LATINO, EBRAICO E VOLGARE ILLUSTRE: LA QUESTIONE DELLA
NOBILTÀ DELLA LINGUA NEL DE VULGARI ELOQUENTIA DI
DANTE.1 ALESSANDRO RAFFI
Il problema di fondo attorno al quale ruotano le riflessioni del De
vulgari eloquentia può essere riassunto nella domanda: in quali
condizioni strutturali e a che livello del suo sviluppo storico il volgare
d'Italia può assurgere al rango di lingua nobile? L'idea di nobiltà e la
realtà del volgare sembrano infatti collidere in una sorta di ossimoro
da cui parrebbe non esserci via d'uscita. È dalla molteplicità di
implicazioni che sono legate a questa domanda che nasce la
complessità del De vulgari eloquentia, un trattato polimorfo e
irriducibile alla fisionomia di un determinato genere letterario, un
testo di grande respiro speculativo che accoglie le istanze delle
discipline più disparate: dalla poetica alla retorica, dalla grammatica
alla logica, dalla esegesi esameronale, che fornisce la cornice teorica
ai capitoli riguardanti l'origine del linguaggio, alla speculazione
metafisica sostenuta dall'Auctoritas del Filosofo. A nostro avviso, per
inquadrare correttamente la questione della nobiltà nel De vulgari
eloquentia è imprescindibile una lettura approfondita del blocco
costituito dai capitoli I- VIII del primo libro, che troppo spesso si
1 Le citazioni presenti nel testo fanno riferimento alle seguenti edizioni critiche: Convivio, in: Dante Alighieri, Opere Minori, tomo I parte II, a cura di C. Vasoli e D. De Robertis, Ricciardi, Milano – Napoli, 1988; De vulgari eloquentia, in: Opere
300
tende a considerare coma una introduzione di maniera, spiegabile col
gusto tutto medievale per le origini remote, una sorta di preludio
ornamentale al nocciolo duro del trattato. In realtà, è proprio in questi
primi otto capitoli che Dante forgia, sulla scorta di autorità teologiche
e filosofiche, gli strumenti teorici che impiegherà nelle sue analisi
successive. A partire da una duplice questione: in che cosa consista
l'essenza della lingua; e quale sia l'origine del linguaggio.
Il problema dell'essenza della lingua rinvia alla natura del segno,
costituito da un supporto sensibile, un significante, portatore di un
significato intelligibile. La duplice natura del segno linguistico
dimostra per Dante che nella compagine del cosmo “soli homini
datum fuit ut loqueretur” (De vulgari eloquentia I, iv, 1). Duplice,
infatti, è la natura dell'uomo, animale razionale in quanto sinolo di
materia e forma. È da escludersi, pertanto, l'esistenza di una lingua
degli angeli: dato che lo spirito delle intelligenze celesti non è
nascosto dallo spessore di un corpo mortale, esse non hanno bisogno
di segni sensibili per comunicare i loro pensieri. La comunicazione tra
gli angeli assume l'aspetto di una visione silenziosa da mente a mente,
dove ciascuno si rivela totalmente all'altro perdendosi nella
contemplazione dello Specchio della Sapienza di Dio (De vulgari
eloquentia I, ii, 3 - 4). Per motivi opposti, Dante esclude anche
l'esistenza di un linguaggio degli animali. In questo caso, dato che le
bestie non hanno nulla da comunicare, essendo creature prive di
ragione, i loro versi non possono essere intesi come significanti
Minori, tomo II, a cura di P.V. Mengaldo, Ricciardi, Milano – Napoli, 1979, pp. 3 –
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intenzionalmente mirati alla trasmissione di un contenuto intelligibile.
Soltanto l'uomo, in quanto creatura intermedia tra l'angelo e il bruto, è
un animale linguistico. Lo schema dal quale Dante procede costituisce
un topos dell'antropologia medievale, e ci permette di trarre diversi
corollari. Il regno degli angeli è il trionfo del Silenzio, dell'Ineffabile,
e del Significato puro che si trasmette per un atto di intuizione
intellettuale senza la mediazione di alcun significante sensibile.
Configura l'utopia di una comunicazione trasparente e senza residui
che corrisponde alla concordia assoluta in seno alla Civitas Dei. Il
regno animale è invece il trionfo del "verso", del significante
degradato a materia fonica, a manifestazione immediata dell'istinto
bruto. Tra animali della stessa specie vige una sorta di intesa
prelinguistica basata sulla conoscenza dei diversi actus et passiones
condivisi da ciascun esemplare, mentre tra animali di specie differenti
la presenza del linguaggio oltre che inutile sarebbe stata dannosa, dato
che fra loro sussiste un rapporto di costante inimicizia (De vulgari
eloquentia I, ii, 5). Le diverse specie del regno animale costituiscono
quindi l'esatto opposto della Civitas angelica, il dominio della guerra
di tutti contro tutti e della discordia assoluta. Non è difficile accorgersi
del fatto che quando Dante disegna i due poli estremi della condizione
angelica e della condizione bestiale, stia alludendo ai due possibili
termini asintotici verso i quali tende la città dell'uomo, animale
linguistico in quanto politico e viceversa. La lezione aristotelica è
altrettanto evidente. Questa possibile linea di sviluppo della riflessione
237.
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dantesca verrà esplicitamente alla luce nel momento in cui si tratterà
di esaminare le conseguenze della confusione delle lingue, punizione
divina al tentativo umano di edificare la torre di Babele.
L'essenza della lingua come insieme di segni costituiti da un
significante sensibile che rinvia a un significato ideale, discende
quindi dall'essenza della natura umana. Come l'angelo, e a differenza
dell'animale bruto, l'uomo è dotato di una mente razionale in grado di
enucleare concetti. Come il bruto, e a differenza dell'angelo, l'uomo è
dotato di un corpo materiale, ed è quindi impedito a quella
comunicazione trasparente e silenziosa che caratterizza le intelligenze
celesti. Partendo da questo presupposto, Dante procede a discutere il
problema della struttura originaria della lingua adamitica introducendo
la nozione di forma locutionis. Egli premette, innanzi tutto, che
quando Dio creò l'anima del primo uomo concreò, insieme ad essa,
una determinata forma locutionis. Il legame intrinseco che fa
dell'uomo un "animale significante" diventa ancora più perspicuo: allo
stesso modo per cui l'anima è forma e principio strutturante del corpo,
anche la lingua è costituita da una struttura formale e da un elemento
materiale. Quanto alla nozione di forma, Dante ne dà una definizione
di questo tipo: “Dico autem "formam" et quantum ad rerum vocabula,
et quantum ad vocabulorum constructionem et quantum ad
constructionis prolationem” (De vulgari eloquentia I, vi, 4).
Utilizzando formule ricorrenti nei grammatici medievali, Dante qui
delinea i tre elementi costitutivi della lingua: lessico, sintassi, e
morfologia. Possiamo affermare che la nozione di forma locutionis si
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presta a una duplice possibilità di lettura. In una accezione forte,
Dante la utilizza in riferimento alla lingua originaria parlata da Adamo
e dall'intera umanità fino alla confusione delle lingue. In una
accezione debole, la nozione di forma locutionis individua gli aspetti
strutturali potenzialmente presenti in ogni idioma storico ricreato dalle
convenzioni umane dopo Babele. Forma locutionis in senso forte fu
quindi la struttura della lingua primordiale che Dio stesso concreò
nell'anima di Adamo (De vulgari eloquentia I, vi, 4). Una struttura
perfetta, cristallina, trasparente, in cui il senso delle parole rifletteva il
senso ultimo delle cose. Com'è noto, Dante identifica la lingua
adamitica con l'ebraico, sulla scorta di una tradizione di lunga durata
risalente per lo meno a Sant'Agostino. Forma locutionis degradata, in
quanto ricostruita artificialmente da ogni popolo dopo il disastro della
torre di Babele, è da considerarsi invece la struttura "semantico -
sintattico - morfologica" degli idiomi storici, instabili e soggetti a un
continuo divenire.
A fronte di questo primo versante della ricerca "archeologica",
relativo al problema della struttura originaria della lingua, Dante
affronta la questione dell'origine del linguaggio chiedendosi quale sia
stato l'atto di parola iniziale (il primiloquium) con cui l'uomo ha
cominciato concretamente ad esprimersi. La distinzione tra il concetto
di forma locutionis - la struttura della lingua - e il concetto di actus
locutionis - che Dante introduce per individuare la dimensione del
linguaggio come estrinsecazione concreta degli atti di parola, sembra
preludere alla celebre distinzione tra langue e parole codificata dalla
304
linguistica saussuriana. È a questo livello dell'analisi, all'altezza dei
capitoli quarto e quinto del primo libro del De vulgari eloquentia, che
Dante affronta la questione dell'origine del linguaggio, e lo fa
formulando una teoria innovativa, elaborata attraverso un commento
al libro della Genesi che non trova precedenti nella letteratura
esameronale. Il problema viene impostato attraverso il metodo
scolastico della quaestio disputata ed è articolato in sei punti. Occorre
chiarire chi sia stato il primo parlante nella storia dell'umanità, che
cosa disse, a chi dove e quando parlò, e in quale lingua si espresse (De
vulgari eloquentia I, iv, 1). Benché il primo atto linguistico attestato
dalla Genesi sia il dialogo intercorso tra Eva e il serpente tentatore,
Dante sostiene che sia più razionale credere che un così eccellente atto
del genere umano quale dev'essere il primiloquium, sia stato proferito
dall'essere umano plasmato dalla mano di Dio, piuttosto che dalla
donna indotta in tentazione: “Rationabiliter ergo credimus ipsi Ade
prius datum fuisse loqui ab Eo qui statim ipsum plasmaverat” (De
vulgari eloquentia I, iv, 3). In Adamo l'intera specie umana è nata al
linguaggio, prima della cacciata dall'Eden, al di qua della Storia e del
dolore. Non c'è dubbio pertanto che la prima parola proferita da
Adamo, l'evento linguistico che costituisce il nobilissimo actus
locutionis da cui ha tratto origine il linguaggio umano nella
dimensione della parole, sia stato l'esclamazione gioiosa del Nome di
Dio. Allo stesso modo per cui, dopo la cacciata dal paradiso terrestre,
ogni essere umano accede al linguaggio con un grido di dolore (“[…]
post prevaricationem humani generis quilibet exordium sue locutionis
305
incipit ab "heu"”; in: De vulgari eloquentia I, iv, 4) è ragionevole
affermare che l'uomo creato in statu innocentiae, iniziasse a parlare
con una esclamazione di gioia. In virtù della logica del contrappasso
se ne deduce che l'origine ontogenetica del linguaggio umano è
l'esatto contrario della sua origine filogenetica. E poiché non vi è gioia
alcuna fuori di Dio, ne consegue che Adamo, ancor prima di proferire
qualsiasi altra parola, iniziò a parlare esclamando El, quel nome
ebraico che la tradizione medievale risalente a San Girolamo
considerava il più originario dei nomi di Dio. La risposta alla
domanda circa l'origine del linguaggio non va cercata nel livello
letterale della Genesi, che non dice nulla di esplicito a proposito di
questa esclamazione primordiale, ma può essere ricostruita
razionalmente a partire dai medesimi presupposti teologici che il testo
sacro ci offre. Se dopo la caduta "nascemmo al pianto", nel dolore
dell'esilio dalla Patria primordiale, prima della caduta Adamo inizia a
parlare nel segno della gioia, rivolgendosi direttamente al Creatore. La
distinzione dantesca tra forma e actus locutionis fornisce gli strumenti
per rispondere al duplice problema affrontato in questo primo blocco
del De vulgari eloquentia: la struttura originaria della lingua è quella
forma locutionis, concreata da Dio nell'anima di Adamo, che si
concretizzò nella lingua ebraica; l'evento primordiale che costituisce
l'origine del linguaggio umano è l'actus locutionis con cui il padre
dell'intera umanità ha esultato esclamando il Nome di Dio.2 A questo
2 Su questo punto Dante non indietreggia nemmeno nella celebre ritrattazione del ventiseiesimo canto del Paradiso, dove lo spirito di Adamo rivela a Dante che la lingua primordiale fu “tutta spenta/innanzi che a l’ovra inconsummabile/ fosse la
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punto, occorrerà adesso verificare in che misura e secondo quali
modalità, le nozioni di forma locutionis e actus locutionis vengano
riutilizzate da Dante per rispondere alla domanda circa la nobiltà del
volgare.
La domanda intorno alla nobiltà di una lingua, assieme alla
individuazione delle condizioni necessarie e sufficienti affinché tale
rango venga riconosciuto a un idioma è un problema a cui il Convivio
e il De vulgari eloquentia sembrano dare soluzioni opposte. In
Convivio I, v, 7 Dante afferma che il latino “è sovrano per nobiltà,
vertù, e bellezza”; in De vulgari eloquentia I, i, 4 egli stabilisce a mo'
di assioma: “Harum quoque duarum, nobilior est vulgaris”. Se nel
trattato italiano, il confronto si configura dualisticamente nei termini
di una tenzone tra latino e volgare del sì, le analisi compiute dal
trattato latino non possono essere lette prescindendo dai risultati
dell’indagine esameronale condotta nei capitoli introduttivi. In questo
caso il problema della nobiltà della lingua, sebbene ancora impostato
come dilemma, implica un confronto a tre. Da una parte il latino,
gente di Nembròt attenta” (Paradiso, canto XXVI, versi 125 - 126). E continua: “Pria ch’i’ scendessi a l’infernale ambascia/ I s’appellava in terra il sommo bene/ onde vien la letizia che mi fascia;/ e El si chiamò poi: e ciò convene,/ ché l’uso d’i mortali è come fronda/ in ramo, che sen va e altra vene” (Ivi, versi 133 - 138). Caduto il mito della lingua adamitica, perfetta e immutabile, ribadito il concetto della radicale storicità di tutte le lingue in quanto prodotti convenzionali dell'invenzione umana, resta saldo il principio secondo cui la funzione prioritaria del linguaggio consiste nell'invocare il Nome del Padre. Che questo nome, a differenza di quanto sostenuto nel De vulgari eloquentia, stavolta sia individuato nella vocale "I" anziché nel consueto "El", che da San Girolamo in poi tutti i medievali considerano come primum Dei nomen, non cambia nulla di essenziale. Per ulteriori approfondimenti su questo tema specifico mi permetto di rinviare al mio recente volume: A. Raffi, La gloria del volgare. Ontologia e semiotica in Dante dal "Convivio" al "De vulgari eloquentia", Soveria Mannelli, Rubbettino, 2004.
307
lingua veicolare della cultura e lingua ufficiale delle massime
istituzioni medievali, Impero e Chiesa; nobilitato dalla pratica degli
antichi vati che hanno prodotto i loro capolavori in questa lingua
"regolata", il latino si identifica con quella gramatica inventata allo
scopo di ricreare artificialmente, sulla base del comune consenso di
molti popoli, una lingua inalterabile nello spazio e nel tempo. Dante
chiarisce che il latino nasce dalla necessità di ancorare la
comunicazione tra i popoli ad uno strumento veicolare unico, a fronte
del proliferare dei molteplici idiomi, nazionali e locali, subentrati alla
perdita della lingua unica avvenuta dopo Babele. Il secondo termine di
paragone è il volgare illustre, una sorta di terminus ad quem distinto
dalla realtà effettuale delle quattordici parlate correnti, al di qua e al di
là della linea appenninica; nobilitato dall’esperienza poetica dei più
egregi versificatori d’Italia questa lingua ancora in gestazione, che
come una pantera nascosta irradia ovunque il suo profumo, è
comunque destinata ad assumere un'importanza sempre maggiore
rispetto al suo ruolo subalterno di mera "lingua d’amore". Il terzo
termine di paragone, che sembra rimanere sullo sfondo, è infine
l’ebraico, la lingua sacra parlata da Adamo nell’Eden, costruita su una
forma locutionis che fu Dio stesso a concreare nell’anima del primo
uomo. È ovvio che nessuno potrà mai mettere in discussione i titoli di
nobiltà della lingua adamitica: anzi, le caratteristiche peculiari di
quest’ultima ci possono fornire un paradigma e quindi dei criteri utili
proprio per dirimere la controversia tra latino e volgare. All’approccio
esclusivamente dilemmatico del primo libro del Convivio, dovuto al
308
fatto che in questo caso Dante si sente chiamato a elaborare una
excusatio tesa a giustificare la scelta sovversiva del "pane di biado"
del volgare, al posto del "pane di frumento" del latino, subentra, nel
De vulgari eloquentia, un processo di ulteriore approfondimento:
sollecitato da nuove istanze speculative, il trattato latino espande lo
spazio della discussione premettendo al confronto tra latino e volgare
una trattazione sul tema della lingua originaria; e inoltre, la questione
della lingua letteraria pone altresì il problema di distinguere tra il
volgare alto e "nazionale" (definito attraverso la celebre tetrade:
illustre, curiale, cardinale e aulico) e la molteplicità dei volgari
particolari, che nella loro rudezza rimandano al localismo delle
singole parlate d'Italia.
Il ruolo che Dante assegna all'ebraico, nel tracciare i lineamenti di
una storia linguistica del genere umano, è conforme a un topos
largamente condiviso dalle Auctoritates. Che l’ebraico si identifichi
con la lingua primigenia parlata nell’Eden è stabilito da Sant'Agostino
nel sedicesimo libro del De civitate Dei, dove si legge che la lingua un
tempo condivisa dall’umanità intera prese poi il nome dalla tribù di
Eber, in seguito alla confusio linguarum con cui Dio punì l’arroganza
di quanti osarono edificare la torre di Babele. Tuttavia, mentre la
trattazione di Agostino descrive soltanto la sequenza dei fatti accaduti,
circoscrivendo il quid degli eventi della storia sacra, Dante si sforza di
introdurre una doppia eziologia adducendo una causa efficiente e una
causa finale onde spiegare la filiazione dell’ebraico dalla lingua
adamitica. In primo luogo, egli afferma che gli Ebrei non furono
309
puniti in quanto deprecarono l’infame progetto babelico e si astennero
dal partecipare all’edificazione della torre. Per questi motivi il popolo
eletto si meritò un ulteriore beneficio dalla grazia divina, diventando
l’unico erede della lingua primordiale:
Quibus autem sacratum ydioma remansit nec aderant nec
exercitium commendabant, sed graviter detestantes stoliditatem
operantium deridebant. Sed hec minima pars, quantum ad numerum,
fuit de semine Sem, sicut conicio, qui fuit tertius filius Noe: de qua
quidem ortus est populus Israel, qui antiquissima locutione sunt usi
usque ad suam dispersionem (De vulgari eloquentia I, vii, 8).
Il primo blasone dell'ebraico consegue dall’identità tra l’idioma del
popolo di Israele e la lingua di Adamo, almeno fino al tempo della
diaspora. Il secondo blasone lo si evince da una lettura soteriologica
degli eventi della storia sacra: la medesima lingua in cui si era
espresso il primo uomo, creato in statu innocentiae per dimorare
accanto al Padre, sarebbe sopravvissuta alla confusione babelica in
conformità al piano della Provvidenza, onde conservarsi integra fino
all’incarnazione di Cristo. Il fulgore della lingua di Adamo si sarebbe
dispiegato nella parola del Figlio, come vangelo di salvezza per tutta
l’umanità:
Hac forma locutionis locutus est Adam; hac forma locutionis
locuti sunt omnes posteri eius usque ad edificationem turris Babel,
310
que “turris confusionis” interpretatur; hanc formam locutionis
hereditati sunt filii Heber, qui ab eo dicti sunt Hebrei. Hiis solis post
confusionem remansit, ut Redemptor noster, qui ex illis oriturus erat
secundum humanitatem, non lingua confusionis, sed gratie frueretur.
Fuit ergo hebraicum ydioma illud quod primi loquentis labia
fabricarunt. (De vulgari eloquentia I, vi, 5 – 7)
Da questa ricostruzione, conforme alla strategia esegetica del
trattato latino, nel suo costante riproporsi in veste di commento alla
Genesi, si ricavano i titoli di nobiltà che sono appannaggio esclusivo
dell’ebraico, titoli non condivisi da nessun volgare. Innanzitutto
l’ebraico è l'unica lingua in cui rifulge la forma locutionis deposta da
Dio nell’anima del padre del genere umano. La forma locutionis della
lingua adamitica corrisponde a un modello di perfezione
"grammaticale" sconosciuto all’umanità posteriore, destinata a vivere
nell’oscurità della condizione postlapsaria e a parlare il caos della
confusione babelica. Ulteriore corollario, di non poco momento
quando si tratterà di confrontare latino e volgare, è il fatto che
l’ebraico si configura come una lingua pressoché immutabile, una
sorta di lingua perenne immune dal divenire. Ecco allora che il
secondo blasone di nobiltà discende dal medesimo rapporto "figurale"
esistente tra Adamo e Cristo, un tema centrale delle epistole di San
Paolo che Dante introduce per spiegare in termini provvidenzialistici
le ragioni per cui la lingua originaria si mantenne intatta presso i
discendenti di Eber. La curvatura cristologica che il problema della
311
lingua adamitica assume in questo particolare segmento della
riflessione dantesca, riecheggia nuovamente i termini della
meditazione agostiniana. L’umanità muore in Adamo e risorge in
Cristo: se tramite Adamo, formato dalla terra, la morte fece ingresso
nel mondo, Cristo, alter Adam "plasmato dal cielo" ha trionfato sulla
morte ed è fonte di vita eterna.3 Per la logica del contrappasso, il
Vangelo di vita e salvezza doveva essere annunciato nella stessa
lingua in cui la morte, con le parole del serpente tentatore, aveva fatto
ingresso nel mondo. Dante procede incastonando lo stesso tema topico
della letteratura esameronale in una doppia eziologia elaborata ante
rem e post festum: l’ebraico è la protolingua ereditata dal popolo di
Israele, l’unico ad aver condannato l’impresa della torre di Babele e
ad essersi astenuto dal parteciparvi; l’ebraico è la lingua in cui sarà
annunciato il Vangelo di Cristo, essendo inconcepibile che il Figlio di
Dio, nato dalla stirpe di Davide secondo la sua umanità, annunciasse
la salvezza in una lingua di perdizione erede della confusione
babelica. La doppia eziologia, pertanto, contribuisce a rafforzare
l’idea secondo cui l’ebraico è l’unica lingua di grazia, l’unico idioma
sacro dell’umanità, là dove per la tradizione medievale le lingue sacre
sono le tre che compaiono sulla Croce: ebraico, appunto, ma anche
greco e latino.4 A questi primi due blasoni di nobiltà, che Dante
3 Prima Lettera ai Corinzi 15, 21 – 22. Il tema di Cristo come alter Adam è elaborato da Sant'Agostino nell’undicesimo libro del De civitate Dei. 4 “Tres sunt autem linguae sacrae: Hebreaea, Graeca, Latina, quae toto orbe maxime excellunt. His enim tribus linguis super crucem Domini a Pilato fuit causa eius scripta. Unde et propter obscuritatem sanctarum scripturarum harum trium linguarum cognitio necessaria est, ut ad alteram recurratur, dum siquam dubitationem nominis vel interpretationis sermo unius linguae adtulerit” (Isidoro di
312
rielabora sulla base delle tradizioni esegetiche confluite nella
letteratura esameronale cristiana, se ne aggiunge un terzo, stavolta
frutto di una lettura innovativa della Genesi orientata su concezioni
ampiamente diffuse nella mistica ebraica: la lingua di Adamo è l’unica
che ha avuto inizio dalla invocazione gioiosa del Nome di Dio.5
Attraverso questo nobilissimo atto linguistico è l’umanità intera, nella
sua forma originaria di perfetta icona del Padre, che nasce alla
dimensione della parola. Adamo è terra che risponde gaudiosamente
glorificando il nome del Padre da cui ha ricevuto la luce. Adamo è
l’uomo che non è mai stato fanciullo, a cui è ignoto il balbettio
dell’infante che apprende la lingua materna imitando la nutrice. La
prossimità tra Dio e uomo che contraddistingue la condizione di
Adamo prima del peccato si riflette immediatamente nella nobiltà
dell'actus locutionis con cui la creatura comunica con il Creatore. La
risposta di Adamo all’appello del Padre che lo ha chiamato all’essere
come specie intermedia tra l’angelo e l’animale, determina l’explicatio
tantae dotis a ringraziamento per i doni ricevuti: la vita, la coscienza,
la parola e il corpo. In questo caso, le due dimensioni della langue e
della parole sono strettamente collegate: la nobiltà della lingua
edenica non deriva solo dal fatto di incarnare compiutamente la forma
locutionis concreata da Dio, ma anche dall’eccellenza del
Siviglia, Etymologiae IX, 1, 3). L’equiparazione delle tre lingue sacre, presenti sulla croce di Cristo, è tratta, come noto, dal Vangelo di Luca (Luca, 23, 38). 5 Per ulteriori chiarimenti sul possibile rapporto tra la mistica ebraica e la concezione dantesca del nome di Dio come origine del linguaggio, cfr. A. Raffi, La gloria del volgare. Ontologia e semiotica in Dante dal "Convivio" al "De vulgari eloquentia", cit., pp. 129 – 160.
313
primiloquium, purissimo movimento di ritorno all'Origine con cui
Adamo accede alla dimensione del linguaggio. Se la divina solidità
della forma garantisce all’ebraico una stabilità ignota ai volgari
posteriori a Babele, la risplendente luce dell’actus originario ne fa la
più nobile lingua che sia mai esistita, la lingua del colloquio faccia a
faccia tra la creatura e il Creatore.
La cacciata dall’Eden, il diluvio universale, e la confusione delle
lingue sono le tre grandi vergogne dell’umanità, che Dante, nel
capitolo VII della prima parte del De vulgari eloquentia, raccoglie
sotto il segno di un tragico cammino di perdizione destinato a oscurare
sempre di più lo specchio luminoso della lingua primordiale. Le tre
vergogne di cui si è macchiata l’umanità sono l’emblema di un
progressivo allontanamento dal Padre: l’uomo resta pur sempre
l’essere fatto a immagine di Dio, ma nella dissomiglianza crescente,
nella selva selvaggia di una regio dissimilitudinis sempre più cupa.
Quanto più si distorce l’immagine del Padre impressa nell’anima
dell’uomo, tanto più deforme diviene il linguaggio: la purezza
dell’originaria forma locutionis è ormai compromessa, e
all'esclamazione di giubilo con cui Adamo inizia a parlare "nel nome
del Padre" subentra il vagito di dolore con cui l'infante rievoca
inconsciamente il peccato originale. All’unica lingua sacra, assicurata
dalla prossimità e dal colloquio tra Dio e Adamo, subentrano le
molteplici lingue profane della confusione, proprie di una umanità
ormai ridotta a massa dannata. Del resto, nemmeno l’antichissima
lingua originaria custodita dagli Ebrei dopo Babele può essere
314
considerata eterna: nella conclusione del VII capitolo, Dante precisa
che il sacratum ydioma in cui parlarono Adamo e Cristo si mantenne
presso il popolo di Israele fino alla diaspora: “populus Israel, qui
antiquissima locutione sunt usi usque ad suam dispersionem […]” (De
vulgari eloquentia I, vii, 8). In questo modo, la storia linguistica del
genere umano appare divisibile in due sequenze simmetriche: tutte le
nazioni del mondo parlarono un solo idioma “usque ad edificationem
turris Babel” (Ivi I, vi, 5); il popolo ebraico conservò il retaggio della
lingua adamitica “usque ad suam dispersionem” (Ivi, I, vii, 8).
L’epoca compresa tra i due termini ad quem, la confusione delle
lingue e la diaspora di Israele, delimita lo spazio di sopravvivenza
della lingua adamitica presso gli Ebrei: quest’ultima può essere
considerata plurimillenaria, ma non eterna. La tragica storia del genere
umano viene sussunta sotto il segno di una incurabile coazione a
ripetere il peccato, peculiarità della creatura che in principio era stata
fatta per dimorare accanto al Padre, tra lo splendore delle coorti
angeliche e le schiere degli animali soggetti al suo dominio. La storia
acquisisce un significato unitario a partire dal progressivo
oscuramento della luce irradiata dal volgare adamitico: di questa
tragedia della fragilità umana, Babele e la diaspora sono i momenti
conclusivi. La crescente aversio a Deo, per dirla in termini
agostiniani, definisce il vettore principale della storia secondo un
duplice oscuramento, che intacca innanzi tutto l’immagine di Dio
nell’uomo, e in secondo luogo la forma locutionis concreata in
Adamo. Lo spalancarsi di una distanza crescente tra Dio e l’uomo,
315
lungo il percorso che inizia dal peccato originale e culmina con
Babele, determina infatti un insieme di mutazioni antropologiche la
cui importanza non ci può sfuggire se rammentiamo la collocazione
dell’uomo come essere intermedio tra l’angelo e l’animale bruto,
termini asintotici che delimitano lo spazio esistenziale dell’unica
creatura che per Dante ha il potere di esprimersi attraverso segni.
L’angelo individua l’utopia di una comunicazione assoluta e
immediata tra esseri razionali privi di corpo, l’utopia di un significato
che si trasmette da mente a mente senza essere veicolato da un
significante sensibile. Il bruto costituisce la distopia di un significante
ridotto a "verso", inerte materia fonica che non trasmette alcun senso
intelligibile. Alla Civitas delle coorti angeliche, in cui le singole
creature razionali sono reciprocamente trasparenti e riescono a leggere
i loro pensieri nello Specchio del Verbo Divino, fa riscontro la
molteplicità delle specie animali chiuse le une alle altre da limiti che
la natura ha reso insormontabili. Leggendo la storia delle vergogne
umane alla luce di questo schema, ci accorgiamo che l’esistenza di un
unico idioma prima della confusione garantiva agli animali razionali
una situazione di reciproca trasparenza comunicativa simile a quella
delle intelligenze separate. Non si può negare infatti che l’umanità
prebabelica, parlando un solo idioma dotato della medesima forma, ci
appare più prossima agli angeli che ai bruti. D’altro canto, con la
rottura dell’unità linguistica originaria e il subentrare di una sempre
maggiore differenziazione tra gli idiomi, l’asse della medietas umana
sembra spostarsi progressivamente verso quella condizione di
316
incomunicabilità reciproca che caratterizza le diverse specie animali.
L’importanza che Dante conferisce all’episodio della torre di Babele
dipende tutta dagli effetti di abbrutimento semiotico arrecati dalla
perdita dell’idioma edenico: nel momento in cui si accresce la distanza
tra Dio e uomo si incrementano, in misura corrispondente, la divisione
e l'incomprensione tra i membri del genere umano. Babele rappresenta
la più incresciosa delle tre vergogne in cui l’umanità è precipitata,
perché l’inaudito peccato di superbia che ha ispirato l’edificazione
della torre ha determinato la degradazione dell’uomo verso la
bestialità.
Vi è un altro aspetto della riflessione su Babele, che ci dimostra
quale forte valenza orientativa abbia nel pensiero dantesco lo schema
tripartito che colloca il linguaggio umano, e quindi anche la città
dell'uomo, in una sorta di oscillazione continua fra l'asintoto della
Gerusalemme celeste e l'asintoto dello "stato di natura" bestiale.
Infatti, tra la condizione propria dell'animale bruto e quella che
connota l’umanità postbabelica sussiste uno stretto isomorfismo.
Dante aveva affermato che gli animali appartenenti alla stessa specie
possono conoscersi reciprocamente in base ad atti e passioni propri,
mentre tra esemplari di specie diverse non esiste alcun mezzo di
espressione comune, dato che tra loro non si dà alcun rapporto di
negoziazione amichevole. Ora, l’effetto della confusione babelica fu la
nascita di tante comunità linguistiche, quante erano le categorie di
lavoratori che nel cantiere di Babele collaboravano alla stessa opera.
Tante erano le corporazioni dei lavoratori, tante sarebbero state le
317
lingue posteriori alla punizione divina. La comunicazione trasparente
e quasi angelica assicurata dall’impiego di una sola lingua, fondata
sulla forma locutionis che Dio aveva concreato nell'anima di Adamo,
svanì per effetto di un repentino proliferare dei segni: all'originaria
corrispondenza biunivoca tra significanti e significati, sopraggiunse
una folla di significanti diversi per il medesimo significato. L’identità
linguistica che prima era patrimonio comune dell’intera umanità si
restrinse a gruppi omogenei di lavoratori:
Siquidem pene totum humanum genus ad opus iniquitatis coierat:
pars imperabant, pars architectabantur, pars muros moliebantur, […]
partesque diverse diversis aliis operibus indulgebant; cum celitus
tanta confusione percussi sunt ut, qui omnes una eademque loquela
deserviebant ad opus, ab opere multis diversificatis loquelis
desinerent et numquam ad idem commertium convenirent. Solis
etenim in uno convenientibus actu eadem loquela remansit […].
Quot quot autem exercitii varietates tendebant ad opus, tot tot
ydiomatibus tunc genus humanum disgiungitur; et quanto
excellentius exercebant, tanto rudius nunc barbariusque locuntur. (De
vulgari eloquentia I, vii, 6 – 7)
Rileggendo il mito biblico della torre di Babele, Dante traccia un
quadro storico - antropologico di sorprendente potenza. La divisione
del lavoro produce all’interno dell’umana semenza divisioni analoghe
a quelle che la natura determina tra le specie del regno animale. Se la
318
differenziazione degli animali in specie va ascritta all’ordinamento
metastorico della natura, la distinzione all’interno del genere umano è
una risultante dei processi storici connessi allo sviluppo della
divisione sociale del lavoro: questi ultimi introducono in seno
all’umanità gli stessi effetti di separazione, frammentazione,
incomunicabilità, chiusura – in definitiva, di abbrutimento – che la
"naturale" divisione in specie produce nel mondo animale. Le singole
corporazioni di lavoratori dotati di un identico idioma si pongono in
analogia con le specie animali: dietro la vergogna della confusione
babelica traspare evidente la critica dantesca a Firenze, e più in
generale alla società comunale del suo tempo, divisa in fazioni che si
combattono proprio perché prive di valori e "linguaggi" condivisi. Gli
effetti bestiali della confusione babelica riaffiorano nelle discordie
della società comunale, sempre sull'orlo della guerra civile, in una
condizione di guerra permanente di tutti contro tutti. Il nesso tra storia
linguistica e prospettiva etico - politica permette a Dante di
tratteggiare i lineamenti di una storia universale dell'umanità: se per
un istante guardiamo all'insieme dell'opera dantesca abbracciando con
un solo sguardo d’insieme il tragitto che va dal De vulgari eloquentia
alla Commedia, potremmo affermare che lo spazio della barbarie
linguistica è compreso tra due estremi. Da una parte, la più nobile
delle lingue rimase l’idioma sacro di Adamo e di Cristo, retaggio dei
discendenti di Eber che si astennero dal partecipare all’impresa di
Babele; al polo opposto si colloca l’idioma del gigante Nembrot,
titanico ispiratore della scalata al cielo, che nel trentunesimo canto
319
dell’Inferno verrà condannato al più completo isolamento: come una
sorta di barbarico dio del rumore, Nembrot si esprime in una lingua
che soltanto lui è in grado di intendere e parlare.6 Nell’economia
complessiva del De vulgari eloquentia la caduta della torre di Babele
segna l’inizio della storia linguistica del genere umano. I popoli del
mondo, una volta privati dell’idioma sacro che li aveva resi un’unica
comunità linguistica internazionale, simile in questo alla Civitas
angelica, furono gettati nella regio dissimilitudinis delle parlate
volgari, instabili e soggette al divenire come tutto ciò che appartiene
alla dimensione secolare. All'evento da cui sortì la perdita della lingua
originaria si sommano cause di ordine antropologico rinvianti alla
strutturale "instabilità" propria dell'animale umano:
Dicimus ergo quod nullus effectus superat suam causam, in
quantum effectus est, quia nil potest efficere quod non est. Cum
igitur omnis nostra loquela – preter illam homini primo concreatam a
Deo – sit a nostro beneplacito reparata post confusionem illam que
nil aliud fuit quam prioris oblivio, et homo sit instabilissimus atque
variabilissimum animal, nec durabilis nec continua esse potest, sed
sicut alia que nostra sunt, puta mores et habitus, per locorum
6 Inferno, XXXI, versi 77 – 81: “questi è Nembrotto per lo cui mal coto/ pur un linguaggio nel mondo non s’usa./ lasciànlo stare e non parliamo a vòto;/ ché così è a lui ciascun linguaggio/ come’l suo ad altrui, ch’a nullo è noto”. Per una ricostruzione storica della leggenda medievale di Nembroth, gigante, astronomo, e architetto della Torre di Babele cfr. P. Dronke, Dante e le tradizioni latine medievali, Bologna, Il Mulino, 1990, pp. 65 – 96.
320
temporumque distantias variari oportet. (De vulgari eloquentia I, ix,
6)
Obliata l’antica forma locutionis che Dio aveva donato ad Adamo,
gli uomini dovettero ricostruire ad placitum i loro strumenti di
comunicazione verbale. E siccome la potenza dell’effetto non supera
mai quella della causa, le lingue inventate dagli uomini risentono della
mutabilità che contraddistingue le convenzioni umane, destinate a
differenziarsi nello spazio e nel tempo come ogni costume o abitudine.
Dopo Babele l’uomo diventa l’animale simbolico abitato da una
pluralità di logoi differenti e irriducibili all’unità di una stessa, divina,
immutabile forma locutionis. Il paradiso della lingua originaria è
perduto per sempre: lo specchio primordiale si è spezzato in mille
frammenti, e il divenire ha fatto il suo ingresso anche nel mondo dei
segni. Ormai si è realizzato il definitivo trionfo dell’opacità del
significante sulla claritas del significato.
Dopo aver stabilito che la perdita dell’idioma sacro è un evento
irreversibile, conseguenza di una mutazione antropologica che ha
l’effetto di spingere l’uomo verso la dimensione dell’animale bruto,
distanziandolo in misura corrispondente dalla condizione angelica, si
presenta un problema ulteriore. Si tratta di un momento decisivo per
comprendere in che modo l’utopia della lingua originaria costituisca
per Dante un punto di riferimento fondamentale per dirimere la
controversia sulla maggiore nobiltà del latino o del volgare. Come è
possibile qui ed ora, recuperare almeno una scintilla di quella lingua di
321
luce parlata dall’umanità prebabelica? Quale idioma potrà ripristinare
al meglio la condizione anteriore alla confusione delle lingue? Quale
evento "pentecostale" permetterà al genere umano di riavvicinarsi alla
dimensione angelica superando le barriere di spazio e di tempo che
dividono i popoli e le generazioni? La nozione di "lingua regolata" che
la retorica medievale consegna a Dante permette di individuare nel
latino e nel volgare illustre, entrambi nobilitati dalla pratica poetica, le
due sole strade praticabili per ricomporre la perduta universalità
linguistica del genere umano. Il latino, innanzitutto:
Hinc moti sunt inventores gramatice facultatis: que quidem
gramatica nichil aliud est quam quedam inalterabilis locutionis
ydemptitas diversis temporibus atque locis. Hec cum de comuni
consensu multarum gentium fuerit regulata, nulli singulari arbitrio
videtur obnoxia, et per consequens nec variabilis esse potest. (De
vulgari eloquentia I, ix, 11)
Il latino è la lingua veicolare che grazie ad una nomenclatura
stabilita ad placitum sulla base del consensus multarum gentium,
ristabilisce il rapporto biunivoco tra significante e significato,
condizione imprescindibile affinché si realizzi la comunicazione. In
questo caso, l’universalità dei parlanti viene ripristinata in base ad una
convenzione: istituendo una lingua severamente codificata e quindi al
riparo dall’arbitrio dei singoli parlanti, i grammatici offrono all’intera
umanità uno strumento per ripristinare la condizione anteriore alla
322
confusione babelica. L’ydemptitas locutionis menzionata nel passo
citato è il surrogato dell’originaria forma locutionis propria della
lingua adamitica: se quest’ultima fu creata direttamente da Dio e
infusa nell’anima di Adamo, l’ydemptitas locutionis è una invenzione
umana, un prodotto dell’arte anziché della natura. Lo scarto esistente
tra l’ydemptitas locutionis e la forma primordiale è ciò che misura la
distanza tra l’umano e il divino, la copia e l’archetipo, il surrogato
consolatorio e il paradigma perduto. Il primo è un miserabile rimedio
del "frattempo" in cui camminiamo come viatores in attesa del
compimento dei tempi, il secondo è l’ineffabile dono che il Padre
consegnò ad Adamo nel sesto giorno della creazione, a suggello del
suo Disegno. Grazie all’adozione di una semantica univoca e di una
sintassi rigorosamente codificata la lingua latina è dotata di un elevato
grado di stabilità che rimane precluso ai volgari correnti eredi della
confusione babelica. La stabilità che caratterizza la gramatica è
appunto ciò che permette anche alla cultura di diffondersi superando
le distanze di tempo e di luogo. Proprio in virtù delle sue pecularità il
latino è in grado di fondare lo spazio della tradizione e della
comunicazione internazionale, diventando la lingua dell’Impero e
della Chiesa. Da questo punto di vista, il latino viene celebrato in
quanto si prospetta come una sorta di novello ebraico, essendo l’unica
lingua transnazionale e plurisecolare di cui possiamo avvalerci dopo
Babele. Dal "lavoro del lutto" per la perdita dell’idioma adamitico,
nasce una sorta di "lingua di copertura" che ci avvicina nuovamente
alla condizione degli angeli, a quell’aperta trasparenza del comunicare
323
appannaggio delle intelligenze separate. La riflessione sul latino è
inscindibile dai presupposti teologici fissati nei paragrafi iniziali del
De vulgari eloquentia: l’utopia della comunicazione incorporea da
mente a mente fornisce al tempo stesso un limite asintotico e un
canone di interpretazione storica alla riflessione dantesca sulle lingue
postbabeliche. Tuttavia, il tentativo di ricostruire a posteriori l’identità
linguistica del genere umano attraverso l’istituzionalizzazione del
latino è una strategia che mostra fin da subito molti limiti. Un sistema
di segni istituito ad placitum con il consenso della comunità
internazionale rimane un mero surrogato consolatorio. Se è vero che
l’universalità della gramatica garantisce una comunicazione in grado
di azzerare barriere localistiche e distanze temporali, di fondare una
tradizione univoca per la Cristianità europea, e di rendere possibili gli
scambi tra gli intellettuali delle tre religioni monoteistiche, ciò non
toglie che essa rimanga prigioniera della divisione del lavoro, perché
il latino è appannaggio esclusivo dei dotti. La lingua dei clerici e
degli antichi vati permette di abbattere le barriere di tempo e di spazio
soltanto a una parte molto esigua dell’umanità: le classi emergenti di
cui Dante tesse le lodi soprattutto nel Convivio, i nuovi destinatari
della cultura filosofica e teologica, sono inesorabilmente esclusi da
ogni banchetto ammannito col pane di frumento del latino. L’adozione
della gramatica si mantiene ancora all’interno dell’orizzonte
postbabelico in quanto non solo non abbatte le barriere create dalla
divisione del lavoro, ma le rafforza, riproponendole nella forma della
separazione tra clerici e laici, dove questi ultimi tendono a restare
324
esclusi dalla circolazione della cultura. In quanto lingua veicolare, la
gramatica può permetterci di ripristinare l’originaria unità prebabelica
delle genti abbattendo le barriere linguistiche tra le nazioni, ma al
prezzo di rendere ancora più rigida la separazione tra chi ha accesso ai
canali della cultura e chi ne è escluso. Sotto questo punto di vista il
latino si configura addirittura come una lingua babelica in più, che va
ad aggiungersi ai volgari restando il mezzo linguistico di cui si avvale
soltanto una parte ristretta dell’umanità. La scelta della gramatica non
fa che consolidare la "bestiale" separazione tra chi è dentro è chi è
fuori dai circuiti istituzionali del sapere. La comunità internazionale
dei dotti che si intendono con questo strumento veicolare è ben poca
cosa rispetto alla comunità dei nobili illitterati ai quali Dante si
rivolge nell’imbandire il suo convivio filosofico. L’esaltazione del
volgare e la sua adozione come strumento di diffusione del sapere
corrispondono all’esigenza di una lingua che abbatta le barriere
prodotte dalla divisione del lavoro. Su questo punto il Convivio è
esplicito fino all’irriverenza: gli uomini di lettere che scrivono
esclusivamente in latino molto spesso non sono altro che ignobili
lenoni. E a chi volesse far valere la superiorità del latino appellandosi
al fatto che quest’ultimo sarebbe servito ai molti “litterati fuori di
lingua italica” Dante risponde: “lo latino averebbe a pochi dato suo
beneficio, ma lo volgare servirà veramente a molti” (Convivio I, ix,
4). Tutto il paragrafo ix del primo libro ruota attorno alla
contrapposizione tra i “principi, baroni, cavalieri, e molt’altra nobile
gente, non solamente maschi, ma femmine”, caratterizzati da autentica
325
bontà d’animo, e quegli uomini di lettere “che non acquistano la
lettera per lo suo uso, ma in quanto per quella guadagnano denari o
dignitate” (Ibidem). Se il latino risponde all’esigenza di assicurare il
più ampio grado possibile di universalità in direzione
dell’internazionalizzazione del sapere, la preferenza accordata al
volgare come mezzo di trasmissione della cultura è l’esito di una
scelta etica e politica di segno diametralmente opposto: Dante
smaschera la falsa universalità del latino in quanto funzionale al
mantenimento dei privilegi culturali dei litterati, e si schiera a favore
del volgare perché quest’ultimo incarna una diversa concezione
dell’universalità del sapere, interclassista, "popolare" nel senso
trecentesco del termine, e dunque trasversale a quelle barriere sociali
prodotte dalla divisione del lavoro intellettuale. Dopo la perdita della
lingua adamitica subentrata alla confusione babelica, l’universalità
linguistico – culturale del genere umano può essere ristabilita soltanto
attraverso due opposte strategie. Chi sceglie il latino, gramatica e
pane di frumento per i litterati, decide a favore di una circolazione
orizzontale della cultura e per l’internazionalità del sapere, incurante
dell’esclusione sociale che essa comporta, se non addirittura
favorevole a una conseguenza di questo tipo; chi sceglie il volgare,
lingua del popolo e pane di biado per i nobili illitterati decide a favore
di una circolazione verticale della cultura, che abbatta la divisione tra i
professionisti del sapere e i profani, ben sapendo che tale scelta può
costituire un ostacolo alla diffusione internazionale delle conoscenze.
Il latino e il volgare non possono cancellare gli effetti della tragedia di
326
Babele, e ci mettono di fronte a un aut aut: o una lingua veicolare,
internazionale, ma specialistica; o una lingua di popolo, ma
circoscritta all'ambito di una sola nazione. L’unità originaria del
genere umano, assicurata da una lingua che era, ad un tempo,
internazionale e interclassista, non è più proponibile dopo Babele. Il
Convivio e il De vulgari eloquentia concordano entrambi nella
supremazia etico – politica del volgare – ché di questo, in definitiva si
tratta, e non certo di una mera questione di stile – con l’unica
differenza che il primo traduce in pratica sperimentale di scrittura ciò
che il secondo fonda e teorizza. È il caso di dire che per Dante il latino
è davvero una lingua morta: una lingua morta sul nascere proprio per
il suo carattere specialistico, ad onta di quella inalterabilità che
sembrerebbe privilegiarla nei confronti della pulsante storicità delle
lingue volgari. Se nell’analizzare gli effetti della confusio linguarum
abbiamo accostato, i brani del Convivio a quelli del trattato latino, lo
abbiamo fatto nell'intento di dimostrare che la riflessione dantesca sul
volgare presenta una coerenza di fondo inoppugnabile, anche in
merito alla vexata quaestio su quale delle due lingue sia la più nobile.
A questo punto siamo in grado di chiarire meglio in che senso il
dilemma latino aut volgare sottenda una riflessione tripartita che in
Dante nasce dall’assumere l’ebraico come modello di assoluta
perfezione linguistica. La confusione babelica costituisce la tragedia
che ha dato inizio alla storia degli idiomi umani. Obliata la forma
locutionis che avrebbe assicurato alla lingua originaria un carattere
imperituro, l’umanità fu costretta a trovare dei rimedi onde riparare
327
agli effetti della dispersione. Il mondo della cultura ritrovò la sua
universalità sovranazionale attraverso l’istituzione del latino. Nobile
in un senso aristotelico, in quanto sottratto all’alterna vicenda di
generazione e corruzione che affligge gli enti del mondo sublunare, la
base grammaticale del latino fu assicurata da una ydemptitas
locutionis in grado di surrogare l’originaria forma donata da Dio. Se
confrontato con l’ebraico, il latino condivide due blasoni di nobiltà: la
stabilità nel tempo, e il carattere sacrale, in quanto lingua della Chiesa.
E tuttavia, la gramatica rimane un espediente consolatorio rispetto
all’unità linguistica che l'ebraico garantiva all'intero genere umano. Il
latino ha un carattere ecumenico, piuttosto che universale. È una
lingua che non ripara agli effetti della divisione del lavoro, ma anzi li
ripropone nella forma di una separazione del mondo della cultura da
quella società civile emergente alla quale è invece indirizzata l’opera
dantesca, nella convinzione che il vero segno della nobiltà sia il
desiderio di sapere proprio di ogni singolo individuo. È a questo punto
che si profila la seconda possibile via di uscita dalla dispersione
babelica, la via offerta dal volgare come canale e strumento finalizzato
all’edificazione di una cultura nazionale e popolare al tempo stesso.
L’unità dell’idioma d’Italia, superiore al localismo delle singole
parlate, si afferma innanzitutto nelle opere dei più egregi versificatori
del tempo, che attraverso il nodo poetico hanno conferito anche a
questa lingua una bellezza e una regolarità insospettate. A tal punto
che nel confronto tra lingua d’oc, lingua d’oil, e lingua del sì, Dante
328
attribuisce a quest’ultima un primato proprio in considerazione delle
prove che essa ha dato di sé nel poetare dulcius subtiliusque:
Tertia quoque, <que> Latinorum est, se duobus privilegiis
actestatur praeesse: primo quidem quod qui dulcius subtilisque
poetati vulgariter sunt, hii familiares et domestici sui sunt, puta
Cynus Pistoriensis et amicus eius; secundo quia magis videntur initi
gramatice que comunis est, quod rationabiliter inspicientibus videtur
gravissimum argumentum. (De vulgari eloquentia I, x, 2) 7
Nobile nel senso della metafisica neoplatonica, in quanto lingua
atta a diffondere i benefici del sapere alla maniera del Sole
intelligibile, il volgare illustre viene esplicitamente paragonato a Dio:
[…] inter que nunc potest illud discerni vulgare quod superius
venebamur, quod in qualibet redolet civitate nec cubat in ulla. Potest
tamen magis in una quam in alia redolere, sicut simplicissima
substantiarum, que Deus est, in homine magis redolet quam in bruto,
in animali quam in planta, in hac quam in minera, in hac quam in
7 Ricordiamo che secondo l’intepretazione di Maria Corti, nel passo citato “Dante non vuol dire che il volgare del sì si modella di più sul latino; vuol dire altro. Il volgare del sì si modella, in quanto lingua poetica, di più sulla gramatica que comunis est, cioè sulla grammatica come scientia comunis di cui parlano i filosofi del linguaggio, gli speculativi, il che rationabiliter inspicientibus ("a quelli che riflettono razionalmente, che pensano filosoficamente") videtur gravissimum argumentum ("appare argomento gravissimo, di grandissimo peso")”. (M. Corti, Percorsi dell’invenzione. Il linguaggio poetico e Dante, Torino, Einaudi, 1993, p. 103).
329
elemento, in igne quam in terra; […] (De vulgari eloquentia I, xvi, 4
– 5).
La divinità del volgare deriva dalla sua essenza semplicissima e
"solare", illustre nella accezione ontologica del termine: da qui il suo
valore normativo rispetto ad ogni altra realtà linguistica locale. La
ricerca induttiva operata attraverso la rassegna delle quattordici parlate
d'Italia assume quasi l’aspetto di un mistico itinerarium in Deum, un
movimento anagogico che risale dalle tracce diffuse in ogni vernacolo
peninsulare verso la semplice essenza di quel volgare latium che il
trattato latino definisce attraverso i quattro tratti distintivi: illustre;
cardinale, perché cardine attorno al quale ruotano tutti gli altri volgari
municipali; aulico, perché adatto alla reggia d’Italia ove ne esistesse
una; e curiale, “quia curialitas nil aliud est quam librata regula eorum
que peregenda sunt” (De vulgari eloquentia I, xviii, 4). Se confrontato
con l’ebraico condivide due blasoni: è una lingua che trae origine
dalla natura anziché dall’arte; e dato che la natura è opera di Dio, ne
consegue che il volgare è assimilabile a Dio in una misura che al
latino resta ignota. In secondo luogo, così come il volgare è la prima
lingua che apprendiamo dalle labbra della nutrice, esso è anche la
prima lingua parlata dal genere umano. Si ritorna ai principi
fondamentali che Dante aveva esposto all'inizio del trattato:
Harum quoque duarum nobilior est vulgaris: tum quia prima fuit
humano generi usitata; tum quia totus orbis ipsa perfruitur, licet in
330
diversas prolationes et vocabula sit divisa; tum quia naturalis est
nobis, cum illa potius artificialis existat. (De vulgari eloquentia I, i,
4)
È rimarchevole il fatto che l'ebraico, pur costituendo un caso unico
nella storia linguistica dell'umanità, rientri per Dante nella categoria
dei volgari, in quanto lingua "naturale". E sebbene attualmente in tutto
il mondo vi siano tante lingue diverse per lessico e morfologia, il
volgare è quella di cui tutto il mondo fruisce (perfruitur). Dante non a
caso utilizza il termine del lessico teologico con cui si designa la
beatitudine degli angeli in Paradiso. Di fronte alla Babele di una realtà
linguistica qual è l’Europa di inizio Trecento, dominata dal
progressivo affermarsi dei volgari, gli intellettuali si trovano di fronte
a un aut aut: imboccare la via dei litterati, incapaci di vedere
alternative al dominio del latino, considerato come l’unico mezzo di
comunicazione alta; oppure eleggere il volgare, esplorando con esso la
possibilità di edificare una cultura allargata agli uomini "sanza
lettere". Tertium non datur. Come Ercole al bivio ogni intellettuale
deve scegliere se adottare ancora il latino, consolidando l’idea
ecumenica della cultura come appannaggio della comunità
internazionale dei dotti, o se affrontare le sfide del volgare,
promuovendo una concezione dell'universalismo fondata sulla natura,
sulla nazione e sul popolo.
A questo punto occorre anche rivedere l’apparente dissidio che
sembra contrapporre il Convivio al De vulgari eloquentia
331
relativamente alla domanda sulla superiorità del latino rispetto al
volgare. Nel primo libro del Convivio Dante si sente chiamato ad
introdurre una excusatio per giustificare un’operazione decisamente
ardita rispetto alle convenienze letterarie dell’epoca: lo sconfinamento
del volgare nell’area della cosiddetta alta cultura, fino ad allora
indiscusso appannaggio del latino. Appellarsi al fatto che il
destinatario dell’opera è un pubblico di illitterati non è sufficiente per
motivare una scelta così radicale. La principale giustificazione addotta
da Dante si avvale di un altro argomento: il Convivio è un trattato
filosofico costruito in forma di commento a canzoni che fin da
principio sono state concepite e scritte in volgare; tra il commento e il
testo da commentare sussiste una sorta di rapporto vassallatico; dato
che il latino è sovrano in confronto all’umile volgare, ne consegue che
il commento alle canzoni dovrà essere scritto nel loro stesso idioma, a
meno che non si voglia ridurre il latino a vassallo di un suo sottoposto,
con l’esecrabile risultato di capovolgere una gerarchia dal carattere
sacro e inviolabile. In questo primo segmento del chiasmo Dante
assume un atteggiamento "ironico", nella accezione socratica del
termine: finge di assecondare il senso comune, dando per scontata la
superiorità della lingua di scuola. Poi, appellandosi a un principio
universalmente condiviso, dimostra il carattere ineluttabile della
propria scelta. Se avesse osato commentare in latino una serie di
canzoni scritte in volgare avrebbe commesso un atto di lesa maestà.
Tuttavia è soltanto nel contesto retorico di questo primo segmento
dell'excusatio che Dante fa suo il luogo comune della maggiore
332
nobiltà del latino. A conclusione del percorso con cui il Convivio
introduce i lettori alla sua mensa filosofica, l'iniziale celebrazione del
latino si capovolge in un inno al volgare esaltato come la nuova fonte
di luce della cultura nascente:
Così rivolgendo li occhi a dietro, […] puotesi vedere questo pane,
col quale si deono mangiare le infrascritte canzoni, essere
sufficientemente purgato da le macule, e da l’essere di biado […].
Questo sarà quello pano orzato del quale si satolleranno a migliaia, e
a me ne soperchieranno le sporte piene. Questo sarà luce nuova, sole
nuovo, lo quale surgerà là dove l’usato tramonterà, e darà lume a
coloro che sono in tenebre e in oscuritade per lo usato sole che a loro
non luce. (Convivio I, xiii, 11 – 12)
La transustanziazione del volgare da umile pane di biado a pane
orzato in grado di saziare migliaia di convitati, in analogia con il
miracolo evangelico della moltiplicazione dei pani, sfocia in un
climax dai toni messianici. L’inferiore capacità semantica del volgare
rispetto al latino, non va assunta come un dato aprioristico avulso
dalla storia: il primo è una lingua giovane, ancora in attesa di una
prova decisiva in cui si parrà la sua nobilitade; il secondo gode di una
tradizione plurisecolare. Dichiarandosi amico del volgare, e volendo
difenderne il valore contro quei detrattori, che magari preferiscono
scrivere in lingua d’oc privilegiando l’altrui volgare al proprio, Dante
si accinge ad accogliere i nobili convitati del banchetto filosofico
333
offrendo loro la possibilità di apprezzare la lingua del sì in tutta la sua
potenza espressiva ancora inesplorata. Consapevole di aver effettuato
una scelta temeraria, Dante rivendica a se stesso un ruolo quasi
demiurgico. Come una sorta di novello Adamo, egli si accinge ad una
opera di fondazione sperimentando la potenza della nuova lingua
nell’arengo della prosa, là dove la sfida si fa più difficile e rischiosa:
Ché per questo comento la gran bontade del volgare di sì [si
vedrà]; però che si vedrà la sua vertù, sì com’è per esso altissimi e
novissimi concetti convenevolmente, sufficientemente e
acconciamente, quasi come per esso latino, manifestare; [la quale
non si potea bene manifestare] ne le cose rimate, per le accidentali
adornezze che quivi sono connesse, cioè la rima e lo ri[ti]mo e lo
numero regolato: sì come non si può bene manifestare la bellezza
d’una donna, quando li adornamenti de l’azzimare e de le vestimenta
la fanno più ammirare che essa medesima. (Convivio I, x, 12)
Il confronto tra Convivio e De vulgari eloquentia in merito alla
questione della maggiore nobiltà del latino o del volgare non può
pertanto essere affrontato giustapponendo due affermazioni isolate,
avulse dal contesto delle loro argomentazioni - rispettivamente, come
si è già visto sopra: Convivio I, v, 7, dove Dante afferma che il latino
“è sovrano per nobiltà, vertù, e bellezza”; e De vulgari eloquentia I, i,
4 dove si stabilisce: “Harum quoque duarum, nobilior est vulgaris”. I
due trattati, seppure con strategie diverse e non senza tensioni irrisolte
334
a livello di coerenza speculativa, svolgono una sorta di riflessione
pentecostale sulle possibili vie attraverso le quali l'umanità possa
riparare alla perdita della lingua originaria seguita alla catastrofe
babelica. Sulle possibili vie attraverso cui si possa riscattare,
attraverso lo specchio di una lingua nobilitata dalla poesia, quella
trasparenza del comunicare che se da un lato costituisce il privilegio
assoluto delle intelligenze angeliche, dall'altro permetterebbe di
revocare l'imbarbarimento bestiale in cui l'uomo è precipitato nel
corso del tempo. La lingua illustre auspicata dal De vulgari
eloquentia, analogamente a quel pane orzato di cui si satolleranno
migliaia, profetizzato dal Convivio, ha la funzione di restituire
all'umanità l'ubi consistam che si è smarrito nella selva oscura della
storia. Seppur consapevoli del fatto che sarebbe vano illudersi di
resuscitare l'idioma adamitico, i poeti hanno il compito di redimere la
lingua e di ricostituire un doppio circuito comunicativo: tra uomo e
uomo, e tra uomo e Dio. La confusione delle lingue, infatti, ha
spezzato il legame simbolico tra Creatore e creatura nello stesso
momento in cui ha introdotto una congerie di divisioni bestiali in seno
alla stessa umanità. Affrontare la questione della lingua da questa
prospettiva, significa tornare a ripensare ancora una volta le nozioni di
forma e actus locutionis.
La coscienza di una vocazione demiurgica nei confronti di una
lingua ancor giovane, i cui precedenti letterari non sono in grado di
fondare una tradizione anche minimamente paragonabile a quella dei
vati latini, è presente in Dante fin dai tempi della Vita Nova. Questo
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atteggiamento convive senza contraddizione con l'umiltà dello scriba
ispirato che nota ciò che Amore gli detta dentro.8 La poesia ha il
compito di produrre un passaggio dalla potenza all'atto di quel volgare
illustre latente in ogni angolo della realtà linguistica peninsulare. Dal
punto di vista del "legame musaico" evocato dal Convivio i poeti
hanno il compito di plasmare una lingua che assicuri nobiltà e
stabilità alla realtà grezza e magmatica dei volgari correnti,
recuperando in tal modo un barlume di quella forma locutionis
primordiale donata da Dio al primo uomo.9 È attraverso questo
processo di fondazione che la lingua può aspirare ad essere l'elemento
unificante di una collettività non più dispersa nella bestiale divisione
dei regionalismi. Ma sotto un altro profilo i poeti devono mirare a
un'autentica opera di redenzione che restituisca alla parola la sua
dignità di mezzo espressivo attraverso cui l'uomo comunica con Dio.
È in questa prospettiva che il tema del primiloquium torna ad imporsi
in tutta la sua rilevanza: l'invocazione del nome di Dio proferita da
Adamo "in principio" è la funzione fàtica che custodisce l'essenza del
linguaggio nella sua più alta nobiltà. La parola ci è stata donata
8 “Da una sorta di equazione fra Dio che parla all'anima nell'afflato mistico e il dittatore Amore che parla al poeta può nascere, complice l'allegoria in factis adamitica, un'altra equazione tra lingua universale e naturale adamitica e lingua universale e naturale poetica” (M. Corti, Percorsi dell’invenzione. Il linguaggio poetico e Dante, cit., p. 95). 9 “E però sappia ciascuno che nulla cosa per legame musaico armonizzata si può de la sua loquela in altra transmutare, sanza rompere tutta sua dolcezza e armonia. E questa è la cagione per che Omero non si mutò di greco in latino, come l’altre scritture che avemo da loro. E questa è la cagione per che li versi del Salterio sono sanza dolcezza di musica e d’armonia; ché essi furono transmutati d’ebreo in greco e di greco in latino, e ne la prima transmutazione tutta quella dolcezza venne meno”. (Convivio I, vii, 14).
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innanzi tutto per lodare il Creatore riconoscendo la paternità del suo
Amore infinito, e il cantare dei poeti è intonato sulla medesima
dimensione eucologica che è risuonata nel primiloquium di Adamo,
padre di tutti i giullari di Dio. Il progenitore dell'umanità assurge ad
allegoria figurale di Davide, Salomone, e Francesco d'Assisi:
invocazione e lode, inno e preghiera, benedizione e ringraziamento,
gaudio ed esultanza, sono i poli attorno ai quali si strutturano i Salmi, i
Cantici e più in generale ogni "sacrato poema". Nella simplicitas che
lo contraddistingue il primiloquium è come un Punto che racchiude in
sé tutto ciò che si squaderna nella nobiltà del dire poetico. Ecco allora
che la poesia non è soltanto un'opera di fondazione che mira a
restaurare, per quanto possibile, la struttura della lingua sulla base di
una forma locutionis elaborata attraverso le regole del legame
musaico; essa deve bensì tenere desta la memoria dell’evento da cui il
linguaggio ha tratto origine. In questo senso poesia e redenzione
linguistica sono tutt'uno. A ben vedere, il volgare illustre così inteso è
l’unica lingua degli angeli che Dante sia disposto ad ammettere.
Alessandro Raffi
http://web.infinito.it/utenti/a/alexraffi/