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21.
a) Il genere epistolare
L’epistola in Grecia
In Grecia, le prime attestazioni della scrittura epistolare si trovano in un passo
dell’Iliade. Nel sesto libro Bellerofonte, bellissimo giovane di cui la regina Anteia
si era innamorata, viene inviato da Preto, marito della regina, presso il suocero
per recapitargli una lettera: questa lettera contiene la condanna a morte di
Bellerofonte, accusato di adulterio; il giovane, ignaro di tutto, diviene
messaggero della sua stessa morte.
La prima lettera dell’antichità è dunque portatrice di morte e di lutto. Lettere di
tal fatta, ossia depositarie di messaggi di morte, sono presenti anche nei tragici
(Euripide, Fedra) e negli storici (Erodoto I 123, VIII 128 e V 35 e Tucidide I 128).
Sembra dunque che in questi autori prevalga una dimensione negativa della
lettera, segno «della diffidenza originaria nei confronti della scrittura; diffidenza
dunque anche verso la lettera» (Avezzù) che a causa della distanza tra i due
interlocutori e della possibile falsificazione pone da subito problemi
sull’autenticità del messaggio.
Questo dissidio tra oralità e scrittura, che caratterizza la cultura greca fin
dall’origine è espresso chiaramente in due opere di Platone, il Fedro e la
Settima lettera. Il filosofo condanna la scrittura, definita disumana, poiché essa
finge di creare fuori dalla mente ciò che solo nella mente può esistere, inoltre
distrugge la memoria. La scrittura viene ritenuta innaturale, perché si situa fuori
da un contesto di rapporti fra persone reali; l’assenza di un reale destinatario
della comunicazione, la rende appunto innaturale e quindi esecrabile. Va
rilevato che medesimi timori e preoccupazioni sono stati espressi dagli uomini
alla fine del ‘400, con l’invenzione della stampa, e nel XX secolo dopo
l’invenzione del computer, a dimostrazione che ogni innovazione tecnologica
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che può influenzare la struttura del pensiero, viene percepita come pericolosa e
destabilizzante (Ong).
L’uso della lettera privata come strumento di comunicazione era raro, poiché la
preziosità del materiale scrittorio, l’ignoranza della scrittura da parte della
maggioranza e le difficoltà di comunicazione rendevano più semplice l’invio di
un messo, che riferisse oralmente il messaggio. Questa doppia possibilità di
comunicazione, orale e scritta, si riflette nel vocabolo stesso con cui si indica il
messaggio: il termine epistolé, di derivazione verbale (epistéllo = inviare), indica
sia il messaggio orale, affidato alla memoria del messaggero, sia quello scritto;
nella lingua latina, invece, il termine litterae, che indica in prima istanza le
lettere dell’alfabeto, è metonimia per indicare la scrittura.
A partire dal IV secolo a.C. si assiste ad una fioritura di testi epistolari che
hanno la caratteristica di essere delle lettere «aperte» ossia destinate ad un
pubblico, anche se il destinatario ufficiale è unico. Di solito sono lettere di
propaganda politica (Isocrate e Platone) o di argomento filosofico e morale
(Epicuro). In questi casi è fuori luogo parlare di epistolari veri e propri, perché le
lettere sono scritte con preciso intento divulgativo e non solo informativo.
Purtroppo fra quelle che ci sono rimaste molte vengono considerate dei falsi,
poiché in età ellenistica, tra il I secolo a.C. e il I d.C., quando avvenne la
codificazione del genere epistolare, vi fu un proliferare di lettere false attribuite a
grandi autori come ad esempio a Platone, ad Aristotele, ad Alessandro Magno,
ad Ippocrate.
Isocrate
La fama di Isocrate, oratore ateniese del IV secolo, è legata alla fondazione, nel
390, di una scuola di oratoria, che Cicerone definisce clarissima quasi rhetoris
officina (De oratore, II 13, 57). Il corpus delle opere di Isocrate che ci sono
pervenute consta di ventuno orazioni e di nove lettere.
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Riguardo alle lettere, così come per le orazioni, numerosi sono i dubbi sulla loro
autenticità.
I destinatari sono tutti re, tiranni, principi o magistrati, l’argomento è
prevalentemente politico. Sebbene siano lettere reali, indirizzate ad un unico
destinatario, spesso il messaggio si avvicina molto alla forma del discorso, del
trattato politico, solo che è più breve e si limita ad un unico concetto o a poche
idee; per questo ci si domanda se le lettere di Isocrate fossero destinate
davvero ai personaggi a cui sono indirizzate o fossero piuttosto delle
esercitazioni o modelli didattici.
Oltre alle lettere di argomento politico ci sono rimaste tre lettere commendatizie,
ossia di raccomandazione, sempre rivolte a personalità pubbliche detentrici del
potere.
Platone
Di Platone, oltre ai numerosi dialoghi e all’Apologia di Socrate, ci sono state
tramandate tredici lettere sulla cui autenticità sussistono numerosi dubbi. Oggi
si considerano certamente autentiche la sesta, la settima e l’ottava, tutte e tre di
argomento politico.
La settima, quella divenuta più famosa, si può considerare una sorta di
testamento del filosofo, poiché egli racconta la genesi delle sue idee politiche, le
esperienze vissute e conclude il testo con una digressione sulla teoria della
conoscenza. Come detto in precedenza questo è anche uno dei due testi in cui
Platone condanna l’uso della scrittura, sebbene per dare efficacia alle sue
obiezioni egli stesso utilizzi questo mezzo di comunicazione:
Ogni uomo che sia serio si guarda bene dallo scrivere di cose serie, per non gettarle in
balìa dell’avversione e dell’incapacità di capire degli altri. In breve, […] si deve
concludere che, allorché si vedano opere scritte di qualcuno, siano leggi di legislatore o
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scritti di qualche altro genere, le cose scritte non erano per tale autore le più serie, se
egli è serio, perché queste stanno riposte nella parte più nobile di lui; se, invece, mette
per iscritto quelli che per lui costituiscono veramente i pensieri più seri, «allora di
certo» non gli Dei, ma i mortali «gli hanno fatto perdere il senno».
(344 C, traduzione R. Radice)
Epicuro
Delle moltissime opere che scrisse, di cui Diogene Laerzio ci ha tramandato i
titoli, poche sono quelle che possediamo. Solo grazie agli scavi archeologici,
effettuati nella metà del XVIII secolo ad Ercolano, ci sono giunti frammenti
papiracei di Filodemo di Gadara, epicureo del I secolo a.C., che riportano passi
delle opere e delle lettere di Epicuro e ampie sezioni del poema Sulla natura,
testo che servì da modello all’opera di Lucrezio.
Con Epicuro ha inizio l’epistola filosofica, intesa come strumento divulgativo in
luogo del trattato, rispetto al quale l’epistola ha un linguaggio più accessibile,
soprattutto per i non addetti alla materia, e racchiude i punti salienti del tema
che l’autore tratta.
L’epistola di argomento filosofico viene indirizzata ad un amico o ad un allievo,
ma in realtà è destinata ad una comunità più ampia che di solito si identifica con
una precisa scuola filosofica di appartenenza. Epicuro è il primo autore greco di
cui ci restano testimonianze scritte di questo scambio epistolare tra maestro e
allievi.
Tre sono le lettere a noi pervenute in cui il filosofo riassume tutto il suo sistema:
la prima, indirizzata a Erodoto, tratta la fisica e la canonica; la seconda, a
Pitocle, affronta i temi dell’astronomia e della meteorologia, infine la terza,
dedicata a Meneceo, riguarda l’etica. La cura formale e stilistica che
caratterizza le epistole divulgative, in particolare la terza, induce gli studiosi a
ritenere che Epicuro pensasse ad una successiva pubblicazione.
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La lettera a Meneceo contiene la parte divenuta più popolare della dottrina di
Epicuro, ma anche quella più spesso criticata nell’antichità, poiché si fraintese il
suo pensiero. Epicuro esorta alla filosofia, alla conoscenza e alla meditazione
dei princìpi che sono a fondamento della felicità; egli individua i quattro
ingredienti («tetrafarmaco») che riescono a liberare l’uomo dalle paure ed
aprirgli la strada verso la ricerca del piacere: non bisogna temere gli dèi perché
essi non intervengono nelle cose umane; non bisogna temere la morte, perché
essa è perdita di sensazioni, per cui gli esseri umani non la percepiscono; non
bisogna considerare indistintamente tutti i piaceri un bene e ogni dolore un
male.
Epicuro saluta Meneceo
[122] Non aspetti il giovane a filosofare, né il vecchio di filosofare si stanchi: nessuno è
troppo giovane o troppo vecchio per la salute dell’anima. […] [123] I precetti che ti ho
continuamente raccomandato mettili in pratica ed esercitali, ritenendoli il principio
fondamentale di una vita felice. Per prima cosa considera la divinità un essere
immortale e beato, come la comune nozione del divino suggerisce, e non attribuire a
essa nulla che sia estraneo all’immortalità o diverso dalla beatitudine […] Gli dèi
esistono: perché la loro conoscenza è evidente; ma non esistono nel modo in cui i più li
concepiscono […] [124] Essi in realtà, dediti soltanto alle virtù loro proprie, accolgono i
loro simili, reputando estraneo tutto ciò che non è tale.
Abituati a pensare che la morte per noi è nulla: perché ogni bene e ogni male risiede
nella possibilità di sentirlo: ma la morte è perdita di sensazione. […] [125] Cosicché è
folle chi asserisce di temere la morte non perché quando sarà presente gli arrecherà
dolore, ma perché è l’attesa che gliene provoca. Il male, dunque, che più ci atterrisce, la
morte, è nulla per noi perché quando ci siamo noi non c’è la morte, e quando c’è la
morte noi non siamo più.
[…] [ 129] Il piacere è il bene primo a noi connaturato: da questo muoviamo per ogni
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scelta e ogni rifiuto e a esso facciamo riferimento […] Tutti i piaceri sono un bene,
perché sono per natura a noi congeniali, ma non tutti sono da scegliere; così come tutti i
dolori sono un male, ma non tutti sono tali da dover essere fuggiti. [130] Conviene certo
giudicare tutte queste cose in base ad una visione opportunamente commisurata dei
vantaggi e degli svantaggi. Perché in certe circostanze il bene può essere per noi un
male, e viceversa il male può essere un bene.
[135] […] Medita dunque queste cose e quelle dello stesso genere giorno e notte, in te
stesso e con chi è simile a te, e non avrai mai turbamento né nel sonno, né da sveglio,
ma vivrai come un dio fra gli uomini: perché in nulla è simile a un mortale un uomo che
viva fra beni immortali.
(Traduzione N. Russello)
Di Epicuro ci sono rimaste anche epistole di carattere privato, purtroppo solo in
forma di frammento, che testimoniano la grande varietà di situazioni, di
argomenti, di registri stilistici che caratterizzano la scrittura epistolare del
filosofo. In esse si passa dai toni affettuosi e consolatori, all’invettiva, dagli
argomenti privati alle questioni finanziarie. Ciò che accomuna la maggioranza
delle lettere è la philía, l’amicizia disinteressata, che da precetto filosofico si
rivela concreta norma di vita: il forte sentimento di amicizia non si manifesta
solo nei confronti degli amici, ma anche verso le loro famiglie.
Queste le ultime parole, nel giorno della morte, scritte al discepolo Idomeneo:
Era il giorno beato e insieme l’ultimo della mia vita quando ti scrivevo questa lettera. I
dolori della vescica e dei visceri erano tali da non poter essere maggiori; eppure a tutte
queste cose si opponeva la gioia dell’anima per il ricordo dei nostri passati ragionamenti
filosofici. Tu, ora, come è degno della buona disposizione che hai avuto da giovinetto
per me e per la filosofia, abbi cura dei figli di Metrodoro.
(Traduzione G. Arrighetti)
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Il medesimo affetto si ritrova in una lettera inviata alla madre per rassicurarla
sulla sua attività filosofica e sul suo stato di benessere:
[…] Pensa dunque, o madre, che noi viviamo sempre felici in mezzo a questi beni, e
fatti animo riguardo a quello che facciamo. Risparmia piuttosto, per Zeus, quegli aiuti
che ci mandi continuamente. Non voglio che ti manchi qualcosa perché io ne abbia di
troppo; ma è meglio che manchi a me piuttosto che a te. E del resto io vivo
comodamente senza che mi manchi nulla, per il denaro degli amici e per quello che mi
manda continuamente il padre, il quale poco tempo fa mi ha mandato per mezzo di
Cleone nove mine. Non dovete dunque ciascuno dei due darvi pensiero per noi, ma
piuttosto star vicini l’un l’altro […]
(Traduzione G. Arrighetti)
La lettera, dunque, è impiegata da Epicuro sia come strumento dottrinale e
catechetico, sia come mezzo per informarsi sulla salute dei suoi cari e sulle loro
attività quotidiane.
L'epistola Roma
L’età imperiale
Nei secoli dell’impero si accentua quella dicotomia, già presente in età tardo
repubblicana, tra lettere informative e lettere prive di tale funzione. Soprattutto
dopo la pubblicazione dell’epistolario di Cicerone, avviene quel processo di
retoricizzazione dell’epistola, che porterà quest’ultima a perdere la sua primaria
funzione informativa e a trasformarsi in importante genere letterario.
Si diffonde l’epistola d’arte, che ha lo scopo di delectare il destinatario, e
l’epistola in versi, entrambe segni di un cambiamento dei tempi e soprattutto
della paura che lettere private venissero intercettate e potessero cadere nelle
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mani dell’imperatore; i letterati, temendo di compromettersi e di inimicarsi i
rappresentanti del potere, svuotano la lettera di contenuti impegnati, in modo
che essa risulti innocua in caso di eventuali intercettazioni.
Si diffondono dunque le litterae litteratae, caratterizzate da una particolare
elaborazione formale e scritte prevalentemente per essere pubblicate. L’intento
editoriale dà luogo ad una attenta rielaborazione stilistica delle epistole ed
all’eliminazione di tutti quegli elementi considerati contingenti come la data di
invio. La conseguenza di questa operazione di restyling crea ai filologi moderni
notevoli difficoltà sia nell’operazione di ordinamento cronologico delle varie
lettere sia nel riconoscimento di quelle reali da quelle fittizie; fino ad ora gli
studiosi si sono basati su questi epistolari «artistici» per ricostruire le
caratteristiche dell’epistolografia latina d’età imperiale, ma oggi il rinvenimento
di un certo numero di lettere papiracee latine, che permettono di ampliare il
quadro d’assieme tradizionale, consente un diverso approccio al problema.
Tra gli epistolari degli imperatori il primo di cui abbiamo notizia da numerose
fonti è quello di Augusto. Tutte le lettere che possediamo ce le ha tramandate
Svetonio, ma notizie di questa raccolta sono presenti anche in autori di età
giulio-claudia, come Seneca il Vecchio. Oltre ad una serie di lettere pubbliche
sono presenti numerose missive private indirizzate ad amici quali Attico,
Mecenate, Virgilio, Orazio e ai più stretti parenti: la moglie Livia, la figlia Giulia, il
figlio adottivo Tiberio. Esse ci mostrano l’immagine meno ufficiale
dell’imperatore, un lato più intimo che contrasta con la figura tramandataci dalla
tradizione; inoltre anche da un punto di vista linguistico testimoniano l’uso di un
impasto linguistico che costituisce una testimonianza preziosa per lo studio del
sermo cotidianus.
Orazio e Ovidio ci hanno lasciato gli unici esempi di epistole in versi
dell’antichità: si tratta in parte di lettere realmente inviate, in parte di epistole
letterarie, i cui contenuti sono molto vari. È importante sottolineare che con
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questi due autori l’epistola si apre alle forme del trattato poetico e a quelle
dell’elegia, mostrandosi uno strumento di scrittura duttile e versatile, capace di
accogliere in sé le più varie forme comunicative. Questa peculiarità consentirà al
genere epistolare di sopravvivere nei secoli e di modificarsi, a seconda delle
esigenze degli scrittori e della società, senza tuttavia perdere le proprie
caratteristiche.
Le Epistulae di Orazio, composte in esametri, sono raccolte in due libri. Il primo ne
contiene 20, pubblicate dallo stesso autore tra il 20 e il 19 a.C.; le lettere sono
indirizzate ad amici e trattano in modo colloquiale i temi della morale oraziana. Il
secondo libro, forse pubblicato postumo, composto tra il 19 e il 13 a.C., contiene
due epistole di argomento letterario, una indirizzata ad Augusto, l’altra a Giulio
Floro, giovane compagno di Tiberio con aspirazioni letterarie; è incerto se attribuire
al secondo libro una terza epistola, quella indirizzata ai Pisoni e denominata Ars
poetica. L’Ars è un trattato di 476 esametri che illustra le teorie peripatetiche sulla
poesia, soprattutto quella drammatica.
Nel componimento proemiale del primo libro, Orazio annuncia di aver
abbandonato la poesia e di essersi rivolto alla filosofia; egli non intende seguire
una scuola in particolare, ma fornire verba et voces quibus hunc lenire dolorem
possis (I 34). Orazio riprende il modello epicureo delle lettere filosofiche, pur non
essendo un filosofo, e dopo aver mostrato, con le Satire, quali siano i difetti degli
uomini, ora si pone come maestro e intende ammonire e insegnare. I temi trattati
sono quelli tipici della morale oraziana: la ricerca del giusto mezzo, l’autàrkeia, la
campagna, come luogo ideale dove trascorrere l’esistenza, in opposizione al
frenetico ambiente cittadino; rispetto alle Satire, però, il tono è più dimesso, il poeta
appare disilluso e il ritiro nell’angulus, luogo protetto e solitario, appare l’unica
soluzione per trascorrere una vita serena. La maggior parte dei componimenti ha
funzione protrettica, si esortano cioè gli amici a seguire la scelta sapienziale di
Orazio, ad intraprendere un cammino di saggezza:
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Orazio, Epistulae
Dimidium facti, qui coepit, habet; sapere aude,
incipe. Vivendi qui recte prorogat horam,
rusticus expectat dum defluat amnis; at ille
labitur et labetur in omne volubilis aevum.
(I 2, 40-43)
Chi bene comincia è a metà dell’opera.
Coraggio, cerca di essere saggio: incomincia.
Chi rimanda l’ora della saggezza è il contadino
in attesa che il fiume defluisca:
ma il fiume scorre e scorrerà veloce
per la notte dei tempi.
(Traduzione M. Ramous)
La colloquialità che caratterizza il primo libro avvicina le lettere ai sermones
oraziani, tanto che in base ad alcune testimonianze di antichi scrittori si è
supposto che Orazio «non intendesse denominare epistulae questi suoi
sermones. In «Epist. II 1, 250 si accenna a sermones e si allude certamente
alle epistulae; Quintiliano (X 1, 94) non conosce epistulae di Orazio; Svetonio
stesso (Vita H. 8) parla solo di sermones» (Scarpat). Tuttavia questi testi
conservano tutte le caratteristiche della lettera: hanno un destinatario, sono
presenti le formule di saluto e di commiato, e il tono intimo e personale le
differenzia da quello mordace e ironico delle Satire; inoltre, non bisogna
dimenticarlo, sono testi in cui si sente fortemente l’influenza della precedente
esperienza poetica di Orazio, che conferisce al tono dimesso e colloquiale del
sermo la musicalità e l’armonia del verso.
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Nel secondo libro Orazio affronta questioni letterarie sostenendo posizioni
contrastanti con l’ideologia augustea, che incentivava la produzione di una
poesia utile e popolare e mostrava una predilezione verso l’epica e il teatro,
considerati i generi migliori per fare presa sul popolo. Nelle prime due epistole
Orazio esprime la sua idea sul ruolo del poeta e affronta la questione del teatro
e della letteratura arcaica.
La rivoluzione neoterica e il callimachismo avevano trasformato profondamente
il gusto letterario di Orazio, il quale non riesce a venire incontro alle esigenze
letterarie di Augusto. Nella lettera a lui rivolta, se da un lato attacca l’ignoranza
del popolo e di una parte dell’aristocrazia, incapaci entrambi di comprendere la
sua poesia raffinata, dall’altro, in segno di stima e rispetto verso Augusto,
ammette di non possedere la vis necessaria per scrivere opere di tal genere.
L’Ars poetica ci mostra invece un Orazio più conciliante nei confronti
dell’imperatore e sembra accogliere il programma di rinascita del teatro,
auspicato da Augusto. Invia così a due giovani aristocratici, in forma di lettera,
alcuni consigli per poter comporre nuove opere teatrali. Nell’epistola
confluiscono insieme alle teorie aristoteliche e ai gusti di Orazio, tutta una serie
di trattati di autori a noi sconosciuti, di cui è difficile rintracciare l’opera.
La soluzione prospettata auspica la nascita di un teatro impegnato e urbano, di
un’opera che conservi gli argomenti del teatro attico arcaico (morale, religione,
politica), all’interno di una forma che risponda ai dettami della poesia
callimachea ed alle regole di unità ed organicità di stampo aristotelico. L’Ars
poetica non vuole essere solo un manuale pratico, ma una vera e propria
dichiarazione di poetica, in cui si mescolano i consigli pratici e i giudizi estetici.
Orazio ritiene che il poetare non sia un’attività come le altre e assegna al poeta
e alla poesia una funzione morale e civile:
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Orazio, Ars poetica
Aut prodesse volunt aut delectare poetae
aut simul et iucunda et idonea dicere vitae.
Quicquid praecipies, esto brevis, ut cito dicta
percipiant animi dociles teneantque fideles;
omne supervacuum pleno de pectore manat.
Ficta voluptatis causa sint proxima veris:
ne quodcumque volet poscat sibi fabula credi
neu pransae Lamiae vivum puerum extrahat alvo.
Centuriae seniorum agitant expertia frugis
celsi praetereunt austera poemata Ramnes
omne tulit punctum, qui miscuit utile dulci
lectorem delectando pariterque monendo.
Hic meret aera liber Sosiis, hic et mare transit
et longum noto scriptori prorogat aevum.
Il fine dei poeti è di giovare, o di dilettare, o di dire a un tempo cose piacevoli e utili alla
vita. Nell’impartir precetti sii breve; che la mente del discepolo li afferri sùbito e li
ritenga tenacemente: tutto ciò ch’è superfluo trabocca dall’intelletto ricolmo. Le cose
immaginate allo scopo di dilettare siano verosimili; né il dramma esiga che si presti fede
a qualsiasi panzana; né dal ventre della strega, che l’ha divorato, estragga il bambino
vivo e verde. Le centurie degli anziani deridono i drammi, che non contengono
ammaestramenti; i cavalieri boriosi disprezzano le composizioni serie. Raccoglierà tutti
i suffragi chi saprà contemperare con l’utile il dilettevole, offrendo spasso al lettore e
insieme istruendolo. Un libro di siffatto genere frutterà ai Sosii buona moneta; varcherà
il mare, e assicurerà per gran tempo la fama al celebrato scrittore.
(Traduzione T. Colamarino)
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Le Epistole di Orazio incontreranno larga fortuna a partire dal Medioevo fino a
tutto il Settecento, non come genere poetico, di cui pochi furono gli epigoni, ma
soltanto per il contenuto morale.
Alla produzione giovanile di Ovidio appartengono le Heroides, ventuno lettere
scritte in distici elegiaci. Le prime quindici sono scritte da eroine del mito ai loro
mariti o amanti, le restanti sei sono lettere di tre innamorati cui seguono le
risposte delle rispettive compagne. Probabilmente le due serie di lettere, scritte
in periodi differenti, sono state poi pubblicate in un unico volume. La definizione
di epistulae viene data dallo stesso Ovidio in un’opera successiva, l’Ars
amatoria, in cui parlando delle proprie opere afferma di essere l’inventore di
questo nuovo genere di epistole in versi:
Ovidio, Ars amatoria
[…] vel tibi composita cantetur Epistola voce;
ignotum hoc aliis ille novavit opus
(3, 345-46)
[…] o recita, se vuoi, con voce modulata una sua Epistola:
era un genere ignoto e l’ha inventato lui
(Traduzione E. Pianezzola)
Effettivamente non si hanno testimonianze di opere di questo tipo precedenti,
anche se Properzio, nel quarto libro delle elegie, scrive una lettera in versi
inviata da al marito Licota, lontano da Roma, in cui si intravedono già alcune
caratteristiche di questa nuova forma epistolare.
Si tratta di lettere fittizie non solo perché mittente e destinatario appartengono
alla sfera del mito, eccetto la poetessa greca Saffo, ma anche perché sono
scritte con il solo intento di sfogarsi: Deianira scrive ad Ercole che è già morto,
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Arianna si trova su un’isola deserta, Penelope scrive ad Ulisse senza sapere
dove egli si trovi. La primaria funzione comunicativa della lettera viene meno, ci
si trova di fronte a dei veri e propri monologhi. Da un punto di vista formale tali
monologhi assomigliano molto alle suasoriae, esercizi utilizzati nelle scuole di
retorica, basati su argomenti fittizi, che servivano a far esercitare i giovani
nell’arte oratoria. Le suasoriae, in particolare, avevano la finalità di consigliare e
di orientare l’azione di un personaggio di fronte ad una situazione difficile. Le
lettere sono dunque il tentativo di queste donne abbandonate di convincere i
loro uomini a ritornare sui propri passi.
Ovidio si appropria dei personaggi e delle storie del mito, dell’epos e della
tragedia e li reinterpreta secondo un taglio elegiaco, offrendoci l’unico esempio
di lettera d’amore dell’antichità, visto che i papiri non ce ne hanno tramandata
neanche una. Tuttavia, al di là del nome epistulae l’unica cosa che accomuna
questi testi con le lettere reali è il tono intimo con cui le protagoniste si rivolgono
ai loro amati.
I Tristia e le Epistulae ex Ponto, sono due libri di epistulae in distici elegiaci,
composte durante il soggiorno forzato di Ovidio nella cittadina di Tomi, in Asia
Minore (8 d.C.). Le cause della relegatio, che diversamente dall’esilio non
comportava la perdita di beni e della cittadinanza, non furono mai ben chiare,
ma è probabile che il poeta fosse stato testimone dell’adulterio di Giulia Minore,
nipote di Augusto, e non lo avesse denunciato all’imperatore, andando così
contro la Lex Iulia de adulteriis che puniva oltre all’azione anche il
favoreggiamento.
Il poeta sente il bisogno di mostrarsi innocente agli occhi dell’imperatore e a
quelli dei propri amici, di giustificare i passati comportamenti, di scindere i
contenuti della propria poesia dalla personale condotta di vita. La distinzione tra
vita e arte è il leitmotiv che attraversa le due raccolte, permettendo ad Ovidio di
mostrarsi un uomo rispettoso del mos maiorum, senza dover rinnegare il
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contenuto delle proprie opere, in particolare dell’Ars amatoria che era stata
colpita maggiormente da giudizi censori. In due passi delle Epistulae (Trist. II
247-50; Pont. 3, 3, 49-50) egli afferma che bisogna relativizzare ciò che lui ha
scritto, che l’Ars non era destinata alle donne perbene, che egli non ha
incoraggiato l’adulterio, né si è mostrato irriverente verso l’imperatore.
In queste opere l’elegia si riappropria della sua funzione originaria di canto di
sofferenze e di lamenti; il poeta cerca di mantenere una propria dignità anche
nel lontano esilio, ma i toni di disperazione e supplica prevalgono sull’orgoglio
ferito; proprio per queste caratteristiche alcuni studiosi sostengono che questi
testi, anche se sono lettere realmente inviate, «appartengono alla storia
dell’elegia; l’epistolografia su di esse ha poco da dire» (Scarpat).
Se da un punto di vista formale questa obiezione è corretta tuttavia i testi
risultano interessanti non solo per l’autobiografia del poeta, ma anche per
delineare meglio i rapporti tra potere e letteratura nella Roma imperiale.
Dalle lettere traspare un mondo di affetti legato alla figura del poeta. Non solo i
più stretti familiari, ma anche gli amici che hanno condiviso con lui molti
momenti vengono elogiati e ringraziati per l’affetto ed il sostegno ricevuto:
Ovidio, Tristia
O mihi post ullos numquam memorande sodales,
Et cui praecipue sors mea visa sua est,
Attonitum qui me, memini, carissime primus
Ausus es adloquio sustinuisse tuo,
Qui mihi consilium vivendi mite dedisti,
Cum foret in misero pectore mortis amor
[…]
Haec mihi semper erunt imis infixa medullis
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Perpetuusque animae debitor huius ero,
[…]
Di tibi sint faciles et opis nullius egentem
Fortunam praestent dissimilemque meae!
(I 5)
O tu che mai dovrò nominare dopo chiunque altro
dei miei compagni, e che soprattutto facesti tua la mia
[sorte
tu che lo ricordo, o carissimo, osasti per primo
[sostenermi
mentre ero stordito dalla condanna con le tue buone
[parole,
che mi desti con tenerezza il consiglio di vivere
mentre nel cuore distrutto vi era il desiderio di morire
[…]
Quello che hai fatto mi sarà per sempre infisso nelle
[più nascoste
midolle e sempre ti sarò debitore di questo mio respiro
[…] Gli dèi ti siano generosi e ti diano una sorte
non bisognosa di alcun aiuto e ben diversa dalla mia!
(Traduzione R. Mazzanti)
I Tristia scritti nella prima fase dell’esilio, sono caratterizzati dall’assenza del
nome del destinatario, perché Ovidio, temendo che le lettere potessero essere
intercettate, non voleva compromettere i suoi più cari amici. Il poeta esiliato
cerca conforto nelle persone care, chiede aiuto agli amici più potenti, affinché
intercedano per lui presso l’imperatore.
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Nelle Epistulae ex Ponto, dove i nomi dei destinatari sono espliciti, è possibile
individuare la rete di relazioni che il poeta aveva costruito a Roma; in questa
raccolta si avverte maggiormente la sua disillusione e la sua stanchezza, le
speranze di una pena meno aspra sembrano svanire lentamente. Il dialogo con
l’imperatore è risultato privo di efficacia ed il poeta decide di mutare strategia ed
indirizzare le lettere soprattutto alle persone vicine al princeps o ai suoi futuri
successori. Uno dei destinatari più frequenti è Cotta Massimo, figlio di Messalla
vicino alla famiglia imperiale. In una lettera a lui destinata Ovidio inserisce un
panegirico ad Augusto, ne elogia i mores e le virtutes, e lo prega di perdonarlo e
di avere pietà di lui:
Ovidio, Epistulae ex Ponto
Parce, vir inmenso maior virtutibus orbe,
iustaque vindictae supprime lora tuae.
Parce, precor, saecli ducus indelebile nostri,
terrarum dominum quem sua cura facit.
Per patriae nomen, quae te tibi carior ipso est,
per numquam surdos in tua vota deos,
perque tori sociam, quae par tibi sola reperta est,
et cui maiestas non onerosa tua est,
perque tibi similem virtutis imagine natum,
moribus adgnosci qui tuus esse potest,
perque tuos vel avo dignos vel patre nepotes,
qui veniunt magno per tua iussa gradu,
parte leva minima nostras et contrahe poenas,
daque, procul Scythico qui sit ab hoste, locum.
(2, 8, 23-36)
18
Perdona, o eroe più grande per le tue virtù del mondo intero, e togli via i giusti colpi
della tua vendetta. Perdona, ti prego, onore indistruttibile del nostro secolo, tu che la
sollecitudine rende padrone dell’universo. Per il nome della patria, che ti è più caro di te
stesso, per gli dèi che non sono mai sordi ai tuoi voti, per la compagna del tuo talamo,
che sola è stata trovata uguale a te e per la quale la tua maestà non è gravosa, e per tuo
figlio, simile a te nell’immagine della virtù, che per le sue qualità può essere
riconosciuto come veramente tuo, e per i tuoi nipoti, degni e del loro nonno e del loro
padre, che avanzano a grandi passi secondo i tuoi ordini, consola anche in minima parte
e lenisci il mio supplizio; dammi un soggiorno che sia lontano dal nemico scitico.
(Traduzione S. Fasce)
Oltre ai lamenti e alle richieste di aiuto le lettere contengono descrizioni
naturalistiche della terra che lo ospita e racconti sugli usi e i costumi del popolo
di Tomi. Spesso il giudizio verso il luogo è molto sprezzante e la terra è definita
barbara e inospitale, soprattutto per le condizioni climatiche:
Ovidio, Tristia
Haec mea si casu miraris epistula quare
alterius digitis scripta sit, aeger eram.
Aeger in extremis ignoti partibus orbis,
incertusque meae paene salutis eram.
Quem mihi nunc animum dira regione iacenti
inter Sauromatas esse Getasque putes?
Nec caelum patior, nec aquis adsuevimus istis,
terraque nescioquo non placet ipsa modo.
(I 3, 1-8)
19
Se per caso ti meravigli perché questa mia lettera sia stata scritta dalla mano di un altro,
è perché sono malato. Malato nelle più lontane regioni del mondo sconosciuto, sono
perplesso persino sulla guarigione. Quale credi sia il mio animo, mentre giaccio malato
in un paese terribile, fra i Sarmati e i Geti? Non reggo al clima; non mi sono potuto
abituare a queste acque, e lo stesso paese, non so come, non mi piace.
(Traduzione S. Fasce)
Il fitto scambio epistolare non produsse tuttavia gli effetti sperati e Ovidio morì in
quella terra straniera tra il 17 e il 18 d.C.
L’epistolario di Seneca, tràdito con il titolo Epistulae ad Lucilium o Epistulae
morales, è composto da 124 epistulae raccolte in 20 libri. Esso tuttavia non
rappresenta tutta la produzione epistolare del filosofo, poiché Gellio ci dà notizia
di un libro XXII di lettere indirizzate a Lucilio e sappiamo anche dell’esistenza di
ulteriori epistole inviate ad altri corrispondenti.
Il tono moraleggiante e didattico dell’epistolario e i contenuti delle lettere,
strettamente connessi a quelli dei dialogi, hanno da sempre dato adito al dubbio
se si trattasse di lettere reali o fittizie. Alcuni studiosi, inclini a considerarle
fittizie, ritenevano che Seneca avesse scelto la forma epistolare solo per una
questione editoriale (forse in concorrenza con il modello ciceroniano) e che
Lucilio fosse soltanto il dedicatario dell’opera e non un vero e proprio
destinatario.
In realtà ormai la critica propende per la soluzione opposta basandosi su varie
componenti strutturali: in primo luogo l’esistenza di un preciso impianto
cronologico, sebbene l’assenza delle date nelle subscriptiones, renda
complesso l’ordinamento delle lettere; inoltre si riscontrano vari elementi che
caratterizzano la lettera privata, come ripetizioni, contraddizioni, riflessioni
intime; infine la presenza nelle lettere della topica epistolare latina, il continuo
riferimento alle epistole inviate da Lucilio, la varietà tematica, oltre gli argomenti
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di carattere morale, e soprattutto l’esistenza di differenze strutturali tra blocchi di
epistole sono considerati ulteriori indizi per dimostrare la veridicità di questo
scambio epistolare.
Tuttavia l’epistolario senecano presenta un’ambiguità di fondo che è possibile
riscontrare anche a livello stilistico, poiché il discorso, anche quando si svolge
con toni familiari ed intimi, non è privo di quella eleganza che è imposta dalla
rielaborazione stilistica attuata in vista della pubblicazione. Del resto l’intento
editoriale viene esplicitato dallo stesso Seneca:
Seneca, Epistulae
Secessi non tanto ab hominibus sed a rebus, et in primis a meis rebus: posterorum
negotium ago. Illis aliqua quae possint prodesse conscribo: salutares admonitiones,
velut medicamentorum utilum compositiones, litteris mando, esse illas efficaces in meis
ulceribus expertus, quae etiam si persanata non sunt, serpere desierunt.
(8, 2)
Mi sono allontanato non tanto dagli uomini quanto dagli impegni e prima di tutto dai
miei impegni personali: sono al servizio dei posteri. Scrivo cose che possano servire
loro; affido alle mie pagine consigli salutari come se fossero ricette di medicamenti
utili; ne ho sperimentata l’efficacia sulle mie ferite che non sono guarite completamente,
ma almeno non si sono diffuse.
(Traduzione C. Barone)
È verosimile che Seneca abbia pubblicato i vari gruppi di lettere in momenti
diversi, ciononostante tutte le lettere sono legate da un filo conduttore grazie al
fatto che fu egli stesso a curarne la raccolta e la revisione editoriale. L’idea di
pubblicare il suo carteggio privato può essergli venuta da raccolte precedenti
come quella di Epicuro, di cui mostra di avere conoscenza diretta, e quella
ciceroniana verso cui si mostra piuttosto critico (Ep. 118, 1-2). Il modello
21
epicureo viene invece elogiato poiché sfrutta in funzione didattica le potenzialità
comunicative dell’epistola, che si rivela un utile strumento di formazione
spirituale:
Seneca, Epistulae
Egregie hoc tertium Epicurus, cum uni ex consortibus studiorum scriberet: «Haec»
inquit «ego non multis, sed tibi; satis enim magnum alter alteri theatrum sumus».
(7,11)
Eccellente anche questa terza affermazione di Epicuro; in una sua lettera a un compagno
di studi: «Io parlo non per molti, ma per te;» scrive, «noi siamo l’uno per l’altro un
teatro sufficientemente grande».
(Traduzione C. Barone)
Seneca è il primo che pubblica personalmente il suo epistolario ed è dunque
consapevole di compiere un’operazione letteraria e offrire ai lettori un genere
nuovo. La consapevolezza dell’originalità della propria opera è espressa
nell’incipit dell’ epistola 15:
Seneca, Epistulae
Mos antiquis fuit, usque ad meum servatus aetatem, primis epistulae verbis adicere «Si
vales bene est, ego valeo». Recte nos dicimus «Si philosophari, bene est». Valere enim
hoc demum est. Sine hoc aeger est animus; corpus quoque, etiam si magnas habet vires,
non aliter quam furiosi aut frenetici validum est.
(15, 1)
Era abitudine degli antichi, in uso fino ai miei tempi, scrivere all’inizio delle lettere «Se
tu stai bene ne sono contento, io sto bene». Giustamente noi diciamo: «Se ti dedichi alla
filosofia, ne sono contento», poiché alla fin fine questo significa stare bene. Senza la
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filosofia l’anima è malata e anche il corpo, se pure è in forze, è sano come può esserlo
quello di un pazzo o di un forsennato.
(Traduzione C. Barone)
La scomparsa della formula canonica della praescriptio modifica la consueta
funzione informativa della lettera, che diviene adesso uno strumento di analisi
della vita interiore, di crescita spirituale sia per il maestro che per il discepolo:
Seneca, Epistulae
Putas me tibi scripturum quam humane nobiscum hiemps egerit, quae et remissa fuit et
brevis, quam malignum ver sit, quam praeposterum frigus, et alias ineptias verba
quaerentium? Ego vero aliquid quod et mihi et tibi prodesse possit scribam. Quid autem
id erit nisi ut te exhorter ad bonam mentem? Huius fundamentum quod sit quaeris? Ne
gaudeas vanis.
(23, 1)
Pensi che ti scriva quanto è stato benevolo con noi l’inverno, così mite e breve, quanto
sia maligna la primavera, quanto fuori stagione il freddo e altre sciocchezze tipiche di
chi non ha argomenti? Ti scriverò, invece, qualcosa che possa essere utile a entrambi. E
che altro se non esortarti alla saggezza? Chiedi quale ne sia il fondamento? Non
compiacersi delle vanità.
(Traduzione C. Barone)
Egli desidera che la sua opera possa essere un modello valido per i posteri, che
possa giovare, trasmettere testimonianze di saggezza pratica. Ogni giorno si
deve meditare su un argomento, l’occasione può anche essere un qualsiasi
avvenimento quotidiano, partendo dal quale bisogna riflettere e giungere a
23
considerazioni più generali, che, alla fine di ogni lettera, verranno sintetizzate in
una sententia morale, pillola di saggezza che va imparata a memoria in modo
che possa essere utile nel momento del bisogno.
La pratica epistolare si rivela dunque rispetto ai dialogi, uno strumento
educativo adatto ai «principianti», a coloro che iniziano a seguire un percorso
filosofico e che non sono subito pronti per affrontare in modo esaustivo gli
argomenti principali della filosofia di Seneca. A differenza del trattato, l’epistola
pone un solo tema al centro dell’attenzione, non è vincolata ad una
argomentazione troppo rigorosa, e, poiché è simile al dialogo, può sostituire
perfettamente la conversatio che si tiene durante il convictus dei sapienti; la
lettera si rivela la forma ideale per porre le basi della relazione educativa tra
maestro e discepolo, essa «diversa per natura e dimensioni dal liber, permette
di affrontare ogni volta singoli argomenti di immediato apprendimento. Mentre il
liber, il trattato, si distingue per una sua esaustiva sistematicità, l’epistula
costituisce un approccio parziale alla verità, si orienta su un singolo aspetto di
essa. Ma anche la discussione dei singoli argomenti delle epistole non è
caratterizzata, come nel trattato, dalla linearità e dal rigore: la lettera tende non
tanto a dimostrare una verità quanto a esortare, a invitare al bene: è un tipo di
letteratura principalmente parenetica» (Rosati).
Si crea dunque uno stretto rapporto tra la forma epistolare e il percorso
educativo di Lucilio. Ma questo procedimento non è un’invenzione di Seneca,
poiché egli ricalca esattamente la tecnica usata nella scuola di Epicuro, che
prevedeva un iter verso la sapienza scandito in tre tappe: in una prima fase il
discepolo acquisiva i princìpi fondamentali, poi affrontava uno studio un po’ più
esteso attraverso la lettura di raccolte di massime e precetti, infine giungeva ad
un approfondimento della dottrina e alla meditazione filosofica. Sempre
seguendo il modello di Epicuro, ma in parte anche di Cicerone, egli assicura a
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Lucilio che, attraverso il loro scambio epistolare, egli diverrà famoso, resterà
nella memoria dei posteri:
Seneca, Epistulae
Exempli Epicuri referam. Cum Idomeneo scriberet […] «si gloria» inquit «tangeris,
notiorem te epistulae meae facient quam omnia ista quae colis et propter quae coleris.
Numquid ergo mentitus est? Quis Idomenea nosset nisi Epicurus illum litteris suis
incidisset? […] Nomen Attici perire Ciceronis epistulae non sinunt. […] Quod Epicurus
amico suo potuit promittere, hoc tibi promitto, Lucili: habebo apud posteros gratiam,
possum mecum duratura nomina educere.
(21, 3-5)
Ti farò l’esempio di Epicuro. Scrivendo a Idomeneo […] diceva: «Se ti interessa la
gloria, ti renderanno più famoso le mie lettere che tutte le faccende di cui ti occupi e per
cui sei onorato». E non ha forse detto la verità? Chi conoscerebbe Idomeneo se Epicuro
non ne avesse scolpito il nome con le sue lettere? […] Le lettere di Cicerone fanno
vivere il nome di Attico. […] La promessa che Epicuro poté fare al suo amico te la
faccio anch’io, caro Lucilio: godrò del favore dei posteri e posso condurre con me fuori
dalle tenebre uomini destinati a una lunga fama.
(Traduzione C. Barone)
Nonostante queste promesse, nell’antichità, le Epistulae ad Lucilium godettero
di poca fortuna, non furono imitate e raramente citate.
L’epistolario di Plinio è composto da dieci libri: quelli da uno a nove contengono
lettere scritte tra il 97 e il 108 d.C. e sono state pubblicate dallo stesso Plinio,
mentre il decimo libro contiene le lettere inviate da Plinio a Traiano e le risposte
dell’imperatore; queste, in prevalenza, risalgono al periodo in cui lo scrittore era
governatore in Bitinia e probabilmente furono pubblicate dopo la sua morte.
25
Come tutti gli epistolari fin qui esaminati anche quello di Plinio pone problemi
sull’ordinamento cronologico e sulla pubblicazione della raccolta. Nella lettera
prefatoria all’epistolario l’autore dichiara di non aver seguito un ordine
cronologico nella raccolta delle lettere, ma di averle raccolte secondo il caso:
Plinio, Epistulae
Collegi non servato temporis ordine […], sed ut quaeque in manus venerat.
(I 1, 1)
Le ho raccolte, senza però attenermi alla successione cronologica […], ma seconda che
ciascuna mi capitava in mano.
(Traduzione F. Trisoglio)
In realtà secondo numerosi studi, inaugurati dal Mommsen, si riscontra, in linea
di massima, un impianto cronologico che solo in alcuni libri viene violato, poiché
l’autore, non avendo un numero sufficiente di lettere da pubblicare, tra quelle
scritte nel periodo di allestimento, ne inserisce alcune precedenti; è probabile
che questa operazione sia stata fatta per i libri VIII e IX. Riguardo alla
pubblicazione si ritiene che i volumi siano stati editi in momenti diversi. Gli
studiosi hanno fatto molte congetture su quale sia stata la reale successione
delle epistole, basandosi sulla maggiore o minore affinità di struttura interna tra i
libri.
Sulla natura dell’epistolario sono stati avanzati gli stessi dubbi sollevati per
quello di Seneca, ossia se si tratti di lettere reali o fittizie; ma come nel caso di
Seneca si deve pensare ad una rielaborazione di lettere reali, in cui tutti gli
elementi considerati contingenti vengono eliminati. Del resto lo stesso Plinio
nella lettera prefatoria ammette di aver pubblicato le epistole paulo curatius
scriptae e di volere modificare quae adhuc neglectae iacent. Il processo di
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rielaborazione è riscontrabile in tutte le lettere contenute nella raccolta, poiché,
rispetto alla canonica tipologia epistolare, presentano alcune differenze: ad
esempio l’eliminazione sistematica dell’appello diretto all’amico destinatario, al
vocativo, nel corpo della lettera, appello caratteristico di Cicerone (ad es. mi
Attice, mi Pomponi, mi frater etc.) e presente nel carteggio con Traiano; oppure,
all’inizio di molte lettere, Plinio fa riferimento alla missiva dell’amico cui si
accinge a rispondere spesso con stilemi che sembrano dimostrare che egli ha
uniformato successivamente gli «attacchi», pur reali, delle sue epistole.
Rispetto agli epistolari precedenti sicuramente ciò che caratterizza la raccolta
pliniana è la dimensione letteraria che non è solo presente come argomento di
conversazione, ma emerge anche dalla cura stilistica dei suoi testi. Il tono è
raffinato, la lingua corretta, l’architettura del periodo armoniosa, la scrittura è
sempre meditata; scompare quella spontaneità tipica delle lettere ciceroniane.
Le missive sono dedicate ciascuna ad un singolo argomento, i destinatari sono
vari, così come varia è la distribuzione degli argomenti nei libri; questa scelta
non risponde ad un criterio di casualità, come espresso nella lettera prefatoria,
ma ad un ordinato disegno, pensato dall’autore, per non annoiare il lettore e
attirare un ampio pubblico.
Il modello di riferimento è Cicerone, ammirato sia come uomo politico che come
letterato:
Plinio, Epistulae
[…] ob hoc maxime delectat auguratus meus, quod M. Tullius augur fruit. Laetaris
enim, quod honoribus eius insistam, quem aemulari in studiis cupio.
[5] Sede utinam, ut sacerdotium idem, ut consulatum multo etiam iuvenior quam ille
sum consecutus; ita senex saltem ingenium eius aliqua ex parte adsequi possim!
(4, 8, 4-5)
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[…] il mio augurato ti fa piacere perché anche Cicerone fu augure. Sei infatti contento
che io nelle pubbliche cariche segua le tracce di colui con cui desidero rivaleggiare nella
produzione letteraria. [5] Realizzerei davvero il mio più alto sogno se, come ho
raggiunto lo stesso sacerdozio, come sono arrivato al consolato, e addirittura molto più
giovane di lui, così almeno da vecchio potessi conseguire anche solo una parte del suo
genio!
(Traduzione F. Trisoglio)
In realtà i due epistolari sono molto diversi sia per gli argomenti trattati, sia per
lo stile che in Plinio è molto più raffinato. Tuttavia Plinio imita alcuni passi o
intere lettere di Cicerone, ne fa esplicita allusione, riprende alcune delle sue
espressioni greche.
Nonostante le differenze con l’epistolario ciceroniano, anche quello di Plinio
presenta molti elementi di carattere biografico, anch’egli rispecchia fedelmente
la vita dei suoi tempi, in cui però l’antico impegno civile, che caratterizzava il
civis di età repubblicana, è venuto meno di fronte all’accentramento del potere
nelle mani dell’imperatore; le disquisizioni letterarie, le lodi di uomini insigni, le
descrizioni di paesaggi naturali sono i temi più frequenti nel suo epistolario, a
dimostrazione del mutato clima politico, di cui Plinio è perfettamente
consapevole:
Plinio, Epistulae
[1] Facis iucunde, quod non solum plurimas epistulas meas, verum etiam longissimas
flagitas. […] Praeterea nec materia plura scribendi dabatur.
[2] Neque enim eadem nostra condicio quae M. Tulli, ad cuius exemplum nos vocas. Illi
enim et copiosissimum ingenium et par ingenio qua varietas rerum qua magnitudo
largissime suppetebat; [3] nos quam angustis terminis claudamur, etiam tacente me
perspicis, nisi forte volumus scholasticast tibi mittere. (9, 2, 2)
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[1] È per me un vero piacere che tu mi chieda con insistenza delle lettere non solo in
gran numero, ma anche di grande lunghezza. […] Dall’altra parte non avevo argomenti
per scriverti di più. [2] La mia posizione è infatti ben diversa da quella di Cicerone, al
cui esempio tu mi richiami. Egli era dotato di un ingegno esuberante e poteva fare il più
largo assegnamento su temi che sia per varietà che per grandezza erano degni del suo
ingegno. [3] Quando siano invece angusti i limiti che mi rinserrano, tu lo vedi bene
anche senza le mie dichiarazioni, a meno che io mi rassegni a spedirti delle lettere che
siano componimenti scolastici.
(Traduzione F. Trisoglio)
La consapevolezza del proprio stile e delle caratteristiche proprie del genere
epistolare emerge in alcune lettere in cui l’autore esprime le sue teorie
sull’essenza e sulla funzione della lettera stessa. Secondo Plinio l’epistola deve
affrontare un unico argomento, e proprio per questo deve essere caratterizzata
dalla brevitas. Da un punto di vista linguistico egli propende per un sermo
pressus et purus («stringato e naturale»).
Il carteggio con Traiano presenta caratteristiche molto differenti rispetto alla
raccolta precedente. In primo luogo il destinatario è unico ed il rapporto che
unisce i due corrispondenti è al contempo affettuoso e ufficiale, per cui le lettere
private sono in realtà di pubblico interesse, inoltre all’argomento letterario si
sostituiscono i problemi relativi all’amministrazione delle province. Anche di
fronte a queste lettere gli studiosi hanno tentato di trovare risposte adeguate al
problema dell’ordinamento cronologico e a quello della pubblicazione del
corpus. A tutt’oggi si è inclini a pensare che le epistole ci sono giunte nell’ordine
con cui furono inviate e che la pubblicazione sia opera di un amico di Plinio,
che, dopo la sua morte, volle rendere omaggio allo scrittore mostrando anche la
sua immagine di uomo pubblico, di «servitore» dell’impero.
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Plinio, Epistulae
C. Plinius Traiano Imperatori
[1] Quinto decimo kalendas Octobres, domine provinciam intravi, quam in eo obsequio,
in ea erga te fide, quam de genere humano mereris, inveni.
(17b)
Gaio Plinio all’imperatore Traiano
[1] Signore, il 17 settembre ho fatto il mio ingresso nella provincia e l’ho trovata
animata da quella deferenza e da quella fedeltà verso di te che ti meriti da tutto il genere
umano.
(Traduzione F. Trisoglio)
Plinio, Epistulae
Traianus Plinio
[1] Cuperem sine querela corpusculi tui et tuorum pervenire in Bityniam potuisses […].
[2] Quo autem die pervenisses in Bithyniam, cognovi, Secunde carissime, litteris tuis.
Provinciales, credo, prospectum sibi a me intellegent. Nam et tu dabis operam, ut
manifestum sit illis electum te esse, qui ad eosdem mei loco mittereris.
(18)
Traiano a Plinio
[1] Sarebbe mio vivo desiderio che tu avessi potuto giungere in Bitinia senza che se ne
dovesse lagnare la tua salute cagionevole né quella del tuo seguito […]. [2] Ho poi
saputo dalla tua lettera, o carissimo Plinio, in quale giorno tu sei giunto in Bitinia. I
cittadini della provincia si renderanno conto, credo, che sono stati oggetto di una mia
speciale considerazione. Infatti anche tu ti impegnerai perché essi vedano chiaramente
che sei stato prescelto come il più idoneo per andare a tenere presso di loro il mio posto.
(Traduzione F. Trisoglio)
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Effettivamente dal carteggio con Traiano emerge un’immagine di Plinio più
come uomo d’azione che come letterato. Lo scrittore parla di problemi concreti
che deve affrontare un amministratore, inerenti la giustizia, le questioni fiscali e
amministrative. I testi risultano così importanti fonti documentarie per la
ricostruzione delle caratteristiche dell’amministrazione imperiale; inoltre, la
presenza di formule stereotipe ci permette di renderci conto delle caratteristiche
delle lettere ufficiali di età imperiale, spesso composte grazie all’uso di formulari
burocratici tipici delle cancellerie.
Nell’epistolario sono presenti anche molte lettere commendatizie con cui Plinio
raccomanda all’imperatore persone conosciute in Bitinia e a lui divenute care; la
richiesta più frequente riguarda la concessione della cittadinanza romana:
Plinio, Epistulae
C. Plinius Traiano Imperatori
[1] Ago gratias, domine, quod et ius Quiritium libertis necessarie mihi feminae et
civitatem Romanam Harpocrati, iatraliptae meo, sine mora indulsisti.
Sed, cum annos eius et censum, sicut praeceperas, ederem, admonitus sum a
peritioribus debuisse me ante ei alexandrinam civitatem imperatore, deinde Romanam,
quoniam esset Aegyptius.
[3] Rogo itaque, ut beneficio tuo legitime frui possim, tribuas ei et Alexandrinam
civitatem et Romanam.
(6)
C. Plinio all’imperatore Traiano
[1] Ti ringrazio, signore, di avere senza indugio benignamente concesso il diritto dei
Quiriti alle liberte di una signora che è congiunta a me da una stretta amicizia, e la
cittadinanza romana al mio medico Arpocrate.
Ma, mentre – in ossequenza alle tue disposizioni – io denunciavo la sua età e la sua
31
situazione economica, fui avvisato da chi era più pratico di me, che io gli avrei dovuto
ottenere prima la cittadinanza alessandrina e poi quella romana, perché si trattava di un
egiziano.
[3] Ti prego pertanto di concedergli la cittadinanza sia alessandrina che romana,
affinché io possa godere del tuo favore in pieno accordo con le norme di legge.
(Traduzione F. Trisoglio)
Plinio, Epistulae
Traianus Plinio
[1] Civitatem Alexandrinam secundum institutionem principum non temere dare
proposui. Sed, cum Harpocrati, iatraliptae tuo, iam civitatem Romanam impetraveris,
huic quoque petitioni tuae negare non sustineo.
(7)
Traiano a Plinio
[1] Mi sono prefisso, in conformità con le disposizioni degli imperatori, di non
concedere senza seri motivi la cittadinanza alessandrina. Ma siccome hai già ottenuto
per il tuo medico Arpocrate la cittadinanza romana, non mi basta l’animo di opporre un
diniego a questa tua seconda domanda.
(Traduzione F. Trisoglio)
L’epistolario ad familiares conobbe da subito una buona fortuna, soprattutto nel
IV secolo, in cui si assiste alla codificazione del genere epistolare ed alla
creazione di canoni di autori da imitare. Il carteggio tra Plinio e Traiano non
ebbe la stessa fortuna nell’antichità, forse perché affrontava argomenti troppo
tecnici legati all’amministrazione imperiale ed evidentemente poco interessanti
per i lettori delle epoche successive.
Il corpus frontoniano, scoperto nel 1815 dal cardinale Angelo Mai, ci è
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pervenuto tramite un codice smembrato in varie parti per cui ci sono molte
lacune ed è difficile evidenziarne la struttura; inoltre alcune lettere sono state
trascritte in luoghi differenti, per cui è difficile stabilirne la reale collocazione,
così come è complesso stabilire se tali ripetizioni e spostamenti siano stati fatti
dal curatore del volume, o, come è più probabile, siano dovuti alle precarie
condizioni della tradizione manoscritta.
Una condizione così precaria del testo manoscritto pone seri problemi sulla
questione dell’ordinamento cronologico delle lettere e sulla loro pubblicazione.
Le caratteristiche stilistiche e la disposizione nel corpus, nonostante si registri,
anche in questo caso, l’assenza della data nelle subscriptiones, fanno
ipotizzare che non sia stato Frontone a pubblicare tutta la raccolta, perché le
sue lettere, a differenza di quelle di Plinio, sono poco rielaborate, più
spontanee. Si ritiene tuttavia che le epistole che trattano problemi retorici e le
epistole ad amicos siano state pubblicate dallo stesso autore.
Le lettere che compongono l’epistolario sono private, di carattere intimo e
testimoniano gli stretti rapporti che Frontone intrattenne con i membri della
famiglia imperiale e soprattutto con Marco Aurelio e con Lucio Vero, dei quali fu
maestro di retorica. Le epistole documentano il percorso educativo dei due
giovani imperatori che mostrano un particolare affetto verso il loro maestro. In
particolare Marco Aurelio, oltre a mostrarsi un ottimo alunno, esprime senza
remore il profondo affetto che lo lega a Frontone, che non solo gli ha insegnato
l’arte retorica, ma lo ha anche educato alla vita e alla verità:
Frontone, Epistulae
Magistro meo
[1] Duas per id tempus epistulas tuas accepi. Earum altera me increpabas et temere
sententiam scripsisse arguebas, altera vero tuere studium meum laude nitebaris. Adiuro
tamen tibi meam, meae matris, tuam salutem mihi plus gaudii in animo coortum esse
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illis tuis prioribus litteris meque saepius exclamasse inter legendum: «o me
felicem!» «Itane», dicet aliquis, «felicem te ais, si est qui te doceat, quomodo
gnåmhn sollertius, dilucidius, brevius, politius scribas?» Non hoc est quod me
felicem nuncupo. Quid est igitur? Quod verum dicere ex te disco.
(3, 13)
Al mio maestro
[1] In questo momento ricevo due tue lettere. In una di esse mi rimproveri e
dimostri che ho composto una massima senza riflettere, nell’altra, invece, cerchi,
lodandolo, di sostenere il mio zelo. Tuttavia ti assicuro per la mia salute, quella di
mia madre e la tua che si destò nel mio animo più gioia alla tua prima lettera e che
nel leggerla esclamai ripetutamente: o me fortunato! Qualcuno mi dirà «sei così
felice perché hai ci ti insegna a comporre una massima con più cura, chiarezza,
brevità e eleganza?» Non è per questo che mi chiamo fortunato. Perché allora?
Perché da te imparo a dire il vero.
(Traduzione F. Portalupi)
Frontone: Epistulae
Domino meo
[1] Quod poetis concessum est o¬nomatopoieîn, verba nova fingere, quo facilius
quod sentiunt exprimant, id mihi necessarium est ad gaudium meum expromendum,
nam solitis et usitatis verbis non sum contentus, sed laetius gaudeo quam ut
sermone volgato significare laetitiam animi mei possim: tot mihi a te in tam paucis
diebus epistulas scriptas easque tam eleganter; tam amice, tam blande, tam effuse,
tam fraglanter conpositas, cum iam tot negotiis quot officiis, quot rescribendis per
provincias litteris distringerere.
(3, 14)
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Al mio signore
[1] Il neologismo concesso ai poeti, cioè il creare parole nuove, per estrinsecare
con più facilità i propri sentimenti, è necessario a me per esprimere la mia gioia. In
effetti le parole usate comunemente non mi appagano; ma la mia esultanza è troppo
viva perché io possa manifestare col linguaggio comune la felicità del mio amico:
che tu mi abbia scritto in così pochi giorni tante lettere composte con tale eleganza
e affetto, con tale dolce e ardente trasporto, quando appunto sei occupato da tanti
affari, da tanti compiti, dal dovere di rispondere a tante lettere nelle varie province.
(Traduzione F. Portalupi)
I rapporti tra i due si raffredderanno, solo per un breve periodo, quando
Marco Aurelio, accostatosi alla filosofia, trascurerà la retorica, in seguito ci
sarà un nuovo riavvicinamento.
Il carattere biografico delle lettere permette di ricostruire, attraverso tutto
l’epistolario, le personalità dei destinatari e i rapporti personali che essi
intrattenevano con Frontone; da questo punto di vista l’epistolario
frontoniano è quello che più si avvicina alle lettere di Cicerone, anche se a
differenza di queste ultime, riflette unicamente un mondo personale ristretto
e chiuso, incentrato sull’insegnamento della retorica e sull’affettuoso
rapporto tra maestro e scolaro. La società, al di fuori della corte imperiale,
non viene mai descritta; il rapporto tra allievo e maestro assorbe tutta
l’attenzione dei due corrispondenti, che si limitano per lo più a discorsi
letterari; ma il mondo della letteratura, se si esclude quello delle scuole di
retorica con la prassi delle esercitazioni assegnate agli allievi, non emerge,
come accade invece nell’epistolario di Plinio, nella sua complessità e nelle
sue articolazioni.
35
Frontone, Epistulae
Ave mi magister optime
[1] Scio natali die quoiusque pro eo, quoius is dies natalis est, amicos vota suscipere;
ego tamen, quia te iuxta ut memet ipsum amo, volo hac die, tuo natali, mihi bene
precari. Deos igitur omnis, […] mihi votis advoco […] Minervam genibus nixus obsecro
atque oro, si quid ego umquam litterarum sciam, ut id potissimum ex Frontonis ore in
pectus meum commigret.
[3] Vale, mi dulcissime et carissime magister. Rogo, corpus cura, ut, quom venero,
videam te. Domina mea te salutat.
(3, 10)
Salute, mio ottimo maestro
[1] So che gli amici, nel giorno della nascita di qualcuno, fanno voti per colui di cui
quel giorno è il compleanno; io invece, poiché ti amo come me stesso, voglio in questo
giorno del tuo compleanno rivolgermi un augurio. Dunque ogni divinità […] io imploro,
[…] prego e scongiuro Minerva, se mai io possa conoscere un po’ le lettere, che, questo
specialmente, passi dalla bocca di Frontone nell’animo mio.
[3] Addio, mio dolcissimo e carissimo maestro. Abbiti cura, ti prego, perché, quando
verrò, ti possa vedere. La mia signora ti saluta.
(Traduzione F. Portalupi)
Domini meo
Omnia nobis prospera sunt, quom tu pro nobis optas; neque enim quisquam dignior
alius te qui a dis quae petit inpetret; nisi quod ego cum pro te precor; nemo alius te
dignior est pro quo impetretur. Vale, domine dulcissime. Dominam saluta.
(3, 11)
36
Al mio signore
Tutto mi è propizio se tu mi fai gli auguri, e nessun altro è più degno di te di ottenere
dagli dèi ciò che chiede; tranne me quando faccio voti per te: non c’è nessun altro di te
più degno in grazia del quale si sia esauditi. Addio, carissimo signore. Saluta la mia
signora.
(Traduzione F. Portalupi)
Cicerone e Plinio sono gli autori di epistole a cui Frontone fa esplicito
riferimento o velata allusione, attraverso la ripresa di frasi, l’imitazione di alcuni
pezzi di lettere, l’emulazione di alcuni passi. Da un punto di vista stilistico è
notevole la cura formale con cui sono redatte le sue lettere, «ma quello che più
colpisce nelle lettere di Frontone, così attentamente costruite, letterariamente
bilanciate, cesellate al bulino e lavorate al mazzuolo in ogni parola, è
l’apparenza di semplicità e la delicatezza degli affetti» (Portalupi).