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Dialogos - Parole mai stanche di amare Saggio performativo classi II C – II D a.s. 2017-18
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Dialogos -

Parole mai stanche di amare

Saggio performativo classi II C – II D

a.s. 2017-18

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da Edipo Re di Sofocle (Miceli – De Renzo)

TIRESIA – Non hai capito ancora? Vuoi proprio che parli?

EDIPO – Non ho capito bene: ripeti un’altra volta!

TIRESIA – Dico che sei tu l’uccisore dell’uomodi cui vai cercando l’assassino. Devo dire anche il resto?

EDIPO – Dì quel che vuoi, sono parole vane.

TIRESIA – Dico allora che ti unisci in modo indegnocon le persone a te più vicine, e non lo sai,e non vedi a quale punto di infamia sei giunto.

EDIPO – È la notte che ti nutre, una notte perpetua.E non potrai nuocere a me o a chiunque veda questa luce.

TIRESIA – Sei tu che fai del malea te stesso.

EDIPO –E quanta invidia ingiustamenteavete accumulato verso di meParla, su, parla! Sei stato mai un vero profeta?Quando la Sfinge melodiosa gettava questa terranel terrore, perché non hai svelatoil modo di salvare i cittadini?Non era compito del primo venutosciogliere l’enigma, ma di quella arte profeticache però tu non hai mostrato di possederené consultando il volo degli uccelliné traendo ispirazione dagli dei.Io giunsi allora, io che non sapevo nulla,Edipo,e misi a tacere il mostro con la mia intelligenzae non con il volo degli uccelli.E questo Edipo tu tenti di scacciarepensando di sedere accanto al trono di Creonte?La sconterete con le lacrime, la purificazione,tu e chi ha combinato tutto questo;e se non ti vedessi così vecchiocapiresti a spese tue quel che ti aspetta.

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TIRESIA – Tu sei il re. Ma ho un potere anch’io e il diritto di replicare a te, da pari a pari.Non sono tuo servo, il mio signore è Apollo.Hai offeso anche la mia cecità. Ingiustamente. E allora ti dirò:tu possiedi la vista ma non vedi la tua sciagura,non ti accorgi dove vivi e con chi.Sai forse di chi sei figlio? No, tu ignoridi essere un nemico per i tuoi sulla terra e sottoterra.Con doppia sferzata, inesorabile,ti colpirà la maledizione del padre e della madree ti caccerà da questo paese.Tu, che ora guardi la luce, non vedrai che tenebra.Questo giorno ti vedrà nascere e morire.

EDIPO – Parli per enigmi, in modo oscuro.

TIRESIA – Non sei forse tu il miglioreper sciogliere gli enigmi?

EDIPO – Non insultarmi! Fu la mia grandezza.

TIRESIA – Quella grandezza segnò la tua rovina.Non mi fai paura.Io ti dico: l’uomo che cerchi –lanciando minacce e proclami per l’assassino di Laio –quest’uomo è qui. È uno straniero, dicono,ma poi si scoprirà che è nato a Tebee di questo non potrà rallegrarsi.Cieco diventerà, lui che vedeva, e povero,lui che era ricco; in terra straniera vagherà,ramingo, tastando la terra col bastone.Si scoprirà che è fratello e padre dei suoi figli,figlio e marito della donna che lo ha generato,compagno di letto e assassino di suo padre.Rientra in casa, e rifletti! E se scopriraiche non ho detto il vero, se ingiuste sono state le mie parole, allora potrai direche nella mia arte profetica sono ignorante e stolto!

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Scioscia Carducci

TIRESIA – Com’è terribile sapere, quando non giovaa chi sa; ne ero consapevole, eppure l’ho cancellato!Altrimenti non sarei venuto qui.

EDIPO – Che cos’hai? Perché questo sconforto?

TIRESIA – Lasciami tornare a casa, dammi ascolto!Sarà più facile per te sopportare il tuo destinoe per me reggere il mio.

EDIPO – Se ci neghi il responso, vai contro la leggee ti mostri nemico alla città dove sei nato.

TIRESIA – Ma io vedo che nemmeno tu parli a proposito.E allora, perché non mi capiti altrettanto…

EDIPO – No, per gli dei, non andartene, tu sai qualcosa!Ti supplichiamo tutti, prostrati qui ai tuoi piedi.

TIRESIA – Nessuno di voi sa! E io non voglio rivelarele mie, o dovrei dire le tue, sventure.

EDIPO – Che cosa dici? Sai e non vuoi parlare?Pensi di tradirci e di mandare in rovina la città?

TIRESIA – Non voglio ferire né me né te. Ma perché ti ostinia interrogarmi? È inutile: io non dirò nulla.

EDIPO – Non parlerai? O infame tra gli infami,tu muoveresti all’ira anche una pietra,inflessibile e ostinato come sei.

TIRESIA – Te la prendi con me e mi copri di insulti.Ma non ti accorgi di ciò che nascondi dentro di te.

EDIPO – Chi non andrebbe in collera udendo le tue parole?Tu non hai rispetto per la tua città.

TIRESIA – Tutto si compirà, anche se taccio.

EDIPO – Se si compirà, tu devi dirmelo!

TIRESIA – Non dirò altro. Scatena pure la tua ira più sfrenata.

EDIPO – Sì, e nella mia ira non tacerò nulladi quanto so. Ed ecco ciò che penso:tu hai tramato il delitto, tu l’hai compiuto.Non con le tue mani, no, ma se non fossi ciecoavresti fatto anche questo, tu, da solo.

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TIRESIA – Davvero? E allora ti ordino di rispettareil decreto che tu stesso hai proclamato –da oggi in poi non rivolgerai parolané a costoro né a me: perché sei tul’essere impuro che macchia questa terra.

MEDEA (Russo + Giustiniani)

“Me infelice, tra quanto grandi e quali sventure mi trovo! Da ogni parte il mio cuore non ha che angoscia e impotenza. Nessun rimedio alla pena, alla fiamma ferma che brucia. Come vorrei che mi avessero uccisa le frecce veloci di Artemide, prima che io lo [Giasone] vedessi, prima che una nave greca portasse qui i figli di mia sorella Calciope: un dio o un'Erinni li ha guidati di là per il mio dolore e il mio pianto. Muoia! Se il suo destino è di morire sul campo. Ma io come potrei preparare il rimedio, nascondendolo ai miei genitori? E cosa dire? Quale il pensiero, l'inganno che mi dia aiuto? Posso vederlo rivolgendomi a lui solo, senza compagni? Infelice! Anche quando sia morto non spero di avere respiro dai mali: allora per me verrà la sventura, quando avrà perso la vita. Alla malora il pudore e la fama, e lui, salvo per mio volere, se ne vada via illeso, dove il suo cuore desidera. Ma io il giorno stesso quando avrà compiuta la prova, morrò appendendo il mio collo al soffitto, o bevendo il veleno che distrugge la vita. Eppure anche da morta, lo so, scaglieranno contro di me le voci maligne; l'intera città griderà la mia sorte e le donne di Colchide mi porteranno con spregio di bocca in bocca, l'una con l'altra: “Colei che amò un uomo straniero fino a morirne e disonorò la sua casa e i suoi genitori, cedendo alla lusinga”. Quale non sarà la vergogna? Quale la mia sventura! Meglio, meglio sarebbe in questa notte stessa, in questa stanza lasciare la vita per un destino nascosto, sfuggendo a tutti i rimproveri, prima di aver compiuto colpe innominabili.”

(Montagnini Gagliano Cecchetti)

Fra tutte le creature dotate di anima e intelligenza, noi donne siamo le più sventurate. Intanto, dobbiamo comprarci con una robusta dote un marito, anzi prenderci un padrone del nostro corpo, che è malanno peggiore. Ma anche nella scelta c'è un grosso rischio: sarà buono o cattivo, il marito che ci prendiamo? Tra l'altro la separazione è infamante per una donna e di ripudiare un marito neanche se ne parla. E poi, una donna che entra in un nuovo ambiente, dove esistono norme e abitudini diverse, deve essere un'indovina - certo non lo ha imparato a casa - per sapere con che compagno dovrà passare le sue notti. Mettiamo che i nostri sforzi vadano a buon fine, che lo sposo sopporti di buon grado il giogo del matrimonio: allora sì che l'esistenza è invidiabile.

Ma in caso contrario, è meglio morire. Un uomo, quando è stanco di starsene in famiglia, esce, evade dalla noia, si ritrova con amici e coetanei; noi donne,

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invece, siamo costrette ad avere sotto gli occhi sempre un'unica persona. Si blatera che conduciamo una vita priva di rischi, tra le mura domestiche, mentre i maschi vanno a battersi in guerra. Che assurdità! Preferirei cento volte combattere che partorire una volta sola. Ma questo è un discorso che riguarda me e non te, Giasone.

Tu vivi nel tuo paese, a casa tua, con tutti gli agi, in mezzo agli amici. Io sono sola, priva di patria, sottoposta agli oltraggi dell'uomo che mi ha portato via come preda da una terra di barbari. Mi trovo in una situazione disperata, e non mi possono salvare madre o fratello o parenti. Un'unica cosa ti chiedo: non aprire bocca, se trovo un mezzo, un espediente per ripagare del male che mi ha fatto mio marito. Una donna in genere è piena di paure, è vile di fronte all'azione violenta, e alla vista di un'arma. Ma quando ne calpestano i diritti coniugali, non esiste essere più sanguinario di lei.

Di Balsamo, Fiaschetti, Nicolai, Origlia, Picardi, Gasbarrini + Lepizzera

Creature, creature mie, ormai avete una città, una casa dove abiterete per sempre, senza vostra madre, che resta abbandonata nella sua sventura. Io me ne andrò esule in un altro paese, prima di godere di voi, di vedervi felici, di festeggiare il vostro matrimonio, la sposa, di allestire i lavacri nuziali, di levare in alto le fiaccole accese. Il mio maledetto orgoglio mi sta rovinando.

Vi ho allevato inutilmente, figli, inutilmente ho penato, mi sono macerata di fatiche, dopo avere sopportato gli aspri dolori del parto. Quante speranze avevo riposto in voi, un tempo; mi immaginavo, povera disgraziata, che mi avreste assistito nella mia vecchiaia, che da morta mi avreste seppellito pietosamente con le vostre mani; una sorte invidiabile agli occhi della gente. Ma è svanita l'illusione che accarezzavo.

Priva di voi, condurrò una vita triste e angosciata. Non rivedrete più, davanti agli occhi, vostra madre: voi passate a un altro tipo di esistenza. Ma perché, perché mi guardate in questo modo? Perché questo sorriso, questo estremo sorriso? Che dolore! Cosa devo fare? Mi perdo di coraggio quando vedo il volto sereno dei miei figli. No, non me la sento: all'inferno le decisioni di prima. Porterò via con me i bambini. Per straziare il padre con le sventure dei suoi figli, devo proprio raddoppiare la mia di sofferenza? No davvero. All'inferno le mie decisioni.

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Ma cosa mi succede? Voglio diventare lo zimbello di tutti lasciando impuniti i miei nemici? Perché tanti scrupoli? Ma che vile sono a accogliere nella mia mente idee di mitezza! Bambini, entrate in casa. E se a qualcuno non è lecito assistere ai miei sacrifici, ci pensi lui: la mia mano non tremerà.

No, non farlo, cuore mio: lasciali in vita, sciagurata, risparmiali i tuoi figli; laggiù, in Atene, vivendo con te, ti daranno gioia. No, per i demoni vendicatori dell'Ade, non consegnerò mai i miei figli al ludibrio dei miei nemici. Devono assolutamente morire: e se è così, sarò io, che li ho messi al mondo, a ucciderli. È cosa fatta oramai, non c'è più scampo. Mi incammino per una strada tristissima e avvio i miei figli verso una strada ancora più triste. Voglio congedarmi da loro. La mano, date a vostra madre la mano perché ve la baci. Dio, come amo questa mano, questa bocca, come sono belli i miei figli, che tratti nobili hanno.

Siate felici laggiù, perché qui vostro padre ve lo ha impedito. Vi abbraccio con tenerezza; com'è morbida la vostra pelle, com'è dolce il vostro respiro. Andate, andate via: non sono più capace di guardarli, sono vinta dall'angoscia. E so il male che sto per fare, ma la passione in me è più forte della ragione: e la passione è la causa delle peggiori sciagure.

GIASONE (Eliseo Piozzi)

O donna maledetta, aborrita dagli dèi, da me, dall'intero genere umano, hai avuto il coraggio di piantare una spada in corpo ai figli che avevi partorito tu e li hai tolti a me, mi hai tolto la vita. E dopo questo, tu, colpevole di un'atroce empietà, osi guardare il cielo e la terra! Che tu possa morire! Ora ragiono, ma ero cieco quando da una casa e da un paese barbaro ti ho portato in una casa greca, mi tiravo dietro una peste, una che aveva tradito il padre e la terra che l'aveva nutrita. Gli dèi hanno avventato contro di me il demone vendicatore che ti perseguiva. Non ti sei imbarcata su Argo, la nave dalla bella prua, dopo aver ucciso tuo fratello accanto al focolare domestico? E non era che l'inizio. Poi hai sposato quest'uomo, gli hai generato dei figli e li hai massacrati per un letto, per un connubio. Questo non lo avrebbe osato mai nessuna donna greca: e io ti ho preferita a loro, ti ho presa in moglie, un legame abominevole e funesto. Non sei una donna, ma una leonessa, hai natura più feroce di Scilla, il mostro del Tirreno. Ma per quanto ti insulti, non riuscirei a ferirti: sei l'impudenza in persona. Crepa, essere osceno, assassina dei tuoi figli. A me

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non resta che piangere sul mio destino: non potrò avere nessuna gioia dalle mie nuove nozze, non mi verranno più incontro, vivi, i figli da me generati e allevati, non parlerò più con loro: li ho perduti.

CASSANDRA (Cazzetta - Piatti)

Noi che abbiamo vissuto tra passato e presente dovremmo lasciare i professionisti dell’ottimismo al loro mestiere. Sarebbe bello credere ad un mondo nuovo, ad un futuro scintillante di promesse. Come mai allora lo spirito di quest’epoca sta in un senso di fine, in un’attesa della catastrofe che tutti oscuramente avvertono … Tutti Cassandra anche se non ne comprendono esattamente le ragioni. La catastrofe che ci attende non è certo un esaurimento delle risorse, di energie in tutte le sue forme; la cosa drammatica invece è la dinamica dello squilibrio, l’impazzimento del sistema che può portare uno squilibrio micidiale in tempo molto breve. E’ razionale e logico, se trovi sul tuo cammino una montagna, scavarla nel suo ventre per abbreviarti il percorso. E’ razionale e logico, ma questa razionalità così indiscutibile e confortante contiene una trappola mortale: va fatalmente a toccare la natura, a concentrare in tempi e spazi ridottissimi ciò che è stato regolato con cadenze ampie e lente. Spezza un equilibrio perché spianando all’uomo la strada, riducendo al minimo la sua fatica, il suo dolore, non fa che indebolirlo. Quest’uomo sempre più infelice è un minuscolo ragno dentro un’immensa tela che si tesse ormai da sola e di cui è lui l’unico prigioniero. Io vede l’uomo scendere una ripidissima strada in sella ad una splendente bicicletta senza freni. All’inizio era stato piacevole, perché aveva pedalato in salita, lasciarsi andare all’ebbrezza della discesa, ma ora la velocità continua ad aumentare, si è fatta insostenibile, finché ad una curva finiremo fuori. Se il futuro non è eterno alla velocità a cui stiamo andando lo stiamo vertiginosamente accorciando; se il futuro è infinito e illimitato lo abbiamo ipotecato fino a regioni temporali così lontane da renderlo di fatto inesistente. Per quanto veloce si vada, questo futuro arretra costantemente davanti a noi o forse in un moto circolare ci sta guidando alle spalle gravido dell’immenso debito di cui lo abbiamo caricato.

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Se poi il futuro è inesistente, un parto della nostra mente, allora abbiamo puntato la nostra esistenza su qualcosa che non c’è: sul niente. E infine se questo futuro reale o immaginario che sia dilaterà a dimensioni mostruose un giorno ci cadrà addosso come drammatico presente, quel giorno non avremo più futuro nemmeno da immaginare, ce lo saremo divorato.

Ciclope e Poseidone (Tozzi – Graziani)

C. Padre, quante ne ho subite da quel maledetto straniero che, mi ha ubriacato e mi ha accecato dopo avermi assalito mentre dormivo

P. Chi ha avuto tanto ardire da fare queste cose, Polifemo?

C. Da principio diceva di chiamarsi Nessuno, ma poi, quando se l’ebbe svignata e fu fuori tiro dai dardi, disse di chiamarsi Odisseo.

P. So di chi parli, è quello di Itaca; tornava da Troia per mare. Ma come riuscì a fare queste cose, visto che non era neppure troppo coraggioso?

C. Di ritorno dal pascolo sorpresi nella grotta molti uomini che evidentemente tendevano insidie alle greggi; quando infatti gettai sulla soglia il coperchio – ed era una pietra enorme – ed accesi il fuoco bruciando un albero che avevo portato dal monte, mi apparvero mentre tentavano di nascondersi. Allora io, afferratone alcuni, come era naturale li inghiottii, perché era chiaro che si trattava di ladri. A quel punto quel maledettissimo, che fosse Nessuno o Odisseo, mi dà da bere una bevanda dopo averla versata, dolce e profumata, ma molto insidiosa e davvero sconvolgente; infatti dopo aver bevuto subito tutte le cose mi sembravano girare intorno e la grotta stessa si capovolgeva e non ero più totalmente in me; sprofondai alla fine nel sonno. E quello, aguzzato un palo lo rese pure incandescente e mentre dormivo mi cavò l’occhio. Da allora eccoti un figlio cieco, Poseidone. P. Come dormisti profondamente, figlio, da non balzare su mentre venivi accecato! Ma Odisseo come ti sfuggì? So infatti che non avrebbe potuto smuovere la pietra dalla soglia. C. Ma sono stato io a rimuoverla, per catturarlo meglio mentre usciva, e sdraiandomi presso la soglia lo cercavo con le mani protese, lasciando andare

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solo le pecore al pascolo, dopo aver ordinato al montone di fare lui al mio posto ciò che era necessario.

P. Comprendo: uscirono di nascosto sotto le pecore; ma bisognava che tu chiamassi gli altri ciclopi contro di lui.

C. Li chiamai, padre, e vennero: ma quando mi domandarono il nome dell’aggressore e io dissi che era Nessuno, credendomi pazzo se ne andarono allontanandosi. Così mi ingannò il maledetto con la faccenda del nome. E quello che più mi fece arrabbiare fu che disse rinfacciandomi la sventura: “nemmeno tuo padre Poseidone ti curerà”.

P. Fatti coraggio, figlio; lo punirò, infatti, perché, anche se non posso curare la cecità degli occhi, però i destini dei naviganti – salvarli o farli morire – sono affar mio: egli naviga ancora.

Doride Galatea Nereidi (4)

Panariello Giannini Raffaele Di Bona

Dor. Bello dicono che sia, o Galatea, questo pastore siculo, che è innamorato pazzo di te.

Gal. Non prendermi in giro, Doride: sarà quello che sarà, ma è figlio di Posidone.

Dor. E che significa? Se egli, selvatico e villoso com’è, e, cosa che lo deforma più di tutte, ha un solo occhio, fosse anche figlio di Zeus, pensi che la nascita servirebbe in qualche modo a migliorare il suo aspetto?

Gal. Neppure la villosità e, come dici tu, la selvatichezza sono brutte - sono virili infatti - e poi l’occhio spicca in mezzo alla fronte e non vede meno che se fossero due.

Ner 1. Ne fai l’elogio in maniera, o Galatea, che sembri tu innamorata di Polifemo, non lui di te.

Gal. Non sono innamorata, ma non sopporto questo vostro punzecchiare e mi sembra che lo facciate per invidia, perché un giorno pascolando vide dal suo posto di osservazione i nostri giochi sulla riva ai piedi dell’Etna, là dove la spiaggia si allunga fra il monte e il mare, e mentre a voi non diede neanche uno sguardo, io gli parvi la più bella di tutte e su di me soltanto fermò il suo occhio.

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Questo vi tormenta, e infatti è la prova che io sono migliore e merito di essere amata, e che voi siete state trascurate.

Dor. Credi davvero di essere invidiabile, perché sei sembrata bella a un pastore dalla vista difettosa?

Ner 2. Del resto cosa poteva elogiare in te all’infuori della bianchezza? E questa, penso, perché è abituato al latte e al formaggio: così giudica belle tutte le cose simili a queste. A parte ciò, quando vorrai sapere quale aspetto ti ha dato la sorte, curvandoti sull’acqua da uno scoglio, se c’è bonaccia, guardati e non vedrai altro che pelle perfettamente bianca; ma questa non si elogia, se in essa non spicca anche un po’ di colore rosso.

Gal. Ebbene, io sarò tutta bianca, ma ho uno spasimante, sia pure questo; però di voi non ce n’è una, a cui un pastore o un marinaio o un barcaiolo rivolga un complimento. E poi tra l’altro Polifemo s’intende anche di musica.

Dor. Ma taci, Galatea: l’abbiamo sentito cantare, quando l’altro giorno ti ha fatto la serenata. Afrodite cara, si sarebbe detto che un asino ragliasse! E quella poi era una lira? Un cranio scarnito di cervo, le cui corna così come si trovavano erano i bracci: li aveva uniti tra loro con una traversina e vi aveva applicato le corde senza avvolgerle intorno con le chiavi.

Ner 2. Traeva suoni sgraziati e stonati, certe note, sbraitando e urlando lui, altre volte accompagnandolo la lira, tanto che noi ad un canto d’amore come quello non potemmo trattenere le risa.

Ner. 1 Eco, che pure è così ciarliera, a quei muggiti non voleva nemmeno rispondere e si vergognava che si sapesse che aveva imitato un canto così rozzo e ridicolo. E fra le braccia il tuo amato bene portava come giocattolo un orsacchiotto, che nel suo pelo folto assomigliava a lui.

Dor. Chi dunque, o Galatea, non ti invidierebbe in simile spasimante?

Gal. E allora, o Doride, mostraci tu il tuo, che evidentemente è più canoro e sa suonare meglio la cetra.

Dor. Ma io non ne ho spasimanti e non mi vanto di averne. Uno poi come il Ciclope, che ha il lezzo del caprone, mangia - così si dice- carne cruda e si ciba degli stranieri che arrivano, ti auguro che diventi tuo, e che tu possa ricambiarne l’amore.

EDIPO (Sorrentino)

PrologoANTIGONE (Gemma Pontrandolfo Vita)

ISMENE (Loggieri Ponzini Salvetti Santangeli) CREONTE (E’ intollerabile)Paolini Pace + Antigone Creonte Vita)

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SENTINELLA (le cose sono andate cosìPellegrini) ANTIGONE (Retico Terribile - L’editto non era +quale gloria più grande

ANTIGONE (pianto finale) Avaltroni, Ciardo, Ciardo, Costantini, D’Angelo, Trinca, Zoina)

Secondo stasimo (Pettinato)


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