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Op

Piem

onte

O s s e r v a t o r i o

Marzo 2013 Adattamento da una foto di Maurizio Balestrieri

Periodico indipendente di politica e cultura

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Sommario

Partiamo dalla bella foto in coperti-na di Maurizio Balestrieri - Si salvi chi può - che abbiamo un po’ “stirato” per adattarla alla pagina. Sia la foto che l’adattamento ben rappresentano la situazione politica sociale economica che stiamo vi-vendo. Continuiamo a credere che questa situazione non sia causata da un destino ineluttabile, ma dalla mancanza di una leadership ovvero da precise incapacità della classe politica ed in particolare da chi, anche se solo numericamente, ha vinto le elezioni. Anche in que-sto numero come sempre, cerchia-mo di indagare e portare allo sco-perto i limiti di questo Paese e di chi dovrebbe governarlo quando, a quanto pare (diversamente da tutti gli altri Paesi) vincere le elezioni sembra esser diventata… una di-sgrazia. Così in questo numero par-tiamo da alcune riflessioni sui moti-vi che hanno portato all’impaluda-mento di Bersani e del PD a segui-to delle recenti elezioni dal titolo: Bersani e il PD: orgoglio e pre-giudizio. Segue un interessante scritto sul film I miserabili tratto dall’omonimo libro di Victor Hugo con un interessante parallelo fra la Francia di allora e l’Italia di oggi. Segue un ampio reportage sulla Burocrazia, l’idea ce l’ha data un

direttore regionale che si definisce “orgoglioso di essere un burocra-te”. La analizzeremo nel suo evol-vere nei secoli in cui si è sviluppata sino a dimensioni insostenibili, tan-to da mettere in crisi anche la so-cietà civile. Dalla storia quindi, per passare ad alcuni Esempi pratici per poi citare Ciryl Northcote Parkinson, Silvio Berlusconi (Parlamento, democrazia e buro-crazia), Beppe Grillo, Quando la burocrazia uccide, Burocrazia e totalitarismo, per concludere con i Pink Floyd, Ivan Illich e Char-lie Chaplin ed in ultima pagina: Alcune regole della burocrazia. Da questo tema siamo passati poi al quarto capitolo della descrizione dei fattori che hanno portato alla egemonia della civiltà occi-dentale; questa volta è il turno della medicina. Poi passiamo ai prof. che collabora-no con OP: l’ormai consueto artico-lo di politica estera di Riccardo Manzoni, e quello di Gilberto Borzini. Dalla Regione Piemonte le proposte di Progett’azione e un paio di articoli sulle province: Quanto guadagna un consiglie-re provinciale di Alessandria ed uno studio sulle province del sud Piemonte di Cristina Bargero (oggi deputato del PD).

Come si può governare un paese che ha 246 varietà di formaggio? Charles De Gaulle (1890 - 1970)

(n.d.r. In Italia le varietà di formaggio sono oltre 300…)

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Bersani e il PD: orgoglio e pregiudizio

Ancora una volta la nostra classe politica sta mostrando tutti i suoi limiti. In particolare i “non” vincitori del PD si trovano impantanati in una palude che finirà per inghiottirli. La palude però non è stata creata dal destino cinico e baro, non è una questione di sfiga, ma è la lineare conseguenza di un atteggiamento sbagliato o più semplicemente di errori commessi. Non vogliamo fare i cronisti esperti a scoprire gli errori solo e sempre dopo che si sono appalesati; se guardate le edizioni passate OP di cui riportiamo coper-tine e certi passaggi scritti in tempi non sospetti, forse qualche antici-pazione la potrete trovare su come poteva finire. Dal nostro punto di vista la Politica è anche una questione di metodo e chi fa politica da tanto e di profes-sione dovrebbe saperlo: va bene criticare le posizioni politiche, va benissimo l’ironia o la battuta, ma una delle caratteristiche di certa sinistra (ma non solo), è sempre stata quella di demonizzare i nemi-ci. Berlusconi è il caso più eclatan-te. Ma quanti altri hanno subito le invettive personali di PD ed estre-misti di sinistra. Al di là del buon gusto questo, cre-diamo, sia politicamente un errore. Un partito, una organizzazione, una istituzione non sono persone che rappresentano solo sé stesse, i pro-pri umori, anche se, per quanto ci riguarda il principio dovrebbe vale-re anche per gli individui. Secondo il vecchio adagio - Mai dire mai – può capitare a tutti di aver bisogno proprio di quelle per-sone che si trovano su posizioni diverse, anche antitetiche rispetto alle nostre (è ironico o saggio il Pannelliano detto: non ci sono per-versi ma solo diversi…?) Quando i giudizi si fossilizzano in pregiudizi creano una prigione so-prattutto a chi li coltiva. Che il tempo passa e cambia in continuazione la realtà, è una ba-nalità che è a tutti arcinota, solo degli arroganti ed anche un po’ superficiali si cullano nella certezza che per sempre in futuro potranno

fare a meno di… Se una persona, è libera come è libero Berlusconi, o addirittura è eletta in Parlamento come è eletto Berlusconi, significa che, per le vi-genti leggi ha diritto a godere di quella libertà e relativo rispetto e di assumere quel ruolo. Punto. Certo è legittimo additare le con-traddizioni, il cattivo esempio, sfruttare anche strumentalmente tutti i limiti degli eletti o di chi ha un ruolo pubblico, degli avversari politici, ma questo attiene alla le-gittima comunicazione o propagan-da politica. Altro è prendere poi atto dei risul-tati elettorali che detta propaganda produce, se ne produce, risultati che comunque sono espressione del popolo italiano: vien da dire è la Democrazia, bellezze del PD! Pretendere che la propria critica, giusta o sbagliata che sia, assuma i connotati di un comandamento divino, imprescindibile e indiscutibi-le al punto di mandare in malora uno stato piuttosto che derogarlo ci pare, per così dire, poco laico. Il pregiudizio, ossia il giudizio fatto prima, ma messo sempre davanti a ogni scelta per renderlo totalizzan-te ed esclusivo di ogni altra possibi-lità, porta a rendere impossibile qualunque tipo di relazione e va usato con estrema cautela e parsi-monia. Accadeva con Almirante reo di rappresentare col suo MSI i fascisti e, oggi, con Berlusconi sal-vo poi scoprire da certe indagini che politici anche vicini al PD, per conto dello Stato, hanno trattato e stretto accordi persino con la Ma-fia; ma con Berlusconi: mai!. Se il miliardario commette un reato venga perseguito, se il reato è gra-ve venga rinchiuso nelle patrie ga-lere, gli venga interdetta l’attività nei pubblici uffici, ma sinché ciò non accade, che senso ha la discri-minazione politica, che è altro ri-spetto alla legittima critica. Ci pare che quello di Bersani sia un caso di infantilismo politico, o peg-gio: paura; tipici di chi vive la poli-tica come una guerra fra i buoni e i cattivi che sono sempre, ovviamen-te, gli altri.

Quando la lotta politica trasforma il giudizio in pregiudizio tutto diventa difficile...

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E’ l’infantilismo o la paura di chi non riuscendo a battere il “nemico” sul piano politico lo combatte sul piano personale, producendo ulte-riori danni visto che, a forza di cri-minalizzare in un perenne grido al lupo, anche i peggiori scandali scompaiono, ahimè, nell’assuefa-zione e nell’indifferenza specie in periodi di crisi economica in cui Bunga bunga o compravendita di parlamentari sono poca cosa per chi chiude bottega o perde il lavo-ro. Elezioni docet. Chi crede ancora che processi e delegittimazione danneggiano poli-ticamente il Cav? E come giudica il PD gli elettori del centro-destra che su per giù sono numericamente prossimi a quelli della coalizione di sinistra? tutti elettori del diavolo? tutti corrotti come il leader? tutti pirla? Un terzo di Italia di pirla insomma. Questa è la logica conseguenza a cui porta il giudizio degenerato in pregiudizio. Che senso ha creare suggestioni di diversità, vera o presunta poco importa, che si scontrano poi con la dura realtà? Da sempre in politica, ma non solo, si pedala con le bici-clette che si hanno, non con quelle che si vorrebbero avere.

Il risultato è che oggi, con buona pace dell’interesse nazionale, il vin-citore, sia pur solo numerico, delle elezioni non può stringere alleanze con Berlusconi senza perdere più che la faccia. E gli è andata di lusso con Grillo di cui ha avuto bisogno sin dalla sua prima affermazione alle politiche. Siamo certi che se Bersani avesse potuto governare senza Grillo per qualche anno, la politica di crimina-lizzazione nei suoi confronti sareb-be proseguita sino alla distruzione del “nemico”. Matteo Renzi, altra pasta e altra intelligenza per fortuna del PD ha, sia pur di striscio rischiato anche lui. Per la grave colpa di essersi candidato alle primarie si è beccato del fascistoide e la minaccia “Si farà male…” , senza parlare delle invettive di quando osò andare ad Arcore a parlare con Berlusconi o, più banalmente, di quando nella campagna delle primarie “strizzava l’occhio” all’elettorato di centro de-stra che, pensate un po’, rischiava di andare a votare alle primarie per lui: ma che scandalo! Pensate se l’avessero fatto, magari votandolo anche alle politiche… Capisco che i vecchi “demicristi” non sono mai stati un esempio per

il vecchio Pci e i suoi posteri, ma Bersani ha mai visto Peppone e don Camillo? Lo sa che per vent’-anni la DC ha governato dialogan-do con comunisti Stalinisti, di nome e di fatto, e spesso e volentieri sono stati supportati dai fascisti di Almirante? E sa che le BR hanno fatto trovare il corpo di Aldo Moro che perseguiva il Compromesso storico a metà strada fra via delle Botteghe Oscure sede del Pci e piazza del Gesù sede della DC. Bersani ha citato Vasco Rossi che nelle sue canzoni accenna ad anda-re avanti fregandosene dell’orgo-glio. Ma se così vorrà fare, lo dovrà fare non con Grillo, ma con il PDL, lo sappiamo che è dura ma “chi è cagion del proprio male pianga sé stesso…”. Pensi a cosa deve essere stato per il miliardario egocentrico, edonista, egoista, arrogante, presuntuoso Berlusconi, baciare in pubblico la mano del “beduino”… Gheddafi, eppure l’ha fatto… già ma è di un’ altra pasta. Se Bersani fosse attaccato alle isti-tuzioni come Berlusconi al business saremmo a cavallo. Ma poi davvero Bersani crede di non perdere la faccia chiedendo il sostegno di Grillo tanto quanto se lo chiedesse a Berlusconi, dopo quanto gli ha detto? Citiamo (dal blog di Grillo) "Fascisti del web, venite qui a dirci zombie" "Con Grillo finiamo come in Grecia" "Lenin a Grillo gli fa un baffo" "Sei un autocrate da strapazzo" "Grillo porta gente fuori dalla de-

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mocrazia" "Grillo porta al disastro" "Grillo vuol go-vernare sulle ma-cerie" "Grillo prende in giro la gente" "Nei 5 Stelle poca democrazia” "Grillo fa promes-se come Berlu-sconi" "Grillo dice cose sconosciute a

tutte le democrazie" "Grillo? Può portarci fuori da Euro-pa" “Basta con l’uomo solo al comando, guardiamoci ad altezza occhi, la Rete non basta" "Se vince Grillo il Paese sarà nei guai" "Siamo di gran lunga il primo parti-to e questo vuol dire che siamo compresi. Perché a differenza di quello lì che urla, noi ci guardiamo in faccia, noi facciamo le primarie, stiamo tra la gente" "Indecente, maschilista come Ber-lusconi" "Da Grillo populismo che può di-ventare pericoloso" Non saper controllare quando la critica diventa pregiudizio è grave, specie se poi l’insultato non è facil-mente “comprabile” come certa politica ci ha abituato, per cui basta concedere uno strapuntino a risar-cimento della campagna diffamato-ria. Anche questa è vecchia politi-ca. Ed anche in questo pare che Grillo sappia distinguersi dal vec-chio. E non è per lui una banale questio-ne di rancore, vendetta ma di sem-plice rispetto del prossimo, della diversità politica. Può apparir contraddittorio ma la pregiudiziale del PD al PDL è politi-camente sbagliata quanto politica-mente corretta è quella del M5S al

Pd per il semplice fatto che per PD e PDL la governabilità è un valore, è uno storico valore sul quale han-no fondato decenni di vita e lotta politica, per il M5S no, anzi in que-sti pochi anni di vita, di fatto ha sempre sostenuto la rivoluzione: chiamatela come volete, ma di questo si tratta, e quel che è peg-gio o meglio, è che i tempi sembra-no propiziarla… Ed entrambe PD e PDL hanno di fronte lo vogliano o no un “nemico” (sì nemico, non avversa-rio) comune e possono fare solo due cose: combatterlo insieme o assecondarlo alleandosi unilateral-mente alle sue regole. Non ha politicamente spazio e rite-niamo possibilità di successo una contrapposizione separata. Se il PDL ha chiaro cosa fare, pare che il “cacasenno” PD sia al solito incerto; domanda a Bersani: ma quando insultavi Grillo scherzavi o dicevi sul serio? Se scherzavi eri pirla allora, se dicevi sul serio sei pirla oggi che chiedi il suo appog-gio. Questo Pd di Bersani non solo è

affetto da pregiudizio, ma è an-che orgoglioso: provasse a fare la fila davanti alle mense pubbli-che col figlioletto per mano per sentire le emozioni vagamente evocate da “Ladri di biciclette” o a cercare fra gli scarti della ver-dura alla chiusura dei mercati con la stessa vergogna provata da “Umberto D.” col suo cagnoli-no che reggeva il cappello per chiedere la carità, forse allora

capirebbero che cos’è l’orgoglio, altro che chiedere l’appoggio di Berlusconi. Ed al “duro e puro” Grillo diciamo attenzione, capiamo che fa effetto l’insulto, fa uomini duri, magari crea consenso: anche gli sciocchi che si fanno suggestionare da un insulto votano, e adesso te lo puoi permettere con la tipica arroganza spaccona delle gioventù (politica), ma all’occhio Beppe, forse anche tu ti stai creando una gabbia, anche per te vale il detto mai dire mai… Le rivoluzioni hanno sempre richie-sto un tributo di sangue e attenzio-ne a brandir la spada, perché come sta scritto sull’asse di spade: Non ti fidar di me se il cuor ti manca... Appunto.

Dal film ladri di biciclette

A sinistra dal film - Umberto D -

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A coloro che danno per scontati la prosperità e il benessere – e tutti noi, che lo si ammetta o meno, lo facciamo – farebbe bene guardare il film Les Misérables, che vede Russell Crowe recitare la parte del-l’inflessibile ispettore Javert (per non menzionare la straordinaria interpretazione di “I Dreamed A Dream” da parte di Anne Hatha-way). Il film dipinge in modo bril-lante un livello di povertà che nes-suno di noi ha mai conosciuto. Do-vremmo ben riflettere su questo e sulle ragioni per cui noi, oggi, non viviamo una tale condizione di po-vertà (suggerimento: non è grazie al Congresso). Quelle immagini sono un efficace rimprovero per tutti i nuovi primiti-visti di destra e di sinistra che van-no esaltando il ritorno a vite più semplici, la decrescita, e che pre-tendono di mettere un freno al no-stro utilizzo di ogni bene, dal gas all’acqua e al cibo. Questo film è un monumento a ciò che significa ve-ramente la povertà. I risultati non sono romantici, né tantomeno salu-tari. Sono volgari, dolorosi, crudeli. Non sorprende il fatto che quella povertà fosse accompagnata da una inesorabile soppressione della libertà individuale da parte del go-verno, a dimostrazione di quanto, in questo mondo, povertà e statali-smo siano direttamente correlati. La povertà, a quei livelli, è qualco-sa che facciamo veramente molta fatica a comprendere. Ma l’autore del romanzo, Victor Hugo, la vide intorno a sé nella Parigi in cui vive-va. Scrisse il romanzo nel 1832, durante un periodo economicamen-te molto difficile per la Francia. La moneta veniva svalutata. I raccolti non erano soddisfacenti. La care-stia dilagava. Un’epidemia di colera si era abbattuta su Parigi dopo che la città era stata invasa da immi-granti di altre nazioni dell’Europa, da cui erano stati banditi. La situazione era particolarmente difficile nelle città come Parigi. Le soluzioni politiche del tempo favori-rono da una parte le istanze reazio-narie per il ripudio dei principi re-

pubblicani e la restaurazione della monarchia e dall’altra la tendenza rivoluzionaria per l’espropriazione dell’aristocrazia. Una terza alterna-tiva verrà presentata più tardi dal grande pensatore Frederic Bastiat, il quale sostenne l’idea del laissez faire – cioè, la rimozione completa del governo dall’equazione e l’aper-tura all’iniziativa privata. Il film inizia immergendo lo spetta-tore nel mezzo di questa situazio-ne, durante il ventesimo ed ultimo anno della durissima punizione in-flitta al carcerato Jean Valjean per aver rubato un singolo pezzo di pane. Viene finalmente liberato dal lavoro forzato ma gli viene imposta la libertà vigilata. Javert giura che farà rispettare questa imposizione a tutti i costi, e così farà effettiva-mente fino alla fine. La legge è la sua devozione. Lo stato che crea e fa rispettare la legge, e per il quale lui lavora perché questo è ciò che dà significato alla sua esistenza, è l’arbitro della giustizia e questa giustizia deve essere cieca, senza riguardo alle circostanze. L’ironia ci colpisce immediatamen-te. Venti anni di duro lavoro e un vita intera di libertà vigilata per un furto di poca importanza? Sicura-mente la pena non è proporzionata al reato. Anzi, è crudele e priva di senso. E qual è questa legge, che vanta la moralità più elevata? E’ la legge che tassa, che ruba il potere d’acquisto del denaro, che uccide in guerra, che porta miseria alla popolazione, che permette alle elite di vivere nel privilegio alle spese della popolazione. Lo stato ruba molto più di qualche avanzo di pa-ne. La propria fonte di sostenta-mento è il furto della proprietà del-le persone, ma anche delle loro vite, delle loro speranze, e del loro futuro stesso. Come scriverà poi Bastiat, l’inten-zione originale della legge è quella di proteggere la proprietà e la li-bertà, ma lo stato la sottomette al proprio arbitrio e ne fa uno stru-mento di rapina. Nel farlo, la legge perde ogni moralità, facendo ri-spettare ordini che lo stato stesso

I Miserabili di Victor Hugo Il film

Le grandi opera hanno sempre qualcosa da insegnare, anche a secoli di distanza dalla loro pubblicazione

L’attore Russel Crowe nel film interpreta l’ispettore Javert

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viola costantemente nel normale corso del suo agire. Nessun agente dello stato produce ricchezza: sfrutta la propria posizione di privi-legio a spese di tutti gli altri. Javert stesso ne è un buon esem-pio. Vive nell’abbondanza, circon-dato di povertà. Veste bene in mezzo a persone con abiti a bran-delli. Gode di sicurezza in un mare pieno di persone che vivono alla giornata e non sanno cosa il doma-ni porterà loro. E’ l’ipocrisia perso-nificata, ma mai se ne rende conto perché tutta la sua fede e la sua moralità sono legate ad una istitu-zione chiamata stato. Immagina sè stesso come uno strumento di giu-stizia, quando in realtà è la prima fonte di ingiustizia. Comunque, Javert non si placa. Dà la caccia a Jean Valjean in ogni dove, trattandolo come un crimina-le, perseguendolo ovunque vada, determinato a vederlo punito non solo per il suo piccolo furto, ma soprattutto per la sua oltraggiosa resistenza allo stato con la violazio-ne della libertà vigilata. Javert è convinto nel profondo del cuore che questa ricerca non sia persona-le. Si tratta di portare a termine il suo lavoro, cioè far rispettare la legge. Secondo il suo modo di pen-sare, la legge è sempre valida – indipendentemente da ciò che l’in-tuizione morale possa suggerire – altrimenti la sua vita, e lo stato a cui è così legato, sarebbero una bugia totale, prospettiva non sop-portabile. Non ho potuto vedere questo meraviglioso film senza pensare a tutti i modi con cui lo stato e i suoi agenti, oggi, fanno esattamente le stesse cose di Ja-vert – grazie ad una devozione completamente insensata all’idea che ciò che dice la legge sia sem-pre giusto. Decine di milioni di per-sone potrebbero fumare marijuana in modo inoffensivo e sicuro, ma poiché la legge dice che la sua pro-duzione, la sua distribuzione e il suo consumo sono illegali, ogni giorno le persone vengono arresta-te, depredate, e buttate in una cel-la. La legge dice che così deve es-sere. Questo è solo la superficie dell’assurdità delle leggi. La legge persegue la cosiddetta pirateria digitale, attuata con il download, che non danneggia nessuno. Ogni attività imprenditoriale, ogni setto-re della società, sono soggetti ad

una pletora di obblighi e restrizioni che fanno apparire il regime napo-leonico come un esempio di libertà. Basterebbe provare ad intrapren-dere un progetto imprenditoriale per scoprire la selva infinita di re-golamentazioni e tasse, limiti e ob-blighi che governano ogni aspetto della nostra vita. Lo stato si prende fino al 40% del nostro reddito e ciò che non può rubare lo prende in prestito dal nostro futuro. Ed proprio lo stato osa esigere il rispetto della giustizia e della pace tra la popolazione, proibendoci di rubarci l’un l’altro, e di usare la minaccia della violenza per ottenere i nostri obiettivi. Lo stato è il meno obbediente alla leg-ge di ogni istituzione nella società. Sotto queste condizioni, tutti noi facciamo ciò che Jean Valjean fece: vedendo che l’obbedienza alla leg-ge significa perdere ogni speranza di felicità, scegliamo la vita. Così facendo, siamo consapevoli che stiamo commettendo un atto rivo-luzionario, a nostro piccolo modo. Siamo consapevoli che se veniamo scoperti, pagheremo un caro prez-zo. Ma corriamo il rischio, in ogni caso, perché siamo sicuri dei nostri diritti, perché è innato credere che dovremmo essere liberi, e perchè c’è così tanto da guadagnare dicen-do no a quelli che suppongono di avere la proprietà sulle nostre vite. La maggioranza di noi non affronta la decisione se evadere o meno dalla libertà vigilata. Ma ogni giorni facciamo cose che sappiamo non piacere ai nostri governanti e che verrebbero punite se sapute. Ten-tiamo di tenerci più reddito e liber-tà possibili. Non solo, ci è evidente, così come era evidente a qualsiasi popolazione che abbia vissuto sotto un dispotismo, che l’obbedienza totale è roba da babbei (suckers). Nella Francia del 19esimo secolo, e nell’America del 18esimo secolo, la convinzione che esistesse una linea che il governo non dovesse mai oltrepassare diede vita a ciò che è conosciuto come il movimento libe-rale di cui sia Victor Hugo che Fre-deric Bastiat erano esponenti. Hu-go diede poesia e teatro. Ma fu Bastiat che trovò le risposte nella forma della libertà economica. Prima che Hugo scrivesse Les Misé-rables (1862), Bastiat scrisse The Law (1849) — un brillante trattato in cui spiegò che la risposta ai pro-

blemi economici e sociali non fosse una forma diversa di governo – legislature repubblicane, folle de-mocratiche, e monarchi autocratici possono essere tutti sistemi op-pressivi – ma fosse invece togliere il potere al governo e darlo alle persone nella loro capacità di esse-re proprietari e responsabili. Nel film vengono mostrate due vie per il cambiamento. La prima è la rivoluzione armata. Fallisce – non solo nella finzione del romanzo, ma anche nella vita reale con la Rivolta di Parigi del 1832. La seconda stra-da è più ingegnosa e delicata. Jean Valjean mostra un semplice atto di compassione nei confronti di Ja-vert. Javert ne è scosso, e realizza che se questa misericordia è vera e giusta, la sua vita e il suo lavoro sono sbagliati e devono quindi fini-re. Questa rivoluzione morale – una persona alla volta – è la via più efficace. Il film Les Misérables vale la pena di essere visto perché – non so se intenzionalmente o meno – pone l’attenzione sulla grande contesa tra libertà e prosperità, da una parte, e oppressione e povertà dall’altra. Dovrebbe essere visto accompagnato da una rilettura de The Law di Bastiat, che aggiun-ge precisione legale ed economica alla travolgente descrizione della condizione umana da parte di Hu-go. Entrambi servono da promemo-ria: questa battaglia non avrà mai fine. (Articolo originale di Jeffrey Tu-cker su Lfb.org - Traduzione a cura di Niccolò Viviani e apparsa origina-riamente sul sito dell’associazione Ludwig Von Mises Italia)

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Burocrazia peggio dell’AIDS: anche se la conosci non la puoi evitare!

Tante volte sentiamo parlare di burocrazia, ma cosa significa effet-tivamente questo termine sia nella sua declinazione semantica che nel suo significato storico e sociale? Partiamo dalla definizione: per bu-rocrazia si intende l'organizzazione di persone e risorse destinate alla realizzazione di un fine collettivo secondo criteri di razionalità, im-parzialità, impersonalità. Il termine che fu definito in manie-ra sistematica da Max Weber indica il "potere degli uffici". Un potere o, più correttamente, una forma di esercizio del potere, che si struttura intorno a regole impersonali ed astratte, procedi-menti, ruoli definiti una volta per tutti e immodificabili dall'individuo che ricopre temporaneamente la funzione assegnata. L'etimologia ibrida del termine, dal francese bureau : "ufficio" connes-so al greco krátos: "potere" ne ri-vela l'origine relativamente recente e la derivazione francofona. Un po’ di storia della burocra-zia Dal punto di vista storico, tuttavia, l'introduzione sistematica di una organizzazione amministrativa sud-diviso in numerosi uffici e basato su procedure in qualche modo uni-ficate risale, nel mondo occidenta-le, manco a dirlo, all'imperatore Romano Claudio nel I secolo d.C. che introdusse una sostanziale no-vità rispetto al tradizionale accen-tramento del potere politico nelle

mani del Senato, la conseguenza fu l’inevitabile e progressivo svuota-mento dei poteri di quest'ultimo. L'interposizione di un corpus di fun-zionari, seppure inizialmente legati in modo strettissimo al potere im-periale, come intermediario tra il potere e la società romana, rappre-sentò una vera rivoluzione concet-tuale. Claudio affidò arbitrariamen-te i vari uffici ai suoi liberti, i cui nomi (Pallante, Narcisso, Callisto) sono ancor oggi sinonimo di corrut-tela, arbitrio, intrallazzo, cospirazio-ne, finanche omicidio: ben lontani dunque dall'idealizzazione imperso-nale di rettitudine elaborata molti secoli più tardi. Questi burocrati ante litteram, designati direttamen-te dall'Imperatore, secondo Tacito nei suoi Annales: "esercitavano poteri regali con animo di schiavi". In occidente l'articolazione e l'im-portanza della burocrazia introdotta da Claudio continuò a crescere ed espandersi in epoca imperiale, di pari passo con il potere ed il peso politico dei burocrati: un potere formalmente limitato e subordinato a quello imperiale, ma estrema-mente frammentato, praticamente vitalizio e continuamente ampliato nelle sue prerogative da una inin-terrotta proliferazione di leggi e regolamenti che in gran parte con-fluiranno nel Corpus Iuris. Questo modo di procedere divenne un tratto peculiare dell'impero bi-zantino e del suo complicatissimo cerimoniale: ancora oggi, infatti, il termine bizantinismo come sinoni-mo di astrusità, cavillosità, pedan-teria, tortuosità è utilizzato quasi esclusivamente in riferimento alla burocrazia ed alle sue procedure. Ma già da secoli, prima dell’impera-tore Claudio, in oriente ed in parti-colare in Cina da cui si diffuse nelle diversi organizzazioni statali degli stati limitrofi, il potere dello stato imperiale si fondava su una casta di funzionari che disponevano a loro volta di un enorme potere e che dall’anno 605 venivano selezio-nati in “concorsi”, come diremmo oggi, particolarmente duri: i cosid-

E’ il vero cancro che può mettere a rischio la sopravvivenza di qualunque organizzazione statale... e per molti l’Italia è un malato allo stadio terminale...

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detti esami imperiali dei funzionari-studiosi che furono introdotti ap-punto in Cina. Prima, sin dal IV secolo a.C., epoca di grandi imperi, i sovrani usufrui-rono dei consigli di uomini i cui scritti esercitano ancora un'innega-bile influenza ai giorni nostri. In Cina il filosofo confuciano Mengzi ammoniva l'imperatore che era sua responsabilità procurarsi funzionari dotati di qualità appropriate. Ecco alcune regolette: "Se l'ammi-nistrazione non è ben diretta, la ricchezza non riuscirà a coprire le spese. Non è appropriato criticare i funzio-nari o dare la colpa all'amministra-zione. Solo il grand'uomo può correggere ciò che è errato nel cuore del so-vrano". In India Chanakya, noto anche co-me Cautilya, offriva i propri consigli al primo signore di uno Stato india-no unificato, al quale aveva presta-to aiuto nell'impadronirsi del pote-re. Cautilya è stato definito il Ma-chiavelli indiano per la sua incrolla-bile dedizione a uno scopo fonda-mentale, mantenere e accrescere la potenza dello Stato. Anch'egli esaltò l'importanza del carattere del sovrano e la sua influenza sul popolo da lui governato, ma ag-giunse che il sovrano doveva altresì avere nozioni di scienza politica e doveva essere contornato da e-sperti al suo servizio: "Governare è possibile solo se si ha l'assistenza

di altri. Una ruota da sola non si muove. Pertanto si devono nomi-nare dei ministri e i loro consigli devono essere tenuti in considera-zione" Quando è la burocrazia che crea lo Stato Ma la “istituzionalizzazione” dei funzionari come parte essenziale dello Stato avvenne con l’afferma-zione della casta dei “Mandarini” attraverso gli esami imperiali, nella Cina dinastica. Questi esami costi-tuivano il sistema con cui venivano selezionati tra la popolazione del-l'impero i funzionari della burocra-zia statale. Dalla sua istituzione sotto la dinastia Sui il sistema degli esami durò 1300 anni fino alla sua abolizione nel 1905 sotto i Qing, alla fine dell'età imperiale. Il siste-ma per secoli ha promosso una certa mobilità delle classi sociali. Poneva anche un divario tra gli intellettuali educati nel confuciane-simo classico e le persone ordina-rie. Comunque, in alcune dinastie, gli esami imperiali vennero aboliti, mettendo semplicemente in vendita i posti degli ufficiali, cosa che incre-mentò la corruzione e ridusse la moralità. Per assicurare l'obiettività della va-lutazione, i candidati erano identifi-cati con numero invece che con nome, e i testi prodotti durante l'esame venivano riscritti da una terza persona prima di essere valu-tati, per mascherare la grafia dell'e-saminato. Ma non solo: in Cina il governo è gestito da una burocrazia Confucia-na selezionata per mezzo degli esa-mi scritti più terrificanti della storia. Nella sede principale di Nanchino,

migliaia di aspiranti Mandarini ven-gono richiusi in celle di un metro per un metro alte solo un metro e mezzo. Durante lo svolgimento del-l’esame l’unico passaggio consenti-to è quello dei servitori, che riforni-scono gli esaminandi di acqua e cibo o ne rimuovono le deiezioni. Alcuni candidati sottoposti ad una tale pressione perdono la ragione. Dopo aver trascorso nove giorni rinchiusi una scatola da scarpe solo i candidati più abili e instancabili superavano l’esame imperiale. Un esame che premiava la tempra ma anche il conformismo, era molto competitivo ma non incoraggiava l’innovazione e la sete di cambia-mento. (vedasi Op luglio 2012: Ascesa della Civiltà occidentale) Il sistema degli esami venne ab-bandonato per un certo periodo di tempo durante la dinastia Yuan e durante il regno celeste di Taiping, e definitivamente dopo la caduta della dinastia Qing, anche se pro-cedure e istituti simili, come l'esa-me Yuan nella Repubblica cinese (Taiwan) continuano ad esistere. Verso la fine della Cina imperiale, lo stato delle élite di livello locale era ratificato da un contratto con il governo centrale, che manteneva un monopolio sui titoli più presti-giosi della società. Il sistema di esami e i metodi associati di arruo-lamento per la burocrazia centrale erano dei meccanismi importanti attraverso i quali il governo centra-le manteneva la fedeltà delle élite a livello locale. La loro fedeltà, a sua volta, assicurava l'integrazione del-lo stato cinese e ostacolava le ten-denze verso autonomie regionali o la rottura del sistema centralizzato. Il sistema di esami distribuiva i suoi

Imperatore Claudio

Città proibita a Pechino sede dei “concorsi” per diventare funzionari del celeste Impero

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premi secondo quote provinciali e prefetturali, cosa che implicava che i funzionari imperiali venivano ar-ruolati dall'intero paese, in numeri grosso modo proporzionali alla po-polazione di una provincia. Elite di tutta la Cina, anche nelle regioni periferiche svantaggiate, avevano l'opportunità di vincere gli esami e raggiungere i benefici risultanti dall'ufficio detenuto. Il sistema di esami serviva inoltre a mantenere l'unità culturale e il con-senso sui valori di base. L'uniformi-tà dei contenuti degli esami signifi-cava che la classe dirigente attra-verso tutta la Cina veniva formata agli stessi valori. Anche se solo una piccola percentuale (circa 5% ) di coloro che sostenevano gli esami li passavano e ricevevano i titoli, lo studio, l'auto-indottrinamento e la speranza di un'eventuale vittoria ad un successivo esame serviva a so-stenere gli interessi di coloro che li prendevano. Chi non riusciva a passare non perdeva ricchezza o la levatura sociale locale; come cre-denti dediti all'ortodossia confucia-na, essi servivano, senza i benefici degli incarichi di stato, come inse-gnanti, patroni delle arti, e gestori di progetti locali come opere di irrigazione, scuole o istituti carita-tevoli. Verso la fine della Cina tradizionale, grazie a ciò, l'educazione veniva valutata in parte perché poteva venir eventualmente ripagata nel sistema di esami. Il risultato com-

plessivo del sistema e degli studi associati era l'uniformità culturale - identificazione degli istruiti con va-lori e obiettivi nazionali piuttosto che regionali. Questa consapevole identità nazionale è alla base del nazionalismo, così importante nella politica della Cina nel XX secolo. I tipi di attestato erano tre durante la dinastia Qing: - Shēngyuán (生員), anche detto Xiùcái (秀才, hsiu-ts'ai, talento fio-rente) e comunemente tradotto come licenziato, assegnato ogni anno a livello locale doveva essere periodicamente rinnovato attraver-so nuovi esami, dava accesso alla classe degli Shên-shih. - Jǔrén (舉人, chu-jen, uomo rac-comandato), assegnato ogni tre anni a livello provinciale. - Jìnshì (進士, chin-shi, studioso presentato), assegnato nella capi-tale ogni tre anni. La Cina ha avuto funzionari pubblici fin dalla dinastia Zhou, tuttavia la maggioranza delle posizioni di ran-go elevato erano occupate da pa-renti del sovrano e dall'aristocrazia cinese. Non fu prima della dinastia Tang che il mandarinato assunse la sua forma definitiva mediante la sosti-tuzione del sistema dei nove ran-ghi. I Mandarini furono i fondatori e il nucleo dei proprietari terrieri cinesi e solo dopo la caduta della dinastia Qing vennero sostituiti da una più moderna amministrazione pubblica.

Burocrazia oggi In epoca moderna l'introduzione sistematica di una burocrazia rigi-damente organizzata risale all'epo-ca della costituzione dei primi Stati nazionali, con un ruolo di primo piano ricoperto da Napoleone Bo-naparte. Napoleone riuscì a realizzare un apparato burocratico estremamen-te accentrato, fondato sulla funzio-ne dei prefetti, per nulla pachider-mico, anzi snello e ben funzionan-te; tant'è che dopo la restaurazione alcuni governi tentarono di imitarne il funzionamento, in testa a tutti Casa Savoia, senza però riuscirvi del tutto. In tempi recenti vari fattori, tra i quali i profondi cambiamenti del-l'assetto geopolitico ed una miglio-re consapevolezza dei cittadini, nata anche dal confronto generaliz-zato con altre realtà oltre i confini nazionali, hanno posto al centro dell'attenzione il tema di una nuova sensibilità nei rapporti con la buro-crazia, anche in Paesi tradizional-mente deficitari sotto questo aspet-to e privi di una normalizzazione dello spoil system. D'altro canto i progressi nella go-vernance razionale, supportata an-che dall'applicazione sistematica della Teoria dei giochi ad opera di studiosi come Robert Cooter, Dou-glas Baird, Robert Gertner e Randal Picker, hanno contribuito in modo fondamentale ad una migliore com-prensione delle dinamiche sociali

A proposito di… Mandarini Il termine Mandarino trae origine dalla parola portoghese mandarim, che significa "ministro" o "consigliere". Que-st'ultima a sua volta viene dall'antica parola sanscrita mantrim : "consigliere", "capo", usata per tradurre la parola cinese guan (官) e derivata da mantra: "consiglio", collegata alla radice indoeuropea man- ("pensare", "sapere"), da cui anche il latino mens ("mente"). Una teoria alternativa è che il termine venga dalla locuzione cinese manda-ren (满大人), che significa "funzionario manciù". Tuttavia, dal momento che non vi è alcuna prova diretta che so-stenga questa ipotesi, e che la parola "mandarino" è attestata agli inizi del XVI secolo, prima dell'insediamento del-la dinastia Qing, essa è ritenuta improbabile dai linguisti. Il termine "mandarino", oltre che per indicare un antico funzionario dell'impero cinese, si usa anche per riferirsi alla varietà parlata settentrionale del cinese perché era la lingua utilizzata tra i funzionari durante le dinastie Ming e Qing. Nelle lingue occidentali moderne, incluso l'italiano, la parola "mandarino" si usa anche in modo estensivo per indicare qualsiasi funzionario o personaggio pubblico che gode di privilegi e si comporta in modo autoritario. In questo senso, il termine assume talvolta una sfumatura ironi-ca o sarcastica, specie nei paesi di lingua inglese. Infine, una particolarità: in italiano "mandarino" è anche il nome di un albero della famiglia delle Rutacee (Citrus reticulata) e del relativo frutto, un piccolo agrume dal caratteristico colore giallo-arancione e dalla polpa dolce e profumata. Secondo alcuni la parola deriva da "mandarino" nel senso generico di "cinese", per il colore giallo. Per altri i Mandarini cinesi possono anche essere visti come una casta cioè un gruppo sociale sostanzialmente chiuso. Al riguardo scriveva Antonio Gramsci in Ordine nuovo: "Il mandarinato è una istituzione burocratico-militare cinese, che, su per giù, corrisponde alle prefetture italiane. I mandarini appar-tengono tutti a una casta particolare, sono indipendenti da ogni controllo popolare, e sono persuasi che il buono e misericordioso dio dei cinesi abbia creato apposta la Cina e il popolo cinese perché fosse dominato dai mandarini". Su una linea analoga si inserisce Noam Chomsky con il suo saggio I nuovi mandarini. Gli intellettuali e il potere in America. Chomsky vede gli intellettuali statunitensi come una classe di servitori del potere colonialista.

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nella classe dirigente ed hanno portato vari Governi a prendere atto che i continui mutamenti del-l'ambiente sociale ed economico (sviluppo tecnologico, differenzia-zione e frammentazione della do-manda sociale, dispersione del po-tere politico su nuovi livelli anche transnazionali) richiedevano ade-guate riforme e ridimensionamenti del "potere degli uffici". Al modello burocratico si sono quindi nel tem-po apportate modifiche sia nella pratica che nella teoria, sviluppan-do forme di amministrazione parte-cipata, flessibile, contrattata, per progetti (cosiddetto modello teleo-cratico ). L'accezione originaria del termine, in epoca moderna e premoderna, indicava un progresso ed una posi-tiva terzietà rispetto alle forme or-ganizzative basate sull'arbitrio e sull'esercizio individuale e dispotico di un potere personale. Rispetto a questi fenomeni, l'ideale burocrati-co all'epoca degli Stati nazionali poneva il potere in mano alla legge attraverso, ad esempio, la non-proprietà da parte del funzionario dei mezzi di produzione del proprio lavoro; la disciplina garantistica del rapporto di lavoro del funzionario, che non poteva essere licenziato perché sgradito al superiore; la definizione di procedimenti e pro-cedure prestabiliti per tipologie uni-formi di atti... L'attuale accezione del termine è principalmente negativa, a causa di quelle che nel corso del Novecento sono state definite da alcuni "conseguenze inattese" del feno-meno burocratico: rigidità, lentez-za, incapacità di adattamento, inef-ficienza, inefficacia, lessico difficile o addirittura incomprensibile (il cosiddetto burocratese), mancanza di stimoli, deresponsabilizzazione, eccessiva pervasività, tendenza a regolamentare ogni minimo aspetto della vita quotidiana. Verso la “burocratizzazione universale” Lord Cyril Northcote Parkinson, autore di un libello ironico sulla burocrazia, osservò che, anche nel momento di massimo declino del sistema coloniale britannico, la bu-rocrazia degli uffici coloniali conti-nuava costantemente ad aumenta-re di numero. Dalle sue rigorose osservazioni si evince che, in una qualsiasi organizzazione burocrati-

ca, il tasso di crescita degli impie-gati si attesta su un 5-7% annuo, indipendentemente da qualsiasi variazione nel lavoro da svolgere. Tali fenomeni dipendono stretta-mente da elementi intrinseci al mo-dello burocratico, che tende ad espandersi per perpetuare ed au-mentare il proprio potere, diluendo al contempo le responsabilità indi-viduali. Tipica dell'età moderna, questa forma di amministrazione viene di regola considerata lo strumento amministrativo per eccellenza dello Stato, ed è quindi stata oggetto di ampie riflessioni nel campo delle scienze storiche e sociali. Ai nostri giorni un'organizzazione burocrati-ca capillare e a tratti opprimente è divenuta un tratto caratteristico della società occidentale Alcuni usi del termine Il termine burocrazia che come abbiamo vista significa letteralmen-te il "potere dell'ufficio" e, per e-stensione, il potere dei funzionari indica il peso crescente della pub-blica amministrazione nella vita politica e sociale tanto da configu-rare una vera e propria forma di governo in qualche modo parago-nabile alle forme classiche della monarchia, dell'aristocrazia e della democrazia. Accanto e in opposizione a questo significato, in special modo nella Germania del XIX secolo, il concet-to di burocrazia acquisì invece una valore positivo. Il filosofo Hegel, per esempio, concepì in questo senso la classe dei funzionari pub-blici come una "classe generale" che ha il compito di far valere, al di là di ogni pericoloso particolarismo, "l'interesse generale dello Stato" dando esecuzione alle decisioni del potere sovrano. La concezione marxista della burocrazia si orientò a considerarlo un apparato di do-minio di uno stato visto come e-spressione delle classi dominanti ed in questo senso Marx criticò la vi-sione hegeliana e non giunse a riconoscere la funzione della buro-crazia in società altamente com-plesse. Più in generale, il termine entrò nel linguaggio delle scienze tedesche dello Stato e dell'amministrazione per sottolineare in primo luogo le logiche di razionalità e di efficienza delle amministrazioni burocratiche. Ma come prima accennato fu il so-

ciologo Weber a fissare per la pri-ma volta una completa teoria della burocrazia, che è diventata in se-guito un punto di riferimento obbli-gato per le scienze storico-sociali. Seguendo l'impostazione di Weber si può affermare che la burocrazia costituisce in linea di principio un meccanismo razionale, efficiente, preciso e affidabile di amministra-zione, tecnicamente superiore a tutte le altre possibili forme di am-ministrazione. Essa, infatti, quanto meno nelle sue forme più sviluppa-te, si basa su una rigorosa divisio-ne del lavoro amministrativo, sulla competenza e sul sapere tecnico e specialistico dei funzionari, su una stabile gerarchia degli uffici, su un modo di agire tipicamente imperso-nale "senza riguardo alla persona", su una netta separazione tra fun-zionari, stipendiati in denaro e in-seriti in precisi meccanismi di car-riera, e mezzi dell'amministrazione. Da questo punto di vista la buro-crazia rappresenta un prodotto specifico della storia dell'Occidente moderno, del tutto o in gran parte sconosciuto in altre civiltà e nello stesso Occidente prima dell'avven-to dell'età moderna. La nascita e lo sviluppo della buro-crazia sono altresì intimamente legati all'avvento e poi al consolida-mento dello Stato moderno, e in particolare all'esigenza del sovrano di poter fondare il proprio potere su un ceto di funzionari che sono alle sue dirette dipendenze, a diffe-renza di quanto avveniva nel rap-porto tra sovrano e nobili nel siste-ma feudale. Lo sviluppo e la diffusione della burocrazia non riguardano soltanto la sfera dell'amministrazione dello

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Stato, ma più in generale tutte le forme pubbliche e private di orga-nizzazione: dall'impresa ai partiti, dalle Chiese alle università. Osservando questo processo e ri-collegandosi alle teorie dei critici della burocrazia, Weber sottolinea-va come fosse ormai in atto un processo irreversibile di "burocratizzazione universale" che tendeva a imprigionare gli uomini in una rete di regole minuziose e a sottometterli al potere, ogni giorno più necessario e irresistibile, degli apparati burocratici moderni. Il che costituiva, a suo giudizio, un enorme pericolo per il futuro della libertà e della democrazia nel mon-do contemporaneo. La burocrazia nasce dalla logica dell'organizzazione sociale su larga scala, essa nasce anche dal potere, dal dominio di uno o di alcuni sopra i molti, dove quel dominio richiede degli agenti, interpreti fedeli della volontà del sovrano, che eseguano gli ordini, che traducano in realtà le aspirazioni e non a caso i consigli ai governanti costituiscono una delle principali fonti della nostra cono-scenza della burocrazia antica. L’irresistibile ascesa della bu-rocrazia in Europa (tratto da uno scritto di Guido Me-lis)

È stato il sociologo K.A. Wittfogel a suggerire (1957) l’ipotesi che l’ori-gine remota delle burocrazie vada collocata nel mondo antico, quando si pose, in particolare nelle civiltà mesopotamiche, la necessità di un’autorità capace di organizzare la costruzione dei canali e dei sistemi di irrigazione (burocrazie «agro-manageriali» o «idriche»). In ter-mini più generali tuttavia si può connettere la nascita della moder-na burocrazia con l’affermarsi dello Stato moderno, cioè con la definiti-va crisi del feudalesimo, con il su-peramento dell’articolazione sociale per ceti e con il consolidarsi, peral-tro ancora contraddittorio, di un potere centrale, dotato di propri collaboratori amministrativi al cen-tro e di una rete di propri emissari in periferia. Esemplare fu sotto questo profilo il caso della Francia, Paese nel quale, specialmente a partire dal XVII sec., per effetto delle politiche assolutistiche, si af-fermò un vasto ceto burocratico (4.000 funzionari pubblici nel 1515, 25.000 nel 1610, 46.000 nel 1645), i cui esponenti più in vista dettero luogo a una «nobiltà dignitaria» che progressivamente avrebbe e-marginato la tradizionale aristocra-zia gentilizia. Questo nuovo ceto emergente, più

radicato nelle città, tendenzialmen-te borghese (bourgeoisie de robe o robins) produsse anche una nuova cultura giuridica, mettendo a frutto la solida formazione umanistica ricevuta nei collegi gesuitici diffusi in tutto il territorio dalla riforma cattolica. Dal 1604 in poi questi funzionari divennero proprietari della carica, abilitati a venderla o a trasmetterla liberamente (possesso patrimoniale degli uffici), ciò che ne accrebbe oggettivamente l’auto-nomia rispetto allo stesso sovrano. Durante i regni di Luigi XIII e so-prattutto di Luigi XIV i funzionari con sicurezza d’impiego raggiunse-ro il ragguardevole numero di 50.000. A partire dalla seconda metà del Settecento, oltre agli ap-parati, nacque e si affermò il diritto amministrativo come specifico dirit-to dell’amministrazione. Quest’ultima, a sua volta, prima in pratica ingiudicabile alla stregua degli altri soggetti, venne adesso sottoposta a un giudice speciale diverso da quello ordinario. Con il sec. XIX il diritto amministrativo avrebbe fatto il suo ingresso come materia di studio anche nelle uni-versità. Lo Stato amministrativo di antico regime tuttavia (almeno nel-le principali varianti che ne configu-rarono l’esperienza in Europa) non fu propriamente uno «Stato buro-cratico», quanto piuttosto uno «Stato giurisdizionale». Il nucleo centrale degli apparati restò, pur con diversità anche rile-vanti tra i vari casi nazionali, piut-tosto formato da giudici; e ai magi-strati propriamente detti fu delega-to di svolgere, nell’ambito del pro-cesso, funzioni oggi definibili come di amministrazione attiva, anche con emanazione di norme a conte-nuto regolamentare di sensibile rilevanza per i rispettivi ambiti di competenza. Il primato della juri-sdictio sulla administratio fu il trat-to caratteristico degli ordinamenti precostituzionali. Fu piuttosto la Rivoluzione francese il grande spartiacque nella storia della burocrazia moderna. Il cam-biamento coincise con la crisi defi-nitiva dello Stato corporativo, con la nascita di un nuovo concetto di cittadinanza, con la fine delle asim-metrie istituzionali che avevano caratterizzato l’ancien régime e con la centralizzazione politicoammini-strativa.

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In coincidenza con l’affermarsi del primato assoluto della legge, l’am-ministrazione, che della legge do-vette da allora in poi curare la scru-polosa esecuzione, assunse un ruo-lo centrale. Nel continente europeo si affermò il modello organizzativo napoleonico, a sua volta tributario dei precedenti schemi gerarchici, quello militare e (per certi versi) quello ecclesiastico. Tale modello coincide con la figura della pirami-de, nella quale il vertice è occupato dal potere politico, che esprime il comando, e i vari gradini successivi da una sequenza di livelli organiz-zativi, ognuno dei quali posto in relazione di tassativa dipendenza dal livello immediatamente superio-re. Nessuna autonomia è lasciata ai singoli livelli, restando tutta intera l’iniziativa amministrativa sotto la responsabilità del vertice politico. Lo schema che veniva così deline-andosi corrispondeva prima di tut-to, nei sistemi burocratici continen-tali, a un presupposto d’ordine co-stituzionale (parzialmente diversa fu l’evoluzione di quello inglese, ove la centralizzazione politica non si risolse nella centralizzazione am-ministrativa). Avendo le costituzioni liberali borghesi dell’Ottocento af-fermato solennemente la primazia del controllo politico sull’esecutivo, e avendo posto a baluardo di tale controllo il principio-cardine della responsabilità ministeriale, fu gio-coforza che gli apparati ammini-strativi dipendenti dai ministri si vedessero privati di ogni, sia pur labile e residuale, capacità di pro-

durre decisioni autonome. I “rotismi amministrativi” (così Ca-vour, nel 1852) avrebbero garanti-to, come in una macchina, il fun-zionamento stesso dello Stato. Derivavano da tutto ciò alcune con-seguenze quasi obbligate. La prima era l’assenza, o quasi, di diritti de-gli impiegati, e la presenza – inve-ce – di articolati e stringenti catalo-ghi di doveri. Assunti inizialmente senza regolari concorsi (solo in un secondo momento si affermò pres-soché dovunque il principio concor-suale), i dipendenti delle ammini-strazioni ottocentesche dovevano “servire lo Stato” con assoluta de-dizione, identificandosi senza solu-zione di continuità con la funzione d’ufficio. Dovevano osservare, in-sieme alla più stretta obbedienza gerarchica, il più assoluto segreto sulle pratiche e gli affari trattati, vestire con misurato “decoro”, os-servare anche fuori dell’ufficio una condotta irreprensibile che in nien-te potesse porre in imbarazzo l’am-ministrazione. Il linguaggio (scritto e parlato) do-veva essere modellato secondo gli stilemi (e gli stereotipi) imposti dai vademecum e dalla prassi burocra-tica. Un penetrante sistema di con-trolli (culminante nelle temutissime note segrete, redatte dai superiori all’insaputa degli impiegati) doveva assicurare la costante osservanza delle regole disciplinari ed etiche cui la burocrazia era complessiva-mente sottoposta. Le cose cambiarono, almeno in parte, con la fine del sec. XIX. Il primo Novecento segnò quasi o-

vunque una crescita imponente del personale burocratico, spesso in relazione alle nuove funzioni che lo Stato veniva assumendo sul nuovo terreno dei servizi pubblici sociali. In Francia il personale della fon-ction publique, attestato sui 250.000 elementi intorno alla fine del secolo, oltrepassò i 500.000 nel 1914. Ma fu la Grande guerra il volano acceleratore del processo di sviluppo, specie con l’espansione delle funzioni economiche pubbli-che connesse alle mobilitazioni bel-liche. In Gran Bretagna, dopo l’in-cremento delle funzioni di governo tra fine Ottocento e primi del Nove-cento (in particolare con la poor law), il civil service passò dai 107.782 dipendenti del 1902 ai 135.721 del 1911, ai 368.910 effet-tivi nel 1920. Tuttavia il modello inglese, pur non essendo affatto privo di burocrazia centrale, man-tenne a lungo sue peculiari caratte-ristiche, in relazione al regime ivi vigente di common law. L’evoluzione costituzionale inglese pose in primo piano il ruolo del Parlamento, ben prima che si svi-luppassero gli apparati amministra-tivi moderni; ciò diede luogo alla rigida separazione tra politica e amministrazione e alla partisan neutralità del civil service inglese. In quello stesso anno (1920), in Germania il solo personale delle ferrovie superò il 1.100.000 unità (700.000 prima della guerra): circa 120.000 nuovi impiegati furono assunti nella sola amministrazione postale. In Italia, Paese per il quale il “decollo amministrativo” può pro-

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priamente essere collocato nel cor-so del primo quindicennio del No-vecento, i circa 98.000 dipendenti del 1882-83 passarono a 286.670 nel 1914, anche in questo caso con un incremento in prevalenza con-centrato nei grandi servizi pubblici. Dopo la guerra mondiale avrebbero raggiunto e superato i 500.000. Le donne e la burocrazia Un particolare rilievo ebbe, in tutti i principali Paesi europei, l’ingresso delle donne nelle pubbliche ammi-nistrazioni. Introdotte durante il conflitto mondiale, spesso in posi-zione precaria, come supplenti de-gli impiegati richiamati sotto le ar-mi, le donne rappresentarono o-vunque una importante rivoluzione di costume. In Francia questa “mutation capitale” aveva avuto luogo già nella prima decade del Novecento, specie con la diffusione della stenodattilografia, radicandosi poi nelle poste e naturalmente nel-l’insegnamento. Ma in Italia prima della guerra mondiale la presenza femminile si riduceva a una quota del personale delle poste (specialmente telegrafiste), dei telefoni e al ruolo separato “femminile” istituito nel 1913 nel nuovo ministero delle Colonie con mansioni tuttavia esecutive. Fu la guerra mondiale a segnare l’inversione di tendenza, sviluppan-do per la prima volta un impiego “al femminile” che – molto conte-nuto durante il fascismo (che legi-ferò anche per confinare le donne in determinate funzioni e impieghi marginali) – sarebbe poi cresciuto rapidamente a partire dagli anni Sessanta per imporsi in modo stra-ripante alla fine del sec. XX. Accan-to alla femminilizzazione, la sinda-

centesco dello Stato gestore di ser-vizi pubblici o, addirittura, come accadde in Italia, “stampella” del primo decollo industriale, generò inoltre un’ulteriore mutazione, svi-luppando quasi dovunque corpi tecnici sia nei settori della finanza sia in quelli più prettamente econo-mici, statistici, o – come si usava dire all’epoca – “industriali”. Ciò accadde in modo vistoso in Francia, dove la cosiddetta admini-stration de gestion assunse un ruo-lo guida; e per certi versi si verificò anche in Italia, dove tuttavia il fe-nomeno fu contrastato a partire dal debutto del nuovo secolo dalla con-comitante “giuridificazione” della cultura burocratica, segnalata dal prevalere nei concorsi pubblici dei laureati in giurisprudenza e dalla molecolare trasformazione dell’atti-vità degli uffici, da compiti di ge-stione a funzioni (prevalentemente) di controllo, e segnatamente di controllo amministrativo. Un corpo di “legisti”, scrupoloso quanto spesso astratto dagli obiettivi prati-ci dell’azione amministrativa, con-quistò nell’apparato pubblico italia-no una decisiva posizione di vertice e la mantenne poi sino a tempi molto recenti. L’allargamento delle competenze degli Stati favorì ovunque una tra-sformazione delle attività e dello stesso modo d’essere delle buro-crazie. Ciò accadde nell’Europa continentale, ove accanto alla struttura burocratica tradizionale dei ministeri sorse una composita sequenza di altre organizzazioni, in prevalenza acefale, dotate di mar-gini più meno ampi di autonomia gestionale, finanziate da risorse del bilancio pubblico e/o da risorse tratte dal mercato privato, dedite a compiti (vecchi e nuovi) di varia natura, per lo più però nell’ambito delle attività di intervento economi-co-finanziario-industriale. Decisivo fu, in questa vasta trasfor-mazione, l’esempio del New Deal rooseveltiano negli Stati Uniti, con la nascita in quel Paese di istituzio-ni dirette a controllare l’economia. In quegli stessi anni Trenta i fasci-smi nell’Europa continentale, le democrazie occidentali, la stessa Gran Bretagna (a lungo caratteriz-zatasi per l’assenza di una regola-zione autoritaria tra centro e peri-feria e per la centralità dei giudici nel rapporto Stato-cittadino) svilup-

calizzazione del personale rappre-sentò l’altro fattore di mutamento sociologico. L’associazionismo degli impiegati nacque in Francia (poi in Italia e in altri Paesi) a partire dalla fine dell’Ottocento, per svilupparsi impetuosamente nel corso del sec. XX. Contestò l’impianto autoritario e la supremazia gerarchica, rivendi-cò insieme miglioramenti di stipen-dio e di status. Nei Paesi continen-tali corrispose all’istanza sindacale l’emanazione di apposite leggi di Stato giuridico, che fissarono diritti e doveri degli impiegati pubblici, mentre il nascente sistema della giustizia amministrativa garantiva i dipendenti rispetto agli abusi del potere gerarchico (spesso il giudice amministrativo dettò, giudicando in corpore vili, regole e comporta-menti che il legislatore amministra-tivo poi avrebbe ripreso e tradotto in norma). Un ulteriore dato fu la capacità o meno delle burocrazie di configurarsi come propriamente “nazionali”, cioè rappresentative dell’intera geografia politica, sociale ed economica dei rispettivi Paesi. In Italia – caso unico in Europa – si registrò per es. sin dal primo Nove-cento un accentuato processo di “meridionalizzazione” ossia la pro-venienza degli impiegati dalle re-gioni meridionali e insulari, con effetti alla lunga decisivi sulla cultu-ra della burocrazia e sul suo rap-porto con lo sviluppo del Paese. Un sistema amministrativo di matrice sociologica meridionale avrebbe dialogato a fatica con un sistema economico-industriale a prevalente trazione settentrionale. Lo sviluppo degli Stati più avanzati dall’originario modello ottocentesco dello “Stato minimo” a quello nove-

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centrale, impiegati dell’amministra-zione autonoma locale, dipendenti degli enti o delle agenzie. Ovunque considerevole (sebbene anche qui con significative differenze) l’inci-denza della spesa per i dipendenti sul PIL. Le politiche di controllo del deficit, e più recentemente quelle poste in essere in rapporto alla crisi finan-ziaria del 2009, hanno imposto in tutti i Paesi il problema della ridu-zione della spesa pubblica, e quindi in primo luogo quella della limita-zione degli apparati burocratici. Quasi ovunque si è accompagnato a questo primo vincolo un orienta-mento culturale in favore di quello che è stato definito come “il para-digma manageriale”, negli Stati Uniti i principi alla base del new public management, cioè l’introdu-zione nei sistemi amministrativi pubblici di regole e stili di lavoro mutuati dal settore privato. Fanno parte integrante di questa linea comune almeno quattro ele-menti: - la semplificazione delle strutture burocratiche con adozione di mo-

parono forte-mente nuovi ap-parati legati al-l’intervento pub-blico. Nella se-conda metà del Novecento, e particolarmente dopo la Seconda guerra mondiale, le burocrazie occuparono un

posto di rilievo nell’ambito delle forze lavoro di tutti i Paesi econo-micamente avanzati, ivi compresi quelli anglosassoni. Molta parte ebbero, in questa crescita, le politi-che di welfare, via via adottate dai principali Paesi capitalistici al di qua e al di là dell’Atlantico. Attualmente in Francia (61 milioni di abitanti) i dipendenti pubblici sono 5,1 milioni; in Germania (81 milioni) 4.564.000; in Spagna (46 milioni) 2.436.000; in Gran Breta-gna (61 milioni) circa 6 milioni; in Italia (60 milioni) 3.632.000. Molto diversa è, a seconda dei casi nazionali, la distribuzione percen-tuale tra dipendenti dello Stato

duli più sciolti e autodiretti; - la contrattualizzazione (detta an-che «privatizzazione») del persona-le pubblico, cui si connette spesso una flessibilizzazione del rapporto di lavoro con le amministrazioni; - l’avvento di forme neo-tayloristiche di organizzazione delle attività; - una più accentuata presenza di culture e di formazioni culturali diverse da quella prettamente giu-ridica sin qui spesso dominante. Basato su tali linee portanti, il pro-cesso di trasformazione è in corso, secondo dinamiche che in ogni Pa-ese dipendono dalla storia prece-dente e dalle resistenze che il vec-chio sistema oppone al nuovo. Gli esiti finali dipenderanno dunque da molte variabili. Tra le quali, non ultima, l’avvento di forme più intense di integrazione sovranazionale tra gli apparati dei singoli Paesi: nell’Europa unita, pur con molti ritardi, l’effetto virtuoso di questo “contagio” tra modelli spesso storicamente opposti co-mincia a farsi sentire.

Il motore della Burocrazia Ma qual è il motore che nei secoli ha fatto crescere spesso a dismisu-ra la burocrazia?. A nostro avviso sono due i fattori, uno per così dire di competizione esterno ed uno interno. 1) per competizione esterna ci rife-riamo al fatto che una società me-glio organizzata era oggettivamen-te avvantaggiata rispetto ad una più primitiva. Vantaggio che significava maggior benessere per i suoi membri, mag-gior ricchezza, maggior potere. Gli antichi romani più organizzati delle tribù barbare, le soggiogarono e fondarono il loro impero che ave-va al centro Roma. Così si è diffusa nei secoli una sorta di competizione fra le società per chi riusciva a cre-are una società più organizzata che significa principalmente una cosa: la creazione di una burocrazia effi-ciente. 2) il secondo motore è quello che riguarda i membri di una stessa società e si riferisce alla competi-zione interna per l’accaparramento

delle risorse acquisite dallo Stato. Così un funzionario, al di là di svol-gere un servizio di utilità pubblica, tende ad accrescere il proprio pote-re che lo porta ad elevare il proprio status sotto forma di carriera, pre-stigio, potere, in sintesi: denaro. Come lo può fare? Favorendo lo sviluppo del fabbisogno che le fun-zioni da lui svolte debbono soddi-sfare. Con un esempio: più si evi-denzia una carenza di salute, giu-stizia, sicurezza, più denaro stan-zierà lo stato per medici, magistra-ti, polizia. Più investimenti significa-no maggiori beni strumentali, mag-giori risorse umane maggior pote-re, prestigio, denaro. Così scatta la competi-zione fra burocrazie istituzionalizzate che chiedono più soldi per la scuola, per la salva-guardia del territorio, per le attività produtti-ve, per l’ambiente ecc. Lo stesso percorso viene fatto dalle orga-

nizzazioni private, ossia le aziende con legittime finalità di lucro che possono ricorrere alla pubblicità per accrescere il bisogno di acqui-stare un prodotto anche se del tut-to inutile o addirittura dannoso (sigarette o gioco d’azzardo per citare i più eclatanti). La creazione di una organizzazione istituzional-burocratica da parte di uno Stato efficiente inizia con a creazione della forma mentis degli studenti attraversando tutto il percorso edu-cativo con l’impiego di tutti gli stru-menti disponibili: dai media alle istituzioni pubbliche e private. (Vedi oltre a pag. 29)

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Alcuni esempi pratici

Abbiamo tratto da Doing Business Subnational (vedi a fondo pagina la copertina dello studio) una pubbli-cazione del 2013 della banca Mon-diale per la ricostruzione e lo svi-luppo, alcune tabelle esemplificati-ve opportunamente commentate, sintetizzandone i contenuti tratti dal rapporto stesso. Il testo integrale dello studio sarà comunque reperibile su internet.

Avviare una impresa Lo studio DB confronta le situazioni di 13 città e 7 porti Italiani con 185 paesi stranieri. Avviare un impresa in Italia richiede dalle 6 al 7 procedure, una media di 9 giorni, un costo pari al 14,5 % del reddito procapite e un capitale pari al 9,5% del reddito pro-capite nazionale. Siamo al 96° posto rispetto ai 185 paesi considerati. I ritardi sono legati ai tempi di risposta delle P.A. I costi in Italia sono i più alti d’Europa (vedi grafico a fondo pagina) ed i costi notarili assorbono più del 70% dei costi per avviare una impresa. (vedi grafico nella pagina accanto)

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Permessi edilizi Riportiamo nello schema sottostante delle procedure ri-chiesti nelle 13 città italiane per l’ottenimento di permessi edilizi ed alla sua sinistra i tempi richiesti nelle 13 città italiane considerate e a fondo pagina una comparazioni con i paesi esteri

Per ottenere un permesso edilizio in Italia si va dai 151 giorni di Milano ai 316 di Pa-lermo: media 231 contro i 182 di medi UE. Anche i costi sono i più altri d’Europa: una media di 253,6% del reddito pro-capite contro il 99,6 della me-dia UE. Una burocrazia cara e ineffi-ciente.

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Dispute commerciali In questo campo abbiamo il primato negativo assoluto battuti solo da Timor est per quanto riguarda i costi. In Italia ci sono 41 fasi processuali contro i 32 della media UE, 1400 giorni per la sentenza contro i 547 delle media UE e “naturalmente” costi superiori alla media UE: il 26,2% del valore della controversia contro il 21,5% della media UE (in pratica se mi rivolgo alla magistratura aprendo un causa per avere 10.000€ devo sostenere un costo media-mente di 2.620 €). In fondo alla pagina la situazione nelle 13 città italiane considerate. Nella pagina a fianco in alto,

la ripartizione dei costi fra spese per l ’ a v v o c a t o , per il giudi-ziose l’esecu-zione dello stesso.

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Import export attraverso i porti Anche importare ed esportare merci ha dei costi burocratici che per quanto riguarda i 7 principali porti italiani sono riportati nei grafici sottostanti. Se come numero di documenti 4 siamo allineati alla media UE per l’esportazione e addirittura 1 in meno per l’impor-tazione, per i tempi sforiamo clamorosamente: 17 giorni per esportare contro 11 della media UE, così come per i costi siamo a 1131% del reddito pro-capite contro i 1072 delle media UE.

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Classifica fra i 185 paesi negli 11 parametri che legano l’efficienza e la burocrazia. Riportiamo infine una classifica fra i 185 paesi considerati di 11 parametri che vanno dalla Facilità di fare impresa sino alla Risoluzione dell’insolvenza e proce-dure concorsuali. In alto nella classifica il paese più vir-tuoso, la linea rossa indica il posiziona-mento dell’Italia nella classifica e quella azzurra la media UE. Solo in due voci (protezione degli investitori di minoran-za e trasferimento di proprietà immobi-liare l’Italia si trova in miglior posizione della classifica rispetto alla UE). Ma quanto costa la Pubblica Ammi-nistrazione Riportiamo una serie di rappresentazioni fornite dalla Ragioneria generale dello stato e dall’Istat sui costi della P.A. Nella pagina a fianco abbiamo poi ripor-tato alcune rappresentazioni che danno l’indicazione dell’entità dimensionale delle pubbliche amministrazioni e la ri-partizione sia territoriale che per gene-re. Nel 2010 in Italia erano presenti 9.867 amministrazioni pubbliche per un totale di poco meno di 3,5 milioni di dipenden-ti pubblici, più donne che uomini con anzianità di servizio compresa fra i 17,7 (donne) e i 19,2 anni (uomini) La ripartizione per aree geografiche (voce Distribuzione del Personale) indi-ca percentuale dei dipendenti pubblici presente in quell’area e non è rapporta-ta alla popolazione. I costi variano dai 132.642€ annui medi per la magistratura ai 28.383€ annui medi per i ministeriali con una media complessiva di 34.652€ annui. Anche qui la spesa media pro-capite dell’Italia supera nettamente quella del-la media UE27

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Catricalà, il costo della buro-crazia per le imprese è di 61 miliardi all’anno. Con una riduzione del 25% il Pil salirebbe dell'1,7% (Il Sole 24 Ore Radiocor) - Roma, 12 mag - Il costo della burocrazia per le imprese ammonta a "61 mi-liardi di euro: se riuscissimo a ri-durlo del 25% avremo un aumento del pil dell'1,7%". Lo ha detto il presidente dell'Antitrust, Antonio Catricalà, nel corso della registra-zione di Porta a Porta, proponendo di informatizzare il Consiglio dei ministri: "Non si può andare avanti con le scartoffie, il giorno della riu-nione c'è un codazzo di collabora-tori. E' un suk". Catricalà, nel cor-so della registrazione della trasmis-sione, ha ricordato del suo fallito tentativo, quando era segretario generale a palazzo Chigi, di infor-matizzare il Consiglio dei ministri. "Io ci ho provato - ha detto - ma mi dicevano che non si poteva toc-care il pavimento di Palazzo Chigi per far passare i cavi. Ora c'è il wireless" e quindi è possibile usare il computer per la gestione del Consiglio dei ministri. L'assentei-smo, ha sottolineato Catricalà, "è un male tipicamente italiano e ab-biamo dovuto far ricorso a modelli coattivi come i tornelli. Questo non aiuta l'efficienza della Pubblica am-ministrazione". Secondo il presi-dente dell'Antitrust, la macchina burocratica "potrebbe essere un gioiellino e produrre ricchezza". Tempi lunghi, ritardi nei paga-menti In Italia la burocrazia costa 70 mi-liardi di euro all'anno. Lo ha affer-mato il presidente di Unindustria, Aurelio Regina, nel corso del con-vegno 'Buone pratiche di semplifi-

cazione tra Pubblica amministrazio-ne e sistema produttivo'. Secondo la ricerca dell'Unione degli industriali di Roma, Frosinone, Rieti e Viterbo, nel Paese «le imprese spendono 70 miliardi per assolvere ai diversi adempimenti amministra-tivi, un costo stimabile in 4,6 punti di Pil». Portando alcuni esempi, Regina ha evidenziato come il co-sto per costituire un'impresa sia tra i 2.500 e i 4 mila euro in Italia, a fronte dei 400 della media europe-a. Inoltre «le ore occupate da u-n'impresa in procedure burocrati-che sono 285 l'anno, ossia più di 35 giorni». Sempre secondo Unindustria, per ottenere un permesso di costruzio-ne «occorrono mediamente 285 giorni e 11 permessi in Italia, a fronte di 30 giorni e due permessi in Europa. Il tempo di allacciamen-to per l'energia elettrica è pari a più di sei mesi contro le due setti-mane della Germania». Un altro tema riguarda i ritardi dei paga-menti della Pubblica amministrazio-ne e tra clienti privati. Regina ha

spiegato che «durante la crisi lo Stato italiano ha allungato i tem-pi dei pagamenti da 128 giorni a 180, mentre li hanno ridotti quel-lo tedesco (da 40 a 35) e quello francese (da 70 a 64). Anche i tempi dei pagamenti tra imprese si sono dilatati nel nostro Paese, da 88 a 103 giorni, mentre sono scesi da 63 a 59 in Francia e da 46 a 37 in Germania».

Ma quanto mi costi burocrazia?

Nessuno si salva nemmeno… il vino Può arrivare fino a circa 8 euro per ettolitro il costo a carico di un’a-zienda di vino per sostenere l’intero sistema di controlli e verifiche, affi-dati ad una molteplicità di soggetti diversi. Questo uno dei dati emersi durante il Comitato del Settore viti-vinicolo di Fedagri riunitosi oggi a Roma. “È ormai chiaro che il vino è uno dei comparti che soffre in misura maggiore del peso della burocrazia. I costi stanno diventando sempre più insostenibili ed occorre fare uno sforzo per dare risposte concrete ed immediate per arginare questo problema”, ha dichiarato durante l’incontro il Presidente del Settore Adriano Orsi. “Siamo molto preoccupati del cari-co burocratico e del peso, in termi-ni di tempo e di costi, di tutti gli adempimenti che gravano sul com-parto. Da alcuni mesi si è costituito un gruppo di lavoro presso il Mini-stero delle politiche agricole intera-mente dedicato al problema della semplificazione, al quale prendono parte tutte le organizzazioni della filiera vino. In queste settimane si stanno valutando diverse proposte di sburocratizzazione. Si auspica di arrivare entro tempi brevi alla pre-sentazione di un documento di semplificazioni che poi il Ministero possa analizzare e recepire il prima possibile”.

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(Barnard Castle, 30 luglio 1909 – Canterbury, 9 marzo 1993) è stato uno storico navale britannico auto-re di una sessantina di libri, il più famoso dei quali, il bestseller La legge di Parkinson (Parkinson's Law), lo portò ad essere considera-to anche un importante studioso nel campo della pubblica ammini-strazione. Nel 1958, mentre era ancora a Singapore, Parkinson pub-blico il suo lavoro più famoso, Par-kinson's Law, tradotto in italiano con il titolo La legge di Parkinson, un libro che ampliò partendo da un articolo umoristico che averva pub-blicato per la prima volta sulla rivi-sta Economist nel novembre del 1955, che satirizzava le burocrazie del governo. Il libro di 100 pagine, pubblicato prima negli Stati Uniti d'America e poi in Gran Bretagna fu illustrato da Osbert Lancaster e divenne un istantaneo best seller. Questa raccolta di studi brevi spie-gavano l'inevitabilità dell'espansio-ne burocratica, sostenendo che "il lavoro dura sempre quel tanto che è necessario a colmare il tempo disponibile per compierlo." Tipico del suo umorismo satirico e cinico, il libro comprende un discor-so sulla "Legge di Parkinson della banalità" (che tratta delle spese di una centrale nucleare, una rimessa per le biciclette e un rinfresco), una nota: perché guidare sulla sinistra è naturale, e prevede che la Royal Navy avrà prima o poi più ammira-

gli che navi. Dopo aver servito come professore in visita all'Harvard University nel 1958, e all'University of Illinois at Urbana–Champaign e all'U-niversity of Califor-nia a Berkeley nel 1959-60, si dimise dall'University of Malaya a Singapore per diventare uno scrittore indipen-dente e una celebri-tà. Per evitare l'alta tassazione in Gran Bretagna, si spostò nelle Isole del Ca-nale e si stabilì a Saint Martin (a Guernsey), dove comprò Les Caches Hall e successiva-mente restaurò An-nesville Manor. Gli scritti di questo periodo comprendono una serie di romanzi storici, che hanno come protagonista un ufficiale di marina immaginario di Guernsey, Richard Delancey, durante l'Età napoleoni-ca. Dopo la morte della sua secon-da moglie nel 1984, si sposò una terza volta, nel 1985 con Iris Hilda Waters (morta nel 1994) e si spo-stò nell'Isola di Man. Dopo due an-ni là, si spostarono a Canterbury nel Kent , dove Parkinson morì nel marzo del 1993, all'età di 83 anni. Fu sepolto a Canterbury. La Legge di Parkinson postula che una orga-nizzazione cresce indipendente-mente dalla quantità di lavoro da svolgere, o che - semplificando ulteriormente - "più tempo a dispo-sizione si avrà, più se ne spreche-rà". Ma è vero anche il contrario, cioè quando il tem-po scarseggia si lavora con maggio-re efficacia in quanto il rischio di non riuscire a com-pletare un lavoro con scadenza rav-vicinata e la pro-spettiva di possibili conseguenze nega-tive, ci motiva.

I capitoli del libro 1 - La legge di Parkinson – o La piramide crescente 2 - La lista ristretta – o I princìpi della selezione 3 - Presidenti e comitati – o Il coef-ficiente di inefficienza 4 - Il volere del popolo – o L’as-semblea generale annuale 5 - Analisi personologica – o La formula del cocktail 6 - Alta finanza – o Il punto di sva-nimento degli interessi 7 - Dalla catapecchia alla Packard – o La formula del successo 8 - Piante e piante – o Gli uffici dell’amministrazione 9 - Gelo incompetenza – o La para-lisi spasmodica 10 - Il momento della pensione – o L’età del ritiro

Lord Cyril Northcote Parkinson,

Cyril Northcote Parkinson

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Riportiamo un estratto del Co-mizio di Berlusconi tenutosi a Bari nel marzo scorso che, al netto delle vedute di parte (quando è stato pronunciato si era in piena campagna eletto-rale), dà uno spaccato di come il legislatore (di qualunque partito) in Italia si trova ad o-perare. (…) I Governi Italiani sono rimasti in carica mediamente 11 mesi, per-ché? Perché non hanno potere. Cosa è successo? E’ successo che i nostri padri costituenti, dovendo scrivere la Costituzione, nell’asse-gnare il potere alle varie istituzioni, hanno ritenuto di non assegnare poteri al Governo nel timore che si potessero ripresentare le condizioni per un nuovo regime. E allora hanno assegnato tutti i poteri alle assemblee parlamentari, al capo dello Stato, alla Corte Co-stituzionale. Quindi il nostro gover-no non ha la possibilità di agire che hanno gli altri governi delle Demo-crazie occidentali. Primo: il presidente del Consiglio non può cambiare un ministro, per cambiarlo deve dimettere sé stesso e tutto il Governo. Secondo: non può usare quello che è uno strumento normale che usa-no tutti i governi per intervenire con tempestività sulla realtà, il De-creto legge. Cioè un provvedimento che, appro-vato dal Governo, diventa imme-diatamente efficace e può andare immediatamente a cambiare la re-altà. In Italia per fare un Decreto legge devi avere il benestare del Capo dello Stato. Io ho sostenuto non so quanti bracci di ferro con i tre successivi presidenti della Re-pubblica, tutti di sinistra, che aven-do il potere dalla loro, molto spesso mi hanno costretto a rinunciare. Quindi qual è lo strumento che ha un Presidente del Consiglio o un Governo per operare? Soltanto il disegno di legge. Primo fatto: per arrivare a scrivere un disegno di legge, il Presidente del Consiglio espressione del parti-

Parlamento, democrazia e burocrazia di Silvio Berlusconi

to di maggioranza, deve trovare il compromesso con gli altri piccoli partiti che gli sono necessari per avere la maggioranza. E questi piccoli partiti, tutti, nessu-no escluso, non agiscono pensando al bene comune, agiscono pensan-do al proprio bene, al proprio inte-resse particolare che si identifica sempre con l’ambizione politica del loro piccolo leader, ed è una diffi-coltà enorme. Vi racconto soltanto un episodio. Io dal 2001 al 2006 convinto della assoluta necessità di una riforma della Giustizia civile e penale, co-minciai, io, a redigere un disegno di legge di riforma appunto della Giustizia. Per un anno e mezzo cercai di con-vincere i miei alleati, ma alla fine Casini, Fini, Follini e compagnia cantante, mi dissero di no. Aveva-no evidentemente la preoccupazio-ne di tenersi vicini, di farsi proteg-gere, dall’Associazione Nazionale Magistrati ed io dopo un anno e mezzo abbandonai l’impresa. Quindi già il Disegno di legge esce frutto di un compromesso che lo inquina, in tutto o in parte, dal Consiglio dei Ministri. Va in Parlamento e qui succede il finimondo. Perché primo il Presi-dente della Camera se lo può tene-re nel cassetto per tutto il tempo che vuole, poi finalmente i presi-denti dei gruppi lo costringono a tirarlo fuori, lo manda nelle com-missioni, magari lì il disegno di leg-ge trova un presidente di Commis-sione come è successo nella Com-missione Giustizia recentemente, dove Fini dopo aver tenuto la nuo-va riforma della giustizia di questo nuovo Governo (n.d.r. Monti) un mare di tempo nel cassetto, la mandata lì, e lì ha trovato il suo avvocato la signora Bongiorno, che ha pensato “ma prima di comincia-re a discutere questi articoli perché non sentiamo un po’ di avvocati, un po’ di giudici, per vedere che vento tira?” E non ha mai iniziato a discutere le norme del nostro progetto di legge. Quindi le commissioni cominciano a

Una legge può impiegare anche 650 giorni per essere approvata… salvo ricorsi.

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discutere, cambiano voto, discuto-no, cambiano voto, una commissio-ne, due commissioni, tre commis-sioni, finalmente il progetto di leg-ge va nell’aula grande. Se non piace all’opposizione di sini-stra l’opposizione presenta cento duecento, trecento, mille e quattro-cento emendamenti, che si devono discutere uno per uno e votare e alla fine, finalmente, un provvedi-mento viene approvato. Deve an-dare nell’altra Camera: il Senato. Là ricomincia lo stesso percorso, poi alla fine dopo mesi arriva nell’-aula grande viene approvato ma non è mai uguale al provvedimento approvato alla Camera, e allora?. Allora deve fare un viaggetto sul Tevere e il sistema si chiama ap-punto la navetta, e ritorna alla Ca-mera dove riprende il Calvario: commissione, commissione, com-missione, aula grande, viene ap-provato, assomiglia un po’ di più a quello del Senato ma non proprio uguale, ritorna a fare il giro sul Tevere va al senato, e di questo passo si impiegano anche 650 gior-ni per avere una legge. Finalmente viene approvata in ma-niera identica dai due rami del Par-lamento: esce completamente di-

versa da come il Governo ce l’ave-va mandata, poco male per il pas-sato, perché le leggi che uscivano non trovavano mai lo stesso Presi-dente del Consiglio e lo stesso go-verno che erano durati in carica solo 11 mesi. Va al Quirinale, lì una squadra di baldi giovani che imbracciano po-tenti lenti di ingrandimento esami-na ogni articolo, ogni frase, ogni parola, per trovare i cosiddetti Pro-fili di incostituzionalità, cioè qualco-sa che urti, che sia contrario alla lettera della Costituzione. Qualche volta non c’è niente di contrario espressamente alla lette-ra della Costituzione, c’è qualcosa di contrario anche soltanto allo Spi-rito della Costituzione, e allora ri-mandano indietro la legge al Parla-mento dicendo dovere cambiare così l’art. 2, 14, 17 ecc. Il Parlamento mugugna, poi non c’è niente da fare, fa queste modi-fiche e il provvedimento va sulla scrivania del Capo dello Stato il quale trattandosi di un Capo dello stato di Sinistra, il quale normal-mente si impegna molto il Sabato e la Domenica in week-end operosi, torna indietro il lunedì, magari un po’ stanco, diciamo che il martedì o

il mercoledì firma finalmente il di-segno di legge che va alla Gazzetta Ufficiale. Lì ci sono anche altre po-sizioni politiche, se il disegno di legge non è molto simpatico può stare lì anche 15 giorni, se è sim-patico lo si firma subito. Viene pub-blicato sulla Gazzetta Ufficiale, fi-nalmente!, abbiamo una legge?, manco per niente!. Perché se la legge continua a dispiacere in tutto o in parte all’opposizione di sini-stra, l’opposizione si rivolge ai pub-blici ministeri di Magistratura De-mocratica che lo impugnano e lo portano alla attenzione della Corte Costituzionale che essendo formata da 11 giudici di sinistra e da soli 4 di centrodestra, abroga inderoga-bilmente la legge in tutto o in parte che non piace alla sinistra. E allora ditemi che cosa ci sta a fare un povero Presidente del Consiglio, che cosa hanno lavorato a fare i Ministri, che cosa hanno lavorato a fare 945 parlamentari. A questo punto voi capite bene che non si può governare questo paese e che si deve cambiare l’architettura isti-tuzionali delle decisioni di questo Paese. E allora come si può fare? Bisogna ricorrere alla riforma della nostra costituzione…(…)

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La burocrazia secondo Grillo

In Italia abbiamo un decifit di de-mocrazia e un eccesso di burocra-zia. Non a caso. Più prolifera la burocrazia, più diminuisce la demo-crazia. Nelle dittature, infatti, la burocrazia è usata per giustificare ogni nefandezza dello Stato. All'aumentare della burocrazia, co-me chiunque sa dopo aver affron-tato quest'Idra dalle mille teste, diminuiscono i diritti dei cittadini. La burocrazia si nutre di sé stessa, è bulimica, si autoriproduce, ama la complessità dietro alla quale si rifu-gia e si giustifica. E' al servizio del Sistema, ma talvolta gli sfugge e diventa più forte di qualunque po-tere. "Burocrazia: Organizzazione statale nella quale lo svolgimento dell'atti-vità amministrativa, è affidato a enti che agiscono nel rispetto dei regolamenti (dizionario lingua ita-liana Hoepli)". Un ministro non può spostare neppure una pianta di ficus nel suo ufficio senza l'assenso della burocrazia, del regolamento. Si può mettere in discussione un partito e perfino un'Istituzione dello Stato, ma non la burocrazia. Con la sua immensa pletora di codici, co-dicilli, procedure, paragrafi, commi, eccezioni, metodi e via impazzen-do, è invulnerabile. La burocrazia è, nei fatti, immune all'errore, se colta in flagrante nega, rimanda, si appella, gioca sul tempo e sulle sue immense risorse. Il comune cittadi-no deve dedicare metà della sua vita per avere una possibilità di vincere un ricorso. Meglio quindi espatriare o venire a patti. Sempli-ficazione, efficienza, informatizza-zione, tempi di risposta certi sono i nemici della burocrazia, gli antidoti, che però in Italia la burocrazia ha sconfitto da tempo. Anzi, come beffa, li usa a suo uso e consumo nei seminari in cui il Grande Funzionario di turno spiega i successi ottenuti nella modernizzazione dello Stato. Seminari in cui sono immanca-bilmente presenti ministri dello Sviluppo e della Semplificazio-ne insieme alle aziende forni-trici di norme interessate agli appalti, ma non ai risultati. La burocrazia è lo scudo spaziale

italiano contro la partecipazione del cittadino alla vita pubblica. Meno capisce, meno è in grado di far valere i suoi diritti e più diventa suddito. Novello Renzo Tramaglino di fronte ad Azzeccagarbugli. L'ec-cesso di burocrazia deprime lo svi-luppo, fa fuggire le aziende all'este-ro, assorbe una quantità enorme del nostro tempo, rende la giustizia meno uguale per tutti. Per i potenti c'è però sempre una scorciatoia, un'interpretazione, un condono, una distrazione. Il costo della buro-crazia italiana è immenso, le socie-tà straniere evitano gli investimenti in Italia come la peste per la buro-crazia. Per partecipare alle elezioni politiche il M5S sta combattendo da mesi contro la burocrazia, molto di più che con partiti, mafie, informa-zione e lobby varie. La burocrazia è come un sudario di cemento, av-volge il Paese con procedure inter-pretate da funzionari invisibili che non devono mai rispondere a nes-suno del loro operato. "Che gente era quella? Di che cosa parlavano? Da quale autorità di-pendevano? Eppure K. viveva in uno stato di diritto, dappertutto regnava la pace, tutte le leggi era-no in vigore, chi osava aggredirlo in casa sua? Era sempre propenso a prendere ogni cosa con disinvol-tura, a credere al peggio solo quando il peggio era arrivato, a non farsi preoccupazioni per il futu-ro, neanche quando si presentava minaccioso. Ma ora questo non gli sembrava giusto, si poteva consi-derare il tutto uno scherzo, uno scherzo pesante...". Franz Kafka, Il Processo.

La burocrazia è, nei fatti, immune all'errore, se colta in flagrante nega, rimanda, si appella, gioca sul tempo e sulle sue immense risorse. Il comune cittadino deve dedicare metà della sua vita per avere una possibilità di vincere un ricorso

A sinistra rappresentazione di Azzeccagarbugli. A destra Ghedini fra i più famosi avvocati del foro.

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Quando la burocrazia uccide

Ma crisi e burocrazia sono poi due fattispecie del tutto diverse? Se-condo alcuni spesso si sovrappon-gono. Leggi carenti, denari pubblici spesi male, incapacità degli apparati pa-chidermici pubblici di rispondere alle esigenze del mondo che si tra-sforma a velocità sempre più gran-di, legano indissolubilmente le crisi (così come anche il successo) agli apparati organizzativi che dovreb-bero, almeno sulla carta, essere in grado di guidare la società attra-verso le bufere e le opportunità che si presentano. Antico è il vezzo di scaricare su fattori esterni quelle che sono invece incapacità interne, vale per gli individui, sempre pronti a trovar responsabilità fuori da sé stessi, ma a maggior ragione vale anche per le burocraze ancor più attrezzate organizzativamente per giustificare, difendere tutelare il proprio operato. Così se centinaia di persone si suicidano per la crisi, bisogna pensare che la causa vera sia da ricercare nella incapacità burocratica di dare risposte ade-guate, non nelle circostanze econo-

miche che sono cambiate. In un apparato pubblico ingessato è in-fatti sufficiente un cambiamento congiunturale, talvolta anche lieve, per turbare un equilibrio economico personale o aziendale strettamente intrecciato con leggi e regolamenti che nel nuovo contesto si trasfor-mano in tagliole inesorabili in grado di causare fallimenti e costringere sotto il livello di povertà anche co-loro che per una vita hanno lavora-to sodo. Così Equitalia si disinteres-sa del fatto che lo Stato non paga i debiti con le imprese o con i citta-dini creditori, e poco importa ai funzionari addetti ai controlli ed alle ispezioni se le leggi sono in molti casi letteralmente inapplicabi-li. In base al principio di oggettivi-tà, imparzialità, integrato dall’intan-gibilità da parte dei superiori politici o amministrativi che siano, il fun-zionario viene di fatto trasformato in una macchina. Egli infatti ha il dovere, non la facoltà, di applicare le leggi, per quanto sbagliate, in-giuste, inapplicabili, possano risul-tare, se non lo fa, compie un abuso perseguibile legalmente dalla magi-

stratura. Quindi anche se il buon senso ur-lasse che in un dato contesto la norma è controproducente, il fun-zionario pubblico non ha la facoltà di scegliere di non applicare la leg-ge e se dovesse farlo, lo fa a suo rischio e pericolo. Questo deriva dalla esigenza intro-dotta nella moderna organizzazione dello Stato di non lasciare spazio alla discrezionalità nell’applicazione delle norme. Cosa accadrebbe se un vigile fosse libero di fare o non fare una multa, un carabiniere o un finanziare di intervenire o non in-tervenire in presenza di un reato. Qui sta la intrinseca contraddizione della burocrazia. Introdurre leggi uguali per tutti da applicare indiscriminatamente nello stesso modo per tutti ma in pre-senza di realtà, situazioni, anche persone che sono sempre tutte, chi più chi meno, diverse e che muta-no anche nel tempo, crea inevita-bilmente danni ai cittadini. E talvolta questi danni sono così pesanti da ridurli nell’indigenza, per cui molti preferiscono il suicidio.

burocrazia

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Burocrazia e totalitarismo: la banalità del male

Tutti i genocidi e le peggiori azioni compiute da stati nella storia ma ancor più nei due secoli passati, in cui l’organizzazione degli stessi è diventata “moderna”, quindi infini-tamente più efficiente, articolata e potente, assumono un aspetto sini-stro se si pensa che tutti i passaggi sono stati concepiti, organizzati, preparati e attuati da persone “normali” che facevano il loro do-vere, come si suol dire: da bravi padri di famiglia. La questione è stata affrontata fra gli altri dal Han-nah Arendt nel suo libro - La bana-lità del male. Eichmann a Gerusa-lemme - che raccoglie e sviluppa i resoconti che la scrittrice fece per il New Yorker sul processo ad Adolf Eichmann criminale nazista con-dannato a morte. Così il suo pensiero: Questo processo diede occasione a molti di riflettere sulla natura uma-na e dei movimenti del presente. Eichmann, come detto, tutto era fuorché anormale: era questa la sua dote più spaventosa. Sarebbe stato meno temibile un mostro inu-mano, perché proprio in quanto tale rendeva difficile identificarvisi. Ma quel che diceva Eichmann e il modo in cui lo diceva, non faceva altro che tracciare il quadro di una persona che sarebbe potuta essere chiunque: chiunque poteva essere Eichmann, sarebbe bastato essere senza idee, come lui. Prima ancora che poco intelligente, egli non ave-va idee e non si rendeva conto di quel che stava facendo. Era sempli-cemente una persona completa-mente calata nella realtà che aveva davanti: lavorare, cercare una

promozione, riordi-nare numeri sulle statistiche, ecc. Più che l’intelligenza gli mancava la capacità di immaginare cosa stes-se facendo. Questa lontananza dalla vera realtà e la mancanza di idee sono il presuppo-sto fondamentale della tentazione totalitaria, che tende ad allonta-nare l’uomo dalla re-

sponsabilità del reale, rendendolo meno di un ingranaggio in una macchina. Come non si possano usare questi concetti lo si vede an-cora meglio esaminando le giustifi-cazioni addotte dai nazisti al pro-cesso di Norimberga: “azioni com-piute per ordine superiore”; queste furono respinte perché, come disse la corte, “alle azioni manifestamen-te criminali non si deve obbedire”, principio che esiste nel diritto di ogni paese. Ma come si può distin-guere il crimine quando si vive nel crimine? Nel pensiero della Arendt per un essere umano è male l'essere un inconsapevole volontario, il braccio intenzionalmente inconsapevole di qualcun altro ed è qualcosa di e-stremamente comune e banale, che il potere può organizzare e utilizzare in moltissime maniere. Il regime totalitario è una di quelle possibili, è ingenuo pensare che sia l'unica, banalizzando così il pensie-ro della Arendt. Un aspetto legato al rapporto fra burocrazia e sterminio può essere letto nell’articolo pubblicata su Op di (Il lato oscuro dell’impresa mag-gio/giugno 2011 - pag. 29) in cui si descrive come la gestione delle vittime destinate ai campi di ster-minio nazisti fosse gestito dalla IBM americana. Non solo quindi gli apparati organizzativi pubblici ma anche le multinazionali possono creare organizzazioni burocratiche di individui più o meno ciechi. E’ evidente che avorare, cercare una promozione, eseguire gli ordi-ni, perseguire efficienza, assumere comportamenti impersonali ecc., siano tipiche funzioni, esigenze doveri, di chiunque entri a far par-te di una organizzazione. Ma se il burocrate non è culturalmente at-trezzato, il suo lavoro proprio per la mancanza di visione complessiva intrinseca nella suddivisione organi-ta, facilmente può trasformarlo in ingranaggio cieco che lavora contro il benessere comune, nel migliore dei casi, per il genocidio nei peg-giori. (vedi OP - febbraio 2012 sui genici-di)

La principale difesa dei criminali nazisti fu: “ho fatto il mio dovere, ho eseguito gli ordini”

Hanna Arendt

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Da Ivan Illich ai Pink Floyd ed a Charlie Chaplin la denuncia dell’uomo “ingranaggio”

Un passaggio su Ivan Illich, pasto-re protestante di origini austriache scomparso nel 2002 ci pare dove-roso farlo. Scrittore, storico, pedagogista e filosofo. Personaggio di vasta cul-tura, viene citato spesso come teo-logo (definizione da lui stesso rigettata), linguista, per la sua vasta conoscenza di svariati idiomi, e stori-co. Viene però più spesso ricordato co-me libero pensatore, capace di uscire da qualsiasi schema pre-concetto e di anticipa-re riflessioni affini a quelle altermondiste. Estraneo a qualsiasi inquadramento preco-stituito, la sua visione è strettamente affine all'anarchismo cristiano. Vice retto-re dell’Università di Puerto Rico e fondatore in Messico del Centro Intercultural de Documentación Cidoc, che ha il compito di prepara-re i preti e i volontari alle missioni nel continente Americano, ha foca-lizzato gran parte della sua attività in America Latina. Il suo essenziale interesse fu rivolto all'analisi critica delle forme istituzionali in cui si esprime la società contemporanea, nei più diversi settori (dalla scuola all'economia alla medicina), ispiran-

dosi a criteri di umanizzazione e convivialità, derivati anche dalla fede cri-stiana, così da poter essere r i c o n o s c i u t o come uno dei maggiori socio-logi dei nostri tempi. In parti-colare nel se-condo libro del 1970, intitolato

Ce leb ra t i on o f Awa reness (Celebrazione della consapevolez-za) lancia un appello alla rivoluzio-ne istituzionale, contro le certezze delle istituzioni che imprigionano l’immaginazione e rendono insensi-bile il cuore. Poi, nel 1971, con De-

scolarizzare la società che è stato al centro del dibattito pedago-gico internazionale con la tesi che la scuola produce la pa-ralisi dell’apprendi-mento e danneggia i ragazzi, educandoli a diventare meri funzio-nari della macchina sociale moderna. Convinto che il siste-ma educativo occi-dentale fosse al col-lasso sotto il peso della burocrazia, dei

dati e del culto del professionali-smo, combatteva i diplomi, i certifi-cati, le lauree, insieme all’istituzio-nalizzazione dell’imparare. Affermava che un adulto sarebbe in grado di apprendere i contenuti di 12 anni di scuola in uno o due an-ni. In tutto questo qualcuno vede un nesso con il disco lanciato dal com-plesso rock dei Pink Floyd, 10 anni dopo –The Wall– diventato anche un film di successo. La critica alla scuola che prepara i giovani stu-denti a diventare another brick in the wall (un altro mattone nel mu-ro), altra metafora dell’uomo-ingranaggio nella società con il principale ruolo di perpetuare una burocrazia statale, ma non solo. Già nel 1936 Charlie Chaplin aveva descritto nel suo film -Tempi mo-derni- l’alienazione dell’uomo ridot-to a ingranaggio della macchina produttiva anche se nelle vesti di operaio, anziché di burocrate.

Another brick in the wall (Pink Floyd)

We don’t need no education. We don’t need no thought control. No dark sarcasm in the classroom. Teacher, leave those kids alone. Hey, Teacher, leave those kids alone! All in all it’s just another brick in the wall. All in all you’re just another brick in the wall. Non abbiamo bisogno di educazione Non abbiamo bisogno di essere sorvegliati né di oscuro sarcasmo in aula Professore, lascia in pace i ragazzi Hey, professore, lascia in pace i ragazzi! Tutto sommato, è solo un altro mattone nel muro Tutto sommato, siete solo un altro matto-ne nel muro

Dal Film: The Wall

(In ultima pagina: Le regole della burocrazia)

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Medicina e civiltà, eugenetica e razzismo le contraddizioni dell’occidente

Nel XIX secolo la società occidenta-le si espande verso sud per assicu-rarsi il controllo di un continente immenso e misterioso: l’Africa, sarà la sfida più grande per l’Occidente Sconfiggere il suo clima e il suo territorio inospitale, la sua povertà opprimente, e in particolare il suo repertorio terrificante di malattie tropicali richiederà uno sforzo sen-za precedenti. Esamineremo da queste righe il quarto dei sei fattori del successo dell’Occidente che gli permisero di prevalere sulle altre culture Se l’occidente perdesse il monopo-lio su questi “segreti” il resto del mondo potrebbe raggiungerci? I prime tre: competizione, scienza e proprietà sono stati esaminati nei numeri precedenti di OP (che come questo sono stati liberamente tratti da una serie di History Channel curata dal prof. Niall Ferguson) hanno consentito all’Occidente di prevalere sull’Asia, sul mondo isla-mico, e sul Sud America. Qui ci occuperemo di come l’occi-dente si impose sull’Africa. E’ qui che verranno effettuati passi decisivi che contribuiranno a met-tere a punto l’arma più potente e prodigiosa dell’Occidente: un’arma che lungi dall’essere letale avrà il potere di raddoppiare l’aspettativa di vita umana: la medicina moder-na.

Ma dall’altro lato di migliorare la vita, c’è un altro aspetto più oscuro della scienza medica: le pseudo-scienze dell’eugenetica e della bio-logia razziale. Queste non solo porteranno al massacro indiscriminato degli afri-cani, ma alla fine porteranno alle camere a gas di Hitler e arriveran-no quasi a distruggere la credibilità della stessa civiltà occidentale. All’inizio del XX secolo la condotta delle potenze occidentali dominanti dall’Asia fino all’Africa suscita una opposizione sempre più aspra da parte di nazionalisti e socialisti criti-ci dell’imperialismo. Alla domanda su cosa pensi della civiltà occiden-tale, il Mahatma Ghandi, il grande leader nazionalista indiano rispon-de argutamente: “credo che sareb-be un’ottima idea”. Una visione negativa tutt’ora condi-visa da molti. Malgrado questo, prima di affret-tarci a condannare gli imperi occi-dentali malvagi e sfruttatori capaci di comportamenti che erano tutt’al-tro che civili, dobbiamo ricordare che c’era più che un fondo di verità nell’affermazione che il coloniali-smo svolse una missione civilizza-trice, in particolare si nutrivano grandi speranze in ciò che avrebbe-ro potuto raggiungere in Africa in quello che veniva chiamato il Conti-nente nero.

Attraverso errori e conflitti esaminiamo il quarto fattore che ha contribuito alla affermazione della civiltà occidentale: la medicina

Casa degli schiavi a Saint Louis

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Il giudizio di Ghandi che la civiltà occidentale sia una contraddizione in termini è un po’ eccessivo per i francesi, poiché nessun impero nella storia ha cercato strenuamen-te di introdurre nella realtà il termi-ne Missione civilizzatrice. Nel 1848 il nuovo governo repub-blicano Francese prende una deci-sione rivoluzionaria, una delle più straordinarie nella storia coloniale africana. Come tutti gli imperi europei in Africa, l’impero francese inizia con la schiavitù, il commercio degli schiavi che aveva prosperato sull’i-sola di Gorèe, era già stato abolito, ma la distinzione fra padroni e schiavi permaneva in tutta l’Africa francese, perciò la prima cosa che il governo rivoluzionario di Parigi fece, fu di abolire la schiavitù, da allora in poi tutti nell’impero fran-cese sarebbero stati liberi. Non è difficile immaginare la rea-zione dei commercianti di schiavi francesi a Saint Louis, prima capi-tale dell’Africa Occidentale France-se quando la notizia giunge da Pa-rigi. Ma quello che il governo francese farà in seguito è ancora più scioc-cante, gli ex schiavi sarebbero au-tomaticamente diventati cittadini francesi e ciò significava che pote-vano votare, un diritto che non era mai stato concesso ai sudditi afri-cani inglesi. Il risultato fu che nel novembre del 1848, duemila dei nuovi cittadini

africani della Francia elessero la prima as-semblea multirazziale dell’Africa che si riunì in uno splendido edifi-cio di Saint Louis. E’ una trasformazione straordinaria: prima la fine della schiavitù e poi, di colpo, la demo-crazia. Al governo francese sembrò ovvio che i sudditi coloniali doves-sero trasformarsi in cittadini francesi con la massima celerità pos-sibile. I benefici rivoluzionari della libertè, egalitè, fraternitè, devono es-sere estesi a tutti a prescindere dal colore della pelle, nel gergo

dell’epoca gli africani dovevano esser “assimilati”. Questo imperialismo progressista è incarnato da Louis Faidherbe che diventa governatore del Senegal nel 1852. Lo steso Faidherbe sposa una ragazza nera quindicenne del posto. Nel 1857 allestisce un esercito co-loniale senegalese, Le Tirailleurs, di colpo Faidherbe trasforma lo status di soldati africani da manovalanza militare a contratto, in combattenti a tutti gli effetti. Intorno al 1860 i mercanti di schia-vi di una volta, sono diventati or-mai fieri avamposti della cultura francese, le ex vittime dell’imperia-lismo sono state trasformate in

cittadini con diritto di voto e l’obbli-go di portare le armi. Per uno dei beneficiari, un giovane senegalese di nome Blaise Diagne la cittadinanza francese aprirà le porte per una straordinaria carrie-ra. Fu grazie all’ideale francese di una Mission Civilisatrice che un uomo come Diagne nato in una umile casa di Gorèe nel 1872 poté entra-re nel servizio doganale coloniale e salire di rango; una simile ascesa sarebbe stata ben più difficile nell’-Africa Britannica. Nel 1814 Diagne è il primo deputa-to di colore ad esser eletto nell’as-semblea nazionale francese a Pari-gi. Il nipote di uno schiavo è diven-tato il legislatore della stessa Fran-cia. Tuttavia nessuno di questi pro-gressi conta un granché per la po-polazione africana, se manca il di-ritto più fondamentale di tutti: il diritto alla vita. L’intera Mission Civilisatrice della Francia rischia di fallire a causa di un nemico micidiale: le malattie. In particolare il genere di malattie che condannano gli africani ad una vita breve e improduttiva, e che rendono ampi tratti dell’Africa sub sahariana quasi inabitabili per gli Europei. L’Africa sarà il banco di prova deci-sivo per il quarto dei segreti del successo della Civiltà occidentale: il potere della medicina moderna di prolungare la vita umana. Oggi in Africa c’è una forza impor-tante che opera per il bene: gli aiu-ti occidentali, si può discutere sull’-effetto negativo che gli aiuti hanno

Colonie africane nel 1852

Louis Faidherbe

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nel favorire governi corrotti, e nel soffocare la nascente imprendito-ria, ma è difficile negare oggi che ingenti somme di denaro vengano spese, per migliorare la salute degli africani. Le medicine moderne prodotte nei laboratori occidentali hanno tra-sformato le vite di tutti noi, non ultime quelle della gente che vive in Senegal. Dal 1960 in Senegal il tasso di mor-talità sotto i 5 anni si è ridotto di 2/3, l’aspettativa media di vita è salita da 40 a 55 anni. In tutto il mondo i benefici della medicina moderna stanno lenta-mente raggiungendo anche gli abi-tanti più poveri del pianeta. Niente illustra il potere trasformati-vo della civiltà occidentale meglio di una clinica come quelle in Sene-gal, dove dottori addestrati nella medicina occidentale elargiscono il dono più grande, un dono dato per scontato dalla maggior parte degli occidentali, il dono di una vita sa-na. Quello che non è molto noto, è che questo processo di estensione dell’-aspettativa di vita in Africa ebbe inizio durante il periodo coloniale. Il grande balzo in avanti nella medici-na occidentale durante il XIX seco-lo, è in parte un prodotto dell’età degli imperi, giacché dominare nuovi territori significa sconfiggere nuove malattie. Un monumento a Gorè ricorda i 21 medici che persero la vita in una epidemia nel 1878. Non per niente l’Africa occidentale era nota come la tomba dell’uomo bianco, l’intero progetto coloniale rischiava di esser stroncato sul nascere dalle malat-tie. Prendiamo l’Inghilterra: le sei prin-cipali spedizioni in Africa occidenta-

le fra il 1805 e il 1841, registrano un tasso di mortalità media del 50%. Se tassi di decessi come que-sto permanessero la colonizzazione dell’Africa da parte degli Europei sarebbe chiaramente insostenibile. Come tutti i bravi amministratori coloniali, i francesi tenevano dei registri impeccabili. E negli archivi nazionali senegalesi si possono trovare dettagli su ogni epidemia di malattia che colpì l’Afri-ca francese: dal colera in Costa d’Avorio, alla Febbre Gialla in Sene-gal. Vi si possono trovare le liste di tutte le vittime delle epidemie, cer-tificati sanitari, commissioni sanita-rie, leggi sanitarie, come se i fran-cesi fossero ossessionati dalla salu-te. La questione Europea in Africa era una questione di zanzara o uomo, il futuro dell’imperialismo dipendeva dal microscopio. Ma i progressi decisivi della fine del XIX secolo non verranno compiuti nei laboratori asettici delle città occidentali, e delle industrie farma-ceutiche. Non era del tutto fantasioso imma-ginare uomini di scienza in perlu-strazione nella jungla, gli studiosi di malattie tropicali impiantarono la-boratori nelle colonie africane più remote. A Saint Louis nel Senegal venne istituito nel 1896 il primo laborato-rio microbiologico di tutta l’Africa. Qui conducevano esperimenti su animali iniettando vaccini speri-mentali: a 82 gatti venne inoculata la dissenteria e a 11 cani venne inoculato il tetano. Era davvero scienza in prima linea, altri labora-tori studiano il colera, la rabbia e il vaiolo. Ecco una altro genere di eroe im-perialista: il batteriologo, spesso

disposto a rischiare la vita per tro-vare la cura per malattie letali. In un laboratorio di Saint Louis venne messo a punto il primo vac-cino contro la febbre gialla per l’in-tera Africa Occidentale Francese. Progetti come questo mantennero gli Europei e quindi l’intero proget-to coloniale in vita. L’Africa stessa era diventata un laboratorio per la medicina occi-dentale, e più la ricerca aveva suc-cesso più gli imperi Europei poteva-no espandersi. All’inizio la colonizzazione in Africa si limita agli insediamenti costieri, ma con l’avvento di un’altra scoper-ta occidentale: i trasporti meccaniz-zati, può espandersi nell’entroterra. Nel 1904 una nuova federazione dell’Africa Occidentale Francese che va da Timbuctu sino al Niger esten-de il governo francese a più di 10 milioni di africani. Non c’è dubbio che l’interesse di fondo dell’impero sia la conquista. Il primo uso militare dei Tirailleurs francesi è contro i padroni dell’en-troterra Senegalese, ed a questi nuovi sudditi dell’entroterra africa-no non verrà di certo offerta la cit-tadinanza francese. La corsa all’Africa diventerà sinoni-mo dello sfruttamento spietato di un intero continente da parte di Europei avidi, ma è anche la corsa per i progresso scientifico. La diffusione delle ferrovie va di pari passo con la diffusione della civiltà occidentale e dei prodigi della medicina moderna. Qui ci so-no i primi Medicine Sans Frontieres, medici senza frontiere. E’ un aspet-to spesso trascurato da quanti, da anni, sostengono che l’imperialismo europeo non abbia nessun lato po-sitivo. In tutto il fiorente impero francese il rovesciamento delle strutture del potere locale è seguito da un ten-tativo di sradicare le superstizioni degli indigeni riguardo alla salute. Ecco un esempio di che cosa si intende per guarigione tradizionale: in una clinica senegalese per la cura dell’infertilità le donne che hanno difficoltà a concepire e che vengono qui, ricevono una terapia e se hanno successo conficcano dei pestelli nel terreno. Uno per la mo-glie e uno per il marito e poi fe-steggiano. Per secoli gli africani si sono rivolti alla medicina tradizionale per cura-

Tirailleur in addestramento

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re il malato e nei villaggi spesso significa andare da sciamani. Una di queste spiega che i proble-mi più comuni sono l’infertilità ma-schile e femminile, e persone che hanno il diavolo in corpo, che signi-fica essere malati di mente. Le me-dicine che vengono date ai pazienti malati di mente è costituita da una mistura di erbe e un po’ di divina-zione. Il problema è che non sono molto efficaci con schiere di batteri e virus letali, questo è uno dei motivi per cui l’aspettativa di vita in Africa è ancora così bassa. Ed è anche il motivo per cui nel 1897 i francesi bandirono la stregoneria. Sette anni più tardi si spingono oltre af-frontando i piani per il primo servi-zio sanitario nazionale africano. Non solo i francesi introdussero il loro sistema di salute pubblica in Africa, ma nel febbraio 1905 il go-vernatore generale, diede ordine di creare un servizio sanitario colonia-le gratuito per gli africani da lui governati. Non a tutti piace ammetterlo ma in questo caso come in molti altri, l’imperialismo europeo portò van-taggi concreti e significativi. Tuttavia ci saranno limiti a quanto gli imperi spenderanno in medicine per gli indigeni, ci sono poche ri-sorse per inviare medici e vaccini nelle comunità isolate dell’entroter-ra e nella battaglia contro la mala-ria i residenti europei delle città africane ricevono maggiore atten-zione da parte del servizio sanitario coloniale. Il colera e l’encefalite letargica che sono più letali per gli africani han-no una priorità più bassa. Quando la peste di diffonde a Da-kar, le autorità francesi sono spie-tate nella loro risposta.

Le case dei contagiati vengono in-cendiate i residenti sgomberati con la forza e tenuti in quarantena sot-to guardia armata. Un tempo i francesi avevano pun-tato alla assimilazione razziale, l’i-ronia è che ora la scienza medica raccomanda la separazione sempre più rigida. A Dakar ci sono proteste di massa, tumulti, e il primo sciopero gene-rale nella storia senegalese. Gli imperativi della scienza medica richiedevano misure drastiche per tenere a bada l’epidemia, ma la scienza del tempo forniva anche la giustificazione pretestuosa per trat-tare gli africani duramente. Secondo le teorie dell’eugenetica gli africani non solo ignoravano la scienza medica, ma erano una spe-cie inferiore. Quello fu un momento critico nella storia della Civiltà occidentale, in quanto l’eugenetica la figlia illegitti-ma della scienza medica, finirà per plasmare la concezione europea dell’Africa e degli africani. Ciò porterà ad uno stravolgimento della missione civilizzatrice con conseguenze raccapriccianti. Intorno al 1850 il cugino di Charles Darwin, un intrepido esploratore di nome Francis Galton attraversa i territori ancora sconosciuti degli Herero e dei Nama nell’Africa su-doccidentale. Tornato a Londra Galton riferisce alla Royal Society “ho visto così tante razze selvagge da avere ma-teriale a sufficienza su cui riflettere per il resto della mia vita” In realtà le ricerche di Galton lo condurranno più tardi a coniare il termine “eugenetica” ossia l’uso di accoppiamenti selettivi per miglio-rare il patrimonio genetico umano. E’ questa la soluzione definitiva al

p r o b l e m a della salute p u b b l i c a : una razza dominatrice di super-uomini in-vulnerabili. Il punto importante da notare che un cen-tinaio di anni fa la-vori come quello di

Galton erano l’avanguardia della ricerca scientifica e il razzismo non era una ideologia reazionaria e re-trograda, era modernissima e la gente all’epoca l’accolse senza in-dugi, come oggi sposa la teoria del cambiamento climatico prodotto dall’uomo. In nessun altro posto la pseudo-scienza dell’Eugenetica avrà un influenza più nefasta che nelle ter-re degli Herero e dei Nama ora parte dell’impero tedesco in rapida espansione. Nel 1900 la Germania è il paese occidentale più all’avanguardia, sono i professori tedeschi a fare la parte del leone nei premi Nobel per la scienza, e le università tedesche sono le prime nel mondo nel cam-po della chimica e della bio-chimica. Eppure c’è un lato oscuro in questo sfolgorante successo scientifico. Celata dietro la vera scienza, c’era una pseudoscienza che asseriva che la razza umana non era una unica specie omogenea, ma era suddivisa e ordinata a partire da una razza dominatrice Ariana in cima sino ad una razza nera a sten-to catalogabile come homo sa-piens; e quale luogo migliore per testare queste teorie che le colonie africane recentemente acquisite dalla Germania? Ciascuna potenza europea elabora un modello ben preciso di colonia africana. I francesi come abbiamo visto privilegiano ferrovie e centri sanitari, gli inglesi non vanno solo in cerca dell’oro costruiscono anche scuole missionarie, i belgi trasfor-mano il Congo in un immenso e ignobile stato schiavista, i tedeschi sono gli ultimi arrivati al banchetto africano. Se per i francesi l’Africa è un labo-ratorio di malattie tropicali, per i tedeschi sarà il banco di prova per la teoria razziale. La versione tedesca della Mission

Francis Galton

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civilisatrice avrà conseguenze ben più terribili, ma anch’essa ha un suo fondamento in apparenza rigo-rosamente scientifico. Nei nuovi coloratissimi insediamenti tedeschi nell’Africa sud-occidentale, gli africano sono considerati biolo-gicamente inferiori, un fastidioso ostacolo allo sviluppo dell’Africa da parte degli ariani bianchi più evolu-ti. Nelle cittadine tedesche dell’Africa i neri hanno il divieto di andare a cavallo, devono ossequiare i bian-chi, non possono camminare sui marciapiedi, non possono possede-re biciclette o andare in biblioteca; nei tribunali rudimentali delle colo-nie la parola di un tedesco vale quanto quella di sette africani. Ma il nodo cruciale era la terra; in base alla teoria dell’epoca gli Here-ro e i Nama erano nomadi inetti e imprevidenti, dovevano essere sop-piantati dai vigorosi coltivatori te-deschi. C’è solo un piccolo problema per gli eugenisti tedeschi, questi africani non sono le creature ingenue delle

loro teorie razziali, dopo l’ennesima provocazione da parte dei prepo-tenti e aggressivi coloni essi deci-dono di ribellarsi. Fu il comportamento gratuitamente arrogante di un giovane sottote-nente tedesco che alla fine innescò la miccia. Il 12 gennaio 1904 gui-dati da Samuel Maharero gli Herero insorsero uccidendo tutti gli uomini tedeschi abili che trovarono, ma risparmiando volutamente donne e bambini: più di un centinaio di co-loni tedeschi furono uccisi (123 Tedeschi, 7 Boeri e 3 donne) Come reazione il governo tedesco invia il generale Adrian Dietrich Lothar von Trotha con l’istruzione di sedare la ribellione con mezzi leciti o illeciti: sceglierà i più illeciti a sua disposizione. In un agghiacciante proclama indi-rizzato agli Herero, von Trotha mette in chiaro cosa significhino in pratica le teorie tedesche sulla raz-za: “Il popolo Herero deve lasciare il paese. Ogni Herero che sarà tro-vato all'interno dei confini tedeschi, con o senza un'arma, con o senza bestiame, verrà ucciso. Non accol-go più né donne né bambini: li ri-caccerò alla loro gente o farò spa-rare loro addosso. Queste sono le mie parole per il popolo Herero.” Nella battaglia che ebbe luogo nei pressi dell’altopiano Waterberg l’11 novembre 1904, in realtà non fu affatto una battaglia, fu più un massacro. Gli Herero vennero radunati in un grande campo di concentramento, avevano appena visto partire un reparto tedesco perciò si aspetta-vano negoziati di pace, invece von Trotha li accerchiò e li investì con una pioggia di granate. Poi mentre uomini donne e bambini cercavano di fuggire vennero falcidiati dalle mitragliatrici. Come von Trotha dice allo sventu-rato governatore civile la cui autori-tà lui aveva usurpato: “…quel po-polo deve sparire dalla faccia della terra”. Ovviamente come von Trotha ben comprese ai superstiti non restò che fuggire dai pozzi da cui dipen-devano a andare nell’arido deserto di Omaheke incontro “alla loro sor-te” per dirla come lui. Gli Herero per dirla in altre parole erano stati deliberatamente stermi-nati. Ora tutti noi sappiamo che la violenza è parte integrante di ogni

impero, ma questa fu decisamente diversa, per molti questo fu il primo genocidio ben prima che la parola fosse inventata. Quelli non fucilati o morti di fame e di sete vengono ammassati in 5 campi di concentramento. Il peggiore di essi si trova sull’isola degli squali, davanti alla città di Lüderitz. Il campo fu deliberatamente situa-to alla estremità dell’isola degli squali per massimizzare l’esposi-zione agli elementi. Senza ripari adeguati, mezzi o cibo i prigionieri dovevano lavorare immersi fino alla cintola nell’acqua gelida e chi vacil-lava doveva temere le scudisciate delle guardie sadiche. L’80% dei prigionieri mandati nel campo di concentramento dell’isola degli squali non ne uscì vivo. Prima delle rivolta gli Herero am-montano a 80.000, dopo ne riman-gono solo 15.000; c’erano 20.000 Nama, nel 1911 i superstiti sono meno di 10.000. Per i colonizzatori tedeschi stermi-nare una razza era solo una parte dell’obiettivo, i campi svolgeranno anche un ruolo più costruttivo, essi giustificheranno il genocidio pro-muovendo anche la causa di una scienza medica pervertita. Gli Here-ro e i Nama non furono solo deci-mati crudelmente furono anche interrati crudelmente in fosse co-muni di cui ancora oggi si possono vedere i resti scoperti negli scavi per la costruzione di una nuova ferrovia da Luderiz ad Haus e tutta-via la cosa interessante è che non tutti i resti finirono in posti così. Teschi e persino alcune teste in salamoia furono spedite in Germa-nia per soddisfare l’insaziabile inte-resse degli scienziati per la scienza razziale. Le donne prigioniere furono co-strette a raschiare i teschi con schegge di vetro per pulirle dei resti prima che i reperti venissero spediti per essere studiati. Nel 1906 vengono eseguite in tutto 778 autopsie sui prigionieri per la

A sinistra Herero in catene a destra He-rero sopravvissuti al deserto di Omaheke

Lothar von Trotha

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cosiddetta ricerca biologico-razziale. Il dottor Eugen Fischer giunge nel-l’Africa sud-occidentale subito dopo l’apertura dei campi di sterminio, ossessionato dai nuovi studi sulla razza allora in voga. Vede i campi come una opportunità di ricerca ideale, per due mesi conduce espe-rimenti medici sui discendenti di razza mista nati da donne africane e uomini europei che comprendono la misurazione dei crani sia dei vivi che dei morti. Nel 1913 Fischer pubblicò i suoi risultati: il sangue dei negri era fondamentalmente inferiore al san-gue dei bianchi e qualsiasi popolo europeo avesse mescolato il pro-prio sangue con quello dei negri si sarebbe condannato al declino mentale e culturale. Libri come quello e fosse comuni come quelle citate sollevano un interrogativo fondamentalmente inquietante: l’Africa fu l’incubatore di immani genocidi, si trattò come suggerì il romanziere Joseph Con-rad di un caso in cui fu l’Africa a trasformare gli europei in selvaggi anziché gli Europei a civilizzare l’A-frica? Dov’è il vero cuore di tenebra? Nel-l’africa? O negli Europei che la trat-tano come un laboratorio per la pseudoscienza razziale. Ma si raccoglie ciò che si semina e la teoria razziale si rivelerà una

idea troppo virulenta per restare confinata nella ide-ologia coloniale. Il fatto che ci sia un sacra-rio della prima guerra mondiale nel cuore di Saint Louis nel Senegal dice qualcosa di importante su quella guerra. Non fu solo una guerra fra stati nazionali europei, fu una guerra fra imperi mon-diali, una guerra interna alla civiltà occidentale, e per la prima volta rivelò che l’occidente poteva por-tare dentro di sé i semi della propria distruzione, perché in questa guerra le potenze occidentali impie-garono tutte le loro armi più micidiali. L’economia industriale fornì i mezzi meccanizzati di distruzione di massa e anche la medi-cina moderna svolse la sua

parte nell’impresa sanguinaria della prima guerra totale. Nella primavera del 1917 le pro-spettive per gli alleati in guerra sono fosche, già alla fine di marzo 1.300.000 francesi sono stati uccisi, e il governo è profondamente pre-occupato per la carenza di uomini. E’ facile dimenticare che la Francia perse due guerre su tre contro la Germania fra il 1870 e il 1940. Nel 1917 si avviava a perdere anche la prima guerra mondiale, a chi pote-va chiedere aiuto? La risposta fu: all’Africa. Ma in tutta l’africa Francese, dal Senegal al Congo, dal Dahomey alla Costa d’Avorio, anziché rispon-dere all’appello “de la Patrie” gli africani si rivoltano. C’è solo un uomo che sembra ca-pace di gestire la crisi, Blaise Dia-gne il primo uomo di colore eletto nell’assemblea nazionale francese. Diagne vede una occa-sione per concludere un accordo con il go-verno di Parigi, egli pretende che agli afri-cani che andranno a combattere sia conces-sa la cittadinanza fran-cese, un incentivo al-l’ingaggio che si rivele-rà straordinariamente efficace. 63.000 africani occi-dentali rispondono alla

chiamata di Diagne, più del doppio richiesto dai francesi. Uno dei vo-lontari africani impazienti di com-battere per la Francia si esprimerà così: “ero felicissimo perché non sapevo come fosse realmente la guerra” , “avrei scoperto cose nuo-ve, fatto nuove esperienze”, “non sapevo cosa mi sarebbe accaduto”, ma lo scoprirà molto presto. Il suo ufficiale comandante è il ge-nerale Charles Mangin Nel 1910, all’epoca tenete colon-nello, gira l’Africa occidentale insie-me ad un gruppo di scienziati con l’ordine di aumentare il reclutamen-to. Quel che vi trova è una sorta di riserva pressoché inesauribile di uomini che sembrano destinati per natura ai campi di battaglia. Charles Mangin era anche un se-guace della pseudoscienza impe-rante del determinismo biologico, dopo aver condotto tutta una serie di test fasulli la sua equipe di stu-dio concluse che gli africani a cau-sa del loro sistema nervoso ritenu-to sottosviluppato sentivano meno la paura e avvertivano meno il do-lore rispetto ai loro simili europei. Perciò si poteva contare sulla loro eccezionale fermezza sotto il fuoco nemico. Nel 1917 Mangin è in grado di met-ter alla prova la sua teoria, sotto il suo comando i Tirailleur vengono schierati contro i soldati forse me-

Tirallieur al fronte francese della Prima guerra mondiale

Charles Mangin

Blaise Diagne

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glio addestrati che l’occidente abbia mai prodotto: l’esercito imperiale tedesco, una vera macchina da combattimento. Quando i Tirailleur senegalesi giun-gono per la prima volta in Francia durante la prima guerra mondiale alla popolazione locale paiono più in numero da circo che un contin-gente di uomini da inviare al fron-te, ma il divertimento non durerà a lungo; la medicina moderna può proteggere i Tirailleur dalle malattie ma non dalle mitragliatrici dell’eser-cito tedesco. Sotto lo Chemin des Dames nel 1917 i senegalesi incon-trarono i tedeschi la 7° armata, i senegalesi erano con la 6° armata di Charles Mangin. Lì si sarebbe dovuta tenere la grande offensiva che avrebbe dovuto sfondare le linee tedesche e porre fine alla guerra in 48 ore. I senegalesi ven-gono mandati in prima linea, so-stanzialmente per risparmiare le vite dei francesi, solo il primo gior-no gli alleati subiscono 40.000 per-dite e come scrisse un Tirailleur “niente riposo, sempre fare la guerra, sempre uccidere neri”

Il colmo dell’ironia è che la prima guerra mondiale fornisce un nuovo laboratorio per il progresso curativo della scienza medica occidentale. Il mattatoio del fronte occidentale dà l’opportunità di fare significativi passi avanti nella chirurgia per non parlare della psichiatria. Vengono inventati gli innesti di pelle e le irrigazioni antisettiche delle ferite, vengono tentate le prime trasfusio-ni di sangue, per la prima volta tutti i soldati inglesi vengono vacci-nati contro il tifo. Progressi che non furono di grande aiuto ai Tirailleur quelli che non vengono uccisi nelle trincee muoio-no di polmonite perché, a detta degli esperti francesi “hanno una predisposizione razziale per quella malattia…” La guerra è proficua anche per i sostenitori della pseudoscienza co-me Eugen Fischer il misuratore dei crani africani, anche se si ritroverà dalla parte degli sconfitti, per lui la prima guerra mondiale si rivelerà sorprendentemente fruttuosa. Quando le truppe di colore finisco-no nei campi di prigionia tedeschi forniscono un ulteriore campione di umanità per dimostrare la superio-rità della razza dominante. “I principi di ereditarietà e igiene razziale” di Fischer pubblicato nel 1921, diventa un opera di riferi-mento per la biologia razziale, Hit-ler la legge e la cita persino nel Mein Kampf. Uno degli allievi di Fiscer è Joseph Mengele che diven-terà il responsabile dei famigerati esperimenti sui prigionieri nel cam-po di sterminio di Auschwitz. Per i tanti soldati coloniali che ac-corsero per aderire al partito nazi-sta, che per inciso fornirono alle SA le loro prime camice nere, sembrò

del tutto naturale che teorie messe alla prova nei campi di concentra-mento dell’Africa dovessero esser applicate alla colonizzazione tede-sca dell’Europa orientale e alle cri-minali politiche razziali che produs-sero l’olocausto, l’eutanasia dei malati di mente e la sterilizzazione forzata dei cosiddetti incroci razzia-li. Se Auschwitz segnerà il culmine della violenza di stato contro popo-lazioni definite razzialmente inferio-ri, la guerra contro gli Herero e i Nama è stata il primo passo in quella direzione. I conflitti mondiali furono come una terribile nemesi servita alla ideologia delle Mission Civilisatrice poiché gli imperi europei applicaro-no l’uno contro l’altro quei metodi che avevano usato per la prima volta contro gli africani. La scienza medica che era apparsa come una salvatrice universale nel-

la guerra contro le malattie, finirà per essere pervertita dai pregiudizi razziali e dalla scienza deviata dell’-eugenetica, trasformando persino alcuni medici in assassini. Nel 1945 la civiltà occidentale sembrò davve-ro una contraddizione in termini proprio come aveva detto Ghandi. Da questa spaventosa epoca di distruzione emergerà un nuovo modello di civiltà imperniato sul consumismo. Per l’occidente sarà il momento di deporre le armi e prendere le buste della spesa, di togliersi l’uniforme e di indossare i jeans. Ne scriveremo sul prossimo numero di OP.

In alto e sopra due immagini di Eugen Fischer

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Primavera o inverno?

I FATTI Quanto sta avvenendo da qualche tempo in Tunisia pone importanti interrogativi per il ruolo emblemati-co svolto da questo paese. Infatti, dopo aver cacciato Ben Ali ed esse-re stata da esempio per altri popoli arabi in lotta contro i rispettivi dit-tatori, è divenuta teatro di gravi di-visioni interne e registra tassi di violenza politica particolarmente pericolosi, come l’uccisione del ca-po dell’opposizione laica e di sini-stra da parte di alcuni salafiti. Pro-prio in seguito a questo episodio sono emerse due “Tunisie” recipro-camente estranee ed ostili: i laici condannano senza appello quanto avvenuto e considerano Ennadha e Salafiti pericoli per la democrazia; questi ultimi si considerano difen-sori e restauratori della purezza morale islamica e vedono i laici co-me esempio vivente della corruzio-ne occidentale da combattere radi-calmente. CONFRONTO CON L’EUROPA Per la verità ciò che oggi osservia-mo in Tunisia dovrebbe esserci ben noto, in quanto anche nei paesi del Primo Mondo, soprattutto in passa-to, si sono verificati scontri ideolo-gici violenti legati ad opposte visio-ni del mondo tra loro inconciliabili. Il Primo Mondo ha però meno squi-libri sociali, un’abitudine ben più consolidata alla democrazia ed uno stile di vita più omogeneo al pro-prio interno; inoltre le grandi ideo-logie del passato sono tramontate, tanto è vero che la caratteristica principale delle nuove forze politi-che è quella di essere “postideolo-giche” e “trasversali”. Questo signi-fica che esse propongono soluzioni

di buon s e n s o condivisi-bili da quals iasi p e r s o n a onesta e tutti que-sti fattori i m p e d i -scono alle pur note-voli divi-

sioni politiche di sfociare nella vio-lenza. La Tunisia, invece, ricorda l’Europa dell’Ottocento più che quella attua-le, in quanto ha al proprio interno profondi squilibri sociali e ben poca familiarità con la democrazia, appe-na scoperta. In questo contesto il rischio che normali contrasti politi-co-ideologici diventino conflitti vio-lenti è decisamente più elevato. In-fatti il mondo islamico sta vivendo un’esperienza storica molto simile a quella del 1848 in Europa ed in particolare in Francia: oggi come allora il “popolo della capitale” ha abbattuto il vecchio potere, ma po-co dopo è stato privato della sua vittoria da forze estranee alla prima ondata rivoluzionaria che però ave-vano dalla propria parte la maggior parte della popolazione, legata ai valori tradizionali. Un’ulteriore affinità tra le due situa-zioni è costituita dalla natura delle forze arrivate al potere, conserva-trici in campo morale e capitalisti-che in economia. Proprio queste caratteristiche costituiscono la for-za ed allo stesso tempo la debolez-za di “Ennadha”: questo partito rie-sce a rappresentare la maggioran-za dei Tunisini a livello di valori, ma sembra non essere ancora riuscito a creare un sistema economico in grado di ridurre la miseria della po-polazione. Bisogna dire che “Ennadha” è al potere da poco tempo, quindi non ha potuto anco-ra mostrare tutte le sue capacità. Va ricordato a questo proposito che esiste una netta differenza tra la Turchia, considerata spesso un mo-dello da imitare da parte dell’opi-nione pubblica degli altri paesi isla-mici, e questi nuovi governi, come quello tunisino. Innanzitutto Erdogan è al potere da molti anni e ha quindi avuto la possibilità di incidere molto più a fondo in tutti gli ambiti, compreso quello economico, contrariamente a questi ultimi. Inoltre in Turchia esiste una classe media che si richiama al predicato-re Gülen che già dagli anni Sessanta del Novecento esaltava le capacità individuali ed il lavoro

RICCARDO MANZONI mb 339.1002650 e-mail: [email protected]

molti volontari musulmani rimasti in Bosnia anche dopo la fine della guerra, col sostegno economico dell’Arabia Saudita, hanno poco per volta introdotto l’ideologia Wahabista e hanno trasformato Sarajevo da città tollerante e multireligiosa in città quasi completamente islamica

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duro, tanto che i suoi seguaci sono definiti “calvinisti islamici”, tutti fattori che mancano completa-mente negli altri Stati musulmani, e che sono fondamentali per spiegare il differente sviluppo economico tra la Turchia e gli altri paesi islamici. CONFRONTO - TUNISIA - EGITTO - SIRIA - LIBIA - AFGHANISTAN In Tunisia la situazione politica che si è venuta a creare presenta sia affinità sia differenze con altri paesi protagonisti delle primavere arabe, come l’Egitto, ma anche con la Li-bia e con la Siria. In Tunisia ed in Egitto “Ennadha” e “Fratelli Musulmani”, una volta arri-vati al potere, hanno dovuto speri-mentare sulla loro pelle quanto sia difficile passare dalla denuncia del malgoverno altrui alla gestione po-litica ed economica dei rispettivi paesi. Questa situazione è ulterior-mente aggravata da due fattori che finiscono per danneggiare queste forze politiche. Il primo è la loro incapacità, alme-no per adesso, di risolvere efficace-mente i problemi eco-nomici e sociali. Si può dire che la loro visione islamica crei anzi nuovi problemi senza riuscire, come invece ci si aspet-ta, ad indicare una via di sviluppo alternativa in grado di divenire in fu-turo un elemento di confronto con il sistema occidentale. Un esempio importante è il turismo: fino a pochi anni fa Tu-nisia ed Egitto attirava-no moltissimi visitatori

per il clima mite, la loro vicinanza geografica all’-Europa e la loro conve-nienza economica, ma anche per la loro stabili-tà e per la loro “laicità” che facevano sentire i turisti sicuri e permette-vano loro di vivere quasi come in patria. Ora inve-ce il turismo è in grave crisi non solo per gli scontri politici tra laici ed islamisti, ma anche per-ché “Ennadha” e “Fratelli Musulmani” non hanno interesse a sviluppare questo importantissimo settore economico, anzi

lo considerano quasi una minaccia perché mette in contatto occiden-tali ed abitanti locali e contribuisce così alla laicizzazione della società, fenomeno da loro considerato per-versione morale da combattere. In cambio non si vede alcun rilancio economico basato sui precetti isla-mici, come prestiti senza tassi di in-teresse, considerati usura dal Cora-no, in grado di dare slancio alle at-tività economiche esistenti o per-metterne la nascita di nuove. L’a-spetto paradossale di questa situa-zione è che mentre non avviene niente di simile in paesi governati da partiti islamici, in Gran Bretagna operano già da anni banche islami-che che si basano su questi principi ed alcuni esponenti della Chiesa Anglicana avevano persino propo-sto di introdurre nel Codice Civile britannico elementi della Sharia, sì proprio quella stessa Sharia che in-vece applicata nel mondo islamico fa così paura all’Occidente ed ai lai-ci di quei paesi. Il secondo elemento che danneggia “Ennadha” e “Fratelli Musulmani”

ha a che fare con la società dei no-stri giorni, in quanto oggi i cittadini si aspettano dai politici risposte in tempi rapidissimi, senza rendersi conto i problemi da affrontare po-trebbero richiedere anni per essere risolti. Solo alla fine del mandato i cittadini hanno il diritto di valutare l’operato dei governanti e decidere se punirli o premiarli. Pretendere di attuare questo giudizio dopo pochi mesi o comunque “in corso d’opera” inve-ce non solo è inutile, poiché per-mette ai politici di affermare di non avere avuto ancora abbastanza tempo per mantenere le promesse fatte, ma anche controproducente perché li spinge a soluzioni “facili” e spesso populistiche ed inefficaci. Il risultato finale è che, vuoi per la frustrazione di non riuscire a risol-vere i problemi concreti, vuoi per la loro natura profonda basata innan-zitutto su una visione religiosa della vita, “Ennnadha” e “Fratelli Musul-mani” danno particolare importan-za all’aspetto morale, anche perché sanno di avere in questo campo maggiore possibilità di successo, ma così facendo provocano una spaccatura sempre maggiore all’in-terno dei loro paesi. Infatti se è ve-ro che la maggior parte della popo-lazione si riconosce nei valori di questi partiti, è anche vero che de-cenni di governi laici hanno creato, soprattutto nelle rispettive capitali, uno “zoccolo duro” relativamente numeroso e ben deciso a combat-tere contro ogni tentativo di isla-mizzazione della società. Questa situazione in Tunisia porta a conflit-ti particolarmente violenti, anche se a prima vista dovrebbe essere l’Egitto la nazione con più problemi. Infatti nel “Paese dei Faraoni” esi-ste anche una notevole minoranza

Proporzione della popolazione sotto i 25 anni nel mondo arabo

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cristiana copta e quindi ogni con-trapposizione interna può sfociare in un conflitto interreligioso, men-tre la Tunisia, da questo punto di vista, è più omogenea perché tutta musulmana. In realtà però Ben Ali era molto più intollerante di Muba-rak nei confronti degli islamisti, tanto da obbligare il loro capo Ghannouchi ad un lungo esilio a Londra, mentre in Egitto i “Fratelli Musulmani” potevano partecipare alle elezioni ed avere propri rappre-sentanti in Parlamento. Questa di-versa politica aveva reso in passato la Tunisia il paese più laico della re-gione, oltre che particolarmente stabile e solida economicamente tanto da essere definita “la Svizze-ra del Nord Africa”. In tal modo si è creato un divario particolarmente accentuato tra i laici, contrari al malgoverno del passato regime ma desiderosi di preservare lo stile di vita precedente, e gli islamisti, par-ticolarmente arrabbiati, estremisti e desiderosi di rivincita per le lunghe persecuzioni subite nei decenni scorsi. Non è certamente un caso che, sia pure con modi diversi, “Ennadha” e Salafiti stanno dalla stessa parte in misura superiore a quanto avviene in Egitto, dove “Fratelli Musulmani” e Salafiti sono in concorrenza tra loro. Questa si-tuazione è facilitata da una pro-fonda differenza geopolitica tra Tu-nisia ed Egitto. La prima è un paese geopolitica-mente meno importante e quindi meno tenuto sotto stretto controllo dall’Occidente e ciò permette ad Ennadha e Salafiti una maggiore li-bertà d’azione contro il nostro stile di vita. Il secondo, invece, é centrale negli equilibri mediorientali e questo da un lato spinge gli USA a legittimare i “Fratelli Musulmani” ed a cercare di collaborare, dall’altro impedisce loro di usare metodi violenti contro gli oppositori perché perderebbero subito gli appoggi internazionali di cui godono, uscendone indeboliti. L’ambivalenza americana appena descritta è emersa molto bene re-

centemente, prima con il so-stegno a Morsi (in occasione del riacutizzarsi del conflitto israelo-palestinese), poi con la condanna da parte di Oba-ma degli scontri tra i sosteni-tori di Morsi ed i suoi opposi-tori. Infatti gli USA considera-no assolutamente prioritaria la stabilità dell’Egitto, tanto da preferire i “Fratelli Musul-mani” all’incertezza. Quanto alla Siria, i casi della Tunisia e della Libia sono più in-quietanti perché se è vero che in tutti e tre questi paesi avanzano forze antioccidentali è anche vero che il ruolo svolto dall’Occidente è stato ben diverso. In Siria, Europa ed USA devono rimproverare innanzitutto loro stes-se perché all’inizio la rivolta contro il governo aveva gli stessi protago-nisti e la stessa dinamica di quelle tunisine ed egiziane ed i sentimenti filo-occidentali in quel momento e-rano molto diffusi perché l’occiden-te era visto come un esempio da imitare. Solo in seguito al disinte-resse occidentale sono emerse for-ze islamistiche che si stanno raffor-zando sempre più con il sostegno dell’Arabia Saudita e degli Sceiccati del Golfo Persico, cioè monarchie assolute e teocratiche. Da questo punto di vista va detto che l’Arabia Saudita ha una strate-gia di lungo periodo particolarmen-te lucida ed efficace. Infatti in quanto alleata degli USA agisce in prima persona consapevole del fat-to che il suo intervento non suscita preoccupazioni, anzi in alcuni casi come quello siriano essa svolge ap-parentemente il “lavoro sporco” al posto degli Stati Uniti. In realtà, però, è mossa da un o-biettivo ben preciso nettamente di-stinto da quello degli americani: l’e-sportazione nel resto del mondo del wahabismo, versione particolar-mente rigida dell’Islam usata dalla dinastia Saud per giustificare il pro-prio potere. Questo esperimento, oggi tentato in Siria, ha già avuto successo ne-

gli anni Novanta in Bosnia; molti volontari musulmani rimasti anche dopo la fine della guerra, col soste-gno economico dell’Arabia Saudita, hanno poco per volta introdotto l’i-deologia ricordata poco fa e hanno trasformato Sarajevo da città tolle-rante e multireligiosa in città quasi completamente islamica. In Libia ed in Tunisia, invece, l’evo-luzione descritta in precedenza è avvenuta con il sostegno occiden-tale diretto od indiretto. Nel primo caso l’occidente può fare un “mea culpa” per avere sostento qualsiasi tipo di oppositori in lotta contro Gheddafi senza curarsi del loro passato e dei loro obiettivi rea-li, come invece gli stessi Servizi Se-greti consigliavano di fare. Questa miopia non solo ha rafforzato in Li-bia forze antioccidentali, ma ha creato le premesse di nuove guerre in Africa, come sta avvenendo in Mali in questo periodo. Infatti è or-mai accertato che gli estremisti i-slamici hanno potuto conquistare gran parte di quel paese, tanto da spingere la Francia ad intervenire, proprio approfittando della situazio-ne di instabilità politica creatasi in

Wahabismo e Arabia Saudita Wahabismo è il nome del Movimento conservatore, sviluppatosi in seno alla comunità islamica, fondato da MUHAMMAD IBN ʿABD AL-WAHHĀB (1703 – 1792) (nella foto). ll Movimento wahabita, è un Movimento fon-damentalista e “farisaico”, profondamente legato alla Casa reale dell’Ara-bia Saudita e che affronta lo studio del Corano in chiave del tutto anti-moderna, ma incline al metodo “fondamentalistico” dell’esegesi prote-stantica americana, che interpreta il Corano alla lettera in maniera stretta e radicale.

Caricatura dei Salafiti contro il Wahabismo

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Libia e del conseguente afflusso in Mali di migliaia di ex combattenti. Inoltre l’intervento in Libia ha mo-strato altri due limiti dei paesi coin-volti. Il primo è che l’Occidente è diven-tato perfino troppo cauto in situa-zioni analoghe, come emerso in Si-ria. Certamente in quest’ultimo ca-so sono entrati in gioco elementi ben più grandi della stessa Siria, come la volontà di non peggiorare i rapporti con la Russia, grande sponsor del regime di Damasco. E’ però innegabile che l’esito politico delle “Primavere arabe” ed in parti-colare della Libia non sia stato par-ticolarmente gradito all’Occidente, determinando il “passo indietro” nella crisi siriana. Sembra quasi che Europa ed USA non riescano più ad avere una politica equilibrata, quin-di passano dall’aiuto indiscriminato come in Libia all’abbandono totale della scena come in Siria, mentre queste due politiche opposte hanno in realtà in comune il risultato di danneggiare gli stessi interessi oc-cidentali. Pare proprio vero che gli opposti si attraggono… L’altro aspetto è più problematico perché riguarda il fattore tempo. Proprio in Occidente nasce “La fre-nesia dei tempi moderni”, che suc-cessivamente ha influenzato anche le altre società. Questo determina non solo da parte dei cittadini, ma anche da parte degli stessi governi, il desiderio di vedere risultati im-mediati, senza rendersi conto che i cambiamenti tanto più sono pro-fondi tanto più richiedono tempi lunghi. Questa mentalità, complice anche la grave crisi economica sul-

le due sponde dell’Atlantico, spinge a disinteressarsi delle conseguenze delle proprie azioni, con un atteg-giamento ben diverso da quello di-mostrato dagli USA nel secondo dopoguerra e da quasi tutte le po-tenze europee nelle proprie colonie nell’Ottocento e nei primi decenni del Novecento. Infatti quegli Stati sapevano molto bene che per di-fendere i propri interessi bisognava intervenire massicciamente in tutti gli ambiti per tutto il tempo neces-sario a consolidare la loro posizio-ne. Certamente il caso dell’Afghanistan non è incoraggiante e potrebbe es-sere usato come riprova dell’inutili-tà di una presenza occidentale pro-lungata nel mondo islamico, ma sa-rebbe un esempio sbagliato sotto tutti i punti di vista. Innanzitutto l’Afghanistan ha una lunga storia di indipendenza e ha costituito sempre un ostacolo insor-montabile per chiunque tentasse di conquistarlo, tanto da essere so-prannominato da Sergio Romano “Il disco rotto della Storia” proprio per la ripetitività delle sue vicende. Questo passato rende la gestione di quel paese particolarmente pro-blematica anche per la NATO, la più grande forza militare di tutti i tempi, e viceversa stimola la guer-riglia a non arrendersi, convinta che anche questa volta alla fine vincerà. Inoltre l’Afghanistan, anche per le sue caratteristiche geografiche, è un paese particolarmente arretrato, dove i cambiamenti duraturi non si verificano assolutamente da un giorno all’altro e così torniamo al

punto di partenza, la concezione falsata del tempo che permea le nostre società. Oggi sia i cittadini sia i vari governi sono convinti di avere fatto e di es-sere rimasti fin troppo “Siamo in quel paese da quasi quattordici anni ed i risultati sono scarsissimi; abbiamo solo sprecato un’infini-tà di soldi e molte vite umane”, questa è l’o-pinione largamente diffusa nel pensiero comune che influenza anche le decisioni po-litiche.

Quasi quattordici anni? Abbiamo capito bene? Ma cosa sono quasi quattordici anni in Storia? Niente, assolutamente niente. Non faccia-mo quasi neanche in tempo a capi-re il contesto in cui bisogna agire e riusciamo giusto ad attuare i prov-vedimenti più elementari che deci-diamo già di ritirarci e poi ci stupia-mo se quello che abbiamo fatto viene spazzato via quasi subito do-po il nostro ritiro? A questo punto è davvero più coerente assistere da spettatori, come nel caso della Si-ria, ma allora non dobbiamo poi la-mentarci se l’inazione spiana la strada a forze ostili, oppure se si decide giustamente di intervenire si deve accettare di andare avanti fi-no a quando non si finisce il lavoro da compiere, indipendentemente dai tempi che ciò richiede. Infine esiste un’importante diffe-renza tra l’Afghanistan e le situa-zioni successive. Nel primo caso l’intervento è nato come reazione all’attentato dell’un-dici settembre, ma la popolazione non aveva particolare simpatia nei confronti degli occidentali e la mas-siccia presenza militare ha ulterior-mente alimentato l’ostilità antiocci-dentale. In tutti gli altri casi, invece, erano i rivoltosi a chiedere il sostegno dell’-Europa e degli Usa che avrebbero potuto conservare questo senti-mento inizialmente favorevole con un aiuto intelligente, anche senza mandare soldati sul terreno, il che avrebbe inevitabilmente creato pro-blemi. Per esempio si sarebbe po-tuto inviare in quei paesi consiglieri economici ed esponenti delle Forze dell’Ordine per dare indicazioni su come creare un’economia efficiente e come controllare efficacemente il territorio instaurando un rapporto positivo tra la popolazione e gli a-genti di polizia. Tutto questo avreb-be contribuito alla stabilità degli Stati in questione ed avrebbe au-mentato ulteriormente i sentimenti favorevoli verso l’Occidente senza richiedere peraltro spese eccessiva-mente elevate da parte europea ed americana. La Tunisia rispetto ai paesi esami-nati fino a questo momento, rap-presenta il caso più inquietante perché l’avanzata dei partiti antioc-cidentali è avvenuta tramite dina-miche interne, mentre Europa ed USA non hanno nulla da rimprove-

La Nato in Afghanistan

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Tunisia più prospera sarebbe un potente freno all’immigrazione sulla Sponda Nord del Mediterraneo, ma questo significherebbe anche un rafforzamento dei partiti più antioc-cidentali. Dall’altro quindi dovreb-bero viceversa augurarsi un ulterio-re peggioramento dell’economia e dello scontento sociale perché solo così potrebbero arrivare al potere forze diverse, davvero amiche dei nostri paesi, ma questo esporrebbe l’opposizione all’accusa di essere “nemica della Patria” ed Italia, Francia e Spagna a nuove massicce ondate migratorie, inoltre in un momento di grave crisi economica. Va detto che fortunatamente la Tu-nisia è un paese piccolo che non ha mai avuto né la forza economica né la volontà politica di mettersi a ca-po del mondo islamico, neppure solo all’interno del mondo arabo, e quindi probabilmente l’Occidente potrà avere rapporti tutto sommato costruttivi, se non con i Salafiti, quantomeno con “Ennadha”, parti-to che non ha alcun interesse a perdere il potere dopo averlo con-quistato dopo così tanti decenni. I-noltre la situazione in Tunisia per certi versi è rovesciata rispetto a quella dell’Egitto, in quanto “Ennadha” è diviso al proprio inter-no tra una corrente più moderata ed interessata a costruire buoni rapporti con l’Occidente ed una più rigida sia verso l’opposizione inter-na sia, indirettamente, verso l’Occi-dente, mentre l’opposizione per a-desso è rimasta compatta. Ciò le ha permesso recentemente una vit-toria apparentemente secondaria, in realtà importante, a proposito della Costituzione. Infatti gli islami-sti avrebbero voluto introdurre il pr incip io che la donna è

“complementare” all’uomo, il che per certi versi è (reciprocamente) un’ovvietà, mentre i laici hanno ot-tenuto che venisse scritto che la donna è “pari” all’uomo. Questo e-pisodio dimostra che è possibile riuscire a mantenere leggi affini al-le nostre e che se ciò è avvenuto in quell’occasione, può accadere an-che in futuro, tanto più che questo è dovuto alla volontà interna di molti tunisini e non ad interventi dall’esterno. D’altra parte basta a-ver visto la grande quantità di per-sone che in tutto il Paese hanno partecipato ai funerali del capo del-l’opposizione per rendersi conto di quanto fosse popolare. Da questo punto di vista la sua uccisione è certamente un chiaro segnale di quanto facesse paura, ma rischia di ottenere l’effetto opposto a quello sperato. Infatti da sempre “E’ se-mente il sangue dei martiri”, come diceva Tertulliano, avvocato della tarda antichità e fervente cristiano, in quanto i morti hanno ancora più forza di mobilitazione dei vivi, riu-scendo a diventare più efficace-mente un esempio per tutti gli altri. Questo è emerso molto bene anche in Italia poco più di venti anni fa, quando le uccisioni di Falcone e Borsellino hanno provocato un’e-norme reazione in Sicilia e non a caso proprio da quel momento, in-sieme al risveglio civico dei cittadi-ni, è iniziata la riscossa dello Stato, con arresti sempre più importanti fino ad arrivare a tutti i capi di quell’epoca. Nel caso della Tunisia la conseguenza potrebbe essere un ulteriore rafforzamento dell’opposi-zione a danno degli islamisti, anche se questi ultimi mantengono un no-tevole seguito, come è emerso con le contromanifestazioni organizzate

e guidate da loro in risposta al funerale del capo dell’oppo-sizione. Il rischio più con-creto, però, è un acuirsi della tensio-ne politica e della divisione della so-cietà, senza per questo arrivare ad una vera e propria guerra civile, ma anche senza sboc-chi immediati che garantiscano mag-giore stabilità.

rarsi. Infatti hanno sostenuto le ri-chieste di democrazia dei Tunisini con ancor più entusiasmo di quan-to avvenuto in Egitto, dove inizial-mente gli Stati Uniti erano preoccu-pati dell’instabilità che si sarebbe venuta a creare in un alleato-chiave così strategico per loro. I-noltre la rivolta, pur fiorita a Tunisi, all’inizio era nata nel Sud povero ed arretrato e coinvolgeva quindi fa-sce diverse della società, mentre in Egitto essa era diffusa soprattutto nella capitale ed aveva come prota-gonisti i “ragazzi bene” istruiti, an-corché privi di futuro. Forse proprio questa trasversalità iniziale aveva illuso i laici di essere i veri rappre-sentanti del popolo e li aveva por-tati a sottovalutare gli islamisti , ben superiori a loro quanto ad or-ganizzazione e presenza capillare nella società. Va detto che questi ultimi sia in Tunisia sia in Egitto so-no stati estremamente abili ad uti-lizzare le altre forze politiche come “utili idioti”, per poi impossessarsi del potere, come in passato aveva-no fatto i comunisti prima, in Rus-sia, e poi nel resto dell’Europa O-rientale. D’altra parte entrambi so-no pervasi da una fede ardente nella giustezza della loro causa e nell’ineluttabilità della vittoria. Solo una volta sconfitti, i laici tunisini hanno capito che bisognava unire le forze sotto un capo carismatico, cosa che in Egitto non è ancora av-venuta, ma ormai era tardi per riu-scire ad opporsi efficacemente al nuovo governo, tanto più che essi devono fronteggiare anche gli as-salti dei Salafiti. La situazione ve-nutasi a creare è paradossale sia per l’opposizione sia per i paesi eu-ropei, in particolare per quelli che si affacciano sul Mediterraneo. In-fatti da un lato, sia pure per motivi di-versi, dovrebbero augurarsi la stabilità del nuovo governo. I tunisini laici dovreb-bero ricordarsi di es-sere prima di tutto tunisini e quindi spe-rare che il proprio paese riesca ad usci-re dalla crisi, indi-pendentemente da chi è al governo. Ita-lia, Francia e Spagna dovrebbero essere consapevoli che una

Manifestazione delle donne a Tunisi

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La scorsa estate “il Borghese” pubblica-v a u n m i o a r t i c o l o r e l a t i v o alla necessità di definire l’identità e la rappresentatività delle categorie politi-che, soprattutto della cosi detta “destra”. Lo sconquasso politico nazio-nale successivo e il teatro parlamentare che osserviamo in questo avvio di legi-slatura indicano che le domande che ponevo non hanno trovato alcuna rispo-sta e che anzi, se possibile, la confusio-ne regna ancor più sovrana. Non basta cambiare sigla e posizione, come fece Fini con FLI; non basta proporre un ac-cattivante inno patriottico per acquisire consensi. Ci vogliono idee. Sia chiaro: idee oggi non se ne vedono molte da nessuna parte, ma osserviamo che il mondo plaude e si emoziona per un nuovo Papa che in meno di 24 ore rilan-cia il messaggio originario evangelico, afferma di volere una chiesa non dog-matica per i poveri, parla con semplicità al cuore dei fedeli rispettando chi fedele non è. La “semplicità” di Papa France-sco demolisce la “teologicità” e dottrina-lità di Benedetto. Emoziona il discorso di apertura della Presidentessa della Ca-

mera, che la vuole casa per i deboli. Mi sconvolge e atterrisce una “destra” par-lamentare che nega l’applauso alla poli-tica della solidarietà, della sussidiarietà e del sostegno. Mi disgusta una “destra” che si vuole cattolica e si na-sconde dietro l’ingombrante figura di Berlusconi, incapace di trovare una pro-pria strategia della solidarietà, inadatta a erogare servizi di assistenza, tutta presa com’è ad inciuciare interessi pre-cisi, non certo popolari. Mi fa orrore una “destra” che ha perduto il rapporto con il popolo, che si abbarbica sull’Aventino per difendere gli interessi di un singolo, dimenticando le necessità delle moltitu-dini, che protesta contro le istituzioni dello Stato come farebbe una scolare-sca in gita. Dinosauri con la testa di legno, altro che parlamentari. Senza identità, senza idee, senza filosofia e senza appartenenza si va solo in dire-zione dell’estinzione. Aspettando che al Quirinale sieda la signora Finocchiaro o la signora Bonino (o peggio il bravissi-mo e noiosissimo signor Rodotà) do-mandiamoci se la destra non ha perso anche la bussola e la testa.

Dinosauri con la testa di legno

Gilberto Borzini

Con ISBN Feltrinelli esce il mio nuovo libro "Geisha", comodamente reperibile su ilmiolibro.com

Geisha 2013 nasce dal materiale raccolto durante oltre 18 mesi di gestione di un sito particolare, “tutela model-le”: un sito in cui venivano indicati e segnalati alle fotomodelle e alle aspiranti tali, personaggi che con il mondo della fotografia avevano ben poco a che fare, soggetti molto più interessati alla modella che non alla fotografia. Falsi fotografi, finte agenzie, casting inesistenti, produttori di millanterie, fotoamatori ossessionati dal sesso e compagnia cantante. Il sito è stato poi chiuso per eccesso di minacce ricevute dal gestore, ma il materiale è ri-masto nella mia disponibilità, insieme con le e-mail, i messaggi, il senso delle conversazioni intervenute con le modelle. Il risultato è un romanzo breve, dai capitoli brevi e intensi, che illustrano come in una chiacchierata tra amici cosa accade dietro le quinte della fotografia, della moda, di alcune produzioni televisive o cinematografi-che. Un romanzo - verità, un “instant book” , un moderno “j’accuse” verso il sessismo imperante, prepotente, dilagante e in apparenza inarrestabile. Una finestra aperta su mondi “borderline” come quello del feticismo, del sado-maso, delle web – cam, di tutti quei piccoli universi in cui la donna è valutata esclusivamente in funzione della propria estetica, del suo corpo e della sua disponibilità. Trovi il mio profilo all'indirizzo http://ilmiolibro.kataweb.it/community.asp?id=184156 Puoi iniziare a leggere i primi capitoli collegandoti a questo link http://reader.ilmiolibro.kataweb.it/v/924383/Geisha#! Mi auguro ti possa interessare sono certo che vorrai trasmettere l'informazione ai tuoi amici (soprattutto alle amiche). Grazie per l'attenzione, un sorriso ;-)

Mi disgusta una “destra” che si vuole cattolica e si nasconde dietro l’ingombrante figura di Berlusconi...

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Progett’Azione ha presentato lunedì 18 marzo 2013, primo firmatario il capogruppo Angelo Burzi, una pro-posta di legge sul nuovo sistema di elezione del presidente e della giunta regionale del Piemonte. La proposta, che tiene conto della le-gislazione nazionale che prevede la riduzione del numero di consiglieri da 60 a 50, modifica la legge elet-torale attualmente in vigore al fine di continuare ad assicurare un’ade-guata rappresentatività degli elet-ti, garantendo la più adeguata rappresentazione istituzionale della volontà popolare. “Con la nostra proposta - dichiarano gli esponenti di Progett’Azione – presentata in tempo utile per essere discussa, integrata e migliorata, abbiamo inteso offrire un contributo concre-to alla governabilità del Piemonte, rafforzando la trasparenza, miglio-rando la possibilità di scelta dei cittadini elettori, prevedendo l’eli-minazione del listino e introducen-do una soglia di sbarramento del 5% sia per le coalizioni, sia per il candidato presidente”. La proposta di Progett’Azione (al gruppo aderi-scono i consiglieri regionali Angelo Burzi, Roberto Tentoni, Rosanna Valle e Gianluca Vignale) innova le modalità di raccolta delle firme per la sottoscrizione delle liste, per evi-tare falsi e per ridurre i ricorsi e introduce norme più severe in tema di ineleggibilità e incompatibilità. Le liste dei candidati per ogni circo-scrizione elettorale dovranno esse-re depositate presso la cancelleria del tribunale tra il quarantacinque-simo e il quarantesimo giorno pre-cedente la data delle elezioni e po-tranno essere sottoscritte dopo il deposito, quando saranno già state

verificate formal-mente e preventi-vamente nella loro regolarità. In que-sto modo si miglio-rerà la trasparenza e si ridurranno le possibilità di con-tenzioso. Tra le cause di

incompatibilità figurano, tra l’altro, l’essere presidente provinciale, sin-daco, assessore o consigliere pro-vinciale o comunale. Non potrà essere immediatamente ricandidato alla carica di presidente della giun-ta chi ha già ricoperto ininterrotta-mente tale carica per due mandati consecutivi, così come non potran-no essere immediatamente rinomi-nati assessori regionali coloro che abbiano rivestito ininterrottamente per due mandati consecutivi la cari-ca di componente della giunta; tut-tavia verrà consentito un terzo mandato consecutivo se uno dei mandati abbia avuto durata inferio-re a due anni, sei mesi e un gior-no.“La proposta – chiarisce Proget-t’Azione – assicurerà la governabili-tà attraverso l’elezione diretta del presidente della Regione e l’asse-gnazione di un premio di maggio-ranza al candidato presidente e alla coalizione di liste più votate pari al 58% per cento dei seggi attribuiti, garantendo comunque alle coalizio-ni perdenti un numero di seggi pari al 42% del totale”. Viene inoltre fissato un nuovo crite-rio per il riparto delle circoscrizioni elettorali, che diventano quattro, prevedendo un premio di maggio-ranza per le liste collegate al candi-dato proclamato eletto. Le quattro nuove circoscrizioni elettorali sono costituite dalle attuali province di Torino; Cuneo; Asti e Alessandria; Biella, Novara, Vercelli e Verbano-Cusio-Ossola. In base alla proposta il voto verrà espresso attraverso il sistema della preferenza multipla e di genere, disponendo che nell’e-spressione delle tre preferenze al-meno una sia riservata a un candi-dato di genere opposto alle altre due. La proposta introduce anche una novità in materia di soglie di sbarramento: non verranno am-messe all’assegnazione dei seggi le coalizioni che non abbiano conse-guito il 5% dei voti validi e il cui candidato alla presidenza della Re-gione non abbia conseguito il 5% dei voti validi.

Dalla Regione: una proposta per cambiare il sistema elettorale

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Quanto guadagna un assessore provinciale? È interessante saperlo anche alla luce della profonda crisi di liquidità della Provincia di Ales-sandria che si aggrava di giorno in giorno nonostante la consulenza milionaria di Ezio Guerci che dove-va ridurre e razionalizzare la pianta organica dei dirigenti e dei quadri, con relativa diminuzione della spe-sa per gli stipendi. Invece la consu-lenza del compagno della sindaca di Alessandria non ha sortito nes-sun effetto perché la Provincia an-novera, fra dirigenti e quadri, ben 54 posizioni aperte a libro paga (appena sei in meno a prima solo perché qualcuno è andato in pen-sione) per un totale annuo ci circa sette milioni di euro di stipendi. Ma gli stipendi da favola non sono solo per dirigenti e quadri, in quan-to anche gli assessori non scherza-no. Ma lo fanno mimetizzando me-tà di quello che prendono in busta. Un assessore provinciale che uffi-cialmente porta a casa circa 2500 euro netti al mese, in effetti, in busta paga li raddoppia. Com’è possibile? Semplice, insieme allo stipendio, c’è altrettanto a titolo di rimborso spese. Il record dei rim-borsi spese è appannaggio di Gian-carlo Caldone, 55 anni, residente a Volpedo che in nove mesi – stipen-dio di assessore a parte – ha rice-vuto oltre 20 mila euro di rimborso spese. Poi c’è Raffaele Breglia, 41 anni, di Castelnuovo Scrivia con poco meno di 20 mila euro, quindi Cesare Miraglia, alessandrino resi-dente alla frazione Mandrogne con oltre 16 mila euro di rimborso spe-se. La classifica prosegue con Mas-simo Barbadoro di Bassignana con circa 15 mila euro, Lino Rava, di Tagliolo Monferrato con circa 11 mila euro, Carlo Massa di Gavi con 10 mila euro, Gianfranco Comaschi di Trisobbio con oltre 6 mila euro, Graziano Moro di Novi Ligure con poco più di cinquemila, poi Maria Grazia Morando e Rita Rossa con poche migliaia (fonte Oggi Crona-ca). La legge consente agli asses-sori di essere rimborsati per tutte le trasferte da casa all’ufficio di Alessandria, per cui Caldone che abita a Volpedo ha preso 20.000

euro in nove mesi per percorrere circa 8.000 chilometri (Volpedo-Alessandria tre volte alla settimana per nove mesi) più di sei volte quello che la legge italiana gli con-sentirebbe che è pari a un quinto del prezzo della benzina al chilome-tro. E così Miraglia che abita a Mandrogne ha avuto 16.000 euro di rimborso spese per le trasferte. Ma Mandrogne dista 13 chilometri da Alessandria e per Miraglia sono, andata e ritorno per tre volte alla settimana per nove mesi, circa 30-00 chilometri all’anno per un rim-borso chilometrico di oltre 5 euro, quasi 14 volte volte il dovuto per legge. Allora c’è qualcosa che non va anche perché la legge italiana richiede che i rimborsi devono es-sere motivati con tanto di pezze giustificative d’appoggio che, natu-ralmente, i nostri assessori provin-ciali si guardano bene dall’esibire limitandosi a produrre un’autocerti-ficazione con su scritto “funzioni di mandato”, documento che nessu-no, ovviamente, controlla per veri-ficare che le spese siano state so-stenute realmente. Fatto sta che, soltanto calcolando gli ultimi nove mesi, la spese per simili rimborsi ammontano complessivamente a 113.000 euro circa, in totale assen-za di fatture o ricevute fiscali e, ancor peggio, di dettaglio della so-pesa con pezze giustificative di ap-poggio. Ovviamente tutto ciò impe-disce a chi paga di controllare cosa

Quanto guadagna un assessore provinciale? di Max Corradi, www.alessandriaoggi.it

paga, col piccolo particolare che i soldi non sono i suoi ma dei contri-buenti. Potrebbe darsi che i rimbor-si facciano riferimento ad un’inden-nità generica, prevista contrattual-mente come retribuzione aggiunti-va ed erogata per tutte le trasferte entro e fuori il territorio comunale, senza obbligo di specifico incarico o rendiconto. Però l’indennità generi-ca costituisce a tutti gli effetti una retribuzione imponibile a fini fiscali e previdenziali e ci piacerebbe sa-pere, a questo punto, se i nostri assessori ci pagano sopra le tasse. Ma al di là di queste considerazioni di carattere tecnico, riteniamo che il giochino di dichiarare uno stipen-dio e poi percepirne uno doppio con l’aggiunta dei rimborsi che, come abbiamo visto in due casi, sono palesemente gonfiati e facil-mente mimetizzabili, sia un espe-diente da miserabili che non voglio-no far sapere quanto guadagnano n a s c o n d e n d o l a v e r i t à . E allora ai precari e ai dipendenti della Provincia che lottano per di-fendere il loro posto di lavoro e, quando ce l’hanno, lottano anche per portare a casa il magro stipen-dio di mille euro al mese o poco più, lo diciamo noi quanto prendo-no mediamente gli assessori della Provincia: uno di loro prende quan-to quattro dipendenti, per lavorare (si fa per dire) un decimo d quello che lavora un operaio. E certi politi-ci poi dicono di essere socialisti.

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Le province del sud Piemonte

Introduzione Il ridisegno dei confini amministra-tivi delle Province piemontesi, se-condo i nuovi requisiti dimensionali richiesti, ossia almeno 2.500 chilo-metri quadrati di estensione del territorio e 350.000 abitanti, con-templa un'ipotesi di aggregazione dei territori delle Province di Ales-sandria ed Asti. Infatti, tali Province mostrano una contiguità non solo territoriale ed infrastrutturale, collocandosi al cro-cevia tra Torino e la Liguria, ma, sotto alcuni aspetti, anche socio-economica, sia per quanto concer-ne la struttura demografica che quella produttiva: si pensi, ad e-sempio, alle produzioni vinicole del Monferrato, che coinvolgono u-n'ampia area che va da Casale, Acqui a Nizza e Canelli, ma anche al distretto di Casale-Ticineto-Quattordio (oggi pesantemente toccato dalla crisi), di cui fanno parti imprese localizzate in alcuni comuni dell'astigiano. Dal punto di vista dell'erogazione dei servizi, inoltre il distretto sanitario di Casa-le Monferrato estende i suoi confini oltre la provincia di Alessandria, anche nell'astigiano. Le specificità territoriali del sud del Piemonte La dotazione infrastrutturale e il policentrismo L'area sud-est del Piemonte, che comprende, ad est, il territorio del-la Provincia di Alessandria e, ad ovest, quello della Provincia di Asti, si caratterizza per uno spiccato po-licentrismo e per una certa interdi-pendenza tra nodi produttivi, che supera, spesso, i confini delle sin-gole province di riferimento. In effetti, la stessa posizione geo-grafica, a cavallo di tre regioni la rende storicamente un crocevia di transito, favorendone le dinamiche centrifughe. E proprio il posiziona-mento nodale al centro del Nord-ovest italiano rappresenta il primo fattore di identità comune, potendo costituire tanto un fattore di disper-sione quanto una base per una

progettualità integrata in cui la do-tazione infrastrutturale diventa una risorsa per il territorio. Da sempre quest'area si configura come una piattaforma di relazioni e di scambi e un importante nodo stradale, autostradale e ferroviario, come entroterra dei porti liguri, dotato di forte accessibilità alle metropoli padane e come cerniera di con-giunzione. Nel tempo l'area ha sa-puto dotarsi di funzioni di servizio e smistamento (si pensi alla densità di strutture logistiche intermodali e retroportuali) destinate verosimil-mente a un ulteriore notevole svi-luppo nel caso in cui la posizione della portualità ligure sullo scac-chiere geo-economico le consenta di intercettare i traffici marittimi tra centro Europa ed estremo Oriente. La provincia di Alessandria è ten-denzialmente policentrica e aperta verso territori contigui, attraverso: - il triangolo Alessandria-Genova-Savona, chiamato anche il triangolo della logistica, che guarda alle rela-zioni forti con il sistema portuale; - l'asse Cuneo-Alba-Asti-Casale Monferrato/Alessandria, che com-prende anche il distretto del vino e aree di soggiorno e per il tempo libero (enogastronomia, enoturi-smo), con forti legami con l'astigia-no; - l'asse Alessandria-Casale Monfer-rato-Vercelli-Novara, che non è so lo un "asse un ivers i ta-rio" (l'Università del Piemonte O-rientale), ma pure una grande fa-scia di apertura dei territori pie-montesi alla Lombardia. La provincia di Asti gravita essen-zialmente sul capoluogo, sebbene alcune fasce di territorio abbiano strette relazioni: - con le Langhe cuneesi per quanta riguarda Canelli e tutta la zona sud della Provincia; - con Acqui Terme, per quel che concerne Nizza e parte della valle Belbo; - con il Casalese, per i comuni limi-trofi a Moncalvo; - con la Provincia di Torino, per tutta l'area a produzione metalmec-

di Cristina Bargero IRES Piemonte

In un periodo di crisi economica e di crescente apertura dei mercati, l'aggregazione dei territori provinciali può rivelarsi un'opportunità per le Province del Sud-est del Piemonte, permettendo una progettazione integrata, in una logica di area vasta...

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canica, localizzata a nord. La demografia Una peculiare caratteristica di que-sti territori è l'accentuata fragilità demografica, in particolare nella Provincia di Alessandria, soprattut-to in rapporto ai livelli di invecchia-mento della popolazione residente. Si tratta di una condizione che in forma ricorrente solleva preoccupa-zione per le sue possibili ripercus-sioni sulle capacità di innovazione e di crescita economica. Il permanere – almeno su un piano teorico – di elementi di rischiosità appare chiaro se si considerano congiuntamente i due caratteri cru-ciali dei territori alessandrino e asti-giano: la sottodotazione quantitati-va del fattore umano, soprattutto nelle sue fasce giovanili, e la posi-zione intermetropolitana a fortissi-ma accessibilità. Non sembra irrealistico, in simili circostanze, evocare l'immagine di una "terra di mezzo", nella quale la fortissima connettività possa agire da via di fuga anziché come veicolo di attrazione, o essere investita da decisioni localizzative esogene che atterrano sul territorio senza istitui-re con esso efficaci relazioni di scambio e di riverbero economico e

sociale. Il tessuto produttivo La composizione del valore aggiun-to mostra per le province sia di Alessandria sia di Asti un peso del-l'agricoltura superiore rispetto alla media regionale, grazie alle specia-

lizzazioni vitivinicole delle Langhe e del Monferrato e alla presenza di una filiera agroalimentare legata all'industria alimentare.

Il tessuto produttivo di entrambe le province, caratteristica comune, del resto, a tutta la Regione, si caratte-rizza per la larga diffusione di mi-cro-imprese e piccole medie impre-se, cui si affiancano, tuttavia, so-prattutto nell'Alessandrino, gruppi industriali di una certa rilevanza anche internazionale. La provincia di Alessandria si con-nota per un mix di grandi imprese e di PMI (Piccole Medie Imprese) distrettuali. Le prime caratterizzano i settori della plastica/chimica (Mossi&Ghisolfi, Guala Closures e Solvay), dei cementi (Buzzi Uni-cem, Italcementi e Cementir), delle costruzioni (Gruppo Gavio), delle macchine grafiche (il gruppo Offici-ne Meccaniche Cerutti), dell'alimen-tare e dolciario (Bistefani, Elah-

Dufour, Campari, Pernigotti, Ro-quette); le seconde strutturano due dei maggiori distretti industriali italiani: quello orafo, di Valenza Po, e quello "del freddo", di Casale Monferrato. La fascia centrale della Provincia di

Alessandria, ossia quella che com-prende le città di Alessandria, Tor-tona e Valenza Po, costituisce il principale motore produttivo della

provincia, con le specializzazioni produttive della logistica, dell'orafo e della plasturgia; quella meridio-nale che coinvolge l'Alto Monferrato e l'Appennino ligure vede le proprie specializzazioni produttive nei set-tori dolciario e vitivinicolo; quella settentrionale comprendente il si-stema collinare del Basso Monfer-rato, fascia fluviale del Po, la città di Casale Monferrato, si caratteriz-zata per il distretto del freddo, oggi profondamente toccato dalla crisi manifatturiera, e altre produzioni di macchinari. Per quanto riguarda la Provincia di Asti, nella zona nord sono relativa-mente modeste le produzioni vitivi-nicole e quelle agroalimentari, mentre sono più rilevanti la dota-zione ambientale (qualità del pae-

saggio) e gli insediamenti produttivi (Villanova d'A-sti). Nel Sud, vi è una la tradizione vitivinicola viva-ce, in particolare sul ver-sante della produzione di spumanti (Gancia, Bosca), e vi si registra anche la presenza di istituti e centri di ricerca nel settore eno-logico (Istituto sperimenta-le di Enologia di Asti). In questo ambito, le difficoltà dell'Astigiano sembrano connesse a una mancata differenziazione rispetto alle zone limitrofe delle Langhe cuneesi. Entrambe le province, quindi, sono caratterizzate da una struttura imprendi-toriale diffusa (con l'eleva-ta densità di numero di

imprese) e potenzialmente in grado di sfruttare le positive condizioni accennate, da una soddisfacente struttura formativa (dal sistema scolastico all'Università), da una buona collaborazione e cooperazio-ne tra le istituzioni (che si misurano

Figura 1. Indice di vecchiaia e di dipendenza giovanile al 2010: Alessandria, Asti, Pie-monte - Fonte: Osservatorio demografico Ires Piemonte

Agricoltura Industria Servizi

Alessandria 1,8 25,9 72,2

Asti 2,5 27,3 70,2

PIEMONTE 1,4 26,7 71,8

Figura 2. Distribuzione delle unità locali per addetti al 2009 - Fonte: Istat

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efficacemente con le opportunità del-lo sviluppo locale) e le rappresentan-ze delle categorie. A fronte di questo insieme di vantag-gi competitivi non vanno sottaciute anche alcune rile-vanti criticità, quali la struttura idrogeologica degli argini dei fiumi, soggetta ad allu-vioni e dissesti idrogeologici. Conclusioni In un periodo di crisi economica e di crescente apertura dei mercati, l'aggregazione dei territori provin-ciali può rive-larsi un'oppor-tunità per le Province del Sud-est del P i e m o n t e , permettendo una progetta-zione integra-ta, in una lo-gica di area vasta, che consenta di rafforzarne le pe cu l i a r i t à , quali la posi-zione geogra-fica e la dota-zione infrastrutturale che li rendono una piattaforma logistica naturale tra la portualità ligure e il Nord Ita-lia entro una struttura economica ad elevata diversificazione produtti-va, con reticoli locali che si agglo-merano intorno a nodi urbani im-portanti. È questo fenomeno poli-

smo enogastronomico, termale, dei manieri, ecc.. - e, infine, quella

settoriale – dell'orafo, del-la metalmec-canica, dell'a-limentare e del credito. Bibliografia Barella D., 2008, I qua-dranti del ter-ritorio pie-montese: le p r o s p e t t i v e de l Sud -Ovest, Scenari per il Piemon-te del 2015, Ires Piemonte,

Torino Bargero C.,2008, I quadran-ti del territorio piemontese: le pro-spettive del Sud-Est, Scenari per il Piemonte del 2015, Ires Piemonte, Torino Ferlaino F., Senn L.,2011, Per lo sviluppo della Provincia di Alessandria, www.politichepiemonte.it

centrico che costituisce la ricchezza dell'insieme dell'area vasta.

Una maggior integrazione tra i di-versi territori e le politiche consen-tirebbe di valorizzare maggiormen-te la "piattaforma logistica", quella "tecnologica" - della ricerca univer-sitaria, dei poli di innovazione, delle i nnova z ion i g reen- que l l a "paesaggistico-culturale" - del turi-

marzo 2013

Periodico indipendente di politica, cultura, storia. - Autorizzazione del tribunale di Torino n° 5554 del 2-11-2001 Direttore Responsabile: Enzo Gino. Sede legale 15020 Cantavenna di Gabiano (AL) - Stampato in proprio - Piemonte Futuro - P. Iva 02321660066 - Per informazioni, collaborazioni, pubblicità e contatti: [email protected] cell. 335-7782879 - Distribuzione gratuita. www.osservatoriopiemonte.it Finito di stampare il 29 marzo 2013

Tabella 1. Composizione del valore aggiunto al 2010: Alessandria, Asti, Piemonte Fonte: Istituto Tagliacarne 2010

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Anche se dovrebbe essere morta, una azienda burocratica può essere tenute in vita artificialmente. Tralasciando le fasi precedenti della sua vita (vedi schema), la morte avviene quando nessuno si impe-gna più a mantenerne attiva la sua organizzazione. Anche in presenza di business o di interventi di enti pubblici a sostenerla, la morte na-turale può verificarsi per burocra-tizzazione. Nella fase burocratica, una azienda è in gran parte incapace di genera-re risorse sufficienti per sostenere sé stessa. Giustifica la sua esisten-za per il semplice fatto che l'orga-nizzazione ha uno scopo utile per un altro soggetto politico o impren-ditoriale disposto a sostenerla. L'organizzazione burocratica: - E’ molto strutturata ed ha molte

regole e si muove secondo rituali, non secondo ragione;

- Ha dirigenti con scarsa attitudine al controllo;

- E' internamente dissociata; - E’ esperta nel creare difficoltà per

ridurre gli interventi dall’esterno; - Costringe i sui fruitori (clienti o

utenti) a sviluppare approcci complessi per aggirare ostacoli amministrativi anche semplici.

Le organizzazioni burocratiche rea-lizzano ben poco di qualsiasi cosa abbia un valore. La loro attenzione è spesso orientata al controllo per motivi di... controllo. La giornata dei suoi membri è fatta di sistemi, moduli, procedure e regolamenti. I suoi membri conoscono a menadito tutte le regole, ma non riescono a ricordare il motivo per cui esistono. Se si chiede il motivo per cui fare le cose in un certo modo, i dirigenti di una burocrazia probabilmente vi diranno: "Perché questa è la politi-ca dell’azienda" e la risposta a

qualsiasi richiesta sarà: "Scrivimi una nota." Su-perati i conflitti iniziali nella burocrazia si può affermare un ambiente poco stressante. C'è poca pressione per concludere le attività, finché si ri-spettano i regolamenti. Per effettuare un cambia-

mento è necessario avere la colla-borazione degli altri, che è quasi impossibile in una burocrazia. Un dirigente non può richiedere ai collaboratori impegni che vanno al di là dei limiti previsti dall’organiz-zazione. I rituali vengono quindi sostituiti all'azione: gli incontri si moltiplicano, vengono redatti ver-bali, depositate memorie e docu-menti. Ci possono anche essere un sacco di votazioni, di dibattiti e an-che di rabbia, ma in ogni caso, una conclusione vera e propria non c’è. Le aziende burocratiche sono inter-namente dissociate: ogni reparto o ufficio ha la responsabilità di un compito particolare, ma nessuno ha la responsabilità per il risultato complessivo dei diversi uffici. Di solito è l’utente che deve mettere insieme tutti i pezzi, ed i dipendenti non conoscono il funzionamento interno degli altri reparti. Il servizio clienti consiste spesso in registra-zioni telefoniche il cui compito è quello di ascoltare, registrare i re-clami, e rispondere in modo stan-dardizzato frasi di rito che più o meno recitano: "Ci scusiamo per gli eventuali disagi, ma faremo del nostro meglio per risolvere il pro-blema" o rinviano ad altri interni. Spesso rispondono alle richieste degli utenti, richiedendo un altro documento. Le burocrazie non chiedono mai in anticipo tutto ciò di cui avranno bisogno. Invece di mostrare l’intera procedura, una organizzazione burocratica mostra solo una scheda alla volta. Come una persona anziana che fa tutti i giorni le stesse cose ed ha difficol-tà a cambiare, la burocrazia tende a peggiorare per qualsiasi modifica venga introdotta. Così le burocrazie azzerano le pretese esterne di cambiamento creando ostacoli per

impedirle e gli utenti dei servizi sono i principali soggetti che pos-sono avere tali pretese. Le burocra-zie minimizzano la possibilità di interferenze esterne collegandosi al mondo esterno attraverso canali molto angusti. Spesso consentono solo ad una linea telefonica in arrivo di mante-nere i contatti con gli utenti e solo per poche ore al giorno. Tengono le persone in piedi, in fila solo per dire loro quale altra fila devono fare. In una burocrazia, la mano sinistra non sa quello che la mano destra sta facendo così un reparto respin-ge ciò che è fornito da un altro. Gli utenti/clienti sono perplessi, frustrati, persi; per ottenere un risultato devono costruire un pro-prio sistema di relazione in grado di confrontarsi con l'organizzazione inefficiente. Le aziende che devono lavorare con le burocrazie di solito hanno reparti dedicati di sistemi e persone esperte in materia di fun-zionamento interno di un ente pub-blico particolare; ciò per sperare di ottenere i risultati di cui hanno bi-sogno da quella burocrazia. Le bu-rocrazie contano su leggi che forni-scono loro il monopolio sui servizi e le assegnazioni dei fondi derivanti dalle tasse, per questo i capi delle burocrazie passano la maggior par-te del loro tempo nelle sale e nei corridoi con i politici a salvaguarda-re il finanziamento dei loro capitoli di bilancio. La cosa che infastidisce la maggior parte dei politici è la stampa negativa. Così, i capi delle burocrazie sono attenti a garantire che non sia fatta informazione ne-gativa su di loro da parte delle agenzie. I soggetti di riferimento per un burocrate sono coloro che controllano le prestazioni, il bilancio o altre burocrazie come i sindacati, gli organi di informazione, ecc., agli ultimi posti ci sono i clienti/utenti di cui dovrebbero essere al servizio. Molte burocrazie sono vulnerabili ai cambiamenti delle leggi, alla priva-tizzazione, alla perdita del finanzia-mento aziendale perché qualsiasi cambiamento improvviso può rovi-narle.

Corteggiamento

fondatore o la famiglia trappola

imprenditore insoddisfatto

Burocratizzazione precoce

morte

Invecchia-mento precoce

Morte prematura

Div

orz

io

Aristocrazia

Stabilità

Affare

Infanzia

Crescita

Adolescenza

Affermazione

Burocratizzazione finale

Alcune regole della burocrazia

La parabola di vita di una azienda