Lo sbarbatello numero 1 mi guardò indispettito, ragliò: <Di nuovo?>.
Annuii tirando le gambe giù dal letto, lo sbarbatello numero 2 sospirò: <Allegria, torniamo al
cesso>.
Non dissi nulla. D’altronde che cosa avrei dovuto dire? Se bevi due litri d’acqua bisogna poi
smaltirli e mica puoi fare tutto e subito, eh no, ti alleggerisci poco alla volta. Trafficai con i lacci
delle Adidas, infilai la blusa della tuta, allungai i polsi, lo sbarbatello numero 1 armeggiava con
catenone, lucchetto e schiavettoni, il collega scosse la testa <Per stavolta lascia perdere, lo portiamo
così>. Con rumore di ferraglia catenone, lucchetto e manette s’attorcigliarono sul tavolo a fianco
della porta.
<Forza, andiamo> sbuffò lo sbarbatello numero 2. Spalancò la porta, mi prese sottobraccio.
Nell’uscire mi voltai, diedi una lunga occhiata alla camera 18 della divisione di urologia che da tre
giorni sostituiva la cella. Non so perché lasciai correre lo sguardo sul letto di ferro, sulla copertina
del romanzo Platform, macchia violacea sul comodino, sul crocifisso appeso alla parete chiazzata
alla congiunzione con il soffitto da una perdita d’umidità, sull’armadio metallico, sui vetri della
finestra oltre i quali si annunciava la sera. Naturalmente, non potevo immaginare che era lo sguardo
d’addio a un ambiente squallido, l’ultimo di una lunga serie iniziatasi sei anni prima. Per la
precisione, sei anni, cinque mesi e nove giorni. Un’eternità: resa sopportabile dalla certezza che
prima o poi lo schifo sarebbe finito, avrei ricominciato la vita. La vita vera.
Tra i due sbarbatelli mi incamminai verso il fondo del corridoio. La caposala grassona ci venne
incontro, indicò la tuta blu che s’era affacciata dalla vetrata dei gabinetti: <Le toelette sono
inagibili, s’è rotto un tubo, è tutto allagato>. Sospirò osservando le mie mani libere dai ferri: <Un
disastro, mi sa che l’idraulico ne avrà per un bel pezzo, Dovete andare al piano di sotto>.
Sacramentare sottovoce dello sbarbatello numero 2, borbottare dell’altro: <Anche questa ci
mancava. Dai, facciamoci una passeggiata supplementare>.
Fuori da urologia, sul pianerottolo, giù per le larghe scale.
Due camici bianchi salivano, smisero di parlare, dopo averci incrociato uno disse: <Quanti galeotti
abbiamo in questo periodo, ce ne mandano in continuazione, per ogni sorta di accertamenti>. L’altro
di rimando: <Le traduzioni, i carabinieri mobilitati per i piantonamenti, esami su esami…oltre ai
disagi, pensa quanto costano questi signori che, come ha detto il ministro leghista Castelli, sono
tenuti in posti che poco hanno della prigione e molto dell’hotel>.
Mi voltai, ringhiai: <Ehi, dottore, paghi tu forse? Quanto all’hotel, perché non vieni a passarci
qualche giorno?>.
Lo sbarbatello numero 1 spintonò in avanti: <Zitto e cammina>.
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<Dottore, sei sordo? Non credere ai politici, sono uno peggio dell’altro>.
Il medico borbottò qualcosa, riprese a salire, il collega imprecò non dargli corda, quelli sono il
pattume della società…
Gli urlai: <Stronzo>.
Lo sbarbatello numero 1 spintonò ancora, sobbalzai: <Calma, calma>, finsi di inciampare, lo
sbarbatello numero 2 mi sostenne per il gomito, intimò: <Fa’ attenzione, invece di dire cazzate>.
Davanti all’ingresso della degenza temporanea. I miei angeli custodi spalancarono la porta,
tenendomi sempre sottobraccio s’osservarono attorno: corridoio deserto, un carrello di farmaci di
traverso davanti alla guardiola della caposala. L’orologio alla parete segnava le sei e tredici: tra
mezzora avrebbero servito la cena.
<I cessi sono laggiù> disse lo sbarbatello numero 1.
<Per fortuna – sospirai - dai, sbrighiamoci, sto per farmela addosso>.
Ci avviammo. Trillare di un campanello. Un secondo. Un terzo.
<E che è, appena suona uno gli altri gli vanno dietro?> si domandò lo sbarbatello numero 1. Dalla
guardiola uscì un infermiere, urlò ai funghi che s’erano illuminati sopra le porte delle camerate:
<Vengo, vengo, boniii>. Spinse in avanti il carrello dei farmaci, disse alle due divise che mi
scortavano: <Se rinasco faccio il carabiniere, beati voi che non dovete sorbirvi tutti i santi giorni,
otto ore al giorno, questo concerto di campanelli>. Dalla guardiola sbucò una bruna, portava lo
stetoscopio al collo. Senza togliere le mani dalla tasche del camicie sbottonato su una camicetta
azzurra che prometteva un gran bel seno, interrogò: <Che ci fate qui?>.
<Accompagniamo il detenuto al gabinetto, siamo scesi perché quelli di sopra sono rotti>.
La tettona annuì: come la caposala di urologia, scrutò le mie mani: un classico, appena sei in
mezzo a due uniformi la prima curiosità della gente è sempre la stessa, controllare se hai i ceppi. La
bruna sembrò stupita che non avessi i polsi bloccati dagli schiavettoni. Per la verità, il più
meravigliato ero io, per la prima volta in sei anni, cinque mesi e nove giorni mi accompagnavano da
qualche parte senza manette. Davvero inusuale. Oddio, a me stava benissimo, è scomodo pisciare,
fare qualsiasi cosa con i polsi incrociati in ferri stretti, pesanti, con gli stramaledetti spuntoni che
urtano dappertutto. I due sbarbatelli erano a fine turno, avevano deciso di sbattersene del
regolamento <Il detenuto va ammanettato anche per essere trasferito da una stanza all’altra>, di
sicuro ignoravano con chi avevano a che fare. A torto o a ragione non sono uno qualunque, manco si
sono informati su chi devono piantonare, essì, se avessero conosciuto il mio, diciamo così, stato di
servizio, avrebbero avuto maggiore considerazione per il sottoscritto.
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Li guardai: due ragazzi, due matricole. Lo portavano scritto sulle guance implumi, bianche e rosse
da contadinotti, che erano l’Inesperienza calzata e vestita. Sposata, nel caso, specifico, alla
stanchezza, alla voglia di staccare. Tra venti minuti m’avrebbero scaricato ai colleghi con cui avrei
passato la notte.
Dentro i gabinetti, nella puzza rancida delle toelette degli ospedali. Lo sbarbatello numero 2 indicò
la porta grigia di destra, mollò la presa sull’avambraccio: <Piscia>.
Tirai verso di me l’uscio, entrai, la voce dello sbarbatello numero 1 comandò: <Non chiuderla>.
Ridacchiai: <Sono pudico, non riesco a farla se mi guardate>.
<Puoi capire che spettacolo. Lascia la porta accostata, così nessuno ammira il tuo pisellino.
Muoviti>.
Lo sbarbatello numero 1: <Che odore schifoso, mi viene da vomitare, aspetto fuori>.
Salii sul cesso alla turca, calai sulle cosce i calzoni della tuta.
La finestra era schiusa, spiffero di aria gelida. Rabbrividii.
Orinando, aprii il vetro smerigliato.
Tuffo al cuore.
Un cortile.
Mi sporsi in avanti, pisciai sulle Adidas.
Il cortile era lì, due metri e mezzo sotto il davanzale.
Fortuna delle fortune: proprio sotto il davanzale, contro il muro, una fila di cassoni per
l’immondizia, i coperchi abbassati.
Mi voltai, dissi alla porta socchiusa: <Un attimo di pazienza, ne ho litri da buttar fuori>.
Sbarbatello numero 2, irritato: <Falla tutta ché in questo lerciume con noi non ci torni, piuttosto
bagni il letto>.
Che stupido: non era più dietro l’uscio, aveva raggiunto il compare nel corridoio.
Faticai a nascondere l’eccitazione, risposi: <Va bene, va bene, un momento di pazienza>.
Tirai su i calzoni, saltai sul davanzale. Dal davanzale mi lascia cadere sui cassone. Un altro balzo.
Ero nel cortile. Una leggera salita conduceva a un viale. Il viale portava all’uscita.
Nella sera che calava: andirivieni di cappotti, giacche a vento.
L’adrenalina era meglio di una pelliccia, il freddo non pungeva. Non esisteva.
Smisi di correre, m’adeguai al passo frettoloso della gente, sfilai davanti alla guardiola.
Il cielo era dalla mia parte. Dopo sei anni, cinque mesi e nove giorni la buona sorte aveva
finalmente deciso di giocare con me.
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I sorveglianti, in divisa blu, erano due. Avevano abbandonato la guardiola, discutevano
animatamente con il guidatore del furgone fermo con il motore acceso dinanzi alla sbarra bianca e
rossa del passo carraio, dicevano senza la bolla non possiamo farti passare, l’altro bestemmiava la
bolla è questa e sventolava una carta bianca spiegazzata, macché, non è valida, manca il timbro qua,
vedi? Guarda.
Il guidatore cominciò a bestemmiare.
Oltrepassai i litiganti, urtai una vecchia incurvata dal peso di due sporte di plastica, tirai dritto.
Ripresi a correre slalomando tra i passanti, qualcuno si voltò, chissà, m’avrà scambiato per uno di
quei fanatici che fanno jogging in mezzo ai gas delle auto. E, di auto, di traffico ce n’era parecchio
sul corso che fronteggiava l’ospedale delle Molinette.
Superai un incrocio, attraversai una larga piazza che la targa bianca sul muro diceva chiamarsi
Carducci.
Avevo il fiato corto, le gambe di ferro. Rallentai, continuai camminando a ritmo sostenuto per un
altro isolato.
Urlare in lontananza di una sirena.
Che mi cercassero già? Che gli sbarbatelli avessero dato l’allarme? Scemi loro. E più scemo chi li
aveva comandati al piantonamento. Evidentemente i carabinieri devono avere le pezze al culo se
affidano il servizio anche a simili imbecilli.
La sirena s’avvicinava alle mie spalle. Mi acquattai contro il muro, finsi interesse per la gonna
marrone, la giacca gialla, le sciarpe multicolori sparpagliate al centro di una vetrina, con la coda
dell’occhio sbirciai la strada. Sospiro di sollievo: la sirena era di un’ambulanza che, uscita dalle
Molinette, correva a prendere qualcuno per portarvelo.
Mani nelle tasche della blusa, svoltai in una via. Continuava a imbrunire: un grosso vantaggio per
me. Il freddo adesso si faceva sentire, tutti erano imbacuccati contro il vento gelido che s’era levato.
Forse, soffiava già prima, lo pativo solo ora che le scariche di adrenalina diminuivano d’intensità.
Come un marziano caduto sulla Terra. Ignoravo dove la via conducesse, in qual punto di Torino mi
trovassi, qual era la direzione per il centro, quale per la stazione, per l’autostrada. Un’altra sirena.
Stavolta mi veniva incontro. Un’altra ambulanza. Era diretta in ospedale: in un lampo superò
l’incrocio. Pensai, gli sbarbatelli perderanno tempo a cercarmi prima di ammettere che si sono fatti
fottere. Ho ancora a disposizione qualche minuto poi si rassegneranno ai guai e al ridicolo e
avviseranno il comando…non posso restare qui, devo allontanarmi il più possibile e in fretta,
subito, subitissimo, cos’ha quella bionda da guardarmi? E anche il nonnino lì, alla fermata del
pullman? Certo, si domanderanno che ci fa con questo gelo uno in giro vestito solo di una tuta? Il
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freddo morde, tiro fuori le mani dalle tasche, le stropiccio. Pungiglione al basso ventre. Di nuovo,
voglia di orinare.
<Senta, senta, scusi…>.
Mi giro sobbalzando.
Le rughe e il doppio mento di una signora nel finestrino abbassato di un’auto chiara.
<Sì?>. Mi chino. A fianco della vecchia gallina, una giovane. Le mani sul volante, si sporge,
domanda: <Piazza Madama Cristina, scusi, da che parte è?>.
L’illuminazione! Che illuminazione.
<E’ lontana, tutta dall’altra parte della città>.
Delle due donne, la gallina sbuffò, la pulzella tossì un’imprecazione <Mamma, e tu dicevi che
eravamo nella direzione giusta>.
L’illuminazione! Che illuminazione.
Con il sorriso più accattivante, quello che quando ero venditore mi aiutava moltissimo, dissi:
<Spiegarvi a parole è complicato. Io vado proprio là. Se siete così gentili da darmi un passaggio vi
faccio da guida>. Ero sicuro che la madre avrebbe risposto di no, bisognava far pressione sulla
figlia. Sbagliavo. La giovane indugiava, la gallina indicò la portiera posteriore, comandò: <Salga>.
Che calduccio, nell’abitacolo.
Stropicciai ancora le mani, ordinai: <Vada dritto, superi il semaforo, laggiù, poi a sinistra>.
L’auto era una Audi. Si avviò.
La tipa al volante non era niente di speciale, ma per me che non toccavo una femmina da oltre sei
anni sarebbe andata a pennello…
Un lampo negli occhi, scena bianchissima, di un biancore abbacinante: una bruna sdraiata su un
materassino di gommapiuma, la gonna sollevata all’ombelico, le gambe larghe…geme la bruna, il
gemito si mescola a una risata maschile…
Sensazione di calore. Piacevole. Come sempre.
Erezione.
La vecchia gallina ruppe l’incantesimo: <Senta, ma è sicuro? Piazza Madama Cristina è in centro.
Così, invece, credo che ci stiamo portando verso l’esterno. Bisognerà che ci compriamo il
navigatore, altro che se è utile>. Si girò lottando con la sua mole infagottata nella pelliccia, mi
piantò addosso occhi piccoli, porgenti, indagatori: <E’ sicuro?>.
Annuii: <Sì, in effetti, dunque…>. Non avevo la minima idea di dove fosse questa piazza Madama
Cristina. Inoltre, il pungiglione al basso ventre torturava, che voglia terrificante di pisciare.
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La figlia biascicò anche a me pare di essere in direzione completamente errata, rimpianse l’assenza
del navigatore.
<Sentite…>.
La giovane continuò: <In questo modo non si va verso il centro, ne usciamo>. Nella semioscurità
dell’abitacolo, il suo sguardo era sceso tra i sedili. Diffidente, indagatore: contemplò le mie caviglie
nude, infilate nelle vecchie Adidas scolorite, indugiò sull’unghia dell’alluce destro che sbucava dal
buco rotondo sulla punta della scarpa destra, risali rapida lungo il pantalone della tuta spiegazzato,
macchiato sotto il ginocchio.
<Mamma, penso che il signore non ci può aiutare>. Nella voce, marcata da un forte accento
piemontese, irritazione. Forse, preoccupazione.
<Lo penso anch’io, Vittoria>.
Avevamo superato il semaforo, la Audi stava accostando.
La vecchia gallina mi fissava.
Le saltai al collo: <Che minchia hai da guardare?>.
Bofonchiò, le labbra arrotondate in una o di stupore.
Le diedi uno schiaffo mentre Vittoria inchiodava. Fui sbalzato in avanti, involontariamente colpii
con la fronte la madre sul naso camuso. La figlia cominciò a gridare: <Aiuto, aiuto>.
La tirai verso di me prendendola per i capelli: <Zitta e fuori, Subito. Tu e questa stronza di
vecchia, fuori tutt’e due sennò vi ammazzo. Lascia le chiavi innestate>. Urlavo a squarciagola.
Spalancai la portiera, scesi, aprii quella davanti, afferrai la pelliccia della gallina per il bavero:
<Fuori dai coglioni>. Con insospettata agilità, la donna obbedì. La spintonai, risalii sull’Audi, un
tonfo mi informò che la madre era inciampata nello scalino del marciapiede ed era andata a baciare
l’asfalto.
<Via, via, muoviti>. In ginocchio sul sedile, con entrambe le mani, feci pressione sulla spalla e sul
fianco di Vittoria che aveva già schiuso la sua portiera: tremava, piangeva, la figlia, il grido s’era
ridotto a pigolio <Mamma, mamma>. La spinsi fuori insultandola, scavalcai il ponte del cambio,
sedetti alla guida, mi sporsi per chiudere lo sportello del passeggero, esagerai nello schiacciare
sull’acceleratore, il motore rombò, il rombo s’assommò al fischiare delle gomme, partii come un
razzo. Controllai nello specchietto retrovisore: madre e figlia erano due macchie scure per terra.
Imboccai un senso vietato, ignorai le proteste dell’autista di un camioncino, il gesticolare rabbioso
del motociclista che lo seguiva, svoltai alla prima a destra, proseguii per qualche isolato, lavori in
corso mi deviarono su un corso, m’ingolfai in una coda strombazzante. Nessuno m’aveva seguito.
Esultai: non sono arrugginito, l’azione è sempre il mio forte, la stoffa dell’incursore non sbiadisce
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mai, pensai ai bei tempi quando vestivo l’uniforme del San Marco, che scuola di vita. Il concerto di
clacson restituì la realtà.
Il pungiglione al basso ventre s’era mutato in una fiamma. Dolorisissima. Appena possibile, girai
in una traversa. Non c’erano negozi. Fermai vicino a un pilone, scesi. Non ce la facevo più. Pisciai
schiacciandomi contro il pilone, tentai di ignorare la curiosità di un allampanato che teneva al
guinzaglio un bastardino, alzai gli occhi, il pilone reggeva un cartellone dal quale il faccione paffuto
di Veltroni informava: <Si può fare>.
<Che sconcio, prendono le strade per gabinetti, sono peggio degli animali>.
<Sarà un marocchino>.
L’allampanato mi indicava a una coppia canuta, aggiunse: <Tornassero a casa, ‘sti arabi della
malora>.
<Tutti terroristi – diede corda la donna dai capelli bianchi aggrappata al braccio del marito– tutti
fanatici e sporcaccioni. Che sconcio, non si vergogna nemmeno>.
Le mostrai il pisello, lo scrollai ridendo <Insciallah>, rimontai in auto, diedi gas ahh, che bellezza,
poche cose danno soddisfazione come una sana, vigorosa pisciata. Ridussi l’andatura, allora,
riflettiamo, ho avuto un culo della madonna, prima gli sbarbatelli, poi madre e figlia…vediamo un
po’, la vecchiaccia ha lasciato la borsa. Era rotolata sul tappetino. Delusione: il portafogli conteneva
un inutile bancomat e centotredici euro. Per la precisione: centotredici e ventinove centesimi. Misi
gli euro nella tasca della blusa, gettai per terra i centesimi. L’orologio sul cruscotto segnava le
diciotto e quaranta. L’indicatore della benzina era puntato sul pieno. Davvero, la fortuna era con me.
Diedi la precedenza a un tram, dal cartellone appeso alla fiancata il volto liftato di Berlusconi
fissava passanti e automobilisti, a fianco del simbolo del Pdl caratteri cubitali annunciavano
<Rialzati Italia>. Risi, la prossima volta piscio anche sotto di te, Berlusca, par condicio, la mia pipì
per la destra e per la sinistra, imparzialmente. Ero di buonumore. Come non esserlo, solo un’ora fa
stavo sottochiave, in ospedale, sorvegliato a vista, sempre chiuso in stanza con due angeli custodi,
mi infilavano gli schiavettoni ai polsi per fare quattro passi nel corridoio, per andare alla toeletta. Il
cielo, sì, davvero, il cielo li aveva mandati i due sbarbatelli, che botta di culo, finalmente, non
poteva continuare a girare tutto storto, dopo sei anni, cinque mesi e nove giorni la dea bendata s’è
ricordata di me, doveva ricordarsi, non poteva non succedere, mai dubitato che sarei evaso e adesso,
tempo al tempo e regoleremo ogni conto, oh sì se mi tolgo i sassolini dalle scarpe, altro che
sassolini, sono macigni, sono montagne, Calma, una cosa alla volta. Prima bisogna uscire da questa
città del cavolo, punto secondo, che mi procuri soldi e vestiti e…bella, che bella figa. Una
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minigonna sculettava sul marciapiede, stivali al ginocchio, paradiso di gambe slanciate. La figa
camminava specchiandosi nelle vetrine, come ancheggiava la troietta…
Lampo negli occhi, scena bianchissima, di un biancore abbacinante: la donna nuda, supina, sul
ventre, le mutandine sono arrotolate attorno alle ginocchia. Slip neri di pizzo, una mano guantata li
fa scendere alle caviglie…
Sensazione di calore. Piacevole. Come sempre.
Erezione.
Un urto violento, un crash che e' un frastuono. La Audi compì un mezzo testa coda: fitta al collo,
d’istinto schiacciai l’acceleratore. Altro crash, altra fitta al collo, stelline negli occhi. La vista tornò
in un paio di secondi.
Avevo bocciato.
Dopo aver speronato un’Alfa ero finito addosso a una Mercedes. Ecco, il proprietario scende. E,
scendono anche dall’Alfa, sono in tre, maledetti stronzi…
Colpo al cuore. Indossavano divise. Le divise grigioverdi della Guardia di Finanza.
Mi osservai attorno, faticavo a respirare, il collo doleva. Il traffico era impazzito: cacofonia di
clacson, di motori imballati, portiere schiuse, sbattute, impecazioni, urla <Toglietevi di lì>,
<Lasciate passare>, <Coglioni, discutete dopo, levate di mezzo le macchine>. La vista delle
uniformi zittì alcune voci, frenò gli insulti.
Due finanzieri contemplavano il muso e la fiancata accartocciati dell’Alfa, il terzo venne verso di
me, bellicoso nei gesti, nelle parole: <Dormiva, lei? Che grosso casino ha combinato>. Quasi si
sgolava pizzicando il baffo grigio con il pollice e l’indice destri.
<Beh, per la verità, io venivo da destra>.
Mi squadrò da testa a piedi, i colleghi si avvicinarono. Il più basso, con accento siciliano: <Per un
bel pezzo lei dimenticherà di avere la patente, te la facciamo togliere…>.
Gli diedi le spalle: caos totale, continuava a ingigantirsi. A trenta metri erano fermi un tram e un
pullman, avevano tagliato ogni via di fuga, per liberarsi dall’imbottigliamento ci sarebbe voluto un
mare di pazienza.
<Patente e libretto> intimò il baffo grigio senza togliermi gli occhi di dosso, il siciliano ringhiò
ancora: <Ti insegniamo noi a guidare>.
Feci segno di sì, massaggiai il collo, e scattai. Via, slalomando ingobbito tra le macchine.
<Dove vai? Ouh, fermo. Fermo>.
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Sparii dietro il tram, saltai sul cofano di una Panda, aggirai un furgone, imboccai la prima via, a
casaccio, al secondo isolato presi a destra. Un altro isolato, a sinistra: continuai a correre sin quando
la milza si ribellò, mi costrinse al passo. Che sfiga. Bocciare. Doppia sfiga. Contro finanzieri.
Sirena. Una seconda. Una terza.
Il fungo luminoso sul tettuccio di una Volante colorò di raggi blu l’aumentare del buio.
Accelerai il passo. Nulla da fare, non ce la facevo, la milza pungeva. <Via Piazzi> indicava la
targa di marmo ingrigito dallo smog. Rasente il muro, avanzai, all’angolo un’insegna azzurra
avvertiva: <Libreria>. Pozza di luce regalata sul marciapiede dalla vetrina. Mi fermai, tirai il fiato
guardando, senza vederle, le copertine dei libri.
Fischiare di gomme, rombare di un motore. Una Gazzella dei carabinieri. Il fungo blu saettava
sulle facciate delle case, la sirena era assordante. Veniva nella mia direzione. D’istinto spinsi la
maniglia di ferro dalla porta della libreria. Non s’apriva. Spinsi di nuovo, bestemmiando. M’accorsi,
non so come, del bottone del campanello, sulla destra, ad altezza d’uomo. Mentre lo pigiavo, la
serratura elettrica scattò, il battente cedette alla pressione della mano. Salii due gradini, entrai,
chiusi la porta senza voltarmi. La Gazzella passò a tutta velocità, proseguì a sirena spiegata. Non si
fermò, non rallentò.
Respirai a fondo. Non mi avevano visto.
<Buona sera>.
<Buona sera a lei, signorina> balbettati tentando di calmare il cuore.
<Un attimo e sono da lei>.
<Sì, sì, faccia pure. Intanto, do un’occhiata in giro>.
<Prego, faccia pure con comodo>. La libraia era giovane, belloccia, sulla trentina. Con un cenno,
m’invitò a scoprire il suo regno. In piedi, su una pedana sopraelevata, riprese a parlare nel telefono,
un gomito appoggiato alla scrivania che fungeva da ponte di comando. Sulla scrivania, il computer,
lo schermo era acceso su una lista di titoli. A lato del computer, un minileggio con l’edizione
economica del Codice da Vinci. A fianco della tastiera del computer, la scatoletta del bancomat,
della carta di credito, L’ambiente non era grande: però, la piccolezza era solo apparenza.
Ingannevole. Molto ingannevole. Un soppalco raddoppiava lo spazio. Inoltre, a destra del ponte di
comando, proprio sotto il soppalco, tre gradini scendevano in una specie di cave popolata da libri
sparpagliati su una larga base di legno. Un tavolo con sedie, sul tavolo altri volumi e un cartiglio:
<Potete scrivere qui il vostro giudizio sui libri>. L’invito era stato raccolto da numerosi clienti:
fogli dattiloscritti e manoscritti facevano corona al cartiglio.
Scaffali dappertutto. In mezzo alla libreria, su cubi di legno, romanzi, saggi: le ultime uscite.
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Una nuova sirena ululava in lontananza. L’eco si dissolse, riaffiorò, s’avvicinava.
Scesi i tre gradini, la sirena gemeva sempre più vicina. Con la coda dell’occhio controllai le lame
di blu del fungo luminoso intermittente sul tettuccio della macchina accendere l’oscurità. La sirena
venne rapidamente portata lontana dal rombo del motore, sparirono insieme nel giro di pochi
secondi. Mi dissi che qui ero al sicuro, non sarebbero certo venuti a cercarmi in una libreria.
La libraia sospirò nel telefono: <Deve essere accaduto qualcosa di grave nei paraggi, è una
processione di macchine della polizia, …come dicevi?…Ah sì, certo, certo, sta’ tranquillo, Michele,
domani vado dal grossista, te lo trovo di sicuro il tuo amato Goodis…insomma, quando mai la
libreria Scenario libri ti ha deluso?>. Rise la ragazza: capelli castani sul collo, accarezzavano lo
sciarpone grigio annodato alla gola. L’osservai fingendo interesse per una copertina bianco sporco,
La classe morta è il titolo stampigliato sotto il nome dell’autore: Karto. Kantou, una roba così,
perché era scritto come un autografo, probabilmente la firma dello scrittore. Il volto lungo, magro,
ascetico, nasuto, segnato dall’età che campeggiava sulla copertina doveva essere il suo. Sfogliai le
pagine: un testo di teatro: abbondavano lì, sotto il soppalco, i testi sul teatro e il cinema, capii
perché la libreria si chiamava <Scenario>.
<D’accordo, Michele. Comunque, senza nulla togliere a Franzen, ti consiglio caldamente
Grotesque di Natsuo Kirino. Un’autrice giapponese, da noi è già uscita con Quattro casalinghe di
Tokyo>.
Trillare del campanello. Scattare della serratura elettrica, Schiudersi del battente. Entrò una
signora. Un donnone impellicciato. Avanzò tra i libri esposti sui cubi come se s’avventurasse su un
terreno minato. La copertina della Classe morta m’intrigava per la sua semplicità. Ah, ecco, l’autore
si chiama Tadeusz Kantor, è polacco. Cioè, era. Regista e pittore, deceduto nel 1990. Mai sentito.
D’altronde, nella biblioteca del carcere non sono mai entrati volumi di teatro.
Sfogliai le pagine, lessi a caso:
“Ma la Notte non cede ancora.
Un’altra Apparizione in ritardo. Il Ripetente.
Uno zoppo, malato di mente, non trova posto in questa
comunità di bambini. Evidentemente era diventato la vittima
delle loro cattiverie e crudeltà”.
Originale, originalissima ‘sta Classe morta. Ripresi a leggere, sempre a caso, a pagina 203:
“Questa situazione disgustosa viene
esasperata dalla Donna delle pulizie
che con impeto e sdegno sfila i pantaloni al
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pervertito, lo denuda, lo rigira e con uno straccio
bagnato inizia a lavargli le gambe, le cosce, le
natiche senza badare alle urla provenienti da
ogni parte, con quello straccio bagnato e sporco
lo sferza come una frusta”.
Chissà perché mi attraeva Kantor…forse perché io con la morte ho un’affinità, non lo dico io,
purtroppo lo dicono gli altri, e sono creduti, quei maiali della Corte d’assise gli hanno creduto…
<Signora, posso aiutarla?>.
Che voce dolce, impostata, da attrice, la libraia.
Il donnone sospirò continuando ad aggirarsi guardinga tra i cubi gravidi di storie gialle, nere,
d’amore, di sciocchezze propalate da giornalisti inventatisi storici, sociologi. Aveva sbottonato la
pelliccia di castoro, sospirò di nuovo: <Beh, ecco sì, cerco qualcosa per mio figlio, qualcosa che…
domani compie gli anni, trentacinque, voglio regalargli un bel romanzo>.
<Sa che gusti ha suo figlio, signora?>. La libraia era scesa dal ponte di comando. Non alta, magra,
indossava maglioncino e pantaloni scuri, a gamba larga.
<A lui piacciono i gialli, ha apprezzato quella roba lì>. Allungò l’indice della destra verso la cima
del cubo, la libraia commentò: <Ah, il Falletti. Allora, guardi…>.
<Però, io vorrei dargli un libro che sia un po’, come dire?…>.
Silenzio.
La libraia mi osservò. Feci spallucce, abbozzai un sorriso pensando ho fatto bene a rifugiarmi qua
dentro, d’altronde da un pezzo i libri mi aiutano a uccidere il tempo immobile della galera, da due
anni sono il bibliotecario, lo sono diventato perché sono l’unico che ha studiato, che è giunto alla
maturità. Così, io che da allora, dalla fine del classico, non avevo più tenuto in mano un volume,
adesso ci vivo in mezzo. La biblioteca conta trecento volumi, trecentonove per l’esattezza, la
schedatura l’ho completata proprio lunedì scorso…prima che, finalmente, mi ricoverassero per le
analisi, trecentonove libri regalati da pretaglia e privati in vena di recitare il ruolo del buon
samaritano che accorre in aiuto di chi ha sbagliato
Un’altra sirena.
Tuffo al cuore.
Il donnone e la libraia si voltarono verso la via.
La sirena rallentava, si fermò all’angolo, tacque. Anche dalla mia posizione, sotto il livello della
strada, scorgevo la raggiera del fungo luminoso blu disegnare lampi blu sul soffitto grigio del
negozio. Non si muoveva.
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Che mi abbiano scoperto, che qualcuno mi abbia visto entrare?
Sudavo. Gola secca, Male al petto.
La Classe morta mi cadde di mano, finì sul piede. Non sentii dolore ma solo sollievo. Perché la
sirena aveva ricominciato a gemere. Non vedevo più la raggiera blu sul soffitto. Pericolo scampato.
Salvo. Salvo.
Raccolsi la Classe morta, tornai a sfogliare il volume, non riuscivo però a mettere a fuoco le
parole. Neppure i disegni. Tremore alle mani.
<Sarà successo qualcosa di grave> stava dicendo il donnone. La libraia: <E’ come se cercassero
qualcuno>.
Il donnone, di nuovo in lotta con il suo tormento: <Senta, non ha un libro che sia più, non mi viene
la parola giusta:…>.
<Più completo? Più impegnativo, forse?>.
<Ecco, volevo dire così. Cioè, che sia sempre un giallo ma che rappresenti un passo in avanti
rispetto al Faletti>.
<Vuole rimanere sugli italiani?>.
<Mah, veda lei, io non me ne intendo>.
<Le posso consigliare un Carlotto, qua ne ho diversi. L’Oscura immensità della morte, a esempio.
Oppure, un Carofiglio. Non l’ultimo, che non è piaciuto a nessuno, ma i primi due, pubblicati da
Sellerio. Sono libri piccoli, vede, non costano molto>.
Il donnone era perplesso, la libraia paziente. La pazienza vinse la perplessità, il figlio della
impellicciata domani scarterà un pacchetto e ci troverà le due avventure dell’avvocato Guerrieri
nato dalla fantasia del magistrato scrittore Carofiglio. Era arrivato un Carofiglio in biblioteca, ho
letto il risvolto di copertina e non sono andato oltre, me ne sono ben guardato, odio i giudici io,
bastardi, tutto il male che mi hanno fatto. E anche gli avvocati, non amo. I tre che ho avuto, potessi,
li strozzerei. Il primo voleva farmi confessare, sosteneva che soltanto così, potevo forse evitare la
bastonata. Stronzo, confessare che? Non ho nulla da confessare io. Il secondo insistette sulla perizia
psichiatrica, puntava all’infermità mentale. Scherziamo,? Io non sono pazzo, sono lucidissimo. Il
terzo, finalmente, era deciso a dare battaglia: però, la condusse così male che ne sconto ancora le
conseguenze. Maledetto, più lui dei colleghi, ha spillato un mare di soldi alla mia famiglia e non mi
ha tirato fuori dai guai, solo per tre delle dodici imputazioni è riuscito a farmi assolvere. E ha avuto
la faccia tosta di spacciare queste inutili assoluzioni per un successo, promettendo: <Sono il punto
di partenza per ottenere una vittoria completa in appello>. Le ultime parole famose di uno stronzo
ingiustamente famoso.
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La libraia aveva occhi chiari, luminosi, piccoli orecchini facevano capolino da sotto i capelli.
Dissi: <Posso ancora dare uno sguardo? Ha così tante cose interessanti, curiose>.
<Prego, prego, si consideri a casa sua>.
Casa mia: non ho ce l’ho più da sei anni, nove mesi e nove giorni.
Di nuovo il campanello.
Entrò un ragazzo, il sorriso increspava il barbone: <Ciao, Letizia>.
<Ciao caro Giulio, sono subito da te>. Finì di confezionare il pacco regalo, rassicurò il donnone:
<Vedrà, suo figlio sarà contento. Nel caso, comunque, non siano di suo gradimento, può venire a
cambiarli, non è necessario porti lo scontrino>.
Lampo negli occhi, scena bianchissima, di un biancore abbacinante. La donna non si lamenta più,
tossisce piegandosi in avanti, non cerca nemmeno di liberarsi del bastone che ha conficcato
nell’ano, ha smesso di invocare <Toglilo, basta, basta, pietà>, giace sul ventre, le gambe larghe e le
mani legate dietro la schiena, sembra un ragno, un immondo ragno, ha un sussulto, tossisce di
nuovo…
Sensazione di calore. Piacevole. Come sempre.
Erezione.
Mi imbarazzai, girai attorno al tavolo con i libri, i giudizi scritti a macchina e a penna dai lettori e
recensioni firmate da una critica di nome Fulvia Indemini. Stando al riparo del tavolo, nascondevo
il rigonfiamento prodotto dall’erezione. La libraia, comunque, non era interessata a me, il ragazzo
con il barbone stava ridendo: <Vespa, hai Vespa in bella vista, nooo, da te non me lo sarei aspettato,
tradimento>. Declamò: <Letizia, tradimento…>.
Letizia stette allo scherzo, gorgheggiò: <Vivere bisogna>. Seria: <Vespa, Costanzo, Littizzetto e
similia, sono obbligata a tenerli, diciamo che è l’aspetto alimentare del lavoro. Giulio, capiscimi,
purtroppo non ci si può comportare sempre secondo il desiderio. Però, mica la spingo questa roba,
chi la vuole se la prende, se mi chiedono un parere, io la boccio in blocco>.
Giulio, grattando il barbone: <Ti stai salvando in corner>.
<None, dico la pura, semplice verità. Io promuovo ciò che mi piace. A proposito, ho un romanzo
straordinario, Le Anime grigie, di Claudel>.
<Claudel? Mai sentito questo suo titolo>.
<Non il Claudel che intendi tu, si tratta di un omonimia, di un altro Claudel, un contemporaneo, ha
scritto una cosa meravigliosa, è un mago della scrittura>.
<E’ mio, subito>.
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<Io consiglio lui, il Claudel dalla meravigliosa scrittura, il Gstaadt 95-98 di un olandese, Marek
Van der Jagt …Marek eccetera è un nom de plume. Libro originale, strambo, disturbante, però
valido>.
<Vabbene, mi fido della nemica dei Vespa, dell’editoria di plastica>.
<Magari fosse plastica, pensa agli alberi che vengono sacrificati per stampare certi tomazzi dei
quali, appena li hai finiti, non conservi più memoria>.
Ancora il campanello.
Una biondina. Conosce Giulio. Parlano, scherzano, ridono.
L’erezione svaniva. Posai La classe morta, l’attenzione era stata calamitata dalla copertina bianca
con il titolo Finale di partita. Non pensai neppure per un istante che trattasse di sport, riguarderà
l’esistenziale…infatti
Una sirena. Lontana.
La biondina: <C’è un casino terrificante in largo Orbassano, un incidente, pare che chi l’ha
provocato se l’è data a gambe dopo aver sderenato due macchine>.
Sull’ultima pagina di Finale di partita sono atterrato.
<Hamm: Clov! Clov! (lunga pausa) No? Pazienza (estrae il fazzoletto) Visto che si gioca così…
(spiega il fazzoletto)…giochiamola così…(spiega)…e non parliamone più…non parliamo più.
(Tiene il fazzoletto aperto davanti a sé) Vecchio straccio! (pausa Tu resterai con me (pausa, si
avvicina il fazzoletto al volto, resta immobile sulla sedia, le gambe coperte dal plaid)>.
Non parlavano più dell’incidente in largo Orba, Orbassovattelapesca, la biondina domandò se era
arrivato Houllebecq. Drizzai le orecchie, che coincidenza, sul comodino avevo proprio Platform,
ero a metà quando mi hanno portato al cesso, che dio li benedica gli sbarbatelli.
<No, arriva domani, ma lo sai che continuo a venderlo a distanza di oltre due anni, però non è che
mi abbia fatto impazzire> stava rispondendo Letizia.
Giulio era d’accordo: <Troppo sesso, è un furbastro il nichilista francese sebbene l’idea
dell’umanità che sostituisce se stessa sia folgorante…
Umanità che sostituisce se stessa? Non ne accenna in Platform, a meno che non ci fossi ancora
giunto, in Platform racconta di puttane thailandesi, di turismo sessuale, l’ha fatto fare anche a me,
manualmente, ah ecco, già, ora capisco, la biondina si riferisce a un altro titolo di Houllebecq, Le
particelle elementari. La libraia garantì <Domani ce l’ho, lo sai che sono la libraia più veloce del
creato>, la biondina rise <Lo so, lo so, è vero>, uscì inseguita dal ciaoooo di Giulio
Che nomi usa Beckett. Sono tornato indietro, alle prime pagine del suo teatro, ad Aspettando
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Godot. Un personaggio si chiama Estragone, un altro Vladimiro, un terzo Pozzo.
<Estragone: Parlano della loro vita.
Vladimiro: Non si accontentano di avere vissuto
Estragone: Bisogna anche che ne parlino
Vladimiro: Non si accontentano di essere morti>.
Giulio stava pagando. La libraia era di nuovo salita sul ponte di comando, pigiò un pulsante. Note
di un sax sparse dalle casse appese in alto, sopra gli scaffali. <Bella questa musica> approvò il
barbone di Giulio.
<E’ Diana Krall, mi piace in sacco>.
Squillare del telefono. Giulio tolse il disturbo, mi borbottò <Arrivederci>, replicai con un cenno,
Letizia gli fece ciao ciao con la manina, stava rispondendo alla telefonata: <Certo, dottore, e come
potrei non avere l’ultima Margherita Oggero, si vende come il pane. Mi correggo: vende più del
pane, non credo che le pagnotte vadano con altrettanta rapidità>. Fece spallucce a Giulio che, sulla
soglia, scuoteva la testa e il sacchetto traslucido con il logo di Scenario libri in cui ballonzolavano i
romanzi di Claudel e di quell’olandese dal cognome impronunciabile, la libraia promise: <Nessun
problema, dottore, glielo tengo da parte la sua Oggero, passi quando vuole>.
Soli. Lei e io. Che fare? Non posso certamente nascondermi qui in eterno. Neanche posso uscire, i
bastardi devono essere dappertutto. Inoltre, dove vado? L’ideale sarebbe fermarsi in un posto
tranquillo, guadagnare tempo, ecco ciò che devo fare, a ogni costo. Guadagnare tempo.
Un’idea prendeva corpo.
L’illuminazione. L’illuminazione.
Di nuovo il telefono.
Letizia esplose in un allegro <Buona sera> soffia <sì, l’ho visto sulla Stampa di ieri, anche la Città
del sole di via Po chiude. E’ desolante questa moria di librerie. Io non mi posso lamentare, anche
perché qui, alla Crocetta, non ho concorrenti. Così come non si lamenta il mio amico Andrea, lo
conosci no? Lui ha avuto ancora più coraggio, s’è lanciato con la sua Gang del pensiero, come?…
Gang del pensiero è il titolo della singolare storia di rapinatori filosofi inventata dall’ungherese
Fischer, Tibor Fischer, Andrea ha chiamato così la sua libreria…fantasioso vero? Dunque, dicevo,
lui s’è lanciato aprendo in periferia che più periferia non si può, in corso Telesio, nella zona ovest, e
se la passa mica male. La verità è che se stai in centro, se sei vicino ai colossi della grande
distribuzione sei morto, ti soffocano, sento correre voci preoccupanti, molti colleghi sono a rischio,
grosso rischio…certo, è un peccato, dato che il supermarket mai potrà assolvere il servizio che
facciamo noi piccoli ma entusiasti. Alla Fnac e compagnia bella trattano il libro come un detersivo,
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ah senti questa, me l’ha raccontata un cliente prima di Natale, è tanto buffa e sconfortante che s’è
appiccicata alla memoria. Dunque, il cliente, uno di quei lettori forti, da cinquanta testi l’anno, va
alla Fnac di via Roma, cerca Andare ai resti, una ricerca su rapinatori e terroristi negli anni Settanta
corredata da interviste a detenuti e detenute: siccome il commesso cade dalle nuvole, il cliente
specifica pure l’editore, Derive e approdi, il povero commesso allarga le braccia, sospira
“Spiacente, signore, non teniamo manuali di vela, forse più avanti, la prossima estate”>.
Ridacchiava Letizia.
<Le lacrime del mondo sono immutabili. Non appena qualcuno si mette a piangere, un altro, chi sa
dove, smette. E così è per il riso (ride) Non diciamo troppo male, perciò, della nostra epoca. Non è
più disgraziata delle precedenti>.
A casaccio, gli occhi correvano su Aspettando Godot, però la mente non li seguiva, era impegnata a
cercare una soluzione.
<Allora, ha trovato qualcosina? Le piace il teatro, a quanto vedo>. I gomiti sul ponte di comando,
le mani intrecciate, Letizia s’è sporta verso di me.
Annuii.
Mostrai <La classe morta> e la summa dell’opera di Beckett: <Non me ne intendo, ma li trovo
intriganti>.
<Accidenti, dice poco, lei. Kantor, un’icona della regia, e Beckett, il fondatore del teatro
dell’assurdo>.
<Li prendo entrambi>. Vorrei mordermi la lingua, perché l’ho detto? Non devo avere fretta, ormai
ho deciso, devo stare qua, questa è la tana ideale, bisogna tirarla per le lunghe sino a quando chiude,
ormai manca poco…
Nel silenzio il sax di Diana Krall ricama melodie lente, tristi. Decisamente pizzose.
Lampo negli occhi, scena bianchissima, di un biancore abbacinante. La ragazzina è in piedi, senza
gonna, i seni tondi bene in mostra, la camicetta è sbottonata, la manica destra stracciata. In piedi, le
braccia larghe, tese, legate per i polsi ai montanti arrugginiti dell’altalena di quello che è stato un
parco gioco. Urla, la ragazzina, quando è costretta ad allargare le gambe, urla e si divincola, scuote
la testa a destra e a sinistra, i capelli rossi schiaffeggiano l’aria, urla come un ossessa, una baccante
in preda al delirio mentre la lama del rasoio la penetra, tenta di stringere le gambe, le allarga di
nuovo precipitosamente, la lama ruota nella vagina, la ragazzina s’affloscerebbe se non fosse
sostenuta dai polsi legati…l’urlo è un singulto ora che il sangue imbratta le cosce, cola zigzagando
sulle gambe nude sino alle caviglie, la lama, lentamente, lentamente si spinge dentro il corpo…
Sensazione di calore. Piacevole. Come sempre.
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Erezione.
Come in precedenza, la celai girando attorno al tavolo, fingo di passare in rassegna i libri. Il sax di
Diana Krall aveva finito la sua nenia.
<Lì, c’è il cinema>.
<Vedo>. Erezione e voglia di orinare.
La libraia scese dal ponte di comando, stava venendo verso di me. Coprii il basso ventre con La
classe morta, incontrai lo sguardo di Letizia. Si stava colorando di meraviglia, le caviglie nude,
l’unghia che fa capolino dal buco nell’Adidas, il fatto che sia vestito solo di una tuta sporca l’hanno
stupita. Arretrò leggermente, s’era fatta guardinga.
Dissi, forzando un sorriso: <Abito qui dietro, sono sceso per portare la spazzatura e ho visto
l’insegna, così sono entrato. Sa, ho traslocato solo ieri l’altro>. Chissà se l’ha bevuta. No, non pare.
Ha fatto dietrofront, tornando sul ponte di comando.
Lampo negli occhi, la scena non è bianchissima, ha la luce giallina, soffusa della libreria, Letizia è
in ginocchio tra i cubi di legno con impilati i Vespa, le Littizzetto, i Codici da Vinci: in ginocchio,
con la faccia sulle mattonelle del pavimento, i pantaloni abbassati, le mani legate dietro la
schiena…
Sensazione di calore. Piacevole. Come sempre.
Erezione.
Suono acuto. E’ il campanello.
E’ entrata una coppia. Lui, alto, calvo, elegante nel cappotto scuro, scarpe nere luccicanti. Lei,
vestita di grigio, portava due trecce bionde, alla squaw, era truccatissima. Entrambi sulla trentina,
amici della libraia. La squaw l’abbracciò, bacetti sulle guance, l’elegantone ha salutato con un
cenno della testa e un sorriso. Ispezionando le ultime novità, esclamò: <Bello, lo sto leggendo,
molto bello, sono curioso di vedere come va a finire>.
<Che cosa?> s’informò Letizia.
Indicò una copertina: La storia di un amore straordinario, di Carl-Johan Vallgren, uno svedese
mai sentito nominare, ha scritto un sogno e un incubo, gotico, romantico, è una magnifica
avventura, sai, tipo il Profumo di Suskind”. L’ho cominciata l’altra sera, sarei andato avanti sino
all’alba con le peripezie di Hercule Barfuss>.
<Chi è?> uggiolò la squaw.
<Il protagonista, un nano deforme con il potere magico di leggere nella testa altrui orientandone i
pensieri, le azioni>.
<Un nano deforme? Allegria> commentò la squaw
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<Ida, devi leggerla, la mia descrizione è sommaria, quindi non le rende onore>.
Letizia: <L’ho vista ieri l’altro, dal grossista, la Storia di un amore straordinario e ne ho prese due
copie. Mi ha convinta il risvolto di copertina, la critica che hanno fatto su Tuttolibri sabato scorso
non era esaltante però…>.
<Uff – continuò l’elegantone – hai imparato a non fidarti dei critici e bene facesti. O hanno la
puzza sotto il naso oppure sono legati alle conventicole, alle loro piccole squallide mafie, io
recensisco te e tu recensisci me, se ne stai al di fuori allora via con la stroncatura>.
La libraia annuì, disse, intonando la voce al rimprovero: <E tu, Luca, dove l’hai comperata la
Storia di un amore straordinario? Allora, è vero, tu mi tradisci>.
La sirena coprì la risposta di Luca. La Gazzella dei carabinieri sfrecciò davanti alla vetrina. Aveva
innestato la sirena proprio di fronte alla libreria, ha accelerato di scatto. Non m’ero reso conto si
fosse materializzata dal buio. Meglio, mi sono evitato uno stranguglione.
<Ancora?> m’interrogò con lo sguardo Letizia.
<Stanno cercando uno> annunciò la squaw giocherellando con una treccia.
<Sì, ho sentito che c’è stato in largo Orbassano uno scontro e il responsabile è fuggito> aggiunse la
libraia.
Un pianoforte jazz ha sostituito il sax di Diana Krall, la solfa non è poi tanto differente, sempre
noiosa, concettuale.
La squaw disse: <Sono le sette passate>.
Perfetto: devo resistere ancora poco, anzi no, prima che chiuda pago, esco, avrà la macchina
vicino, l’aspetto e torniamo nel negozio, passo la notte qui. La passo con lei.
Batticuore, gola secca. Subentrava la frenesia, cominciai a sudare, i palmi delle mani erano umidi.
Non ci fossero questi due scocciatori, si togliessero alle palle…
La squaw, implorante: <E dai, Leti, forza, spegni tutto, non farci attendere le sette e trenta>. S’era
accorta di me, mi sorrise: <Il signore, vedo, ha già fatto la sua scelta, non credo s’offenda se la
libreria anticipa la chiusura>.
<Ida, per favore>. Disappunto nella voce di Letizia.
Luca rimase zitto. Evidentemente non approvava Ida che insistette, dai, bella, chiudi, per oggi non
hai incassato abbastanza? Mi sbirciò di nuovo, gli occhi tondi, leggermente sporgenti scesero dal
mio volto alla copertina del libro all’altezza dell’inguine. Rapidamente, la meraviglia che avevo
indovinato nella libraia, s’infilò nello sguardo della squaw, anche lei era ammaliata dal buco nel
tomaio dell’Adidas.
Spiaccicai: <Lungi da me l’intenzione di creare problemi, ecco, quanto fa?>. Mi avvicinai al ponte
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di comando, tesi La classe morta e il Teatro di Beckett. Letizia lesse i prezzi, batté lo scontrino,
domandò: <Vuole un pacchetto?>.
<No, no, va bene così>.
Tolsi dalla tasca della blusa il fascio di banconote, accidenti se sono cari i libri, solo l’opera del
regista pittore Tadeusz Kantor costa 28 euro, per fortuna che Beckett è un economico. O forse no,
sono rimasto indietro con la vita, d’altronde è la prima volta che uso gli euro, quando mi hanno
arrestato c’era ancora la lira, erano i suoi ultimi giorni. Toh, ecco, sono una persona normale che
spende, e devo dire grazie prima agli sbarbatelli numero 1 e 2 e poi alla vecchia gallina che aveva i
soldi nella borsa.
Letizia omaggiò di un piccolo sconto, aggiunse: <Proprio perché lei è una persona che ama il
teatro, sono così rare. Se desidera fare la tessera…>.
L’interruppi: <No, no, non so se poi ripasso>.
Occhiata indagatrice: <Perdoni, ma non abita nei paraggi? M’ha detto che si è appena trasferito>.
Coglione, m’insultai, il solito coglione che si sbugiarda da sé, che dimentica subito le menzogne, il
fatto è che non sono concentrato, penso troppo a come fermerò la libraia, a come la costringerò a
riaprire il negozio…il batticuore aumenta. Insieme al sudore alle mani.
Balbettai: <Ah già, è vero, che scemo, scusi, sono fuso>. Con maggior sicurezza: <Certamente,
prepari la tessera, domani la ritiro>. Gongolai, silenziosamente <Bellina, il domani è tra breve,
brevissimo>. Il cuore batteva tanto forte da farmi male.
La squaw trillò: <Favoloso, Leti, chiudi e procediamo>.
Salutai, uscii nel buio, libraia e i due amici mi ignorarono, mentre chiudevo la porta Luca sbuffò.
<Che tipo strambo>.
Il freddo azzannò, acuì la voglia di orinare. Attraversai la strada: cento passi oltre <Scenario libri>,
l’impalcatura di un ponteggio occupava il marciapiede formando una galleria sotto la quale poteva
camminare un pedone alla volta. Via Piazzi era deserta, senza luce, in quell’isolato non c’erano
negozi, l’unico chiarore era regalata dalle vetrine della libreria. Mi appostai nella galleria, orinai
contro il muro, ah che liberazione, saltellai sui piedi, ero gelato, non perdevo d’occhio il negozio,
sbrigati, Letizia, dà retta ai tuoi compari, chiudi la bottega, speriamo che la macchina ce l’abbia da
questa parte e non nell’altro isolato…
Lottai con il dubbio, con la paura che potesse sfuggirmi, mi decisi: curvo, rasente la facciata della
casa, tornai verso Scenario libri, mi acquattai al riparo di un Pajero: chinato, i libri sotto l’ascella,
facendo capolino dietro il parafango, controllavo l’entrata. Inveii contro il freddo, bestemmiai, mi
concentrai, avessi anch’io il dono del nano della storia romantica, gotica che ha entusiasmato
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quell’elegantone di Luca, magari potessi convincere, con la forza della suggestione, Letizia a uscire
subito, prima di diventare un ghiacciolo.
No, purtroppo non avevo il dono del nano.
Finalmente. Finalmente.
Dopo un’eternità, le luci si spensero nel negozio.
Si spense anche l’insegna azzurra <Libreria> in alto, all’angolo di via Piazzi.
Sulla soglia, Luca e la squaw. Ecco, Letizia. Lui l’aiutò a tirare giù la saracinesca a maglia, a
bloccare il gancio di sicurezza. Chiacchierando i tre s’incamminarono allontanandosi dal mio punto
di osservazione. Li seguii, bestemmiai. Luca aveva spalancato la portiera di una Multipla, la squaw
sedette davanti, Letizia dietro a Luca che s’era messo alla guida. L’auto partì, girò al primo incrocio
e io lì, nel gelo, impalato come un cretino, a osservare la mia speranza svanire nell’oscurità. Ero
appoggiato al fuoristrada, rabbia, sgomento, desolazione, come ero potuto essere tanto stronzo da
non capire che lei se ne sarebbe andata con gli amici? Ma sicuro, li aspettava, erano già d’accordo.
E’ tutta colpa del carcere, ti rammollisce, cancella il mondo e le sue abitudini. Comunque, io, ex
incursore del leggendario San Marco, dovrei essere più furbo, avrei dovuto resistere meglio al
rimbambimento della galera.
Un tossire discreto alle mie spalle fugò l’autodenigrazione. M’ero appoggiato al Pajero. Una barba
con riflessi grigi stava dicendo, acido: <Devo salire, se si scosta>.
Borbottai <Certo, certo>.
L’illuminazione. L’illuminazione.
<Un momento>. Lasciai cadere Beckett, impugnai La classe morta con entrambe le mani,
piegandola a fatica, il volume era spesso, ben rilegato.
<Prego?> interrogò il barbuto abbassando lo sguardo, il libro che rotolava sull’asfalto
squadernandosi aveva imprigionato la sua attenzione.
Lo colpii tra le gambe con La classe morta che avevo trasformato in un micidiale tubo,
s’accartocciò su se stesso, lo colpii di nuovo al mento, crollò. Tintinnare di chiavi per terra: quelle
del fuoristrada. Gli erano sgusciate via dalle dita. Le afferrai, trafficai con la serratura, uno scatto
disinserì la sicura: avevo azionato, senza accorgermene, il telecomando. Non usava, almeno io non
l’avevo sulla mia Citroen, quando ero stato arrestato, allora non usava ancora. Aprii lo sportello, il
tizio si stava sollevando, lo prese sul naso, con un gemito tornò lungo disteso. Balzai al volante,
avviai il motore. Un grido: <Al ladro, al ladro>. Una donna, venti metri indietro, urlava, <Al ladro,
al ladro> agitando la borsa.
Pigiai sull’acceleratore. Nel retrovisore scorsi <La classe morta>: m’era sfuggita di mano mentre
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armeggiavo con le chiavi, la ruota sinistra l’aveva schiacciata. Un po’ mi dispiacque, m’ero
affezionato al misterioso Kantor dal viso oblungo, gli occhi colmi di tristezza, bene o male m’aveva
salvato dal carosello delle sirene. M’incoraggiai, gridando: <Enrico, sei libero, non ti prenderanno
mai>. Imboccai la seconda traversa, poi svoltai a casaccio, mi resi conto di girare in tondo, infilai
un controviale, passai davanti a una chiesa, sul corso il traffico era sempre caotico, madonna che
casino. Mi concentrai sulla guida, accesi la radio. C’era un notiziario, era al termine. La voce della
conduttrice, affannata: <Ancora una notizia, arriva proprio adesso da Torino: clamorosa evasione di
Enrico Varetti, condannato all’ergastolo…>.
<Fanculo> gridai alla radio, la spensi con una manata. Gridai ancora <Bastardi, ma quando la
finirete con questa storia infame?>. Non avevo la minima idea di dove mi trovavo, capii che
continuavo a girare in tondo, accostai, devi calmarti, calmati e ragiona, ragiona…comincia a
controllare il respiro, respira piano, piano e lascia perdere i giornalisti, figli di cane peggio dei
giudici, questi condannano senza prove e quelli esaltano le loro cazzate trasformandoli in eroi e il
fregato sono io. Porci, bastardi…
A poco a poco la lucidità tornava. Non dovevo uscire da Torino, assolutamente. Forse avevano già
istituito i posti di blocco, per non finirci dentro l’unica era rimanere in città. E cercare un luogo in
cui passare la notte, peccato, che peccato enorme aver sprecato l’occasione di nascondermi in casa
della libraia Letizia. Di nuovo, la maledetta voglia di orinare, quella fiamma al ventre, cristo, non
finiva mai, eggià, senza le medicine era dura, avessi saputo che sarei evaso avrei messo nella tasca
della tuta le magiche pillole bianche. Però, potevo mai immaginare di trovare due idioti come gli
sbarbatelli? Parcheggiai in una via corta: villette, macchine posteggiate su ambo i lati. Senza
spegnere il motore, scesi, mi liberai dal bruciore alla vescica pisciando sul paraurti del Pajero.
Risalii, la via sfociava su un corso, mi buttai nel traffico, ero quasi certo che portasse in centro.
Procedetti per alcuni semafori. Cuore in gola: lampeggiare di funghi blu in lontananza. Cazzo, i
posti di blocco li facevano anche in città. Misi il lampeggiatore, svoltai subito a sinistra. Andai
avanti a casaccio, la strada era lunga, stretta, ne attraversava altre più larghe, su due passavano bus e
tram. Guidavo prudente, l’ultima cosa da fare era bocciare. Sinché stavo in auto ero abbastanza al
sicuro. Controllai l’indicatore della benzina, segnava serbatoio pieno a metà. Ancora un incrocio, la
strada moriva su un corso. All’angolo, in piedi, appoggiata alla palina con il triangolo della
precedenza, una donna. In minigonna e stivali. L’inquadrai nei fari, era giovane, sulla mini rossa
indossava una giacca scura con il collo alto, di pelliccia. Alta, gambe slanciate, capelli strambi,
azzurri, mai visti capelli di questo colore, nemmeno in televisione, in cella la guardavo tutta la
notte la tele. Sul corso, sfrecciare di macchine, anche volendo non era possibile immettersi. Ero
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fermo, gli occhi fissi sulle gambe dritte, inguainate in collant in tinta con la mini…
Lampo negli occhi, scena bianchissima, di un biancore abbacinante. La ragazza è sdraiata sulla
schiena, le gambe larghe legate ai piedi di ferro della branda, le mani alle colonne della testiera.
Sembra crocefissa. E’ nuda, i vestiti sono ammucchiati in un angolo. La ragazza ha tette grosse,
rotonde, urla, cerca di divincolarsi perché una mano strizza il capezzolo sinistro e l’altra
l’accarezza tra le cosce, sale lentamente al pube, l’indice si allunga, sfiora la vagina, s’infila con
violenza, la tizia urla ancora, vorrebbe stringere le gambe…
Sensazione di calore. Piacevole. Come sempre.
Erezione.
Vorrebbe stringere le gambe, la biondina, ma non può. Urla ancora di dolore, scuote la testa a
destra e a sinistra, sembra un pendolo impazzito. Urla sempre più forte, le corde che annodate alle
caviglie si tendono, segano la pelle ma lei non smette di agitarsi, di contorcersi. Terrore e
disperazione sono più forti del dolore…
Erezione fortissima, cuore a mille all’ora.
Di nuovo il rumore del traffico, il buio, i capelli azzurri all’angolo, contro la palina. S’erano
chinati a sbirciare dentro l’abitacolo, la giacca era sbottonata, s’aprì mostrando il seno. Un seno
prorompente.
Sul corso il flusso di macchine s’era improvvisamente esaurito. Accelerai, con la coda dell’occhio
intravidi la delusione della puttana. Tirai dritto, oltrepassai un semaforo e realizzai che stavo
sbagliando tutto, che quel corso portava fuori città, frecce verdi indicavano che ero diretto alle
autostrade e alla tangenziale. Appena possibile invertii la marcia. Era bella la tizia dai capelli
azzurri, mi piaceva, che seni, che gambe. La mano corse alla tasca, soldi ne avevo, chissà quanto
costava adesso una marchetta, dopo sei anni cinque mesi e nove giorni di esilio dal mondo, dalla
vita autentica? Comunque, inutile contare i soldi, sarebbero bastati. Oppure, li avrei fatti bastare,
nessun problema. Inoltre, forse, in casa della donna…sì…sì, ma certo…ecco trovata la soluzione,
vado a casa sua, mangio e prendo tempo, le dico che ho bisogno assoluto di stare un poco da lei,
ovviamente glielo dirò dopo aver scopato, cazzo, da quanto è che non scopo? Un’infinità di tempo,
questi sei anni, cinque mesi e nove giorni di segregazione. L’ultima volta l’ho fatto con Marisa, mia
moglie, poche ore prima dell’arresto, Marisa, vigliacca anche tu, anche tu mi hai tradito, anche tu
mi hai abbandonato, hai voluto il divorzio ma prima o poi sistemeremo i conti, io non scordo chi mi
ha voltato le spalle nella scalogna, presto scoccherà l’ora della vendetta, puoi giurarci Marisa, ti
verrò a beccare e ti becchero' anche se sei fuggita in capo al mondo.
Per fortuna, i capelli azzurri erano sempre all’angolo. Feci il giuro dell’isolato a tutta velocità,
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frenai davanti alla minigonna. La puttana mi osservava immobile, a braccia conserte, la schiena
appoggiata alla palina, le gambe incrociate. Era sexy. Abbassai il finestrino del passeggero, lei si
staccò dalla palina, si piegò in avanti: <Caro, cinquanta da me. Ti faccio un uomo felice>. Schiuse
le labbra rosse dello stesso rosso della mini, aveva brutti denti.
Feci segno di salire, mi sporsi a schiudere la portiera, la donna salì, accavallò le gambe con
spettacolare lentezza, indicò davanti a sé: prendi il corso, al secondo semaforo giri a sinistra. Tira su
finestrino>. Carina, giovane ma non giovanissima come mi era subito sembrato, era sui venticinque
anni. Straniero l’accento, di quelli che sentivo alla tele quando parlavano gli immigrati e che avevo
sentito sino alla nausea in prigione, dove da un pezzo ci finivano solo quelli dell’est. A orecchio, la
tipa doveva essere albanese. Glielo domandai, scosse la testa <No, no. Sono rumena>. Lo disse
come se essere albanese fosse un insulto. Si addossò alla portiera, sentivo il suo sguardo frugarmi.
Imbarazzato, tolsi e rimisi la marcia, appena il flusso del traffico lo permise mi immisi sul corso,
tossicchiai: <Rumena, Però, lo parli bene l’italiano>. Rise di una risata roca: <Ho detto due parole>.
Continuava a frugarmi con gli occhi, il sorriso era sparito. <I soldi me li dai prima di venire da me>.
<D’accordo>.
Eravamo al secondo semaforo, la freccia per la svolta a sinistra era rossa. La rumena disse:
<Accendi la radio, amore, sentiamo la musica>. L’accontentai, c’era la pubblicità.
<Che strani i tuoi capelli, sono una parrucca, vero?>.
<Sono miei, niente parrucca. Li ho colorati. Dai, tocca te. Va’ avanti sino al fondo, poi prendi
corso Dante>.
<Qual è?>.
<Come, non lo sai. Non sei di Torino?>.
<No>. Il discorso prendeva una piega indesiderata. Armeggiai con i pulsanti della radio, li
schiacciai uno via l’altro, incappai in una voce maschile Onora il padre e la madre è un film ma
potrebbe essere puro teatro greco”>, in altra pubblicità, nella sigla di Onda verde.
<Non hai freddo vestito così, in tuta, senza cappotto o giacca pesante?>.
<Io? No, niente freddo. Perché?>.
<Niente. Ecco, quello a destra è corso Dante, il prossimo portone è casa mia>.
Non c’era un posto libero.
<Parcheggia là, sotto gli alberi, mettila di traverso, intanto a questa ora non ti danno la multa.
Prima di salire da me, gli euro, amore>.
Avevo schiacciato il quarto pulsante della radio, lo speaker stava dicendo: <Enrico Varetti è evaso
due ore fa dalle Molinette dove era stato portato per esami clinici. Il serial killer è un malato
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terminale di cancro, alla vescica…>.
Rilasciai la frizione, il Pajero fece un balzo, il motore si spense. Sballottata in avanti, la puttana
batté la fronte contro il montante. Imprecò nella sua lingua.
<…gli restano pochi mesi di vita. Una vita che gronda sangue quella di Varetti. Arrestato per
l’assassinio…>.
<Coglione, tu coglione> sacramentava capelli azzurri.
<Zitta, zitta troia>.
<…di dodici ragazze, è stato condannato all’ergastolo perché riconosciuto colpevole della morte di
nove giovani. Prima di strangolarle, Varetti le ha tutte stuprate e torturate ferocemente seguendo uno
spaventoso rituale ispirato ai peggiori fumetti sadici…>.
La rumena mi osservava stranita. Parlò ancora nella sua lingua, le mollai un manrovescio.
<Il serial killer è vestito solo con la tuta che aveva quando è evaso dall’ospedale…>.
<Tu, tu…>. La puttana spalancò la portiera, si fiondò fuori, cadde lunga distesa sull’asfalto.
<…Anche se è condannato dalla malattia…>
<Non è vero, non è vero, io sto bene, sono sano> dissi in un sussurro.
<…Enrico Varetti rappresenta sempre un pericolo mortale, la polizia è sicura che se avrà
l’occasione ucciderà di nuovo. Una caccia imponente all’uomo è in corso, il pluriomicida ha già
aggredito due donne, si è impossessato della loro macchina lasciandole miracolosamente in vita: poi
ha ferito un altro automobilista ed è scappato sul suo fuoristrada, un Pajero bicolore, bianco e blu…
>.
<Non è vero, non è vero, io sto bene>. Piangevo.
<E’ lui…aiuto, aiuto a me, è lui>. Capelli azzurri s’era rialzata, saltellando sugli alti tacchi degli
stivali correva verso il marciapiede continuando a gridare, a gesticolare come un’invasata.
<…si raccomanda alla popolazione la massima attenzione, pur se gli restano pochi mesi di vita
Varetti è sempre una micidiale macchina di morte>.
Piangevo sordo al clacson del bus che s’era fermato a due metri, non poteva proseguire, il corso
era ostruito dal Pajero fermo al centro della carreggiata.
Scesi, barcollavo. Il conducente del bus si sporse dal finestrino: <Ehi, lei, si tolga di lì sennò non
passo…ehi, lei>.
No, no, non è vero, bastardi, è una bugia, per incastrarmi, io non ho il cancro, io sto bene, io voglio
vivere, voglio vivere, no, no, perché anche questa iella? Piangevo, singhiozzavo, urlavo, sbattei
contro una donna che portava a spasso il cane, scalciai il cane, mi misi a correre inseguito dalle
grida della donna e dai guaiti del cane, non è vero che sto per morire, io non posso morire, non è
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giusto, ho già sofferto abbastanza, troppo per un essere umano. Continuai a correre.
In lontananza, gemere di sirene.
Presi una strada in discesa…non è vero che sono malato, se lo fossi non ce la farei a correre, ecco,
bastardi, ecco bastardi la prova che raccontate cazzate, maledetti bastardi, bastardo il mondo…
Le sirene erano vicine.
Stremato, mi fermai. Ero finito in un parco, sulla riva di un fiume. Il Po, essì era il Po, il Po bagna
Torino. Non ce la facevo più a correre, ripresi a camminare. Lentamente…
Le sirene erano sopra dei me.
Si spensero.
Voci.
Luci.
Fari bucavano il buio del parco.
Tentai di allungare il passo, non ce la facevo, ero senza forze. Naturale, anni e anni di galera mi
avevano rattrappito.
Ancora voci, urla, di la', e ' entrato nel Valentino...si', sta andando verso il Castello medievale...
Rumore di passi che s’avvicinavano.
No, bastardi, non mi avrete. Io sono libero.
Scavalcai una ringhiera, affondai con i piedi nella melma mentre scendevo la ripida riva.
<La, è là, lo vedo, lo vedo> gridava qualcuno.
L’acqua era fredda. Alzai il viso al cielo, la luna era un tizzone di sangue…continuai a guardarla,
io, l’uomo più sfortunato della terra la guardavo mentre la corrente mi trascinava via, lontano dalle
grida, dai fari che sciabolavano il buio, dall’odio di tanta, troppa gente.
Lampo negli occhi, scena bianchissima, di un biancore abbacinante…la ragazza è nuda, si torce
sbavando per il male, tra le lacrime implora pietà, inarca la schiena, scalcia debolmente…
Silenzio.
Lo rompe solo il frusciare dell’acqua. Un gorgo mi abbraccia, tira a sé, giro su me stesso, vado
sotto, riemergo, di nuovo sono sotto. Apro la bocca, bevo, il tizzone insanguinato della luna è
sparito, il cielo è nero. Tutto sta diventando nero
Sono felice, non sono mai stato così felice…felice e libero…sìììì. Libero, la libertà finalmente
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