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Liceo Scientifico Statale Leonardo da Vinci PROGETTO RAGAZZI DA STIMARE Referente Prof.ssa M. G. Discoli L’EDUCAZIONE COME RISORSA PER L’ADULTO 3 FEBBRAIO 2015 Primo incontro Prof.re Claudio Risè “L’EDUCAZIONE COME RISCHIO: IL RAPPORTO TRA AUTORITA’ E LIBERTA’”. Prof.ssa Maria Grazia Discoli Buonasera, prima di introdurre il prof. Risè vorrei presentare una brevissima storia di questi incontri, visto che magari tra di voi ci sono genitori delle classi prime o anche genitori di altre scuole (dato che il nostro Liceo quest’anno ha diffuso l’invito di questa opportunità anche ad altri Licei di Milano). Questa iniziativa del Liceo Leonardo nasce dalla stima fra alcuni professori e alcuni genitori con cui da circa sette/otto anni si è deciso di proporre a tutti gli adulti coinvolti nel compito educativo, un dialogo, una riflessione su alcuni nodi educativi che, a mano a mano che la nostra esperienza di insegnanti e di genitori procedeva, ci apparivano più urgenti. A queste serate, che vogliono essere molto famigliari, abbiamo sempre invitato delle personalità che al momento della nostra riflessione ci sembravano più contemporanee alle domande che sentivamo con più forza. L’anno scorso sono intervenuti due professori, il Prof. Marco Bersanelli e la Prof.ssa Mariella Carlotti, su una questione che aveva sollevato un mio allievo, scrivendo un articolo per il giornalino scolastico. La domanda che veniva posta era: “qual è il grande inghippo del crescere?”. Mi pare che quest’anno dal dialogo fra noi sia emersa una domanda ulteriore, più radicale e più attinente a noi adulti: ci stiamo domandando qual è l’inghippo dell’educare. Ci è parso che in questi anni - io penso
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Liceo Scientifico Statale Leonardo da VinciPROGETTO RAGAZZI DA STIMAREReferente Prof.ssa M. G. DiscoliL’EDUCAZIONE COME RISORSA PER L’ADULTO3 FEBBRAIO 2015Primo incontro

Prof.re Claudio Risè“L’EDUCAZIONE COME RISCHIO: IL RAPPORTO TRA AUTORITA’ E LIBERTA’”.

Prof.ssa Maria Grazia DiscoliBuonasera, prima di introdurre il prof. Risè vorrei presentare una brevissima storia di questi incontri, visto che magari tra di voi ci sono genitori delle classi prime o anche genitori di altre scuole (dato che il nostro Liceo quest’anno ha diffuso l’invito di questa opportunità anche ad altri Licei di Milano). Questa iniziativa del Liceo Leonardo nasce dalla stima fra alcuni professori e alcuni genitori con cui da circa sette/otto anni si è deciso di proporre a tutti gli adulti coinvolti nel compito educativo, un dialogo, una riflessione su alcuni nodi educativi che, a mano a mano che la nostra esperienza di insegnanti e di genitori procedeva, ci apparivano più urgenti. A queste serate, che vogliono essere molto famigliari, abbiamo sempre invitato delle personalità che al momento della nostra riflessione ci sembravano più contemporanee alle domande che sentivamo con più forza. L’anno scorso sono intervenuti due professori, il Prof. Marco Bersanelli e la Prof.ssa Mariella Carlotti, su una questione che aveva sollevato un mio allievo, scrivendo un articolo per il giornalino scolastico. La domanda che veniva posta era: “qual è il grande inghippo del crescere?”. Mi pare che quest’anno dal dialogo fra noi sia emersa una domanda ulteriore, più radicale e più attinente a noi adulti: ci stiamo domandando qual è l’inghippo dell’educare. Ci è parso che in questi anni - io penso all’esperienza che ho con i miei figli e come insegnante - ci sia un’incertezza, una fragilità nell’educare, quasi che l’educare non fosse un guadagno per l’adulto. Pertanto il tema di questi due incontri è: l’educazione come risorsa per l’adulto.Per il primo incontro che ha come titolo “l’educazione come rischio: il rapporto tra autorità e libertà “ abbiamo invitato il Prof. Risè di cui abbiamo stimato non solo il percorso professionale come docente universitario e quindi capace di riflessione sulle grandi questioni educative, ma le sue moltissime pubblicazioni, saggi, alcuni di grande rilievo, ricordo “Il padre, l’assente inaccettabile” tradotto a livello internazionale ma anche “Felicità è donarsi”, “Il padre, libertà e dono”. Già nei titoli, non solo nella lettura, ci era parso che la questione che a noi sta a cuore fosse in qualche modo evocata, cioè la possibilità di un’esperienza di dono, di libertà e quindi di realizzazione di chi educa.

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E’ proprio di questi giorni la pubblicazione di altri due testi “Il maschio selvatico 2” e “Le donne selvatiche” in cui il professore lavora sul rapporto fra la persona e la natura. Questa sera abbiamo pensato di procedere così: prima di tutto ci sarà una piccola introduzione del prof. Risè, poi abbiamo pensato a quattro domande sulle quali sviluppare un percorso di riflessione. Di seguito apriremo alle domande che affioreranno dopo l’ascolto.

Prof. RisèCari amici genitori vi ringrazio per questo invito e sono contento, anche come padre, di cercare di ragionare con voi su entrambi questi aspetti che mi pare vi interessino: l’educazione come risorsa per l’adulto, che mi sembra che sia il titolo del progetto su quale state lavorando, e la questione che cercheremo di affrontare stasera dell’educazione come rischio. Questa questione mi sembra introduca un punto molto importante,anche sul versante affettivo, nell’avventura dell’educazione. Il rischio che mi pare incomba sull’esperienza educativa, oggi anche con tutta l’amplificazione mediatica, è proprio un po’ questa idea del progetto nel senso più burocratico e pesante del termine, e quindi la scomparsa dell’idea di questa grande avventura che è l’educazione, la quale è straordinaria non solo perché è l’educazione dell’altro, ma, come vedremo,è la nostra. E’ impossibile infatti educare senza educarsi: l’educazione è un processo reciproco, duale e multiplo. Altrimenti non educhiamo nessuno. Nel momento in cui noi educhiamo un figlio, un allievo, noi scopriamo ogni volta se stiamo veramente correndo questa avventura e che questa avventura insegna delle cose anche a noi.Per orientarci un po’ all’interno di questo tema io vi vorrei fare un’introduzione abbastanza breve per poi potervi dare la parola e stimolare le pratiche che avete già in mente.Per orientarci io vi propongo di entrare proprio nella parola EDUCARE e EDUCAZIONE non per fare un’analisi filologica ma perché le parole, e soprattutto questa parola, hanno una loro storia che è molto materiale, poco teorica. In questa parola, nell’esperienza educativa, c’è dentro la storia dell’uomo.EDUCARE viene da due verbi: Educo = educare e Educo = edùcere Sono due verbi molto diversi. Propongo qui molto velocemente il loro significato su cui poi entreremo in modo più attento.L’educare è un processo nutritivo, è nutrire , allevare, far crescere, si riferisce a cosa si fa per far crescere l’altro.Edùcere invece è trar fuori, tirar fuori, anche portare verso l’alto.Sono due significati assolutamente complementari. Non c’è dubbio che l’esperienza educativa si riferisca a entrambi questi significati, ma questi significati coprono un campo di azione in realtà molto diverso. I rischi e le

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opportunità di questa attività dell’educare in questi due sensi sono quindi molto diversi.Cominciamo dal primo: educare come nutrire: cosa significa e quali sono i rischi dell’educare come nutrire? Che rischi corriamo? Cosa possiamo fare di sbagliato? Si può dare troppo oppure troppo poco, far morire di fame l’altro oppure farlo scoppiare, generare delle patologie di iper-oralità, di oranti. Queste sono delle cose molto precise, sono dei rischi che noi corriamo e che vediamo correre in tutti i genitori, in tutti gli insegnanti, in tutti. Possiamo dare da mangiare troppo o troppo poco, possiamo nutrire con cose buone o con cose cattive, con cose intossicanti, cibi troppo artificiali, costruiti, troppo pesanti oppure troppo inconsistenti. Riflettiamo su questo, siamo qui per questo: è vero che ci sono questi rischi? Io credo di sì. Nella mia esperienza di figlio, poi di genitore, di allievo, poi di insegnante , nella mia esperienza di terapeuta e anche di studioso di scienze sociali, io questi rischi li ho notati. Sono dei rischi molto precisi e ognuno dei possibili rischi che corriamo, che noi constatiamo di vivere nella nostra giornata, se voi ci pensate spesso può riferirsi soprattutto all’educare come nutrire.Allora come evitarli? Ovviamente è un campo enorme e qui possiamo affrontarne solo dei bocconi, dei brandelli. Io credo che ci si debba impegnare in un’attività riflessiva che è una caratteristica del campo educativo, dobbiamo pensare ogni volta, non ci sono menu già fatti che vanno bene per tutti; la mia convinzione è che quella dell’educare sia un’attività che ci chiama ad un’attenta e personale riflessione. L’io è fortemente interpellato in quanto tale. L’educazione standardizzata buona per tutti è secondo me un’educazione pericolosa e lo vedremo tanto di più nella questione dell’edùcere.Per arrivare ad una sintesi possiamo mettere a fuoco, sotto questo punto di vista, come passare le cose buone che fanno crescere; questo ci aiuta perché siamo costretti a riflettere su quali sono state le cose buone che anche nella nostra vita ci hanno fatto crescere. L’educazione è un rapporto creativo, un rapporto di identificazione delle risorse e uno dei suoi aspetti più interessanti è il suo carattere processuale, cioè non c’è un testo, un vademecum, non c’è una lista delle cose buone o delle cose cattive. Se per esempio noi somministriamo a un bambino delle cose che non sono adatte alla sua età ecco che facciamo una cosa sbagliata ma se gliele diamo al momento giusto facciamo una cosa giusta. Tutta questa operazione dell’educare è da vedersi, è un work in progress nel tempo della crescita del bambino, nel tempo storico-sociale in cui tutti viviamo e nel nostro tempo personale che conta molto all’interno di come si svolge questa operazione. E’ necessario vivere positivamente i rischi senza fare delle sciocchezze. Vogliamo dire uno dei rischi più ricorrenti nell’operazione dell’educare come nutrire? Come psicoterapeuta devo rilevare il grandissimo e diffuso rischio di dare da mangiare ai figli le nostre ambizioni personali, le nostre velleità

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personali, in altri termini il nostro narcisismo. Questo è uno dei rischi più ricorrenti che poi ritroviamo nelle persone come patologie e che molto spesso viene dall’input genitoriale. Quanti genitori vogliono dare ai figli qualcosa perché ha un buon riscontro sociale oppure perché è una loro mancanza, ma in quanto presenza nel mondo, approvazione sociale, e quindi si rifanno passandola ai figli anche se ai figli di quella cosa lì non importa niente, non ha nessun riscontro? Oppure li stra-impegnano in mille attività di successo, che hanno una buona conferma sociale e così facendo impediscono loro quella cosa preziosissima che è l’annoiarsi, avere un po’ di tempo vuoto per porsi delle domande, se ce le hanno, e anche per scoprire che non ce le hanno, che non sanno cosa fare dunque si annoiano: è un momento indispensabile questo nell’incontro con sé, perché se non ci annoiamo mai vuole anche dire che non ci diamo mai il tempo di annoiarci e forse di pensare a cosa ci annoia o a cosa ci diverte.Queste cose ci portano a dei temi abbastanza importanti perché su questa questione di non passare ai nostri figli i nostri nutrimenti narcisistici noi scopriamo che non sempre ciò che dà successo arriva da cose buone di sé, che fanno crescere, a volte arriva da frustrazioni, da squilibri, da qualcosa che non è stato risolto e vogliamo risolvere attraverso i figli.Inevitabilmente questo tema dell’educazione ci porta a educarci e questa è una sua grandissima, benchè scomoda, risorsa, come forse tutte le risorse importanti sono. Quindi abbiamo visto che l’educazione è una continua presa di coscienza di sé, un riconoscimento delle proprie cose buone che fanno crescere, perché per passarle dobbiamo riconoscerle, ma dobbiamo riconoscerle anche come esperienza di vita, come riconoscimento riferito ai figli . Quindi c’è un’attività di auto-riconoscimento, di sviluppo in altri termini della coscienza che è indispensabile all’attività educativa.Vediamo molto rapidamente qualche tema di queste cose buone che noi passiamo ai figli.Un primo tema riguarda la primissima infanzia ed è il corpo. Tutto avviene nel nostro corpo e quindi il sapere del corpo, l’esperienza del corpo è la prima educazione indispensabile. La scoperta di avere un corpo, che il proprio corpo interagisce con i corpi della natura, che se tiro una pietra ad un altro posso fargli male, se sollevo un peso troppo pesante mi faccio male, se mi butto da una certa altezza anche, e se invece entro nell’acqua placidamente ho una sensazione di piacere. Direte: ma che educazione è quella lì? Quella lì è l’educazione primaria, se non va in porto quella è difficile che vadano in porto le altre. L’educazione al proprio corpo e al corpo degli altri è la prima educazione che dobbiamo avere,altrimenti tutte le altre rimangono per aria, magari entrano nella testa ma se non entrano nel nostro vissuto corporeo saranno solo nella testa a rischio di diventare dei bagagli puramente intellettuali e anche dei forti appesantimenti.Il corpo porta con sé subito la natura, (e questo riguarda i due libri in uscita tra poche settimane), perché il corpo noi lo scopriamo a contatto con la natura.

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Entriamo nell’acqua e sentiamo la pelle, sentiamo il freddo, sentiamo tutte queste cose che altrimenti restano teoriche o che oppure non ci sono per niente e invece ci devono essere perché, come diceva Aristotele ma anche Tommaso d’Aquino, noi conosciamo attraverso i nostri sensi. Quindi se non ci sono state impartite delle nozioni riguardo ai sensi noi difficilmente potremo conoscere qualcosa, fare esperienza di qualcosa, la nostra esperienza rimarrà mentale che, badate, non è un piccolo problema perché questo porta a percepire il corpo con la mente e questo è assolutamente unilaterale e conduce ad una specie di ipertrofia, diffusissima oggi, della mente e atrofia dei sensi e quindi anche dell’affettività che in qualche modo ai sensi è legata.Quindi il corpo, la natura e, a quel punto, l’altro. Nel momento in cui noi ci impadroniamo del nostro corpo, il nostro corpo vuole andare verso gli altri corpi, vuole conoscere il cammino che esplora il corpo della madre, ma dopo esplora il mondo, esplora la natura, gattona, guarda, tocca. Sugli altri corpi che sono altre anime e altre persone, è l’altro, è il tu che viene a scoprirsi in questo modo; così, naturalmente, si sviluppa tutto il mondo affettivo e il mondo della sensibilità. “tu cosa provi se ti faccio questo?, se ti do uno spintone cosa provi?” provi paura, l’altro si arrabbia ma la completezza di tutte queste esperienze viene soltanto se accompagnata anche da un’azione educativa. Una delle grandi carenze dell’educazione di oggi è senz’altro la carenza di educazione sentimentale, proprio nel senso di educazione ai sentimenti, cioè che cosa prova l’altro e che cosa provi tu per l’altro.Questi aspetti elementari sono strutturanti dell’intera personalità e se non si strutturano si apre un grande e pericoloso vuoto.Dopo questi momenti primari – il corpo, l’altro, il sentimento per l’altro e dell’altro per me – il primo sviluppo dell’io/tu, c’è l’educazione al sapere. Anche l’educazione al sapere è un campo molto complesso, che va da saperi molto elementari – la parola, la grammatica – assolutamente indispensabili, a saperi che potremmo chiamare direzionali – cosa succede dopo?, dove vado lungo questa strada? – a sviluppo ulteriore di saperi affettivi di cui abbiamo visto le premesse nel discorso precedente. Però come vedete questi saperi intellettuali, che sono gran parte delle cosiddette materie scolastiche, si possono impiantare se c’è stata un’educazione almeno agli altri due punti, il corpo, i corpi della natura e l’altro, altrimenti non si impiantano da nessuna parte perché non c’è un soggetto corporeo portatore di un io incarnato.In tutta questa educazione come nutrire, come nutrimento il grande rischio è quello dell’unilateralità, quello del vedere solo un punto e non l’altro, solo le materie e non il corpo, oppure solo il corpo e dare un’indigestione di ginnastiche le più svariate e saltare completamente l’educazione sentimentale, l’educazione all’altro. Almeno questi tre aspetti che ho riassunto,i grandi campi dell’alimento, del nutrimento educativo, bisogna che ci siano tutti e tre, dosati naturalmente a seconda della personalità di chi nutre e di chi riceve.

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L’altro significato è quello dell’EDUCERE cioè tirar fuori il bambino, (che è il soggetto dell’educazione) ma anche, tirandolo fuori, portarlo in alto. E cosa c’è da tirare fuori? C’è da tirare fuori proprio lui, cioè chi è, chi è quello lì, cos’ha dentro di lui. La persona umana infatti è unica e irripetibile e l’io sarà il suo, unico e irripetibile se si forma pienamente, ma per formarlo pienamente noi dobbiamo badare a chi è lui e quindi noi dobbiamo aiutarlo e soprattutto ascoltarlo quando ci dice chi è, e ce lo dice spesso attraverso le domande, tante volte considerate assurde, dei bambini (Perché questo? Perché quello?) o tipicamente le domande metafisiche (Dove è andato il nonno che è morto? Dove ero prima di venire al mondo?) e noi non possiamo liquidare queste cose perché attraverso queste cose lui comincia a parlarci di sé, di chi è lui. Dobbiamo stare attentissimi ai suoi gesti creativi, quando prende dei colori e scarabocchia sta cominciando a dirci qualcosa a cui noi dobbiamo prestare la massima attenzione. Quando ci comunica che gli piace una musica piuttosto di un’altra, quando ci trasmette un entusiasmo per un ambiente naturale, ci parla di sé nel senso più profondo o quando ci dice che quell’amico è straordinario è una comunicazione forte, interessante dove sta mettendo giù dei pezzi del suo sé a cui noi dobbiamo prestare grande attenzione e rispettosamente e non invasivamente dargli la possibilità di andare avanti, se vuole, a raccontarci chi è,perché è quello lì che noi dobbiamo alla fine tirar fuori. Tutto il discorso dell’educazione di prima è importantissimo ed è un discorso universale, è il cibo che gli devi dare perché altrimenti non vive, ma poi la direzione educativa è l’aspetto più solido, perchè ognuno impara bene le cose alle quali si appassiona,non le cose per le quali non prova niente, quelle le impara male o non le impara, e poi bisogna vedere se le deve imparare proprio o se le può imparare così così. Lui andrà avanti su quello che lo appassiona, però, perché possa andare avanti, bisogna sapere cosa lo appassiona. Il disastro, e lo dico da psicoterapeuta, è proprio quando queste passioni o direzioni di passioni non sono state scoperte perchè nessuno ci è stato attento, nessuno pensava che l’educazione avesse a che fare con una passione del bambino, e invece ha a che fare essenzialmente con quello. Se quella passione viene tirata fuori diventa un pilastro su cui quel bambino, quella persona potrà poi costruire un progetto di vita. Ma se questa passione non c’è? Incontro troppo spesso persone che non sanno che cosa vogliono : “io non saprei dirle se ho mai avuto un desiderio.” Questa è la situazione di oggi. Ci sono molti bisogni riconosciuti, certamente, tutti ci aiutano a riconoscere i nostri bisogni; ma i nostri desideri? Chi è veramente disposto a seguirci su questo discorso del desiderio? Questo aspetto è molto trascurato. Gaston Bachelard che è uno dei più grandi filosofi del secolo scorso, che era tra l’altro un matematico diceva: “L’essere umano non è nato per i bisogni, è nato per i desideri”. Quello che spinge la realizzazione di una persona è il desiderio, non certo un piatto di spaghetti.Quindi bisogna tirar fuori la persona, il suo sé, cioè il contenuto più profondo di conscio e inconscio, che sarà a sua volta il grande alimentatore dell’io.

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Naturalmente è qui che si corre il rischio della libertà dell’altro,che è un rischio molto appassionante. Se noi lo aiutiamo a essere se stesso ne facciamo davvero una persona libera e a questo punto ci sarà per lui, e anche per il nostro rapporto, il rischio della libertà. Cosa facciamo, cosa farà della sua libertà? Questa responsabilità è un tratto inerente alla libertà. Se noi non diamo la libertà ad una persona, non potremo mai aiutarla ad essere responsabile perché la responsabilità è una qualità della libertà: se uno non è libero non è nemmeno responsabile. Quindi la libertà dobbiamo dargliela e dobbiamo anche riconoscere chi è, tirarlo fuori, aiutarlo a condùcere, a edùcere questa estrazione.Come vi dicevo, e su questo concludo, tutto questo è naturalmente un processo duale. Il fare ognuna di queste cose ci cambia profondamente, il tirar fuori lui, il suo sé ci aiuta a tirar fuori o a ritirar fuori , a rinfrescare il nostro sé e questa non è mai un’operazione fatta ,come dicevo prima, una volta per tutte, ma è sempre un work in process, è sempre qualcosa di processuale anche per noi.Per esempio anche noi diventiamo grandi e poi vecchi e spesso durante il processo educativo verso l’altro stiamo entrando in quella che molta psicologia chiama la seconda metà della vita, la seconda parte della vita che è completamente diversa dalla prima; in questa seconda parte si incomincia a intravedere la fine e quindi si sviluppano tutte le domande sulla fine, la direzione, il senso, generalmente le domande più inerenti alla vita spirituale che normalmente si presentano molto forti, come le domande metafisiche del bambino che si attenuano nella prima metà della vita e se il processo educativo va bene si attiva un processo di costruzione molto precisa (la coppia, il matrimonio, la famiglia) che ci impegna fortemente e che poi invece diminuisce nella seconda metà della vita quando molte cose sono costruite e incalzano le domande più finali,anche nel senso proprio di direzione del senso della vita.Vedete quindi che questa attività educativa è un profondo e preciso processo che ci coinvolge non solo come educatori ma proprio in quanto educatori anche soggetti all’esperienza educativa in un continuo ed appassionante cambiamento.

Prof.ssa DiscoliQuello che Lei ci ha detto è già molto denso , è vero che chi educa è il primo soggetto ad essere educato. Molte volte però noi sentiamo questa dimensione come un’impresa ed è tanto più un’impresa quanto ci pare che non finisca mai. A volte, quanto più la coscienza è tesa, questo implica un grande sacrificio e spesso mi pare che implichi anche la percezione di una rinuncia a se stessi. Invece in quello che finora è stato detto mi pare che sia richiesta anche una grande potenza di vita e anche una certa felicità, soddisfazione. E siamo invece in un mondo in cui l’educazione è un fenomeno molto pesante. Vorrei allora chiedere come convivono queste dimensioni dell’adulto, che da un lato è impegnato in un’opera molto ardua proprio perché chiede continuamente la revisione di sé e dall’altro può sperimentare la soddisfazione di sé, il compimento di sé

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nell’esperienza educativa. Parlo dell’esperienza educativa come la realizzazione di chi educa, il quale pure è soggetto all’essere educato.

Prof. RisèIo avrei delle perplessità nei confronti di questa idea dell’”impresa”, perché l’impresa suona molto imprenditoriale, fatalmente, nella nostra società industrializzata, e quindi anche molto performativa, molto legata a dei goal, a degli obiettivi, a dei business plans. Secondo me tutta questa roba non c’entra con l’educazione in sé, per lo meno come ho cercato di presentarvela e come la sento con notevole felicità e pienezza. Se io cerco di guardare da dove viene questa felicità, riconosco che viene dal fatto che io non ho svolto un’impresa pesante, in cui io devo raggiungere questo o quello; è piuttosto un processo in cui io sono; io non devo raggiungere niente, devo fare bene quello che faccio, ma non so cosa posso raggiungere, anche perché non dipende solo da me, dipende certamente anche dall’altro a cui mi rivolgo, dipende anche da me come ritorno, certo, ma la prima parte è quella per la quale per certi versi sono più preoccupato, in quanto sono depositario di una delega educativa. La prima parte è quella dell’altro e quell’altro io non posso sapere cosa fa, perché non dipende da me, non sono il suo padrone, è lui quello che verrà fuori e comunque io personalmente credo che le nostre vite dipendano da un altrove che è sopra di noi e che non siamo noi. Ciò che è certo è che io non posso sapere cosa l’altro farà di sé.Se io mi immetto come soggetto di poteri che secondo me non ho, allora l’impresa è drammatica, ma io non credo di avere questi poteri, io da terapeuta non ho il potere di guarire quell’altro, io ho il potere di fargli vedere delle cose che lui mi porta, nemmeno edùcere, ma presentargli degli aspetti di sé che possono tirarlo fuori da una situazione di sofferenza; ma poi dipenderà da lui se uscirà o no da questa situazione di sofferenza, io spero di sì, sono con lui ma non sono al suo posto.Se noi rispettiamo questo aspetto processuale e rispettiamo anche la libertà dell’altro che alla fine è la libertà di fare di sé ciò che deciderà, tenuto conto di quello che è successo nel processo educativo, allora potremo vivere più pienamente, con più gioia e forse anche trasmetterla, questo processo che però io vedrei appunto come un processo e non come un’impresa.

Prof.ssa DiscoliPongo ancora questa domanda, poi apriamo alle domande che voi sentite necessarie.Io ho in mente un passo del poeta Péguy che ho molto caro sia quando insegno sia quando sono in casa. Péguy si immagina che sia Dio a parlare, in fondo è il padre: “Ho voglia, sono tentato di mettere loro la mano sotto la pancia per sostenerli nella mia larga mano come un padre che insegna a suo figlio a nuotare nella corrente del fiume e che è diviso fra due sentimenti, perché se da un lato lo

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sostiene sempre e lo sostiene troppo il bambino non si staccherà e non imparerà mai a nuotare, ma anche se non lo sostiene al momento giusto, questo bambino berrà un sorso cattivo”. Credo che per tutti noi che educhiamo rimanga questo dramma, il rischio della libertà dell’altro a cui può capitare di bere un sorso cattivo. Noi tutti genitori e insegnanti sappiamo quante cose vuole dire questa immagine.Quindi in che rapporto stanno il rispetto per la libertà dell’altro, che è assolutamente indiscutibile, e nello stesso tempo la necessità di tenerlo, di controllarlo anche se la parola non è particolarmente bella ma rende l’idea.

Prof. RisèCredo che da questo punto di vista sia molto bella la frase di Péguy, esauriente se entriamo in questa immagine della mano che sostiene la pancia o il dorso del bambino. Se voi entrate in questa immagine con i ricordi che potete avere forse come bambino che è stato sostenuto, ma certamente come padre o madre che ha sostenuto il bambino, voi ritrovate questa questione del processo perché questo sostegno non è un dato né istantaneo né eterno, è un contatto molto fisico come dicevo prima parlando del corpo, che passa da un senso decisivo nel rapporto con l’altro che è il tatto, sentire l’altro, sostenere ma attraverso un sentire, un sentire tattile, di contatto, rimanendo in contatto con l’altro. In questo contatto tu percepisci fino a quando lui ha assolutamente bisogno che tu tenga la mano perché altrimenti affoga e tenendo il bambino senti quando ha cominciato a sviluppare una familiarità con l’acqua, anche alcuni riflessi delle braccia e delle gambe, per cui risponde per esempio all’azione dell’onda. Allora tu ogni tanto puoi togliere la mano e lasciarlo andare un momentino giù, perché non succede niente e perché lui per qualche secondo sta a galla. Poi sempre attraverso questo contatto tattile, dove non c’è niente di mentale, c’è una assoluta presenza e attenzione fisica e affettiva, ti rendi conto quando lui comincia a muoversi per conto suo e poi puoi mollarlo. E’ un processo, questo della mano che sostiene il bambino, che molto chiaramente e giustamente Péguy propone come riflessione sulla libertà. E’ in realtà un processo educativo, muscolare, vitale del bambino che impara a rendersi conto del pericolo, dell’onda che ti travolge, che ti sostiene, è tutto un sapere educativo molto forte che si sviluppa attraverso il contatto, cioè attraverso il rimanere con l’altro, sentendolo e rispettandolo nella sua assoluta alterità rispetto a sé.

Prof.ssa DiscoliSe vogliamo, possiamo iniziare con le domande per approfondire ulteriormente e quindi cogliere dei dati che ad alcuni sono sfuggiti mentre ad altri paiono invece rilevanti per rendere più utile questa occasione.

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DOMANDAInnanzitutto grazie! Lei ha parlato molto di bambini, ma fino a quando noi genitori siamo così importanti per i nostri figli?

Prof. RisèQuesta è una domanda molto importante credo che anche qui sia difficile rispondere perchè ogni persona è molto diversa. Comunque, a seconda di come è nato il processo educativo, una relativa autonomia può svilupparsi prima o dopo, se ha mangiato le cose giuste e bene, non troppe, i bambini possono autonomizzarsi anche piuttosto rapidamente il che non vuol dire che noi non siamo più importanti, anzi forse lo diventiamo ancora di più, però siamo meno indispensabili, loro sono effettivamente più autonomi e questo dipende molto dalla personalità del bambino, del ragazzo, è un aspetto individuale, personale che è irriducibile agli aspetti quantitativi (non c’è una legge per cui ad una certa età si è fuori dal bisogno). A parte che questa è una società del bisogno, e quindi l’età dell’autonomia continua a spostarsi sempre più in là, come si vede anche da dati abbastanza elementari, ad esempio l’abitazione, la capacità di iniziare una nuova coppia, di trovare un lavoro ecc. si sposta sempre più in là e non solo per ragioni economiche ma per un’occorrenza a rimanere dipendenti più a lungo. Questa dipendenza in parte è anche indotta da tutto il modello sociale che non è modello di autonomia, essendo fondato in gran parte sui consumi; tale modello è pensato non per autonomizzare, bensì tende a mantenere i giovani nell’alveo di un’influenza genitoriale.Quindi non si può veramente rispondere. L’unica cosa che mi sembra di poter dire è la seguente: meglio è andato il processo educativo nei due sensi – educare come nutrire ed educare come tirar fuori il sé – e più la voglia di autonomia, la felicità dello sperimentarsi da soli, viene fuori prima.

DOMANDALei ha sottolineato molto l’aspetto del processo educativo attribuendo a questo vocabolo anche l’attributo di “incerto”, un processo di certo non deterministico. Al di là del fatto che questo potrebbe valere anche per un’impresa nel senso economico, volevo sottolineare che il fatto che sia un processo non toglie la responsabilità anche di una progettualità. Quindi, stando sugli esempi, nel momento in cui l’adulto si pone l’obiettivo di insegnare al figlio a nuotare c’è un aspetto progettuale, c’è un obiettivo che viene posto e che ci si aspetta che venga raggiunto. Così come anche su questa ultima domanda: è vero che non c’è un’età uguale per tutti in cui si raggiunge l’indipendenza, l’autonomia, però l’esame che adesso si chiama “esame di Stato”, tradizionalmente si è sempre chiamato “esame di maturità”, come a significare che il sistema scolastico si pone, rispetto all’educazione, un obiettivo ben preciso.Quindi l’aspetto progettuale non può essere negato.

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Prof. RisèIl progetto di accompagnare la maturazione della persona, certamente è un aspetto dell’educazione, però non risolve il problema decisivo del progetto personale. Il progetto personale è personale, e quello lì viene fuori da quella estrazione del sé che può o no avvenire prima della maturità. In questo effettivamente le scuole hanno delle grandi possibilità nell’aiutare o no l’individuazione di questo progetto personale. Però per aiutarlo devono porsi il problema. Per esempio certi indirizzi educativi, mi vengono in mente le scuole steineriane, se lo pongono esplicitamente nella classe che corrisponde grosso modo alla seconda liceo: è in quel momento che viene messa in campo la questione dell’individuazione delle aspirazioni personali dell’allievo: “Cosa vorrei fare? Cosa mi piacerebbe fare e perché?” Tali quesiti non sono evidentemente posti come singola esercitazione, ma come una riflessione che si svolge in diversi momenti, durante almeno un anno, anno e mezzo delle classi seconde del liceo, in cui viene investito un sacco di tempo a detrimento del compimento di altre materie della scuola di stato che vengono compresse per lasciare un grosso spazio a questa individuazione che ha anche molti momenti pratici, di esercitazioni, di immersione nella natura, di esperienze pratiche anche di fabbrica, per vedere come si reagisce. Quindi certamente questo può avvenire, ma bisogna vedere se la scuola lo propone, se lo propone con consapevolezza, come lo accompagna ecc.Alcuni progetti elementari come anche l’educazione sentimentale, anche fisica, corporea vanno portati avanti. Se uno o l’altra è rimasto indietro la maturità viene meno.

Prof.ssa DiscoliMi sembra che ciò che è stato chiesto possa aiutare a capire bene la questione del processo: l’avere un progetto non è a priori. Su un figlio o su un allievo la responsabilità educativa non coincide con il fatto che abbiamo un progetto, seppur positivo, a cui chi educhiamo dovrà tendere. Che l’educazione sia un processo significa che io accompagno il cammino dell’altro perché l’altro possa riconoscerlo suo.

Prof. RisèIo lo aiuto, gli fornisco innanzitutto la mia attenzione, il mio ascolto e anche una serie di momenti esperienziali in cui lui possa esprimere questi aspetti del suo sé, io li possa ascoltare e lui li possa riconoscere attraverso la mia ripresentazione. Ma io non posso avere nessun progetto su di lui. Cosa ne so di cosa può diventare lui e cosa vuole diventare e cosa lo appassiona? Devo fornirgli uno spettro di esperienze e un’attenzione sufficientemente presente da consentirgli di esporre dei materiali che ci portino, che lo portino, a riconoscere questo progetto. Io sono al servizio di questo processo.

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DOMANDAVorrei porre due questioni.Ho trovato molto bello il riferimento che lei ha fatto ad avere il tempo per annoiarsi. Ma volevo sottoporle situazioni che si sono create per cui dei giovani si sono macchiati di atti - il primo che mi è venuto in mente è il sasso dal cavalcavia – per cui alla domanda “perché lo avete fatto?” la risposta è stata “perché ci annoiavamo”. Quindi avere del tempo per la noia nasconde un pericolo enorme: quando si passa il confine questa noia può diventare estremamente negativa.L’altro tema è se a suo parere possa essere condivisa l’idea che noi genitori e insegnanti siamo un po’ delle cavie rispetto al fatto che la tecnologia è entrata in modo preponderante nella vita dei ragazzi e, a mio parere, è come se ci fosse un confine tra un mondo che è stato prima di noi e quello che c’è in questi ultimi anni. Questo vale per noi genitori ma anche per l’istituzione scolastica. Il problema è sempre quello di capire se e fino a che punto noi siamo preparati a questa situazione e se tutto quello che è stato detto, e che è interessantissimo, vale per un mondo che in qualche modo si è radicalmente modificato perché è stato introdotto un tema che non esisteva ed è totalmente nuovo. I nostri genitori si sono rapportati con noi in un periodo in cui c’è stato il ’68, la rivoluzione sessuale, la scoperta di un mondo completamente diverso da quello che c’era stato fino agli anni ’50, ma tutto comunque atteneva ad un concetto di rapporto genitore/figlio, concetti educativi, voglia di ribellione . Ora mi pare che ci sia qualcosa di totalmente nuovo e di totalmente diverso.

Prof. RiséSulla questione della noia io credo che anche a quel gesto del sasso dal cavalcavia si leghi la mancanza di un’educazione alla noia. Cioè la noia è qualcosa che non deve esserci in una società attiva dove uno deve sempre fare qualcosa e che non ha nessuna dignità, per cui è un disastro, è qualcosa contro la quale si compie quello che noi chiamiamo acting out, un agito, un atto, ci si butta. Ma questo accade perché non sappiamo più che fare di questa cosa, ed è grave perché vuol dire che dobbiamo essere sempre in movimento e avere sempre un progetto quando ancora non sappiamo chi siamo. Questo è impossibile, è molto difficile, è molto rischioso proprio perché toglie dignità al momento della noia, anche dello smarrimento che è un momento profondamente umano.Venendo al tema forte del suo intervento io credo che certamente c’è qualcosa di profondamente diverso, forse non così recente, ma la quantità di relazioni con oggetti inanimati, tecnologici è diventata enormemente più grande di quanto sia mai stato. Questo non comporta di per sé differenze profonde rispetto agli schemi educativi precedenti perché già negli anni ’70 conoscevano una profonda crisi nella trasmissione dei saperi dai genitori ai figli, il ’68 è figlio di questa situazione, di momenti di assoluta non attenzione da una generazione all’altra, anche di smarrimento dei saperi da trasmettere: era già tutto molto grave. E

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questo lasciava spazio a grandissimi disastri educativi che si sono puntualmente avverati. Però adesso c’è una cosa più profonda: lo spazio, che la relazione di ognuno con degli oggetti costruiti, ha nella vita personale dell’individuo fin da piccolo, e parallelamente la riduzione delle relazioni con i corpi viventi, voglio dire i corpi degli altri e i corpi della natura che sono corpi viventi. Qui c’è una differenza e io insisto molto su questo anche in questi lavori che ho rifatto e che verranno presentati tra un paio di settimane sul mondo selvatico e le relazioni del maschile e del femminile con il mondo selvatico, perché secondo me lì c’è un aspetto antropologico molto importante e quindi anche psicologico e fisiologico che va a incidere molto fortemente sul processo educativo. Sono degli aspetti che mi hanno indotto a riprendere questi testi che avevo scritto più di vent’anni fa. Sono state delle persone con cui avevo svolto un lavoro terapeutico, che hanno avuto un giovamento da queste riflessioni, che mi hanno suggerito di riprendere queste riflessioni, per ragioni non teoriche ma per fornire un background esperienziale, anche dei percorsi fisici e simbolici che possano bilanciare questo enorme sviluppo della tecnologia che non mi preoccupa in quanto tecnologia ma in quanto si tratta di fabbricazioni prive di relazione con la creazione originale, quindi che percorrono già un cammino di creazione artificiale dell’uomo che poi prosegue nei laboratori, con gli esperimenti genetici ecc.Questo tema non riguarda tanto la tecnologia in sé, esso piuttosto riguarda questo progressivo spazio destinato alla creazione di reti di comunicazione completamente al di fuori del mondo creato, che vanno di parallelo con dei tentativi di creazione di vita in laboratorio e al di fuori di processi naturali.

DOMANDAIo volevo soffermarmi su due cose.La prima è il tema dei desideri .Almeno per quella che è la mia esperienza che condivido con tanti genitori, gli adolescenti oggi sono apparentemente privi di desideri nel senso che hanno un atteggiamento un po’ apatico anche nei confronti di cose banali. Porto sempre l’esempio che io a quattordici anni non vedevo l’ora di avere il motorino e i miei figli vivono apparentemente bene senza e va bene così, non smanio perché loro ce l’abbiano però io ce l’avevo questo desiderio. A sedici anni mi aspettavo che mi dicessero che volevano fare il patentino invece nessuno me lo chiede, se ne parla molto, però poi non si arriva al dunque.L’altro tema è quello del sostenerli. E’ vero che quella citata prima è un’immagine molto evocativa, anche semplice da comprendere; finchè c’è il contatto, finchè lo tengo sotto la pancia mi accorgo che ad un certo punto non ce la fa oppure sta andando e posso lasciarlo andare. Invece l’adolescenza è proprio il momento in cui il contatto manca o comunque va cambiando se non addirittura sparendo e quindi diventa più difficile capire quando è il momento in cui si possono lasciare andare e quando invece è il momento di sostenerli.

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Quindi la difficoltà del genitore è di trasformare il contatto fisico in un'altra forma di contatto che ogni giorno però mi chiede di essere rielaborata completamente per arrivare ad un’altra forma di comunicazione e di contatto.Sui desideri ho dimenticato una cosa. E’ un sintomo l’assenza di desideri o è un segnale, cioè sono in un’età talmente difficile che invece probabilmente i desideri ce li hanno ma non riescono ad estrinsecarli o forse hanno paura di tirarli fuori perché vuol dire già prendere delle posizioni o l’assenza del desiderio è una velata richiesta di quel famoso sostegno?

Prof. RisèTutto questo è molto complesso, molto vero. Io vi trasmetto quello di cui mi sono reso conto di più. Volevo partire dall’immagine che abbiamo visto di Peguy perché il problema si avvia a soluzione sì perché c’è il contatto ma anche perché esso è durato abbastanza da sostenere il bambino nel rapporto con l’acqua e con l’onda. Come vi ho detto prima credo che questo sapere corporeo sia fondamentale nel processo educativo complessivo perché nulla è perduto quando c’è quella sapienza, per esempio, quando c’è quel sapere la droga può fare pochissima strada, quasi sempre la droga avanza quando l’esperienza del corpo non c’è stata a livello profondo. Quindi il bambino tu lo sostieni fino a quando non ha imparato a sostenersi e prendere l’energia dell’onda, cioè l’energia della natura, l’energia dell’acqua. Noi da soli non possiamo educare, abbiamo bisogno almeno dei quattro elementi fondamentali, l’aria, l’acqua, il fuoco e la terra che devono essere sperimentati consapevolmente dalle persone, devono starci dentro, devono sentirli come alleati. Quando glielo insegniamo questo? Qualsiasi padre o madre che ha insegnato davvero a nuotare al bambino sa che il bambino impara a nuotare quando riconosce come usufruire dell’energia dell’acqua, perché prima non nuota, non sta a galla, impara a stare a galla quando impara a cooperare con l’acqua. Allora nell’adolescenza tu puoi stare relativamente tranquillo come educatore, come genitore quando i ragazzi sono stati abbastanza dentro la natura. Lo scoutismo non è una stupidaggine, il vecchio Baden sapeva quel che faceva quando ha messo in piedi tutta questa roba perché era stato in Africa, aveva visto i riti di iniziazione, come si diventa forti. Noi possiamo compensare le mille sfide degli assedi tecnologici, gli assedi della droga o il fondo depressivo che questi ragazzi hanno per cui non sono interessati nemmeno al motorino e al patentino, cioè non gliene importa più granchè di andare. Ci sono delle sensazioni fisiche molto precise con il motorino e in genere con la guida, soprattutto con le moto, hai l’aria sulla faccia che è una cosa molto precisa che se l’hai sperimentata ti piace, hai la strada che scompare sotto le ruote, hai l’avventura, usiamo il tema vecchissimo dell’easy rider; però devi volere andare. Lì c’è un fondo depressivo molto forte perché se tu ti tiri fuori dalle grandi energie naturali, non hai più dei rifornimenti energetici elementari che pure sarebbero facilmente a tua disposizione.

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Io mi sento di dirle questo perché è il frutto di un’esperienza personale, da quando ho cominciato a fare lo psicoanalista trenta/trentacinque anni fa. E lo so anche per l’esperienza educativa genitoriale e didattica. Nella natura c’è una riserva di forza vitale di cui l’uomo ha bisogno nel programma dell’umano, se poi diventa una macchina forse non ne avrà più bisogno. Per adesso è depresso oppure è maniacale e ricerca droghe per tenersi su. Oscilla tra questi due aspetti.

DOMANDAE’ chiaro che l’educazione è un processo dinamico tra rischio e opportunità, senza risultato certo perchè dipende dai due attori. La cosa che io però ritrovo quotidianamente, sarò pratica, prosaica, è quanto limitare la libertà e quanto indirizzare. Faccio un esempio che riguarda la tecnologia. Si svegliano al mattino e la prima cosa che fanno è accendere l’iphone. Gli dici: “Piantala che arrivi in ritardo a scuola” e loro rispondono che non possiamo violentare la loro libertà. Arrivano a casa con l’iphone, a mangiare non vengono perché hanno in mano ancora l’iphone, vengono a tavola con l’iphone, comunicano con gli amici e via così. Ci si mette d’accordo che possono usarlo per mezz’ora e poi basta ma al termine della mezz’ora proseguono perché dicono di non aver terminato. Allora dove sta la libertà? Stanno diventando succubi di questi giochini. Come possiamo allora imporci? E’ chiaro che dipende dai due soggetti e dalla storia passata di uno e dell’altro, però questo è il problema che io riscontro ogni giorno.

Prof. RisèAnche in questo caso io propongo una cosa che mi sembra di avere osservato. E’ molto importante che prima, da subito possibilmente, parta all’interno del rapporto educativo un tema di avventura e di rischio condiviso nella prova con il mondo e, scusate se torno lì ma è l’ambito nel quale siamo più sicuri dal punto di vista dei rischi, anche se i rischi ci sono, dell’avventura nella natura. Io vedo anche dal punto di vista esperienziale che quando nella vita dei bambini, fin da piccoli, viene proposta molto e liberamente condivisa anche come avventura e viene poi continuata anche nella vita famigliare, nello stile di vita, nel tempo libero, il potere della tecnologia arriva fino ad un certo punto e poi molto spesso flette pesantemente, magari ha dei top dai tredici ai quindici anni ma poi può bruscamente calare. Ma quando cala, e soprattutto il prestigio che raggiunge è molto limitato? Quando le persone si sono abituate a esprimersi e godere ed essere felici nella piena relazione con la natura, la più incontaminata possibile. A quel punto l’iphone ha un potere limitatissimo. Questo è quello che io ho sempre visto e continuo a vedere. Così come la televisione viene abbandonata, e questo già lo vediamo sociologicamente nelle società più sviluppate: ad esempio in America la televisione la guardano in pochi, ma già da tempo, perché sono passati a strumenti più sofisticati. Anche questa fase di sviluppo e declino delle singole tecnologie è abbastanza interessante perché vuol dire che poi le cartucce da sparare che questi hanno forse sono più limitate di quel che sembrano. Certo

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l’arrivo di Internet ha dilatato le possibilità di interesse, però se tu un ragazzo lo metti in una piena e forte relazione con la natura è molto difficile che si consegni agli strumenti tecnologici, perché questi non danno nemmeno un centesimo dell’emozione che dà entrare in una foresta o correre su un cavallo. E’ roba molto diversa! La tecnologia è molto più povera e i bambini che non sono stupidi si rendono conto molto bene. Diamogli pure questi pochi anni di impazzimento, che sono difficilmente evitabili, anche per dei fatti fisiologici vissuti ancora più drammaticamente nell’universo completamente artificiale o quasi della metropoli.

DOMANDAQuindi lei dice: “Lasciate fare e non prendete delle drastiche posizioni”.No! Io dico “Mezz’ora te lo lascio, poi te lo metto via; se vai avanti ancora te lo porto via per un mese, per una settimana”. Sarà bello il rapporto con la natura, ma scusi uno viene a casa da scuola, in un appartamento, fa i compiti fino alle 23, i rapporti con la natura vorrei sapere come fa ad averli.

Prof. RisèPer esempio nel fine settimana con la famiglia

- ma il fine settimana è quando viene a casa con l’iphone, o viene a tavola, o si alza al mattino che lo accende –Prof. Risè: io non intervengo su questo, non so se è meglio toglierlo. Secondo me la questione è più profonda e va tanto meglio quanto più ai ragazzini viene data la possibilità di una libertà felice, profonda e naturale, che suscita istintivamente una distanza da questi oggetti fabbricati, che diventano molto meno affascinanti . Se non fanno un’esperienza di natura forse ne sono più preda, ma a questo punto non so cosa possa servire portarglielo via.

Prof.ssa DiscoliInsegnando io ho di fronte a me tanti ragazzi dell’età dei vostri figli e mi accorgo che ad un certo punto questa ossessione della tecnologia decade, perchè loro stessi si accorgono che perdono in comunicazione e relazione. Ho degli allievi che hanno già abbandonato Whatsapp, Face book, perchè è così desertico il modo di relazionarsi che ad un certo punto, se questi ragazzi sono stati in qualche modo aiutati ad accorgersi dei desideri, allora smettono o comunque diradano perché è troppo poco quello che ne ricavano. Anche io non ho idea della quantità e della durata del divieto però forse bisogna anche un po’ scommettere che è così misero, così debole questo strumento per il desiderio che i ragazzi hanno, che ad un certo punto verrà estromesso. Io tocco con mano come quest’ultima generazione di ragazzi sia molto meno succube di questi strumenti perché ne hanno fatto un’esperienza molto più

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rapida, molto più evoluta di noi e si sono accorti di come la moltiplicazione apparente delle comunicazioni generi invece una povertà gravissima di rapporti. Per cui ad un certo punto si stufano. Dopo la terza, quarta superiore si sono già stancati.

Prof. RisèQuesto lo vedo anche io, anche se poi vedo contemporaneamente un precipitare verso l’infatuazione per queste forme, di molti adulti che non li hanno sperimentati da piccoli e ci cadono a trenta, quarant’anni molto pesantemente, con la stessa ingenuità di un ragazzino, con la stessa desertificazione e forse con meno energia di ripresa. Quando vai a buttare in aria un’intera vita relazionale già costruita, per precipitarti in questa dimensione, diventa una vera intossicazione. Sono dei processi molto complessi, molto difficili che ci sfidano molto fortemente e da cui forse dobbiamo lasciarci sfidare.

DOMANDAMi ha messo in crisi con questo passaggio del rapporto con il corpo e continuo a chiedere a mio marito se l’abbiamo insegnato ai nostri figli. Quindi le chiederei se potesse declinare meglio in cosa consiste perché proprio faccio fatica a capirlo. Quando i bambini sono piccoli il rapporto con il corpo significa anche abbracciarli.Poi chiedo una specificazione anche del rapporto con la natura a cui sono molto sensibile e di cui capisco assolutamente il senso. Ma su questo ci sono dei problemi oggettivi di vita milanese. Allora questo concetto potrebbe essere declinato nel sollecitare i ragazzi nello sport, non godere del fatto che studiano fino alle 11 di sera e magari essere più contenti se si muovono e prendono 7 piuttosto che 8. Al di là dello sport poi possono anche stare insieme. E possiamo anche andare oltre facendo vedere loro il bello accompagnandoli ad una mostra.

Prof. RisèQuando sono piccoli il rapporto con il corpo riguarda tutta la dimensione tattile, ma molto piccoli lo sono a lungo, almeno per i primi tre anni; parlo di tutto il rapporto tattile: dell’abbraccio reciproco, del tenerli in braccio. E’ partendo da lì che loro trovano un percorso di amicizia con il loro proprio corpo e con il corpo degli altri il più possibile piano, il più possibile accompagnato dal consenso dei genitori. Questo tema del corpo va insieme al tema della bellezza proprio perché uno dei temi per godere del corpo sono i sensi, la vista dove c’è tutta l’esperienza della bellezza che è profondamente educativa e profondamente equilibrante. L’esperienza della bellezza ti sottrae a ogni forma di dipendenza, dalla droga alla tecnologia. Quindi il proprio corpo, il corpo degli altri e i corpi della natura. Ad esempio tutti gli animali sono molto importanti anche nella battaglia contro l’inanimato rispetto al mondo fabbricato. Se tu ami gli animali, se ne hai avuti nella tua

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storia, riconosci che il fascino degli oggetti fabbricati sarà sempre limitato. Perché la vita è di più, anche la vita animale e anche la vita vegetativa, tutto il mondo delle piante, dei giardini, il sapere dei boschi a cui l’uomo è naturalmente portato. Basta portarceli, basta anche rischiare perché lì ci sono dei rischi e si sa che i ragazzini vogliono salire sugli alberi e questa esperienza è abbastanza formativa per lo sviluppo della loro personalità.

DOMANDAIo vorrei ringraziarla perché la mia infanzia si è svolta proprio in mezzo alla natura: sono cresciuto in provincia di Belluno e mia mamma appena arrivavo a casa mi diceva di uscire e andavo a giocare vicino al Piave. Poi un anno fa sono venuto a Milano con i miei figli e le cose sono un po’ diverse. I miei figli non hanno mai fatto l’esperienza del fuoco. Io da bambino giù al Piave ho tagliato un albero, l’ho portato a casa per fare la “vecia” che si bruciava in Quaresima. Queste esperienze segnano molto la crescita di un ragazzo.

Prof. RisèLei sta raccontando delle esperienze precise e molto importanti. Accendere un fuoco, di notte, insieme a dei ragazzi, mangiare, sentire della musica o fare dei riti tradizionali sono delle esperienze forti, direttamente terapeutiche perché ti mettono in contatto con delle energie trans personali, naturali, fortissime che avrai a disposizione per tutta la tua vita.

DOMANDALa cosa che viene sempre di più fuori è la paura che abbiamo per i nostri figli: abbiamo paura a lasciarli a lungo fuori casa . Siamo mossi dalla paura, vessati dalla paura. Questo è un problema che vedo. Per le notizie che si sentono sui giornali, la paura ci blocca e mi rendo conto che poi in questo modo non si va da nessuna parte. Ai miei figli quindi dico di non aver paura.L’altra cosa che rilevo è che mia figlia, la più grande, viene educata anche dal gruppo delle sue amiche

Prof. RisèE’ un rapporto ambientale tra pari. Nel momento in cui i grandi, le figure educative trasmettono, poi i ragazzi se lo trasmettono tra di loro: un po’ pescano a scuola, un po’ a casa. Tra di loro passa una comunicazione se hanno ricevuto cose buone dai genitori, dagli insegnanti. Il passaggio non deve essere necessariamente da una generazione all’altra, c’è un’educazione tra pari,l’importante è che facciano l’esperienza sia di questo intervento nutritivo di ricevere delle cose buone, sia anche dell’educazione come educere, tirar fuori, essere aiutati a tirar fuori le proprie passioni. Poi se lo trasmettono tra loro.Sulla paura la soluzione è proprio non avere paura, perché tanto non controlliamo niente. Noi dobbiamo ricordarci che a Belluno o a Milano o a

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Cernusco non controlliamo nulla. Possiamo solo contare su quello che abbiamo ricevuto per entrare in comunicazione con gli altri. Se ci è stata insegnata l’attenzione per esempio saremo attenti, guarderemo prima di attraversare la strada, perché è un istinto vitale quello di cercare di non farsi travolgere. L’educazione degli istinti primari, del corpo che vuole preservarsi è molto importante e su quella possiamo contare, sul resto no. Sul resto siamo nella mani di qualcun altro. Quindi è meglio far fuori subito questa questione della paura.

DOMANDASpezzerei una lancia a favore della tecnologia perché la paura, almeno con il telefono, la possiamo tenere a bada. Quando io uscivo da ragazzo tornavo quando tornavo e se non tornavo lo si sapeva otto ore dopo. Almeno ora possiamo dire di chiamarci quando arrivano a casa degli amici o quando si spostano.Il telefono che i nostri figli hanno in mano può essere uno strumento che ci aiuta a risolvere un pezzo delle paure che abbiamo.

Prof. RisèIo direi piuttosto per nutrirle, perché continuiamo a dare delle rassicurazioni che mezz’ora dopo hanno perso la loro validità, perché mezz’ora dopo è un altro tempo e dobbiamo telefonare un’altra volta e siamo entrati in fibrillazione un’altra volta. C’è uno scrittore tedesco Jungen che parlando delle antenne delle televisioni diceva: “sembrano tanti capelli dritti per la paura”. E’ un po’ così. La televisione ci fa sapere cosa succede nel mondo ma in questo modo non cambia affatto il mondo e aumenta la paura e la tensione universale e ci impedisce di leggere Peguy.

DOMANDANel processo educativo di educere, che è interattivo, non ha mai evidenziato una problematica di genere? In parole povere un padre con una figlia o una madre con un figlio: esiste, a livello terapeutico, a livello di studio, una problematica del genere?

Prof. RisèIl genere è sempre presente. Ognuno di noi è di un sesso o di un altro e certamente la nostra appartenenza di genere, anche perché ha sviluppato una cultura antropologica di genere maschile e femminile, è presente in questa comunicazione educativa, sia nell’educare come nutrire che nell’educare come edùcere. Anche nel nutrire c’è un modo materno e un modo paterno, e anche nel tirar fuori l’altro c’è un modo femminile e maschile , ci sono delle differenze precise e bisogna tenerne conto. E ognuna delle due ha una grande ricchezza e

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una delle cose importanti e interessanti nella famiglia è che ci siano entrambe perché in questo modo il bambino sperimenta tutte e due i generi.

DOMANDALe cose che ha detto lei stasera e le cose dette dai genitori fanno sorgere molte domande.Mi concentro su un paio di domande. La prima che sento molto mia. Molte volte il rapporto con i figli è molto difficile perché spaziano o nell’apatia o nel rivoltarsi per voler tagliare il cordone ombelicale, entrare in dinamica con il padre o con la madre. Molte volte mi domando se ne vale la pena :in alcune cose ne sanno più di noi, perché basta che vadano su Wikipedia e sanno già tutto. Quindi c’è bisogno ancora dell’educazione? Ne vale la pena?Molte volte anche noi genitori riusciamo solo a buttarci sul divano, e fatichiamo molto per superare questo stacco da noi e questo mondo o di apatia o di ribellione.La seconda osservazione che volevo fare riguarda una frase che lei ha citato all’inizio e che mi è piaciuta tantissimo: per educare bisogna educarci. Ecco io vorrei che lei spiegasse meglio cosa significa questa frase che mi pare molto importante. Faccio un’ultima osservazione. Ho già raccontato questo episodio a qualche mio amico. Io ho un ragazzo di 16 anni e una bimba di 4 che spesso ovviamente richiede tutta la nostra attenzione. Una sera stava male, aveva la febbre e mia moglie appesantita dal lavoro, si è messa a curarla. Lei ha detto: “Mamma mi curi per favore con la faccia felice?”. Questo ci ha spiazzato completamente e questa frase ha decisamente cambiato il clima sia verso questa bimba che verso il ragazzo di 16 anni. In questo desiderio di avere la faccia felice c’è un nocciolo di risposta, cioè non basta solo curare, c’è bisogno della faccia felice della mamma.

Prof. RisèCi sono molte manifestazioni di saggezza di questo tipo, di saggezza educativa profonda del bambino che sa che non c’è cura senza la faccia felice. Il bambino mette insieme istintivamente la cura e la faccia felice, per lui è semplice e ce lo dice. Non sempre noi ascoltiamo queste cose che i bambini ci dicono.Ricordo che una volta una signora era venuta a parlarmi di suo figlio disperata perché invece di giocare con i giocattoli che lei gli comprava, lui prendeva tutte le scatole che trovava in giro e ne faceva delle automobili. La signora era disperata e pensava che il figlio fosse pazzo e mi chiedeva di fare qualcosa. Ma i bambini dicono, parlano, loro fanno, poi a volte si stancano, perché molto spesso non li ascoltiamo abbastanza.Detto questo anche noi a volte siamo stanchi ed è giusto che questa stanchezza venga rispettata: nessuno è un superuomo, si può riprendere il discorso anche l’indomani.

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La comunicazione istintuale elementare ha una sua sapienza. “Sono stanco, si va a dormire”: è una comunicazione giustificata che trasmette un sapere “quando si è stanchi, si va a dormire.”Detto questo, educare è faticoso anche perché spesso perdiamo dei colpi importanti e siamo incalzati da un sistema che nel suo insieme non è affatto educativo perché tende complessivamente anche proprio come programma collettivo, sociale, economico a creare delle dipendenze invece che delle autonomie e quindi è essenzialmente diseducativo. C’è un tratto della società occidentale, che è anche la sua debolezza, che è la creazione delle dipendenze. Quindi il sistema lavora contro, noi però dobbiamo educare anche perché dobbiamo educarci, non è solo una scelta altruistica. Nel momento in cui noi abbiamo smesso di educare, abbiamo smesso di educarci e in qualche modo abbiamo chiuso con la vita in quanto trasformazione. Non è che una volta che si arriva ad un certo punto la vita si ferma lì, la vita è trasformazione perché i nostri neuroni muoiono ma le nostre sinapsi continuano a ricrearsi e quindi noi cambiano fino all’ultimo momento. Cosa facciamo di questo cambiamento? Dipende da noi. Se ci impegniamo facciamo qualcosa, altrimenti veniamo agiti dal cambiamento e in qualche modo ci facciamo del male e perdiamo vitalità. Certo educare è faticoso ma non possiamo nemmeno chiederci se ne vale la pena, non abbiamo scelta, dobbiamo farlo se siamo vivi, altrimenti lasciamo che altro prenda il sopravvento su di noi.

Grazie e tutti per tutte queste domande, è stato un incontro molto ricco, molto interattivo. Mi avete molto nutrito ed educato.

Testo non rivisto dal relatore.


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