

Emocromo ogni 2 settimane permonitoraggio neutropenia

Remissioni prolungate nei FRBreve durata della terapiaPoco costoso

Meno efficace nei soggetti CDPotenziali effetti collaterali a breve e lungo termine (alopecia, nausea, cistite emorragica)Non ripetibile per rischio gonadotossicità

Ciclosporina Dose iniziale:3-5 mg/kg/die in 2 dosi

Livelli ematici 2-12 h dopo l’assunzione(target 400-600 e 40-120 mcg/L)

Remissioni prolungate nei CD

Terapia prolungata per mantenere la remissioneNefrotossicitàIpertricosi e ipertrofia gengivale

tacrolimus Dose iniziale:0,05-0,1 mg/m2/die in 2 dosi

Livelli ematici 12 h dopo l’assunzione(target 4-7 ng/mL)

Remissioni prolungate nei CD

Terapia prolungata per mantenere la remissioneNefrotossicità, rischio diabeteNon approvato per SN in alcuni paesi

Micofenolato mofetile

I sett 400 mg/m2/in due dosiII sett 800 mg/m2/in due dosi da III sett 1200 mg/m2/in 2 dosi

Livelli ematici 12 h dopo l’assunzione(target 1,5-3,5 mcg/mL)

Remissioni prolungate nei CDPochi effetti collaterali (gastrointestinali, diminuzione Hb)

Terapia prolungata per mantenere la remissioneProbabilmente meno efficace degli CNIsAumentato rischio di infezioni

SN: sindrome nefrosica; FR: pazienti con frequenti recidive; CD: pazienti cortico-dipendenti, CNIs: inibitori delle calcineurine (ciclosporina, tacrolimus).

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Terapia della sindrome nefrosica idiopatica: presente e futuro

Indicazioni per l’invio di casi selezionati a Centri specialistici di nefrologia pediatricaLa Tabella III riassume le situazioni in cui è opportu-no il parere specialistico o lo stesso riferimento del bambino con SN a centri specializzati di nefrologia pediatrica, per gli opportuni provvedimenti diagnostici e/o terapeutici.

Nuovi orizzonti: verso una terapia “personalizzata”

La possibilità di prevedere all’esordio l’evoluzione cli-nica della SN, e quindi di utilizzare una terapia “perso-nalizzata”, rappresenta uno degli obiettivi più ambizio-si. I dati clinici e laboratoristici non sono a oggi fattori prognostici affidabili nel predire l’evoluzione, mentre gli studi di farmacogenomica in corso potrebbero for-nire una svolta decisiva (Teeninga et al., 2014).Farmacodinamica. La steroido-sensibilità dei polimor-fonucleati in vitro è risultata correlata alla risposta cli-nica agli steroidi in diverse malattie (artrite reumatoi-de, LES, colite ulcerosa) (De Iudicibus et al., 2007). È attualmente in corso uno studio su 72 bambini trattati per SNI, per verificare se questa correlazione è pre-

Figura 2. Mutazioni genetiche nelle forme di SNC, SNCR e GSSF (da Grahammer et al., 2013, mod.).

Forme genetiche non associate a sindromi

Gene Proteina Trasmissione Fenotipo clinico

NPHS1 Nefrina AR SNC e SNCR infantile

NPHS2 Podocina AR SNCR infantile e pediatrica

CD2AP Proteina associata-CD2 AR SNCR infantile

PLCE1 Fosfolipasi C ε1 AR SNCR infantile e prima infanzia

ACTN 4 Alfa Actinina-4 AD GSSF giovanile e dell’adulto

TRPC6 Canale del calcio TRPC6 AD GSSF giovanile e dell’adulto

COQ2 Coenzima Q2 AR SNCR infantile e pediatrica

Forme associate a sindromi

WT1 WT1 AD Sindrome di Denysh-Drash

LAMB2 Laminina beta2 AR Sindrome di Pierson

LMX1b LIM Hbox TF1 AD Sindrome nail-patella

ITGB4 Integrina B4 AR Epidermolisi bollosa

SNC: sindrome nefrosica congenita; SNCR: sindrome nefrosica corticoresistente; GSSF: glomerulo sclerosi segmentaria e focale; AD: autosomica dominante; AR: autosomica recessiva.

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A. Pasini et al.

sente anche nella SN, permettendoci di individuare già all’esordio i soggetti CD e CR.Farmacogenetica. La diversa risposta individuale agli steroidi dipende da una aumentata sensibilità o resi-stenza ai glucocorticoidi su base genetica recettoria-le, legata a polimorfismi nei geni che codificano pro-teine coinvolte nella farmacodinamica dei glucocorti-coidi (Chiou et al., 2012). Lo studio di tali polimorfismi potrebbe indicarci all’esordio i soggetti CR o CS, e tra questi ultimi i FR o CD (Hammad et al., 2013).

ConclusioniDa oltre 50 anni gli steroidi sono il cardine del tratta-mento della SN, pur essendo ancora in corso studi per definirne durata e dosaggi ottimali. Non esistono linee guida uniformemente condivise; le recenti rac-comandazioni KDIGO sono basate su bassi livelli di

evidenza e sulla pratica corrente. Ugualmente man-cano RCTs di adeguata potenza e follow-up sull’ef-ficacia degli immunosoppressori nei soggetti CD. Il RTX è la più promettente novità terapeutica nei CD, ma necessita di studi a lungo termine. I soggetti CR hanno un alto rischio di progressione verso insuffi-cienza renale e la terapia IS spesso non è in grado di bloccare questa evoluzione, per cui la ricerca di nuovi farmaci è prioritaria. L’ofatumumab è il più interessan-te tra i monoclonali. Nei soggetti CR la scoperta del ruolo del podocita nella eziopatogenesi della SN ha permesso di identificare forme genetiche, per le quali le terapie con IS sono inutili e potenzialmente danno-se. Per queste forme sono in corso studi per terapie specifiche. La correlazione emersa recentemente tra corticosensibilità e parametri farmacogenomici apre nuove e interessanti prospettive verso terapie farma-cologiche “personalizzate”.

Figura 3. Algoritmo del trattamento dei pazienti pediatrici con SN cortico-resistente (da Lombel et al., 2013, mod.).

Assenza di remissione dopo 8 settimane di terapia steroidea

Iniziare inib. della calcineurina per almeno 6 mesi ± basse dosi di steroidi

Continuare inib. della calcineurina per almeno 12 mesi

Considerare arruolamento in RCT

Considerare boli di metilprednisolone ad alte dosi

Considerare aggiunta di micofenolato mofetile

Iniziare ACE-inibitori/ sartanici

Remissione completa/parziale Assenza di remissione entro 6 mesi

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Terapia della sindrome nefrosica idiopatica: presente e futuro

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Iijima K, Sako M, Nozu K, et al. Ritux-

Box di orientamento

• Cosa si sapeva primaGli steroidi sono da sempre la terapia d’elezione per la SNI, anche se non esiste un protocollo unifor-memente condiviso. L’80-90% dei soggetti è CS; di questi circa il 50% presenterà frequenti recidive o corticodipendenza, mantenendo un’ottima prognosi a distanza. I pazienti CR invece sono a rischio di evoluzione verso l’insufficienza renale terminale (il 50% circa a 5 anni dall’esordio) nel caso in cui non rispondano agli immunosoppressori.

• Cosa sappiamo adessoNei soggetti CS il rischio di recidiva sembra essere legato allo schema terapeutico iniziale e ad alcuni fattori di rischio (età all’esordio, tempo di risposta allo steroide, etc.), nonché a una “corticosensibilità” in-dividuale. Nei soggetti CD gli effetti collaterali legati agli steroidi possono essere minimizzati con l’utilizzo precoce di farmaci “risparmiatori di steroidi”. Un terzo dei pazienti CR è affetto da forme genetiche, la cui precoce diagnosi evita un inutile trattamento immunosoppressivo.

• Quali ricadute per la pratica clinicaProtocolli terapeutici con dosi maggiori di steroidi sono indicati nei soggetti a maggior rischio di recidive, individuabili anche grazie alla farmacogenomica. Farmaci risparmiatori di steroidi vanno introdotti pre-cocemente nei soggetti CD; tra questi particolare aspettative sono riposte nel rituximab, la cui efficacia e sicurezza andrà valutata nel lungo termine. Nei soggetti CR è prioritario ricercare nuovi farmaci (nel campo degli anticorpi monoclonali) in grado di incrementare la percentuale di remissione.

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A. Pasini et al.

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** Studio randomizzato, in doppio cieco, che ha stabilito in modo definitivo l’efficacia del RTX nei pazienti con SNI.

Kidney Disease: Improving Global Out-comes (KDIGO) Glomerulonephritis Work Group. KDIGO Clinical Practice Guideline for Glomerulonephritis. Kidney Int Suppl 2012;2:139-274.

** Recenti Linee Guida internazionali sul trattamento dei pazienti CS e CR, basate su revisioni sistematiche o trials rilevanti.

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Ravani P, Magnasco A, Edefonti A, et al. Short-term effects of rituximab in children with steroid- and calcineurin-dependent nephrotic syndrome: a randomized con-trolled trial. CJASN 2011;6:1308-15.

** Primo studio randomizzato sull’efficacia del RTX nel trattamento dei pazienti CD.

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** Studio randomizzato che dimostra come a parità di dose totale di PDN, prolun-gare la durata della terapia non riduce la fre-quenza di recidive, né la percentuale di CD.

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* Questo studio dimostra come la tardiva risposta agli steroidi all’esordio sia un im-portante fattore di rischio di precoci recid-ive e corticodipendenza .

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Corrispondenza

Andrea PasiniProgramma di Nefrologia e Dialisi Pediatrica, Azienda Ospedaliero Universitaria Sant’Orsola-Malpighi, Bologna - E-mail: [email protected]

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Gennaio-Marzo 2015 • Vol. 45 • N. 177 • Pp. 25-31 Prospettive in Pediatria

Nefrologia pediatrica

Le nuove sfide del trapianto renale pediatrico

Licia Peruzzi

SC Nefrologia, Dialisi e Trapianto, AOU Città della Salute e della Scienza di Torino, PO Infantile

Regina Margherita

Kidney transplantation is the best substitutive treatment for renal failure in children, being more frequently proposed even before dialysis as an alternative treatment. Although great improvements in terms of reduction of acute rejection and of therapy related side effects have been made over the last 25 years, long term results are still not fully satisfactory. In fact long term graft survival and morbidity require improvements of immunesuppressive regimens aiming at minimization of side effects as well as at treatments able to induce im-munologic tolerance. Large multicenter studies have brought interesting results in terms of steroids and calcineurin inhibitors; new induction drugs are being experimented also in children with favourable longlasting immunosuppressive drugs spare. Re-transplant is nowadays becoming more frequent due to younger age of first transplants and the increasing burden of complex multisystemic diseases: the problem of highly immunized children requires the adoption of specific treatments to allow a successful and rapid re-transplant.

Summary

Il trapianto di rene è il miglior trattamento sostitutivo per l’insufficienza renale nei bambini, e sempre più spesso viene proposto anche prima della dialisi come trattamento alter-nativo. Anche se nel corso degli ultimi 25 anni sono stati ottenuti grandi miglioramenti in termini di riduzione degli episodi di rigetto acuto e di riduzione degli effetti collaterali correlati alla terapia, i risultati a lungo termine non sono ancora del tutto soddisfacenti. Il miglioramento degli schemi di immunosoppressione è atteso che possa migliorare ulte-riormente la sopravvivenza a lungo termine dell’organo trapiantato e la morbilità. Lo scopo degli studi in corso in questi anni è principalmente concentrato sulla minimizzazione degli effetti collaterali derivanti dalle terapie e sull’identificazione di farmaci in grado di indurre tolleranza immunologica. Grandi studi multicentrici hanno fornito risultati interessanti per la minimizzazione e la sospensione di steroidi e inibitori della calcineurine; nuovi farmaci per l’induzione sono stati sperimentati anche nei bambini con risultati favorevoli duraturi. Il ri-trapianto è oggi sempre più frequente a causa dell’età sempre più giovane dei pri-mi trapianti e il crescente numero di malattie multisistemiche complesse: il problema dei bambini altamente immunizzati richiede l’adozione di trattamenti specifici per consentire il ri-trapianto in tempi rapidi riducendo il rischio di rigetto.

Riassunto

Metodologia della ricerca bibliograficaQuesta rassegna ha preso in considerazione le nuove frontiere di terapia del trapianto di rene nel bambino.

La ricerca bibliografica è stata condotta su Pub Med uti-lizzando le seguenti parole chiave: kidney transplanta-tion AND children; kidney transplantation AND therapy; kidney transplantation AND steroids minimization (limits children); calcineurin inhibitors AND minimization.

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L. Peruzzi

IntroduzioneIl trapianto renale nei bambini rappresenta la miglio-re opzione per il trattamento dell’insufficienza renale cronica e sempre più frequentemente viene proposto come alternativa al trattamento dialitico sostitutivo pri-ma dell’avvio della dialisi.Il trattamento “perfetto” per mantenere a lungo la funzione del rene trapiantato senza effetti collaterali possibilmente inducendone la “tolleranza” è tuttavia ancora un’utopia.Negli ultimi 25 anni infatti i miglioramenti della terapia immunosoppressiva hanno notevolmente ridotto il ri-schio di rigetto acuto e la perdita precoce dell’organo, ma i risultati a lungo termine sia di sopravvivenza del trapianto che di morbilità non sono ancora del tutto soddisfacenti e necessitano della ricerca di nuovi regi-mi immunosoppressivi e di farmaci ancora migliori (Pa-tel, 2014; Van Arendonk et al., 2014; Ellis et al., 2008).Le sfide per migliorare l’andamento a distanza del trapianto renale pediatrico riguardano soprattutto la tolleranza e la minimizzazione degli effetti collaterali derivanti dalle terapie e negli ultimi anni studi collabo-rativi multicentrici hanno portato a significativi miglio-ramenti nei protocolli di minimizzazione degli steroidi e degli inibitori delle calcineurine.Il miglioramento della gestione dell’insufficienza renale e del trapianto e al contempo la complessità delle pro-blematiche delle patologie del bambino rendono spesso necessari trapianti successivi di rene e talora trapianti anche di altri organi solidi (soprattutto fegato e cuore) nelle malattie sistemiche o multiorgano. È quindi in in-cremento il problema dei bambini immunizzati contro numerosi antigeni del sistema maggiore di istocompa-tibilità a causa dei precedenti trapianti. Questi pazienti definiti “iperimmuni” necessitano di schemi di desensi-bilizzazione e di induzione ad hoc per poter affrontare un nuovo trapianto senza il rischio di rigetto immediato. Queste sono le sfide dei prossimi anni del trapianto renale pediatrico.

Il trapianto renale pre-emptive: un’opzione di trattamento dell’insufficienza renale prima della dialisiIl trapianto renale costituisce per i bambini affetti da in-sufficienza renale cronica la terapia di scelta, in quanto rappresenta la migliore opzione per il trattamento degli squilibri metabolici dell’uremia e del disagio psicosociale del bambino e della famiglia: pertanto viene sempre più diffusamente proposto quale opzione alternativa alla dia-lisi quando vi sia la disponibilità di un donatore vivente.Il trapianto prima dell’avvio della dialisi (pre-emptive) seppure non siano disponibili studi controllati su am-pie casistiche pediatriche, ha globalmente risultati migliori sia a breve che a lungo termine e consente di evitare non solo una fase psicologicamente difficile

quale quella della dialisi, ma anche le manovre chirur-giche necessarie per il trattamento sia extracorporeo che mediante dialisi peritoneale e le complicanze po-tenzialmente legate a questi trattamenti. In Italia da alcuni anni il trapianto pre-emptive pe-diatrico è consentito anche da donatore cadavere e i bambini con insufficienza renale avanzata (con filtra-to glomerulare < 15 ml/min/1,73 m2) possono essere iscritti alla lista pediatrica nazionale. Il trapianto pre-emptive ha risultati migliori sulla so-pravvivenza dell’organo a distanza, per la riduzione dei casi di ritardata ripresa funzionale del graft e degli episodi di rigetto (Sinha, 2010). Questi vantaggi sono in parte attribuibili al fatto che il trapianto pre-emptive è più frequentemente da donatore da vivente, quindi pro-grammato nelle migliori condizioni, con riduzione mas-sima dei tempi di ischemia e con buona compatibilità, in parte a fattori legati al ricevente che con un trapianto pre-emptive evita il danno cardiovascolare aggiuntivo legato alla dialisi e tutte le complicanze vascolari e in-fettive legate al trattamento (Perez-Flores et al., 2007).Il momento ideale per effettuare un trapianto renale pre-emptive non è ancora codificato, tuttavia dalla maggior parte delle casistiche emerge il dato del-la non utilità di effettuare il trapianto “troppo presto” quando è ancora possibile una efficace terapia con-servativa magari per anni. Vi è un discreto consen-so nel considerare il GFR stimato inferiore a 15 ml/min/1,73  m2 quale valore soglia per proporre il tra-pianto renale pre-emptive nel bambino.

L’obiettivo di riduzione degli effetti collaterali delle terapie immunosoppressive: protocolli di minimizzazione o sospensione degli steroidi e degli inibitori di calcineurineI protocolli immunosoppressivi utilizzati sinora nel tra-pianto renale pediatrico hanno pressoché azzerato la perdita del rene a breve termine e notevolmente mi-gliorato i risultati di sopravvivenza dell’organo a distan-za con il prezzo tuttavia di non trascurabili rischi legati all’immunosoppressione e agli effetti metabolici indotti dai farmaci. Questi rischi si manifestano soprattutto con aumento di morbilità e mortalità cardiovascolare (Kaidar et al., 2014) per l’effetto cumulativo di steroidi e inibitori di calcineurine, infezioni, tumori e malattie lin-foproliferative legate al trapianto (PTLD). È nata quindi l’esigenza di sperimentare nuovi protocolli di minimiz-zazione sia degli steroidi che degli inibitori di calcineu-rine in sperimentazioni multicentriche internazionali.

Minimizzazione o sospensione degli steroidiLa terapia steroidea, nonostante i numerosi effetti col-laterali, da oltre 40 anni rappresenta la pietra miliare

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Le nuove sfide del trapianto renale pediatrico

della immunosoppressione nel trapianto renale, in associazione ad altri farmaci. Gli schemi immunosop-pressivi che includono lo steroide in associazione a ini-bitori di calcineurine e antimetaboliti sono infatti tuttora quelli più diffusamente utilizzati nonostante molti sforzi siano stati fatti per cercare di ridurre al minimo o evitare la terapia steroidea nel trapianto renale pediatrico.I primi tentativi di sospensione degli steroidi nel tra-pianto renale pediatrico sono stati fatti negli anni 80, con risultati fallimentari per il notevole aumento degli episodi di rigetto acuto pertanto sono stati accantona-ti fino a pochi anni fa quando sono stati proposti pro-tocolli randomizzati controllati con l’utilizzo di nuovi schemi di induzione mediante anticorpi monoclonali.In un primo studio iniziato nel 2001 (Benfield et al., 2010) nel braccio senza steroidi si è osservato non solo un aumento degli episodi di rigetto acuto ma sul lungo termine un aumento dei casi di disordini linfo-proliferativi post trapianto (PTLD) che hanno fatto in-terrompere la sperimentazione nel 2004, concluden-do che nei bambini è possibile sospendere gli steroidi al prezzo di dosi elevate degli altri immunosoppresso-ri con un inaccettabile incremento del rischio di malat-tie linfoproliferative. Risultati migliori sono stati ottenuti più recentemente dallo studio TWIST (Grenda et al., 2010) basato su in-duzione con daclizumab e metilprednisolone seguiti da terapia con tacrolimus e micofenolato mofetile. Il brac-cio senza steroidi li sospendeva in 5° giornata mentre in quello con steroidi la sospensione era discrezionale fra il secondo e il sesto mese post trapianto. L’obiettivo pri-mario era la valutazione del vantaggio della sospensio-ne dello steroide sulla crescita: il braccio senza steroidi a 6 mesi aveva un netto vantaggio, senza significativo incremento degli episodi di rigetto. Il follow-up tuttavia era troppo breve per valutare altri end point come la comparsa di complicanze linfoproliferative.Questo studio è stato prolungato per altri due anni e recentemente sono stati pubblicati i risultati che mo-strano un vantaggio di crescita anche a 1 e 2 anni nei bambini nel braccio che aveva sospeso lo steroide, con un significativo incremento di infezioni virali solo nel primo anno. Sopravvivenza del rene e del pazien-te e funzione renale non differivano nei due gruppi (Webb et al., 2014).Una sperimentazione a lungo termine con follow-up di tre anni è stata curata dal gruppo della Stanford University (Sarwal et al., 2012) che ha proposto un protocollo di minimizzazione degli steroidi utilizzando induzione con daclizumab e mantenimento con tacroli-mus e micofenolato mofetile. Nel braccio senza steroidi daclizumab veniva ripetuto ogni 2 settimane per due mesi a dosaggio elevato mentre nel braccio con ste-roidi daclizumab veniva usato a dosaggio più basso e lo steroide veniva scalato gradualmente fino alla dose di 0,1 mg/kg/die entro sei mesi dopo il trapianto. I due gruppi non avevano differenze significative di funzione del rene trapiantato ne’ significative differenze istologi-

che in biopsie protocollari di controllo. Anche la crescita sul lungo termine non era significativamente diversa, nonostante un vantaggio iniziale a 6 mesi nel braccio senza steroidi. I bambini nel braccio con steroidi aveva-no pressione arteriosa più elevata e colesterolo mag-giore. Quelli nel braccio senza steroidi avevano una maggiore frequenza di episodi di rigetto acuto.La questione della sospensione precoce dello steroi-de nel trapianto renale del bambino è quindi al mo-mento ancora non definitiva e dibattuta e al momento gli schemi proposti non offrono reali sostanziali van-taggi (Pascual et al., 2012).

Minimizzazione degli inibitori delle calcineurineGli inibitori delle calcineurine hanno importanti effetti collaterali (la ciclosporina: irsutismo, neurotossicità, ipertrofia gengivale; il tacrolimus: diabete ed entrambi ipertensione e tossicità renale) e a lungo termine il loro effetto dannoso sul peggioramento della funzione renale non è trascurabile.Negli ultimi anni sono stati quindi sperimentati pro-tocolli diversi per la ricerca di schemi con dosaggi minimi o del tutto privi di inibitori di calcineurine. Ad Atlanta è stato sperimentato un protocollo basato sull’uso del sirolimus in una coorte di bambini a basso rischio immunologico, che avevano ricevuto induzio-ne con basiliximab e mantenimento con TAC, MMF, e prednisone (Hymes e Warshaw, 2011). A 3 mesi dal trapianto è stata eseguita la conversione a sirolimus nei bambini con biopsia negativa per rigetto acuto. Il sirolimus è stato sospeso nel 20% per gli effetti col-laterali (ulcere aftose del cavo orale); l’incidenza di ri-getto non era trascurabile, così come di infezioni virali e di proteinuria. Le conclusioni sono quindi state che l’immunosoppressione a base di sirolimus senza as-sociazione con un inibitore di calcineurine può essere considerata nei pazienti a basso rischio immunologi-co, anche se gli effetti collaterali sono rilevanti.I farmaci inibitori di mTOR (sirolimus ed everolimus) possono interferire con la crescita ossea agendo sulla proliferazione di condrociti della cartilagine di coniuga-zione e sulla trasmissione del segnale dell’ormone del-la crescita: le preoccupazioni degli effetti sulla crescita derivanti dall’uso sull’uso di questi farmaci nel bambino sono state affrontate dal gruppo di Heidelberg (Billing et al., 2013) in uno studio longitudinale con un protocol-lo senza steroidi. Non sono state osservate differenze di crescita nel gruppo di bambini che avevano ricevu-to everolimus in associazione a ciclosporina rispetto a quelli che avevano ricevuto micofenolato. La conclusio-ne è stata quindi che basse dosi di everolimus in asso-ciazione a un inibitore di calcineurine non avevano un impatto negativo sulla crescita nei bambini sottoposti a trapianto di rene in epoca prepubere. Un farmaco proposto di recente nei protocolli senza inibitori di calcineurine è il belatacept, una proteina di fusione costituita dal frammento Fc di IgG1 umana le-

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gata al dominio extracellulare di CTLA-4, fondamen-tale per la co-stimolazione dei linfociti T. Belatacept è un agente promettente per consentire immunosop-pressione senza steroidi e senza inibitori di calcineu-rine, in associazione con sirolimus, dopo induzione con alemtuzumab (Kirk et al., 2014).

L’utopia della tolleranza immunologica: nuovi farmaci per l’induzione dell’immunosoppressione Alemtuzumab (Campath-1H) è un anticorpo monoclo-nale umanizzato diretto contro CD52, una glicoprotei-na espressa su linfociti T e B, monociti e cellule natural killer che rappresenta una nuova interessante opzione per l’induzione dell’immunosoppressione, con buoni ri-sultati anche nei bambini (Li et al., 2010; De Serres et al., 2012; Ratzinger et al., 2003; Kirk et al., 2003).Questo farmaco induce dopo una singola somministra-zione, una deplezione rapida e prolungata di linfociti circolanti che determina una sorta di tolleranza all’or-gano trapiantato, consentendo il risparmio di inibitori delle calcineurine (Calne et al., 1998) e di steroidi con buoni risultati a medio termine (Kaabak et al., 2013).L’alemtuzumab somministrato al momento del tra-pianto in associazione ai boli di metilprednisolone standard da 10  mg/kg ha consentito in una coorte di bambini di sospendere gli steroidi dopo 4 giorni e di mantenere il tacrolimus in monoterapia con target

8-10 ng/ml. Il micofenolato è stato aggiunto soltanto nei casi ad alto rischio immunologico o con ritardata ripresa funzionale (Sung et al., 2013). L’incidenza di rigetto e di infezioni virali è stata bassa e la sopravvi-venza dell’organo a 3 anni del 100%.Questi dati sono stati confermati anche da un altro studio pediatrico con alemtuzumab, tacrolimus e micofenolato con minimizzazione dei corticosteroidi (Supe-Markovina et al., 2014) e follow-up di 7 anni. Tutti i bambini hanno avuto ripresa funzionale imme-diata, eccellente sopravvivenza del trapianto (95%) e non si sono osservate infezioni da citomegalovirus, polioma BKV né PTLD. Questo farmaco quindi rappresenta una nuova inte-ressante opzione per l’induzione dell’immunosop-pressione attraverso la creazione di una sorta di am-biente tollerante al trapianto consentendo il risparmio di steroidi e inibitori di calcineurine anche negli anni successivi, senza incremento del rischio di rigetto e con riduzione degli episodi di infezione virale e malat-tia linfoproliferativa (Kuypers, 2014; 3C Study Collabo-rative Group, 2014).

Il problema dei bambini iperimmuni: protocolli di desensibilizzazione per rendere possibile un nuovo trapiantoLa “sensibilizzazione” è una situazione in cui si veri-fica la produzione di anticorpi anti HLA dopo esposi-

Figura 1. Schema del meccanismo d’azione dei farmaci immunosoppressori.

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Le nuove sfide del trapianto renale pediatrico

zione ad antigeni HLA estranei: più frequentemente avviene dopo trasfusioni di sangue con globuli rossi non adeguatamente lavati o filtrati. Questa procedu-ra, non sempre disponibile, consente di eliminare la contaminazione da parte di cellule che esprimono antigeni HLA (leucociti e piastrine) riducendo l’espo-sizione e la produzione di anticorpi. Tuttavia l’origine principale della sensibilizzazione per i bambini affet-ti da insufficienza renale è il trapianto, sia ancora in sede che perso, sia per una problematica acuta che cronica (Chaudhuri et al., 2013).Negli ultimi anni il miglioramento delle tecniche di identificazione degli anticorpi diretti contro antigeni HLA del donatore (definiti anticorpi donatore specifici o DSA) ha consentito l’identificazione di un ruolo pre-cedentemente insospettato di questi anticorpi nella patogenesi sia del rigetto acuto che del rigetto cronico (Ginevri et al., 2012; Salvadori e Bertoni, 2014; Pape et al., 2014). Le nuove tecniche di citofluorimetria utilizzate per studiare la presenza di anticorpi anti-HLA hanno una sensibilità molto superiore rispetto ai test utilizzati in passato evidenziando pannelli di anticorpi di cui alcu-ni sicuramente capaci di legare il complemento e di indurre lisi cellulare complemento mediata e quindi ri-getto iperacuto, altri invece verosmilmente con minore affinità per il complemento, ma ugualmente capaci di legarsi a endotelio e cellule tubulari attivate e poten-zialmente favorenti il rigetto acuto. La presenza di anticorpi anti HLA diretti contro nume-rosi antigeni, spesso a titolo elevato, in bambini can-didati a un nuovo trapianto di rene dopo il fallimento di un primo trapianto, determina una situazione che viene definita di “sensibilizzazione” o di “iperimmunità”. In questa condizione la probabilità di trovare un nuovo donatore in tempi rapidi è notevolmente ridotta poiché gli antigeni HLA contro i quali il ricevente abbia anti-corpi con reattività elevata, definiti “antigeni proibiti”, devono essere esclusi dall’abbinamento per l’alloca-zione degli organi per l’elevato rischio di rigetto ipera-cuto anticorpo mediato. Qualora si identifichi la presenza di anticorpi anti HLA diretti contro oltre il 50% dei possibili antigeni HLA pre-senti nella popolazione generale (PRA > 50%) si rende necessaria una procedura di desensibilizzazione per aumentare le possibilità di ricevere un trapianto. Diversi protocolli sono stati utilizzati sia negli adulti che nei bambini che prevedono l’utilizzo della pla-smaferesi o dell’immunoadsorbimento per rimuovere gli anticorpi già presenti, di immunoglobuline ad alto dosaggio per indurre saturazione competitive dei re-cettori reticolo endoteliali e rituximab per ridurne la nuova formazione (Salvadori e Bertoni, 2014).Questi trattamenti non sono scevri da complicanze sia legate alle metodiche stesse, in particolare per la necessità di posizionamento di cateteri venosi centrali per le metodiche aferetiche, sia all’aumentato rischio infettivo. L’effetto delle desensibilizzazioni è transitorio,

seguito in genere da una fase di rebound. Qualora non si riesca a reperire un donatore idoneo nell’intervallo finestra questi trattamenti devono essere ripetuti.Data la relativa rarità di questa condizione e la com-plessità dei casi pediatrici non sono disponibili dati derivanti da studi controllati ma soltanto da piccole casistiche o case reports.Nei bambini le perplessità sull’utilizzo della plasma-feresi, con le problematiche sia infettive che trom-botiche legate alla necessità del catetere venoso centrale, hanno indotto un maggiore utilizzo delle immunoglobuline ad alto dosaggio, con risultati com-plessivamente soddisfacenti (Al Uzri et al., 1992; Tyan et al., 1994). Questo protocollo effettuato nei bambini prevedeva un ciclo di tre infusioni di Ig settimanali al dosaggio di 500 mg/kg, ripetuto ogni 3 mesi e riusciva a ridurre la presenza di anticorpi anti HLA per tre anni. Negli adulti le immunoglobuline da sole non sono risulta-te altrettanto efficaci pertanto sono state frequentemente affiancate al rituximab e talora anche alla plasmaferesi. Questi schemi sono stati anche utilizzati nel bambino. Il rituximab da solo non riduce il livello di anticorpi anti HLA, ma impedendo l’espansione clonale delle cellule B sul medio termine riduce la produzione anticorpale. Il vantaggio del rituximab (1 g /1,73 m2) per i bambini è la grande esperienza acquisita in questi anni derivante dall’utilizzo nella sindrome nefrosica; in questo ambito sono state registrate basse incidenze di infezioni e di complicanze gravi e effetti di riduzione della produzio-ne di anticorpi persistenti anche oltre un anno. Questo farmaco consente di evitare il posizionamento di un ac-cesso vascolare centrale e non necessita di infusioni ripetute, ed è quindi molto maneggevole per l’età pe-diatrica. Anche nei bambini è stato somministrato dopo la plasmaferesi per il consolidamento a lungo termine della deplezione anticorpale (Jackson et al., 2014).Un altro farmaco in fase di sperimentazione per la prevenzione del rigetto umorale acuto è l’eculizumab, anticorpo monoclonale contro il fattore C5 del comple-mento, che impedisce il meccanismo di lisi mediata dal complemento innescato dalla presenza di anticorpi anti HLA preformati. Non vi sono ancora risultati pro-venienti da studi controllati, ancora in corso, ma emer-gono segnalazioni di usi sporadici con buon successo.

ConclusioniNonostante il netto miglioramento dei risultati in ter-mini di prevenzione e controllo del rigetto acuto del trapianto renale pediatrico i risultati a lungo termine non sono ancora del tutto soddisfacenti.Nuovi schemi di trattamento sono in sperimentazio-ne per ridurre gli effetti collaterali degli steroidi e degli inibitori di calcineurine, e nuovi farmaci sia per l’indu-zione che per il mantenimento dell’immunosoppres-sione sono in fase di studio e risultati preliminari sono incoraggianti; tuttavia saranno necessari alcuni anni prima di avere dati sugli esiti a lungo termine.

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Box di orientamento

• Cosa si sapeva primaIl trapianto renale è la migliore opzione di trattamento dell’insufficienza renale cronica del bambino ma a prezzo di una terapia immunosoppressiva per tutta la durata della vita. I principali effetti collaterali si manifestano sull’accrescimento e come incremento di rischio di morbidità secondaria alla situazione di immunosoppressione (infezioni, tumori, malattia linfoproliferative).

• Cosa sappiamo adessoLa possibilità di effettuare un trapianto renale prima dell’avvio della dialisi è consentita sia da donatore vivente che da donatore cadavere negli stadi avanzati dell’insufficienza renale, permettendo di evitare le complicanze legate al posizionamento degli accessi per il trattamento dialitico (sia extracorporeo che me-diante dialisi peritoneale) che le complicanze soprattutto cardiovascolari legate alla dialisi. Nuovi schemi di terapia immunosoppressiva hanno esplorato la possibilità di risparmiare o evitare sia gli steroidi che gli inibitori di calcineurine con risultati soddisfacenti. Nuovi farmaci per l’induzione possono consentire il risparmio di questi farmaci senza aumentare il rischio di rigetto e altre complicanze.

• Ricadute sulla pratica clinicaI buoni dati di sopravvivenza a distanza dei reni trapiantati anche nei bambini piccoli incoraggiano a con-siderare il trapianto renale quale opzione alternativa alla dialisi e impongono oggi un’attenzione sempre maggiore alla riduzione degli effetti collaterali delle terapie immunosoppressive. Una corretta politica trasfusionale, l’attenzione alla comparsa di anticorpi anti HLA e il trattamento di desensibilizzazione pos-sono consentire un rapido ritrapianto anche nei casi in cui si sia verificata la perdita del rene.

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Corrispondenza

Licia PeruzziSC Nefrologia, Dialisi e Trapianto, AOU Città della Salute e della Scienza di Torino, PO Infantile Regina Margherita, piazza Polonia 94, 10126 Torino - Tel. +39 011 3131-761 - Fax +39 011 663-5543 - E-mail: [email protected]

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Gennaio-Marzo 2015 • Vol. 45 • N. 177 • Pp. 33 Prospettive in Pediatria

Neonatologia

La nascita pretermine costituisce il 7-10% di tutte le nascite, e in alcuni casi, come negli Stati Uniti, sembra arrivare fino al 12%. La tendenza non è certo in diminuzione, alcuni studi epidemiologici ne indicano addirittura un aumento. Le motivazioni sono sicuramente molteplici e sembrano derivare, quanto meno nel mondo occi-dentale, dal crescente utilizzo delle tecniche di inseminazione artificiale (Assisted Reproductive Technology, ART), dagli stili di vita, dall’innalzamento dell’età delle primipare e da tanti altri fattori che si differenziano di nazione in nazione. Sebbene la maggior parte dei pretermine nasca tra le 34 e le 37 settimane di gestazione (si ricorda che una gravidanza si definisce pretermine quando avviene prima del compimento della 37a settimana di gestazione), i neonati che più preoccupano sono quelli che nascono al di sotto delle 28-30 settimane di ge-stazione. La maggior preoccupazione è negli esiti a distanza, specie nei risvolti e nelle proiezioni prognostiche di ordine neurologico. I due aggiornamenti presenti in questo numero e relativi al problema della nutrizione e delle peggiori complicanze della ventilazione meccanica (displasia broncopolmonare) sono l’esempio di come sensibili miglioramenti della pratica medica generale hanno permesso un miglioramento dell’outcome neurolo-gico. Questo perché molte delle complicanze della prematurità vanno poi a incidere sul benessere neurologico a distanza, anche quando non influenzano direttamente l’insorgenza di lesioni cerebrali. Il fermento scientifico che ha permesso questi sensibili miglioramenti è testimoniato proprio dagli scritti presenti in questo numero. Una ulteriore specializzazione delle branche della moderna neonatologia, ha permesso, a dispetto di quanto si creda, una decisa riduzione delle complicanze della prematurità ed anche dei costi sociali derivanti dagli handicap legati alla prematurità, nonostante un sensibile aumento della sopravvivenza dei neonati con età gestazionali più basse. Si pensi che nelle classifiche delle patologie mediche che comportano maggiori costi di gestione per l’intera comunità medica e sociale, gli esiti da complicanze della prematurità erano al 13° posto nel 1990, mentre oggi sono al 25° posto, nonostante un significativo e impensabile aumento della sopravviven-za dei nati pretermine di età gestazionale di 23-26 settimane, osservata negli ultimi dieci anni.

Luca Ramenghi

IRCCS Istituto Pediatrico Giannina Gaslini, Genova

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Gennaio-Marzo 2015 • Vol. 45 • N. 177 • Pp. 35-40 Prospettive in Pediatria

Neonatologia

Update sulla displasia broncopolmonare: novità in tema di prevenzione e terapia

Maria Pierro Fabio Scopesi

Luca Ramenghi

Patologia Neonatale, IRCCS Istituto Pediatrico Giannina

Gaslini, Genova

Bronchopulmonary dysplasia (BPD), considered one of the major complications of prema-ture birth, is still lacking a safe and effective treatment. Few respiratory strategies seems to be able to partially prevent BPD. Recently, increasing attention has been focused on the use of stem cells to regenerate damaged organs. Mesenchymal stem/stromal cells (MSCs) are currently under investigation in the attempt to provide a definitive treatment for babies affected by BPD.

Summary

La broncodisplasia (BPD), considerata una delle principali complicanze cliniche della pre-maturità, manca ancora di un trattamento sicuro ed efficace. Alcune strategie respiratorie sembrano essere in grado di prevenire, almeno in parte, la BPD. Negli ultimi anni, l’utilizzo di cellule staminali per rigenerare organi permanentemente danneggiati ha attratto sempre crescenti attenzioni. Le cellule staminali mesenchimali (MSCs) sono attualmente in fase di studio nel tentativo di fornire un trattamento risolutivo per i bambini affetti da BPD.

Riassunto

Metodologia della ricerca bibliograficaI dati per questo articolo sono stati selezionati trami-te una ricerca su Medline con le parole chiave “bron-chopulmonary dysplasia”, “prevention” e “therapy “ con data di pubblicazione dal 2011 al 2015 ed esclusiva-mente in lingua inglese. La ricerca ha prodotto 236 pubblicazioni. Le citazioni sono state utilizzate sulla base della rilevanza per il tema. Sono stati inclusi an-che gli studi più importanti relativi alla broncodispla-sia, di cui gli autori erano a conoscenza, anche se pubblicati in una data precedente al 2011.

IntroduzioneLa BPD è una forma di malattia polmonare cronica che colpisce esclusivamente i neonati prematuri, per cui rappresenta una delle complicanze più frequenti e invalidanti (Farstad et al., 2011). La BPD si origina

come conseguenza di un arresto di sviluppo polmona-re, esacerbato di stimoli infiammatori pre e post-natali. Nonostante il progresso delle tecniche di assistenza neonatale, questa patologia rappresenta tuttora una problematica estremamente invalidante per i neonati prematuri, con conseguenze a lungo termine che ar-rivano fino all’età scolare e in alcuni casi all’età adulta.

ObiettivoObiettivo di questa revisione è quello di descrivere i nuo-vi approcci in termini di prevenzione e potenziali opzioni terapeutiche innovative per il trattamento della BPD.

Definizione e incidenzaLa definizione di BPD, così come la sua stessa fi-siopatologia, si sono modificate significativamen-te rispetto alla prima descrizione che risale al 1967 (Northway et al., 1967). Attualmente, la definizione

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più utilizzata classifica i neonati di età gestazionale inferiore alle 32 settimane che hanno necessitato di ossigenoterapia per almeno 28 giorni in tre gruppi di gravità, sulla base del tipo supporto respiratorio e di concentrazione di ossigeno che richiedono a 36 setti-mane postmestruali (PMA) (Jobe e Bancalari, 2001).L’incidenza di BPD può variare dal 68 al 40% nei neo-nati tra 22 e 28 settimane, a seconda della definizione considerata. Nonostante l’innegabile progresso della qualità della assistenza neonatale, la maggior parte degli studi riportano un’incidenza di BPD stabile o ad-dirittura aumentata nel corso degli ultimi 2 o 3 decen-ni, probabilmente come conseguenza dell’aumento di sopravvivenza dei neonati più prematuri e a più alto rischio di complicanze (Stoll et al., 2010).

FisiopatologiaArresto di sviluppo polmonareLa BPD viene distinta in “vecchia” e “nuova” sulla base dell’evoluzione fisiopatologica della malattia stessa. La “vecchia BPD”, descritta negli anni ’60, si sviluppava come conseguenza di un approccio ventilatorio estremamente aggressivo in termini di pressioni di picco e concentrazioni di ossigeno su un polmone relativamente maturo (>  32 settimane di gestazione), ma carente di surfattante. Dal punto di vista istologico la “vecchia BPD” è caratterizzata da un danno diffuso delle vie aeree con ipertrofia muscolare liscia delle arteriole polmonari, infiam-mazione neutrofila, e fibrosi parenchimale. Grazie al miglioramento delle tecniche ventilatorie, all’in-troduzione della terapia steroidea prenatale per ac-celerare la maturazione polmonare e del surfattante esogeno, i neonati di età gestazionale superiore alle 32 settimane rarissimamente soffrono di complican-ze polmonari croniche. Allo stesso tempo l’aumento della sopravvivenza di neonati estremamente pre-termine ha portato alla comparsa di una forma di malattia polmonare chiamata “new BPD”, tipica dei bambini nati nelle fasi precoci dello sviluppo polmo-nare (22-28 settimane di gestazione) (Jobe e Ban-calari, 2001). La “nuova BPD” costituisce l’espres-sione di un disturbo dello sviluppo polmonare, più che di un danno iatrogeno. Le componenti di fibrosi e infiammazione sono pertanto meno rappresenta-te. Istologicamente, i polmoni dei pazienti affetti da “nuova BPD” vengono “arrestati” nella fase di svilup-po polmonare in cui sono nati e sono caratterizza-ti da un minor numero di alveoli morfologicamente ingranditi e semplificati rispetto agli alveoli dei nati a termine (Coalson, 2003). La “nuova BPD” è inol-tre caratterizzata da una distribuzione anomala dei vasi polmonari e da una riduzione del numero delle piccole arterie, che sono funzionalmente iperreattive e ipertoniche, comportando ipertensione arteriosa polmonare e ipertrofia ventricolare destra (Rossor e Greenough, 2014).

La BPD come malattia “multifattoriale”Fattori infiammatori prenatali quali le corionamnioniti associati a fattori postnatali, tra cui il danno da venti-lazione (VILI), l’ edema polmonare da dotto di Botallo pervio e lo sviluppo di infezioni, possono attivare una cascata di fattori infiammatori, tradotti in processi di necrosi cellulare e riparazione fibrotica del polmone che, essendo ancora in fase di precoce differenzia-zione, va incontro a ulteriore alterazione dei processi di alveolarizzazione e vasculogenesi (Speer, 2006). Infine, la suscettibilità genetica nell’espressione di geni cruciali per la produzione del surfattante, per lo sviluppo vascolare, e per la modulazione dell’infiam-mazione sembrano avere un ruolo, seppur non com-pletamente codificato, nello sviluppo della nuova BPD (Shaw e O’Brodovich, 2013).

Prevenzione della BPD: dati salienti emersi dagli studi considerati

Interpretazione degli studi consideratiApproccio in Sala Parto: la sustained lung inflationÈ ormai dimostrato che anche i primi atti respiratori a pressione positiva in sala parto possano generare un danno polmonare persistente e predisporre allo sviluppo di BPD. Alla nascita, il polmone passa da or-gano secretivo, deputato alla produzione del liquido necessario al suo stesso sviluppo durante la vita feta-le, all’organo responsabile della respirazione in aria. Questo processo prevede il veloce riassorbimento, da parte del polmone stesso, del liquido polmonare feta-le grazie all’attivazione dei canali epiteliali del sodio ed è significativamente rallentato nel neonato prema-turo, soprattutto se nato da taglio cesareo. Di conse-guenza, il polmone del neonato prematuro nei primi minuti di vita è particolarmente disomogeneo, in parte areato e in parte ancora ripieno di liquido. Qualora si renda necessaria la ventilazione a pressione positiva, il volume di scambio erogato (volume tidal), anche se teoricamente adeguato, si distribuisce preferenzial-mente alle unità alveolari già aperte determinando una sovradistensione delle stesse e ulteriore schiac-ciamento meccanico delle aree non ancora espanse, con innesco del volu/biotrauma (Jobe et al., 2008). Nel tentativo di favorire la rimozione di liquido polmona-re alla nascita ed evitare l’innescarsi del danno polmo-nare che potrebbe aumentare il rischio di BPD, è stata introdotta la tecnica della “sustained lung inflation” (SLI). La SLI viene eseguita applicando una pressione in ma-schera alla vie aeree di 20-25 cmH2O per circa 10-20 secondi prima di iniziare la ventilazione a pressione positiva intermittente. Numerosi studi animali hanno dimostrato l’efficacia di questa tecnica. Recentemente, nel più ampio studio randomizzato controllato (RCT), in cui sono stati arruolati 291 neonati di età gestazionale

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Displasia broncopolmonare

compresa tra 25 e 28 settimane, la necessità di ven-tilazione meccanica nelle prime 72 ore era ridotta nel gruppo SLI (53 vs 65%; P = 0,04), ma non sono state dimostrate differenze nell’incidenza di BPD (outcome secondario) (Lista et al., 2015). Nonostante i presup-posti teorici e preclinici supportino l’utilizzo di questa metodica, l’evidenza scientifica non è tale, al momento, da portare a un cambiamento della pratica clinica. Un RCT sugli effetti della SLI nel ridurre l’incidenza di BPD è attualmente in corso (Foglia et al., 2015).

Surfattante esogenoIl surfattante polmonare è un’emulsione di lipidi, protei-ne e carboidrati, disposto a formare un film tra la su-perficie alveolare e i gas atmosferici, che rende possi-bile la riduzione della tensione superficiale, miglioran-do l’uniformità dell’inflazione, stabilizzando il volume e la forma degli alveoli e favorendo la ventilazione. Il surfattante inizia a essere prodotto in minime quantità a partire dalle 26 settimane, mentre la sua produzione diventa adeguata solo dopo le 34 settimane di gesta-zione. La scoperta del surfattante di origine animale, ha modificato il volto della neonatologia in termini di so-pravvivenza dei neonati pretermine. Tuttavia, l’eviden-za scientifica sulla capacità del surfattante di prevenire la BPD non è univoca. Bisogna tener presente che il timing della somministrazione e la tecnica di sommini-strazione del surfattante hanno sicuramente un impatto importante nella prevenzione della BPD.

Timing del surfattante: profilassi vs somministrazione precoce vs somministrazione tardivaIn seguito alle metanalisi di studi che risalgono al

2010, le ultime linee guide europee suggeriscono una somministrazione selettiva e non più una sommini-strazione profilattica a tutti i neonati di età inferiore alle 27 settimane. Tuttavia, la somministrazione di surfattante, non deve essere troppo tardiva e bisogna evitare di superare concentrazioni di ossigeno supe-riori al 35-40% prima di somministrare il surfattante nei primi giorni di vita (Sweet et al., 2013) La som-ministrazione selettiva di surfattante, rispetto a quella profilattica, diminuisce significativamente l’incidenza di BPD e BPD/morte (DiBlasi, 2011). La somministra-zione selettiva precoce migliora la sopravvivenza e riduce il rischio di complicanze quali il pneumotorace e BPD, rispetto a quella selettiva tardiva (Bahadue e Soll, 2012).

Nuove tecniche di somministrazioneIl surfattante deve essere somministrato localmente per via endotracheale, durante la ventilazione mecca-nica oppure durante l’assistenza in nasal continuous positive airway pressure (NCPAP), attraverso una breve intubazione (INSURE) con immediata estuba-zione e riposizionamento del bambino in NCPAP. La tecnica INSURE, ormai in uso da più di 15 anni, sem-bra essere associata a una ridotta incidenza di BPD (Stevens et al., 2007). Recentemente, è stata descritta una nuova tecnica, la minimally invasive surfactant therapy (MIST), meno invasiva rispetto alla tecnica INSURE, che consiste nell’utilizzo di un sottile catetere per la somministra-zione del surfattante. Questa tecnica sembra ridurre la necessità di ventilazione nelle prime 72 ore e essere associata con un trend di riduzione della BPD (More et al., 2014). Il limite di questa tecnica risiede nella sua

Figura 1. Sezioni in ematossilina-eosina da polmone di neonato gravemente pretermine (23 settimane) deceduto per broncodisplasia; ingrandimenti 10x (A) e 20x (B). Polmoni in fase canaliculo-sacculare con assenza di creste secondarie tipiche della fase alveolare (*). Gentile concessione del Prof. Ezio Fulcheri, IRCCS, Istituto Giannina Gaslini, Genova.

A B

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“learning curve”; per questo dovrebbe essere effettuata solo nei centri di terzo livello, dopo adeguato training. Inoltre gli effetti sullo sviluppo di BPD non sono ancora documentati. È in corso un RCT che dovrebbe portare a una indicazione definitiva (Dargaville et al., 2014).

Strategie ventilatorieLa ventilazione meccanica, pur essendo una misura salvavita necessaria in molti dei neonati estremamente prematuri, costituisce anche uno dei principali contri-buenti allo sviluppo di BPD. Il VILI si caratterizza per 3 componenti: (i) il danno generato dalle pressioni (baro-trauma), (ii) il danno generato dal volume di scambio (volutrauma), (iii) il danno generato dalla mancanza di una pressione positiva di fine espirazione che porta al collasso il polmone tra un atto respiratorio e l’altro (ate-lettotrauma). È ampiamente documentato che il volu-trauma sia il principale responsabile dell’innesco della cascata infiammatoria responsabile del VILI.

Ventilazione convenzionale a controllo di pressione con target di volume (volume garantito)È facilmente intuibile, quindi, come un relativo controllo del volume tidal erogato sia da considerarsi un cardi-ne della ventilazione neonatale. I ventilatori neonatali sono principalmente ventilatori a controllo di pressione, in cui volumi erogati variano a seconda delle variazioni di compliance polmonare. Il limite di questa tecnica è rappresentato proprio dalla mancanza di controllo sui volumi erogati, che potrebbero variare significativamen-te in ragione dei repentini cambiamenti di compliance. Ciò può condurre in alcuni casi a una iperventilazione “occulta” o a un danno polmonare conseguente all’ero-gazione di alti volumi per tempi prolungati. Poiché sem-bra che pochi atti respiratori sotto o sovradimensionati siano in grado di innescare effetti dannosi sul polmone

ed essendo inverosimile poter controllare manualmen-te la pressione inspiratoria per prevenire il danno pol-monare, sono stati creati algoritmi che consentono una ventilazione ibrida a controllo di pressione con target di volume: il volume garantito. Si tratta di una modalità di ventilazione convenzionale in cui viene impostato un volume tidal (4-6 ml/kg). A ogni ciclo respiratorio, in base alle variazioni di compliance, la pressioni erogate vengono modificate automaticamente per raggiungere il volume desiderato. La pressione di picco impostato rappresenta solo il limite massimo di pressione che può essere raggiunto, oltre il quale non viene erogato il volume richiesto. Il largo utilizzo su scala mondiale di questa tecnica di ventilazione ha trovato una conferma scientifica definitiva in una recente metanalisi che ha evidenziato una riduzione di: durata della ventilazione meccanica, incidenza di BPD, fallimento della modali-tà di ventilazione iniziale, ipocapnia, IVH di grado 3/4, PVL e pneumotorace grazie all’utilizzo del volume ga-rantito (Peng et al., 2014).

Terapia farmacologiche Una recente metanalisi (Beam et al., 2014) ha analiz-zato tutte le terapie studiate nel tentativo di prevenire la BPD. Sono stati trovati 21 farmaci studiati per la pre-venzione e terapia della BPD. Di questi, 16 non hanno mostrato alcuna efficacia. Trai i 5 farmaci efficaci, solo tre sono stati oggetto di RCTs multicentrici o ripetuti, ma, anche questi non sono tanto convincenti da poter essere raccomandati su larga scala. In particolare:• la somministrazione intramuscolo continuativa di

Vitamina A sembra ridurre lievemente l’inciden-za di BPD, ma i risultati marginali e la modalità di somministrazione invasiva non hanno permesso la diffusione di questa terapia;

• laterapiaconcaffeinaèstataassociataaunari-

Figura 2. Sezioni colorate con citocheratina 7 da polmone di neonato gravemente pretermine deceduto per broncodi-splasia; ingrandimenti 10x (A) e 20x (B). In evidenza, grazie a questa colorazione, gli epiteli delle strutture respiratorie canaliculo-sacculari. Gentile concessione del Prof. Ezio Fulcheri, IRCCS, Istituto Giannina Gaslini, Genova.

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Displasia broncopolmonare

duzione nell’incidenza di BPD in un RCT che ha arruolato più di 2000 pazienti. Tuttavia questo ri-sultato va dimensionato alla luce del fatto che la BPD era una misura secondaria;

- la somministrazione precoce di desametasone è l’unico farmaco in grado di ridurre, in modo signi-ficativo e ripetutamente riconfermato, l’incidenza di BPD. Tuttavia l’aumentato rischio di paralisi cere-brale a 18 mesi nei trattati con desametasone (so-pratutto se nella prima settimana di vita) ne hanno limitato notevolmente l’utilizzo. Allo stesso tempo, un gruppo selezionato di pazienti ad alto rischio di BPD (come quelli in ventilazione meccanica dopo 2 o 3 settimane di vita) sembra beneficiare di un ciclo di desametasone a basso dosaggio. In que-sta categoria di pazienti, con diagnosi quasi certa di BPD qualora sopravvivessero, il desametasone, riducendo l’incidenza di BPD che è di per se stessa associata a outcomes neurologici peggiori, riduce anche il rischio di paralisi cerebrale (Watterberg K, 2012). Per quanto riguarda il possibile uso dell’idro-cortisone in sostituzione del desametazione per ri-durre l’incidenza di BPD, sono attualmente in corso due RCTs (NCT01353313, NCT00623740). Fino a quando i risultati di questi studi, anche in termini di sicurezza, non saranno disponibili, il suo uso do-vrebbe essere limitato a protocolli di ricerca.

ConclusioniNonostante i continui progressi delle cure perinatali, l’incidenza della BPD non è diminuita nella ultime de-cadi. La cura della gestione ventilatoria a partire dalla sala parto, la somministrazione selettiva precoce di surfattante (FiO2 non superiore a 35-40%) e l’utilizzo del volume garantito sembrano essere parzialmente efficaci nel prevenire la BPD. Per la traslazione clinica di tecniche quali la SLI e la MIST, seppur promettenti, occorre attendere i risultati degli RCTs in corso. Le poche terapie farmacologiche a disposizione dovreb-bero essere usate con cautela. In particolare il desa-metasone, deve essere utilizzato solo nei neonati ad alto rischio di sviluppare BPD (necessità di assisten-za respiratoria invasiva dopo le 2-3 settimana di vita) per ridurre i danni neuorologici a lungo termine.

Prospettive future: la terapia rigenerativaNegli ultimi anni, la terapia rigenerativa con cellule sta-minali ha rappresentato una nuova opzione terapeuti-ca per patologie ritenute incurabili. Le cellule staminali sono cellule primitive in grado di autorinnovarsi e dare vita a più fenotipi cellulari differenziati, giocando un ruo-lo cruciale nell’organogenesi durante la vita fetale, così come nella riparazione e rigenerazione di organi duran-te la vita adulta (Prockop et al., 2010). Tra i diversi tipi cellulari, le MSCs sono le più studiate grazie alla loro

facilità di isolamento e alle proprietà immunomodulanti che rendono queste cellule le perfette candidate per il trapianto allogenico (da donatore) (Murphy et al., 2013).La fonte più nota di MSCs è il midollo osseo, anche se le problematiche legate alla procedura di prelievo molto dolorosa e invasiva e il numero ridotto di cellule ottenibili, hanno reso necessaria la ricerca di nuove sedi di prelie-vo. Le cellule ottenute da cordone ombelicale sembrano particolarmente promettenti, essendo facili da ottenere senza procedure dolorose e senza rischi per la madre o per il neonato. Inoltre, è noto che le cellule staminali invecchiano con l’aumentare dell’età del donatore; per-tanto, tanto più giovane è il donatore, tanto più “attive” saranno le staminali prelevate (Broxmeyer, 2008). In modelli animali di BPD, la terapia con MSCs si è dimostrata in grado di migliorare diversi aspetti tipici della BPD, tra cui infiammazione, arresto dello svilup-po alvoelare e vascolare, alterata funzionalità respi-ratoria e dei test da sforzo (Aslam et al., 2009; van Haaften et al., 2009; Pierro et al., 2013). In uno studio di follow-up nel modello murino la somministrazione di MSCs in epoca neonatale si è dimostrata efficace e sicura fino a 6 mesi (corrispondenti nell’uomo a un giovane adulto) (Pierro et al., 2013).I risultati sperimentali su modelli animali sono stati così convincenti, che, nonostante rimangano ancora nume-rose problematiche aperte riguardo alla nostra cono-scenza sul meccanismo d’azione di questa terapia e sull’ottimizzazione della preparazione del prodotto fina-le, negli ultimi anni si sono moltiplicati gli studi clinici, disegnati per testare la terapia con MSCs in quasi tutti gli ambiti della medicina (https://clinicaltrials.gov/ct2/results?term=&recr=&rslt=&type=&cond=&intr=mesenchymal+stem+cell&titles=&outc=&spons=&lead=&id=&state1=&cntry1=&state2=&cntry2=&state3=&cntry3=&locn=&gndr=&rcv_s=&rcv_e=&lup_s=&lup_e=).Sono stati registrati cinque studi clinici sull’uso delle MSCs nel trattamento/prevenzione della BPD, di cui uno completato (https://clinicaltrials.gov/ct2/results?term=mesenchymal+stem+cell+and+BPD&Search=Search). Chang et al. hanno valuto la sicurezza della somministrazione intratracheale di diversi dosaggi di MSCs cordonali in neonati a rischio di BPD. Nono-stante alcune alcune limitazioni nel disegno dello stu-dio, gli autori hanno dimostrato che il trattamento con MSCs sembra essere praticabile e sicuro nel neonato prematuro (Chang et al., 2014). Lo studio di follow-up a lungo termine è tuttora in corso (NCT01632475).La promessa della terapia rigenerativa rappresenta una concreta speranza per i neonati affetti da BPD. Tuttavia, è necessario che la ricerca approfondisca la conoscenza sui possibili meccanismi d’azione delle cellule staminali, così da identificare il più adeguato prodotto cellulare per ogni patologia. Inoltre, le tec-niche di isolamento, espansione e somministrazione delle staminali stesse devono essere sviluppate e standardizzate per ottimizzare i risultati terapeutici e garantire la massima sicurezza del trattamento.

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Box di orientamento

• Cosa si sapeva primaLa BPD è una complicanza grave della prematurità.

• Cosa sappiamo adessoNon esiste trattamento efficace per curare la BPD, seppure possano essere intraprese alcune strategie volte a ridurne l’incidenza.

• Quali ricadute in ambito clinicoLa terapia rigenerativa con MSCs potrebbe fornire una nuova speranza ai neonati affetti da BPD.

Corrispondenza

Maria PierroPatologia Neonatale, IRCCS Istituto Pediatrico Giannina Gaslini, 16148 Genova - Tel +39 010 56361 - E-mail: [email protected]

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Gennaio-Marzo 2015 • Vol. 45 • N. 177 • Pp. 41-52 Prospettive in Pediatria

Neonatologia

Nutrizione enterale e parenterale del neonato prematuro

Gianluca Terrin Mario De Curtis

Unità di Neonatologia, Patologia e Terapia Intensiva Neonatale

del Policlinico Umberto I, Sapienza Università di Roma

Optimizing postnatal nutritional supply is a major challenge in premature infants. Severe cumulative nutritional deficits that occur early in life may have short- and long-term ad-verse consequences. Complete enteral feeding is frequently delayed in premature infants and parenteral nutrition represents essential therapeutic option for these infants in the first days of life. Available recommendations suggest starting parenteral nutrition as soon as possible after birth and rapidly attaining adequate intakes with a well-balanced solution, in order to promote anabolism, to improve clinical outcomes, and to avoid biological dis-orders. A minimum intake of 40-60 Kcal/kg/die with 2-3 g/kg/die of amino acids, 1-2 g/kg/die of lipids and sufficient minerals is now recommended, from the first hours of life, in all premature infants. Intakes should be increased during the first week of life, according with clinical condition, up to 90-120 Kcal/kg/die with about 3-4 g/kg/die amino acids, 3-4 g/kg/die of lipids and adequate amounts of electrolytes, minerals, trace elements and vitamins. Enteral nutrition should be started when patient is stable and it should be increased until full enteral feeding is reached. Breast milk is the preferred form of enteral nutrition for preterm babies.

Summary

I fabbisogni nutrizionali del neonato di peso molto basso alla nascita sono elevati e dovreb-bero essere forniti sin dalle prime ore di vita. Nei primi periodi di instabilità clinica la nutri-zione parenterale rappresenta l’unica via attraverso la quale è possibile somministrare nu-trienti in quantità adeguate. Nel corso della prima settimana di vita bisogna fornire apporti di 90-120 Kcal/kg/die, con circa 3-4 g/kg/die di amminoacidi, 12-16 g/kg/die di carboidrati e 3-4 g/kg/die di lipidi. Elettroliti e minerali vanno somministrati sin dalle prime ore di vita e le loro concentrazioni ematiche vanno attentamente monitorate. La nutrizione enterale deve essere iniziata il prima possibile con piccoli volumi e progressivamente aumentata fino al raggiungimento di un’alimentazione enterale esclusiva (150-160 ml/kg/die pari a 120 Kcal/kg/die). Il latte materno è sempre preferibile alle formule artificiali per la nutrizione enterale dei neonati prematuri.

Riassunto

Metodologia della ricerca bibliograficaUtilizzando i termini “nutrition”, “enteral nutrition”, “pa-renteral nutrition” e “preterm neonates” in combina-zione tra loro, senza limiti temporali, sono stati iden-tificati, sul database PubMed, 486 studi in lingua in-glese classificati come studi clinici (es. “clinical trial” o “randomized clinical trial”) o metanalisi. Tra questi, 182 studi clinici sono stati effettuati sulla nutrizione

enterale e 141 su quella parenterale. Sono state iden-tificate e analizzate 59 metanalisi.

Introduzione Quasi tutti i neonati con un peso alla nascita infe-riore a 1.500 g presentano un deficit di crescita po-stnatale nelle prime settimane di vita. Questo iniziale ritardo può avere conseguenze anche sul successi-vo sviluppo auxologico e neurologico (Fenton e Kim,

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2013). È possibile ridurre questo rischio attraverso un’adeguata nutrizione sin dalle prime ore di vita, per via enterale e parenterale. Prendendo come ri-ferimento gli apporti nutrizionali fetali (Stephens et al., 2009), sono stati definiti i fabbisogni macro- e micronutrienti da somministrare ai neonati prematu-ri. L’inizio della nutrizione enterale è spesso ritardato nel neonato pretermine per l’instabilità delle condi-zioni cliniche nei primi giorni di vita. In questa fase, la nutrizione parenterale rappresenta l’unica opzione possibile per garantire un adeguato apporto nutrizio-nale. Oggi si ritiene opportuno iniziare la nutrizione parenterale immediatamente dopo la nascita per fornire, un adeguato apporto di nutrienti, utilizzan-do soluzioni endovenose equilibrate, finalizzate a promuovere precocemente uno stato di anabolismo. Un apporto minimo di 40-60 Kcal/kg/die, con 2-3 g/kg/die di amminoacidi (AA) e 1-2  g/kg/die di lipidi, è attualmente raccomandato sin dalle prime ore di vita. Dopo un breve periodo di adattamento postna-tale, queste quote devono essere progressivamen-te aumentate fino a raggiungere 90-120  Kcal/kg/die, 3-4 g/kg/die di aminoacidi, 3-4 g/kg/die di lipidi e adeguate quantità di elettroliti, minerali, oligoele-menti e vitamine. Anche se la nutrizione parenterale rappresenta la principale via di somministrazione di nutrienti nei primi giorni di vita e nei periodi di insta-bilità clinica, la nutrizione enterale dovrebbe essere iniziata prima possibile con piccoli volumi (10-30 ml/kg/die) e progressivamente aumentata (20-30 ml/kg/die) fino al raggiungimento di un’alimentazione en-terale completa (150-160 ml/kg/die pari a 120 Kcal/kg/die). In questo modo, dopo il primo periodo di in-stabilità clinica, tutte le necessità nutrizionali dovreb-bero essere coperte solo con la nutrizione enterale.Sebbene le formule artificiali siano decisamente mi-gliorate negli ultimi anni per venire incontro ai fab-bisogni nutrizionali del neonato pretermine, il latte materno è l’alimento da preferire per questi bambini. I limiti nutrizionali del latte materno per i neonati pre-maturi (es. carenza di proteine e minerali) possono essere ridotti mediante l’impiego di specifici fortifi-canti a base di proteine, carboidrati, lipidi, elettroliti e micronutrienti.

Obiettivo della revisioneAnalizzare criticamente la letteratura scientifica più recente al fine di orientare, in base alle migliori evi-denze scientifiche disponibili, la pratica clinica quoti-diana in riferimento alla nutrizione enterale e parente-rale del neonato pretermine.

Dati salienti emersi dagli studi consideratiDa tutti gli studi analizzati emerge che l’apporto nu-trizionale deve sempre essere regolato in base alle

condizioni cliniche del neonato. Al tal fine è necessa-rio distinguere due fasi cliniche principali: i) periodo di adattamento (che dura solitamente una o due set-timane); ii) e, successivamente, il periodo di stabilità clinica e di crescita. Durante il periodo di adattamento la nutrizione parenterale è essenziale per garantire la sopravvivenza dei neonati prematuri e la gran parte dei nutrienti viene fornita in questo modo. La durata di questo periodo può variare in relazione all’età ge-stazionale, al peso corporeo e alla presenza di con-dizioni morbose (es. persistenza del dotto arterioso di Botallo, infezioni, etc.). Quando il neonato è stabile va iniziata la nutrizione enterale, che è più fisiologica e contribuisce a ridurre la durata della nutrizione paren-terale e le complicanze a essa associate. Diversi studi dimostrano l’importanza di ridurre il pe-riodo di transizione, promuovendo precocemente uno stato di anabolismo. A tal fine devono essere forniti precocemente i fabbisogni energetici, di macronu-trienti e micronutrienti, come indicato di seguito.

Interpretazione degli studi considerati In questo paragrafo sono riportati i principi teorici e le applicazioni pratiche della nutrizione enterale e pa-renterale nel neonato pretermine in accordo con le più recenti evidenze scientifiche disponibili in letteratura. Sono indicati gli standard di riferimento della crescita e i fabbisogni di macro e micronutrienti da sommini-strare con la nutrizione parenterale ed enterale.

Standard di riferimento della crescita nei neonati prematuriI parametri di crescita presi come riferimento per i ne-onati prematuri sono stati stabiliti tenendo in conside-razione sia la crescita post-concezionale di un feto di pari età che le variazioni del peso dopo la nascita del neonato a termine (Fenton e Kim, 2013). La velocità di crescita durante la vita fetale è molto elevata durante il terzo trimestre di gestazione ed è superiore a quella riscontrabile in qualsiasi altro periodo della vita. L’au-mento di peso medio durante la vita fetale nell’ultimo trimestre di gestazione è di circa 15 g/kg/die. Tuttavia l’aumento di peso fetale giornaliero varia da 20 g/kg a 24-28 settimane di età postconcezionale, fino a 10 g/kg a termine di gestazione. Anche la composizione corpo-rea cambia durante l’ultimo trimestre di gestazione e di conseguenza i fabbisogni nutrizionali di neonati pre-maturi variano in relazione all’età post-concezionale. Subito dopo la nascita è opportuno ottenere un calo fisiologico (pari a circa il 5-7%, ma non superiore al 15%, del peso corporeo della nascita) anche nel neo-nato prematuro, per favorire i processi di adattamento cardio-respiratori alla vita extrauterina. La ripresa del peso della nascita dovrebbe avvenire entro i primi 7-10 giorni di vita. Tuttavia, le condizioni cliniche, spesso cri-

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tiche dei primi giorni, riducono la probabilità di ottenere una crescita simile a quella di riferimento e spesso si assiste a un calo ponderale eccessivo e a allo sviluppo di un precoce ritardo di crescita extrauterino. Pertan-to, una corretta gestione della nutrizione deve essere sempre orientata a ottenere un calo fisiologico e a limi-tare il ritardo di accrescimento extrauterino.

Fabbisogni di macro e micronutrientiEnergiaI fabbisogni di energia per i neonati prematuri si cal-colano aggiungendo alla quota del dispendio energe-tico quella immagazzinata nei tessuti per la crescita (Senterre et al., 2015; Terrin et al., 2015). La spesa energetica di base, misurata mediante studi di calori-metria indiretta, è pari a 45-55 Kcal/kg/die, con picco-le variazioni in base all’età gestazionale (Fig. 1). Il co-sto energetico della crescita varia da 50 a 70 Kcal/kg/die per ottenere un’adeguata deposizione di massa magra e massa grassa. Pertanto, i fabbisogni energe-tici giornalieri di un neonato pretermine sono stimati in 95 e 125 Kcal/kg. Sulla base di questi dati, viene raccomandato la somministrazione di 40-60 Kcal/kg/die sin dalle prime ore di vita, per raggiungere entro la prima settimana 95-125  Kcal/kg/die (Senterre et al., 2015; Terrin et al., 2015). L’incremento dell’appor-to energetico deve essere modulato in relazione alle condizioni cliniche e metaboliche del singolo neona-to, controllando l’eventuale insorgenza di complican-ze quali iperglicemia e ipertrigliceridemia. In tal caso l’apporto energetico non proteico deve essere ridotto cercando di rispettare il rapporto tra proteine ed ener-gia che dovrebbe essere pari a 1  g di proteine per ogni 25-30 Kcal non proteiche (Fig. 1). Il mantenimen-to di questo rapporto riduce i rischi di squilibri meta-bolici, come l’acidosi metabolica o l’iperglicemia. Un importante limite al rapido raggiungimento dell’appor-to energetico consigliato è costituito dalla necessità di limitare i liquidi somministrati nei primi giorni di vita per favorire l’adattamento alla vita extrauterina e per ridurre il rischio di un prolungamento dell’insufficienza respiratoria e la persistenza della pervietà del dotto arterioso di Botallo. L’incremento dell’apporto nutrizio-nale, dunque, deve essere effettuato sempre tenendo in considerazione l’andamento della curva ponderale, le condizioni cliniche, l’equilibrio metabolico ed elet-trolitico e l’eventuale insorgenza di complicanze.

ProteineIl fabbisogno proteico giornaliero del feto nell’ulti-mo trimestre di gestazione è stato stimato intorno a 2,5  g/kg. Tuttavia, le proteine in questa epoca della vita fetale non vengono utilizzate solo per la cresci-ta, ma anche come fonte energetica. Pertanto il fab-bisogno proteico giornaliero del neonato pretermine raggiunge 3,5-4,5 g/kg. Infatti, solo mediante la som-ministrazione di 3-4 gr/kg/die è possibile ottenere un bilancio azotato positivo e una ritenzione di azoto di

360-400 mg/kg/die, simile a quella osservata nel feto di pari età post-concezionale (Senterre et al., 2015; Terrin et al., 2015). Studi recenti (Thureen et al., 2003) hanno dimostra-to come la somministrazione precoce di 2,5-3,5 g/kg/die di AA, mediante le soluzioni di AA per via endovenosa, migliora la ritenzione di azoto, la sin-tesi proteica, la secrezione di insulina, la tolleranza al glucosio e la crescita postnatale senza produrre squilibri metabolici o effetti collaterali (Trivedi, 2013). Tuttavia, a causa della scarsa solubilità di alcuni aminoacidi (es. tirosina, cisteina), le soluzioni di AA utilizzate per la somministrazione endovenosa pos-sono determinare degli squilibri, seppur minimi, ri-spetto alla nutrizione enterale in termini di apporto aminoacidico giornaliero. Le attuali raccomandazioni suggeriscono di fornire 2-3 g/kg/die di AA il primo giorno di vita, con la nutri-zione parenterale, e di aumentare rapidamente l’ap-porto di AA, fino al raggiungimento di 4 g/kg/die, nei neonati di peso molto basso alla nascita. Aumentando progressivamente il volume giornaliero di nutrizione enterale è opportuno ridurre la quota proteica fornita per via parenterale (Agostoni et al., 2010; Senterre et al. 2015; Terrin et al. 2015). Spesso l’azotemia è un esame utilizzato per valutare l’adeguatezza dell’apporto proteico nei neonati. Tutta-via, nei neonati di peso molto basso, durante le prime settimane di vita, l’azotemia è scarsamente correlata

Figura 1. Fabbisogni proteici ed energetici nel neonato di peso molto basso alla nascita.

Note. La relazione tra proteine ed energia non proteica da somministrare al neonato di peso molto basso alla nascita è di tipo lineare e il rapporto tra proteine ed energia deve es-sere sempre rispettato per qualsiasi quota proteica o ener-getica. Le linee tratteggiate indicano i livelli minimi (Min) e massimi (Max) di calorie raccomandate per il neonato di peso molto basso alla nascita. L’area indicata con la lettera “R” comprende i valori proteici ed energetici ottimali che bi-sognerebbe raggiungere sin dai primi giorni di vita.

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con gli apporti di aminoacidi o di proteine e risente principalmente dell’immaturità renale e dello stato di idratazione. Pertanto l’azotemia non è un indice ade-guato per valutare l’adeguatezza dell’assunzione pro-teica nel primo mese di vita nel neonato pretermine.

CarboidratiIl neonato prematuro deve ricevere un adeguato ap-porto di carboidrati sin dai primi minuti di vita per pre-venire l’ipoglicemia secondaria all’immediata interru-zione del passaggio di glucosio attraverso la placenta e alle basse riserve di glicogeno. Non sempre è pos-sibile garantire un adeguato apporto di carboidrati del neonato pretermine attraverso la nutrizione enterale, soprattutto nelle prime ore di vita e, in particolare, nei neonati di peso molto basso alla nascita. Pertanto la via più utilizzata inizialmente è quella endovenosa. Il glucosio è l’unico carboidrato somministrato per via endovenosa, se si esclude il glicerolo contenu-to nelle soluzioni endovenose di lipidi. Il glucosio è prontamente disponibile per il metabolismo cerebrale e rappresenta la principale fonte di energia durante i periodi di nutrizione parenterale. I neonati di peso molto basso sono esposti a un elevato rischio di iper-glicemia, in particolare se in nutrizione parenterale to-tale. L’incidenza di iperglicemia aumenta quanto più il neonato è prematuro e dipende da diversi fattori quali l’insulino-resistenza e l’eventuale presenza di sepsi, dolore e stress provocati dalle procedure assisten-ziali, oltre che da una limitata velocità di ossidazione del glucosio, che non supera i 17 g/kg/die (12 mg/kg/min) e che peggiora in presenza di condizioni cliniche critiche.Nei neonati prematuri, soprattutto se di peso molto basso alla nascita, per evitare l’instaurarsi di uno sta-to di ipoglicemia, sono raccomandati apporti iniziali di 6-7 g/kg/die (4,2-4,9 mg/kg/min), che devono essere gradualmente aumentati (1-2  mg/kg/min/die) fino a 12-17 g/kg/die (8,5-11,8 mg/kg/min), in base al grado di tolleranza del singolo soggetto. Inoltre, il rappor-to proteine/energia deve essere sempre rispettato e l’apporto massimo di glucosio non dovrebbe superare il 60% delle calorie non proteiche somministrate per via parenterale.Le concentrazioni ematiche di glucosio dovrebbero essere sempre mantenute tra 2,6  mmol/L (47  mg/dL) e 6,6  mmol/L (120  mg/dL). Nei neonati prema-turi, l’ipoglicemia deve sempre essere considerata un’emergenza metabolica, da correggere rapida-mente aumentando gli apporti di glucosio mediante la nutrizione enterale e/o parenterale (Senterre et al., 2015; Terrin et al., 2015). Ugualmente, la presenza di iperglicemia merita un’attenta valutazione diagnostica alla ricerca di quelle condizioni che possono averla determinata (elevato apporto di glucosio e di energia mediante la nutrizione parenterale, ridotto apporto proteico con alterazione del rapporto proteine/ener-gia, ipofosfatemia, stress, infezioni, sepsi, dolore,

disidratazione, trattamento con steroidi, non utilizzo della nutrizione enterale). Livelli di glucosio fino a 10 mmol/L (180 mg/dL) sono generalmente ben tol-lerati. Per concentrazioni superiori si manifesta una diuresi osmotica, con conseguente disidratazione e iperosmolarità plasmatica. In caso di iperglicemia persistente è bene ridurre gli apporti per via endo-venosa, e solo in un secondo momento ricorrere al trattamento con insulina al dosaggio di 0,01-0,1 UI/kg/ora, da adattare ai valori di glicemia osservati.

LipidiI lipidi sono necessari per garantire un adeguato ap-porto calorico al neonato pretermine (Lapillonne et al., 2013). Durante i periodi di nutrizione parentera-le totale l’ossidazione dei lipidi è inversamente pro-porzionale agli apporti di glucosio. In altri termini la somministrazione di glucosio favorisce la deposizione di lipidi. L’utilizzo dei lipidi forniti per via parenterale è ottimale quando questi rappresentano il 40% del-la quota calorica non proteica. Un eccessivo apporto lipidico può favorire la produzione di anidride carbo-nica, lo sviluppo di iperglicemia, sepsi, iperbilirubine-mia e ipossia. L’impiego della carnitina, che favorisce il trasporto degli acidi grassi a lunga catena attraverso le membrane mitocondriali, facilita l’ossidazione dei lipidi, può essere considerato alla dose di 10-20 mg/kg/die, quando la durata della nutrizione parentera-le totale sia superiore a due-tre settimane (Cairns e Stalker, 2000). Le emulsioni lipidiche per uso endovenoso (ELEV) sono componenti fondamentali della nutrizione pa-renterale poiché forniscono energia che può essere facilmente utilizzata, rappresentano una fonte esclu-siva di acidi grassi essenziali (i.e. acido linoleico: LA, C18: 2n-6, e acido alfa-linolenico: ALA, C18: 3n-3), sono isotoniche e possono essere infuse anche in vene periferiche. Inizialmente, le ELEV si basavano solo su olio di soia costituito prevalentemente da acidi grassi polinsaturi e da quantità minime di acidi grassi saturi e monoinsaturi. Recentemente sono state intro-dotte nuove formulazioni di ELEV sviluppate a partire da fonti diverse dalla soia. In particolare, si è visto che l’olio d’oliva e l’olio di pesce, avendo una differente composizione di acidi grassi monoinsaturi e polin-saturi, esercitano un effetto antinfiammatorio e il loro uso si associa a una minore incidenza di retinopatia della prematurità ed epatopatia secondaria a perio-di prolungati di nutrizione parenterale totale (Pawlik et al., 2011; Tomsits et al., 2013). I risultati migliori si sono ottenuti con delle miscele di acidi grassi prove-nienti da fonti differenti. Oggi si raccomanda di somministrare lipidi sin dalla pri-ma giornata di vita, mediante ELEV, al dosaggio iniziale di 1-2 g/kg/die in tutti i neonati prematuri. Sono previsti incrementi giornalieri di 0,5-1 g/kg/die fino al raggiungi-mento di 3-4 g/kg/die. Per evitare un sovraccarico di lipi-di somministrati per via endovenosa, le concentrazione

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plasmatiche di trigliceridi ritenute sicure devono essere mantenute al di sotto di 150-200 mg/dL.

Fluidi ed elettrolitiLa nascita si associa a una ridistribuzione di liquidi ed elettroliti. Un calo di peso fisiologico (5-7% del peso della nascita) si verifica anche nel neonato pretermine secondariamente alla contrazione del compartimento extracellulare. L’elevata percentuale di perdite insensi-bili di acqua per via transcutanea e l’immaturità renale possono indurre squilibri idroelettrolitici (Baraton et al., 2009). L’ipernatremia (> 150 mmol/L), secondaria a di-sidratazione o somministrazione per via parenterale di un eccesso di sodio, si associa a un aumentato rischio di danno cerebrale. L’eccesso di liquidi favorisce l’insor-genza di iponatremia, persistenza del dotto arterioso di Botallo, broncodisplasia ed enterocolite necrotizzante (Bell e Acarregui, 2008). Uno stato catabolico indotto da un inadeguato apporto di proteine e calorie può es-sere invece alla base di una condizione di iperkalie-mia. Recentemente è stato osservato che un apporto considerato ottimale di proteine e calorie può indurre ipofosforemia e ipokaliemia, e talvolta anche iponatre-mia e ipercalcemia. Pertanto i fabbisogni di elettroliti dovrebbero essere coperti sin dal primo giorno di vita tenendo conto di questi aspetti (Tab. I). Non meno importante è l’omeostasi del cloro. Sebbe-ne i fabbisogni di cloro siano da considerarsi simili a quelli del sodio, frequentemente si assiste all’ecces-siva somministrazione di questo ione poiché il cloro è un componente presente nelle soluzioni di sodio, potassio, calcio (come NaCl, KCl e CaCl) e di ami-

noacidi utilizzate per via parenterale e di alcuni far-maci molto usati come la dopamina e la dobutamina. Questo aspetto deve essere tenuto in considerazione quando si osservano stati di acidosi metabolica che possono essere risolti mediante la somministrazione di sodio e potassio come soluzioni di fosfati o acetati invece che come cloruri. Le più recenti raccomandazioni propongono un ap-porto iniziale di fluidi pari a 60-80 ml/kg/die per i ne-onati con peso alla nascita < 1.500 g, e di 80-90 ml/kg/die per quelli con peso < 1.000 g, assistiti in incu-batrici con livelli elevati di umidificazione ambientale (70-80%) (Senterre et al., 2015; Terrin et al., 2015). Gli aumenti successivi devono essere compresi tra 10 e 20 ml/kg/die fino al raggiungimento di 120-160 ml/kg/die e devono sempre essere effettuati in relazione alle condizioni cliniche, all’andamento del peso corporeo e all’equilibrio elettrolitico. La misurazione delle con-centrazioni plasmatiche e, se possibile urinarie, dei principali elettroliti, può essere presa in considerazio-ne per ottimizzare gli apporti quando il neonato è in nutrizione parenterale totale.

Minerali (calcio, fosforo e magnesio)Calcio, fosforo e magnesio, svolgono una funzione essenziale per il metabolismo osseo e influenzano in maniera significativa il metabolismo energetico e la risposta immunitaria. La carenza di questi minerali si associa a peggioramento del distress respiratorio, intolleranza al glucosio e aumento del rischio di infe-zioni nosocomiali. La ritenzione fetale di calcio e fosforo è molto alta du-

Tabella I. Fabbisogni nutrizionali di macronutrienti, minerali ed elettroliti per i nati pretermine.

Nutrizione enterale Nutrizione parenterale totale

Dose iniziale Obiettivo Dose iniziale Obiettivo

Volume, ml/kg/die 20-30 150-170 70-90 150

Apporto energetico, Kcal/kg/die 15-25 120-140 45-65 120-140

Macronutrienti

Proteine, g 0.5-0.75 3.5-4.5 2-3 3,5-4,2

Rapporto Proteine:Energia, (g/100 Kcal)

1:25 1:25 1:25 1:25

Carboidrati, g 1,5-2,5 11-13 6-7 12-14

Lipidi, g 1 6-7 1-2 4

Minerali

Calcio, mg/kg/die 24-36 180-200 25-40 80-100

Fosforo, mg/kg/die 15-20 100-140 20-30 60-80

Magnesio, mg/kg/die 1-2 8-10 2-5 7-9

Elettroliti

Sodio, mmol/kg/die 0-1 3-5 0-1 3-7

Potassio, mmol/kg/die 0-1 1,7-3,4 0-1 2-3

Cloro, mmol/kg/die 0-1 3-5 0-1 3-5

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rante l’ultimo trimestre di gestazione, raggiungendo livelli di 2,3-3,2 mmol/kg/die (90-130 mg/kg/die) e 2,4-2,7  mmol/kg/die (65-75  mg/kg/die), rispettivamente. Nel neonato pretermine, a seguito della brusca inter-ruzione del trasferimento placentare non è raro os-servare stati carenziali per questi minerali. Elementi sfavorevoli sono l’elevato fabbisogno e l’immaturità dei sistemi di controllo ormonali. Recentemente, con l’ottimizzazione degli apporti proteici ed energetici è stato evidenziato un aumento dei casi di ipofosfate-mia ipercalcemica precoce, fenomeno nuovo nel ne-onato prematuro da interpretare nell’ambito di una “sindrome da rialimentazione neonatale” (Bonsan-te et al., 2013). Questi dati indicano la necessità di somministrare dosi elevate di calcio e fosforo, con un rapporto calcio/fosforo pari a 1,0-1,3, sin dalle prime ore di vita. Particolare attenzione va posta anche nel soddisfare i fabbisogni di magnesio. Una carenza di questo minerale influenza negativamente l’omeostasi del calcio e può favorire l’instaurarsi di danni al siste-ma nervoso centrale. I dosaggi iniziali raccomandati sono 25-40 mg/kg/die

per il calcio, 20-35 mg/kg/die per il fosforo, e 2,4 mg/kg/die per il magnesio. Successivamente queste dosi devono essere aumentate fino a 65-100  mg/kg/die per il calcio, 50-80 mg/kg/die per il fosforo e 5-7,5 mg/kg/die per il magnesio. I valori sierici di calcio, fosforo e magnesio dovrebbero essere sempre mantenuti entro i limiti di 1,6-2,4 mmol/L, 1,6-3,1 mmol/L, 0,8-1,5 mmol/L rispettivamente.

Vitamine e oligoelementiI neonati pretermine hanno scarse riserve di vitamine e oligoelementi, che se non forniti in quantità ade-guate dopo la nascita, possono complicare il decorso clinico del neonato prematuro. Tuttavia i fabbisogni vi-taminici non sono stati ancora ben definiti e di conse-guenza vi è un’ampia variabilità nella composizione in vitamine delle formule per la nutrizione enterale e dei preparati per nutrizione parenterale (Senterre et al., 2015). I fabbisogni ideali di vitamine e oligoelementi sono riportati in Tabella II (NE, NPT iniziale, NPT to-tale). L’integrazione per via parenterale di vitamine e oligoelementi deve essere iniziata quando la durata

Tabella II. Raccomandazioni relative alla somministrazione di vitamine e oligoelementi al neonato di peso molto basso alla nascita.

Nutrizione enterale Nutrizione parenterale totale

Oligoelementi

Ferro, mg/kg/die 2-6 0,1-0,25

Zinco, mg/kg/die 2-3 0,4-0,5

Rame, µg/kg/die 100-130 20-40

Selenio, µg/kg/die 3-10 5–7

Cromo, ng/kg/die 30-1200 0,05-0,2

Molibdeno, µg/kg/die 0.3-5 0,01-0,25

Manganese**, µg/kg/die 15-20 0,5-1,0

Iodio, µg/kg/die 20-40 1-10

Vitamine idrosolubili

Tiamina (B1), µg/kg/die 140-300 350-500

Riboflavina (B2), µg/kg/die 200-400 150-200

Niacina(B3), mg/kg/die 380-5500 4-6

Piridossina (B6), µg/kg/die 45-300 150-200

Acido folico, µg/kg/die 35-100 56

Cobalamina (B12), µg/kg/die 0,1-0.7 0,3

Acido pantotenico (B5), mg/kg/die 0,3-2 1-2

Biotina (B8), µg/kg/die 1-5 5

Acido ascorbico (C), mg/kg/die 10-20 10-20

Vitamine liposolubili

A, IU/kg/die 1000 700-1000

D, IU/kg/die 800-1000 40-160

E°, IU/kg/die 4-5 2-3

K°°, µg /kg/die 4-10 10

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Nutrizione enterale e parenterale del neonato prematuro

della nutrizione parenterale totale supera le 2 settima-ne consecutive. Quando gli apporti nutrizionali sono forniti prevalentemente per via enterale, l’integrazio-ne con prodotti multivitaminici è consigliata nel caso in cui non venissero rispettati i fabbisogni indicati in Tabella  II. In particolare l’integrazione di vitamina D deve essere sempre effettuata fino al raggiungimento di 800-1000 UI/die.

Applicazione pratica della nutrizione nel neonato pretermineSe durante i periodi di instabilità clinica l’apporto di nutrienti avviene prevalentemente o esclusivamente per via parenterale, l’obiettivo per tutti i neonati deve essere quello di ridurre al minimo la durata della nu-trizione parenterale in modo da minimizzare i rischi a essa correlati. Per tale motivo la nutrizione enterale deve essere introdotta il prima possibile e utilizzata in quantità crescenti, in modo da integrare e, progressi-vamente, sostituire del tutto la nutrizione parenterale (Agostoni et al., 2010).

Integrazione tra nutrizione enterale e parenteraleL’intestino del neonato pretermine non ha raggiunto

la completa maturazione e in particolare la motilità intestinale è disorganizzata e poco efficiente prima delle 32 settimane di età post-concezionale. Inoltre, in caso di instabilità emodinamica, l’organismo pre-ferisce privilegiare la perfusione del cuore, del cer-vello e del rene a scapito dell’intestino (Neu e Li, 2003). Grazie al ricorso alla nutrizione parenterale è possibile coprire i fabbisogni nutrizionali sin dai primi minuti di vita. Tuttavia, quando il neonato è stabile (Fig. 2) la nutrizione enterale può essere iniziata con una quota minima di latte (20-25 ml/kg/die), denomi-nata comunemente “minimal enteral feeding” (MEF) (Terrin et al., 2009). La MEF ha principalmente una funzione trofica sulla mucosa intestinale e di stimolo alla maturazione della motilità intestinale. Pertanto può essere impiegata anche quando vi siano segni minori di mancata tolleranza della nutrizione entera-le (Fig. 2). La quantità di latte deve essere aumenta-ta di 20-30 ml/kg al giorno, in caso di stabilità clinica e tolleranza della quota precedentemente sommini-strata. La MEF non contribuisce in maniera signifi-cativa ad aumentare l’apporto giornaliero di calorie e nutrienti, ma quando l’apporto di latte raggiunge quantità pari o superiori a 40 ml/kg, l’apporto ener-

Figura 2. Gestione della nutrizione enterale nel neonato di peso molto basso alla nascita.

Note. * Stabilità clinica definita da: SpO2 > 90% con FiO2 < 0,4; FC 100-180 bpm; pressione arteriosa media > (età post-concezionale) mmHg; temperatura corporea 36,5-37,5°C; nessun episodio di apnea severa nelle precedenti 8 ore.

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G. Terrin, M. De Curtis

getico totale fornito con la nutrizione parenterale va proporzionalmente ridotto. Bisogna tener conto che il tasso di assorbimento di energia è di circa l’80% con il latte umano e il 90% con le formule per prematuri. L’incremento della nu-trizione enterale deve essere effettuato sempre in relazione alle condizioni cliniche del neonato e deve essere rallentato, fino alla sospensione, in presenza di segnali non rassicuranti circa lo stato clinico ge-nerale e la capacità del neonato di tollerare il latte (Fig.  2). Sebbene non sia agevole predire il grado di tolleranza della nutrizione enterale del singolo neonato, studi recenti hanno dimostrato quanto sia importante avere un protocollo di reparto relativo a introduzione, progressione e sospensione della nu-trizione enterale. L’impiego di un protocollo condiviso sulla base delle migliori evidenze disponibili in letteratura consente di ridurre la durata della nutrizione parenterale, le possi-bili complicanze e migliorare la crescita dei neonati di peso molto basso alla nascita. Quando la nutrizione enterale copre da sola la gran parte del fabbisogno nutrizionale, la nutrizione parenterale può essere so-spesa.

Modalità di somministrazione della nutrizione enteraleLe modalità di somministrazione della nutrizione ente-rale sono essenzialmente di due tipi: i) bolo intermitten-te, per gavage o biberon (quando è presente il riflesso di suzione); ii) infusione continua con periodi variabili di sospensione, esclusivamente per gavage. Oggi non viene più utilizzata nel neonato pretermine la sommi-nistrazione di latte per via trans pilorica per l’elevato rischio associato di enterocolite necrotizzante. La scelta tra le diverse modalità, che presentano ri-spettivamente vantaggi e svantaggi, dovrebbe essere effettuata in relazione alle caratteristiche cliniche del singolo neonato, tenendo però conto che la sommini-strazione mediante boli intermittenti rispetta di più i rit-mi fisiologici intestinali, mentre la nutrizione enterale continua potrebbe migliorare la tolleranza nei neonati di peso estremamente basso.

Latte materno e formule artificialiIl latte materno rappresenta il nutrimento preferenziale anche in caso di estrema prematurità (Academy of Pe-diatrics, 2005). I neonati pretermine alimentati preva-lentemente con latte materno tollerano generalmente maggiori volumi di latte per via enterale e hanno un ri-schio inferiore di infezioni ed enterocolite necrotizzante rispetto a quelli nutriti con formule artificiali per prema-turi derivate dal latte vaccino (Tab. III) (Patole e Klerk, 2005). I vantaggi maggiori si hanno con l’impiego di latte umano fresco e l’effetto protettivo dipende dalla presenza nel latte umano di macrofagi, linfociti, IgA, lisozima, lattoferrina, oligosaccaridi, nucleotidi, citochi-ne, fattori di crescita ed enzimi digestivi (Bhatia, 2013).

Studi sugli effetti a lungo termine del latte materno hanno dimostrato come il suo impiego nei neonati prematuri migliori il livello di sviluppo neuromotorio e intellettivo a 2, 8 e 16 anni di vita, rispetto alle formule. I potenziali fattori che potrebbero determinare questi effetti sono la composizione in proteine, aminoacidi, lipidi, fattori di crescita, ormoni e micronutrienti. Tuttavia, dati contrastanti emergono dalla letteratura circa gli effetti determinati dal latte materno fortifica-to rispetto alle formule per prematuri sulla crescita e sulla composizione corporea, e ulteriori studi sono necessari in questo campo per dirimere le incertezze ancora presenti (Quigley e McGuire, 2014). In realtà, il contenuto di alcuni nutrienti del latte umano non è suf-ficiente a coprire gli elevati fabbisogni nutrizionali dei neonati di peso molto basso. Sebbene il latte di madri che partoriscono prematuramente abbia nelle prime settimane di allattamento maggiori concentrazioni di nutrienti rispetto a quello di donne che partoriscono a termine di gestazione, nei neonati di peso molto basso la fortificazione del latte materno è necessa-ria per coprire completamente i fabbisogni nutrizionali (Quigley e McGuire, 2014). I fortificanti di uso comune sono di origine bovina e contengono generalmente siero-proteine, carboidrati (semplici o polimerici), mi-nerali ed elettroliti e, alcuni, anche micronutrienti e vitamine. Più recentemente sono stati prodotti fortifi-canti che prevedono la presenza anche di lipidi nella loro composizione. Questo tipo di supplementazione consente di ridurre il contenuto in carboidrati dei for-tificanti, migliorando l’osmolarità e la tolleranza della nutrizione enterale. Uno dei principali limiti all’impiego del latte umano in terapia intensiva neonatale è la sua scarsa disponibi-lità. Le madri di neonati pretermine, per diversi motivi (stress, cattiva salute materna, ritardato inizio della lattazione, limitato contatto con il neonato) spesso producono quantità insufficienti di latte. È possibile ri-correre al latte donato da altre madri quando vi sia la disponibilità di una banca del latte umano. I vantaggi del latte materno donato si rendono evidenti soprat-tutto in termini di riduzione dell’incidenza di enteroco-lite necrotizzante (Tab. III), ma non dal punto di vista nutrizionale. Questo fenomeno potrebbe dipendere da due diversi fattori: a) il latte donato proviene ge-neralmente da donne che hanno partorito a termine di gravidanza, b) il processo di raccolta, conservazio-ne e sterilizzazione può avere un’influenza negativa sul contenuto e sulla biodisponibilità di molti nutrienti. Il latte materno di banca viene conservato a basse temperature e sottoposto a trattamento termico per garantire la sicurezza microbiologica. La pastorizza-zione tradizionale (riscaldamento a 62,5° C per 30 minuti e successivo raffreddamento veloce) riduce il contenuto di proteine, immunoglobuline, lattoferrina, lisozima, ed enzimi gastrointestinali come la lipasi. Il congelamento a -20°C riduce inoltre il contenuto in lipidi e dunque il potere energetico del latte umano. Il

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Nutrizione enterale e parenterale del neonato prematuro

Tabella III. Caratteristiche di latte materno e formule usate per la nutrizione enterale del neonato pretermine.

Tipo di latte Potere nutrizionale Effetti potenziali sul rischio di sviluppare infezioni

Effetti potenziali sul rischio di sviluppare enterocolite necrotizzante

Latte umano

Fresco Aumentato rischio di deficit nutrizionali e ritardo di crescita rispetto alla nutrizione con latte umano fortificato o formula per pretermine

Rischio di infezioni batteriche (sepsi e infezioni delle vie urinarie) ridotto rispetto alla nutrizione con formula per pretermine

Rischio di infezione da citomegalovirus

Rischio di NEC ridotto rispetto alla nutrizione con formula per pretermine

Latte pastorizzato secondo metodo Holder (30 minuti a 62.5°C)

Lieve riduzione del contenuto lipidico e calorico rispetto al latte umano fresco

Parziale riduzione del potere nutrizionale e biologico rispetto al latte umano fresco

Rischio di infezioni ridotto rispetto alla nutrizione con formula per pretermine.

Tasso di sepsi simile a quello riscontrato con l’utilizzo di latte umano fresco

Rischio di trasmissione dell’infezione da citomegalovirus assente

Rischio di NEC ridotto rispetto alla nutrizione con formula per pretermine

Latte pastorizzato con tecnica HTST (High-Temperature Short-Time:15 secondi a 72°C)

Nessuna evidenza disponibile Rischio di trasmissione del citomegalovirus assente

Nessuna evidenza disponibile sul rischio di sviluppare NEC rispetto a latte umano fresco e formula per pretermine

Congelato (-20°C) Non altera il potere nutrizionale e biologico del latte umano fresco

Rischio di trasmissione del citomegalovirus più elevato rispetto al latte pastorizzato secondo il metodo Holder ma ridotto rispetto al latte umano fresco

Nessuna evidenza disponibile sul rischio di sviluppare NEC rispetto a latte umano fresco e formula per pretermine

Latte umano fortificato

Fortificazione con prodotti a base di proteine del latte vaccino

Miglioramento della crescita (peso, lunghezza, e circonferenza cranica) durante la degenza in ospedale rispetto alla nutrizione con latte umano non fortificato

Alterazione della disponibilità di nutrienti e delle proprietà del latte umano

Crescita ridotta rispetto alla nutrizione con formula per pretermine

Ottimizzazione della crescita con la fortificazione personalizzata

Rischio di sepsi ridotto rispetto alla nutrizione con formula per pretermine

Rischio di NEC ridotto rispetto alla nutrizione con formula per pretermine

Rischio di NEC non aumentato in maniera significativa rispetto al latte umano non fortificato

Fortificazione con prodotti a base di proteine del latte umano

Tasso di crescita simile a quello ottenuto con l’utilizzo di latte umano fortificato con prodotti a base di proteine del latte vaccino

Rischio di sepsi ridotto rispetto alla nutrizione con formula per pretermine

Tasso di sepsi simile a quello riscontrato con l’utilizzo di latte umano fortificato con prodotti a base di proteine del latte vaccino

Rischio di NEC ridotto rispetto alla nutrizione con formula per pretermine o con latte umano fortificato con prodotti a base di proteine del latte vaccino

(continua)

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G. Terrin, M. De Curtis

latte materno donato, dunque, dovrebbe essere for-tificato, facendo particolare attenzione alle regole di sterilità necessarie a non alterare o contaminare un composto cosi prezioso. Quando il latte umano non è disponibile possono essere utilizzate formule specifiche ottenute dal lat-te vaccino. Le formule per prematuri sono disponibili sotto forma di polvere da diluire in acqua o in forma già liquida. Le formule liquide hanno il vantaggio della sterilità, ma spesso non vi è concordanza tra il conte-nuto previsto e quello reale di nutrienti. Per esempio, parte del contenuto di calcio di una formula liquida può precipitare sulla parete del recipiente riducen-done la disponibilità. Inoltre, il trattamento termico necessario per sterilizzare le formule liquide riduce la biodisponibilità di proteine e minerali. Riguardo la composizione in nutrienti delle formule per prematuri non è stato ancora raggiunto un consenso univoco soprattutto riguardo a lipidi e proteine. Le indicazioni che provengono dalle attuali raccomandazioni sono riportate nelle Tabelle I e II.

Conclusioni e prospettive per il futuroIn conclusione, sulla base dell’analisi delle eviden-ze scientifiche disponibili in letteratura è possibile definire alcuni punti acquisiti, che sono alla base delle attuali raccomandazioni per la nutrizione del

neonato pretermine e altri che richiedono ulteriori studi prima di essere utilizzati nella pratica clinica quotidiana.• Ènecessariocoprire tutti i fabbisogninutrizionali

del neonato pretermine sin dalle prime ore di vita al fine di migliorare il decorso clinico a breve e lun-go termine;

• gliapportiproteiciequelli energeticidevonoan-dare sempre di pari passo, e il rapporto proteine/energia deve sempre essere rispettato per garan-tire l’utilizzo ottimale dei nutrienti e ridurre le com-plicanze metaboliche;

• quandoviene fornitounelevatoapportoproteicoed energetico è necessario aumentare gli apporti di elettroliti, minerali e micronutrienti;

• lanutrizioneenteraledeveessere iniziatapreco-cemente e ricorrendo a un protocollo condiviso, basato sulle evidenze scientifiche disponibili;

• illattematernoèl’alimentodisceltaperilneonatodi basso peso;

• mancanodati a lungo terminesullo sviluppodeinati prematuri in relazione a differenti e precoci interventi nutrizionali (i.e. aumentato contenuto di elettroliti, minerali, micronutrienti, modalità di forti-ficazione del latte materno, metodologie di tratta-mento e uso del latte materno donato);

• ènecessarioseguireleraccomandazionidelleso-cietà scientifiche e verificare l’efficacia a breve e lungo termine di differenti scelte nutrizionali preco-ci solo nell’ambito di studi clinici ben disegnati.

Tabella III (segue). Caratteristiche del latte materno e delle formule usate per la nutrizione enterale del neonato pretermine.

Tipo di latte Potere nutrizionale Effetti potenziali sul rischio di sviluppare infezioni

Effetti potenziali sul rischio di sviluppare

enterocolite necrotizzante

Formula per pretermine

In polvere Migliore assorbimento di lipidi, ritenzione di azoto, mineralizzazione ossea, e crescita rispetto alla nutrizione con latte umano

Migliore potere nutrizionale rispetto a formula liquida

Rischio di sepsi aumentato rispetto alla nutrizione con latte umano

Rischio di infezione da Enterobacter sakazakii

Rischio di NEC più elevato rispetto all’alimentazione con latte umano

Liquida Migliore assorbimento di lipidi e di azoto, mineralizzazione ossea e crescita rispetto alla nutrizione con latte umano

Ridotta biodisponibilità di vari nutrienti (proteine, calcio o rame) rispetto alla formula in polvere a causa della precipitazione di tali nutrienti o del trattamento con calore

Rischio di sepsi aumentato rispetto alla nutrizione con latte umano

Rischio di NEC più elevato rispetto all’alimentazione con latte umano

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Nutrizione enterale e parenterale del neonato prematuro

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*  Riporta i principali risultati sull’utilità del latte materno rispetto alle formule arti-ficiali nel neonato di basso peso.

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Box di orientamento

• Cosa sapevamo prima Un corretto apporto nutrizionale consente di ridurre il ritardo di crescita extrauterino, frequente nei neo-

nati di peso molto basso alla nascita Nei primi giorni di vita le esigenze nutrizionali vengono soddisfatte mediante il ricorso alla nutrizione pa-

renterale.

• Cosa sappiamo adesso Le più recenti raccomandazioni suggeriscono di iniziare la nutrizione parenterale immediatamente dopo

la nascita e di fornire un adeguato apporto di macro e micronutrienti, attraverso soluzioni endovenose equilibrate, finalizzate a promuovere precocemente uno stato di anabolismo

• Per la pratica clinica Gli apporti minimi raccomandati iniziali per evitare uno stato di catabolismo sono 1,5-2 g/ kg/die di ami-

noacidi, 6-7 g/kg/die di carboidrati e 1-2 g/kg/die di lipidi. Nel corso della prima settimana di vita bisogna raggiungere apporti energetici di 90-120 Kcal/kg/die,

somministrando 3-4 g/kg/die di aminoacidi, 12-16 g/kg/die di carboidrati e 3-4 g/kg/die di lipidi. Elettroliti e minerali vanno somministrati sin dalle prime ore di vita e le loro concentrazioni ematiche van-

no attentamente monitorate al fine di mantenerle nei limiti consigliati. La nutrizione enterale deve essere iniziata il prima possibile con piccoli volumi (10-30 ml/kg/die) e pro-

gressivamente aumentata (20-30 ml/kg/die) fino al raggiungimento di un’alimentazione enterale esclusi-va (150-160 ml/kg/die pari a 120 Kcal/kg/die).

Il latte materno è sempre preferibile alle formule artificiali per la nutrizione enterale dei neonati prematuri. Al fine di migliorare il potere nutrizionale il latte materno deve essere fortificato con integratori specifici

quando è somministrato in quantità superiori a 80 ml/kg/die nei neonati molto prematuri.

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G. Terrin, M. De Curtis

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* Evidenzia l’utilità di coprire gli elevati fabbisogni nutrizionali sin dai primi giorni di vita.

Corrispondenza

Mario De CurtisUnità di Neonatologia, Patologia e Terapia Intensiva Neonatale, Dipartimento di Pediatria e Neuropsichiatria Infantile, Sapienza Università di Roma, viale del Policlinico 155, 00161 Roma - Tel. +39 06 49972531 - E-mail: [email protected]

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Gennaio-Marzo 2015 • Vol. 45 • N. 177 • Pp. 53-64 Prospettive in Pediatria

Frontiere

Genetica e patologia della filtrazione renale

Maria Pia Rastaldi

Laboratorio di Ricerca Nefrologica, Fondazione IRCCS Ca’ Granda Ospedale Maggiore

Policlinico, Milano

Le patologie glomerulari sono responsabili di una quota rilevante di soggetti con nefropatia e insufficienza renale cronica. Pertanto, conoscere l’eziologia e la patogenesi del danno glomerulare costituisce premessa essenziale all’individuazione di strategie terapeutiche efficaci. Per anni lo studio del glomerulo e delle cellule che lo compongono è stato ostaco-lato da limitazioni inerenti la sua complessa struttura e la localizzazione profonda nell’or-ganismo. Inoltre, gli studi in vitro non riflettevano il livello di alta specializzazione cellulare osservato in vivo. Il recente miglioramento delle tecniche di microscopia, di biologia cellulare e molecolare, e della produzione di modelli transgenici ha determinato una svolta radicale negli studi delle malattie glomerulari. In particolare, il contributo della genetica è stato e continua ad essere cruciale nell’identificazione delle molecole essenziali per la filtrazione glomerulare.Basandosi sui progressi della genetica avvenuti negli ultimi 15 anni, questa revisione de-scrive quanto oggi è noto sulla barriera di filtrazione glomerulare e sottolinea le potenzialità diagnostiche e terapeutiche derivanti dall’identificazione delle molecole e delle vie di se-gnale che sono profondamente alterate nelle patologie glomerulari pediatriche.

Glomerular filtration is crucial to the maintenance of body homeostasis and glomerular damage is responsible for a large percentage of children requiring dialysis and renal transplant. Precise knowledge of etiology and pathogenesis of glomerular diseases is essential to design better therapeutic strategies. In the past, research in this field has suffered from limitations due to the complex glomeru-lar structure and the profound location of glomeruli inside the body. Furthermore, in vitro studies were limited by the high level of cell differentiation, making it difficult to obtain and maintain glomerular cell cultures.Recent research advances have been prompted by the exponential improvement of mi-croscopy, cell biology, and molecular biology techniques. Genetic studies, through the dis-covery of gene mutations causative of glomerular diseases, have been particularly helpful in identifying the molecules playing important roles in glomerular filtration. Based on genetic advances reached in the last 15 years, this review describes what is presently known on glomerular filtration and focuses on the diagnostic and therapeutic potential of recent discoveries.

Riassunto

Summary

IntroduzioneIl processo di filtrazione del sangue da parte del glomerulo renale conduce alla formazione di un ultrafiltrato composto principalmente da acqua e da soluti di pic-cole dimensioni, consentendo l’eliminazione urinaria di prodotti del catabolismo e preservando le sostanze utili all’organismo, in particolare le proteine.La barriera di filtrazione glomerulare è costituita da un capillare convoluto, com-posto da cellule endoteliali che poggiano sulla membrana basale, quest’ultima

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M.P. Rastaldi

rivestita esternamente dai prolungamenti di cellu-le estremamente differenziate denominate podociti (Fig. 1). Gli elementi che costituiscono la barriera di filtrazione hanno una serie di caratteristiche che conferiscono la selettività sia dimensionale che di carica elettrica del capillare nei confronti delle molecole con cui viene in contatto. L’endotelio, che possiede fenestrae di circa 100 nm di diametro, non provvede elevata restrizione dimensio-nale, ma è rivestito da uno spesso glicocalice costi-tuito da proteoglicani solfati, come syndecans, acido ialuronico, e sialoglicoproteine, che conferiscono alla superficie una carica elettrica negativa (Haraldsson e Nyström, 2012).La membrana basale glomerulare, che ha uno spes-sore di circa 300 nm, produce una restrizione di-mensionale al passaggio di molecole ed è formata dall’assemblaggio di numerose molecole della matri-ce extracellulare quali collagene, laminina, entactin/nidogen, e proteoglicani. I proteoglicani contengono glicosaminoglicani solfati costituiti da eparan solfato e

condroitin solfato, i quali impartiscono alla membrana carica elettrica negativa (Miner, 2011). I podociti contribuiscono con ulteriori restrizioni sia dimensionali che di carica. Essi sono cellule dotate di ramificazioni primarie e secondarie che si dipar-tono dal corpo cellulare localizzato nello spazio di Bowman. Le ramificazioni, o processi podocitari, av-volgono completamente la membrana basale del ca-pillare intrecciandosi tra loro e sono collegate da un complesso giunzionale largo circa 40 nm denominato slit-diaphragm o poro di filtrazione. Si ritiene che tale complesso giunzionale sia il principale responsabile dei limiti dimensionali del filtro glomerulare. La selet-tività elettrica dei podociti è dovuta ai domini extra-cellulari di proteine come podoendin, podoplanin, e podocalyxin (Greka e Mundel, 2012). Ogni tipo di danno alla barriera glomerulare causa per-dita di proteine nelle urine (proteinuria). Se non ade-guatamente trattata, la proteinuria di per sé costituisce un fattore di progressione della patologia glomerulare e dell’estensione delle lesioni alle altre strutture del rene, fino alla perdita di funzione (Snyder e John, 2014).

Figura 1. Struttura della barriera di filtrazione.A) Rappresentazione schematica di un glomerulo, costituito da un capillare convoluto formato da cellule endoteliali che poggiano su una membrana basale. Esternamente alla membrana basale sono identificabili i podociti. Il capillare è so-stenuto dal mesangio, una forma di tessuto connettivale costituito da cellule mesangiali e matrice mesangiale.B) La microscopia elettronica a trasmissione consente di esaminare in dettaglio la barriera di filtrazione nelle sue com-ponenti: i podociti, di cui nella figura si apprezzano i prolungamenti primari e secondari regolarmente allineati lungo la membrana basale, e l’endotelio fenestrato.

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Genetica e glomerulo

Quando la perdita proteica è massiva si configura una condizione patologica molto grave denominata sindrome nefrosica, caratterizzata da alterazioni me-taboliche che coinvolgono il metabolismo dei lipidi e dei processi di coagulazione. L’osservazione al microscopio elettronico della biop-sia renale permette di visualizzare chiaramente le alterazioni morfologiche della barriera di filtrazione. Dipendentemente dalla specifica patologia, esse pos-sono interessare primariamente ciascuno dei com-ponenti del filtro, ma le alterazioni podocitarie sono quelle più chiaramente distinguibili e invariabilmente presenti in ogni tipo di malattia glomerulare (Fig. 2). Al microscopio ottico si osservano diversi tipi di lesio-ne, dalla assenza completa di alterazioni glomerulari (malattia a lesioni minime) a quadri di sclerosi me-sangiale diffusa, ma la forma più comune è la glome-rulosclerosi segmentaria focale (GSF), caratterizzata dalla solidificazione di una parte (segmentaria) del flocculo glomerulare e riscontrabile solo in alcuni glo-meruli (focale).La complessa struttura del glomerulo e la sua localiz-zazione profonda nell’organismo sono state per molti anni limitazioni importanti allo studio della fisiologia e della patologia delle cellule che lo compongono, e hanno ostacolato il riconoscimento preciso delle cause e dei meccanismi che stanno alla base delle patologie glomerulari. Ancora oggi ciò si riflette nella scarsità di opzioni terapeutiche per molte patologie renali, in particolare per quelle che insorgono in età pediatrica.Il progresso tecnologico degli anni più recenti sta mo-dificando largamente questa situazione, grazie al mi-glioramento delle tecniche di microscopia, di biologia cellulare e molecolare, e della produzione di modelli transgenici. In particolare, il contributo della genetica, facilitato dalle tecniche introdotte recentemente, è sta-to e continua ad essere cruciale nell’identificazione di molecole essenziali per la filtrazione glomerulare.Dalla scoperta di NPHS1 (Kestilä et al., 1998), il gene che codifica per nefrina, e delle sue mutazioni che causano la forma più grave di sindrome nefrosica congenita, la cosiddetta forma finnica, sono stati sve-lati numerosi altri geni coinvolti nella sindrome nefro-sica ereditaria e sporadica. Lo studio funzionale del-le proteine codificate da questi geni ha consentito di comprendere aspetti fondamentali della complessità molecolare della barriera di filtrazione glomerulare.

Obiettivo della revisioneBasandosi sui progressi della genetica avvenuti ne-gli ultimi 15 anni, questa revisione descrive quanto oggi è noto sulla barriera di filtrazione glomerulare e sottolinea le potenzialità diagnostiche e terapeutiche derivanti dall’identificazione delle molecole e delle vie di segnale che sono profondamente alterate nella sin-drome nefrosica pediatrica.

Le principali scoperte della geneticaLe scoperte della genetica avvenute negli ultimi 15 anni hanno favorito decisivi passi avanti non solo nel-la definizione diagnostica di una serie di patologie gravi della filtrazione glomerulare, precedentemente classificate come “idiopatiche”, ma anche nell’indiriz-zare l’attenzione dei ricercatori sulla cellula podocita-ria. Infatti, tutti i geni identificati finora come responsa-bili di forme familiari e sporadiche di sindrome nefro-sica codificano per molecole specifiche del podocita o per molecole che, prodotte e secrete dal podocita, sono depositate nella membrana basale glomerulare. L’identificazione delle molecole mutate è stata il punto di partenza per studi funzionali in vitro e in vivo, con il conseguente avanzamento delle conoscenze biolo-giche e molecolari. Ancora oggi genetica e biologia della barriera di filtra-zione procedono di pari passo, producendo un qua-dro sempre più preciso degli eventi molecolari che caratterizzano il glomerulo sano e patologico.

Figura 2. Anse glomerulari normali e patologiche osser-vate mediante microscopia elettronica a scansione.A) La rete dei processi podocitari che avvolgono il capil-lare glomerulare è chiaramente osservabile nel glomerulo normale. B) Nella sindrome nefrosica non sono più visibili i prolun-gamenti dei podociti, e l’aspetto omogeneo riscontrato è all’origine del termine “fusione” dei prolungamenti.

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M.P. Rastaldi

I primi studi di genetica, stimolati dall’esistenza di for-me familiari e congenite di sindrome nefrosica, han-no condotto alla scoperta nel 1998 del gene NPHS1 responsabile della forma più grave di proteinuria del bambino, la sindrome nefrosica di tipo finnico (Kestilä et al., 1998). NPHS1 codifica per nefrina, una moleco-la di adesione presente a livello dello slit diaphragm (Kawachi et al., 2006). Studi immediatamente successivi hanno consentito l’identificazione di mutazioni del gene NPHS2, che codifica per un’altra proteina dello slit diaphragm, podocina, come causa di una forma relativamente comune di sindrome nefrosica autosomica recessiva (Boute et al., 2000). Diversamente dalla forma finlan-dese causata da mutazioni di nefrina, che ha esordio neonatale, le forme dovute a mutazioni di podocina possono essere più tardive, manifestandosi fino ai 6 anni di età oppure addirittura in età adulta. Infine, è stato identificato un polimorfismo comune di podoci-na (p.R229Q) che causa malattia solo se associato ad una seconda mutazione di podocina, e che deter-mina l’insorgenza di forme meno severe di malattia e ad esordio più tardivo (Machuca et al., 2009). Studi più recenti su NPHS2 hanno prodotto ulteriori eviden-ze sperimentali a favore dell’ipotesi che la patogenici-tà di un allele NPHS2 mutato dipenda dalla presenza di una seconda mutazione in trans dello stesso gene, informazioni che sono di notevole utilità nella consu-lenza genetica alle famiglie e ai soggetti portatori di mutazioni (Tory et al., 2014).Le mutazioni di NPHS1 e NPHS2 rappresentano le cause genetiche più comuni delle forme congenite di sindrome nefrosica steroido-resistente, ma ad oggi sono almeno 27, e in continuo aumento, i geni identifi-cati come responsabili di forme familiari e sporadiche della malattia (Tab. I). La scomparsa dello slit diaphragm, o la sua sosti-tuzione con una giunzione occludente (Kriz et al., 2013), è uno dei segni morfologici più comuni nelle patologie proteinuriche umane e sperimentali. Questo tipo di alterazione si associa alla cosiddetta “fusione” dei processi podocitari, determinata dal profondo ri-modellamento del citoscheletro costituito principal-mente da filamenti di actina (Faul et al., 2007) (Fig. 3). Pertanto non sorprende che NPHS1 e molti dei geni successivamente individuati codifichino per molecole localizzate a livello dello slit diaphragm (NPHS2, NPHS3, CD2AP, TRPC6) o per proteine ci-toscheletriche (SMARCAL1, ACTN4, MYH9, Myo1E, ARHGAP24, INF2), o per molecole che interagiscono con le piccole GTPasi che regolano il citoscheletro (PCLE1), supportando fortemente il nesso molecola-re tra la complessa morfologia del podocita e la sua funzione (Rood et al., 2012).Questo legame è stato ulteriormente confermato dal-la recente identificazione di casi di sindrome nefrosi-ca dovuti a mutazioni di ARHGDIA, il gene che codi-fica per la proteina Rho GDP dissociation inhibitor α

(Gee et al., 2013). Membri della famiglia delle piccole GTPasi Rho controllano le dinamiche del rimodella-mento di actina. Le interazioni tra le piccole GTPasi RhoA, Rac1, e Cdc42 sarebbero dunque modificate dalle alterazioni di Rho GDP dissociation inhibitor α causate dalle mutazioni, col risultato finale di incre-mentare l’attività di Rac1 e Cdc42 (Gee et al., 2013), che si associa ad aumento della motilità dei podociti.Se è vero che oggi prevale la teoria secondo cui la stabilità dei processi podocitari è rappresentata da un fenotipo stazionario, mentre la loro instabilità si con-cretizza in un fenotipo mobile, è tuttavia verosimile che sbilanciamenti in entrambi i sensi rappresentino una deviazione patologica da una situazione di equi-librio altamente regolata.Infatti, da un lato le evidenze sperimentali conferma-no che topi transgenici che non esprimono le GTPasi Cdc42 (Scott et al., 2012) o quelli che esprimono una forma dominant-negative di Rho (Wang et al., 2012), o una forma costitutivamente attiva di Rac1 (Yu et al., 2013) sono proteinurici e, in vitro, i podociti con le stesse alterazioni molecolari presentano aumentata motilità. Tuttavia, è stato anche dimostrato che mu-tazioni di MYO1E presenti in soggetti con sindrome nefrosica sono causa di alterazioni della miosina non-muscolare di classe 1E che nei podociti causa una ridotta capacità di migrazione (Mele et al., 2011).Un simile sbilanciamento delle dinamiche tra piccole GTPasi, actina e miosina si verifica quando è mutato il gene ANLN, che codifica per la proteina actin-bin-ding anillina. La recente identificazione di mutazioni di ANLN in soggetti con GSF a trasmissione autoso-mica dominante ha consentito infatti di dimostrare che l’assenza di anillina si traduce in alterata espressione e funzione di Rho, actina e miosina (Gbadegesin et al., 2014).Le proteine della famiglia formin hanno ruoli rilevan-ti nella coordinazione non solo del citoscheletro di actina, ma anche nell’assemblaggio e le dinamiche dei microtubuli. Mutazioni di Inverted Formin 2 (INF2) sono state recentemente identificate come causa di forme di GSF autosomiche dominanti e in forme di GSF associata alla malattia di Charcot Marie Tooth (Boyer et al., 2011; Gbadegesin et al., 2012). La mag-gior parte delle mutazioni sono raggruppate negli eso-ni che codificano per il dominio diafano inibitorio (DID) della molecola, e quelle delle forme sindromiche sono per lo più situate tra due DID-binding pockets, e pro-ducono alterazioni funzionali più gravi della proteina rispetto alle mutazioni delle forme non-sindromiche. Il DID media l’autoinibizione di INF2 attraverso la sua interazione con il dominio diafano C-terminale e con-sente a INF2 di accelerare la polimerizzazione/depo-limerizzazione di actina e di regolare il targeting alla membrana cellulare mediante la formazione di com-plessi con Rho, Cdc42, MAL (myelin and lymphocyte protein), e MAL2 sia nei podociti che nelle cellule di Schwann (Sun et al., 2013; Gurel et al., 2014).

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Genetica e glomerulo

Tabella I. Geni finora identificati come responsabili di sindrome nefrosica e raggruppati secondo la localizzazione/fun-zione nella cellula podocitaria.

Localizzazione o funzione

Identificativo Proteina codificata

Modalità di trasmissioneautosomica dominante (AD) o recessiva (AR)

Slit diaphragm

NPHS1 Nefrina AR

NPHS2 Podocina AR

TRPC6 Transient receptor potential channel 6

AD

CD2AP CD2-associated protein AR

Molecole associate al citoscheletro

SMARCAL1 SWI/SNF related, matrix associated, actin dependent regulator of

chromatin, subfamily a-like 1

AR

ACTN4 Actinin, alpha 4 AD

MYH9 Myosin, heavy chain 9, non-muscle

AD

Myo1E Myosin IE AR

ARHGAP24 Rho GTPase activating protein 24

AD

INF2 Inverted formin, FH2 and WH2 domain containing

AD

ARHGDIA Rho GDP dissociation inhibitor (GDI) alpha

AR

ANLN Anillin AR

PCLE1 Phospholipase C, epsilon 1 AR

Fattori di trascrizione

WT1 Wilms Tumor 1 AD

LMX1B Homo sapiens LIM homeobox transcription

factor 1, beta

AD

Molecole mitocondriali

COQ6 Coenzyme Q6 monooxygenase

AR

COQ2 Coenzyme Q2 4-hydroxybenzoate

polyprenyltransferase

AR

PDSS2 Prenyl (decaprenyl) diphosphate synthase,

subunit 2

AR

ADCK4 AarF domain containing kinase 4

AR

Molecole lisosomiali

SCARB2 Scavenger receptor class B, member 2

AR

(continua)

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La centralità di nefrinaTra le proteine che costituiscono lo slit diaphragm, nefrina sembra avere un ruolo prominente, dimostra-to innanzitutto dal fatto che le mutazioni del gene che la codifica, NPHS1, sono responsabili della forma più grave di sindrome nefrosica del neonato, e conferma-to dall’osservazione del fenotipo letale dei topi null per nefrina (Welsh e Saleem, 2010). In numerose condizioni patologiche glomerulari, sia umane che sperimentali, l’espressione di nefrina ri-sulta essere profondamente alterata. Frequentemente le variazioni di espressione di nefrina sono precoci e precedono la comparsa di alterazioni morfologiche podocitarie osservabili in microscopia elettronica non-ché la comparsa di proteinuria (Pugliese et al., 2007; Li et al., 2013). Nefrina è una proteina trans-membrana della super-famiglia delle immunoglobuline ed è costituita da un peptide di segnale nel dominio N-terminale, un domi-nio extracellulare che contiene otto moduli simil-im-munoglobulinici e un modulo simil-fibronectina di tipo terzo, un singolo dominio transmembrana, e un do-

minio intracellulare C-terminale (Kestilä et al., 1998).L’espressione di nefrina nel podocita è regolata da di-versi fattori di trascrizione (Ristola e Lehtonen, 2014), di cui il più studiato è WT1, che costituisce un fattore determinante nello sviluppo embrionale del glomerulo, come pure nel mantenimento dello stato di salute del glomerulo maturo (Morrison et al., 2008). Le mutazioni di WT1 causano: a) la sindrome di WAGR (tumore di Wilms, aniridia, anomalie genitourinarie, ritardo men-tale), b) la sindrome di Denys-Drash (tumore di Wilms, pseudoermafroditismo maschile, sindrome nefrosica), e c) la sindrome di Frasier (pseudoermafroditismo ma-schile, sindrome nefrosica, gonadoblastoma). Più rara-mente, mutazioni di WT1 sono state osservate in casi di sindrome nefrosica isolata trasmessa in modalità autosomica dominante (Hall et al., 2014).A partire dallo stadio capillare delle fasi di maturazio-ne glomerulare l’espressione di WT1 diventa esclusi-vamente podocitaria, e WT1 attiva il gene di nefrina legandosi ad una regione conservata del promotore della nefrina umana (Guo et al., 2004). Nel topo, la re-gione di legame di WT1 si localizza a circa 600 paia di basi a monte del sito omologo del gene umano (Wa-

Tabella I (segue). Geni finora identificati come responsabili di sindrome nefrosica e raggruppati secondo la localizzazio-ne/funzione nella cellula podocitaria.

Localizzazione o funzione

Identificativo Proteina codificata

Modalità di trasmissioneautosomica dominante (AD) o recessiva (AR)

Molecole del ciglio primario

TTC21B intraflagellar transport protein 139

AD

Molecole coinvolte nella mitosi

WDR73 WD repeat domain 73 AR

Molecole della membrana basale glomerulare e integrine

LAMB2 Laminin, β2 AR

ITGA3 Integrin, alpha 3 (antigen CD49C, alpha 3 subunit of

VLA-3 receptor)

AR

ITGB4 Integrin, beta 4 AR

Altre

CUBN Cubilin (intrinsic factor-cobalamin receptor)

AR

DGKE Diacylglycerol kinase, epsilon

AR

NEIL1 Nei endonuclease VIII-like 1

AR

PTPRO Protein tyrosine phosphatase, receptor

type, O (meglio nota come GLEPP-1 o NPHS6)

AR

CRB2 Crumbs homolog 2 AR

MEFV Pyrin AR

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Genetica e glomerulo

gner et al., 2004).La sintesi di nefrina è regolata anche da meccanismi epigenetici, come inizialmente scoperto da Ristola et al (Ristola et al., 2012), con l’identificazione dell’inibi-zione della trascrizione di nefrina imputabile a metila-zione di tre isole CpG localizzate tra i geni di nefrina e Nph3 e nelle rispettive regioni codificanti. Inoltre, è stato dimostrato che il fattore di trascrizione KLF4 è un regolatore della metilazione del DNA di nefrina (Hayashi et al., 2014); l’aumentata espressione di KLF4 è infatti in grado di demetilare il DNA di nefrina e indurne la trascrizione.Inoltre, una regolazione indiretta post-trascrizionale è determinata dalla soppressione della trascrizione di WT1 da parte del microRNA-193a (Gebeshuber et al., 2013). Gli autori hanno osservato un’espressione

aumentata del microRNA-193a in pazienti affetti da GSF e hanno dimostrato che WT1 costituisce il target principale di questo microRNA. Il legame di micro-RNA-193a al RNA messaggero di WT1 riduce la sua traduzione, che si riflette in una ridotta espressione sia di WT1 che di nefrina, con conseguente danno podocitario.Un ulteriore meccanismo di regolazione di nefrina è costituito dalla cosiddetta SUMOilazione. SUMO (small ubiquitin-like modifier) è una proteina della fa-miglia dell’ubiquitina (Wilson VG e Rangasamy 2001). La molecola si lega e modifica residui di lisina delle proteine target, bloccandone l’ubiquitinazione e quin-di la degradazione. Nel caso di nefrina, sembra che SUMO possa legarsi alle lisine 1114 and 1224 del do-minio intracellulare della nefrina murina e alla lisina 1100 della nefrina umana, contribuendo alla preser-vazione di nefrina (Tossidou et al., 2014).Il dominio dello slit diaphragm dove nefrina è loca-lizzata costituisce un lipid raft, dove sono presenti altre proteine cruciali per il podocita, quali podocina (NPHS2) e il canale del calcio TRPC6 (Schwarz et al., 2001; Huber et al., 2006), le cui mutazioni sono state identificate in soggetti affetti da sindrome nefrosica. In questo dominio di membrana nefrina agisce come una piattaforma di signaling, essendo in grado di trasmette-re al citoscheletro di actina le informazioni provenienti dall’ambiente extracellulare (Huber e Benzing, 2005). La trasmissione dei segnali è possibile grazie alla fo-sforilazione del dominio intracellulare di nefrina, dovu-ta prevalentemente all’attività della chinasi Fyn, appar-tenente alla famiglia Src (Verma et al., 2003).La fosforilazione di nefrina è importante anche per la sua internalizzazione raft-mediata (Qin et al., 2009) ed è un evento molecolare necessario per lo sviluppo e il mantenimento della struttura dei processi podocitari. Nefrina fosforilata è in grado infatti di reclutare moleco-le adattatrici, come Nck1/2, Grb2 and Crk1/2, regolan-do l’assemblaggio di complessi proteici che regolano la polimerizzazione di actina (Garg e Holzman, 2012).Recentemente è stato dimostrato che la fosforilazione di nefrina può essere determinata dal legame di sFlit1, la forma solubile del recettore del fattore di crescita VEGF (vascular endothelial growth factor) fms-related tyrosine kinase 1 (Flt1), prodotto dai podociti e quindi in grado di agire in modo paracrino nella regolazione del signaling intracellulare podocitario (Jin et al., 2012).La fosforilazione di nefrina è un evento altamente re-golato, e sia l’aumento che la riduzione di fosforilazio-ne sono stati associati a danno podocitario in modelli animali e in patologia umana (Uchida et al., 2008; Ohashi et al., 2010; Veron et al., 2010). In vitro, la for-mazione di clusters di nefrina fosforilata causano la formazione di lamellipodia (Venkatareddy et al., 2011) e contribuiscono al fenotipo mobile del podocita che è stato associato a stati patologici. I dati finora prodotti pertanto sembrano stabilire l’importanza di un con-trollo stretto della fosforilazione di questa proteina,

Figura 3. Esempi di glomerulo normale e patologico os-servati al microscopio elettronico a trasmissione.A) Le anse capillari sono ampie e libere, l’endotelio è fe-nestrato, la membrana basale è di spessore regolare, e i prolungamenti podocitari sono chiaramente visibili e sepa-rati tra loro. Alcuni globuli rossi sono distinguibili all’interno del capillare.B) La matassa glomerulare non è più distinguibile chiara-mente e i processi podocitari sono “fusi” tra loro, formando uno strato citoplasmatico uniforme che riveste la membra-na basale ispessita e contorta.

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confermando che il podocita necessita di uno stato di equilibrio molecolare per preservare la propria strut-tura e la propria funzione.Il dominio extracellulare di nefrina sembra essere al-tamente glicosilato, contiene siti di legame per epa-ran-solfato, e possiede cisteine libere che servono a formare legami disolfuro con molecole adiacenti. Le interazioni omofiliche e eterofiliche di nefrina, con sé stessa e con le molecole della famiglia proteica Neph (Neph1, Neph2 e Neph3), sono essenziali alla stabi-lità dello slit diaphragm e al mantenimento della fun-zione della barriera di filtrazione glomerulare (Gerke et al., 2003; Gerke et al., 2005; Heikkilä et al., 2011). Nefrina è una molecola ad espressione ristretta ad al-cuni tipi cellulari. Oltre ai podociti, nefrina è presente in poche altre cellule dell’organismo dei mammiferi, come le cellule neuronali, i linfociti, e le cellule beta del pancreas (Putaala et al., 2000; Aström et al., 2006; Liu et al., 2001; Fornoni et al., 2010). È stata inoltre osser-vata nelle fasi di sviluppo embrionale a livello epicardi-co e dei vasi coronarici (Wagner et al., 2011).L’espressione di nefrina nelle cellule neuronali è par-ticolarmente interessante, tenendo conto del fatto che gli ortologhi di nefrina in Caenorhabditis elegans (Syg-2) e Drosophila melanogaster (Hibris) sono molecole cruciali per il posizionamento e il targeting delle sinapsi (Shen et al., 2004; Sugie et al., 2010), suggerendo che dal punto di vista evolutivo la funzio-ne originaria di nefrina sia quella di una molecola di adesione sinaptica.L’espressione neuronale di nefrina è stata immedia-tamente osservata fin dalla scoperta della molecola e successivamente confermata da diversi autori (Kestilä et al., 1998; Putaala et al., 2000; Putaala et al., 2001). Durante lo sviluppo embrionale del topo l’mRNA di nefrina è stato osservato nel rombencefalo e nel mi-dollo spinale. Dal tredicesimo al diciassettesimo gior-no embrionale (E13-E17), nefrina è espressa nel neu-roepitelio del primordio cerebellare a livello del tetto del quarto ventricolo (Kestilä et al., 1998). Nel topo neonato l’espressione di beta-galattosidasi guidata dal promotore di nefrina è stata osservata nel cervelletto, nel mesencefalo, e in alcuni glomeruli del bulbo olfattivo (Putaala et al., 2000). Al sedicesimo giorno dopo la nascita è inoltre osservabile nel giro dentato dello strato molecolare dell’ippocampo.Lo studio del topo adulto (Li et al., 2011) ha mostrato che nefrina endogena è espressa estesamente nella corteccia motoria, mentre è assente nella corteccia somatosensitiva. Inoltre esprimono nefrina alcune cellule del corpo calloso e la molecola è presente in modo diffuso nel plesso corioideo, nel ponte, nel mi-dollo allungato e nel bulbo olfattivo. Nefrina si osserva nello striato dorsale (nucleo caudato e putamen) e nel talamo. Nell’ippocampo, nefrina è presente in alcuni neuroni piramidali della regione C3, in qualche cellula della regione CA1, mentre l’ilo è completamente nega-tivo. Infine, a livello cerebellare, la molecola è presente

nelle cellule del Purkinje e nelle cellule granulari dello strato nucleare (Li et al., 2011).La presenza di nefrina nei gangli della base e nella corteccia motoria unitamente alla sua assenza nella corteccia somatosensitiva suggerisce che la moleco-la sia importante per la formazione di circuiti neurona-li legati al movimento. Questa associazione sembra trovare conferma nella sua presenza a livello cere-bellare, che tra l’altro spiegherebbe la sintomatologia atassica che è stata osservata in topi null per nefrina la cui sopravvivenza era stata prolungata mediante re-introduzione di nefrina solo a livello renale (Juhila et al., 2010).

Mitocondri, lisosomi, e nuove scoperteSe è vero che la maggior parte delle mutazioni che causano sindrome nefrosica riguardano geni codifi-canti molecole dello slit diaphragm e del citoschele-tro podocitario, non bisogna dimenticare un gruppo di mutazioni, osservate in forme prevalentemente sindro-miche, di geni codificanti molecole appartenenti ad or-ganuli intracellulari, come i mitocondri (COQ6, COQ2, PDSS2) e i lisosomi (SCARB2) (Machuca et al., 2009). Anche in questo caso, la genetica è stata determi-nante per focalizzare l’attenzione della ricerca sull’im-portanza delle funzioni mitocondriali e lisosomiali nel podocita. In particolare, i mitocondri sembrano avere nel podo-cita un ruolo preminente rispetto ad altri tipi cellulari perché i podociti sono incapaci di ricorrere alla gli-colisi in caso di disfunzione mitocondriale, quindi le richieste di energia sono demandate primariamente alla produzione mitocondriale (Abe et al., 2010).Recentemente sono state identificate mutazioni del gene ADCK4 come causa di sindrome nefrosica ac-compagnata da GSF nella variante collapsing (Ashraf et al., 2013). ADCK4 codifica per una proteina (AarF domain containing kinase 4) la cui funzione rimane quasi completamente sconosciuta, ma che nel podo-cita si localizza a livello mitocondriale dove sembra interagire coi coenzimi CoQ6 e CoQ7. Nei soggetti con mutazioni di ADCK4 sono stati inoltre osservati livelli bassi di coenzima CoQ10, e la supplementa-zione dei pazienti con questo coenzima ha prodotto un miglioramento sintomatologico. Va aggiunto che i livelli di CoQ10 sembrerebbero ridotti nella GSF indi-pendentemente dalla presenza di mutazioni (Gasser et al., 2013), il che farebbe pensare ad un ruolo più generale giocato da questa molecola e confermereb-be indirettamente la centralità del mitocondrio nel me-tabolismo podocitario.SCARB2 codifica per Limp2 (lysosomal integral mem-brane protein 2), una glicoproteina della membra-na lisosomiale con diverse funzioni che vanno dalla biogenesi e mantenimento di endosomi e lisosomi, al ruolo di recettore della glucocerebrosidasi, e di re-

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Genetica e glomerulo

cettore per diversi enterovirus (Gonzalez et al., 2014). Disordini lisosomiali possono avere come conseguen-za immediata la disregolazione dell’autofagia, come recentemente osservato in cellule derivate da soggetti con mutazioni di SCARB2, che presentano aumentato numero di autofagosomi dovuto verosimilmente all’im-possibilità di fusione lisosomiale (Gleich et al., 2013).Recentemente Cong et al hanno identificato una mu-tazione missense omozigote del gene TTC21B in set-te famiglie con GSF a rapida progressione verso lo stadio di insufficienza renale terminale (Cong et al., 2014). Il tessuto renale dei pazienti con la mutazione presentava non solo il danno glomerulare, ma anche un ispessimento della membrana basale tubulare, che potrebbe spiegare il danno tubulointerstiziale e la rapida progressione verso l’insufficienza renale.TTC21B è un gene localizzato nel ciglio primario e già associato a nefronoftisi (Otto et al., 2011). I nuovi dati mostrano che la proteina codificata da TTC21B, IFT139 (intraflagellar transport protein 139), si loca-lizza alla base del ciglio primario nei podociti immaturi isolati da rene umano fetale e in una linea indifferen-ziata di podociti, mentre nel podocita maturo/adulto che non possiede il ciglio primario la molecola si trova lungo i microtubuli. La ridotta espressione di IFT139 determina difetti del ciglio primario, alterata capacità di migrazione cellulare, e alterazioni citoscheletriche, tutte alterazioni solo parzialmente recuperate dopo transfezione dei podociti IFT139-KO con la proteina mutata, ad indicare un effetto ipomorfico della muta-zione (Cong et al., 2014).Infine, nel 2014 è stato identificato per la prima volta un gene responsabile della sindrome di Galloway-Mo-wat, una patologia rara a trasmissione autosomica re-cessiva caratterizzata da sindrome nefrosica, micro-cefalia, e deficit neurologico (Cohen et al, 1994). Gli autori hanno identificato mutazioni del gene WDR73 in due famiglie affette dalla sindrome (Colin et al., 2014). La proteina codificata da WDR73 è una mole-cola la cui funzione era completamente sconosciuta e che sembra essere coinvolta nella formazione dei poli del fuso mitotico e negli asters di microtubuli che si formano durante la mitosi. A conferma indiretta dell’associazione con la mitosi, l’espressione podoci-taria è evidente nel tessuto renale embrionale, ma è completamente assente nel glomerulo maturo.

La membrana basale glomerulareNei primissimi stadi di formazione dei nefroni, le cellule metanefriche mesenchimali aggregate intorno all’api-ce delle gemme ureterali formano sfere cave di cellule epiteliali denominate vescicole. Successivamente, le vescicole si invaginano e ricevono angioblasti e me-sangioblasti che migrano al loro interno. Nel momento in cui gli angioblasti iniziano a formare contatti inter-cellulari e differenziano in cellule endoteliali, lo strato di cellule epiteliali comincia anch’esso a differenziare.

In questi primi stadi dello sviluppo esistono due mem-brane basali, una formata dalle cellule epiteliali e una formata dalle cellule endoteliali. Esse successiva-mente si fondono a formare una membrana basale comune che si completa insieme alla maturazione finale del flocculo glomerulare (Abrahamson, 2009).Come tutte le membrane basali, la membrana basa-le glomerulare è costituita da quattro tipi principali di molecole: laminina, collagene di tipo IV, nidogen/en-tactin, e eparan solfato proteoglicani, tra cui prevale agrina (Timpl, 1989). Tuttavia, a differenza delle altre membrane basali, quella glomerulare si modifica du-rante la maturazione dagli stadi embrionali al glome-rulo maturo. In particolare, nel glomerulo maturo la composizione delle isoforme di laminina e collagene è profondamente diversa rispetto a quella embrionale. Oggi sappiamo anche che le isoforme specifiche di la-minina e collagene contenute nella membrana basale glomerulare matura sono cruciali per lo sviluppo e la funzione del glomerulo e che mutazioni di queste iso-forme determinano patologie glomerulari (Miner, 2011). Per quanto concerne laminina, gli eterotrimeri embrio-nali sono composti dalle catene α1, β1, γ1 (LAM-111) o dalle catene α5, β1, γ1 (LAM-511), e vengono com-pletamente sostituiti nel glomerulo maturo dall’etero-trimero formato dalle catene α5, β2, γ1 (LAM-521). Mutazioni della catena β2 causano la sindrome di Pierson, caratterizzata da sindrome nefrosica con-genita associata a manifestazioni oculari e neuro-logiche (Matejas et al., 2010; Noakes et al., 1995). Studi del gruppo di Jeffrey Miner hanno mostrato che la ridotta presenza di LAM-521 dovuta alle mutazio-ni risulta nella deposizione ectopica di altri trimeri di laminina che non riescono a mantenere la selettivi-tà della membrana basale glomerulare (Jarad et al., 2006). Inoltre, lo stesso gruppo ha dimostrato che la sindrome nefrosica del topo KO per laminina β2 può essere bloccata dall’iperespressione di laminina β1, mostrando che è richiesto un quantitativo maggiore delle isoforme embrionali di laminina per contrastare l’assenza dell’isoforma matura (Suh et al., 2011).Negli stadi embrionali i precursori glomerulari conten-gono collagene IV composto dalle catene α1α2α1, codificate dai geni COL4A1 e COL4A2. Nel glomerulo maturo questo tipo di collagene è sostituito da colla-gene IV formato dalle catene α3α4α5, codificate dai geni COL4A3, COL4A4, e COL4A5. È interessante notare che, mentre la forma embrionale di collagene è prodotta sia dai podociti che dalle cellule endoteliali, la forma matura è interamente prodotta dai podociti (Abrahamson et al., 2009).Le mutazioni dei geni codificanti per le catene α3, α4, e α5 del collagene IV causano difetti della membrana basale glomerulare di diversa gravità, configurando forme lievi, come la malattia da membrane sottili, o forme più gravi come la sindrome di Alport.La malattia da membrane sottili, anche detta ematuria familiare benigna, è una patologia ad eredità autoso-

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mica dominante causata da mutazioni in eterozigosi dei geni COL4A3 o COL4A4.Le stesse mutazioni, in omozigosi, causano invece la sindrome di Alport, una patologia che progredisce verso l’insufficienza renale ed è accompagnata da manifestazioni oculari e uditive.Tuttavia la forma più comune di sindrome di Alport è determinata da mutazioni del gene COL4A5, che è localizzato sul cromosoma X. Le mutazioni vengono pertanto trasmesse come tratto dominante X-linked, e causano patologia di grado più severo nel sesso maschile.Infine, mutazioni del gene COL4A1 possono anche causare una forma sindromica grave denominata HA-NAC (angiopatia ereditaria con nefropatia, aneurismi e crampi muscolari) (Plaisier et al., 2007). Dal punto di vista renale sono presenti ematuria e grosse cisti bilaterali. Le mutazioni determinano la sostituzione di residui di glicina in una particolare regione della catena A1 del collagene IV, il dominio CB3. Questo dominio è particolarmente implicato nel legame del collagene IV con le integrine, quindi le sue mutazioni interferiscono con le interazioni cellula/matrice.

Prospettive diagnostiche e terapeuticheCome già accennato, gli sviluppi tecnologici stanno modificando in modo significativo l’approccio diagno-stico alle patologie della barriera di filtrazione glome-rulare. In particolare, le nuove tecniche di sequenzia-mento consentono lo screening contemporaneo di numerosi geni su numeri elevati di soggetti o l’analisi completa del genoma di un singolo individuo a costi decisamente contenuti rispetto al passato. È prevedi-bile che le tecnologie continueranno a migliorare nei

prossimi anni, consentendo approcci sempre più per-sonalizzati e meno costosi alla diagnosi di numerose malattie. Sono stati recentemente pubblicati i risultati di quello che finora è il più grande studio multicentrico inter-nazionale condotto su una coorte di 2016 sogget-ti (appartenenti a 1783 famiglie) affetti da sindrome nefrosica steroido-resistente, nei quali sono stati esa-minati con metodica di next generation sequencing gli esoni di 27 dei geni finora individuati in letteratura (Sadowski et al., 2014).I dati mostrano che una mutazione causale in uno dei 27 geni viene rilevata nel 29,5% dei casi di malattia che si manifesti prima dei 25 anni di età. La frequen-za è strettamente età-dipendente: passa da 61.3% nel primo anno di vita, al 25% in bambini di 2-5 anni, al 17% in bambini tra 7 e 12 anni, per scendere infine al 10% se l’esordio avviene dopo 12 anni. L’identificazione delle cause genetiche di malattia non ha solo importanza diagnostica, ma ha immediate conseguenze terapeutiche. Ad esempio, la presenza di mutazioni dei geni implicati nella biosintesi di coen-zima Q10 (COQ2, COQ6, ADCK4, PDSS2), implica la possibilità di trattamento sostitutivo con il coenzima stesso. Nell’immediato futuro è prevedibile che possa-no essere disegnate terapie specifiche a correzione della molecola mutata o delle vie di segnale a val-le della stessa, ma già oggi la diagnosi genetica di malattia consente di evitare trattamenti prolungati con steroidi e di stratificare in modo più preciso i pazienti nei trial clinici, correlando al genotipo il fenotipo e la risposta alla terapia.Infine, lo studio genetico approfondito permette anche l’identificazione dei soggetti nei quali non è presente una causa genetica di malattia, favorendo ulteriori ri-cerche eziologiche e patogenetiche.

Box di orientamento

• Cosa si sapeva primaFino alla scoperta del gene che codifica per nefrina, l’eziologia delle forme familiari e congenite di sin-drome nefrosica steroido-resistente era ignota e le conoscenze sulle cellule che compongono la barriera di filtrazione erano estremamente limitate.

• Cosa sappiamo adessoLa genetica ha consentito di individuare l’eziologia di numerose patologie glomerulari precedentemente diagnosticate come idiopatiche e l’identificazione delle molecole implicate ha permesso lo sviluppo di studi funzionali. Pertanto sono aumentate in modo esponenziale le conoscenze sulle proprietà della bar-riera di filtrazione glomerulare e sugli eventi molecolari che si verificano nel glomerulo sano e patologico.

• Ricadute sulla pratica clinicaLe nuove tecnologie a disposizione della genetica e della biologia molecolare stanno contribuendo ra-pidamente all’evoluzione della diagnostica e della terapia delle patologie della barriera di filtrazione glo-merulare.

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Genetica e glomerulo

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Corrispondenza

Maria Pia RastaldiLaboratorio di Ricerca Nefrologica, Fondazione IRCCS Ca’ Granda Ospedale Maggiore Policlinico, Milano - E-mail: [email protected]

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Gennaio-Marzo 2015 • Vol. 45 • N. 177 • Pp. 65-84 Prospettive in Pediatria

Focus

Le miopatie congenite

Chiara Fiorillo1 Marina Pedemonte1

Federica Trucco1 Giacomo Brisca1

Claudio Bruno1 Carlo Minetti1 2

1 UOC Neurologia Pediatrica e Malattie Muscolari, Istituto

G. Gaslini, Genova; 2 Dipartimento di Neuroscienze e Materno

Infantile, Università di Genova

The congenital myopathies (CM) are a group of genetic skeletal muscle diseases, which typically present at birth or in early infancy. They are heterogeneous for genetic back-ground and disease severity. Clinical manifestations range from foetal akinesia, with le-thality in the newborn period, to later onset cases with milder muscle impairment. Classi-cally, CM are defined by the presence of one or more characteristic histological features on muscle biopsy; namely nemaline, central core and multi-minicore, centronuclear and fibre-type disproportion. Most of the genes involved in the pathogenesis of CM encode for proteins with a fundamental role in muscle structure and functioning. Over the past decade there have been major advances in defining the genetic basis of CM subtypes. However the relationship between each form, defined on histological grounds, and the genetic cause is complex. Many of the CM are due to mutations in more than one gene, and mutations in the same gene can cause different muscle pathologies. This review ex-amines the different forms of CM and focuses on the progress in the diagnostic criteria and genetic advances providing important clues on the pathogenesis of these disorders.

Summary

Le miopatie congenite sono un gruppo di patologie del muscolo scheletrico con esordio alla nascita o nella prima infanzia. Sono molto eterogenee dal punto di vista genetico e clinico. La severità varia da casi con morte nel periodo neonatale a casi con esordio tardivo e lieve deficit muscolare. Classicamente le miopatie congenite sono classificate sulla base delle alterazioni istopatologiche riscontrate a livello della biopsia muscolare e la maggior parte dei geni coinvolti nella patogenesi codifica per proteine con un ruolo essenziale nella struttura e nel corretto funzionamento del muscolo scheletrico. Negli ultimi anni le moderne tecnolo-gie di diagnosi molecolare hanno consentito la caratterizzazione genetica di numerosi casi. Tuttavia la correlazione tra una specifica forma di miopatia, definita in base alle caratteristi-che istologiche, e la sottostante alterazione genetica, non è cosi lineare. Infatti molte delle miopatie congenite sono causate da mutazioni in geni diversi e lo stesso gene può causare più alterazioni bioptiche. Questo lavoro esaminerà le caratteristiche cliniche, istopatologiche e genetiche delle varie forme e analizzerà i progressi della diagnostica clinica e genetica, fornendo importanti indicazioni anche sulle novità patogenetiche di queste malattie.

Riassunto

IntroduzioneLe miopatie congenite sono malattie rare che colpi-scono primitivamente il muscolo scheletrico; vengono così definite perché generalmente esordiscono nel bambino molto piccolo, anche se presentano un’am-pia eterogeneità dal punto di vista clinico, genetico e dei reperti alla biopsia muscolare.

La precisa epidemiologia delle miopatie congeni-te non è nota, ma si stima un’incidenza intorno a 1:25000, rappresentando circa il 14% di tutti i casi di ipotonia congenita (Tubridy et al., 2001). La classificazione nosografica di questo complesso gruppo di malattie è in costante revisione, sia in se-guito all’identificazione di nuove mutazioni genetiche,

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sia per la constatazione che un’alterazione di un sin-golo gene può determinare fenotipi clinici e morfolo-gici diversi così come le diverse forme caratterizzate istopatologicamente possono essere associate a mu-tazioni in geni differenti.Attualmente è ancora valida la classificazione sulla base dei marcatori istopatologici che distingue:1. miopatie con rods (nemaliniche);2. miopatie con core (miopatia central core e multi-

minicore);3. miopatie con nuclei centralizzati (miotubulare e

centronucleare);4. miopatie con disproporzione delle fibre.Ulteriori forme di miopatie congenite più rare sono ca-ratterizzate da altre caratteristiche morfologiche quali le miopatie con alterazioni della miosina, le miopatie con “cap”, le miopatie con corpi riducenti e le miopa-tie con aggregati tubulari. Una caratteristica istopato-logica comune e presente nella maggior parte delle forme suddette è la predominanza delle fibre di tipo I (lente) alla biopsia muscolare (Dubowitz e Sewry, 2007).In questo articolo saranno descritte le diverse forme di miopatie congenite da un punto di vista clinico ed istopatologico, partendo dalle forme classiche ma cercando di focalizzare l’attenzione sulle forme emer-genti dalle nuove scoperte genetiche. L’ultima parte di questa revisione sarà dedicata alle novità in termini di meccanismi patogenetici alla base di queste forme ed agli attuali approcci diagnostici definiti da un consen-so internazionale.

Caratteristiche cliniche generaliIn queste forme è possibile riscontrare una significa-tiva variabilità della presentazione clinica, da forme gravi neonatali con artrogriposi congenita a forme lie-vi con ipostenia ed ipotonia muscolare non progressi-va ad esordio nell’infanzia (North, 2004). Nei casi ad esordio precoce la sintomatologia è in genere più marcata, potendosi verificare riduzione dei movimenti attivi anche in epoca fetale con conse-guente comparsa di artrogriposi e piede torto. Spesso già alla nascita e nei primi mesi di vita è presente un’i-potonia muscolare significativa che porta al quadro del “floppy baby”, con postura batraciana, difficoltà alla suzione e insufficienza respiratoria (Fig. 1A). Questo quadro è comune soprattutto nella grave forma X-linked da deficit di miotubularina. Altre manifestazioni tipiche nel primo anno di vita sono la displasia conge-nita dell’anca e la ipomimia, specie pronunciata nella regione inferiore del viso per cui la rima buccale è te-nuta in posizione semiaperta con labbro superiore “a tenda” che configura la tipica “facies miopatica” (Fig. 1B).Con l’accrescimento, l’ipostenia muscolare rimane re-lativamente stabile, ma si presenta un ritardo nell’ac-quisizione delle tappe motorie; possono comparire

deformazioni osteoarticolari, tra cui retrazioni artico-lari, iperlordosi, scoliosi, o il quadro della cosiddetta spina rigida, come nella forma da mutazioni del gene SEPN1. Comune è una significativa perdita della massa muscolare con scarso peso corporeo e atrofia muscolare diffusa (Colombo et al., 2015) (Fig. 1C).Altri aspetti dismorfici secondari alla ipostenia mu-scolare e caratteristici delle miopatie congenite sono il palato ogivale, la micrognatia e il pectus carinatum o excavatum, conseguente ad ipotonia dei muscoli del torace. Alterazioni della motilità oculare estrinseca con ptosi palpebrale o strabismo possono non essere presenti nel neonato ma svilupparsi nei mesi o negli anni suc-cessivi. L’oftalmoparesi è spesso una caratteristica clinica di alcune forme specifiche come nelle forme di miopatie minicores associate a mutazioni recessive del gene RYR1 o nelle forme centronucleari da muta-zioni di MTM1, DNM2.Le miopatie congenite comprendono anche forme con scarsi sintomi nei primi anni di vita e diagnostica-te solo in età avanzata, o forme pauci-sintomatiche. I casi più lievi possono infatti rimanere asintomatici fino all’età adulta, quando il paziente può lamentare una globale debolezza muscolare prevalentemente prossimale, associata eventualmente a scarsa massa muscolare, presenza di lieve scoliosi e riduzione dei riflessi osteo-tendinei. Dismorfismi, a volte subdoli,

Figura 1. A) Classica presentazione del “floppy infant” in un caso di miopatia miotubulare. Il bimbo assume postu-ra batraciana, con gli arti abbandonati sul letto. Da notare che il paziente è portatore di PEG per difficoltà nella masti-cazione e deglutizione. B) Tipico aspetto di “facies miopa-tica” in un caso di miopatia strutturata con ptosi, bocca a tenda, mantenuta semiaperta. C) Caso di miopatia nemali-nica. Con la crescita si posso sviluppare retrazioni, scoliosi e diffusa atrofia muscolare.

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come la ptosi o la rinolia nel caso di coinvolgimento facciale, il petto carenato, la scapola alata, possono essere riscontrati anche nell’adulto e rappresentarne l’unico segno clinico (Taratuto, 2002). Il coinvolgimento di organi differenti dal muscolo scheletrico è abbastanza raro. Quando l’ipotonia e la debolezza muscolare sono tali da coinvolgere anche i muscoli respiratori si può arrivare ad una insufficienza respiratoria restrittiva, soprattutto nelle miopatia ne-maliniche e miotubulari. L‘interessamento cardiaco è raro ma può essere presente nella miopatia central-core e nella nemalinica caratterizzandosi per disturbi della conduzione o insufficienza valvolare. Cardiomio-patie (dilatative, ipertrofiche o restrittive) sono state descritte in associazione a alcuni rari sottotipi di mio-patia centronucleare e minicores. Alterazioni struttu-rali del sistema nervoso centrale e dei nervi periferici sono generalmente assenti anche se nella maggior parte dei bambini con miopatie congenite risultano ri-dotti o assenti i riflessi tendinei profondi. Solitamente non è presente un coinvolgimento cognitivo.

Miopatia nemalinicaLa Miopatia Nemalinica si definisce per la presenza nelle fibre muscolari scheletriche di piccoli aggregati a forma di bastoncello (dal greco: “nema” che signifi-ca bastoncello) o “ rods “ ben visibili con la colorazio-ne Tricromica di Gomori, composti prevalentemente da alfa-actinina, actina e altri filamenti della stria Z (Fardeau e Tome, 1994). L’incidenza di questa forma è stimata 1 caso su 50.000 nati vivi, ma la malattia potrebbe essere più diffusa in alcune popolazioni (ad esempio gli ebrei Ashkenazi o le comunità Amish).

ClinicaLo spettro clinico della Miopatia Nemalinica, anche se associata allo stesso gene, è abbastanza ampio e può variare da forme lievi a forme severe (Wallgren-Pettersson 2000). L’età d’esordio varia dalla nascita fino all’età adulta. A seconda dell’esordio e della gra-vità del coinvolgimento motorio e respiratorio sono classicamente descritte le seguenti forme: 1)  forma congenita severa 2)  forma congenita intermedia 3)  forma tipica 4)  forma infantile 5)  forma dell’adul-to 6) altre forme inusuali associate a oftalmoplegia o cardiomiopatia.Nelle forme gravi ad esordio neonatale, che rappre-sentano circa il 16% di tutti i casi, i bambini sono ipo-stenici, ipotonici dalla nascita ed hanno difficoltà di suzione e di deglutizione. A volte tra le manifestazioni può essere presente artrogriposi ed una cardiomio-patia dilatativa. L’insufficienza respiratoria o polmonite ab ingestis generalmente possono condurre al de-cesso nelle prime settimane e nei primi mesi di vita. La forma più comune ha tuttavia un quadro meno grave con andamento lentamente progressivo, e la

debolezza si presenta a livello degli arti, del tronco e dei muscoli facciali. L’adattamento alla vita extraute-rina è adeguato ma vi è un ritardo nell’acquisizione delle tappe motorie. L’ipotonia muscolare è sempre presente durante il primo anno di vita. La debolezza della muscolatura del capo comporta dismorfismi fac-ciali (viso allungato, palato ogivale e labbro superiore a tendina), disartria e disfagia. I pazienti sviluppano contratture muscolari e piedi cavi, ma la maggior parte dei bambini affetti da questa forma di miopa-tia mantengono la capacità di deambulare. Il decorso della malattia è fondamentalmente stazionario o len-tamente progressivo, ed il coinvolgimento respiratorio è il principale fattore prognostico (Ryan, 2001).Infine, la forma ad esordio nell’età adulta (che di solito è progressiva e colpisce il 4% di tutti gli individui affetti da miopatia nemalinica) è caratterizzata da insuffi-cienza respiratoria, ipostenia diffusa agli arti insorta nella seconda decade di vita ed occasionalmente do-lori articolari. La forma ad esordio nell’età adulta è quella soggetta a maggiore eterogeneità clinica. Il CK sierico è normale o lievemente aumentato, e lo studio elettromiografico mostra generalmente segni miopatici, anche se si possono associare segni neu-rogeni nei muscoli distali.

Biopsia muscolareI corpi nemalinici sono tipicamente visibili alla reazio-ne Tricromica di Gomori, si localizzano a livello citopla-smatico e spesso si raggruppano alla periferia della fibra (Fig. 2). In alcuni casi possono trovarsi all’interno del nucleo rendendone molto difficile l’individuazione. In caso di pazienti molto piccoli, prima dell’anno di vita, può risultare molto difficile individuare i corpi ne-malinici per le dimensioni minute delle fibre. Il numero di fibre con corpi nemalinici è variabile ed anche la loro quantità all’interno della fibra è variabile, ma non vi è una correlazione con la gravità del fenotipo. Alla microscopia elettronica i corpi nemalinici appaiono

Figura 2. Colorazione Tricromica di Gomori di miopa-tia nemalinica. I corpi nemalinici appaiono rosso-nerastri come granuli ovalari o cilindrici all’interno del citoplasma (verde), spesso sotto la membrana.

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come strutture elettrondense, a volte bastoncellari o ovalari, e sono costituiti principalmente da alfa-acti-nina. I corpi nemalinici possono essere presenti nel muscolo sano durante il fisiologico processo di invec-chiamento o in altre forme severe di degenerazione del muscolo, sia primitive che secondarie, come nella miopatia associata ad infezione da HIV (Dubowitz e Sewry, 2007).

Genetica e nuove formeI geni classicamente associati a miopatia nemalinica codificano per proteine dei filamenti sottili del sarco-mero (Tab. I). La mutazioni più frequenti sono del gene che codifica la nebulina NEB (Pelin et al., 1999) (oltre

il 50%) con ereditarietà autosomica recessiva, e muta-zioni del gene ACTA1 (circa il 20%) che codifica per la actina alfa 1 (Nowak et al., 1999), a trasmissione auto-somica dominante (90%) o recessiva (10%). Altri casi rari sono stati associati a geni dell’alfa-tropomiosina 3 (TPM3) (Laing et al., 1995), della beta-tropomiosina 2 (TPM2) (Donner et al 2002), della troponina T tipo 1 (TNNT1) in popolazioni Amish (Johnston et al., 2000) e ultimamente anche della cofillina 2 (CFL2) identificata in 2 famiglie del medio-oriente (Agrawal et al., 2007).Questa lista è destinata a crescere dal momento che negli ultimi anni sono stati identificati, grazie alle tecno-logie di Next Generation Sequencing (NGS), 4 nuovi geni (KBTBD13, KLHL40, KLHL41 e LMOD3) potenzial-mente coinvolti in tale forma. Mutazioni del gene KBTBD13 sono state associate ad una forma ad esordio nell’infanzia, lentamente progres-siva, dove possono predominare l’ipotonia assiale e l’in-tolleranza all’esercizio fisico. In alcuni casi sono descrit-te contratture muscolari prolungate. In questa forma la biopsia muscolare può presentare anche dei cores oltre ai classici corpi nemalinici (Sambuughin et al., 2010). La forma associata a mutazioni del gene KLHL40 è molto grave e relativamente frequente, caratterizzata da acinesia fetale o marcata ipotonia. Possono pre-sentarsi sin dalla nascita retrazioni articolari, defor-mità della gabbia toracica, fratture e insufficienza re-spiratoria. La maggior parte dei pazienti muore nella prima infanzia. Nella biopsia muscolare i corpi nema-linici sono numerosissimi e praticamente presenti in tutte le fibre muscolari (Ravenscroft et al., 2013). Mutazioni del gene KLHL41 sono state invece riscon-trate in 5 bambini con manifestazioni cliniche molto variabili, da forme congenite gravi di acinesia fetale e artrogriposi, a forme più lievi con conservazione della deambulazione fino a 12 anni (Gupta et al., 2013). Infine in 21 pazienti appartenenti a 14 famiglie, Yuen et al. hanno identificato mutazioni in omozigosi o in eterozigosi composta del gene LMOD3 che codifi-ca per la Leiomodina 3, una proteina essenziale per l’organizzazione dei filamenti sottili. Modelli animali di zebrafish con un difetto di questa proteina mostrano scarso allungamento delle larve e malformazioni della coda; a livello ultrastrutturale è evidente una comple-ta disorganizzazione del sarcomero con accumuli di proteine della stria zeta in degradazione. Clinicamente questa forma è estremamente grave: la maggior parte dei pazienti presenta alterazioni già in utero come po-lidramnios, assenza di movimenti fetali e nascite pre-mature. Per grave compromissione bulbare la maggior parte muore durante il periodo neonatale. Solo due casi sono ancora vivi, di 10 e 4 anni (Yuen et al., 2014).

Miopatie con coresLe miopatie con “cores” sono un gruppo di miopatie congenite caratterizzate istologicamente dalla pre-senza all’interno delle cellule muscolari di zone ova-

Tabella I. Correlazione genotipo-fenotipo nelle miopatie nemaliniche. In grassetto le forme di più recente identifi-cazione genetica.

Miopatia nemalinica

NEB AR Causa più comune (50%); forma ti-picaIpomimia, ipostenia distale e del fles-sori del collo. Comuni sono le defor-mazioni del torace e scoliosi

ACTA1 AR (10%), AD(90%)

Circa il 20-30% dei casi secondo vecchia classificazioneNel 50% dei casi è associata a una forma neonatale severaIpostenia flessori del colloGeneralmente causata da mutazione de novo

TMP3 AD, AR Ipostenia distale, dei flessori del col-lo, deformità dei piedi

TMP2 AD Presentazione clinica simile alla for-ma tipicaPossibile artrogriposi e cardiomiopa-tia precoce

TNNT1 AR Famiglie AmishPresentazione congenita “floppy baby”. Prognosi un anno

CLF2 AR 2 famiglie Arabe. Esordio prima in-fanzia. Lenta progressione. In 1 caso perdita della deambulazione

KBTBD13 AD Forma infantile. Ipostenia prossimale. ipomimia, lenta progressione. Posso-no avere “stiffness” ed “exercise into-lerance”

KLHL40 AR Forma congenita severa. Ipocinesia fetale, insufficienza respiratoria e di-sfagia alla nascita

KLHL41 AR Severità variabile. 2 casi neonatali e 3 casi nell’infanzia ancora deambulanti

LMOD3, AR 14 famiglie descritte. Morte neonata-le precoce. Solo 2 casi sopravvisuti di 4 e 10 anni. Oftalmoplegia

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lari, chiamate appunto “cores”, con ridotte o assenti attività enzimatiche ossidative, in contrasto con la normale zona circostante (Fig. 3A). La variabilità di calibro di queste aree (grandi oppure minute) e la loro distribuzione nella biopsia muscolare (singole centrali o multiple), hanno fornito la base per la designazio-ne di due entità distinte: la Miopatia Central Core e la Miopatia Multiminicore (Dubowitz e Pearse, 1960; Engel et al., 1971) (Tab. II).La Miopatia Central Core è definita per la presenza di cores tipicamente centrali e singoli, mentre la Miopa-tia Multiminicore è morfologicamente caratterizzata dalla presenza di cores multipli diffusi e di dimensioni ridotte (minicore) (Fig. 3B).Clinicamente le miopatie con cores possono essere molto eterogenee e rappresentano le forme più comuni di miopatie congenite. Tipicamente la miopatia central core ha una ereditarietà autosomica dominante (AD) a penetranza variabile (Jungbluth, 2007). Nella stessa famiglia possono essere presenti individui con diversa gravità clinica e questa può variare con l’età. Le forme autosomiche recessive sono in genere clinicamente più gravi e sono descritti casi gravi con acinesia feta-le e artrogriposi congenita (Romero et al., 2003). Con l’eccezione di queste forme ad esordio molto precoce, l’evoluzione è abbastanza benigna. La sintomatologia comprende: ritardo della deambulazione, occasionale interessamento dei muscoli mimici del volto e limitazio-ne della motilità oculare, ptosi palpebrale, ipotonia e debolezza dei muscoli prossimali o assiali tendenzial-mente non grave. La funzione respiratoria è solitamen-te ben conservata. Sono stati riportati rari casi di forme congenite che si presentavano con un quadro clinico più severo, con insufficienza respiratoria precoce (De Cauwer et al., 2002). Alcuni pazienti, infine, possono presentare unicamente la suscettibilità all’ipertermia maligna e un aumento dei livelli del CK sierico.

Le caratteristiche cliniche delle miopatie multiminico-re sono invece molto variabili ed in parte dipendono dal background genetico (Zhou et al., 2007). Sono state descritte 4 forme fenotipiche, una forma classi-ca (I), una forma con oftalmoplegia esterna (II), una forma con ipostenia dei cingoli ed artrogriposi  (III) ed una forma neonatale grave  (IV). Tuttavia è stata riportata una notevole sovrapposizione dei sintomi tra i vari sottogruppi (Jungbluth et al., 2007). In tutte que-ste forme l’esordio in genere è precoce e i livelli di CK sono normali o solo lievemente aumentati. Alcuni pa-zienti possono presentare mialgie da sforzo. Il fenoti-

Figura 3. A) Colorazione NADH di caso di miopatia central cores con 2 mutazioni del gene RYR1. I cores appaiono come aree iporeattive ovalari delimitate da alone scuro. B) Colorazione NADH di caso di multiminicores con mutazioni del gene MYH7. Le aree ipocolorate sono più piccole, tendono a confluire e non sono ben delineate come i central cores.

A B

Tabella II. Correlazione genotipo-fenotipo nelle miopatie central cores e minicores.

Miopatia central core e minicores

RYR1, AD e AR Causa più comuneAD CCD forme lievi-moderate. Sco-liosi. No oftalmoplegia; biopsia con cores centrali. CK può essere altoAR CCD gravi e MmD. Oftalmoplegia. Casi gravi con acinesia fetale, artro-griposi. Comuni sono le deformazioni del torace e scoliosi

SEPN1 AR, Solo MmDSpina rigida. palato ogivale, piede piatto, dita a martello, torace carenato. Ipostenia cingolo scapolare > pelvico.Oftalmoparesi meno comune che per RYR1

MYH7 ADEsordio infanzia. Lieve progressione. Interessamento distaleVariabile associazione di cardiopatia. Morte improvvisa

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po più comune (forma classica I) presenta una grave ipostenia assiale con scoliosi o rigidità del rachide, torcicollo ed un coinvolgimento respiratorio spesso sproporzionato rispetto alla debolezza muscolare glo-bale. La progressione dei sintomi è generalmente len-ta e questi pazienti possono presentare una sovrap-posizione clinica con la distrofia muscolare congenita da spina rigida. Un secondo gruppo di pazienti presenta, accanto al coinvolgimento muscolare, un’oftalmoplegia ester-na parziale o completa; in genere in questo gruppo sono presenti mutazioni del gene RYR1 (Jungbluth et al., 2005). Un terzo e piccolo gruppo di pazienti presenta iposte-nia prossimale, tipicamente al cingolo pelvico in caso di mutazioni di RYR1 o al cingolo scapolare in caso di mutazioni SEPN1, con associata artrogriposi. Infine sono descritti anche casi con esordio neonatale grave; in genere in questo gruppo si riscontrano mu-tazioni recessive del gene RYR1 (Bharucha-Goebel et al., 2013).

Biopsia muscolareI cores possono essere singoli o multipli e si eviden-ziano soprattutto nelle fibre di tipo 1 (Fig. 3A). Con l’e-voluzione della malattia, possono comparire più di un cores per ogni fibra, anche se è raro che compaiano in numero maggiore di 2 o 3. La microscopia elettroni-ca nelle aree dei cores mostra assenza di mitocondri e di glicogeno, con un grado variabile di distruzione dell’apparato contrattile; a seconda che l’organizza-zione del sarcomero sia conservata o meno si distin-guono rispettivamente cores strutturati o destrutturati. I cores strutturati sono più frequenti. Con tecniche di immunoistochimica per le ATPasi non sono visibili i cores strutturati mentre quelli destrutturati si presen-tano come aree più chiare rispetto alle zone normali delle fibre. La biopsia può mostrare una lieve variabi-lità del calibro fibrale, ma sono descritte biopsie mu-scolari con un grave quadro distrofico e sostituzione fibrosa del tessuto muscolare, oltre alla presenza di cores (Sewry et al., 2002). Nei casi molto precoci in-vece è possibile che la formazione dei cores non sia ancora visibile, suggerendo un meccanismo patoge-netico età-dipendente. Questo è ben illustrato in un modello di topo in cui una mutazione RYR1 determi-nava formazione dei cores di dimensioni diverse in base all’età dell’animale (Boncompagni et al., 2009). Analogamente ai cores, i minicore possono essere dimostrati con le colorazioni per gli enzimi ossidativi (NADH, COX e SDH); in sezione trasversale appaio-no spesso solo come irregolarità indistinte della trama o come aree puntiformi prive di colorazione (Fig. 3B). Anche in questa forma sono molto frequenti l’ipotrofia e la predominanza di fibre di tipo 1. Alla microscopia elettronica i minicore sono costituiti da aree focali di distruzione delle miofibrille con assenza di mitocondri. Mediante l’immunoistochimica si può rilevare che, sia

nei core centrali che nei minicores, proteine come la desmina, la miotilina e filamina C possono accumularsi al loro interno, sebbene non siano dati indicativi di una forma genetica specifica (Bonnemann et al., 2003). Infine va ricordato che cores e minicores sono un reperto aspecifico osservabile in altri contesti, come nella denervazione, in alcune condizioni metaboliche o anche in soggetti sani in seguito a un esercizio fi-sico eccentrico. È quindi importante sottolineare che la presenza dei cores alla biopsia in assenza di segni clinici non è sufficiente a definire una diagnosi di mio-patia con core.

Genetica e nuove formeLa Miopatia Central Core è classicamente associata a mutazioni sia dominanti che recessive (Zhang et al., 1993; Ferreiro et al., 2002) del gene RYR1 sul cromo-soma 19q13.1, che codifica per il recettore muscolare della rianodina, un canale oligotetramerico di 563.5 kDa, localizzato nel reticolo sarcoplamastico, a con-tatto con il recettore di-idropiridinico (DHPR) ed altre proteine del reticolo, con un ruolo fondamentale nel rilascio del calcio e nella trasmissione elettro-mecca-nica del muscolo (Treves et al., 2005). Il recettore Ryr1 presenta una complessa organizza-zione multimerica: la porzione C-teminale serve da dominio trasmembrana, ma contiene altri domini fun-zionali come il sito di legame alla calmodulina; la por-zione idrofilica N-terminale si aggetta nel citoplasma e rappresenta il piede del canale; la porzione centrale contiene diversi loop in connessione con il recettore DHPR e altri domini deputati alla formazione del ca-nale (Ramachandran et al., 2013). La maggior parte delle mutazioni sono puntiformi ed inizialmente venivano localizzate in tre hot-spot del canale, ma con la diffusione delle indagini molecolari sono state identificate mutazioni lungo tutta la lun-ghezza del gene (Romero et al., 2005). Mutazioni del gene RYR1 sono state associate anche ad altre forme di miopatia come le miopatie centro-nucleari (Bevilacqua et al., 2011) e le miopatie con disproporzione del calibro fibrale (Clarke et al., 2010). Infine un difetto del recettore RYR1 è ritenuto respon-sabile di una suscettibilità alla ipertermia maligna (MH) (Quane et al., 1993). L’ipertemia maligna è una rara ma grave complicanza dell’anestesia che si ve-rifica con fatale aumento della temperatura corporea e contratture tetaniche dei muscoli. Questi pazienti sono clinicamente asintomatici ad eccezione di un modesto aumento dei valori di CK sierico. Le mutazioni che causano miopatia restano in genere distinte dalle mutazioni che causano predisposizione all’ipertermia maligna, che sono tipicamente localiz-zate nella regione NH terminale del gene; meccanismi patogenetici differenti sono stati ipotizzati per spiega-re manifestazioni cliniche così diverse (McCarthy et al., 2000). Si considera comunque che anche i pa-zienti con miopatia congenita da mutazione del gene

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Le miopatie congenite

RYR1 possano essere a rischio d’ipertermia maligna. Le miopatie multiminicores sono più eterogenee dal punto di vista genetico (Tab. II). Possono essere causa-te infatti sia da mutazioni del gene RYR1 nella sua for-ma autosomica recessiva, che da mutazioni del gene SEPN1 (Ferreiro et al., 2002). Questo gene codifica per la selenoproteina N1, un’altra glicoproteina del reticolo sarcoplasmatico, di dimensioni ridotte rispetto a RyR1 (70Kd), che contiene un residuo di selenocisteina, la principale fonte di selenio nei mammiferi. Le seleno-proteine svolgono un’importante funzione antiossidan-te ed hanno un ruolo anche nell’omeostasi del calcio. Un difetto della selenoproteina N è stato associato ad una riduzione delle cellule satellite con conseguente alterazione dei meccanismi di rigenerazione muscola-re (Castets et al., 2011). Mutazioni del gene SEPN1 sono anche responsabili di una forma di distrofia congenita caratterizzata da mar-cata rigidità del rachide (Rigid Spine Muscular Dystro-phy, RSMD) ed i pazienti con miopatia multiminicore da difetto di SEPN1 possono presentare caratteristiche cliniche in parte sovrapponibili ai pazienti con RSMD, come appunto la rigidità del rachide ad esordio preco-ce e l’insufficienza respiratoria (Ferreiro et al., 2002). Recentemente in due famiglie con biopsia muscola-re suggestiva di minicores sono state descritte mu-tazioni dominanti del gene MYH7, che codifica per la catena pesante della miosina lenta cardiaca con una espressione anche muscolare. Questi casi pre-sentano un’ipostenia di grado variabile, sia distale che prossimale, ad esordio nell’infanzia e lentamente progressiva, associata talora ad insufficienza cardio-respiratoria e storia di morte improvvisa in una fami-glia (Cullup et al., 2012).Infine si stima che in circa il 50% delle miopatie con cores non sia stato ancora identificato un difetto ge-netico (Maggi et al., 2013).

Miopatia miotubulare e centronucleareLa caratteristica patognomica di queste forme è la presenza di nuclei localizzati all’interno della fibrocel-lula muscolare, spesso esattamente al centro della stessa, che si presentano di dimensioni aumentate ed aspetto vescicoloso, ricordando pertanto i miotubi, da cui il nome anche di miopatia miotubulare (Spiro et al., 1966).I termini di miopatia miotubulare e centronucleare erano usati indistintamente e la prima classificazione era basata sull’età di esordio e sulla gravità clinica. Venivano descritte quindi forme gravi neonatali che si presentavano esclusivamente nei maschi e forme ad esordio in adolescenza con ipostenia moderata-lieve (Fardeau e Tome, 1994). Al momento attuale si considera più esatto utilizzare il termine di miopatia miotubulare per la forma legata al cromosoma X (XLMTM) ed il termine centronucleare

per le forma a trasmissione dominante o più raramen-te recessiva (Romero, 2010). In accordo con la ereditarietà della malattia e la pre-sentazione clinica sono state individuate tre forme: 1) la forma miotubulare X-linked (XLMTM) 2) la forma centronucleare autosomica dominante o sporadica 3)  le forme centronucleari autosomiche recessive. Tuttavia numerosi casi sporadici e forme familiari di miopatia centronucleare non sono ancora stati gene-ticamente determinati, implicando l’esistenza di altri geni coinvolti.La forma X-linked è stata associata a mutazioni del gene MTM1, che codifica per la miotubularina, una fosfatasi PI3P (fosfatidilinositolo 3 fosfato) di 603 ami-noacidi. È una proteina nucleare ubiquitaria coinvolta nella trasduzione dei segnali tra nucleo e citoplasma, ed è probabilmente correlata alla differenziazione ed alla maturazione cellulare (Blondeau et al., 2000).

Miopatia miotubulare (XLMTM) È una forma grave che colpisce i neonati maschi, in cui i primi sintomi possono comparire già nella vita intrauterina, con polidramnios e riduzione dei movimenti fetali. I soggetti malati si presentano alla nascita con ipotonia e insufficienza respiratoria. Può essere presente anche un’artrogriposi multipla con

Tabella III. Correlazione genotipo-fenotipo nella miopatia miotubulare e centronucleare. In grassetto le forme di re-cente identificazione genetica.

Miopatia miotubulare e centronucleare

MTM1 (X-linked) forma miotubulare

Forma grave neonatale. Ipotonia grave. Deficit respiratorio. Alta mortalitàDonne portatrici con quadri variabili, ptosi ed oftalmoplegia

DNM2 ADForma variabile da precoce a lieve tardiva. Ipotonia assiale e distale. Ptosi, oftalmople-gia. “Radial strands” alla biopsia muscolare

BIN1 AREsordio precoce. Può essere grave. Disfa-gia. Atrofia diffusa. Cardiopatia AD esordio tardivo adulto. Ptosi

RYR1 ARDiversi casi. Fenotipo variabile. Presenza anche di cores alla biopsia

TTN ARMutazioni troncanti. Esordio precoce. Cardio-patia. Presenza anche di cores alla biopsia

SPEG AR3 famiglie. Esordio congenito. Cardiopatia dilatativa

CCDC78 ADMialgie, ritardo mentale

MYF6 1 solo paziente

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C. Fiorillo et al.

malformazioni del rachide e della gabbia toracica. La disfagia è importante e spesso è necessario l’uso del sondino naso-gastrico per l’alimentazione. Co-muni sono la limitazione della motilità oculare con ptosi palpebrale. I pazienti affetti sono spesso ma-crosomici e possono avere altre malformazioni come la stenosi pilorica, ernie inguinali e criptorchidismo. Il decesso generalmente avviene precocemente du-rante il primo anno di vita per insufficienza respira-toria o broncopolmonite ab ingestis. Solamente una piccola percentuale raggiunge l’adolescenza o l’e-tà adulta, e questi casi necessitano di ventilazione meccanica assistita e di gastrostomia per l’alimenta-zione (Merman et al., 1999). In anamnesi si può avere una storia familiare di aborti ripetuti e di abortività spontanea di feti maschi nella storia del ramo materno. Non sono riportati casi di car-diomiopatia o difetti di conduzione o aritmie in pazienti con difetti del gene MTM1 (McEntagart et al., 2002). Le donne portatrici di miopatia miotubulare sono in genere asintomatiche o possono occasionalmente presentare durante l’infanzia una debolezza lieve-mente progressiva a carico dei cingoli ed una ipomi-mia (Hammans et al., 2000). Sembra che la presenza di un quadro muscolare in queste pazienti portatrici sia legata a un difetto dell’inattivazione del cromoso-ma X (Tanner et al., 1999). Nelle rare portatrici pauci-sintomatiche la biopsia non assume aspetto miotubulare, ma sono invece presen-ti delle alterazioni peculiari, definite fibre a collana (Bevilacqua et al., 2009).L’incidenza della miopatia miotubulare è stimata in circa due casi su 100.000 nati maschi (Mendel et al., 2002).

Biopsia muscolareIl quadro istopatologico principale della miopatia mio-tubulare è caratterizzato dalla presenza di volumino-si nuclei centrali. Un quadro simile si può riscontrare nelle fibre muscolari durante le fisiologiche prime fasi dello sviluppo maturativo (miotubi embrionari), dai quali differiscono poiché i miotubi non sono ancora differenziati in fibre tipo 1 e tipo 2. I nuclei assumo-no un aspetto vescicoloso e talora occupano l’intero citoplasma della fibra (Fig. 4). Con le ATPasi e le re-azioni ossidative appaiono come vacuoli otticamen-te vuoti. Nelle donne portatrici di miotubularina e nei casi benigni ad esordio tardivo sono descritte delle alterazioni istopatologiche tipiche, caratterizzate da una peculiare riorganizzazione delle miofibre e della trama miofibrillare per cui all’interno della fibra con le colorazioni per la NADH e la PAS sono evidenti dei cordoni scuri appena sotto il perimetro fibrale; per tale motivo queste fibre sono soprannominate “fibre a collana” (Fig. 5B).

Miopatia centronucleareLe miopatie centronucleari hanno un esordio più tar-divo, nell’infanzia o nella prima vita adulta e sono as-

sociate ad una maggiore eterogeneità genetica. L’e-sordio infantile è subdolo e si manifesta con ipotonia, debolezza muscolare distale/prossimale, deformità della gabbia toracica con eventuale insufficienza re-spiratoria, ptosi palpebrale, oftalmoparesi e debolez-za della muscolatura mimica con dismorfismi facciali; le tappe di acquisizione dello sviluppo motorio sono raggiunte, ma in ritardo.Nella forma ad insorgenza in età adulta si dimostra debolezza prossimale muscolare moderata, ma sono meno costanti la ptosi palpebrale e la limitazione del-la motilità oculare estrinseca. L’ipostenia non è mai grave, la progressione della malattia è lenta e l’aspet-tativa di vita risulta essere normale, pur essendo pos-sibile la perdita della capacità deambulatoria dopo i 50 anni. I livelli sierici di CK sono normali o solo moderata-mente elevati e lo studio elettromiografico mostra del-le anomalie miopatiche non specifiche.

Biopsia muscolareI nuclei non sono grandi ma possono essere spesso circondati da un alone chiaro, con attività enzimati-ca ossidativa ridotta; possono trovarsi multipli nuclei interni (Fig. 5A) ma questi vanno posti in diagnosi differenziale con altre forme di miopatie in cui l’inter-nalizzazione del nucleo rappresenta una alterazio-ne aspecifica. Tutte le anomalie descritte colpiscono preferenzialmente le fibre di tipo I che appaiono di dimensioni più piccole ma più numerose (predomi-nanza delle fibre tipo 1). Le fibre di tipo II solitamente sono ipertrofiche. Altre caratteristiche tipiche solo pre-senza dei cosiddetti “radial strand”, che probabilmen-te rappresentano una disorganizzazione del network miofibrillare per cui le miofibrille si aggregano in stral-ci che sembrano partire dal nucleo centrale (Fig. 5C).

Figura 4. Colorazione Ematossilina-Eosina in un caso di miopatia congenita centronucleare da mutazioni del gene MTM1 (Miopatia miotubulare X-linked). I nuclei in blu sono voluminosi e occupano gran parte del centro della fibra.

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Le miopatie congenite

Queste alterazioni sono ben visibili con la NADH. Le miopatie centronucleari dominanti sono classica-mente associate a mutazioni del gene DNM2, che codifica per la dinamina 2 (Bitoun et al., 2005), una GTPasi coinvolta nei meccanismi di endocitosi e di trasporto di organelli lungo la rete dei microtubuli, con un ruolo fondamentale anche nella formazione del centrosoma (Duriex et al., 2010). Mutazioni di que-sto gene sono state identificate anche in una forma di CMT dominante associata a cataratta (Fabrizi et al., 2007), mentre mutazioni in omozigosi sono state recentemente descritte in una famiglia pakistana con una forma letale di artrogriposi congenita (Koutso-poulos et al., 2013).Questa forma ha in genere un fenotipo intermedio ed i casi ad esordio neonatale possono avere una evolu-zione favorevole. In uno studio su una coorte di 10 pa-zienti italiani è stato anche caratterizzato un pattern di coinvolgimento selettivo di specifici muscoli alla RMN (Catteruccia et al., 2013).Il gene BIN1 sul cromosoma 2q14 è invece responsa-bile di una forma autosomica recessiva (Nicot et al., 2007) e più recentemente è stato anche associato ad una forma autosomica dominante o sporadica dell’a-dulto (Bohm et al., 2014).La forma autosomica recessiva è stata descritta in un piccolo gruppo di pazienti indiani e marocchini con un fenotipo abbastanza grave, in genere presente alla nascita, e solo in un caso nell’infanzia, con una mor-talità del 40%. Tra le caratteristiche cliniche si anno-vera una marcata atrofia muscolare ed una concomi-tante cardiopatia in alcuni casi; i valori di CK possono anche essere elevati. L’interessamento respiratorio invece non è presente. La forma autosomica dominante o sporadica si pre-senta nella popolazione europea con un quadro mol-to più lieve ad esordio decisamente tardivo, tra i 20 e i 50 anni. Anche in questi casi il coinvolgimento re-spiratorio è assente, mentre possono essere presenti ptosi ed oftalmoparesi.

BIN1 codifica per l’amfifisina 2, una proteina con un ruolo fondamentale nei meccanismi di esocitosi e che interagisce con la dinamina per il corretto posiziona-mento del nucleo all’interno della fibra muscolare e per la regolare formazione dei tubuli T (Toussaint et al., 2011). Mutazioni del recettore della rianodina (RYR1), noto per le miopatie con cores, sembrano rappresentare una altra causa comune di miopatia centronucleare e sono state descritte in diversi casi con fenotipo varia-bile, in genere ad esordio neonatale con contratture ed ipotonia assiale (Wilmshurst et al., 2010). Accan-to ai nuclei centralizzati, le biopsie di questi pazienti possono presentare anche i tipici cores associati a mutazioni di RYR1. Grazie a tecniche di sequenziamento di nuova gene-razione in ulteriori 5 pazienti con miopatia centronucle-are sono state identificate mutazioni della titina (TTN), una voluminosa proteina sarcomerica (Ceyhan-Birsoy et al., 2013). Questi casi hanno un esordio molto pre-coce e possono presentare cardiopatia come la varian-te allelica di distrofia dei cingoli e cardiopatia familiare da mutazioni della titina. Analogamente ai pazienti con miopatia centronucleare da RYR1, le biopsie di questi casi possono presentare aree di disgregazione della trama miofibrillare tipo cores. Un altro gene interessante che è stato recentemente identificato in 3 famiglie con miopatia centronucleare è SPEG, che codifica per una proteina della stria zeta con una forte interazione con MTM1. I topi knock-out per SPEG presentano una grave cardiopatia dilata-tiva, ed, analogamente, i pazienti con miopatia cen-tronucleare portatori di mutazioni in omozigosi o ete-rozigosi composta di SPEG possono presentare una cardiopatia dilatativa (Agrawal et al., 2013).Infine in singoli pazienti sporadici o familiari con qua-dri clinici assimilabili alla miopatia centronucleare sono state identificate mutazioni patogenetiche dei geni MYF6, un fattore di trascrizione miogenico e CCDC78, una proteina delle triadi (Majczenko et al., 2012).

Figura 5. A) Colorazione Ematossilina-Eosina di caso centronucleare con mutazioni della dinamina2 (gene DNM2). Sono visibili diverse fibre con nuclei centrali che talora sono multipli. B) Colorazione NADH (ingrandimento 60x) in un caso di portatrice di miotubularina con cui si distinguono le fibre a collana (fibre con un perimetro interno più scuro). C) Colorazione NADH dello stesso caso in A (miopatia centronucleare) in cui si evidenziano dei raggi ipercolorati a par-tenza dal nucleo (vacuolo centrale) che per questo aspetto sono nominati “radial strand”.

A CB

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Miopatie congenite da disproporzione delle fibre (CFTD)La caratteristica istopatologica che ha dato nome a questa forma è una disproprzione del calibro delle fi-bre, tale per cui le fibre del tipo 1 (fibre lente) sono si-gnificativamente più piccole delle fibre del tipo 2 (fibre veloci) (Fig. 6). La prima descrizione di questo quadro venne fatta da Brooke nel 1973 (Brooke, 1973), che notò questa disproporzione del calibro tra i due istotipi fibrali, in assenza di altre alterazioni significative alla biopsia muscolare, in un gruppo di 14 pazienti con una ipo-tonia e ipostenia muscolare di grado moderato-lieve.

GeneticaLa causa più comune di CFTD è rappresentata da mutazioni del gene per l’alfa tropomiosina 3 (TPM3) a trasmissione autosomica dominante o recessiva (Clarke et al., 2008; Lawlor et al., 2010). La mutazione TPM3 provoca in quasi tutti gli affetti una forma lieve di malattia. I pazienti, infatti, non perdono la capacità di deambulare fino all’età adulta.Mutazioni recessive del gene RYR1 rappresentano la seconda causa più comune di CFTD (circa 20% dei pazienti). Un quadro di disproporzione di dimensione marcata di fibre (maggiore del 50%) alla biopsia mu-scolare può essere suggestivo di questa forma (Clar-ke et al., 2010). Le mutazioni della selenoproteina N (SEPN1), alfa-actina (ACTA1), e beta-tropomiosina (TPM2) sono altre causa di CFTD trasmesse con mo-dalità autosomica recessivo per SEPN1 o autosomica dominante per ACTA1, TPM2 e MYH7 (Laing et al., 2004; Brandis et al., 2008; Ortolano et al., 2011).

Caratteristiche clinicheLa maggior parte dei bambini affetti da CFTD si presen-ta con ipotonia e debolezza muscolare generalizzata di entità da lieve a grave alla nascita o entro il primo anno di vita. I soggetti presentano, inoltre, un ritardo nell’ac-quisizione delle tappe motorie e pertanto la capacità di deambulare viene raggiunta in ritardo. Il controllo del capo è comunemente scarso e la debolezza muscola-re è più marcata a livello dei cingoli scapolari e pelvici ed a livello facciale. I riflessi osteo-tendinei sono ridotti o assenti. In più del 90 % degli individui affetti, la debo-lezza muscolare è statica; nel resto, di solito, l’evoluzio-ne è lentamente progressiva (Clarke, 2011).Almeno il 30 % delle CFTD mostra una significati-va ipotonia dei muscoli respiratori, con conseguente deficit del mantice respiratorio; tuttavia, la debolez-za muscolare non è sempre correlata con la gravità dell’insufficienza respiratoria. Essa può insorgere a qualsiasi età; alcuni bambini ne sono affetti fin dall’in-fanzia. Essi presentano già un coinvolgimento respi-ratorio severo che, tuttavia, non necessariamente predice una cattiva prognosi. Alcuni pazienti, invece, sviluppano un deficit respiratorio più lieve che causa

ipossia ed ipercapnia notturna con conseguenti sinto-mi come cefalee mattutine, stanchezza diurna, dimi-nuzione dell’appetito e del peso, disturbi del sonno e frequenti infezioni polmonari.La disfagia si verifica in quasi il 30 % dei bambini con CFTD. La masticazione e la deglutizione difficoltosa possono provocare aspirazione delle secrezioni con conseguente polmonite ab ingestis. Si possono tipi-camente osservare affollamento dentale e palato ogi-vale, come in altre miopatie congenite. I neonati con grave debolezza bulbare possono avere problemi di alimentazione che richiedono un intervento (alimen-tazione enterale, e/o gastrostomia) se i sintomi persi-stono oltre i primi mesi di vita. I problemi di alimenta-zione più lievi spesso si risolvono nel tempo.Le contratture possono essere presenti alla nascita

Tabella IV. Correlazione genotipo-fenotipo nelle miopatie da disproporzione di fibre.

Miopatia da disproprozione congenita delle fibre

TPM3 AD e AR forma lieve. No insufficienza respira-toria. No oftalmoplegia. Deambulanti. Insuffi-cienza ventilatoria

RYR1 AR. Oftalmoplegia anche subdola. Dispropor-zione marcata (>50%)

ACTA1 AD (rara tra le forme di ACTA1-8 mutazioni)Fenotipo variabile•formaseveraainsorgenzaneonatale-infan-tile (+ comune)•formalieve

SEPN1 ARDebolezza del collo, ipotonia assiale, scoliosi progressiva e insufficienza respiratoria

MYH7 AD. Una sola famiglia descritta. Quadro lieve distale. No oftalmoparesi

Figura 6. Colorazione ATP 4.3 di un caso di miopatia con disproporzione di fibre (caso congenito). Le fibre di tipo 1 (scure) sono nettamente più piccole rispetto alle fibre di tipo 2 (chiare) e relativamente più numerose.

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Le miopatie congenite

o verificarsi in individui più anziani per una diminuita mobilità secondaria all’ipotonia muscolare. Contrattu-re delle caviglie, dita, fianchi, gomiti e ginocchia si ve-rificano in circa il 25% dei bambini colpiti. La lussazio-ne congenita dell’anca ed il piede torto equino posso-no essere presenti. L’ipotonia e l’ipotrofia dei muscoli paravertebrali provoca rotazioni di corpi vertebrali causando scoliosi, cifoscoliosi e lordosi nel 25% o più dei casi. Le contratture e le anormalità della colonna vertebrale non sono necessariamente associati ad un aumento della gravità della malattia.

Biopsia I criteri originali presentati da Brooke nel 1973 richie-devano che le fibre di tipo 1 dovessero avere un dia-metro inferiore di almeno il 12 % rispetto al diametro medio delle fibre di tipo 2A e / o di tipo 2B quando era-no assenti altri significativi risultati patologici che defi-nivano altre forme di miopatie congenite (ad esempio ”rods”, “core” o nuclei centrali). La disproporzione di fibre infatti può essere presente in varie altre condizio-ni come la miopatia nemalinica, la miopatia centronu-cleare e, pertanto, resta ancora discussa la sua entità nosologia distinta. Studi più recenti suggeriscono che gli individui affetti da CFTD mostrano le fibre musco-lari di tipo 1 con un diametro inferiore di almeno il 40 % e fino al 80% rispetto alle fibre di tipo 2. Pertanto, un 35-40 % di sproporzione è stato suggerito come il criterio migliore per la diagnosi di CFTD (Clarke, 2011). I reperti patologici alla biopsia possono cam-biare nel tempo ed in alcuni individui la diagnosi di CFTD è possibile solo su una seconda biopsia.

Altre forme di miopatie congeniteMiopatia da accumulo di miosina o con corpi ialini È una miopatia congenita rara, con meno di trenta casi riportati in letteratura. I primi a riportare la miopatia furono Concilla et al. (1971) descrivendola come una miopatia familiare con probabile lisi delle miofibrille di tipo 1. Le inclusioni che descrissero, per via della appa-rente struttura al microscopio ottico, furono identificate come corpi ialini (Ceuterick et al., 1993) e la patologia venne denominata miopatia con corpi ialini. Successi-vamente si scoprì che le inclusioni erano costituite prin-cipalmente da un materiale immunoreattivo di catene pesanti di miosina da cui ne derivò il termine “myosin storage myopathy” introdotto nel 2003. (Tajsharghi et al., 2003) La base genetica di questa miopatia è stata recentemente identificata nella mutazione nella regione C-terminale (esone 35-40) del gene MYH7 con eredi-tarietà autosomica dominante o per mutazioni de novo. Il gene MYH7 codifica per la catena beta pesante della miosina (MHC-β) espressa principalmente nel cuore, ma anche nelle fibre di tipo 1 dei muscoli sche-letrici. Più di 200 mutazioni differenti sul gene MYH7

sono state identificate ad oggi ed associate da un lato a cardiomiopatie ipertrofiche o dilatative e ad una va-sta gamma di miopatie scheletriche incluse una mio-patia distale (Laing et al., 1995), una miopatia con accumulo di miosina (Tajsharghi et al., 2003), una miopatia da disproporzione di fibre (CFTD) (Ortolano et al., 2011) e una forma di miopatia minicores (Cullup et al., 2012). Le cardiomiopatie generalmente si mani-festano isolatamente ma possono anche presentarsi in associazione a miopatia (Ruggiero et al., 2014). Le manifestazioni cliniche sono molto variabili anche all’interno di una stessa famiglia affetta. L’esordio del-la malattia avviene solitamente durante l’infanzia con ritardo dell’acquisizione delle tappe motorie. È comu-ne, nei pazienti affetti, a livello degli arti inferiori una pseudo-ipertrofia dei polpacci ed il piede cadente. La compromissione della forza a livello dei polsi e delle mani è invece una caratteristica preponderante della miopatia distale di Laing, ma può riscontrasi in manie-ra subdola nelle forme di miopatia congenita. Il decorso della malattia di solito è lentamente pro-gressivo; può nel tempo comparire un’insufficienza respiratoria secondaria alla miopatia, che necessita dell’aiuto di una ventilazione assistita, e deformazio-ni osteoarticolari come scoliosi causate dalla ridotta stenia dei muscoli assiali. Alcune mutazioni MYH7 determinano miopatia associata a gravi anomalie car-diache (cardiomiopatie e aritmie) che possono anche essere la prima manifestazione della malattia.

Miopatia “cap”La miopatia “cap” è una miopatia congenita molto rara descritta per la prima volta da Fridzianska nel 1981. (Fridzianska et al., 1981) Dalla prima descrizione ad oggi solo sedici casi sono stati riportati. (Ohlsson et al., 2008; Clarke et al., 2009, De Paula et al., 2009; Hung et al., 2010) Istopatologicamente (Fig. 7) si di-stingue per la presenza di un’area subsarcolemmale di forma triangolare ben demarcata che si colora di viola-rossastro alla Tricromica di Gomori modificata ed eosinofila alla colorazione ematossilina-eosina e che non mostra attività ATPasica. All’immunoisto-chimica si rileva positiva reattività dei caps all’alfa-actinina, actina, troponina T, desmina e tropomiosi-na sarcomerica. Dal punto di vista ultrastrutturale, i caps sono situati disordinatamente sui miofilamenti, e le miofibrille in questa zona si disorientano rispetto all’ordinamento delle fibre, con assenza della norma-le struttura del sarcomero. Le strie Z sono ispessite. I sarcomeri adiacenti mantengono una struttura nor-male. Le fibre colpite variano in percentuale tra il 4 ed il 100% e sembrano correlare con la gravità della malattia e l’età del paziente. La malattia ha esordio alla nascita o durante l’infan-zia; la sua evoluzione è lenta. Si manifesta con iposte-nia ed ipotrofia dei muscoli assiali e prossimali, facies miopatica allungata con palato ogivale, scoliosi e dif-ficoltà respiratorie.

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C. Fiorillo et al.

In molti dei pazienti non è presente una storia familia-re per la patologia; infatti essa è determinata da una mutazione de novo, con ereditarietà a trasmissione autosomica dominante. I geni coinvolti sono in ordine di frequenza la alfa-actina (ACTA1), beta-tropomiosi-na (TPM2) e alfa-tropomiosina (TPM3).

Miopatia a corpi riducentiQuesta forma è stata descritta circa 40 anni fa da Brooke e Dubovitz. Nel 2008 è stato identificato il gene responsabile FHL1 (Schessl et al 2008) che codifica per una proteina con un dominio “zinc finger”, il cui ruolo pa-togenetico è ancora poco noto. È una forma X-linked, in genere abbastanza grave e progressiva se esordisce precocemente (nel primo anno di vita, ma non conge-nito) oppure più lieve se ad esordio adulto (Schessl et al., 2009). Possono essere presenti rigidità del rachide e contratture. In alcuni casi mutazioni specifiche possono dare un fenotipo Emery-Dreifuss o cardiopatia isolata. La caratteristica istopatologica è costituita dalla presen-za di inclusi intracitoplasmatici (corpi riducenti) che non si colorano con le reazioni ossidative o con le ATPasi, ma che sono in grado specificatamente di ridurre il nitro-blu di tetrazolio dopo somministrazione di menadione, da cui il nome “corpi riducenti”.

Miopatia con aggregati tubulariGli aggregati tubulari sono un’alterazione istopatologi-ca comune a diverse patologie muscolari e si caratte-rizzano per la presenza di aggregati formati da tubuli costituiti da una o due membrane. Questi aggregati si colorano intensamente con la reazione Tricromica di Gomori e con la NADH, suggerendo un’origine dal re-ticolo sarcoplasmatico. Recentemente mutazioni del gene STIM1, che codifica uno dei principali recettori per il calcio del reticolo sarcoplasmatico, sono state

identificate in alcuni pazienti affetti da miopatie con aggregati tubulari. Lo spettro fenotipico di questi casi è molto ampio e va da forme ad esordio nell’infanzia con ipostenia progressiva, ad adulti con quadro lieve di CK elevato e mialgie (Bohm et al., 2013).

Ipotesi patogeneticheIl numero crescente di geni coinvolti nella patogene-si delle miopatie congenite, se da un lato complica i confini tra le varie forme, dall’altro consente di mettere a fuoco alcuni dei meccanismi patogenetici alla base di queste patologie. In particolare in un recente lavoro vengono identificati e caratterizzati 4 subcomparti-menti e meccanismi cellulari cardini, selettivamente coinvolti (Tab. V) (Ravenscroft et al., 2015).

Difetti del turnover della membrana e dei fosfatidil inositoliI meccanismi di rimodellamento della membrana sono alla base di numerosi meccanismi biologici come l’esocitosi, il trasporto intracellulare, la forma-zione di vescicole sinaptiche, l’autofagia e la ricosti-tuzione del sarcolemma. Questi processi coinvolgono proteine con funzione regolatoria sui lipidi e sull’orga-nizzazione del citoscheletro. Infatti molti dei geni con queste funzioni sono coinvolti nelle miopatie congeni-te e sono stati trovati mutati nelle forme centronucle-ari in cui vi è una alterata localizzazione del nucleo, (BIN1, DNM2, MTM1 e recentemente SPEG). MTM1 ad esempio fa parte della famiglia delle miotubulari-ne, ed è una potente fosfatasi del principale fosfatidil inositolo (PI3P) con un effetto sui processi di traffi-co subcellulare e riparo delle membrane (Di Paolo, 2006). Studi in mutanti Drosofila per MTM1, hanno di-mostrato che è fondamentale per le funzioni endoliso-somiali, rimodellamento dell’actina ed adesione alle miofibre mediate dall’integrina. Un’ablazione di MTM1 infatti risulta in accumulo di integrina, di endosomi e PI3P, che può essere ridotto dalla deplezione di alcu-ne classi di PIP3 chinasi (Velichkova et al., 2010).

Difetti dell’accoppiamento eccitazione-contrazione (Tubulo T e reticolo sarcoplasmatico)Le giunzioni tra reticolo sarcoplasmatico e tubulo T (triadi) svolgono un ruolo cardine nella modulazione del rilascio di ioni calcio necessari per la contrazione ed è normale che perturbazioni in proteine strutturali e funzionali di questo compartimento diano luogo a patologie muscolari. Tra queste è presente appunto il canale del calcio RYR1, localizzato nella membrana del reticolo sarco-plasmatico ed in stretto contatto con il recettore voltag-gio sensibile diidropiridinico DHRP, localizzato nella membrane del tubulo T. Le differenti forme di miopatie associate a mutazioni dominanti o recessive del gene

Figura 7. Biopsia muscolare di Miopatia Cap con muta-zione della tropomiosina 3 (TPM3). I caps appaiono come aree scure alla Tricromica (frecce).

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Le miopatie congenite

RYR1 sono infatti causate da un’alterata funzione di questo canale, con una ridotta o aumentata trasmis-sione degli ioni calcio o per instabilità del canale, come ipotizzato per le mutazioni dominanti, oppure per ri-duzione o delocalizzazione di RYR1 come ipotizzato invece per le mutazioni recessive (Zhou et al., 2013).Inoltre modelli animali di KI per RYR1 hanno per-messo di evidenziare come istologicamente i cores siano appunto delle aree di distruzione delle triadi con rarefazioni e dislocazioni dei mitocondri (Bon-compagni et al., 2009). Difetti delle funzioni del re-ticolo sarcoplasmatico, del metabolismo del calcio e della morfologia delle triadi sono stati riscontrati anche in altre miopatie congenite come nel deficit di nebulina (Witt et al., 2006), nella miopatia centro-nucleare da deficit di CCDC78, in cui sono appunto presenti dei cores, e nella forma con aggregati tu-bulari associata a mutazioni del gene STIM1, che codifica per un sensore sarcoplasmatico del calcio (Bohm et al., 2013).

Difetti in molecole dell’apparato contrattileDifetti delle funzioni del sarcomero e della generazio-ne della forza contrattile sono tra le conseguenze più ovvie che derivano da difetti in geni codificanti pro-teine dei filamenti sottili o proteine regolatrici o che interagiscono con queste.Il principale componente dei filamenti sottili è la alfa-actina, codificata dal gene ACTA1. Oltre 200 mutazio-ni di questo gene sono state descritte in diverse forme di miopatie congenite con diverse alterazioni istopato-logiche (corpi nemalinici, disproporzione fibrale, cap e cores). La maggior parte di queste mutazioni sono missenso dominanti e rimane ancora poco chiaro come possano determinare una riduzione della for-za contrattile. Alcune mutazioni come la p.Asp292Val risiedono nella regione di legame alla tropomiosina, mentre altre in regioni di legame al calcio, come ad esempio la p.Lys328Asn, che invece di causare una miopatia con ipotonia determina nei pazienti rigidità e contratture (Jain et al., 2012). Un altro esempio altamente studiato di questa cate-goria sono le miopatie da difetto di nebulina. Diversi modelli animali sia su topo che zebrafish hanno di-mostrato marcate alterazioni della struttura e funzione delle miofibrille con difetto della capacità di generare forza contrattile (Telfer et al., 2012).Si pensa che la nebulina svolga un ruolo nel determi-nare la lunghezza dei filamenti sottili di actina e per-tanto un anomalo accorciamento di questi filamenti possa portare ad una riduzione della massima ten-sione attiva durante la contrazione (Witt et al., 2006). Inoltre le miofibrille con deficit di nebulina hanno una ridotta sensibilità al calcio e un maggior costo di ATP per riformare la tensione attiva prima della contrazio-ne (Jain et al., 2012).Altre molecole fondamentali per la normale funzio-ne dell’apparato contrattile sono le tropomiosine che servono da regolatori del legame actina-miosina, tramite la modulazione della sensibilità al calcio (Ot-tenheijm et al., 2011) e le stesse miosine. In partico-lare la MYH7 associata a forme di miopatie a cor-pi ialini e a miopatie multiminicore sembra essere più comune di quanto precedentemente ipotizzato (Clarke et al., 2013).

Difetti della sintesi e degradazione delle proteine La massa muscolare è determinata dall’equilibrio tra i processi di sintesi proteica e degradazione delle proteine. Il turnover delle proteine in particolare è re-golato da 2 diversi meccanismi: il sistema ubiquitina-proteasoma e autofagia-lisosomi. Diverse molecole responsabili di miopatie congenite sono coinvolte in questi pathways cellulari. Ad esempio i geni KBTBD13, KLHL40 e KLHL41 mu-tati in alcune miopatie nemaliniche codificano per le proteine BTB-Kelch che si legano ad altre proteine

Tabella V. Ipotesi patogenetiche sulla base dell’alterazio-ne genetica.

Difetti del turnover della membrana e dei fosfatidil inositoli

• BIN1: Miopatia centronucleare

• DNM2: Miopatia centronucleare

• MTM1: Miopatia centronucleare

• MTMR14: Miopatia centronucleare

• SPEG: Miopatia centronucleare e cardiopatia dilatativa

Difetti dell’accoppiamento eccitazione-contrazione (Tubulo T e reticolo sarcoplasmatico)

• RYR1: Miopatia central core

• CCDC78: Miopatia centronucleare

• STIM1: Miopatia con aggregati tubulari

Difetti in molecole dell’apparato contrattile

• ACTA1: Miopatia nemalinica

• MYH7: Miopatia minicore e Miopatia a corpi ialini

• NEB: Miopatia nemalinica

• TPM2: Miopatia nemalinica e Miopatia con disproporzione delle fibre

• TPM3: Miopatia nemalinica e Miopatia con disproporzione delle fibre

• TTNNT1: Miopatia nemalinica

• CFL2: Miopatia nemalinica

Difetti della sintesi e degradazione delle proteine

• KBTBD13: Miopatia nemalinica

• KLHL40: Miopatia nemalinica

• KLHL41: Miopatia nemalinica

• SEPN1: Miopatia con spina rigida

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per formare il complesso E3 ubiquitina ligasi (Gupta et al., 2013). Un’altra proteina che potrebbe essere coinvolta nel turnover proteico con una funzione di riparo delle pro-teine danneggiate è la selenoproteina N1 (SEPN1). SEPN1 è una glicoproteina del reticolo che si trova abbondantemente rappresentata nei tessuti fetali e meno nel muscolo adulto con un ruolo sia nella ome-ostasi del calcio che nella protezione delle proteine dallo stress ossidativo, tamponando le specie reattive dell’ossigeno (Castets et al., 2012).

DiagnosiLa diagnosi generica di una miopatia congenita si basa in primo luogo sulla valutazione clinica del bam-bino per la presenza di ipotonia, spesso associata a lassità ligamentosa, facies miopatica e ritardo delle acquisizioni motorie.Questo quadro è comune anche ad altre patologie neu-romuscolari con cui le miopatie congenite si pongono in diagnosi differenziale, come le distrofie muscolari congenite (CMD), la forma congenita di distrofia mioto-nica, alcune miopatie metaboliche come la Glicogeno-si tipo II (Malattia di Pompe), l’atrofia muscolare spina-le (SMA) e persino alcune patologie non strettamente neuromuscolari come la Sindrome di Prader-Willi. Alcuni segni clinici però possono essere suggestivi di una miopatia congenita ed aiutare nella diagnosi differenziale come la presenza di una marcata ipo-stenia dei muscoli mimici o una facies miopatica, la presenza di ptosi o il coinvolgimento della motilità ex-traoculare. Altre caratteristiche sono invece poco frequenti nelle miopatie congenite e dovrebbero indirizzare il clinico verso altra diagnosi. Tra queste ovviamente ci sono i segni piramidali, indicativi di sofferenza cerebrale, oppure alterazioni metaboliche come un’acidosi, la presenza di dismorfismi organici ad eccezione della facies miopatica, le fascicolazioni linguali o i tremori che sono suggestivi di una SMA. Una lassità lega-mentosa sproporzionata rispetto al coinvolgimento muscolare è tipica di una patologia del collagene, piuttosto che di una miopatia congenita, anche se in alcune forme la lassità è significativa. Un rapido peg-gioramento clinico è raro nelle miopatie congenite ed analogamente valori di CK particolarmente elevati do-vrebbero far escludere una miopatia congenita. Un’attenta anamnesi familiare può essere utile. In casi dominanti spesso il genitore affetto può riferire di sco-liosi e scarse prestazioni motorie.La biopsia muscolare, con studi istochimici dettagliati, integrati da studi di immunoistochimica e microscopia elettronica, è essenziale per la diagnosi delle miopatie congenite e per indirizzare l’analisi molecolare. Infatti nonostante il numero di pazienti caratterizzati genoti-picamente sia in continua crescita e gli sforzi dei ricer-catori per delineare una valida correlazione genotipo-

fenotipo siano numerosi, è attualmente ancora molto difficile identificare il gene affetto sulla base della sola presentazione clinica. In questo scenario uno strumen-to diagnostico promettente è la RMN muscolare degli arti inferiori che in alcuni casi permette di individuare un pattern patognomonico di coinvolgimento muscolare selettivo, in cui cioè alcuni muscoli appaiono precoce-mente colpiti ed altri invece selettivamente risparmiati (Quijano-Roy et al., 2011; Klein et al., 2011; Fischer et al., 2006; Hankiewicz et al., 2015). Alcuni esempi sono rappresentati nella Figura 8. Se porre un sospetto diagnostico di miopatia conge-nita può essere agevole, non è facile raggiungere la corretta caratterizzazione genetica. Questo è dovuto al fatto che il legame tra una specifica forma di miopa-tia congenita, istologicamente definita, e la sua causa genetica non è diretto perché molte forme istologiche sono in realtà causate da difetti in geni diversi e per-ché mutazioni dello stesso gene possono portare a diverse anomalie istopatologiche. Recentemente un gruppo di esperti sulle miopatie congenite (The International Standard of Care Com-mittee for Congenital Myopathies) ha lavorato alla definizione di una serie di linee guida per assistere il clinico nell’indirizzare gli esami genetici basandosi su di una attenta revisione della letteratura ed un que-stionario per la raccolta delle caratteristiche cliniche salienti in ambito clinico, istopatologico e di RMN mu-scolare (North et al., 2014). In particolare le caratteristiche fenotipiche sono sta-te divise in due categorie in base all’età di esordio: esordio neonatale ed infantile e esordio tardivo nel bambino. Una lista di questi indizi diagnostici è sche-matizzata nelle Tabella VI. Gli sforzi di fornire indicatori clinici, istopatologici e di RMN muscolare di una specifica forma sono utili non solo per l’iter diagnostico dalla clinica alla gene-tica, ma anche per il processo inverso di conferma delle mutazioni genetiche che sempre più vengono identificate dalle analisi molecolari di nuova gene-razione che forniscono un numero crescente di va-rianti genetiche il cui significato patogenetico deve essere corroborato dalla presenza di solidi indicatori di malattia.

Prognosi e terapiaUno dei vantaggi nello stabilire la causa genetica di una miopatia congenita è che si può utilizzare la lette-ratura pubblicata per prevedere la progressione della malattia e pianificare la presa in carico. L’identifica-zione di mutazioni in geni particolari ha implicazioni sia per la prognosi che per la prevenzione. Ad esem-pio, la sorveglianza respiratoria è particolarmente im-portante nei pazienti con mutazioni in NEB, ACTA1, SEPN1, e la prevenzione cardiologica diventa molto più importante del solito nei pazienti con mutazioni MYH7 o TPM2.

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Le miopatie congenite

Tuttavia, molti pazienti con miopatie congenite riman-gono senza diagnosi genetica o perché il test geneti-co è di difficile accesso o perché il gene-malattia non è ancora stato associato alla forma specifica. Pertan-to, è utile fare alcune affermazioni generali sulla pre-sa in carico per i pazienti con miopatie congenite nei quali la causa genetica è sconosciuta.Un aspetto condiviso da diverse forme genetiche è la tendenza alla compromissione dei muscoli respiratori o per debolezza dei muscoli intercostali o per la de-formità a causa della scoliosi. In alcuni casi un’insuffi-cienza respiratoria progressiva si verifica nonostante la forza degli arti sia conservata; ad esempio bambini ambulanti di appena 3 anni possono presentare ina-spettatamente insufficienza respiratoria. L’ipoventila-zione notturna appare particolarmente comune nella prima età adulta e, se non trattata, può essere causa di morte improvvisa. Una capacità vitale forzata del

sessanta per cento del predetto è una soglia utile, al di sotto della quale sono necessari studi che valutino la presenza di ipoventilazione notturna. La maggior parte delle anomalie ortopediche sono sufficientemente accessibili al trattamento conserva-tivo o chirurgico. Le malformazioni hanno importanti implicazioni nella gestione dei pazienti con miopatie congenite, che devono essere strettamente monitorati e trattati in tempo. A volte è consigliato un approccio chirurgico precoce della scoliosi grave per conservare al meglio la funzione respiratoria. In casi selezionati la chirurgia della scoliosi può essere eseguita anche prima degli 8 anni con l’uso di barre di crescita. Le contratture dei tendini di Achille si possono sviluppare nei pazienti con coinvolgimento distale ed a volte è necessario un allungamento chirurgico del tendine.La fisioterapia per mantenere il corretto funziona-mento articolare è spesso utile. L’uso di dispositivi

Figura 8. Esempi di quadri RMN muscolare tipici.• Miopatie central core con mutazione del gene RYR1COSCIA: coinvolgimento selettivo a carico dei muscoli vasto laterale, del sartorio e dell’adduttore magno con relativo risparmio dei muscoli gracile, retto femorale e adduttore lungo. I muscoli della loggia posteriore (semimembranoso e semitendinoso), sono coinvolti in maniera variabile.GAMBA: significativo interessamento dei muscoli peronieri con risparmio del tibiale anteriore e un maggiore coinvolgi-mento del muscolo soleo.• Miopatie con core da mutazione del gene SEPN1COSCIA: alterazione predominante a carico del sartorio con relativo risparmio del retto femorale, adduttore magno e muscolo gracile. GAMBA: il coinvolgimento dei gastrocnemi mediale e laterale eccede l’interessamento del soleo. Il tibiale anteriore può essere marcatamente interessato. • Miopatia centronucleare con mutazione del gene DNM1Quadri variabili con frequente coinvolgimento sia dei muscoli anteriori che posteriori della coscia. Il retto del femore è coinvolto, diversamente da RYR1. A livello della gamba i gastrocnemi possono essere solo parzialmente coinvolti.

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C. Fiorillo et al.

plantari o tutori per stabilizzare la deambulazione o consentire il mantenimento della posizione eretta più a lungo possibile è un’opzione per i casi più gra-vi. È stato infatti dimostrato come la conservazione della deambulazione e della stazione eretta sia in grado di ritardare l’insorgenza della deformità della colonna vertebrale. Non vi è alcuna prova diretta che i pazienti con miopatie congenite possano benefi-ciare di specifici regimi di esercizio fisioterapico, ma è noto che un regolare esercizio aerobico, come il ciclismo, l’idroterapia, ed il nuoto quando possibile

sono vantaggiosi. I pazienti con miopatie congenite sono suscettibili di rischio di osteoporosi e fratture ossee. Il mantenimento di adeguati livelli di vitamina D e l’assunzione di calcio sono consigliati. La valuta-zione della densità minerale ossea potrà identificare i pazienti a più a rischio di osteopenia. La cardiomio-patia è raramente associata alle miopatie congenite, ma è un potenziale problema se ci sono mutazioni in alcuni geni. Pertanto può essere prudente eseguire un esame cardiaco con ecocardiogramma o elet-trocardiogramma ogni 2-3 anni durante l’infanzia,

Tabella VI. Indicatori clinici più suggestivi di una forma di miopatia congenita e possibili diagnosi differenziali.

Esordio nel neonato e primi 2 anni

Caratteristica clinica Forma di miopatia Diagnosi differenziale

Ipostenia facciale Nemalinica e Centronucleare (MTM1, RYR1, DNM2)

Distrofia miotonica congenita, Miastenia congenita

Oftalmoplegia Centronucleare (MTM1,RYR1, DNM2).Multiminicores (RYR1)

Miastenia congenita. Mitocondriopatie

Ptosi Centronucleare (MTM1,RYR1, DNM2).Multiminicores e Central Cores

Miastenie congeniteDistrofia miotonica congenita

Dismorfismi faciali (facies allungata, palato ogivale, dolicocefalia)

NemalinicaCentronucleare (MTM1 e DNM2 grave)Forme RYR1 gravi

Distrofia miotonica

Difetto di suzione e disfagia NemalinicaMiotubulareForme RYR1 gravi

Miastenia congenita, Distrofia miotonica, Prader Willi, SMA

Grave insufficienza respiratoria alla nascita

NemalinicaMiotubulareForme RYR1 gravi

Distrofia miotonica, SMA, Pompe

Predominante ipotonia assiale RYR1, SEPN1 Laminopatia

Deformità ortopediche RYR1, nemalinica CollagenopatieMiastenie congenite

Dislocazione dell’anca RYR1 Collagenopatie

Acinesia fetale, atrogriposi multipla

Nemalinica (ACTA1, NEB, KLHL40)Forme RYR1 gravi

Miastenie congenite, SMA 0

Piedi torti Nemaliniche, RYR1 Distrofia miotonica, Miastenie congenite

Esordio tardivo nel bambino

Caratteristica clinica Forma di miopatia Diagnosi differenziale

Scoliosi SEPN1, RYR1, Nemalinica Collagenopatie, Distrofia muscolare congenita da deficit di merosina

Rachide rigido SEPN1, RYR1

Cardiomiopatia TTN, MYH7, raramente ACTA1 Malattia di Pompe

Piede cadente, piede cavo Nemaliniche (NEB, TPM3, TPM2), Centroncleare (DNM2), MYH7

Neuropatia periferica

Ipertermia maligna Central core, minicore e centronucleare (solo se mutazioni RYR1)

Coinvolgimento respiratorio o ipostenia assiale sproporzionati rispetto alla ipostenia muscolare

SEPN1, Nemalinica (NEB, TPM3, ACTA1)

Laminopatie, Miastenie congenite, Malattia di Pompe

(da North et al. International Standard of Care Committee for Congenital Myopathies. Approach to the diagnosis of congenital myopathies. Neuromuscul Disord 2014, mod.).

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Le miopatie congenite

ed ogni 3-5 anni, durante l’età adulta anche se una causa specifica non viene diagnosticata.

Consulenza geneticaUna delle domande più comuni per le famiglie che han-no un bambino con miopatia congenita è la possibilità di avere un altro figlio affetto. Le miopatie congenite possono essere ereditate con modalità sia autosomi-ca dominante, che recessiva o X-linked. Determinare la modalità di trasmissione è a volte molto complesso, perché una mutazione può essere de novo o recessi-va. Ad esempio mutazioni nel gene RYR1 possono agi-re in modi sia dominanti che recessivi ed alcune mu-tazioni recessive possono essere difficili da identificare (mutazioni di splicing o mutazioni introniche). Inoltre può essere difficile distinguere mutazioni vere da poli-morfismi, ed una penetranza incompleta è comune per alcune mutazioni dominanti. Le forme X-linked sono dovute a mutazione del gene MTM1 (XLMTM) o FHL1 nel caso della rarissima miopatia a corpi riducenti. Di solito le donne portatrici sono asintomatiche ma pos-sono mostrare debolezza muscolare probabilmente a causa d’inattivazione della X. Così è importante consi-derare che una donna con miopatia congenita può es-sere una portatrice di MTM1 e trasmetterla ai figli ma-schi, in cui è spesso una condizione letale. Una carat-teristica alterazione morfologica descritta come “fibre a collana” è stata riportata come marcatore istologico delle portatrici manifeste di mutazioni MTM1. Quando questo dato non è disponibile è consigliabile comun-

que per ogni ragazza miopatica in età fertile escludere mutazioni in questo gene.

Prospettive futureL’identificazione della base genetica dei pazienti con miopatie congenite potrebbe diventare molto più sem-plice non appena le tecniche di sequenziamento “high-throughput” saranno incorporate nei laboratori diagno-stici ed il sequenziamento dell’esoma sarà l’approccio più economico ed efficace per diagnosticare questi pa-zienti. Già il costo del sequenziamento dell’intero esoma potrebbe risultare inferiore rispetto al sequenziamento di singoli grandi geni come RYR1. Uno dei problemi prin-cipali, però, è da un lato quello di riuscire a distinguere vere mutazioni patogene da polimorfismi, dall’altro la validazione patogenetica di possibili nuovi geni. È an-che possibile che in un solo paziente siano identifica-te diverse mutazioni in più geni associati con miopatie congenite ed alcuni di questi possano avere un ruolo nella modulazione del fenotipo (geni modulatori). È infi-ne possibile che difetti di questi geni regolatori siano una spiegazione per la presenza di marcatori istopatologici diversi, come la coesistenza di cores e corpi nemalinici.Infine l’incremento delle diagnosi genetiche porterà ad una maggiore conoscenza delle basi fisiopatologi-che delle miopatie congenite con possibili spunti per la ricerca di trattamenti efficaci. E contemporanea-mente la creazione di modelli animali per la validazio-ne di nuovi geni candidati sarà d’aiuto nella sperimen-tazione di eventuali sostanze terapeutiche.

Box di orientamento

• Cosa sapevamo primaLe miopatie congenite sono un gruppo eterogeneo di patologie strutturali del muscolo scheletrico con esordio nell’infanzia. Si differenziano per gli aspetti istopatologici alla biopsia muscolare. Possono esserci forme gravi con esordio alla nascita e forme lievi scarsamente evolutive.

• Cosa sappiamo adessoNegli ultimi anni sono stati identificati numerosi nuovi geni associati a forme di miopatie congenite. Si è constatato che mutazioni di un singolo gene possono determinare fenotipi clinici ed anche istopatologici differenti. Analogamente quadri istopatologici differenti per specifiche forme di miopatie congenite posso-no associarsi a mutazioni anche dello stesso gene. Per la diagnosi l’utilizzo di nuovi strumenti come la RMN muscolare, che consente di identificare un pat-tern specifico di coinvolgimento muscolare anche selettivo, si sta dimostrando estremamente utile.

• Quali ricadute sulla pratica clinicaEsistono forme gravi congenite e forme lievi nelle quali tuttavia si può avere uno sbilanciato interessa-mento dei muscoli respiratori, con il possibile instaurarsi di un’insufficienza respiratoria che deve essere monitorata, o una precoce insorgenza di malformazioni ortopediche. L’identificazione del gene richiede un aggiornamento continuo dei dati della letteratura ed uno studio accurato della biopsia muscolare. La caratterizzazione genetica è importante per la migliore presa in carico, che si basa sulla consapevolezza della prognosi e di eventuali complicanze cardiache o respiratorie associate al difetto genetico specifico. La caratterizzazione genetica è inoltre fondamentale per il counselling familiare.

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*** Lavoro che affronta i nuovi concetti emergenti sulle basi fisiopatologiche del-le miopatie congenite, dagli studi bioptici sperimentali sull’uomo, ai modelli cellulari ed animali.

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** Nuovi concetti nell’ambito delle mio-patie centronucleari.

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** Estratto dai workshop internazionali di esperti sulle varie forme di miopatie, in particolare aggiornamento sulla miopatia nemalinica.

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Corrispondenza

Chiara Fiorillo, Carlo MinettiNeurologia Pediatrica e Malattie Muscolari, Istituto G. Gaslini, via G. Gaslini 5, 16147 Genova - Tel. +39 010 56362520 - E-mail: [email protected]


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