Dasein Rivista Ufficiale della Società Italiana di Psicoterapia Esistenziale
Official Journal of the Italian Society of Existential Psychotherapy
Editor-in-chief
Lodovico E. Berra M.D.
Senior Editor
Ezio Risatti Psy.D.
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Rosario Porrovecchio M.D.
Nicolò Terminio Ph.D.
Roberto Varrasi M.D.
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Flavio Crestanello
Rosario Porrovecchio
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Mariacarla Zunino
Norme generali per gli Autori
Dasein, rivista ufficiale della Società Italiana di Psicoterapia Esistenziale, pubblica contributi redatti in forma di articoli di argomento monografico nell’ambito della psicologia della psicopatologia, della psicoterapia di orientamento fenomenologico esistenziale. I contributi devono essere inediti, non sottoposti contemporaneamente ad altra rivista. Il testo deve essere in lingua italiana o inglese e deve essere di non oltre 30.000 caratteri – spazi inclusi. Deve inoltre contenere: 1. Titolo del lavoro (in inglese e in italiano); 2. Abstract (in italiano e in inglese) (massimo 3000 battute - spazi inclusi). 3. Parole chiave (in italiano e in inglese); 4. Didascalie delle tabelle e delle figure (in italiano e in inglese). Nella prima pagina del file devono comparire anche i nomi degli Autori e l'Istituto o Ente di appartenenza; il nome, l'indirizzo, il recapito telefonico e l'indirizzo e-mail dell'Autore cui sono destinate la corrispondenza e le bozze. - Registrazione degli articoli online: gli autori possono inviare i manoscritti all’indirizzo: [email protected] - Software: testo in formato .DOC o .RTF. - Immagini: a) inviare le immagini in file separati dal testo e dalle tabelle; b) software e formato: inviare immagini preferibilmente in formato TIFF o JPG o PDF, con risoluzione minima di 300 dpi e formato di 100 x 150 mm. Tabelle: devono essere contenute nel numero (evitando di presentare lo stesso dato in più forme), dattiloscritte una per pagina e numerate progressivamente con numerazione romana. Bibliografia: va limitata alle voci essenziali identificate nel testo ed elencate al termine del manoscritto in ordine alfabetico. Devono essere riportati i primi 3 Autori, eventualmente seguiti da et al. Esempi di corretta citazione bibliografica per: Articoli e riviste: Schatzberg AF, Samson JA, Bloomingdale KL, et al. Toward a biochemical classification of depressive disorders, X: urinary catecholamines, their metabolites, and D-type scores in subgroups of depressive disorders. Arch Gen Psychiatry 1989;46:260-8. Libri Kaplan HI, Sadock BJ. Comprehensive textbook of Psychiatry. Baltimore: Williams & Wilkins 1985. Capitoli di libri o atti di Congressi Cloninger CR. Establishment of diagnostic validity in psychiatric illness: Robins and Guzes method revisited. In: Robins LN, Barret JE, editors. The validity of psychiatric diagnosis. New York: Raven Press 1989, p.74-85 Le note, contraddistinte da numerazione progressiva, compaiono nel testo, a piè di pagina.
Informations for Authors Dasein, official journal of the Italian Society of Existential Psychotherapy, publishes contributions in the form of monographic articles, in the field of phenomenological-existential psychology, psychopathology and psychotherapy. The material submitted should not have been previously published, and should not be under consideration (in whole or in part) elsewhere. The text must be written in Italian or in English (max 30.000 characters - including spaces);. The paper must include: 1. Title (in Italian and English); 2. Abstract (in Italian and English): max 3000 characters - including spaces; 3. A set of key words (in Italian and English); 4. Legends for tables and figures (each figure and/or each table on separate pages, both in English and Italian); The first page of the manuscript must contain the names of the Authors and the Institute or organization to which each Author is affiliated, the name, mailing address, and telephone and email of the Author to whom correspondence should be sent. - Online submission: authors can submit their manuscripts to: [email protected] - Software and text: please saving files in .DOC or in .RTF format. -Pictures: a) send pictures in separate files from text and tables; b) software and format: preferably send images in .TIFF or .JPEG or .PDF format, resolution at least 300 dpi (100 x 150 mm). Tables (in 3 copies) must be limited in number (the same data should not be presented twice, in both the text and tables), typewritten one to a page, and numbered consecutively with Roman numerals. The references must be limited to the most essential and relevant references, identified in the text and listed at the end of the manuscript in the order of mention. Examples of the correct format for bibliographic citations: Journal articles: Schatzberg AF, Samson JA, Bloomingdale KL, et al. Toward a biochemical classification of depressive disorders, X: urinary catecholamines, their metabolites, and D-type scores in subgroups of depressive disorders. Arch Gen Psychiatry 1989;46:260-8. Books: Kaplan HI, Sadock BJ. Comprehensive textbook of Psychiatry. Baltimore: Williams & Wilkins 1985. Chapters from books or material from conference proceedings: Cloninger CR. Establishment of diagnostic validity in psychiatric illness: Robins and Guze's method revisited. In: Robins LN, Barret JE, editors. The validity of psychiatric diagnosis. New York: Raven Press 1989, p.74-85. Notes to the text, indicated by consecutive numbering, appear at the bottom of the page.
Sommario - Contents
Editoriale • Editorial
Lodovico Berra…………………………………………………………………… 7
Da-sein
Ado Huygens …………………………………………………………………… 11
Il significato della Daseinanalyse nella psicoterapia - parte I
The meaning of Daseinanalyse in psychotherapy
Hansjörg Reck ……………………………………………………………………17
L’arte e la scienza della psicoterapia esistenziale
Art and science of existential psychotherapy
Lodovico Berra…………………………………………………………………. 30
Relatedness and the therapeutic relationship as viewed by existential therapy
Relazionalità e rapporto terapeutico secondo la terapia esistenziale
Ernesto Spinelli ………………………………………………………………… 40
Psicoanalisi e analisi esistenziale: tra differenze e analogie
Psychonalysis and existential analysis: between differences and analogies
Ferdinando Brancaleone ………………………………………………………… 50
Edith Stein e l’empatia
Edith Stein and empathy
Mariacarla Zunino………………………………………………………………. 59
Secrets of Existential Psychotherapy - Part I
Segreti della psicoterapia esistenziale - Parte I
Stephen A. Diamond …………………………………………………………… 68
Il fallimento del Dasein nella psicosi
The failure of Dasein in psychosis
Nicolò Terminio ………………………………………………………………… 85
Dasein, n.1, 2013
7
Editoriale
Nel vasto panorama delle pubblicazioni oggi esistenti in Italia nel campo della
psicologia e della psicoterapia si inserisce questa nuova rivista che rappresenta un
punto di incontro e di confronto tra coloro che amano e coltivano l’approccio
fenomenologico-esistenziale.
La rivista è l’organo ufficiale della Società Italiana di Psicoterapia Esistenziale e vuole
rappresentare perciò uno specchio che riflette i pensieri, le ricerche e le prospettive
teorico-pratiche dei membri associati o dei simpatizzanti, italiani e stranieri.
Nonostante il notevole numero di pubblicazioni nel mondo vi è solo un piccolo
spazio dedicato alla psicologia e psicoterapia esistenziale e poche sono le riviste
specializzate in questo orientamento. Per questo è stato scelto di inserire articoli sia
in italiano che in inglese, come è la tendenza attuale per le riviste che aspirino ad un
maggior respiro internazionale.
La scelta del titolo della rivista è anche un significativo indicatore dello spirito che
vuole accompagnare la pubblicazione.
Il termine Dasein significa in tedesco Esistenza, ma assume un significato più
complesso nel modo in cui viene utilizzato da Heidegger nelle sue opere, dove viene
tradotto con il termine Esserci.
Il termine da in Da-sein, tradotto con il ci, non è solo un essere qui nel senso di una
localizzazione spaziale, ma sta a indicare il modo in cui concretamente l’Essere si dà
nell’esistenza dell’uomo. L’Esserci è infatti un essere-nel-mondo, con tutte le implicazioni
che ne derivano di rapporto con il mondo circostante (Umwelt), con gli altri esseri
umani (Mitwelt), con il proprio mondo interiore (Eigenwelt) e con il mondo spirituale,
dei valori e dei significati (Űberwelt).
Il Dasein che ci riguarda comprende perciò sia l’indagine filosofica in senso stretto
che la sua applicazione pratica e concreta ed è in questo senso che la psicoterapia
esistenziale diviene un laboratorio in cui è essenziale il confronto tra filosofi e
psicologi, tra ricerca teoretica e pratica clinica, nello spirito che accompagnò illustri
studiosi quali Binswanger e Boss.
Dasein, n.1, 2013
8
Il termine Dasein viene illustrato in modo più approfondito e magistrale da Ado
Huygens, presidente della International Federation of Daseinanalyse, che ci onora della sua
presenza nella sua lettera-articolo all’inizio di questo primo numero della rivista. Sono
poche pagine ma di importanza fondamentale per entrare nel clima complesso ed
affascinante della analitica esistenziale. Egli evidenzia infatti come nella
Daseinanalyse l’indagine ontologica diventi inscindibile da quella sull’uomo, quindi
come il lavoro filosofico in senso stretto divenga parte fondamentale della pratica
psicoterapeutica. È infatti in questo senso che si orienta la psicoterapia esistenziale,
essendo allo stesso tempo riflessione metafisica sull’esistenza ed azione concreta sui
problemi dell’uomo.
A questo segue l’articolo di Hansjörg Reck, membro del Österreichisches
Daseinanalytische Institut e socio onorario della SICoF, Società Italiana di Counseling
Filosofico. Questo per la sua ampiezza è stato diviso in due parti, di cui la seconda
verrà proposta nel prossimo secondo numero della rivista. Il suo lavoro ci introduce
in modo efficace alla pratica della Daseinanalyse, in particolare in rapporto a quello
della psicoanalisi, introducendo aspetti di metodo rilevanti quali quello degli
“esistenziali” e del lavoro sul sogno.
In considerazione del particolare atteggiamento filosofico dello psicoterapeuta
esistenziale, e forse potremmo anche dire poetico, come evidenziato abilmente nelle
citazioni di Reck, si pone il problema di come uno spirito libero e creativo possa
combinarsi con un approccio moderno alla psicoterapia, ponendosi alla pari di altri
interventi medici e naturalmente in grado di reggere il confronto con altre
psicoterapie diffuse nel mondo. In questo senso ho voluto proporre nel mio
intervento una riflessione sul senso della psicoterapia oggi, considerando la necessità
di combinare aspetti artistici insieme a quelli più scientifici, alla luce delle più recenti
scoperte di psicobiologia. Da un’apparente antagonismo, come evidenziato nella
contrapposizione storica tra psicologia umanistica e psicologia scientifica, ne può
nascere una significativa sinergia, nel nostro caso rappresentata dalla prospettiva della
psicoterapia esistenziale.
Dasein, n.1, 2013
9
Un aspetto fondamentale che caratterizza questo orientamento psicoterapeutico è
l’importanza data alla relazione terapeuta-paziente, come egregiamente illustrato
dall’articolo di Ernesto Spinelli, noto psicoanalista, studioso e docente di psicoterapia
e counseling. Il suo interesse per gli aspetti relativi alla relazionalità in psicoterapia è
ben evidente in suo testo, considerato uno dei contributi più importanti nella teoria e
pratica della analisi esistenziale, dal titolo “Practising Existential Psychotherapy: The
Relational World”, di cui è prevista una nuova edizione nel 2014. Nell’articolo Spinelli
ci illustra alcuni concetti fondamentali relativi al rapporto terapeutico e alla
relazionalità, introducendo il concetto originale di un-knowing, termine non facilmente
traducibile in italiano e da lui stesso inteso come “l'attento rimanere aperto a ciò che
è presente senza pregiudizio”.
La psicoterapia esistenziale include differenti indirizzi ed orientamenti, quali l’Analisi
esistenziale (Existenzanalyse di Frankl) e l’Analitica esistenziale (Daseinsanalyse di
Heidegger e Boss) che però mantengono la loro radice storica e concettuale nella
psicoanalisi freudiana. Questo è ben descritto nell’articolo di Ferdinando
Brancaleone, direttore scientifico dell’Istituto di Scienze Umane ed Esistenziali di
Napoli, uno dei pochi centri che da tempo operano in Italia per sostenere
l’orientamento esistenziale. Come egli scrive tutte e tre gli approcci (psicoanalisi
freudiana, analisi esistenziale e analitica esistenziale) anche se da diverse angolazioni
si preoccupano di «analizzare nel senso di rendere trasparente l'essenza umana sulla
base della sua struttura e membratura». È infatti il significato profondo e filosofico
dell’esistenza e dell’uomo stesso che fa da sfondo all’intervento psicoterapeutico. In
questo senso risulta fondamentale il contributo portato dalla Filosofia alla pratica
della psicoterapia, come dimostrato dalle considerazioni in merito al pensiero della
filosofa Edith Stein da parte di Mariacarla Zunino. La SIPE, e quindi questa rivista
che la rappresenta, nasce proprio dalla collaborazione di psicologi, psichiatri e
filosofi, ognuno con il proprio contributo specialistico, che confluisce sull’essere
umano, sulla sua esistenza e sul proposito di agire sui problemi pratici che la
caratterizzano. Non ci può essere psicologia (o psicopatologia) senza filosofia, così
Dasein, n.1, 2013
10
come non ci può essere filosofia senza psicologia: è questo uno dei presupposti
fondamentali che ci accompagna nella nostra ricerca.
Stephen Diamond, psicologo clinico e forense, allievo di Rollo May, affronta poi in
questo numero della rivista la questione, ampiamente dibattuta, sulla identità della
psicoterapia esistenziale, domandandosi “Does Existential Therapy Really Exist?” e
promuovendo l’orientamento che lui stesso definisce “psicologia esistenziale del
profondo”. L’articolo è tratto in parte dal capitolo sulla psicoterapia esistenziale del
testo di prossima uscita “Contemporary Theory and Practice of Counseling and Psychotherapy”;
esso è stato suddiviso in due parti per la sua lunghezza e la seconda parte verrà
proposta nel prossimo numero della nostra rivista.
Infine Nicolò Terminio, prendendo spunto dal caso di Anna Rau, tratto dal testo di
Blankenburg “La perdita dell’evidenza naturale”, esamina in modo critico e profondo il
nucleo fondamentale che sta all’origine del mondo psicotico, preoccupazione centrale
di numerosi psicopatologi di area fenomenologica. L’analisi del Dasein è in grado di
far luce sui meccanismi psicologici che reggono la psicosi, fornendo così un possibile
indirizzo di lavoro psicoterapeutico.
Questo primo numero della rivista si presenta così notevolmente articolato, con il
contributo di diversi autori, con differenti background professionali e clinici ma tutti
accomunati dallo stesso interesse o, preferiremmo dire, passione per un ambito della
psicologia fino ad oggi ancora troppo poco considerato e che merita di essere
rivalutato e diffuso, compito quindi fondamentale di questa rivista.
Lodovico Berra
Dasein, n.1, 2013
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Da-sein1
Ado Huygens
Presidente della International Federation of Daseinanalysis
Audace è chiamare un giornale “Dasein”, ma al tempo stesso penetrante. Si tratterà
di non coagularne mai il senso.
Daseinsanalyse. Il termine come suona in tedesco rimane per la maggioranza ermetico.
Il concetto di “analisi” si sviluppa durante i seminari di Zurigo, meglio conosciuti
come i Zollikoner Seminare. Heidegger ci apre un cammino, un sentiero trasversale che
ci permette di cogliere l’analisi come un processo di unificazione della cosa analizzata.
Non si tratta, dice, di «una dissoluzione in elementi, ma l’articolazione dell’unità di un
insieme strutturale»2. Si tratta di decostruire, sospendere le nostre conoscenze
prestabilite, il nostro sapere sovente assoggettato ad evidenze non comprovate e
infondate. L’analisi presuppone un “soggiornare presso” una temporalità ben
specifica che apre un tempo per soggiornare, una passibilità di possibili. Il modo in
cui mi dirigo verso la cosa analizzata è essenziale.
Questo non è un «Io» onnipotente, con pieno controllo, un tecnico, un esperto che
sviscera, cataloga, classifica qualcosa che è al tempo stesso un oggetto, ma piuttosto
un essere che si apre a questa apertura all’Essere di cui è il pastore.
Da-sein ... il termine è piuttosto comune nella lingua tedesca e significa esistenza,
presenza. Heidegger lo sceglie per dare significato alla sua geniale intuizione, per
esprimere questo rapporto distintivo che l’uomo ha con l’Essere, Heidegger lo sceglie
per descrivere «questo ente che non si limita ad apparire in seno all’ente, per questo
ente dove ne va il suo essere di questo essere»3.
1 Traduzione dal francese di Lodovico Berra 2 Heidegger M., Séminaires de Zurich, 2010, Gallimard, p.176 traduction par Caroline Gros des Zollikoner Seminare,1987 3 HeideggerM., Être et Temps, 1929, Traduction Martineau, Authentica, 1989, p. 12
Dasein, n.1, 2013
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Come non essere scossi da questo annuncio heideggeriano? Esso dissigilla la
fondazione immutabile della metafisica e pone la domanda sull’ essere in una nuova e
radicale direzione, quella dell’Essere.
Piuttosto che “nuova direzione”, dovremmo dire, domanda l’ente in modo assiduo,
tenacità e profondità senza mai lasciarsi pervertire dal bagliore di questo ente. Noi
non siamo semplicemente un ente tra altri enti. Ciò che ci differenzia
fondamentalmente è la nostra capacità di intonarci, di accordarci all’essere dell’ente, il
che ci permette di comprendere questo luogo ove noi siamo stati gettati come il “ci”
dove l’ente si eleva nella sua essenza per aprirci la sua appartenenza all’Essere.
Noi non ci troviamo nel mondo, come una sedia si trova vicina a un tavolo. Una
strana co-appartenenza si stabilisce tra il Dasein che io sono nella mia propria meità e
il mondo.
Noi non siamo, noi dobbiamo “essere”. La formula è semplice, il provarlo molto
meno. Tanto meno facilmente poiché non siamo stati invitati a queste nostre vite
dove erriamo in un orizzonte impersonale, inautentico, smaltato d’opinioni
pubbliche, curiosità, chiacchere. Da-sein non è Dasein, ex-sistenza non è esistenza, la
prima in senso heideggeriano, la seconda nel senso comune. Eccoci al confronto con
il concetto di “esistenza” che significa per i comuni mortali che ci sia qualcosa là
davanti di consistente, quando nel senso heideggeriano, l’ex-sistenza, l’ex-sistere
riflette questa apertura dal quale il mio essere si intona all’Essere. «Stare nella radura
dell’Essere, è quello che io chiamo l’ek-sistenza dell’uomo»4. Il dispiegamento del
pensiero meditativo heideggeriano dagli anni Venti agli anni Sessanta, in Essere e
Tempo a Tempo e Essere, attraverso i contributi alla filosofia, richiama ad una
trasformazione fondamentale dell’uomo, quello dell’ «animale razionale in Dasein»5 alla
luce di una transpropiazione evenemeziale: Ereignis, quale movimento pulsionale tra
l’uomo e l’Essere.
Non si tratta di discorrere sul tema dell’Essere, ma di lasciarsi andare a questa
apertura, a questo cammino a cui Heidegger ci convoca. Pensare! Camminare!
4 Heidegger M., Lettre sur l’humanisme, 1946, Question III-IV, Gallimard, 1976, p.80 5 Heidegger M., Contributions to Philosophy (of the Event), 1936-1938, Indiana University Press, ( Nouvelle traduction de Rojcewicz et Vallega-Neu, 2012, p.6
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Pensare durante il cammino; camminare mentre si pensa all’avvento-evento di questa
relazione insigne, singolare, che l’uomo intrattiene con l’Essere, almeno se egli si
distacca dalla influenza dell’ente.
Noi non pensiamo che raramente quanto il pensare significhi «lacerare la nuvola che
copre l’ente in quanto tale e preoccuparsi di impedire che questa lacerazione non sia
scoperta»6. Noi pensiamo ancor più raramente che la detta lacerazione - questo
svelamento dell’ente, questa intonazione all’Essere - non dipenda da una
dimostrazione logica, ma dalla prova dell’aletheia, quale «verità originaria della physis»7
come «non-ritiro in seno all’Aperto»8 che, nel superamento della prova greca, si
comprende anche come «la radura del ritiro dell’Aperto»9, dispiegandosi così in un
gioco continuo di luce e ombra, di svelamento e di un soggiornare-in-ritiro di chiaro
e di oscuro. «La Lichtung - lo spazio libero che appare - l’Aperto è radura per la
presenza e l’assenza»10.
Osiamo andare avanti, come per Eraclito o Heidegger, «in una zona dove la nostra
solita chiarezza svanisce»11. Rischiamo «il salto in questo abisso, camminando ora
senza suolo, né punti d’appoggio nell’oscurità»12.
Perché ogni cosa possa donarsi, qualunque essa sia, perché possa divenire
apprensibile, quindi intelligibile, questa cosa deve potersi fenomenizzare… Ogni
forma di fenomenizzazione inizia dall’entità ... Che cosa che si fenomenizza: frammenti
di essere.
Per formare un ente particolare - materia, concetto, vivente ... l’uomo stesso, ogni
volta, lo stesso processo: si devono liberare a partire dall’ Essere – il più possibile -
alcune delle sue possibilità, per lo più precise e determinate, per dare luce a un ente
specifico, più o meno ambiguo proprio secondo la precisione e determinazione dei
6 Heidegger M., Qu’appelle-t-on penser ?, 1954, PUF, 1992, p.66 7 Conferatur Heidegger M., Contributions to Philosophy (of the Event), Op.Cit., V. The Grounding, c) Essence of truth et e) The essential occurrence of truth as a sheltering. 8 Heidegger M., La fin de la philosophie et le tournant, 1968, in Question III-IV, Gallimard, 2002, p. 304 9 Ibidem, p.304 10 Ibid. p.295 11 Walter Biemel, Le professeur, le penseur, l’ami, in Martin Heidegger, 1983, Cahier de l’Herne, p.131 12 Heidegger M., De l’essence de la liberté humaine, Introduction à la philosophie, 1930, Gallimard, 1987, p. 116
Dasein, n.1, 2013
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predicati liberati. La concatenazione realizzata, l’Essere si ritira. Si ritira poiché la
cosa, l’oggetto, in una parola, l’ente si dona a partire unicamente dai propri predicati.
Se l’Essere non si fosse ritirato, l’ente sarebbe inidentificabile così come sarebbe tutto
e il contrario di tutto. Così vale per gli oggetti usuali e per ogni produzione razionale.
Cosa ben diversa, la creatività esuberante, arborescenza dell’artista, e anche di alcuni
ricercatori. Cosa ben diversa, l’opera d’arte che non si riduce a entità. Analizzando
questi differenti concetti, mi rendo conto che posso, attraverso una immaginazione
trascendentale, essere consapevole… del fatto che, già, nessun altro ente può fare.
Questa consapevolezza non si ferma in questo buon cammino.
Essa si eleva da se stessa nella parusia13 dell’Essere che avrebbe dovuto ritirarsi, una
presenza di tutt’altro ordine di quello che noi chiamiamo “mondo”.
Come può l’uomo intonarsi a ciò da cui si è ritirato? Come può egli sentire ciò che
sfugge ai suoi sensi?
Io non sono essenzialmente limitato ai predicati che l’Essere mi ha concesso: il mio
genere, la mia misura, la mia plasticità, la mia intelligenza,… Malgrado questi
predicati che in una certa misura mi limitano, intonarmi all’Essere mi possibilizza
all’impossibile.
«L’uomo non è il padrone dell’ente bensì il pastore dell’Essere»14 colui che si intona
all’Essere attraverso le cose di questo mondo mantenendosi nella sua appartenenza
all’Essere.
Provare l’Essere, è incontrare l’ente ai limiti dell’indifferenziato, dell’informe. Colui
che prova l’Essere prova l’assenza, il ritiro, il “dove” l’ente si dona in piena-presenza
e ove, paradossalmente, si illumina. Questa prova non lo lascia indifferente ma lo
tocca, lo colpisce.
Mettersi all’ascolto di questa «Befindlichkeit» - di questo stato ove egli si trova – rinvia
il Dasein al suo “ci”, al fatto di essere gettato nel suo “ci”, gettato in questa apertura-
significante. Poiché questa apertura è anche significabilità, emergenza di senso, di
13 «Parousie veut dire : le perpétuel avoir-séjour, dont la venue à lui regarde l’homme, quiétude qui l’atteint et qui lui est offerte. » Heidegger M., Temps et Être, 1962, Question III-IV, Gallimard, 1976, p.209 14 Heidegger M., Lettre sur l’humanisme, 1946, Question III-IV, Gallimard, 1976, p. 101
Dasein, n.1, 2013
15
significanze, di significazioni che si rinnovano le une con le altre sottendendo
l’avvento del comprendere, un comprendere intonato, che dev’essere precisato.
« Verstehen ist immer gestimmtes.»15. Intonarsi all’Essere «come fondo abissale
dell’ente» in un luogo e posto di influenza dell’ente, ridotto alla sua propria entità,
scuote l’uomo dal suo “ci”.
Lungi dal cogliere la verità originale della physis – la totalità dell’ente – come
«potenza di apertura-ritiro» nella sua dinamica contradditoria di creazione e
distruzione, di presenza e assenza, l’uomo stesso se ne dimentica e portato dall’hybris
- l’orgoglio - si prende per un dio negando la sua assoluta finitudine16.
Nondimeno, quale che sia il suo cammino, come sottolineato giustamente in modo
forte da Heidegger, si presenta inevitabilmente un limite che «sovralimita ogni limite.
Più di uscita, dissodamento, cattura, dominio. È la morte»17. È unicamente allorché la
deflagrazione di questa potenza nullificatrice rovina l’illusione dell’hybris che l’uomo
può aprirsi all’aletheia, alla verità originale della physis e accettare che la sua capacità
di intonarsi all’Essere non l’affranchi dal suo essere-uomo più proprio, per conoscere
il suo essere-per-la-morte. È, al contrario, a partire da questa «temporalità insigne»
che l’essere-uomo può accordarsi all’ essere-più-proprio della physis e all’Essere per
conoscere questo movimento paradossale e ambiguo di sboccio e di ritiro, di
creazione e di nullificazione.
Cogliere quanto la fenomenalizzazione stessa, senza tanto occultare, non può essere
né totale, né troppo brusca e si trova, nell’attraversamento del ritegno, ad accogliere
15 Heidegger M., Sein und Zeit, 1927, Max Niemeyer Verlag, 1993, p.142 “Le comprendre est toujours intonné”. 16 Cfr Heidegger M., Introduction à la métaphysique, 1935, Gallimard, 1980, Chapitre 3 « Être et penser » de la quatrième partie « La limitation de l’être » et son approche herméneutique par Joël BALAZUT, L’impensé de la philosophie heideggérienne, l’essence du tragique, 2006, L’Harmattan. Heidegger y commente les deux premiers vers de Sophocle : « Multiple est l’inquiétant, rien cependant / Au-delà de l’homme, plus inquiétant, ne se soulève en s’élevant. » « Le mot grec Deinon est ambigu… à la fois la perdominance prépotente qui provoque la terreur panique, l’angoisse et … comme celui qui emploie la violence, le faisant-violence,…. C’est parce qu’il est doublement deivov, au sens originairement uni de ce mot, que l’homme est le plus violent : faisant violence au sein du prépotent… nous comprenons inquiétant comme ce qui nous rejette hors de la quiétude, hors de l’intime, de l’habituel, du familier, de la sécurité non menacée. » p.155 et suivantes 17 : Ibidem, p. 164
Dasein, n.1, 2013
16
«il pudore come la riserva di lasciar essere il mistero che ogni manifestazione abita»
come un preservare l’apertura a mantenersi come apertura.
Instaurare una « daseinsgemasse Therapie »18 richiede per il clinico di provare nel cuore
dell’incontro terapeutico l’apertura all’Essere, di abitare «il ci” come luogo fondativo
del suo essere, Da-sein, esser-lì.
Che questo giornale possa dispiegare questo esser-lì. Gli auguro lunga vita e
l’intensità del dialogo e dell’apertura.
18 Medard Boss, Existential Foundations of medecine & psychology, 1979, Jason Aronson, 1994, une thérapie conforme au Dasein… p.251 : “ En tentant d’organiser ou de structurer la pathologie générale, nous avons constaté que la maladie est toujours un affaiblissement, une fragilisation ou une limitation de la liberté humaine de mouvement, dans le sens le plus large du mot... Les différentes manières dont s’exprime la maladie renvoie toujours à l’affaiblissement des existentiaux à savoir l’ouverture, la spatialité, la temporalité, l’être-ensemble dans un monde commun, l’intonation ou la possibilité de s’accorder-à, l’historicité et la finitude (le mourir). » Traduction personnelle.
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Il significato della Daseinanalyse nella psicoterapia1 -parte I
The Meaning of Daseinalyse in psychotherapy – part I
Hansjörg Reck
Summary
La questione relativa alla migliore psicoterapia è inevitabilmente connessa con l'esistenza dell'uomo, il suo Esserci (Dasein), cioè il suo “essere-nel-mondo”. In questo senso non si tratta soltanto di ciò che lui stesso impiega, bensì a che scopo egli viene impiegato nel suo essere. Se viene impiegato affinché le “cose” del suo mondo possano diventare manifeste nella loro essenza, deve essere – per quanto possa non essere facile – il più possibile imparziale, aperto alla loro accoglienza e trovare la sua risposta ad esse. Un aiuto terapeutico necessario non può accontentarsi quindi di afferrare, classificare e valutare comportamenti patologici, ma dovrà tenere conto delle caratteristiche fondamentali dell'esistenza del paziente, in vista di una maggiore libertà e di un processo di guarigione. Parole chiave: Essere-uomo – terapia ottimale – libertà The issue about the best psychotherapy is inevitably connected with the man existence, with his Being-there (Dasein), that is “being-in-the-world." In this sense it is not only what he employs, but for what purpose he is employed in his being. If he is employed so that the "things" of his world can become manifest in their essence, must be - though it may be not easy - as unbiased as possible, to open their welcome and find his answer to them. Then a therapeutic help must not be satisfied to grasp, classify and evaluate pathological behaviors, but must consider the fundamental characteristics of the patient existence, in order to achieve greater freedom and a healing process.
Key words: Being-man – optimal therapy – freedom
1 traduzione dal tedesco di Alberto Rezzi
Dasein n.1, 2013
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Storia, teoria, metodo
Il “pilastro” della psicoanalisi
Alla ricerca di un metodo più duraturo ed efficace di quello che offrivano le tecniche
oscuranti e suggestive, come ad esempio l'ipnosi, Freud (1975, pp. 99ss) approdò
infine alla psicoanalisi, una tecnica chiarificatrice: a partire dal mito di Edipo elaborò la
teoria decisiva per la psicopatologia secondo cui le verità nascoste, come ciò che è
stato spostato e rimosso, possono ripercuotersi in maniera negativa sulla psiche.
Quando queste sono portate alla luce attraverso l'indagine e l'azione terapeutica, si
giunge ad una liberazione e ad una via di guarigione (cfr. Wucherer, 2004/5).
Ma Freud (1975, pp. 239ss) sapeva anche che questa liberazione non sarebbe stata
raggiungibile senza paure e resistenze, e che pertanto giocava un ruolo estremamente
importante l'accompagnamento in una relazione terapeutica protettiva. Questa relazione
prendeva le mosse da un “senso” della sofferenza psichica che si tratta di scoprire. In
essa andava salvaguardato ciò che fino a quel momento era rimasto nascosto al
paziente e respinto quello che aveva portato alla malattia, o quello che aveva
costantemente ostacolato una libertà maggiore. Proprio questa libertà riconquistata
doveva in ultima analisi essere messa in pratica.
Affinità e differenze metodologiche tra psicoanalisi e Daseinsanalyse
La Daseinsanalyse, al cui metodo io ricorro, rispetto a questo “pilastro” si considera
senz'altro seguace della psicoanalisi. Tuttavia si differenzia dalla psicoanalisi, la cui
concezione della realtà propria delle scienze naturali distingue nettamente il mondo
esterno neutro, oggettivo, e l'osservatore soggettivo, razionale e calcolatore, per il
fatto che nella Daseinsanalyse le «circostanze che appaiono significative... da una
parte, e l'esistenza dell'uomo dall'altra, formano un'unità indivisibile...» (Boss, 1989,
DA 6, 153). Questo comporta una rinuncia al “ruolo” dell'osservatore imparziale e
quindi a una divisione soggetto-oggetto. Nella terapia, ciò si traduce in una rinuncia al
concetto di “transfert” e “controtransfert”, in favore dell'attenzione rivolta al nostro
comune essere-con (Mitsein).
Dasein n.1, 2013
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Binswanger e Boss, che in qualità di medici si interessarono – ciascuno a suo modo –
all'“analitica dell'Esserci” (Daseinsanalitik) di Heidegger e da qui svilupparono la loro
psicoterapia, la Daseinsanalyse, inizialmente da seguaci di Freud dedicarono la loro
attenzione anche alla psicoanalisi, ma trovarono la sua impostazione teoretica
inadatta ad una comprensione sufficiente e ad una terapia dei loro pazienti.
Contrariamente alle spiegazioni causal-genetiche della psicoanalisi, nella
Daseinsanalyse si tratta semplicemente di indagare il senso e il significato dei
fenomeni osservati. Per questa ragione i sintomi, le idee, i sogni e i comportamenti
vengono considerati e interpretati in maniera totalmente diversa rispetto alla
psicoanalisi.
Mentre la concezione della realtà tipica delle scienze naturali, oggi largamente diffusa,
anche nella psicoanalisi, fa leva soltanto su ciò che è dimostrabile da tutti e in
qualsiasi momento, e quindi richiede una concordanza di varie opinioni “oggettive”,
la Daseinsanalyse prende in considerazione altre realtà: il mondo dei sogni, le psicosi,
ad esempio: ciascuna possiede infatti la propria realtà. Quello che può venire alla luce
attraverso la loro comprensione, e dunque essere disvelato, aperto, “vero” nel suo
senso originario, è qualcosa di più di una corretta concordanza ai sensi della
Classificazione Internazionale delle Malattie (ICD). Nella Daseinsanalyse l'uomo e le
cose non vengono “presi di mira” e trasformati in oggetto dell'osservazione, cioè
oggettivati, bensì accolti sin da subito nelle loro possibilità più proprie. Questo mi
sembra rappresenti un approccio più rispettoso nei confronti dell'uomo e delle cose.
Se ad esempio ci viene in mente un'idea, o se la notte passata abbiamo sognato, da
dove sono venuti l'idea e i sogni? Se al contrario un analizzando si lamenta di non
avere idee e di non fare sogni, deve forse cercarli e crearli? Oppure può
semplicemente lasciarli arrivare, a condizione che si apra alle cose e agli esseri umani
affinché possano venire alla mente?
Il fondamento della Daseinsanalyse
Il fondamento della Daseinsanalyse è l'analitica dell'Esserci (Daseinsanalytik) di M.
Heidegger, che considera l'Esserci (Dasein) nella sua apertura nei confronti di tutto
Dasein n.1, 2013
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ciò che incontra. «All'Esserci appartiene essenzialmente l'essere in un mondo» (cit. da
Herrmann, 2011, p. 15). La realtà della Daseinsanalyse non viene stabilita a piacere
secondo “discrezionalità” e convenzioni umane, ma a partire dalle cose stesse e dal
loro agire, cioè fenomenologicamente.
La Daseinsanalyse è: 1) un modo di considerare le cose, 2) un procedimento
terapeutico. Come tale dunque è sia un indagare che un agire. Alla base di entrambi,
cioè del ricercare, dell'indagare, così come di ogni agire, vi è però una teoria. Che cosa
vuol dire questo per quanto riguarda la Daseinsanalyse? Una “teoria” è una visione del
mondo e dell'uomo e accompagna ogni corrente culturale. Le nostre scienze naturali,
la tecnica, la psicologia e la sociologia, con tutte le loro conquiste e i loro lati oscuri,
si basano su una “concezione del mondo” cognitiva, in base alla quale la realtà –
come abbiamo detto – viene afferrata in modo “oggettivo”, ad esempio attraverso
misurazioni e calcoli. A questa realtà vengono poi conferite delle interpretazioni
soggettive. Si approda così ad una divisione tra esaminante ed esaminato, tra soggetto
e oggetto.
Il metodo della Daseinsanalyse
Nel metodo della Daseinsanalyse, vale a dire nella fenomenologia, questa divisione non ha
luogo. Qui non si viene a creare una relazione oggettivante e categorizzante, ma di
scambio e di accoglienza: si tratta infatti di indagare tutto ciò che si mostra da sé,
ovvero l'essenza delle cose, ivi compreso il comportamento umano. Questo tipo di
indagine, questo poter-apprendere, ha bisogno di tempo e implica un soffermarsi
presso le cose affinché possano disvelarsi. Da questo punto di vista la fenomenologia
mantiene quindi il termine “teoria” nel suo significato originario, che comprende
l'“orao”, cioè il soffermarsi attento presso ciò che si osserva, ovvero il “thea”, così
come lo conosciamo dalla parola “teatro” o “teologia” (cfr. Heidegger, GA, vol. 7,
2000, p. 46s).
Questo modo fenomenologico di considerare le cose (che non rappresenta quindi
“una nuova teoria”) si sviluppò nel pensiero occidentale già nella Grecia antica e poi
cadde in oblio, ma è presente anche in altre culture (ad esempio nell'Estremo
Dasein n.1, 2013
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Oriente). Esso interroga l'essere di ogni ente e il suo senso; in altre parole, qui il
domandare si concentra sul fatto che in generale qualcosa è e in che modo questo ci
riguarda. Per noi questo tipo di indagine è insolito, abituati come siamo a ricercare
continuamente i retroscena di ogni cosa, anziché accogliere la cosa stessa per come si
manifesta. È stato anzitutto necessario riscoprirlo, come ha fatto con particolare
scrupolosità il filosofo tedesco Martin Heidegger sulla scia del suo maestro Edmund
Husserl. Questo pensiero riportato da Heidegger sui suoi “sentieri” ha ispirato vari
indirizzi di studi, in particolare la concezione delle scienze promossa dall'uomo.
Come detto in precedenza, il modo di pensare e il metodo della Daseinsanalyse è
dato dalla fenomenologia. Esaminiamo anche in questo caso l'origine e il significato
greco del termine:
- “phainomenon”: ciò che si manifesta da sé, ciò che si rende visibile da se stesso,
- “logos”: ciò che viene alla parola, ciò che diventa noto,
da cui “fenomenologia”.
Tuttavia, ciò che in medicina viene spesso definito come (pura) “fenomenologia”,
vale a dire le manifestazioni esterne di una malattia, come ad esempio la febbre, le
eruzioni cutanee, ecc., dà – in senso strettamente fenomenologico – soltanto notizia
di un fenomeno intrinseco, ovvero l'essere-malato. D'altro canto, la “pura apparenza”,
che – come sappiamo – inganna, indica in definitiva una variante privativa del
manifestar-si: in altre parole, ciò che non si mostra da sé, ciò che avviene “per finta”,
una simulazione o un'illusione.
La fenomenologia intende lasciar parlare le diverse nature che l'uomo incontra, lasciar
esprimere le loro stesse essenze. Affinché queste possano diventare visibili, l'uomo
deve mettersi a loro disposizione, essere al loro servizio in quanto “luogo di
manifestazione”. Gli antichi greci chiamavano questa “visibilità” aletheia, ovvero dis-
velamento, verità, in contrapposizione a lethe, nascondimento. Rapportarsi in questo
modo alle cose è senza dubbio più emozionante, poiché non vengono fermate,
fissate e definite, ed anche più appassionante.
Heidegger (GA vol. 8, 2002, pp. 43ss) porta come esempio a questo proposito un
albero fiorente che noi possiamo senz'altro rappresentarci e classificare secondo
Dasein n.1, 2013
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criteri scientifici, ma che ci dice chi è soltanto se ci poniamo di fronte a lui e ci
lasciamo parlare stando al suo cospetto.
Per contro, la poesia Heidenröslein (Rosellina del prato) di Goethe (1949, I, p. 18), messa
in musica da Schubert, descrive la scoperta e l'amore di un ragazzo per un fiore dalla
bellezza e dal fascino irresistibili, ma nel corso del loro colloquio non si giunge a
nessuna intesa; così, quando il giovinetto crudele spezza la rosellina, dopo un breve
istante di gioia non gli rimangono che la violenza del suo gesto, le spine e il dolore:
Vide un ragazzo una rosellina, rosellina sul prato, era così giovane e graziosa, corse veloce per vederla da vicino, la vide con grande gioia. Rosellina, rosellina, rosellina rossa, rosellina sul prato. Disse il ragazzo: ti spezzo, rosellina sul prato! Disse la rosa: ti pungo, così mi ricorderai per sempre, e non voglio soffrire. Rosellina, rosellina, rosellina rossa, rosellina sul prato. E il ragazzo crudele spezzò la rosellina sul prato; si ribellò la rosa e punse, e non l'aiutò lamento e pena, dovette infatti soffrire. Rosellina, rosellina, rosellina rossa, rosellina sul prato.
Essere ed Esserci
I filosofi definiscono “ente” ciò che si rende visibile e accessibile, ciò che è disponibile
e a portata di mano, e si interrogano sul suo essere. Heidegger non si limita però alla
domanda intorno all'ente al fine di definirlo, inquadrarlo, categorizzarlo e stabilirne la
causa originaria, come ha fatto una filosofia bimillenaria chiamata metafisica. Per lui
si tratta di interrogare l'essere dell'ente, e non l'ente in riferimento alla sua essenza (Zur
Seinsfrage, tr. it. Sulla questione dell'essere, 1967 p. 39). Heidegger pone dunque la
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questione dell'essere dell'ente nel suo essere, cioè dell'agire dell'ente e del suo senso. Il
“senso” dell'essere sta nel disvelarsi dei suoi “sentieri”.
Anche l'uomo è un ente e Heidegger lo definisce “Esserci” (Dasein). Esserci significa
“essere nel mondo”, esistere, nel senso più letterale del termine latino “ex-stare”,
“uscire da sé”, ma anche nel suo duplice significato: da una parte come un dover
uscire da sé nel mondo nel quale siamo gettati e che all'inizio non conosciamo, un
dover uscire da sé che può anche diventare un peso e una sofferenza. Dall'altra parte
come un lanciarsi fuori nel mondo, sostenerlo e poterlo comprendere, e in questo
modo lasciare che ci si apra un orizzonte.
(Per spiegare questo uscire da sé, nel disvelamento, nella verità dell'essere, in seguito
Heidegger ha scritto “Ek-sistenz” con la “k” per distinguerla da “Existenz” con la
“x”, così da significare la realtà (actualitas) a differenza della semplice possibilità
(potentia) (Humanismusbrief, 1968, p. 16, tr. it. Lettera sull'umanismo).
Le caratteristiche fondamentali dell’essere-uomo: gli esistenziali
In questo esistere in differenti “riferimenti al mondo” si manifestano le caratteristiche
fondamentali dell'essere-uomo, che Heidegger definisce esistenziali. In quanto
caratteristiche fondamentali sono e conferiscono la base, il fondamento, al nostro
Esserci, e sono quindi anche di interesse terapeutico (cfr. Boss, Grundriss der Medizin,
1971).
Essi sono tutto questo: l'apertura, la spazialità e la corporeità dell'Esserci; l'essere
riferito a..., cioè l'essere-con in un mondo comune; la temporalità, la memoria e la
storicità, nonché l'essere mortale, che sono alla base dell'evoluzione dell'uomo, e
infine la situazione emotiva che lo accompagna sempre.
Tutti questi tratti caratteristici sono co-originari, nel senso che l'uomo si sperimenta in
essi sempre contemporaneamente. Pertanto può succedere che il suo essere gli si mostri o
si nasconda; infatti questi tratti caratteristici possono anche essere gravemente
oscurati: l'apertura al mondo e con essa la con-relazione con gli uomini e le cose
possono essere limitate; il tempo, anziché alle sue “estasi” futuro, passato, presente
(Heidegger, Essere e tempo 1972, p. 65, Boss, 1971, p. 255), può essere ridotto a puri e
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semplici istanti; la corporeità ridotta a fisicità; la storia e la morte dimenticate e la
situazione emotiva essere momentaneamente segnata solo da tristezza e odio.
L'uomo ha la libertà di disporre a piacimento di questi tratti caratteristici? Può fare la
sua essenza, il suo essere-sé, in maniera autarchica? Oppure deve il suo poter-progettare
“farsi evento” di una “radura” (Lichtung), come sostiene Heidegger? (cit. in v.
Herrmann, 2011, pp. 13-20). La libertà dell'uomo consiste certamente nella sua
apertura a tutto ciò che incontra, ma non è una proprietà che l'uomo possiede e di
cui può disporre a piacimento. Essa fa parte dei suddetti tratti caratteristici e consiste:
1) sempre in una scelta, vale a dire in una decisione e determinazione; 2) in un
abbandono (Gelassenheit) – tutt'altro che indifferenza! – dell'uomo nei confronti di
ogni ente, in modo tale che questo possa venire alla luce – spesso ciò che avviene in
modo lento, o inizialmente sconcertante, richiede pazienza – senza doverlo forzare,
distruggere, evitare (cfr. Boss, 1971, p. 318).
Il significato pratico della Daseinsanalyse per il nostro intervento
terapeutico
Esempio di un sogno
Qual è il significato pratico del pensiero della Daseinsanalyse, e a che cosa serve
l'osservazione degli esistenziali sul piano pratico? Sarebbe interessante andare a
vedere in quanti campi tale pensiero ha esercitato la sua influenza e al tempo stesso si
è dimostrato fertile: nella filosofia, nell'arte, nell'architettura, nella tecnica, nella
politica. Ma, anche se in modi diversi, quella che si pone sempre è la questione
dell'essere proprio dell'uomo.
Possiamo dire che avvenga in modo autarchico? Oppure in adempimento ad un
destino dell'essere? (cfr. v. Herrmann, 2011, pp. 13-20).
In questa sede vorrei limitarmi al significato del pensiero della Daseinsanalyse nella
terapia e nella pedagogia.
In proposito riporto innanzitutto un esempio di sogno preso dalla mia pratica
Dasein n.1, 2013
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psicoterapeutica, che mostra come anche l'attenzione rivolta agli esistenziali presenti
nel sogno possa essere utile. Nel sogno, infatti, ci viene comunicato qualcosa sui
nostri tratti caratteristici e sul nostro rapporto con il mondo, qualcosa che da svegli
(eventualmente con l'ausilio di un'interpretazione) ci fa diventare più perspicaci:
Un ragazzo di diciotto anni sogna di essere invitato alla festa di compleanno di sua cugina, cosa di
cui non vedeva l'ora. Mentre è in bagno intento a prepararsi, lavarsi e vestirsi, attraverso una
finestra riesce già a vedere la cugina insieme ad altre ragazze che lo aspettano.
Quando però cerca di raggiungerle di là in soggiorno, trova la porta chiusa a chiave e non riesce ad
aprirla. E quando tenta di chiamare e di gridare, non gli esce la voce. E proprio mentre va su tutte
le furie per questo, e prova a buttare giù la porta o a rassegnarsi, ecco che si sveglia.
Interpretazione del sogno
Dove si trova qui il paziente? Nelle stanze di sua cugina, alla sua festa di compleanno.
Questo implica un ricordo della nascita e dell'inizio. Verso il luogo della festa, il
soggiorno, la visuale è libera attraverso una finestra, ma per lui l'accesso è bloccato da
una porta. Si trova in bagno, inizialmente impegnato nella cura della sua corporeità.
Che cosa gli succede allo stesso tempo in questo mondo onirico? Attraverso la finestra
riesce già a vedere la cugina, una parente, e altre giovani donne, con le quali
festeggerà.
Come è il suo stato d'animo? In attesa dell'incontro e della festa è gioioso. Dopo
essersi imbattuto negli ostacoli che lo separano dagli altri, la porta chiusa a chiave, la
voce che non esce: disperato, furibondo, ansioso-aggressivo. “L'elemento festoso”
che lo ha coinvolto è ciò che inizialmente lo rende di buon umore, “il motivo della
gioia”, ma è anche quello della rabbia, dell'ansia e della tristezza, una volta compreso
che non è raggiungibile (cfr. Heidegger, Andenken, GA 52, 1982, p. 71).
Applicazione terapeutica dell'interpretazione del sogno
Nell'applicazione terapeutica farei leva sugli interessi e sui riferimenti del suo mondo,
che sono assolutamente consoni all'età. Tuttavia il “blocco” della sua voce, sebbene la
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festa lo avesse coinvolto e attendesse la sua risposta, potrebbe essere comprensibile
sulla base delle sue paure e depressioni ancora presenti. Bisognerebbe inoltre
domandargli se non avesse dovuto provare ad usare di più la sua voce per ottenere
una migliore comunicazione. Se inoltre la sua vitalità non avrebbe potuto emergere
ancora di più, anziché perdersi in fantasie di rabbia o addirittura rassegnarsi.
L'atteggiamento terapeutico
La “Daseinsanalyse”, o “Daseinsanalytik”, l'analitica dell'Esserci, come Heidegger
definisce la sua riflessione intorno all'Esserci dell'uomo, non è finalizzata ad uno
scopo. Non si tratta di una tecnica o di un mezzo per determinare qua e là dei
cambiamenti. Queste idee non sono state elaborate per questo, ma sono state
consegnate – ragion per cui si parla anche di “fenomenologia ermeneutica”, che non
va però confusa con una sorta di insegnamento o di missione esoterica da parte di un
guru. Tali idee possono essere fatte proprie da chi ha orecchio fine, accolte, ma si
può anche far finta di non sentirle. Nel momento in cui vengono pensate, però, è
possibile giungere a dei cambiamenti. Che cosa può succedere? Si può approdare ad
una concezione dell'uomo come Dasein, e questo fornirebbe ad esempio un adeguato
fondamento ad una terapia o a una pedagogia.
Nel trattamento tipico della Daseinsanalyse non si procede ad una fissazione su
singoli fatti isolati da guarire, bensì ad un'apertura al “mondo” del paziente e alla sua
comprensione. Vari modelli, ipotesi, calcoli non possono spiegare da soli ogni cosa
vivente, tanto meno l'uomo e il suo comportamento. Certamente molte cose si
possono controllare, calcolare e categorizzare. L'essenza dell'uomo, come quella di
ogni altro ente, non si lascia tuttavia cogliere in questo modo. Per “coglierla” occorrono
l'abbandono, l'ascolto e la riflessione di cui abbiamo parlato in precedenza.
Questo non significa affatto essere contro un pensiero “innovativo”. Heidegger
distingue il “pensiero calcolante” e il “pensiero riflessivo”, “entrambi i quali sono a
loro modo legittimi e necessari” (cfr. Heidegger, Gelassenheit, 1959, p. 13, tr. it.
L'abbandono; Reck, Notwendiges Zusammentreffen..., 1999, p. 175).
Ora, però, se si tratta di indagare l'essenza dell'uomo in una terapia e in una
Dasein n.1, 2013
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pedagogia concepite seriamente, in che cosa possiamo individuare l'essenza
dell'Esserci? Secondo Heidegger, nella sua esistenza, che si realizza negli esistenziali
cui si è fatto cenno in precedenza. Abbiamo detto che noi, esistendo (dal latino ex-
stare), apprendiamo, comprendiamo e nello stesso tempo usciamo fuori da noi, e in
questo modo ci rendiamo indipendenti. Ma che cosa apprendiamo? Quello che ci si
mostra. E in che modo apprendiamo? Se percepiamo in modo immediato, cioè senza la
frapposizione di costruzioni concettuali, le cose e l'uomo finiscono meno vittima
dell'oggettivazione e di un soggetto che li esamina e li definisce. Conseguentemente
appaiono senz'altro meno stabili e forse anche più incerti, ma più autentici per
quanto concerne loro stessi e il nostro rapporto con loro. Questa relazione che si
viene a creare si trasforma in un “evento” (Ereignis), che richiede la nostra risposta.
Qui “apprendere” non significa pertanto un semplice assorbire informazioni, un
puro registrare le cose più o meno abituali di tutti i giorni, quanto piuttosto
affrontare ciò che ci tocca e ci colpisce, per trovare la nostra risposta. E ogni risposta
che noi diamo è una decisione (cfr. Heidegger, 1983, GA. vol. 40, p. 178). Cogliere,
scegliere e rispondere a qualcosa nel suo significato fa parte dell'essenza della
complessa libertà umana, che rappresenta la richiesta di qualsiasi psicoterapia e pedagogia.
Bibliografia
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Dasein, n.1, 2013
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L’ arte e la scienza della psicoterapia esistenziale
Art and science of existential psychotherapy
Lodovico Berra
Summary
La psicoterapia esistenziale vuole essere una sintesi ed un compromesso tra quelle che sono le esigenze di una terapia scientifica con quelle di un intervento a carattere più filosofico ed artistico. Vengono quindi discussi alcuni aspetti che caratterizzano lo spirito libero e creativo della psicoterapia e quello più scientifico ed oggettivo, cercando infine di riassumere l’atteggiamento fondamentale che accompagna l’approccio esistenziale.
Parole chiave: psicoterapia esistenziale –esistenzialismo - psicoterapia –scienza – arte
Existential psychotherapy is a synthesis and a compromise between scientific requirements of therapy and a philosophical and artistic intervention. Is then discussed the creative and free attitude with a more scientific and objective one, trying to summarize the basic elements of the existential approach to psychotherapy.
Key words: existential psychotherapy - existentialism - psychotherapy - science - art
Psicoterapie e psicoterapia esistenziale
La psicoterapia moderna deve essere scienza, poiché deve essere in grado di garantire
modalità efficienti di intervento, che siano affidabili, conoscibili e condivisibili. La
psicoterapia, per essere veramente terapia, quindi aiuto e cura, deve poter usare
precisi strumenti, in un modo corretto, garantendo standard di efficacia alla pari di
ogni altro tipo di intervento medico.
Così come è vera questa serie di prime affermazioni è altrettanto valido ciò che
segue.
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La psicoterapia è un’arte, poiché richiede creatività, immaginazione ed intuito. Essa
non può essere costretta entro limiti prestabiliti di leggi e regole, poiché così verrebbe
a perdere il suo carattere originario e fondamentale, ma deve avere libero spazio di
espressione nel complesso territorio della psiche e delle relazioni umane.
Queste due visioni a prima vista antitetiche pongono delle riflessioni sul senso e sul
significato della psicoterapia oggi, alla luce della storia della psicologia, delle sue
scoperte e della sua contemporanea evoluzione.
Riteniamo infatti che la psicoterapia esistenziale, come da noi intesa, possa
rappresentare una sintesi delle due prospettive, riunendo in sé esigenze attuali di
scientificità insieme a fondamentali aspetti propri dell’esistenza, difficilmente
catalogabili e riproducibili.
Nel vasto ed eterogeneo panorama delle psicoterapie praticate nel mondo
l’orientamento esistenziale rappresenta un approccio alla salute psichica ed all’essere
umano in fondo nuovo, poiché cerca di integrare conoscenze e nozioni ormai
stabilmente accettate dalle varie teorie psicologiche e psicoanalitiche con una visione
filosofica e spirituale.
In genere le psicoterapie che desiderano essere più scientifiche cercano di porre in
rilievo aspetti quali la quantificazione e verificabilità dei risultati, la razionalizzazione
degli strumenti terapeutici, la differenziazione delle tecniche in base alle patologie, la
possibilità di avere un riscontro biologico sulla genesi e sulla terapia del disturbo, e
così via.
Queste sono state classicamente contrapposte alle cosiddette terapie umanistiche che
pongono più attenzione agli aspetti di realizzazione di sé, di ricerca personale e
spirituale, a volte con esigenze di trascendenza, anche in prospettive di tipo
filosofico, senza porsi troppo il problema del metodo e della tecnica ma basandosi
spesso su teorie e ideologie consistenti ma a forte base soggettiva.
Nell’approccio di tipo esistenziale vogliamo immaginare una convivenza dei due
orientamenti che in qualche modo si possano potenziare reciprocamente. Una
psicoterapia quindi che sia in grado di essere scienza senza perdere il carattere di
artisticità, e in questa combinazione aggiungere forza al risultato finale.
Dasein, n.1, 2013
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La psicoterapia come scienza
La psicoterapia può essere considerata un lavoro diretto unicamente alla conoscenza,
all’indagine introspettiva, all’esplorazione profonda del sé, senza troppo preoccuparsi
della quantificazione di effetti e risultati. L’obiettivo fondamentale sarebbe quindi la
conoscenza di sé e la riflessione filosofica sull’esistenza, lasciando che le conseguenze
terapeutiche, di cura e di cambiamento, avvengano spontaneamente e naturalmente.
Questo renderebbe più appropriato parlare di “analisi” esistenziale piuttosto che
terapia.
Sebbene non si possa negare l’utilità di un approccio più analitico che terapeutico,
crediamo opportuno che, nell’ampio panorama delle psicoterapie oggi diffuse nel
mondo, anche la psicoterapia esistenziale debba avere qualità di procedura e tecnica
affidabile. Questa deve essere verificabile, riproducibile e condivisibile dalla comunità
scientifica internazionale, con risultati riconoscibili e quantificabili. Scientifico viene
infatti considerato ogni processo che sia chiaramente verificabile dall’esterno, con
criteri condivisi dalla comunità dei ricercatori (Di Nuovo e Lo Verso, 2005, pag. 19).
Dobbiamo però notare che la pratica psicoterapeutica, per poter essere studiata ed
analizzata, deve essere spesso ridotta, frammentata e schematizzata. Vi è infatti tutta
una serie di caratteri sfuggenti, poco oggettivabili e non facilmente misurabili che
costituiscono la base dell’intervento terapeutico.
Quantificare e razionalizzare i fenomeni che avvengono durante una psicoterapia è
perciò un compito difficile e complesso, e non sempre è possibile arrivare ad un
chiarimento ed a una definizione dei meccanismi che vengono messi in atto.
La psicoterapia, essendo cura di sintomi, deve essere equiparata ad altri tipi di
intervento quali quelli medici e farmacologici, ma risultano in essa amplificati aspetti
spesso difficilmente catalogabili o standardizzabili, quali la relazione, l’empatia o le
emozioni.
In psicoterapia è quindi necessario avere un approccio non tanto di tipo quantitativo,
statistico o schematico, quanto piuttosto di tipo qualitativo, secondo il quale venga
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studiata la soggettività del paziente senza essere ridotta a meri meccanismi o modelli
teorici.
Infatti il paziente non deve essere considerato un oggetto inerte e passivo da curare,
ma è un individuo complesso portatore di variabili essenziali per la valutazione. In
modo analogo il terapeuta non può mai essere un puro e semplice osservatore di
quanto avviene, ma è egli stesso persona coinvolta direttamente nella relazione.
L’analisi della psiche umana non è un atto oggettivabile e generalizzabile in modo
definitivo ed eliminare dal rapporto psicoterapeutico i fatti e i vissuti soggettivi vuol
dire rinunciare agli elementi fondamentali che costituiscono la psicoterapia. Il
considerare però i fatti soggettivi rende difficile la valutazione delle dinamiche in atto,
dei processi e dei risultati, non essendovi al momento strumenti di indagine
sufficientemente attendibili. Per “vedere” cosa avviene nel mondo interiore del
paziente non abbiamo oggi altri strumenti che il linguaggio, verbale e non verbale,
cioè ciò che egli ci comunica, e le tecniche di neuroimaging, che in realtà ci
riferiscono unicamente quali sono le aree di attività cerebrale.
Secondo il “paradigma della complessità” proposto da Morin (1984), i sistemi di idee
e i modelli teorici per essere prodotti richiedono un cervello che li pensi ed implicano
quindi tutti quei fenomeni bio-chimico-fisici connessi all'attività cerebrale.
L’osservatore perciò costruisce la realtà stessa ma nell’osservazione, in quanto
portatore o interprete di una teoria, crea il campo dell’osservazione ed è dunque
profondamente implicato in esso. In quest’ottica la conoscenza scientifica risulta
costitutivamente ed inevitabilmente soggettiva.
La verità scientifica viene così ad essere essenzialmente basata sull’accordo della
comunità scientifica, socialmente e culturalmente connotata.
In sintesi possiamo dire che la psicoterapia possa dirsi scientifica quando cerca di
porre ordine, comprendere, prevedere, ridurre a tecnica e inserire in uno schema
teorico, comprovato o almeno accettabile, tutti quegli eventi del rapporto emotivo ed
intellettivo (Pazzagli e Rossi, 1999, pag. 3510).
Ma, detto questo, potremmo domandarci se è possibile studiare scientificamente ciò
che è qualitativo, adattandosi ai parametri di “osservabilità” richiesti dalla scienza
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classica; se è possibile ordinare e prevedere gli eventi di una relazione; se è possibile
inserire in uno schema teorico dinamiche psicologiche; se è possibile ridurre a tecnica
un rapporto emozionale.
Nell’ambito clinico psicoterapeutico, che si svolge tramite relazioni umane, il metodo
sperimentale classico è certamente inadeguato. Infatti esso procede tramite
l’isolamento di variabili e la verifica delle loro relazioni, eliminando il più possibile la
soggettività dei partecipanti all’esperimento.
Per il metodo sperimentale l’osservazione deve essere il più possibile depurata dalle
distorsioni della relazione soggetto-osservatore/oggetto-osservato, mentre per il
metodo clinico il coinvolgimento osservatore-osservato va accettato come
fondamentale metodo di conoscenza. Da qui ne deriva l’attuale attenzione alle
componenti controtransferali nel processo diagnostico e terapeutico.
Seguendo un metodo scientifico classico, e quindi sperimentale, si rischia di non
considerare gli oggetti propri del lavoro terapeutico, e cioè i sentimenti, gli affetti, il
simbolico, la soggettività e la relazione, come dimostrato tra l’altro dall’importanza di
tutta una serie di fattori aspecifici presenti in ogni psicoterapia. Il problema è quindi
stabilire se è possibile identificare, valutare e misurare componenti non oggettive,
ancora oggi senza riscontri di tipo biologico o fisico, basati su condizioni variabili
spesso non catalogabili.
Le psicoterapie oggi, e quindi non solo la psicoterapia esistenziale, per essere scienza,
si trovano di fronte alla necessità di sviluppare una osservazione e una metodologia
scientifica del qualitativo, impresa non semplice ma inevitabile per darle dignità di
disciplina riconosciuta ed attendibile. È quindi nella combinazione di più metodi,
differenti modalità di osservazione e di valutazione che si può arrivare a definire in
modo più preciso i caratteri fondamentali di una psicoterapia.
In questo senso la psicoterapia esistenziale, pur avendo una posizione critica nei
confronti di una eccessiva razionalizzazione di una terapia della mente, deve
riconoscere tutta una serie di modalità operative (setting, empatia, relazione,
dinamiche di transfert e controtransfert, lavoro sulle resistenze e sui meccanismi di
difesa,…), concetti di base (inconscio, visione del mondo, progetto esistenziale,…),
Dasein, n.1, 2013
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di valutazioni e test (Rorschach, TAT, interviste semistrutturate,…) che le
consentano di inserirsi a pieno titolo nella ricerca attuale sui fondamenti scientifici dei
metodi psicoterapeutici.
La psicoterapia come arte
L’arte è quella attività che, basandosi sull’uso di determinati strumenti, consente
l’espressione originale e creativa di contenuti emozionali ed estetici.
Nella pratica artistica viene in genere appreso l’uso di specifici strumenti, quali
pennelli e colori nella pittura, scalpello e martello nella scultura, strumenti musicali
nella musica, padronanza di sé, delle proprie emozioni e comportamento nel teatro, e
così via, che devono essere utilizzate in modo personale e creativo. Questo significa
che non vi dovrebbe essere la meccanica riproduzione tecnica di una abilità, bensì vi
deve essere la capacità dell’artista di inserire un imponderabile contenuto emotivo ed
estetico nella sua opera. Un pittore che esegue opere perfette tecnicamente può
risultare freddo e poco comunicativo all’osservatore. Un musicista che esegua con
perfezione una spartito può non trasmettere emozioni all’ascoltatore. Un attore con
grande abilità esecutiva e perfetta dizione può non arrivare al cuore dello spettatore.
Tutto questo ci dice che in un ambito così delicato come quello delle relazioni
umane, e quindi della psicoterapia, un terapeuta che abbia molto studiato e che
esegua alla perfezione tecniche apprese con scrupolo potrebbe non avere risultati
rilevanti. Al contrario uno psicoterapeuta particolarmente dotato di sensibilità,
capacità relazionali, creatività, elasticità mentale, ma di minor “studio”, potrebbe
essere più efficace con i suoi pazienti.
Alcuni Autori ritengono che i risultati positivi siano molto più collegati alle
caratteristiche di personalità del terapeuta che alle tecniche da lui impiegate. Infatti
alcuni terapeuti, trasversalmente a tutte le tecniche impiegate, sono costantemente
più efficaci, mentre altri terapeuti producono costantemente risultati negativi (Bergin
A.E. e Garfield S.L., 1994, pag. 229).
A sostegno quindi della non scientificità dell’arte psicoterapeutica dobbiamo fare
alcune considerazioni.
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a) Per la sua complessità il rapporto psicoterapeuta-paziente non è standardizzabile e
riproducibile. Ogni relazione è infatti unica ed irripetibile e debole è ogni tentativo di
ridurre a schemi ciò che accade nella situazione reale.
b) Ogni modello di mente è una teoria relativa e non possiamo avere un unico e
“definitivamente vero” sistema di funzionamento della psiche. Da ciò ne deriva che,
essendo ogni psicoterapia basata su un modello teorico di mente, non possiamo
riconoscere metodi e modalità universalmente valide.
c) Gli strumenti e le tecniche psicoterapeutiche codificate e riconosciute devono
esistere ma devono essere usate in modo creativo, originale e personalizzato. Questo
è determinato dalla continua e mutevole esigenza all’interno del setting terapeutico di
adattare le tecniche alla variabilità della situazione.
d) Lo strumento fondamentale della psicoterapia non è tanto la tecnica precostituita
ma lo psicoterapeuta come essere umano. La sua formazione personale e
professionale determina la sua capacità di gestire la situazione, la relazione e la
patologia.
e) Non importa tanto la teoria che sta alla base di una psicoterapia ma quello che si fa
al suo interno. Rimanere quindi vincolati a tecniche e procedure standardizzate
potrebbe essere inopportuno e controproducente in determinati contesti che
richiedono invece flessibilità e capacità di adattamento.
Detto questo ne deriva che un punto centrale non dovrebbe essere il modello di
riferimento, esigenza fondamentale della psicoterapia detta scientifica, bensì lo
psicoterapeuta, la sua personalità e la sua capacità di utilizzare tecniche e strategie in
modo creativo, originale e personalizzato, e se il caso di ideare nuove modalità di
intervento. In parte ciò è condiviso da altri orientamenti psicoterapeutici che
riconoscono la necessità di avere una certa malleabilità all’interno della relazione, ma
nell’orientamento esistenziale questo è rinforzato e sostenuto da una consistente
letteratura filosofica.
Lo psicoterapeuta esistenziale è forse più libero da modelli esplicativi della psiche, più
pronto a prendere iniziative originali, più legato ad una visione filosofica
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dell’esistenza. Quest’ultima diviene anche la base della sua formazione personale che
non è solo diretta alla conoscenza di sé ma anche all’esercizio di indagine metafisica
delle questioni esistenziali.
Uno psicoterapeuta che possegga oltre a competenze e capacità tecniche anche una
consapevolezza e maturità filosofica è più efficace e solido nell’affrontare le infinite
situazioni problematiche che si presentano nella pratica professionale.
La sintesi di arte e scienza nella psicoterapia esistenziale
Scrive Jaspers nella “Psicologia delle visioni del mondo”: «Il tentativo di creare un
ordinamento è come un atto di violenza in quanto la psicologia, più di ogni altra
scienza, è possibile solo come totalità. Ogni sistematica tende ad operare
rettilinearmente, in modo da creare schemi. Ma la cosa non è quasi mai così nella
realtà effettiva in quanto ogni sistematica permane in movimento, senza mai esistere
in modo definitivo, e così ogni edificio troppo compiuto risulta sospetto» (Jaspers K.,
1950, p. 29).
L’uomo ha come la necessità di avere un qualcosa di solido e definitivo, su cui
appoggiarsi, che generi tranquillità e sicurezza. Questo poiché è difficile sostenere
una condizione di incertezza e relatività. Ciò è evidente anche nella vita quotidiana di
ogni uomo, nel bisogno della certezza di affetti, compiti, lavoro, valori e significati,
ma ancora di più per lo psicoterapeuta professionista che può avere nel suo lavoro la
sicurezza di un meccanismo e di una modalità. Da qui ne consegue la tendenza alla
compilazioni di manuali di psicologia e psicoterapia che tutto spiegano, proponendo
miracolose tecniche e strategie terapeutiche di sicuro successo. È quello che Jaspers
chiama “punto di appoggio” o involucro, fornito da principi, dogmi, fatti dimostrabili,
istanze assolute e generali (Jaspers, 1950, pag 353 e segg.).
Gli involucri possono essere qualcosa che cresce e si evolve, qualcosa di vivo, oppure
sono belli e fatti, sono semplicemente scelti, e dunque meccanici e morti, prendendo
la forma delle dottrine.
La dottrina può essere una teoria psicologica o un ben preciso modello di mente, che
definisca in modo chiaro il funzionamento psichico e le modalità di azione su di esso.
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Ciò rappresenta certamente una rassicurazione ed una certezza per lo psicoterapeuta
che, facendo affidamento ad un modello condiviso ed accettato, può avere precisi
punti di riferimento per la sua pratica clinica. È ben nota la difficoltà di gestione delle
infinite situazioni di fronte a cui può trovarsi lo psicoterapeuta, soprattutto all’inizio
della professione. Ma il riferirsi in modo rigido e pedissequo ad una metodologia
pronta per l’uso fa perdere forza ed efficacia ad un lavoro sempre diverso e sempre
nuovo come quello della psicoterapia. Ogni caso è unico, così come ogni relazione
terapeutica. Il lavoro che si sviluppa all’interno di un setting psicoterapeutico è
sempre diverso, con pazienti differenti ma anche con lo stesso paziente in sedute
diverse. Gli strumenti terapeutici devono essere plasmati, amplificati o soppressi a
seconda della patologia, del paziente, della seduta. Questo poiché la patologia non è
mai statica ma si muove ed evolve nel corso della terapia, ed una diagnosi valida in un
momento potrebbe non esserlo più in uno successivo. Così anche il paziente è in
continuo mutamento e così la relazione e lo stesso terapeuta. Si sviluppa quindi una
condizione dinamica, in continuo cambiamento e trasformazione, come in fondo è la
vita stessa, che non può mai essere “fotografata” in una diagnosi definitiva e quindi
in una modalità operativa statica.
Jaspers scrive che «Ogni sistema è però soltanto una realizzazione frammentaria, una
oggettivazione storta del ‘genuino’» (pag. 362) e poi ancora «Lo spirito vivo invece
non ordina le dottrine e non ne fa una scelta» (pag. 364).
Se l’uomo, o nel nostro caso lo psicoterapeuta, sceglie un determinato modello di
mente e quindi le azioni terapeutiche che ne derivano, si pone in una sorta di
«dipendenza da un’ autorità visibile e sensibile, l’ uomo si sottopone a un termine
oggettivo, rinunciando a se stesso e al porre in questione ogni cosa» sottoponendosi a
quello che Jaspers definisce il “sacrificio dell’ intelletto” (pag. 371). Questo sacrificio è la
perdita della creatività e dell’arte, dello spirito di ricerca e di dubbio che deve
accompagnare ogni azione, tanto più il lavoro riguardante l’uomo e la sua esistenza.
Tale spirito, o atteggiamento, non rifiuta o nega ciò che la storia della psicologia ci ha
insegnato ma pone ogni tecnica in una modalità plastica e dinamica, modificabile e
relativa, così come un pennello nella mani dell’artista.
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Bibliografia
Bergin A.E., Garfield S.L. (Eds.) Handbook of Psychotherapy and Behavior Change. An Empirical Analysis ed. Wiley, New York, 1994 Berra L. Manuale di psicoterapia esistenziale Libreria Universitaria, 2011 Di Nuovo S., Lo Verso G. (a cura di) Come funzionano le psicoterapie Franco Angeli, 2005 Morin E. Scienza con coscienza, Franco Angeli, Milano, 1984 Pazzagli A., Rossi R. Il problema della psicoterapia in AA.VV Trattato Italiano di Psichiatria, II ed., Masson, 1999 Jaspers K. (1919) Psicologia delle visioni del mondo, Astrolabio, Roma, 1950
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Relatedness and the therapeutic relationship as viewed by
existential therapy
Relazionalità e relazione terapeutica secondo la terapia esistenziale
Ernesto Spinelli
Summary
This paper explores the centrality of the therapeutic relationship from the standpoint of relatedness. It argues that relatedness is a foundational assumption within existential theory and explores how relatedness has been applied to, or manifests itself in, the therapeutic relationship.
Key words: relatedness; I-Thou and I-It; truthful dialogue; un-knowing
L’articolo esplora la centralità della relazione terapeutica dal punto di vista della relazionalità. Essa sostiene che la relazionalità è un presupposto fondamentale all'interno della teoria esistenziale ed esplora come la relazionalità è stata applicata o si manifesta nella relazione terapeutica.
Parole chiave: relazionalità, Io-Tu e Io-Esso, dialogo sincero, un-knowing1
The therapeutic relationship has been recognised as important if not pivotal to the
whole enterprise of therapy – be it at the process or outcome level. After years of
research it seems that therapists can point to a discernible variable that seems to be
both valid and reliable from an experimental design standpoint and as well from a
lived, process standpoint as experienced by both therapist and client (Cooper, 2008).
This is a rare, if not unique, event within our profession and we have every reason to
be excited and curious about it. The trouble is, that now that we have highlighted the
pivotal significance and importance of the therapeutic relationship itself, we are faced
1 “l'attento rimanere aperto a quello che è presente senza pregiudizio”
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with all manner of new and no less important questions. Questions like:
What is it about the therapeutic relationship that makes it so significant?
What distinguishes a therapeutic relationship from a non-therapeutic one?
What sort of therapeutic relationship can and should be fostered?
Can any sort of therapeutic relationship provoke the desired qualities and outcomes ascribed by
research to the therapeutic relationship?
All of these seem to me to be good, searching and relevant questions. And there are
many more good, searching and relevant questions waiting to be raised and
considered. But, for now, we have to face the truth that none of us really has any
adequate answers to these, and all the other, questions that arise from what has been
so far discerned about the significance of the therapeutic relationship. Instead, what
is possible at present is to consider these sorts of questions with greater openness
and curiosity, remaining unceertain as to where they may take us. In other words, to
adopt a stance of phenomenological inquiry towards them (Spinelli, 2005, 2007). In
doing so, one of the first challenges that springs forth (for this author at least) is this:
what is the impact upon how we both understand and practice therapy when we
admit to, and accept, the centrality of the therapeutic relationship?
Perhaps unsurprisingly, this question resonates with a number of key concerns raised
by existential therapy (Barnett &Madison, 2011). Existential therapy proposes a
particular set of philosophical ideas that are radically different to most espoused by
other Western forms of psychotherapy. The most critical of these, I think, is
encapsulated in a quote by Maurice Merleau-Ponty: “The world and I are within one
another” (Merleau-Ponty, 1962: 123). This quote refers us to the principle of relatedness
or inter-relation which is so pivotal to the whole rationale of existential thought in
general and existential therapy in particular that its presence resonates throughout
every point and argument presented by the approach.
At its simplest, the principle of relatedness argues that all of our reflections upon and
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knowledge, awareness and experienced understanding of the world, of others and of
our selves emerge through an irreducible grounding of relatedness. We cannot, therefore,
understand nor make sense of human beings - ourselves included - on their own or
in isolation, but always and only in and through their inter-relational context. At a
deeper level, this view insists upon the interrelatedness and interdependence of what
in a modern Empiricist tradition has been called “subject” and “object”. From the
standpoint of existential phenomenology, neither of these terms makes sense in and
of itself, and neither term can, in fact, be defined or considered in isolation. One
major implication from this is that the subject who is “I” can attempt to know itself
only by means of the world and of the “others” who inhabit it. And further, that
whatever knowledge is ascertained is not located within the subject, nor is it present as
a given of the subject, but rather only emerges via the elucidation of this inter-
relational a priori.
Considered in the light of our interest in the therapeutic relationship, this view tells
us that relatedness is not something that becomes established only under certain
circumstances or as a result of particular conditions or which we work towards.
Rather, “relatedness is”. Always. Even the attempt to disrupt or to deny relatedness
emerges as an expression of relatedness.
Interestingly, this principle of a foundational relatedness has recently become a major
area of exploration by philosophers, cognitive scientists, social anthropologists and
physicists concerned with questions of consciousness. The discovery of "mirror
neurons", as just one of many examples, has been held up by many such experts as a
strong neurological correlate of, and even evidence for, an originating inter-relational
basis to conscious experience (Becchio & Bertone, 2005; Stern, 2004). The
implications arising from the acceptance of this foundational existential principle, are
manifold. Let me just outline one that has obvious implications for our
understanding and practice of therapy: contemporary therapy's overwhelming focus
on and concern with the individual.
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The existential focus upon relatedness contradicts a persistent assumption held not
only by the majority of therapists but by Western culture in general: namely, that the
person is to be viewed from an isolationist perspective and, as an individual, is
comprehensible solely within his or her set of subjectively-derived meanings. As
such, the dominant ethos of therapy assumes the primacy of the individual subject.
It is common for therapeutic theories to suggest that it is only once the individual
has "found", "accepted", or "authenticated" him or herself, and by so doing begun to
deal with the issues and obstacles impeding or imposing upon the experience and
expression of one's "true", "authentic" and/or "self-actualising" potential for being,
that the individual is then capable of focusing upon and addressing the possibilities
of relationship with others and the world in general.
In contrast to this view, the principle that relatedness is foundational proposes then
no self can be "found", nor individual "emerge", other than via the a priori inter-
relational grounding from which that self’s distinctive and unique sense of being
emerges. Existential relatedness argues that self- (and other-) awareness is an
outcome of, rather than a starting point to relatedness. In brief, the stance being
considered is very much in keeping with the following conclusion by Kitaro Nishida:
'it is not that there is experience because there is an individual, but that there is an individual
because there is experience' (Nishida, 1990: 37).
Perhaps the most radical reconsideration of currently dominant views surrounding
the issue of relatedness and its relevance to the therapeutic relationship, can be found
in the writings of Martin Buber (1970, 2002). If we consider his famous distinction
of "I-It" and "I-Thou" relation, then it becomes evident that therapy, in its
overwhelming allegiance to the individual per se, remains embedded within an "I-It"
attitude. For example, Buber argued that the therapist who treats a person as merely
another individual "I" does not really see that person but only a projected image of
the therapist him or herself and that this relation, despite its warmth, care, and
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concern still remains an "I-It" relation.
Buber himself could see no way out of this dilemma and much of his famous debate
with Carl Rogers emphasises this conclusion (Kirschenbaum & Henderson, 1990).
Must we agree with Buber? That remains an open question. But let us suppose that
there is a way out for the therapeutic relationship to at least begin to approach "I-
Thou" relatedness. What might be the necessary conditions for such?
As a starting point, it seems to me that the work of the relational analyst, Leslie
Farber, who was deeply influenced by Buber's ideas, provides an initial possibility.
Farber saw therapy as a particular expression of relatedness. One critical implication
of this can be noted in Farber’s insistence that the topic (or the "whatness") of
therapeutic dialogue could "be about" anything - its content did not truly matter.
Instead, Farber's dialogical concerns centred on a way of talking that led both therapist
and client toward a "truthful dialogue" with themselves and one another (Farber,
1967, 2000).
This notion of a "truthful dialogue" parallels the ideas put forward by the
phenomenological philosopher, George Gadamer. Gadamer contrasted the
truthfulness that emerges via a dialogue that is pre-set in its focus and intent by at
least one of the participants to one that is initially open or ambiguous in its intention
or direction by at least one of the participants. All dialogues, Gadamer
acknowledged, have - or more accurately - find a direction, but there exists a truthful
quality to a dialogue that shapes its own form and focus that cannot be ascertained -
or experienced - in a dialogue that is being actively directed toward a certain pre-set
goal. One consequence of this, as Gadamer wrote, is that «the way one word follows
another, with the conversation taking its own twists and reaching its own conclusion, may well be
conducted in some way, but the partners conversing are far less the leaders than the led. no one
knows in advance what will “come out” of such a conversation» (Gadamer, 2004: 383).
Paradoxically, this "abdication of control" over the directive aspects of dialogue
permits a greater sense of its "ownership" by its participants.
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What such inter-relational views direct therapy toward is a very uncertain and uneasy
form of relationship that depends to a great extent upon the therapist's active
willingness and ability to abdicate many if his or her most cherished assumptions; not
least those of therapist-led change. Instead, what is being highlighted by the principle
of relatedness is highly similar to what the existential psychiatrist Karl Jaspers termed
as the therapist's enterprise of not-knowing (Jaspers, 1963). More recently, I have
myself referred to it as un-knowing (Spinelli, 2006b). I employ a hyphenated spelling in
order to distinguish "un-knowing" as that attempt on the part of the therapist to
remain as open as possible to that which presents itself in the relationship. As such,
it expresses the attempt to treat the seemingly familiar, assumed to be understood or
understandable, as novel, unfixed in meaning, and, hence, accessible to previously
unexamined possibilities. The attempt to "un-know" suggests the therapist's
willingness to explore the world of the client in a fashion that not only seeks to
remain respectful of the client's unique way of being-in-the-world, but also to be
receptive to the challenges to the therapist's own narrational biases and assumptions
(be they personal or professional or both) that this exploration may well provoke. Put
bluntly, "un-knowing" requires the therapist to abdicate, at least for the time being, a
great deal of that which might, from the standpoint most therapeutic models and
approaches, be taken as the therapist's authority, security, expertise and interpretative
power. Un-knowing directs the therapist toward such self-directed questions such as:
What is it like for you, the client, to be as you are being in my presence?
What is it like for me, the therapist, to be in the presence of this other?
How willing am I, the therapist, to attempt an enterprise of shifting between the above polarities?
Such questions, in turn, focus upon the engagement with relatedness as it presents
itself – in other words, upon "what is here for us" as opposed to "what once might
have been" or "what may one day be" for the client. This way of relating expresses
its genuineness through the therapist's and client's diverse experiences of both
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"meeting" and "failing to meet" one another in their dialogue.
In adopting a stance of un-knowing, the whole focus of therapy centres much more,
if not exclusively, upon what is taking place directly between therapist and client. This
focus serves to expose and clarify in the immediacy of the current therapeutic relationship the
self-same inter-relational issues that clients express as being deeply problematic
within their wider world relations. This focus on the therapeutic relationship itself
exposes and implicates the presence of the therapist. Indeed, this presence requires a
human and humane openness to "being in relation" and all the uncertainty and
anxiety and unpredictability contained therein.
From the perspective of many of the current models of Western psychotherapy, such
experiences are usually "explained" as instances of transference and counter-transference. I
have explored these terms critically elsewhere (Spinelli, 2006a), but let me simply
state that, in my view, these terms are of little value in that they force the relationship
to deviate from the primary focus on the immediacy of the current encounter. In
addition, their explanatory value obscures what there may be of value to understand
about the currently-felt attraction in and of itself and its possible relation to the
client's worldview.
In general then, it is my personal view that if we as therapists are serious about our
desire to embrace and explore the therapeutic relationship, we are also opening
ourselves to challenges that are capable of seriously disturbing many of our most
cherished assumptions regarding what it is to do therapy and to be a therapist. As a
final summing up of this argument, let me conclude with a quote Henning Mankell's
The Fifth Woman:
When I was growing up, Sweden was still a country where people darned
their socks. I even learned how to do it in school myself. Then suddenly one
day it was over. Socks with holes in them were thrown out. No-one
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bothered to repair them. The whole society changed.... I think it changed our
view of right and wrong, of what you were allowed to do to other people and
what you weren’t.... The most frightening thing is that I think we’re only at
the beginning of something that’s going to get a lot worse. A generation is
growing up right now... who are going to react with even greater violence.
And they have absolutely no memory of a time when we darned our socks.
When we didn’t throw everything away, whether it was our woollen socks or
human beings (Mankell, 2002: 224).
Although it says nothing directly about the therapeutic relationship, when I first read
this passage I was struck by how elegantly it alludes to critical matters regarding
relatedness and inter-relationship. I sense that Mankell’s critique raises a similar
challenge to that presented to therapists by the therapeutic relationship. If we truly
agree that the relationship matters then let us be willing to embrace its uneasy
implications and by so doing open ourselves to its possibilities.
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Farber, L. “Martin Buber and psychotherapy” in The Philosophy of Martin Buber (P. A. Schilpp & Friedman, M., eds). LaSalle, Illinois: Open Court, 1967.
Farber, L. The Ways Of The Will: Selected Essays. New York: Basic Books, 2000.
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Stern, D.N. The Present Moment in Psychotherapy and Everyday Life. New York: W.W. Norton, 2004.
Ernesto Spinelli is a Fellow of the British Psychological Society (BPS) and in 2000 was awarded the BPS Division of Counselling Psychology Award for Outstanding Contributions to the Advancement of the Profession. He is also UK registered existential psychotherapist. In 1999, Ernesto was awarded a Personal Chair as Professor of Psychotherapy, Counselling and Counselling Psychology. Currently,
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Ernesto is the Director of ES Associates, an organization dedicated to the advancement of psychotherapy, coaching, facilitation and mediation through specialist seminars and training programmes. Author of numerous papers and texts, the Second Edition of Practising Existential Psychotherapy: The Relational World (Sage, 2007), which has been widely praised as a major contribution to the advancement of existential theory and practice, is being prepared for publication in 2014.
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Psicoanalisi e Analisi esistenziale: tra differenze e analogie
Psychonalysis and existential analysis: between differences and analogies
Ferdinando Brancaleone
Summary
Nonostante le profonde differenze teorico-metodologiche tra Analisi Esistenziale e Psicoanalisi è possibile ritrovare tra di esse un sostanziale punto di convergenza (a livello di concreta prassi clinica) nell’adeguata valutazione e gestione dei fenomeni delle “resistenze” e del “transfert” come fattori fondamentali e ineludibili di ogni valido rapporto psicoterapeutico. Parole chiave: Existenzanalyse – Resistenza – Transfert Despite the deep differences between theoretical and methodological Existential Analysis and Psychoanalysis is possible to find a substantial point of convergence (in terms of clinical practice) in the proper evaluation and management of the phenomena of “resistances” and “transfert” as fundamental and unavoidable factors in every valid therapeutic relationship. Key words: Existenzanalyse – Resistence – Transfert
Al di là della evidente somiglianza terminologica, tra l'Analisi Esistenziale
(Existenzanalyse1) di Viktor E. Frankl e la Psicoanalisi (Psychoanalyse) freudiana
sussiste certamente un rapporto di sostanziale differenza, se non addirittura di
contrapposizione, al punto che Tullio Bazzi ha potuto affermare che
l'Existenzanalyse frankliana si pone (specie dal punto di vista delle basi dottrinarie) in
1 Risulta opportuno, in via preliminare, precisare la distinzione tra Existenzanalyse, Daseinsalytik e Daseinsanalyse. La prima (Existenzanalyse) fa capo a Viktor Emil Frankl e viene di norma associata all'approccio psicoterapeutico più frequentemente conosciuto come "Logoterapia e Analisi Esistenziale" (Terza Scuola di Psicoterapia Viennese). La seconda (Daseinsalytik) fa capo a Medard Boss e M. Heidegger ed è conosciuta nella letteratura in lingua italiana prevalentemente con la denominazione di "Analitica Esistenziale". La terza (Daseinsanalyse), spesso conosciuta col termine di "Antropoanalisi", si riferisce alla metodica psicoterapica proposta principalmente da L. Binswanger (e dai suoi allievi) nell'ambito di un approccio clinico ad orientamento fenomenologico-esistenziale.
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un atteggiamento antianalitico2. Ad una più attenta disamina, comunque, è possibile
rilevare come Frankl abbia teso a “polemizzare”, fondamentalmente, con quella che
potrebbe essere definita la “sovrastruttura psicanalitica teorica”, piuttosto che su
quanto va a costituire “il nucleo essenziale delle profonde intuizioni clinico-
terapeutiche, che sono a fondamento della concreta prassi analitica freudiana”3.
Già Medard Boss, rappresentante dell'orientamento analitico-esistenziale denominato
Daseinsanalytik4 (facente capo a Martin Heidegger), a metà dello scorso secolo aveva
notato che Freud, dopo aver inizialmente persistito in un atteggiamento
eccessivamente intellettualistico, che gli aveva fatto «sopravvalutare la
consapevolezza che gli ammalati conseguivano di ciò che avevano dimenticato»5, si
rese conto che «non è tanto l'inconsapevolezza in se stessa il momento patogeno,
bensì il fatto che tale inconsapevolezza è radicata in resistenze interne, le quali hanno a
suo tempo suscitato l'inconsapevolezza e continuano tuttora a mantenerla»6.
Pertanto, secondo Boss, Freud preferì spostare l'accento dalla “consapevolezza”, o,
se vogliamo, dal processo di coscientizzazione, per porlo sulle “resistenze”, che a suo
tempo hanno causato e che contribuiscono a mantenere in atto l'inconsapevolezza7.
Per questo motivo, a suo parere, “la consapevolezza raggiunta consciamente è
impotente contro queste resistenze”8.
In altri termini, Freud si rese conto che è nel “risolvere le resistenze” che consiste
essenzialmente il compito della “terapia”, in quanto sotto l'influenza di tali resistenze,
come egli afferma, «avviene che, anche applicando regolarmente la nuova tecnica
2 Cfr. Bazzi T., Psicoterapie non analitiche, in Tedeschi G., "La psicoterapia oggi", Il Pensiero Scientifico, Roma, 1975. 3 Brancaleone F., Logoterapia e prassi analitica, in Peresson L. (a cura di), "Lineamenti per una classificazione delle psicoterapie", Edizioni CISSPAT, Padova 1987, p. 151. 4 Cfr. Boss M., Psychoanalyse und Daseinsanalytik, Verlag Hans Huber, Berna, 1957, trad. it. "Psicoanalisi e Analitica Esistenziale" (a cura di Antonio Verdino), Astrolabio-Ubaldini, Roma, 1973. 5 Freud S., Zur Einleitung der Behandlung, (trad. it. in "Freud-Opere", Boringhieri, Torino, 1980 3 , pp.333 sgg.), citato in Boss M., "Psychoanalyse und Daseinsnalytik", cit., trad. it., nota 10, p. 10. 6 Freud S., Zur Technik, citato in Boss M., "Psychoanalyse und Daseinsnalytik", cit., trad. it., p. 10 7Cfr., Boss M., "Psychoanalyse und Daseinsnalytik", cit., trad. it., pp.10-11. 8 Freud S., Zur Einleitung der Behandlung, citato in Boss M, "Psychoanalyse und Daseinsnalytik", cit., trad. it., p. 11.
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delle 'libere associazioni', il paziente non ricorda, in generale, niente di ciò che egli ha
dimenticato e rimosso della storia della sua vita, bensì egli lo agisce. Lo riproduce non
già come ricordo, ma come fatto, lo ripete, senza saper naturalmente che lo sta
ripetendo. […] Così, nella relazione stabilitasi con il suo analista, egli ripete tutto ciò
che è stato oggetto di inibizione, tutti gli atteggiamenti inopportuni e tutti i tratti
patologici del suo carattere. Anzi, ripete, durante il trattamento, anche tutti i suoi
sintomi. […] Uno per volta i tratti della malattia vengono ora portati nell'orizzonte
della cura, e, mentre l'ammalato vive tutto ciò come qualcosa di attuale, l'analista
dovrebbe sulla base di questi vissuti costruire il lavoro terapeutico»9. Come dice M.
Boss: «Con queste intuizioni di base il procedimento psicoanalitico di Freud si
avviava a maturità trasformandosi nella tecnica psicoanalitica definitivamente valida,
consistente in una specifica analisi delle resistenze»10.
In sintesi, quindi, dal momento che nell'ambito della relazione terapeutica il paziente
tende a ripetere (più o meno inconsciamente) i propri sintomi, la “malattia” viene a
manifestarsi non come una “questione storica”, quanto piuttosto come una “forza
attuale”. Per questo motivo, può affermarsi che, attraverso la tecnica analitica, il
paziente non è tanto stimolato a “ricordare” ciò che egli ha dimenticato e/o rimosso
delle esperienze della propria vita, quanto piuttosto ad “agirlo”, a “riprodurlo”, nel
setting terapeutico, non come “ricordo” bensì come “fatto”. Il tutto, quasi sempre, a
livello totalmente involontario ed inconsapevole11.
A partire da tali assunti, il procedimento analitico di Freud si basò sempre più su di
una prassi volta al “ricondizionamento” ed alla “risoluzione” delle resistenze, agite
dal paziente nel setting terapeutico. Ed è in tale senso precipuo che «Freud auspicava
che, attraverso la terapia, lo spazio dell'Io potesse subentrare gradualmente all'Es:
non certo a livello di mera coscientizzazione dell'inconscio, quanto piuttosto di
9 Freud S., Erinnern, Wiederholen und Durcharbeiten, (trad. it. in "Freud-Opere", Boringhieri, Torino, 1980 3 , pp. 353 sgg.) citato in Boss M., "Psychoanalyse und Daseinsnalytik", cit., trad. it., p. 11. 10 Boss M., cit., p. 11. 11 Cfr. Brancaleone F., Logoterapia e prassi analitica, cit., p. 152
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ristrutturazione sempre più congrua e flessibile della capacità di gestione degli impulsi
primigenei»12. A tal proposito pare opportuno citare lo stesso Freud, il quale
affermava testualmente: «Se la consapevolezza (in se stessa) fosse così importante per
l'ammalato, come crede l'inesperto di Psicoanalisi, dovrebbe essere sufficiente, ai fini
della guarigione, che l'ammalato assistesse a delle lezioni o leggesse dei libri. Ma
queste misure hanno altrettanta influenza sui sintomi nevrotici quanta, in un'epoca di
carestia, ne avrebbe la distribuzione di un menù»13.
Attraverso la progressiva evoluzione della propria prassi clinica, in stretta
concomitanza con la constatazione della precipua importanza del fenomeno delle
resistenze, si andò imponendo a Freud una seconda essenziale e decisiva
osservazione: egli constatò che da parte del paziente nei confronti del terapeuta «si
stabilisce, di regola, purché si lasci all'ammalato tempo sufficiente, gli si attesti il più
serio interesse e non si commettano indelicatezze, un profondo attaccamento,
proprio com'era accaduto nei riguardi di quelle persone dalle quali l'ammalato era
abituato, un tempo, a ricevere affetto»14. A tale tipica “relazione affettiva” (di natura
prevalentemente inconscia), che il paziente tende a stabilire nei confronti del
terapeuta, Freud, come noto, diede il nome di transfert, e «immediatamente riconobbe
in questa relazione il fondamento portante di ogni trattamento»15.
In tal senso, quindi si può comprendere come Freud affermi di considerare il
transfert «come il fuoco che solo rende possibile esaminare a fondo, e infine
eliminare, le resistenze che un ammalato oppone contro l'accesso alla piena verità e
totalità del suo essere»16. Il transfert, pertanto, tende ad essere considerato da Freud
«come il campo entro il quale al paziente è consentito di esplicitarsi, presentando più o
meno inconsapevolmente le spinte patologiche, che sono nascoste nella sua vita»17.
In tale specifica prospettiva, il terapeuta assume il compito di “accompagnare” il
12 Ibid. 13 Freud S., Zur Technik, citato in Boss M., "Psychoanalyse und Daseinsnalytik", cit., trad. it., p. 10. 14 Freud S., Zur Einleitung der Behandlung, citato in Boss M, "Psychoanalyse und Daseinsnalytik", cit., trad. it., p. 11. 15 Boss M., Psychoanalyse und Daseinsnalytik, cit., trad. it., p. 11. 16 Ivi, p. 12. 17 Brancaleone F., Logoterapia e prassi analitica, cit., pp. 152-153.
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paziente, immerso nella relazione transferale, al fine di condurlo gradualmente
“fuori” da tale relazione, “educandolo” a quel più di “libertà”, che permetta un
adeguato superamento dei fattori patologici all'origine del suo disagio psico-
esistenziale18. Medard Boss, a tal proposito, così sintetizza la posizione di Freud circa
il fenomeno ed il trattamento del transfert nell'ambito della prassi analitica: «Mentre
l'analista accompagna [...] i suoi pazienti attraverso tutte le fasi della loro attività
svolgentesi nell'ambito della situazione di transfert, conducendoli fuori dalla relazione
di transfert, la quale possiede 'un grado di libertà minore di quello che si ha nella vita e
che viene detto normale', egli può lasciare loro 'acquisire quel di più di libertà psichica
attraverso cui l'attività psichica cosciente si distingua da quella inconscia' »19.
È da sottolineare che, secondo Freud, i due sopra citati fenomeni della resistenza e del
transfert costituiscono “i pilastri fondamentali della sua prassi psicoanalitica”20. A tal
riguardo egli afferma esplicitamente che ogni tendenza scientifica «che riconosca
questi due fatti e li assuma come punti di partenza del proprio lavoro», può ben a
ragione definirsi “psicoanalitica”21. E', quindi, da rilevare che le successive proposte
tecniche ed, in particolar modo, l'intero fondamento razionale su cui andrà a fondarsi
la psicoanalisi, nonché le riflessioni teoriche sulla struttura e sull'articolazione della
vita psichica (prima e seconda “topica” freudiana), nulla hanno a che fare col nucleo
essenziale della prassi terapeutica psicoanalitica. E', infatti, lo stesso Freud che
testualmente afferma che tali idee non costituiscono altro che «una sovrastruttura
speculativa della psicoanalisi, ogni pezzo della quale può essere sacrificato e sostituito senza danno e
senza rimpianto non appena vi si scopra un difetto»22.
18 Cfr. ivi, p. 153. 19 Boss M., Psychoanalyse und Daseinsnalytik, cit., trad. it., p. 12. Le citazioni di Freud, all'interno del passo di M. Boss, sono tratte dal testo: "Bemerkungen über die Übertragungsliebe", citato in nota 16, ibidem. 20 Boss M., Psychoanalyse und Daseinsnalytik, cit., trad. it., p. 12. Cfr. anche Brancaleone F., Logoterapia e prassi analitica, cit., p. 153. 21 Freud S., Zur Geschichte der psychoanalitischen Bewegung, citato in Boss M., "Psychoanalyse und Daseinsnalytik", cit., nota 18, p. 12. 22 Freud S., Selbstdarstellung, citato in Boss M., "Psychoanalyse und Daseinsnalytik", cit., nota 30, p. 14 (corsivo nell'originale).
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A questo punto, riprendendo il discorso iniziale, se Frankl, attraverso la sua
“Existenzanalyse”, ha tenuto ad evidenziare taluni “difetti” della “sovrastruttura
speculativa” freudiana (partendo da una prospettiva non più “positivista”, come in
Freud, bensì da un angolazione afferente più specificamente ad un approccio teorico
ad impronta “esistenziale”23), ciò nondimeno non pare che «si possa relegare tout-
court nel campo del non-valido o del superfluo tutto ciò che costituisce il nucleo di
fondo della più autentica prassi analitica»24. Con ciò si intende affermare che «quelli
che Freud definì come i fenomeni della resistenza e del transfert (spogliati, ripeto, delle
sovrastrutture speculativo-esplicative) non dovrebbero affatto essere a cuor leggero
misconosciuti»25 o sottovalutati in ogni e qualsivoglia prassi psicoterapeutica, anche
se afferente ad un orientamento più specificamente esistenziale, come ad esempio la
Existenzanalyse frankliana, più comunemente conosciuta col nome di “Logoterapia”
(Terza Scuola di Psicoterapia Viennese)26. D'altra parte, ad un'attenta e ponderata
considerazione, si può intravedere come nella posizione di Frankl non vi sia
l'intenzione di «contraddire allo spirito delle acquisizioni freudiane, quanto piuttosto
ad una lettera, che andava (e, spesso, ancora va) sempre più sclerotizzandosi in
dogma»27. E' appunto a tal proposito che lo stesso Frankl (riprendendo un pensiero di
Stekel), «riferendosi alla propria posizione nei confronti di Freud, disse ch'essa era
simile a quella di un nano venutosi a trovare sulle spalle di un gigante e solo per
questo in condizione di veder più lontano del gigante stesso»28, ribadendo quindi tale
concetto e facendo notare come «sarebbe assurdo attendere e pretendere da un
23 Analoga (anche se non identica) "critica" nei confronti della "sovrastruttura speculativa" freudiana, a partire da una prospettiva ad orientamento esistenziale, è stata proposta anche all'interno della Daseinsalytik di M Boss e della Daseinsanalyse di L. Binswanger. 24 Brancaleone F., Logoterapia e prassi analitica, cit., p. 153. 25 Ibidem. 26 Cfr. Frankl V. E., Ärztliche Seelsorge, Franz Deuticke, Vienna, 19667 , trad. it. (a cura di E. Fizzotti), "
Logoterapia e Analisi esistenziale", Morcelliana, Brescia, 1975. 27 Brancaleone F., Logoterapia e prassi analitica, cit., p. 153. A tal proposito, riferendosi a Freud (da lui conosciuto personalmente) e ad Adler (del quale era stato diretto discepolo), Frankl afferma esplicitamente: «Poiché la psicanalisi e la psicologia individuale rappresentano i due massimi sistemi psicoterapeutici conosciuti, non è possibile parlare di psicoterapia senza rifarsi ai nomi di Freud e di Adler, le cui opere sono da considerare ormai come storiche, sia nel senso più stretto sia perché ciò che esse racchiudono facilita la comprensione dei successivi apporti. Il valore delle due dottrine, come piedistallo ad ulteriori indagini, appare infatti evidente proprio perché ci si propone di superare i princìpi su cui rispettivamente esse si basano» (in Frankl V. E., Ärztliche Seelsorge, trad. it., cit., p. 27. 28 Frankl V. E., Ärztliche Seelsorge, trad. it., cit., p. 27.
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ammiratore ed esaltatore di Ippocrate o di Paracelo che si attenga minuziosamente
alle prescrizioni dei maestri, utilizzando magari le stesse ricette e gli stessi metodi di
intervento medico»29.
Un percorso analogo sembra, per altro, essere stato compiuto (con minore impatto
clinico-pragmatico, ma probabilmente con maggiore lucidità teorica) da Medard
Boss, il quale, approfondendo il rapporto intercorrente tra la sua Analitica Esistenziale
[Daseinsanalyse], mutuata da Martin Heidegger, e la Psicoanalisi di Freud, poté
affermare che «non si darà mai il caso che la prima [la Daseinsanalyse] miri fin da
principio a porsi nei confronti della seconda [la Psicoanalisi] come un orientamento
di ricerca psicopatologica diverso o addirittura opposto, o come una 'scuola'
psicoterapeutica nuova o avversaria»30. In sostanza, quindi, è possibile sostenere che
sia la Psicoanalisi freudiana (come concreta “prassi analitica”), sia l'Existenzanalyse
(di Frankl), sia la Daseinsanalyse (di Heidegger e Boss) «concordano nel fatto che
esse non sono affatto analisi, nel significato comune di tale parola: in nessuna di
queste tre prospettive si mira, fondamentalmente a decomporre ciò che si deve analizzare,
ossia l'uomo, nei suoi aspetti costitutivi, in modo che poi all'attuazione di essa debba
seguire una sintesi»31. Anche se da diverse angolazioni, invece, tutte e tre gli approcci
si riferiscono ad un «analizzare nel senso di rendere trasparente l'essenza umana sulla
base della sua struttura e membratura. I membri, però, esistono sempre soltanto in
rapporto a un tutto lasciato intatto, giacché ogni membratura non può essere
determinata altrimenti che partendo da una totalità»32.
Le considerazioni sopra proposte consentono, quindi, di affermare che molte delle
acquisizioni (post-freudiane) apportate dalla Existenzanalyse e dalla Daseinsanalyse
hanno permesso di fare un po' di luce sul come (ed in qual misura) alcune delle
“sovrastrutture speculative” (e secondarie) della “teoria” psicoanalitica siano risultate
29 Ibidem, nota 1. 30 Boss M., Psychoanalyse und Daseinsnalytik, cit., trad. it., p. 100. 31 Brancaleone F., Logoterapia e prassi analitica, cit., p. 154. Cfr. anche Boss M., Psychoanalyse und Daseinsnalytik, cit., trad. it., p. 101. 32 Boss M., Psychoanalyse und Daseinsnalytik, cit., trad. it., p. 101.
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parziali, “difettuali” e/o inadeguate, ragion per cui, secondo il consiglio dello stesso
Freud, possono (e debbono) anche essere “sacrificate” e “sostituite” senza alcun
danno o rimpianto33. E' solo in tale quadro complessivo che è possibile intendere una
delle specifiche peculiarità della Existenzanalyse frankliana (e della conseguente
“prassi logoanalitica”), consistente in una prospettiva di tipo essenzialmente
“finalistico”, per la quale l'azione del logoterapeuta tende ad esplicarsi in vista di una
sempre maggiore “significatività” (“logos”) della persona-paziente, nella sua unica,
irripetibile ed imparagonabile individualità34. Esiste (ed è questo il “credo” della
Existenzanalyse frankliana che guida l'azione logoterapeutica) un “logos” significante,
“nell'appello al quale la prassi terapeutica può trovare il più valido punto di
riferimento, concreto ed attuale, affinché colui che soffre possa vedere gradualmente
eliminato, o almeno lenito, il suo carico di sofferenza”35, al fine di una maggiore e più
appagante gratificazione esistenziale.
Bibliografia
Bazzi T., Psicoterapie non analitiche, in Tedeschi G., “La psicoterapia oggi”, Il Pensiero Scientifico, Roma, 1975 Binswanger L., Essere nel mondo, trad. it. di A. Angioini e G. Banti, Astrolabio-Ubaldini, Roma, 1973 Binswanger L., Per un’antropologia fenomenologica. Saggi e conferenze psichiatriche, trad. it. di E. Filippini (a cura di F. Giacanelli), Feltrinelli, Milano, 1970 Binswanger L., La psichiatria come scienza dell’uomo, trad. it. (a cura di B. M. d’Ippolito), Ponte alle Grazie, Firenze, 1972 Boss M., Psychoanalyse und Daseinsanalytik, Verlag Hans Huber, Berna, 1957, trad. it. “Psicoanalisi e Analitica Esistenziale” (a cura di Antonio Verdino), Astrolabio-Ubaldini, Roma, 1973
33 Cfr. Freud S., Selbstdarstellung, citato in Boss M., "Psychoanalyse und Daseinsnalytik", cit., nota 30, p. 14. 34 Cfr. Brancaleone F., Logoterapia e prassi analitica, cit., p. 154. 35 Ibidem.
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Brancaleone F., Logoterapia e prassi analitica, in Peresson L. (a cura di), “Lineamenti per una classificazione delle psicoterapie”, Edizioni CISSPAT, Padova, 1987 Frankl V. E., Ärztliche Seelsorge, Franz Deuticke, Vienna, 19667 , trad. it. (a cura di E. Fizzotti), “Logoterapia e Analisi esistenziale”, Morcelliana, Brescia, 2005 Frankl V. E., Teoria e terapia delle nevrosi, trad. it. (a cura di E. Fizzotti), Morcelliana, Brescia, 2001 Frankl V. E, Psicoterapia nella pratica medica, trad. it. Giunti-Barbèra, Firenze, 1974 Freud S., Zur Einleitung der Behandlung, (trad. it. in “Freud-Opere”, Boringhieri, Torino, 1980 3 , pp. 333 sgg.) Freud S., Erinnern, Wiederholen und Durcharbeiten, (trad. it. in “Freud-Opere”, Boringhieri, Torino, 1980 3 , pp. 353 sgg.)
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Edith Stein e l’empatia
Edith Stein and empathy
Mariacarla Zunino
Summary
Esponente della scuola fenomenologica, Edith Stein ha fatto del suo interesse per la persona umana il cardine intorno al quale ruota tutta la sua riflessione filosofica. Interrogandosi circa la possibilità della conoscenza di se stessi e del mondo circostante, la Stein ha individuato nell’empatia il fondamento di qualsivoglia processo conoscitivo umano. In particolare, a partire dall’esperienza fenomenica di me stesso, ossia dall’ultima oggettiva essenzialità dell’esperienza della mia corporeità, io constato che questa è messa in risalto dal confronto con un “tu” che vive se stesso come io vivo il mio “io”: secondo Edith Stein è allora possibile, per analogia, attraverso una serie di atti di empatia, cogliere anche l’esperienza vissuta dell’altro. Parole chiave: intuizione fenomenologica, atto empatico, conoscenza per analogia
Exponent of the phenomenological school, Edith Stein made the human person the cornerstone of his entire philosophical reflection. Inquiring about the possibility of self-knowledge and of the world around, Stein identified empathy as the foundation of any human cognitive processes. In particular, from the phenomenological experience of myself, that is the last objective essence of the my body experience, I realize that this is highlighted by the comparison with a "you" that experiences himself as I live my "I": according to Edith Stein is then possible, by analogy, through a series of empathy acts, to gather even a lived experience of the other. Key words: phenomenological intuition, empathic act, knowledge by analogy
L’empatia ci parla della possibilità di cogliere l’esperienza vissuta di un altro essere
umano, di comprenderne gli stati d’animo ed i sentimenti; peraltro, quando si parla di
empatia, si corre il rischio di rimanere nella generalità del discorso, di porre
esageratamente l’accento sull’aspetto affettivo della relazione interpersonale, di
rimanere cioè su un piano superficiale.
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E’ interessante la riflessione che su questo argomento ha condotto la scuola
fenomenologica ed in particolar modo la trattazione della genesi dell’atto empatico
fatta da Edith Stein, filosofa della prima metà del Novecento.
L’elaborazione del concetto costituisce il tema della tesi di laurea della studiosa, “Zum
Problem der Einfühlung”, seguita personalmente da Husserl che ne fu il relatore durante
la dissertazione avvenuta il 3 agosto 1916.
La letteratura precedente aveva già trattato l’argomento, tanto è vero che, nella
seconda parte della tesi, la Stein confronta la sua teoria sull’empatia con quella di
altri autori, tra gli altri Lipps e Scheler (ambedue ravvisano un Soggetto nell’empatia:
Lipps parla di “unipatia”, ed evidenzia come nell’atto empatico l’io si identifichi con
un altro io, Scheler invece, individua l’empatia nel co-sentire di un Soggetto,
costituito però dalla pluralità degli individui psicofisici, i quali permangono distinti
l’uno dall’altro).
Husserl stesso in quegli anni, nella sua opera “Idee per una fenomenologia pura e per una
filosofia fenomenologica”, aveva affrontato l’argomento parlando di atto empatico, anzi, a
questo proposito, nel “Giudizio sulla dissertazione della signorina Stein” sottolineava come
«…l’Autrice, nell’elaborazione dei concetti fondamentali delle sue teorie è stata
influenzata da quanto io ho esposto nelle mie lezioni di Gottinga e da stimoli
personali» (Stein, 2009 p. 29).
La Stein condividerà la teoria husserliana secondo la quale, da una parte l’atto
empatico è il presupposto per giungere alla conoscenza del mondo oggettivo,
pertanto atto finalizzato a, necessario per, la costituzione della realtà io-uomo;
dall’altra l’oggetto della ricerca sono i rapporti intersoggettivi e tra le persone e il
mondo circostante comune: io, noi ed il mondo stanno in un’inerenza reciproca che
presuppone una conoscenza degli altri e di un mondo di cose. Tuttavia, la
conoscenza, nella visione di Husserl, non è acquisita attraverso l’atto empatico: anche
se l’atto empatico entra a far parte del processo conoscitivo, non lo fonda.
L’analisi della Stein invece, prende corpo a partire dal concetto stesso di empatia: ne
viene chiarita l’origine e ne sono indicate le modalità di attuazione. L’atto empatico
non è una sensazione, né un sentimento, né un atto della percezione interna di sé, e
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neppure è riconducibile al ricordo e all’immaginazione, ma è un atto concreto e
originario attraverso il quale possiamo cogliere in modo non-originario un vissuto
estraneo, ed è proprio la non-originarietà degli atti empatizzati che, dice la Stein, «mi
induce a rifiutare il titolo comune di percezione interna per indicare l’afferramento
tanto dell’esperienza vissuta propria quanto di quella estranea» (idem, p. 114), meglio
parlare allora di “intuizione interna” (idem).
Addentriamoci ora nello specifico della genesi dell’atto empatico così come risulta
nella trattazione di Edith Stein.
Il metodo fenomenologico
Si deve necessariamente incominciare dal metodo di indagine utilizzato, il metodo
fenomenologico appunto, per delineare i confini entro i quali si svolge il discorso.
Innanzi tutto è bene chiarire che il termine fenomeno non sta ad indicare quello inteso
nel significato corrente di semplice apparenza, piuttosto, è l’ultima, oggettiva
essenzialità.
La peculiarità del metodo, come spiega la stessa Stein in un suo articolo intitolato
“Che cos’è la fenomenologia”, è data da suo carattere intuitivo: la fenomenologia, non è
una scienza deduttiva, non trae cioè i suoi teoremi come la matematica da un numero
finito di assiomi (il numero delle verità filosofiche è infinito), e neppure una scienza
induttiva secondo il metodo delle scienze naturali, che giungono alla verità generale
in modo indiretto, muovendo dai fatti dell’esperienza sensibile. Il suo strumento
specifico è «una conoscenza intuitiva delle verità filosofiche che siano in se stesse certe,
evidenti e non abbiano bisogno di nessuna deduzione da altro. Questa intuizione,
questo sguardo spirituale non va confuso con l’intuizione mistica. Non è
un’illuminazione soprannaturale, piuttosto è un mezzo di conoscenza naturale come
la percezione sensibile; essa è mezzo specifico per la conoscenza delle verità ideali,
così come la percezione sensibile è il mezzo specifico per la conoscenza dei fatti del
mondo sensibile» (Stein, 1993, p. 59). L’intuizione «è nascosta in ogni singola
esperienza come fattore indispensabile - non potremmo parlare di uomini, animali,
piante se in ognuna di queste cose che percepiamo qui e ora, noi non afferrassimo un
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universale che indichiamo con un nome comune - ma può distaccarsi da essa ed
essere compiuta per se stessa» (Stein, 2000, p. 66).
La domanda che sorge è allora se sia possibile, e come, pervenire ad un punto di
partenza certo e sicuro. La possibilità si attua attraverso la cosiddetta riduzione
fenomenologica, ossia escludendo dal considerare tutto ciò che può essere eliminato.
Io posso dubitare dell’esistenza della cosa che ho davanti a me, poiché esiste la
possibilità dell’inganno (il dubbio cartesiano), ciò che penso può non essere vero, ciò
che percepisco può non esistere realmente, tutto ciò può rivelarsi un errore, un sogno
o un’illusione, ciò di cui però non posso dubitare, è la mia esperienza vissuta della
cosa, cioè il suo afferramento nella percezione, nel ricordo, insieme al suo correlato,
ossia il fenomeno della cosa nella sua pienezza.
Posso dubitare che questo io empirico con un nome, posizione sociale, fornito di
particolari qualità, esista veramente, tutto il mio passato potrebbe essere un sogno e il
suo ricordo un inganno quindi messo in dubbio, e rimanere solo come fenomeno
l’oggetto della mia considerazione. Ma Io, il soggetto dell’esperienza vissuta, che
considero il mondo e la mia persona come fenomeni, “io” sono nell’esperienza
vissuta e solo in essa permango, quindi l’Io e l’esperienza vissuta non è possibile
siano messi in dubbio. Così, «ad ogni io penso, io percepisco, io voglio e così via,
corrisponde come tale un pensato, un percepito, un voluto, e poiché il fenomeno
dell’albero percepito è tanto indubitabile quanto la percezione stessa, anche se
l’albero percepito non esistesse, l’intero mondo oggettivo (gegenständliche Welt) che l’io
ha di fronte nei suoi atti, appartiene al campo della ricerca fenomenologica» ( Stein,
1993, p. 100).
La successiva elaborazione porterà la Stein ad un’articolazione più completa del
concetto, come si evidenzia nelle riflessioni più mature di “Essere Finito e Essere eterno.
Per una elevazione al senso dell’essere” dove compare il termine coscienza e dove si legge:
«Rimane come campo di ricerca la coscienza, intesa come vita dell’Io: posso lasciare
indeciso se la cosa che io percepisco con i sensi esista o non esiste realmente, ma non
poso cancellarla dalla percezione in quanto tale; posso dubitare che le conseguenze che
io traggo siano esatte, ma il pensiero argomentante o deducente è un dato di fatto
Dasein, n. 1, 2013
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indubitabile; e così è per ogni mio desiderio, per ogni mio atto di volontà, per i miei
sogni, per le mie speranze, per le mie gioie e i miei dolori, in breve, per tutto ciò in
cui io vivo e sono, ciò che si dona come l’essere dell’ Io cosciente di se stesso» (Stein,
1988, p. 73).
Questi due aspetti metodologici, rientrano nella genesi dell’atto empatico dal
momento che è proprio l’esperienza che io faccio di me stesso e del mondo
circostante a determinare la possibilità dell’empatia.
L’esperienza di me stesso
Io faccio esperienza del mio corpo e constato che è così costituito: körper=corpo
fisico, e di leib=corpo vivente. Il mio corpo è infatti cosa fisica, io lo posso percepire
con i miei sensi esterni come qualsiasi altro oggetto; tuttavia mi accorgo che è un
oggetto sui generis dal momento che non ha una completa libertà di movimento e
non posso osservarlo da ogni lato; inoltre io non ho la sola risposta della percezione
esterna, ma percepisco il mio corpo anche dal di dentro. La Stein dice: «Io non sono
il mio corpo vivente, io ho e domino il mio corpo vivente. Posso anche dire: io sono
nel mio corpo vivente. Idealmente posso allontanarmene e osservarlo come
dall’esterno. In realtà sono legato ad esso. Sono là dove si trova il mio corpo vivente
anche se “in spirito” posso portarmi all’altro capo del mondo e persino elevarmi al di
sopra dello spazio. Non posso individuare il punto nel corpo in cui l’io avrebbe la sua
dimora… L’io non è una cellula cerebrale; ha un senso spirituale che è accessibile
solo nei nostri vissuti. Ed anche la localizzazione dell’io può essere determinata solo
a partire dal vissuto» (Stein, 2000, p. 129-130).
L’esperienza del mondo circostante
L’io esperisce l’individualizzazione perché la sua ipseità viene in risalto in confronto
all’alterità dell’altro che viene data in modo diverso dall’ “io”: è un “tu” che vive se
stesso come io vivo il mio io. Io sono certo e non posso dubitare del fenomeno della
vita psichica estranea. Come rileva la Stein: «Il mondo in cui vivo non è solo il
mondo di corpi fisici, è anche un mondo di Soggetti estranei, oltre a me, ed io sono a
Dasein, n. 1, 2013
64
conoscenza di questa esperienza vissuta… come corpo cui appartiene un Io capace di
avere delle sensazioni, di pensare, di sentire e volere, come corpo che non fa parte
solo del mio mondo fenomenico, ma è esso stesso centro di orientamento di un
simile mondo fenomenico, di fronte cui si trova, e con il quale io sono in commercio
reciproco» ( Stein, 2009, p. 70).
L’atto empatico
Dalle premesse finora tratteggiate ci si interroga se sia possibile ed in quali termini un
rapporto tra gli individui.
È l’esperienza fenomenica dell’analogia della costituzione io/altro a fondare questa
possibilità, attraverso un genere di atti nei quali è possibile cogliere la stessa
esperienza vissuta estranea. Dall’espressione del volto e dai gesti degli altri non solo
so ciò che vedo, ma anche ciò che si nasconde nel loro intimo ad esempio vedere che
un altro è triste dall’espressione del suo volto; dice la Stein: «Tutte queste datità
relative all’esperienza vissuta estranea rimandano ad un genere di atti nei quali è
possibile cogliere la stessa esperienza vissuta estranea. Su tali atti si basa quella
particolare conoscenza che vogliamo ora indicare col termine “empatia” (Einfühlung),
astraendo dal senso che al termine è stato attribuito da tutte le tradizioni storiche»
(idem, p. 71). L’empatia è un tipo particolare di conoscenza: l’empatia è la coscienza
che esperisce, nella quale ci giungono a datità le persone estranee.
Non si tratta di intuizione eidetica ossia di quell’atto originario offerente che mi
permette di cogliere intuitivamente le relazioni essenziali ad esempio di un assioma
geometrico oppure dei nostri propri vissuti allorquando pervengono a datità nella
riflessione.
Non si tratta neppure di percezione esterna «titolo di atti in cui l’essere cosale spazio-
temporale ed il suo accadere si danno in carne ed ossa, qui davanti a me hic et nunc»
(idem, p.72). Infatti non vedo il dolore di un amico che mi viene a dire della morte di
suo fratello; di tale dolore io mi rendo conto, ma il dolore stesso non mi verrà mai a
datità, mi verranno a datità sempre e solo l’espressione del volto sconvolto dal dolore
Dasein, n. 1, 2013
65
o meglio, il mutamento dei lineamenti che empaticamente io ritengo essere
l’espressione di un volto sconvolto dal dolore.
Posso afferrare il significato di tale rendermi conto per analogia con alcuni dei miei
vissuti quali il ricordo e la fantasia: essi infatti non sono originari per il contenuto, ma
originario è l’atto attuale con il quale me li presentifico: questi vissuti non hanno il
loro oggetto davanti a sé, solamente se lo rendono presente; la mia stessa esperienza
vissuta è data qui in modo non originario.
La Stein chiarisce con l’esempio del ricordo di una gioia passata: il ricordo è
originario in quanto atto di presentificazione che si compie ora, tuttavia il contenuto
del ricordo stesso è non originario, ossia la gioia che sta là non è in carne e ossa, ma
come è stata vissuta una volta. Io, soggetto dell’atto del ricordare, in tale atto di
presentificazione posso volgere indietro lo sguardo alla gioia passata e così troverò
l’Oggetto=la gioia passata ed il suo soggetto=l’Io del passato. L’Io del presente e l’Io
del passato stanno tra di loro come soggetto e oggetto: l’Io originario ricorda, l’io
non-originario è ricordato. Il flusso dei ricordi può avvenire passivamente o posso
portarmi di proposito in un istante di quel flusso e lasciar ridestare la sequenza dei
vissuti vivendo nel vissuto ricordato: comunque sia, qui mi starà di fronte un
surrogato dei ricordi svaniti che può avere il carattere di dubbio, di congettura,
verisimiglianza, ma mai di essere.
Analogamente avviene nell’atto empatico quando io esperisco la gioia di un altro:
non vivo una gioia originaria, ossia essa non scaturisce in maniera viva dal mio io, né
ha il carattere di esser stata viva in precedenza; così come si è rilevato accadere per il
ricordo, è l’altro soggetto che prova in maniera viva l’originarietà.
Nella mia esperienza vissuta non-originaria possiamo distinguere con la Stein tre
momenti in cui sento che l’esperienza vissuta originaria mi perviene a datità: 1) si
annuncia in me, anche senza esser stata vissuta da me 2) si manifesta l’esperienza
vissuta estranea 3) io arrivo al vissuto estraneo.
Quindi si può affermare che il vissuto presentificato nell’atto empatico non è una
realtà viva e originaria in me, ma presente è l’atto attraverso cui mi rendo conto del
vissuto altrui; altrimenti detto l’empatia in quanto presentificazione è una realtà
Dasein, n. 1, 2013
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presente, un vissuto originario, ciò che presentifica però non è una propria
impressione passata o futura, ma un moto vitale presente e originario in un altro, che
non si trova in alcuna relazione continua con il mio vivere e non lo si può far
coincidere con esso.
L’utilizzo della locuzione atto empatico sottolinea forse meglio del semplice termine
empatia come sia nell’azione, nei suoi atti, che si costituisce per l’io l’intero mondo
oggettivo; la Stein afferma: «Un’azione è unità di comprensione o di senso in quanto
i vissuti parziali che la costituiscono sono tra loro in un rapporto vivibile» ( Stein,
2000, p. 182).
Riassumendo, si sottolineano alcune caratteristiche che si possono rilevare proprie
dell’atto empatico così delineato nella visione steiniana:
- è una conoscenza per analogia
- è una conoscenza non originaria di vissuti originari
- presentifica un moto vitale presente e originario in un altro
- non è immedesimazione
- ogni vissuto è essenzialmente il vissuto di un io da esso inscindibile.
Io potrò sempre giungere fino ad essere in prossimità dell’altro, non riuscirò però
mai a cogliere quanto egli vive e sente in se stesso ed è proprio questa impossibilità di
immedesimazione a garantire il margine di libertà impenetrabile dell’altro.
Anche nell’esperienza empatica vi è la possibilità di errore (la Stein parla di “inganni
di empatia”); questo si verifica quando attribuiamo all’altro una nostra caratteristica
individuale «Così succede se assegniamo ad un daltonico le nostre impressioni
cromatiche, al bambino la nostra capacità di giudizio… Se io empatizzo una persona,
che non ha sensibilità per la musica, assegnandole il godimento che provo
nell’ascoltare una sinfonia di Beethoven, quest’inganno si eclisserà non appena lo
guardo nel volto in cui colgo l’espressione di una noia mortale» (Stein, 2009, p. 189).
Tuttavia non solo è possibile una correzione, attraverso l’attenzione alla percezione
esterna, con altri atti empatici, ma il fraintendimento, potendo esser rettificato
successivamente, costituisce comunque una forma di comprensione, sebbene errata;
infatti si tratta comunque di un percorso esperienziale che, mettendo in relazione e a
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67
confronto vissuti estranei, consente di approfondire ed arricchire all’infinito di
significati la conoscenza di se stessi e degli altri.
Bibliografia
Stein E., (1917), Zum Problem der Einfühlung, trad. it. Il problema dell’empatia, Edizioni Studium, Roma, 2009 Stein E., Was ist Phänomenologie? in Wissenschaft/Volksbildung-Wissenschaftliche Beilage zur Neuen Pfälzischen Landes Zeitung, n. 5, 15 maggio 1924 trad. it. Che cos’è la fenomenologia?, in “La ricerca della verità – dalla fenomenologia alla filosofia cristiana”, Città Nuova Editrice, Roma 1993 Stein E., (1986), Endliches und ewiges Sein – Versuch eines Aufstiegs zum Sinn des Seins, trad. it. Essere finito e essere eterno – per una elevazione al senso dell’essere, Città Nuova Editrice, Roma, 1988 Stein E., (1994), Der Aufbau der menschlichen Person, trad. it. La struttura della persona umana, Città Nuova Editrice, Roma 2000
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68
Secrets of Existential Psychotherapy (Part One)1
Segreti della psicoterapia esistenziale (parte prima)
Stephen A. Diamond
Summary What is existential therapy? What is the common ground upon which all existential orientations to treatment stand? In Part One of this two-part article, the Author, an American clinical and forensic psychologist, differentiates between existential psychotherapy and existential philosophy, discusses divergence within the field of existential therapy today, and describes the clinical practice of what he calls “existential depth psychology.”
Key words: existential psychotherapy, existentialism, psychodynamic psychotherapy, depth psychology, Irvin Yalom, Rollo May, Viktor Frankl. Cosa è la psicoterapia esistenziale? Qual è il terreno comune su cui si basano tutti gli orientamenti terapeutici esistenziali? Nella prima parte di questo articolo l’Autore, psicologo clinico e forense, differenzia la psicoterapia esistenziale dalla filosofia esistenziale, discute le divergenze nel campo della terapia esistenziale oggi, e descrive la pratica clinica di ciò che egli definisce “psicologia esistenziale del profondo”. Parole chiave: psicoterapia esistenziale, esistenzialismo, psicoterapia psicodinamica, psicologia del profondo, Irvin Yalom, Rollo May, Viktor Frankl.
Does “Existential Therapy” Really Exist?
“Existential therapy,” despite its distinctive philosophical, theoretical and
methodological orientation to treatment, has come to connote a confusing array
of varied and wildly divergent, diversely defined approaches--from more
1 This article is derived, revised and condensed from Dr. Diamond’s chapter on existential psychotherapy currently in preparation for the forthcoming text Contemporary Theory and Practice of Counseling and Psychotherapy (Sage Publications, 2014). Some parts of this paper appeared previously in slightly different form in Diamond, S. Anger, madness and the daimonic: Toward an existential depth psychology. Journal of the Society for Existential Analysis, 1999;10.1:27-41.
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69
traditional “existential analysis” to “logotherapy“ to “existential-humanistic” to
“Gestalt therapy” to “experiential” to “bodywork” to “existential-
phenomenological” to “philosophical counseling” or “clinical philosophy” to
mindfulness and Zen meditation. This all but begs the question: Will the real
existential psychotherapy please stand up?
What is existential therapy? What is the common ground upon which all existential
orientations to treatment stand? To this day, there remains immense
misunderstanding, distortion and confusion regarding the nature of existential
therapy. It is, admittedly, difficult to define. Part of the problem pertains to the
integral relationship between existential psychotherapy and existential philosophy.
Indeed, some mistakenly see them as being identical. But they are not. While
existential psychotherapy is commonly considered synonymous with the
brooding, dark, despairing, melancholic, nihilistic, atheistic intonations of
continental European existentialism, it is crucial to differentiate the two:
Existentialism is a philosophical movement, whereas existential therapy is a psychological
treatment.
At its best, existential psychotherapy endeavors squarely and soberly to confront
the "ultimate concerns" (Tillich) and frequently tragic "existential facts of life":
finitude, death, fate, freedom, responsibility, loneliness, loss, suffering,
meaninglessness, evil and the daimonic (see May, 1969; Diamond, 1996).
Existential psychotherapy is concerned with more deeply comprehending and
alleviating or mitigating as much as possible (without naively denying reality and
la condition humaine) disturbing or crippling “negative” psychiatric symptoms,
excessive suffering and destructive psychological states such as debilitating
depression, addiction, narcissism, neurotic anxiety and psychosis as well as
cultivating and promoting “positive,” meaningful, life-enhancing experiences like
intimacy, love, caring, commitment, courage, creativity, presence, self-esteem,
spirituality, self-actualization, authenticity, integrity, transcendence, beauty,
Dasein, n.1, 2013
70
wonder and awe2. Existential psychotherapy recognizes and acknowledges life’s joy and woe
as inseparable and intrinsic to human existence, and treats such experiences as equally
important, like the essential interplay of light and shadow. In this, and other
ways, existential therapy can be described as a holistic, experiential approach, considering
the entire person and his or her full spectrum of subjectivity or here-and-now-being- in-the-
world (Dasein).
Existential psychotherapy started as a rebellious renunciation of and protest
against the status quo in psychiatry and psychology during the mid-twentieth
century. It was, in its day, revolutionary. And, in many ways, still is. However,
existential therapy was never intended by its earliest progenitors to become a
specific school unto itself, but rather a pragmatic, humanistic, corrective orientation to
psychoanalysis and psychotherapy in general. "Existentialism," explains Rollo May
(1983/86), "is not a comprehensive philosophy or way of life, but an endeavor to
grasp reality" (p. 59). Drawing upon European existential philosophy, the
existential movement in psychiatry and psychology arose as a reaction against the
reductionism, determinism, dogmatism, medicalization and hyper-rationalism of
both psychoanalysis and behaviorism. As May (1983/1986) points out, whenever
you perceive a person as merely a particular mental disorder, maladaptive
behavior, irrational cognitions, neurobiochemical imbalance, genetic
predisposition or "as a composite of drives and deterministic forces, you have
defined for study everything except the one to whom these experiences happen, everything
except the existing person himself" (p. 25). Existential psychotherapy seeks to
discover the being or self who subjectively experiences such fateful phenomena
from within and without and who possesses the potential power, will and freedom to
decide how to respond: with acceptance or rejection, dignity or despair, creativity
or destructiveness, love or hate.
2 This emphasis on personal strengths, resilience, self-actualization, transcendence, creativity and human potentiality rather than solely on pathology and deficits stems in part from the humanistic psychology movement five decades ago and can also be found resurrected in today’s “positive psychology.”
Dasein, n.1, 2013
71
Nevertheless, due largely to the popularity of the writings and clinical work of
existentially-oriented practitioners like Otto Rank, Viktor Frankl, Rollo May, Fritz
Perls and Irvin Yalom, existential psychotherapy gradually developed its own
distinct identity, philosophy and methodology, distinguishing it from most other
traditional approaches to psychological treatment, both theoretically,
philosophically and technically3. But, rather than there being a single, unified form
of existential therapy today, there are instead several. Over the past few decades,
we witnessed a clear trifurcation in the direction taken by existential
psychotherapy. These three related yet divergent tributaries are represented by: 1)
the psychodynamically-based existential therapy of clinicians like Rollo May, Fritz
Perls and Irvin Yalom; 2) the American “existential-humanistic” therapy of
Abraham Maslow, Carl Rogers, James Bugental and, more recently, Kirk
Schneider; and 3) the more radical, heavily Heideggerrian-influenced existential-
phenomenological or “clinical philosophy” of the London-based Society for
Existential Analysis founded in 1988 by Hans Cohn, Emmy van Deurzen and
Ernesto Spinelli. (For some, Viktor Frankl’s “third Viennese school” of
existential analysis he named “Logotherapy” represents its own independent
tributary, as distinct from the others mentioned here, though it has significantly
influenced all three.)
Irvin Yalom (1980) summarizes the fundamental differences between the
existential therapy influenced mainly by European existential philosophy and that
more closely aligned with humanistic psychology as follows: «The European
focus is on limits, on facing and taking into oneself the anxiety of uncertainty and
non-being. The humanistic psychologists, on the other hand, speak less of limits
and contingency than of development of potential, less of acceptance than of
awareness, less of anxiety than of peak experiences and oceanic oneness, less of
life meaning than of self-realization, less of apartness and basic isolation than of
3 For example, in addition to existentially-oriented graduate programs at places like Duquesne University and Regents College in London, there is now a newly formed training certification program in existential-humanistic therapy at Saybrook University in San Francisco.
Dasein, n.1, 2013
72
I-Thou and encounter». (p. 19)
Despite these differences, all variations of existential psychotherapy derive from
and remain rooted, more or less, in the same primal source: what we now
generically call “psychodynamic” psychotherapy. So what then is the difference between
psychodynamic and existential psychotherapy? 4.
Existential versus Psychodynamic Therapy
While making use of certain psychodynamic principles, concepts and methods,
existential therapy is seen by those who pioneered, practice and promulgate it to
complement and improve upon what traditional psychoanalytic or depth psychology can provide.
This is precisely the main point made in the works of iconoclastic clinicians like
Binswanger, Boss, May and Yalom: The existential approach was meant to
enhance the efficacy of conventional psychodynamic psychotherapy, but not to
completely replace it. This is one of the most controversial topics within the
existential therapy movement today, and there is a great deal of disagreement
among the various factions on this subject.
Both of the most prominent American practitioners of existential therapy, Rollo
May and Irvin Yalom, were psychodynamically trained in the neo-Freudian
tradition, May as a clinical psychologist and psychoanalyst, and Yalom as a
psychiatrist. Eventually, Yalom, like May before him (and Rank before him),
began to integrate the insights of existential philosophy into his
psychoanalytically-influenced work as a practitioner. He was inspired to do so by
the publication in 1958 of the groundbreaking volume Existence, which was co-
edited and included two original chapters by Rollo May. Two decades later, in his
own now-classic textbook, Existential Psychotherapy (1980), Yalom described
4 For a brief overview of contemporary psychodynamic psychotherapy and recent outcome studies regarding efficacy, see Diamond (2012). Since existential therapy was first intended to be an enhanced form of psychodynamic psychotherapy, its efficacy would be as measurable and at least as demonstrable, though the goals attained to by existential therapy may differ somewhat from those of psychodynamic therapy
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73
existential therapy as a “humanistically-based,” “dynamic approach that focuses
on concerns rooted in human existence,” one “firmly planted in ontological
bedrock, the deepest structures of human existence” (p. 485). He further writes
that, “Existential therapy is based on a model of psychopathology which posits
that anxiety and its maladaptive consequences are responses to . . . four ultimate
concerns” (p. 485), and, borrowing the term from Tillich, neatly (no doubt, too
neatly) categorizes these ultimate existential concerns as freedom, mortality, meaning,
and aloneness. For Yalom, these four fearsome horsemen--death, meaninglessness,
freedom, and isolation-- are the fundamental issues and conflicts underlying or
influencing most psychiatric symptoms, and, therefore, must be explicitly
confronted in existential psychotherapy.
Yalom rightly recognizes existential therapy as part of an historical wisdom
tradition, building upon millennia of philosophical insights coupled with the
cumulative clinical wisdom of modern psychotherapy, starting with Freud’s
psychoanalysis a century ago. Existential therapy, writes Yalom (1980), “gathers and
harvests the insights of many philosophers, artists, and therapists about the
painful and redemptive consequences of confrontation with ultimate concerns”
(p. 486). What for him distinguishes existential therapy from most other
psychotherapies is its unflinching emphasis on these “ultimate concerns” as they
impact the patient today, right now, interpersonally, in the present moment, as contrasted to
the intrapsychic Freudian focus on traumatic childhood history or CBT’s
preoccupation with modifying maladaptive behavior and restructuring irrational
cognitions. For Yalom, facing mortality, “willing, assuming responsibility, relating
to the therapist, and engaging in life are the key processes of therapeutic change”
(p. 485). Yalom’s (1980) own primarily interpersonal or relational focus in existential
therapy is not classically psychodynamic per se, in the typical sense of resolving
unconscious conflicts and transference. Instead, “the basic conflict is between the
individual and the ‘givens,’ the ultimate concerns of existence” (p. 273). In other
words, for Yalom, it is not our socially unacceptable, repressed instincts and drives with
Dasein, n.1, 2013
74
which we wrestle so much as the unacceptable and immutable facts of existence. Not our
personal demons but, rather, the human condition. For me, however, this
dichotomy seems dubious, since existential therapy obviously must
simultaneously address psychodynamic along with interpersonal, transpersonal
and existential phenomena.
Rollo May (1958) was chiefly responsible for introducing European existential
analysis to American clinicians. And he lucidly explains how the application of
and attention to these existential methods, concepts and concerns can enhance
psychotherapy in general. The first thing May makes clear is that existential
therapy is not a new and distinct school of psychotherapy unto itself 5. Rather, it
is really about an existential orientation or approach to treatment, “an attitude
toward human suffering” (2013, p. 265), one which is potentially complementary
to and compatible with the already established schools of psychotherapy. As May
remarks about the existential movement’s early influence in clinical psychology
and psychiatry, «the impact is not that there are therapists who call themselves
existential therapists, because existentialism is not a technique over against other
techniques. It is not a system that you go to school to learn. It’s rather a concern
with the basic presuppositions of what it means to be a human being. You can be
a good Freudian or a good Jungian and still existential--and if you are good, you
will be existential. Even some behavior therapists are very good existentialists. . . .
Existentialism means keeping in mind the person who has the instincts or drives
or behavior» (cited in Kohn, 1984, pp. 8-9). Yalom (2007) echoes this same
essential point: “You cannot simply be trained as an existential psychotherapist.
One has to be a well-trained therapist and then set about developing a sensitivity
to existential issues.” However, in actuality, much the same may be said
regarding the training of Freudian analysts, Jungian analysts, Adlerians, Gestalt
therapists, etc., since such training is, and aptly should be, an advanced post-
graduate complement to the basic clinical competency every psychotherapist must acquire.
5 Here May differs from Frankl, who created his own separate “school” of existential analysis or “logo-therapy.”
Dasein, n.1, 2013
75
God, Death, Beauty, Evil and the Daimonic: Toward an Existential Depth
Psychology
Personally, I have long felt that what we today generally refer to as “existential
therapy,” for all its penetrating philosophical insights and unflinching
phenomenological method, is missing a certain “depth” or richness present to
some extent in the psychoanalytic tradition and particularly in C.G. Jung’s
Analytical Psychology. While it is essential, especially given the recent regressive
trends in contemporary psychiatric treatment, to retain its skeptical, independent,
rebellious spirit and non-conformist vitality, existential therapy need no longer
identify itself solely as the defiant protest against the psychiatric status quo it
started out as. Existential psychotherapy has successfully survived its stormy
adolescence and attained adulthood, having in many ways achieved its original
corrective or compensatory clinical purpose. Its positive influence in the mental
health field is far-reaching and pervasive. It is now becoming mainstream, and
must be redefined in its maturity as a movement fostering unity, integration,
wholeness, meaning and transcendence rather than reflexive opposition--a
connective bridge between differing but complementary schools of
psychotherapy. However, in rejecting the so-called depth dimension (the
“unconscious”), most existential therapy, it seems to me, still lacks some central,
unifying, dynamic myth commensurate to its mature and rightful place in the
evolution of psychology and psychotherapy--Camus’ famous “myth of Sisyphus”
notwithstanding. This is why I propose an explicit synthesis, a union, a marriage (not of
convenience but rather of necessity) between existential and depth psychology, a paradoxical
admixture which I designate existential depth psychology (see Diamond, 1996). But
what might such a strange and unlikely hybrid look like?
Existential phenomenology and depth psychology are complementary, not
antithetical, as some philosophical purists dogmatically claim. Phenomenology
concerns itself with existence prior to interpretation or tainted perception. Depth psychology
is that specialized branch of psychotherapy that concerns itself with the
Dasein, n.1, 2013
76
phenomenology of the unconscious. As theologian and philosopher Paul Tillich (1964)
saw it, “Existentialism speaks of the universal human situation, which refers to
everybody, healthy or sick. Depth psychology points to the ways in which people
try to escape the situation by fleeing into neurosis and falling into psychosis” (p.
124).
While both May and Yalom both practice what I believe is best described as an
“existential depth psychology,” there are highly significant differences in their
orientation, emphasis, and therapeutic approach to patients. Some of these
differences reside in the understanding (or misunderstanding) of what we mean
by “depth” in depth psychology. Yalom interprets Freud’s use of the term deep in
his depth psychology (psychoanalysis) as signifying that which is “early” or
developmentally primal. For Jung, “deep” refers to the fathomless sea of the
personal and collective unconscious. Whereas for Yalom (2013), using the word
“deep” in existential therapy refers rather to the “most fundamental concerns of
the individual at that moment” (p. 279). Existential-phenomenologist Hans Cohn
(1999) of the London school expressed his serious doubts about the
incompatibility of “depth psychology” with existential therapy as follows: «Depth
psychology seems to me to assume that there is in each individual a structured
intra-psychic field housing positive and negative forces whose interaction
manifests itself in human behaviour. Structure and forces are described
differently by different theorists, but in each case a model is offered that is
essentially explanatory, hypothetical (Freud’s word) and as such unexperienceable
[…] The very word ‘phenomenon’ (literally: ‘what appears’) seems to me ill-
matched with the word ‘depth’ which implies not only a spatial structure for what
is called ‘the psyche’ but carries also an evaluative meaning--the deeper I probe,
the nearer I get to the truth. 'Phenomena,' on the other hand, seem to ask for an
openness to whatever experience offers itself». (p. 43)
But this is a misperception of the true meaning of the term depth psychology.
Existential therapy is in fact, when properly practiced, a sophisticated form of depth
Dasein, n.1, 2013
77
psychology. As such, existential psychotherapy does acknowledge and address the
impressive phenomenon first described by Freud as the unconscious. But the construct
of the unconscious in depth psychology is one of the most controversial concepts
in the contemporary theory and practice of existential psychotherapy. Many
clinicians find it completely incompatible with existential therapy. Indeed, the
traditional Freudian (or Jungian) notion of the "unconscious" is eschewed and
rejected outright by most existentialists, including Sartre (1953), as a fragmenting,
reified, literalized doctrine that diminishes integrity of the personality, free will,
and personal responsibility in ways inimical and antithetical to existential
psychotherapy. So what is the appropriate role of or attitude toward “the unconscious” in
existential therapy? Or, is it, as some argue, an unnecessary, anachronistic and outdated
concept?
For Rollo May’s existential psychology and therapy, his controversial myth of
“the daimonic” is indispensable in this regard. May (1969) defined the daimonic as
«any natural function which has the power to take over the whole person. Sex and eros, anger
and rage, and the craving for power are examples. The daimonic can be either
creative or destructive and is normally both. When this power goes awry, and one
element usurps control over the total personality, we have ‘daimon possession,’
the traditional name through history for psychosis. The daimonic is obviously not
an entity but refers to a fundamental, archetypal function of human experience--
an existential reality [my emphasis]». (p. 123) When patients report, as they
frequently do, feeling influenced or controlled by powers or forces foreign or
alien to them, or being temporarily "taken over," compelled or "possessed" by
their powerful passions or moods, it is this subjective, phenomenological fact or
archetypal, "existential reality" to which the daimonic concept descriptively speaks.
One reason for May’s courageous resurrection of the ancient Greek idea of the
daimonic was dissatisfaction with what became the dogmatic concretization of
both Freud and Jung’s mythic paradigms of the “unconscious” or “shadow.” He
was hoping to provide existential therapy with a more phenomenological, less
Dasein, n.1, 2013
78
literal and fragmenting means of conceptualizing “unconsciousness” and its
myriad clinical vicissitudes. Indeed, May (1983/1986) existentially redefined
“unconsciousness” as “the potentialities for awareness and experience which the individual
is unable or unwilling at that time to actualize” (p. 18). This refreshing reformulation
gives the existential therapist a more phenomenologically faithful way of
understanding neurotic or psychotic unconsciousness as a defensively divided
state of being, chosen and perpetuated by the individual at some level in order to
avoid, compartmentalize or limit conscious awareness and experience in the
here-and-now, and as a psychological process in which we all engage and for
which we are each ultimately responsible.
Another prime motivation for Rollo May’s reintroduction of the daimonic myth or
paradigm to psychotherapy was to pragmatically address in no uncertain terms the
problem of evil : “In the daimonic, I . . . want to state the problem of evil in such a
way that psychologists will not be able to derogate it simply as a lack of
something, for example, a lack of growth or as simply immaturity, or as a process
which depends always on something else, such as the doctrine of the shadow in
Jungianism” (1977, p. 305). May offers in his existential model of the daimonic a
psychologically sophisticated, phenomenologically truthful, secular-yet-still-
spiritual alternative to the dogmatic Jungian notion of the autonomous “shadow,”
of the metaphysical idea of the “demonic,” and of the traditional Judeo-Christian
belief in the devil. As he saw it, “the common personalized term [for evil] which
has been used historically, namely the devil, is unsatisfactory because it projects
the power outside the self. . . . Furthermore, it always seemed to me a
deteriorated and escapist form of what needs to be understood about evil” (1977,
p. 304). This concern with the existential problem of evil and how we relate to it is
absolutely central to May's existential depth psychology, but appears to be less
emphasized in most other forms of existential therapy today.
Rollo May's concept of the "daimonic" is a defining and distinguishing feature of
existential depth psychology. In lieu of Freud’s admittedly problematical theory
Dasein, n.1, 2013
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of the “unconscious,” existential depth psychology embraces and makes
pragmatic clinical use of May's (equally controversial) model of the daimonic, both
diagnostically and therapeutically, encouraging its cultivation and constructive
integration into consciousness--but never to the point of dogmatism or Procrusteanism.
This paradigm, deliberately designed to retain the "decisive element, that is, the
choice the self asserts to work for or against the integration of the self" (May,
1977, p. 305), is particularly useful in conceptualizing and constructively
confronting the patient’s often underlying pathological or existential frustration,
anger or rage, as well as understanding his or her personal experience of evil. (See Diamond,
1996. This will be discussed further in Part Two.)
Unlike orthodox psychoanalysis, which traditionally requires four or more
sessions per week over the course of several years or longer, existential depth
psychology should “not be defined by duration of treatment, technique or
frequency of sessions but rather by the degree to which it directly addresses the daimonic and
the various other existential elements of life" (Diamond, 1996, p. 219). (The use of
technique in existential therapy will be explored in Part Two.) Nor should it
necessarily be defined by in how few sessions it can relieve suffering. In contradistinction
to the practice of medicine or modern mainstream psychiatry, including both
CBT and psychopharmacology, May (1991) reminds us that, technically, in
existential therapy, «our task is not to “cure” people. . . . Our task is to be guide,
friend, and interpreter to persons on their journeys through their private hells and purgatories
[…] All through history it is true that only by going through hell does one have any chance of
reaching heaven. The journey through hell is a part of the journey that cannot be
omitted--indeed, what one learns in hell is prerequisite to arriving at any good
value thereafter. Homer had Odysseus visit the underworld, and there--and only
there--can he get the knowledge that will enable him to get safely back to Ithaca.
Virgil has Aeneas go into the netherworld and there talk to his father, in which
discussion he gets directions as to what to do and what not to do in the founding
of the great city of Rome. How fitting it is that each of these gets a vital wisdom
Dasein, n.1, 2013
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which is learned in the descent into hell!» (pp. 165-166) 6.
Suffering is an existential fact of life. Unlike most manualized, medicalized, short-term
mental health treatments today, existential psychotherapy is not primarily a process to
quickly and superficially fix, cure or eliminate people's problems, symptoms and anxieties. Nor
to save or rescue them from their painful existential, psychological or spiritual suffering. Not to
suppress or exorcise their demons, but to confront and consciously come to terms with them 7.
This is not to say that existential psychotherapy is any less concerned with or
effective in reducing psychiatric symptomatology than other treatments.
Symptoms, which tend almost always to be “symptomatic” of some larger, more
pervasive psychological, spiritual or existential problem, often abate as their root
causes are resolved and existential significance revealed. But we will always have
problems. There is no “cure” for life 8. Existential therapy is about accompanying
patients through and, whenever practically possible, beyond their personal
demon-filled hell toward discovering and fulfilling their destiny. Or, at least, getting
them unstuck and setting them back on that purposeful path. It is not necessary,
nor in the treatment’s best interest, to join the patient on this heroic journey
indefinitely, nor to prolong the therapeutic odyssey beyond what inner and outer
circumstances demand. Termination, as Otto Rank (1929) so existentially asserted,
is not only inevitable but psychologically necessary. (See Part Two.)
Existential depth psychology places importance not only on clinical phenomena
such as symptoms and maladaptive behaviors, but on all the archetypal
experiences and “ultimate concerns” that accompany human existence: God,
6 The existential necessity for meaning and its manifestation in myths (May, 1991) of all kinds will be discussed in Part two. 7 Psychiatric medications can be helpful in severe symptom mitigation and sometimes life-saving. But they should be used adjunctively to facilitate rather than avoid dealing with the daimonic and other “ultimate concerns.” The same may be said of the therapeutic use of psychiatric diagnosis in existential therapy. (See Part Two.) 8 Mindfulness is one method of becoming more sensitive to and appreciative of the beauty surrounding us every day. The cultivation of presence in existential therapy is similar to the practice of meditation and mindfulness central to Taoism and Zen Buddhism. Lao-Tzu, for instance, advises the initiate to “abide at the center of your being; for the more you leave it, the less you learn” (cited in May, 1958, p. 18).
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death, suffering, good, evil, love, sex and beauty. Existentialism is typically
equated with the unvarnished recognition of life’s dark, tragic, absurd,
meaningless and ugly side. But May’s existential depth psychology equally
encourages an appreciation and valuation of the positive aspects and ubiquitous
beauty of life. Beauty, says May (1985), "is serene and at the same time
exhilarating; it increases one's sense of being alive" (p.20). The beauty of nature,
for example, can inspire a profound sense of inner peace, joy, oneness and awe,
helping to place our petty daily problems or even major existential life crises and
suffering into more meaningful cosmic perspective. The goal of existential depth
psychology is to help the patient learn to stand on his or her own two feet, to
face and accept the stark existential facts of life--frustration, failures, difficulties,
setbacks, struggles, disease, loss, anxiety, despair, rage, disappointment,
catastrophe, evil and death--with dignity, compassion and courage, while at the same
time savoring and staying fully present to life's sublime pleasures, mysteries and beauty. It is
about becoming more authentically ourselves and consciously or mindfully
embracing both the hideous and beauteous, divine and diabolic, destructive and
creative polarities of existence. With luck, we send patients forth into the world in
greater possession of themselves, with a rediscovered sense of wonder,
enthusiasm, and faith in life. Not without any future problems, suffering, pain or
anxieties, for this is an inescapable or ontological part of the human condition.
But hopefully armed with the resilience, strength, and resourcefulness to
constructively meet life’s unceasing challenges head-on with confidence,
compassion, courage and creativity.
In this sense, we might further state that the goal of existential therapy is to assist
patients in constructing or finding their own philosophical or spiritual perspective in life, so
as to be able to ultimately live independent of therapy and deal with problems
from a position of inner strength, sustenance and stability. Learning to confront,
accept, tolerate and creatively embrace rather than repress or suppress the daimonic elements of
life is key to existential depth psychology. Such is the spiritual, if not religious,
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dimension of existential psychotherapy9 (See Part Two). This experiential (rather
than merely intellectual) acceptance of both the negative and positive aspects of
the daimonic can be found in Job’s humble submission to and unconditional
acceptance of God’s terrible will in the Old Testament: His fundamental faith in
life and devoted attitude toward "God" (or "the daimonic") despite the devastating
personal experience of injustice, suffering and evil proves to be poor Job’s salvation. As
May (1996), a former pastor, pithily put it in describing his approach to existential
therapy: “I don’t believe in toning down the daimonic. This gives a sense of false
comfort” ( p. xxii). If there can be any solace found in facing and coming to
terms with the harsh existential facts of life and disturbing reality of evil, it is not
in avoiding, denying, distorting, rationalizing, minimizing, medicating or sugar-
coating them: “The real comfort can come only in the relationship of the
therapist and the client or patient” (p. xxii).
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9 This “existential spirituality” can be found to some extent even (or perhaps especially) in atheistic forms of existential therapy, as will be discussed later.
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yalom, 2009. Kohn, A. Existentialism here and now. In: The Georgia Review, Summer, 1984. www.alfiekohn.org/miscellaneous/existentialism.htm May, R, Angel, E, Ellenberger, H, editors. Existence: A new dimension in psychiatry and psychology. New York: Simon & Schuster, 1958. May, R. Love and will. New York: W.W. Norton, 1969. May, R. Reflections and commentary. In: Reeves, C. The psychology of Rollo May: A study in existential theory and psychotherapy. San Francisco: Jossey-Bass, 1977. May, R. The discovery of being: Writings in existential psychology. New York: W.W. Norton, 1983/1986. May, R. My quest for beauty. Dallas: Saybrook Publishing, 1985. May, R. The cry for myth. New York: W.W. Norton, 1991. Rank. O. The trauma of birth. New York: Harper Torchbooks, 1929. Sartre, J.P. Existential psychoanalysis. Chicago: Henry Regnery Company, 1953/1962. Tillich, P. The theological significance of existentialism and psychoanalysis. In: Kimball, R. editor, Theology of culture. London: Oxford University Press, 1964. Yalom, I. Existential psychotherapy. New York: Basic Books, 1980. Yalom, I., Josselson, R. Existential psychotherapy. In: Wedding, D and Corsini, R. editors. Current Psychotherapies, 10th edition. Belmont, CA: Cengage, 2013, pp. 265-298.
Stephen Diamond is a licensed clinical and forensic psychologist practicing in Los Angeles, California. A former pupil and protege of existential psychoanalyst Rollo May, he is the author of Anger, Madness, and the Daimonic: The Psychological Genesis of Violence, Evil, and Creativity. Foreword by Rollo May. A volume in the Philosophy of Psychology series (SUNY Press, 1996), also available in a recently revised (2013) e-book edition. Dr. Diamond has been a psychotherapist for more than 35 years; taught or supervised clinical trainees in various graduate programs including the Pacific Graduate School of Psychology, John F. Kennedy University, Institute of Transpersonal Psychology, Argosy University, Ryokan College, the Chicago School of Professional Psychology, and the C.G. Jung Institute in Zurich, Switzerland; and contributed book chapters to Meeting the Shadow: The Hidden Power of the Dark Side of Human Nature (Tarcher/Putnam, 1991), Spirituality and Psychological Health (COSPP
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Press, 2005), Forensic Psychiatry: Influences of Evil (Humana Press, 2006), Encyclopedia of Psychology and Religion (Springer Verlag, 2009), and the forthcoming Contemporary Theory and Practice of Counseling and Psychotherapy (Sage, 2014). He has written numerous articles and reviews in diverse professional journals such as The San Francisco Jung Institute Library Journal, Psychotherapy, Journal of Applied Psychoanalytic Studies, PsycCRITIQUES, Psychological Perspectives, and the Journal of the Society for Existential Analysis. In addition, Dr. Diamond writes regularly for Psychology Today, and serves on the editorial board for the Journal of Humanistic Psychology. He is the former co-founder and director of the Existential Psychotherapy Center of Southern California, which provided training for post-graduate and licensed mental health professionals.
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Il fallimento del Dasein nella psicosi
The failure of Dasein in psychosis
Nicolò Terminio
Summary Tra le pietre miliari della psicopatologia fenomenologica spicca La perdita dell’evidenza naturale di Wolfgang Blankenburg, un testo che ci permette, ancora oggi, di confrontarci con la questione clinica della psicosi. La tesi fondamentale della ricerca fenomenologica di Blankenburg sostiene che il nucleo fondamentale della psicosi vada rintracciato nella perdita dell’ovvietà semantica che fa da sfondo al nostro essere nel mondo. Il caso clinico di Anna Rau viene presentato e discusso come un esempio paradigmatico della radicale compromissione del rapporto tra esistenza e fondamento, tra senso e soddisfazione. L’obiettivo argomentativo che perseguiremo in queste pagine sarà quello di precisare e chiarire un aspetto della tesi di Blankenburg che risulta poco convincente come spiegazione teorica del fenomeno della “perdita dell’evidenza naturale”, mentre rimane ancora impareggiabile sul piano della descrizione clinica dell’esperienza.
Parole chiave: psicopatologia fenomenologica, perdita dell’evidenza naturale, Dasein, psicosi, caso clinico di Anna Rau.
Among the milestones of phenomenological psychopathology there is one that stands out and that is “The loss of natural evidence” of Wolfgang Blankenburg. It is a text that allows us, even today, to confront ourselves with the issue of clinical psychosis. The fundamental thesis of Blankenburg phenomenological research argues that the core of psychosis should be found in the loss of the obvious semantics that is the background of our being in the world. The clinical case of Anna Rau is presented and discussed as a paradigmatic example of the radical compromise of the relationship between existence and foundation, between sense and satisfaction. The aim of the discussion that I will pursue in these pages will be to specify and clarify one aspect of Blankenburg thesis which isn’t very convincing as theoretical explanation of the “loss of natural evidence” phenomenon while it is still incomparable in terms of clinical description of experience.
Keywords: phenomenological psychopathology, loss of natural evidence, Dasein,
psychosis, clinical case of Anna Rau.
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Un classico: La perdita dell’evidenza naturale
Studiare i classici della psicopatologia fenomenologica è ancora oggi un esercizio
ineludibile tanto per ogni apprendista in psicoterapia quanto per ogni clinico di lunga
esperienza. Tra le pietre miliari della letteratura antropo-fenomenologica spicca La
perdita dell’evidenza naturale di Wolfgang Blankenburg,1 un testo che ci permette, ancora
oggi, di confrontarci con la questione clinica della psicosi. La tesi fondamentale della
ricerca fenomenologica di Blankenburg sostiene che il nucleo fondamentale della
psicosi vada rintracciato nella perdita dell’ovvietà semantica che fa da sfondo al
nostro essere nel mondo. Il caso clinico di Anna Rau viene presentato e discusso
come un esempio paradigmatico della radicale compromissione del rapporto tra
esistenza e fondamento, tra senso e soddisfazione. L’analisi antropo-fenomenologica
di Blankenburg si sviluppa lungo quattro direzioni: a) la trasformazione del rapporto
con il mondo; b) la trasformazione della temporalizzazione; c) la trasformazione della
costituzione dell’Io e d) la trasformazione della costituzione intersoggettiva.
L’obiettivo argomentativo che perseguiremo in queste pagine sarà quello di precisare
e chiarire un aspetto della tesi di Blankenburg che risulta poco convincente come
spiegazione teorica del fenomeno della “perdita dell’evidenza naturale”, mentre
rimane ancora impareggiabile sul piano della descrizione clinica dell’esperienza.
L’interesse per le schizofrenie pauci-sintomatiche
La ricerca fenomenologica e daseinsanalitica ha generalmente privilegiato, per la sua
rilevanza diagnostica, l’aspetto produttivo-paranoide delle psicosi. Il clamore del
delirio rende più chiara, oltre che indiscutibile, l’alterazione del mondo psicotico.
Sebbene le forme allucinatorie e paranoidi sottolineino la differenza tra l’essere-nel-
mondo dei pazienti psicotici e quello di altre manifestazioni psicopatologiche, è
opportuno però non confondere il contenuto delle psicosi (la metamorfosi del mondo)
con la modificazione della relazione io-mondo (il mutamento di stato) che presiede ogni
strutturazione del mondo. È proprio questa differenziazione che ha portato la ricerca
1 Blankenburg W (1971). La perdita dell’evidenza naturale. Un contributo alla psicopatologia delle schizofrenie pauci-sintomatiche. Ed. it. a cura di Ferro FM, Salerno RM, Di Giannantonio M, pref. di Ballerini A. Milano: Cortina 1998.
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fenomenologica e daseinsanalitica a un ampliamento della prospettiva del rapporto
predicativo con il mondo al rapporto antepredicativo e preverbale. Lo stravolgimento
del senso, indicato da Conrad con il termine “apofania”,2 offusca, in virtù della sua
natura altamente espressiva, il rapporto pre-verbale e ante-predicativo con il mondo.
Seguendo questa prospettiva alcuni studi fenomenologici hanno affrontato il
problema della modificazione “basale” della schizofrenia, esaminando anche quelle
evoluzioni insidiose, ebefreniche e semplici in cui non si siano ancora manifestati i
“sintomi di primo rango” stabiliti da Schneider. 3 La ricerca di Blankenburg si
inserisce in questo filone e, riprendendo la terminologia di Conrad, si focalizza sulla
sintomatologia “subapofanica” propria delle schizofrenie pauci-sintomatiche 4
L’analisi clinica di Blankenburg si rivolge dunque verso quelle forme di schizofrenia
con ridotta floridezza sintomatologica e cerca di definirne la peculiarità
psicopatologica.
Il disturbo basale
L’interesse per la forma pauci-sintomatica della schizofrenia è strettamente connesso
all’esigenza di enucleare le radici antropologiche dell’alienazione schizofrenica. «La
perdita dell’evidenza naturale non deve servirci da sintomo, e meno che mai da
sintomo ‘specifico’; deve invece costituire un filo conduttore per lo studio della
metamorfosi del Dasein umano»5 scrive Blankenburg. Nel suo studio viene dunque
analizzato il problema dell’ancoraggio dell’essere umano nel mondo della vita e, al
tempo stesso, si vuole illuminare l’essenza della modificazione “basale” dell’essere
schizofrenico.
La questione del disturbo “basale” si inserisce nel dibattito sulle interazioni tra il deficit
primario e le reazioni secondarie. Queste ultime hanno reso caratteristica la sindrome
schizofrenica e sono state generalmente valutate come un tentativo qualitativamente
2 Conrad K. Die beginnende Schizophrenie. Stuttgart: Thieme 1958 (citato da Blankenburg 1971). 3 Schneider K (1968). Psicopatologia clinica. Trad. it. di Callieri B. Roma: Fioriti 2004. 4 Blankenburg W (1971). La perdita dell’evidenza naturale. Un contributo alla psicopatologia delle schizofrenie pauci-sintomatiche. Ed. it. a cura di Ferro FM, Salerno RM, Di Giannantonio M, pref. di Ballerini A. Milano: Cortina 1998, pp. 5-6. 5 Ivi, p. 73.
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anormale con cui far fronte (coping) a un disturbo primario (primary illness) puramente
quantitativo. Blankenburg sceglie una via alternativa e sostiene che «laddove i sintomi
sono caratteristici, essi non sembrano originari ma, piuttosto, appaiono come il
risultato dell’impatto con la malattia; in compenso, laddove possono essere
considerati originari, si offrono in maniera non caratteristica».6
Nell’incontro con la paziente Anna Rau, come sottolinea Blankenburg, si viene colti
da uno “sbalordimento” per le conseguenze tanto dolorose che può avere la
mancanza di qualcosa di così “piccolo”7 per l’esistenza di un individuo. La paziente,
lamentandosi della perdita di un qualcosa di piccolo ma fondamentale, ne delinea il
carattere non rappresentativo e dice: «Non ho a che fare con il sapere, non lo si può
semplicemente osservare e comprendere...» e poco dopo: «Ci sono cose che hanno a
che fare solo con il sentire».8
Il disturbo fondamentale che Anna avverte come mancanza, vuoto, assenza, deficit,
non deve essere però collocato in una scala normativa correndo il rischio di una
confusione tra i termini “sano” e “patologico”. Blankenburg intende infatti la perdita
dell’evidenza naturale in modo dialettico e «pertanto, la non-evidenza non è meno
costitutiva dell’evidenza per l’essere-nel-mondo umano, semplicemente lo è in maniera diversa».9 Il
divenire non evidente dell’esistenza assume un significato patologico soltanto nel
caso in cui il movimento dialettico tra evidenza e non-evidenza si cristallizza su
quest’ultima possibilità d’essere del Dasein umano.
Dal mondo al corpo e ritorno
L’evidenza naturale costituisce lo sfondo inapparente della coscienza quotidiana
comune e, allo stesso tempo, si configura come la base imprescindibile per ogni
6 Ivi, p. 8. 7 Anna riferisce che le manca “qualche cosa di Piccolo, di strano, qualche cosa di Importante, di indispensabile per vivere. […] Ho bisogno di un appoggio nelle cose quotidiane più elementari. Sono ancora troppo piccola, piccola nel modo di pensare. Non ci riesco da me. Senza dubbio mi manca l’evidenza naturale” (Blankenburg 1971, p. 55). 8 Blankenburg W (1971). La perdita dell’evidenza naturale. Un contributo alla psicopatologia delle schizofrenie pauci-sintomatiche. Ed. it. a cura di Ferro FM, Salerno RM, Di Giannantonio M, pref. di Ballerini A. Milano: Cortina 1998, p. 80. 9 Ivi, p. 76.
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prospettiva esistenziale. Nel suo incontro con il mondo Anna avverte la mancanza
della base a partire dalla quale si possono esprimere giudizi sulle cose. La paziente
non ha la “capacità di penetrazione intuitiva (Feingefühl)”10 con cui potrebbe cogliere
“le regole del gioco”:11 il suo mondo appare privo di quelle connessioni e di quei
rimandi che costituiscono una situazione. «Vorrei vedere le cose come sono... Ma non
ci riesco» dice Anna.12 La paziente tenta di supplire a quest’assenza di un punto di
vista con un incessante “dover-pensare” che si rivela però inutile perché la facoltà di
giudizio che viene messa in questione è fondata su un piano trascendentale. 13 La
paziente non sa quale via seguire poiché tutto le sembra “assolutamente strano”, non
riesce a essere-in-familiarità con le situazioni della vita quotidiana e, nonostante tenti
di ovviare a questa mancanza con i pensieri, rimane al di fuori di quella dimensione in
cui tutto va da sé.
Blankenburg considera il carattere anonimo e già-sempre attivo della costituzione
trascendentale del mondo: il soggetto sano vive il proprio ancoraggio nel mondo
della vita in maniera aproblematica e preconscia. Il paziente psicotico, al contrario,
tenta sempre di rifondare i presupposti del poter-incontrare e quando i suoi sforzi si
rivelano inutili, come avviene nel caso Anna Rau, lo scompenso psicotico sfocia in
una tendenza suicidaria.
I pazienti come Anna non trovano la spinta per fare ciò che sanno fare e conducono
la loro esistenza nella ricerca disperata di una reale apertura all’essere-nel-mondo. La
mancanza di un “terreno fondante”14 impedisce a questi pazienti di proiettarsi in un
avvenire e in un progetto esistentivo che rivelandosi privo di un ancoraggio nel
mondo della vita finisce presto per diventare insostenibile. «Quando ricamo, per
esempio, non faccio altro che un lavoro meccanico. È solo un trucco, io non sono lì
10 Ivi, p. 102. 11 Ivi, p. 55. 12 Ivi, p. 102. 13 Con il termine “trascendentale” Blankenburg si riferisce a un livello pre-intenzionale in cui si gettano le basi per la possibilità di aprirsi all’essere-nel-mondo. 14 Blankenburg W (1971). La perdita dell’evidenza naturale. Un contributo alla psicopatologia delle schizofrenie pauci-sintomatiche. Ed. it. a cura di Ferro FM, Salerno RM, Di Giannantonio M, pref. di Ballerini A. Milano: Cortina 1998, p. 81.
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veramente. E se non ho forza fisica, se non ne ho, allora crollo» dice Anna Rau.15
A proposito del vissuto corporeo Blankenburg riprende le osservazioni compiute su
altri casi clinici dove si manifesta appunto un sentirsi fuori causa che si traduce in una
perdita della forza fisica. Questi pazienti mostrano come il corpo (Leib) non si lasci
ridurre a una res extensa. A tal proposito una mia paziente, mentre descriveva il suo
sentirsi staccata dal mondo, sottolineava che anche il rapporto con il proprio corpo
non era immediato: “per sentire il mio corpo è come se dovessi accendere un
interruttore, così come si fa quando si vuole accendere la luce di questa stanza”
diceva Arianne. Anche in questo caso ci accorgiamo di come, nell’esaminare il
significato della costituzione dell’essere-nel-mondo, si venga sempre riportati alla
costituzione del corpo proprio (Leib) poiché l’uomo è “soggettività incarnata”.16
La temporalizzazione
La quotidianità del Dasein di Anna manifesta un’alterazione temporale
che la paziente avverte come “una mancanza di retro-continuità”.17 «È così
difficile per me restare nella realtà. Ogni giorno devo cominciare di nuovo,
completamente di nuovo!» dice la paziente.18 Ciò che è compromesso
non è il vissuto temporale oggettivo, ma la relazione con il passato che la
precede ed è per questo che deve sempre ricominciare. Anna ripropone
ogni volta lo stesso dramma e dice che non ha più nessuna relazione con
le cose, la relazione di prima, per cui ci si sente a proprio agio. È come se si
ritrovasse bruscamente nel bel mezzo di esse. Alla sua ex-sistentia manca
un “a-partire-da”.
Anna colloca questa lacuna nel “pre-temporale” e sottolinea che ciò di cui ha bisogno
sta prima e consiste nella possibilità di stabilire preliminarmente una relazione con quello
15 Ivi, p. 105. 16 Ivi, p. 110. 17 Ibidem. 18 Ivi, p. 112.
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a cui una cosa serve. È per tal motivo che la paziente dice di non saper mai dove
effettivamente cominciare. La paziente lamenta l’assenza di un passato a partire da
cui possa vivere le sue esperienze giorno per giorno. Il fluire del tempo oggettivo è
inalterato, ma questo non sembra colmare il vuoto temporale che la trattiene ai
margini della possibilità di “poter-fare-esperienza”.19 La mancanza di retro-continuità
non le impedisce infatti di percepire e ricordare gli avvenimenti quotidiani, ma le
sottrae le basi per poter diventare soggetto d’esperienza. Nel suo incontro con il
mondo la paziente Anna Rau non può affidarsi a un passato aprioristico che fondi la
continuità temporale del suo Dasein. L’a priori, l’“ogni-volta-già”, che costituisce la
dimensione temporale dei vissuti, è la condizione per cui si possa realizzare l’apertura
alla “totalità dei rimandi” donando significatività ad una situazione.
Anna non riesce a lasciarsi andare perché resta intrappolata nel “pre-temporale”: la
sua vita sembra che non sia mai iniziata, che non abbia trovato un a posteriori da cui
progettarsi. La temporalizzazione dell’essere-nel-mondo risulta così correlata alla
problematica del fondamento biografico del Dasein umano individuale. L’uomo può
aprirsi all’avvenire soltanto se può lasciar essere il passato, e può lasciar essere il
passato solo appoggiandosi a un “già-sempre” che lo congiunge con il “mondo della
vita”.
La costituzione dell’Io
La trasformazione della temporalizzazione del Dasein umano – inteso da Blankenburg
nella sua incapacità di maturare, di crescere, di divenire sede d’esperienza e di
autonomia – rinvia al problema della costituzione dell’Io o del Sé.20
Anna si lamenta della mancanza di una protezione e di un appoggio che le
consentano di affrontare la vita di ogni giorno. La paziente non si sente matura per
sostenere il peso delle azioni quotidiane e dice di “non saper fare (le cose) in maniera
19 Ibidem. 20 Blankenburg sul piano fenomenologico non distingue il Sé dall’Io.
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umana”.21 Durante la sua degenza in reparto riferisce: «Non so che atteggiamento
adottare a proposito di ciò che succede qui. Questo non mi interessa... mi
considerano troppo adulta... in ergoterapia o qui, io proprio non riesco a lavorare in
maniera autonoma. È una tortura! Ho semplicemente bisogno di essere diretta». 22
Anna avverte che “la sicurezza non può più venire da sé”23 e che allora deve rivolgersi
alla presenza dell’altro per ottenere un minimo sollievo. La paziente dice: «Io ho
ancora bisogno di un appoggio, di un essere umano al quale poter credere. Le proprie
opinioni si assumono con la facilità dell’evidenza ecc., e così anche il quotidiano. Io
non posso riuscirci da me. […] La cosa più bella sarebbe essere normale, vale a dire in
accordo con l’evidenza. Ma da sola non ci arrivo... tutto è così poco naturale. Devo
fare talmente tanto da me. Finisco per farlo, ma poi mi sento delusa perché ho
bisogno di una retroguardia (Hinterhalt)».24
Anna si affida alla “maniera d’essere” della madre per ottenere la “retroguardia” che
non riesce a trovare in sé stessa. La vicinanza della madre dovrebbe offrire ad Anna
una “base” e una “direzione” per la sua quotidianità. Il Sé di questi pazienti non dà
un fondamento alle loro motivazioni e al contempo non ha un “ancoraggio nel
mondo della vita”. Nelle enunciazioni di Anna appare chiaro il rapporto
proporzionale tra evidenza e autonomia. A tal proposito Anna dice: «Più cresce
l’evidenza, più... si diventa autonomi». Blankenburg afferma che «si tratta del
rapporto tra la fiducia di base (basic trust) e l’identità dell’Io (Erikson)».25
“L’autonomia si fonda sull’evidenza e nello stesso tempo la oltrepassa”. 26 La
possibilità del Dasein di essere-gettato nella quotidianità è la condizione da cui il
Dasein può scegliere il suo autentico essere-nel-mondo. Nel momento in cui il Dasein
umano non ha una base da cui partire, crolla ogni sua possibilità di apertura all’ex-
sistentia. La funzione progettante dell’Io è quindi subordinata a ciò che trascende in
21 Blankenburg W (1971). La perdita dell’evidenza naturale. Un contributo alla psicopatologia delle schizofrenie pauci-sintomatiche. Ed. it. a cura di Ferro FM, Salerno RM, Di Giannantonio M, pref. di Ballerini A. Milano: Cortina 1998, p. 116. 22 Ibidem. 23 Ivi, p. 117. 24 Ibidem. 25 Ivi, p. 120. 26 Ibidem.
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ogni sua realizzazione mondana.
La questione dell’alterazione “basale” della paziente Anna Rau viene così inserita in
un’ottica dimensionale seguendo il concetto binswangeriano di “proporzione
antropologica”. Binswanger infatti aveva parlato della sproporzione tra “altezza” e
“larghezza” dell’esperire per superare la rigidità del concetto di autismo inteso come
sintomo cardinale delle forme schizofreniche di esistenza.27
La debolezza dell’Io che manifestano i pazienti schizofrenici non è una semplice
insicurezza o inibizione psicologica. Il Sé non viene compromesso nella sua
autostima perché ciò che vacilla è la possibilità stessa di fare-esperienza. In ambito
fenomenologico viene stabilita una differenza tra l’Io trascendentale e l’Io empirico.
Il Sé trascendentale costituisce il fondamento pre-intenzionale dell’attività
progettante del Sé empirico. In pazienti come Anna Rau viene sconvolta la relazione
tra l’Io trascendentale fondante e l’Io empirico fondato. Anna riesce a eseguire i
compiti che le vengono assegnati, ma lamenta un sentimento di delusione per le sue
azioni personali: le manca il “fondamento di legittimazione”. 28 “Malati come A. non
possono lasciarsi essere in quanto soggetti che si fondano e, al contempo, danno
fondamento”.29
I pazienti schizofrenici nelle loro “domande impossibili” non manifestano altro che
la loro incapacità a “essere un metro di misura” per sé stessi e il tentativo di supplire
a questa mancanza attraverso un atto intellettuale. Ciò che Anna Rau si sforza di
ricostruire è il rapporto pre-riflessivo con sé e con il mondo.
«Ci troviamo così alle radici dell’autismo schizofrenico, che possiamo quasi
apprendere in statu nascendi».30 L’autismo, infatti, è già presente nella schizofrenia non
delirante. «L’essenza dell’autismo si fonda nella caratteristica trasformazione del
rapporto tra Io empirico e Io trascendentale. L’autismo fa, in generale, la sua
comparsa là dove l’Io empirico si mette nella condizione di dover assumere il
27 Binswanger L (1956). Tre forme di esistenza mancata. Trad. it. di Filippini E. Milano: SE 1992. 28 Blankenburg W (1971). La perdita dell’evidenza naturale. Un contributo alla psicopatologia delle schizofrenie pauci-sintomatiche. Ed. it. a cura di Ferro FM, Salerno RM, Di Giannantonio M, pref. di Ballerini A. Milano: Cortina 1998, p. 124. 29 Ibidem. 30 Ivi, p. 126.
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compito dell’Io trascendentale e di rendersi garante di un autós, di un sé».31
La costituzione intersoggettiva dell’evidenza naturale
L’evidenza naturale non può essere considerata al di fuori del suo carattere
intersoggettivo. Il mondo in cui l’uomo è gettato, oltre che già dato, è infatti
condiviso con gli altri: il dipanarsi di un co-mondo (Mit-welt) e di un essere-nel-
mondo si delineano sempre come un co-esser-ci (Mit-dasein). L’ancoraggio a un co-
mondo costituisce la condizione preliminare della trascendenza (Über-stieg) del progetto
umano.
Quando la paziente Anna Rau parla della sua difficoltà a incontrare le altre persone
dice: «Come che sia, gli altri mi disarcionano sempre...».32 Con questa espressione
indica la sua inadeguatezza a vivere la reciprocità delle relazioni. E a proposito
dell’avvicinamento degli sguardi, la paziente riferisce: «Non sono mai riuscita a
sostenere lo sguardo altrui. E in che modo! Era una tortura!»33 Il soggetto sano,
invece, oscilla tra il guardare e l’essere-guardato, tra il prendere e l’essere-preso:
questa alternanza costituisce la base per l’“affermazione di sé” e per l’“abbandono di
sé”. La “perdita dello stare” impedisce ad Anna di essere-se-stessa e di andare-verso-
gli-altri. Nella rottura di questa dialettica, la paziente avverte un profondo
turbamento che la fa sentire così poco sicura e piena di amarezza.
In pazienti come Anna la mancanza di un appoggio e il conseguente disorientamento
non vengono mai trasformati in un delirio. Tali pazienti hanno infatti la sufficiente
consapevolezza per ricondurre l’origine del loro disturbo a un evento che sta “prima”
e alla costituzione trascendentale dello “stare insieme”. Nei pazienti paranoidi invece
una spiegazione, seppur delirante, prende il posto dell’originaria “perplessità” e il
turbamento dell’incontro interumano può assumere così una connotazione tale da
venir sostituito dalla pericolosità dell’altro che sia esso un persecutore, un amante
segreto, o ancora un ladro. Anna non viene “disarcionata” da una persona in
particolare o da un suo potenziale ruolo, ma dalla spontaneità con cui gli altri sono
31 Ivi, p. 127. 32 Ivi, p. 130. 33 Ivi, p. 132.
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così per come sono. Lo sguardo delle persone è una fonte dell’evidenza naturale e
per questo risulta inaccessibile e si rivela angosciante poiché si manifesta «alla
coscienza in forma potenziata soltanto la propria mancanza di abitualità sana».34
La perdita di “familiarità” con gli altri risulta collegata allo sradicamento da un co-
mondo, da un mondo costituito intersoggettivamente dove vengono condivisi una
serie di giudizi stabiliti pre-liminarmente e vissuti come già-sempre presenti.
Blankenburg li indica come giudizi del tipo common-sense: la partecipazione a queste
credenze comuni costituisce la base ante-predicativa del progetto individuale. La
paziente Anna sperimenta, invece, una condizione di “estraniazione” (Entfremdung)
alle “regole del gioco”, al “quadro” dove si dispiega l’incontro interumano. Ella cerca
di compensare il suo disturbo “basale” con una iper-riflessività che la trascina da un
interrogativo all’altro. Nonostante i suoi sforzi non riesce a colmare la sua lacuna e a
risolvere i suoi dubbi poiché «l’evidenza dell’evidente [...] non è cosa che il soggetto
possa regolare da sé, solipsisticamente, ma si costituisce intersoggettivamente».35
La questione clinica che anima la psicopatologia dei soggetti schizofrenici pone le
basi per porre una chiara distinzione tra un dubbio “normale” e un dubbio “vitale-
patologico”. 36 Il primo costituisce un’esperienza comune per gli individui sani o
nevrotici, mentre il secondo è caratteristico di un’esistenza in cui vengono a mancare
le strutture basilari della fondamentale dialettica dubbio-adesione nei confronti di una
qualsiasi credenza sociale. La perdita di credenza, mostrata dalla “stravaganza” del
delirio, può nascondere un dubbio ontologico pre-costitutivo di un’intesa con gli altri.
La questione della psicosi non rimanda infatti alla dialettica tra appartenenza e
separazione che riguarda invece la nevrosi.
Il paziente nevrotico può riferirci di sentirsi in bilico nel proprio mondo, un mondo a
cui non sente di aderire in modo autentico. Il nevrotico proietta allora la felicità
sempre in un altro mondo, in un altrove dove presume possa trovare soddisfazione.
La paralisi della scelta del nevrotico concerne allora la difficoltà a conciliare nel
34 Ivi, p. 133. 35 Ivi, p. 138. 36 Valenziano-Gaya L. El delirio paranoide y la razon vital. Arch. Neurobiol. 1961; 115-144 (citato da Blankenburg, 1971).
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proprio progetto esistentivo37 il legame con l’Altro e la realizzazione del proprio
desiderio, ossia sentirsi appartenere al legame senza perdere la propria enunciazione
singolare.38 Il tema dominante della nevrosi si sviluppa sulle fondamenta di un legame
tra soggetto e Altro che mette in luce un conflitto relativo alla realizzazione della
propria autenticità.
Nel caso della psicosi emerge invece in modo eclatante uno sradicamento del
soggetto che non riguarda la dialettica tra appartenenza e separazione, ma la stessa
possibilità di esistere nel proprio mondo prima ancora che si ponga la questione del
desiderio. Se la nevrosi è una patologia del desiderio, la psicosi è una patologia del
fondamento.
I pazienti schizofrenici, in assenza di un “terreno fondante” per un progetto
autentico, sembrano destinati all’oscillazione tra una rigida adesione ai modelli
convenzionali esterni e il ritiro autistico. La capacità di “essere-in-familiarità-con”
non si configura cioè come una meta della maturazione del soggetto, ma come il
presupposto fondamentale di ogni evoluzione individuale.
La paziente Anna Rau fa risalire la sua mancanza di un “modo di sentire” e di un
“modo di pensare” al fallimento di un essere-insieme all’interno di una famiglia e
sottolinea che «ogni uomo è qualche cosa. Ciascun uomo riflette così la maniera in cui
si comporta, il modo in cui è l’ambiente della sua famiglia. Ma ciascuno si mette su
un cammino. Io sono passata a lato di tutto questo...».39 La perdita dell’evidenza naturale,
nelle parole di Anna Rau, risulta strettamente connessa all’esito delle prime relazioni
interumane: l’altro non è solo un ente intramondano, ma è coinvolto nella
costituzione trascendentale dell’essere-nel-mondo.
37 La definizione della coppia concettuale “esistentivo”–“esistenziale” si trova in Heidegger M. (1927). Essere e tempo. Ed. it. a cura di Volpi F sulla versione di Chiodi P. Milano: Longanesi 2005 (1ª ed. it. 1970). 38 Terminio N. La generatività del desiderio. Legami familiari e metodo clinico. Pref. di Pontalti C. Milano: FrancoAngeli 2011. 39 Blankenburg W (1971). La perdita dell’evidenza naturale. Un contributo alla psicopatologia delle schizofrenie pauci-sintomatiche. Ed. it. a cura di Ferro FM, Salerno RM, Di Giannantonio M, pref. di Ballerini A. Milano: Cortina 1998, p. 140.
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Inversione di un’ipotesi
In diversi passaggi del suo testo Blankenburg sottolinea l’opportunità di proseguire la
sua ricerca approfondendo l’intimo legame tra evidenza naturale e incontro con
l’altro. 40 C’è un aspetto dell’argomentazione di Blankenburg rispetto al valore
trascendentale dell’evidenza naturale che rischia di essere fuorviante per lo studio
dello sviluppo evolutivo di questa indispensabile capacità di abitare il common sense.
Riteniamo infatti che ciò che viene collocato al livello ante-predicativo non precede il
delirio. Il problema di Anna Rau, sul piano evolutivo, presuppone che il soggetto
abbia superato lo stadio di un possibile funzionamento delirante. In Anna c’è già una
trama e non è quindi necessario chiamare all’appello nessuna costruzione delirante
della realtà.
Tutto il testo di Blankenburg è invece attraversato dall’ipotesi guida che la perdita
dell’evidenza naturale sia la forma nuda dell’esistenza, ossia una forma d’esistenza che
nel suo essere priva di fondamento precede il momento in cui può instaurarsi il
delirio, che verrebbe ad occupare il posto vuoto del senso rimasto fino ad allora non
accessibile. Il delirio sarebbe quindi un momento successivo alla perdita dell’evidenza
naturale. La costruzione delirante sarebbe un rivestimento che va a coprire la vita
spogliata dal senso.
Casi come quello di Anna Rau mostrano nel suo pieno dipanarsi – purtroppo anche
fino al suicidio – quella esperienza insopportabile che rivela una irrimediabile
“insicurezza ontologica”. 41 La lucida descrizione di pazienti come Anna Rau ci
consentirebbe così di avere accesso a un’esperienza altrimenti coperta dalle gravi
alterazioni psichiche introdotte dalla floridezza dei sintomi positivi della psicosi.
Blankenburg ritiene che l’oggetto del suo studio si situi a livello subapofanico: forse
ciò può sembrare plausibile se consideriamo il vertice semantico dell’osservazione e
quindi pensiamo alla perdita dell’evidenza naturale come il nucleo senza senso su cui
interviene la produzione delirante. Sul piano dello sviluppo evolutivo però ciò che si
40 A tal proposito mi permetto di rimandare a Terminio N. I presupposti evolutivi dell’evidenza naturale. Pref. di Rossi Monti M. Caltanissetta-Roma: Sciascia 2003. 41 Laing RD (1959). L’io diviso. Studio di psichiatria esistenziale. Pref. di Rossi Monti M. Torino: Einaudi 2001.
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realizza nella perdita dell’evidenza naturale si trova invece al di là delle problematiche
di tipo produttivo. In poche parole: il paziente psicotico che delira è meno evoluto di
pazienti come Anna Rau che mostrano invece una seppur minima dialettica tra
evidenza e non-evidenza grazie a cui riescono a mantenere un minimo livello di
funzionamento riflessivo. Il deragliamento del delirio si innesta quindi non sullo
sbilanciamento o sulla rottura della dialettica tra evidenza e non-evidenza, ma si
riferisce a uno stadio dello sviluppo mentale precedente all’instaurarsi di ogni
articolazione dialettica del pensiero. Il delirio non accede mai alla dimensione
dialettica, è una parola che non mira a farsi riconoscere, direbbe lo psicoanalista
Lacan.
La paziente Anna Rau è invece in dialogo, sebbene rimanga comunque esclusa dalla
partecipazione a un mondo condiviso: è nel linguaggio comune, ma è fuori da ogni
discorso che possa fondarla come soggetto d’esperienza.
L’ipotesi alternativa a quella di Blankenburg che qui proponiamo consiste quindi nel
ritenere che se Anna Rau si presenta come un caso senza la ricchezza produttiva della
sintomatologia psicotica, è perché ha comunque raggiunto, sul vettore evolutivo, un
livello minimo di funzionamento riflessivo. Si tratta ad ogni modo di una capacità
riflessiva non compiuta, perché si interroga su questioni esistenziali che non sono di
tipo nevrotico o borderline. Non c’è il dubbio nevrotico sulla scelta relativa al
desiderio e non c’è neanche l’inibizione riflessiva della mente espressa sotto traccia
dal funzionamento borderline.
Nel caso Anna Rau si presenta ad ogni modo una dialettica tra evidenza e non-
evidenza naturale, una dialettica che sebbene costituisca una minima forma di
simbolizzazione non giunge a piena maturazione perché il soggetto rimane privo di
quell’ultimo appiglio che lega senso e corpo. Nella simbolizzazione dell’esistenza che
Anna Rau prova a realizzare rimane quindi ancora forcluso il legame che può
annodare senso e soddisfazione, parola e corpo.
La mancanza di senso che ci riferisce Anna Rau non si manifesta sul piano della
condivisione sociale del senso, ma avviene e disarciona il soggetto nel momento in
cui deve incarnare e soggettivare un proprio senso di esistere. Anna Rau non riesce a
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vivere in prima persona ciò che condivide a livello sociale: capisce come debba
andare il mondo e non ha delle idee di paranoidi rispetto alle intenzioni degli altri, ma
le manca l’accesso al mistero che avvolge quel passaggio dal senso al corpo, un
passaggio che avrebbe fatto del senso un senso incorporato. L’esistenza di Anna Rau
rimane dunque priva di un momento che leghi insieme parola e corpo, consentendo
alla dimensione del significato di umanizzare l’assurdità della vita. Gli altri
rappresentano un enigma non per la loro intenzionalità potenzialmente minacciosa,
ma perché testimoniano la partecipazione all’evidenza naturale. La perdita
dell’evidenza naturale segnala dunque a livello clinico la non-automaticità dell’ovvietà
semantica dell’esistenza: non basta capire – come fa Anna Rau – per saper esistere. È
questo l’insegnamento paradigmatico che ci lasciano casi simili: l’evidenza naturale
non sta a monte ma a valle del processo di maturazione psichica che consente di
sentirsi fondati nell’esistenza. Nell’affermazione che qui enunciamo è ancora
contenuta un’ipotesi di approfondimento della questione clinica su cui Blankenburg
ci ha illuminati, lasciando però ancora aperta la pista evolutiva che conduce al
fallimento del Dasein nella psicosi. Anna Rau cerca nel mondo e in se stessa quel
fondamento di legittimazione che non riuscirà mai a darsi da sola, in modo
autonomo. Si tratta allora di un caso clinico che mostra quanto per ciascun soggetto
sia fondamentale il ruolo dell’Altro nell’iscrizione del proprio Dasein in una trama
esistentiva: c’è qualcosa di piccolo che non possiamo darci da soli, occorre
l’accoglienza dell’Altro per esser-gettati e progettarsi nel mondo della vita.
Bibliografia
Binswanger L (1956). Tre forme di esistenza mancata. Trad. it. di Filippini E. Milano: SE 1992.
Blankenburg W (1971). La perdita dell’evidenza naturale. Un contributo alla psicopatologia delle schizofrenie pauci-sintomatiche. Ed. it. a cura di Ferro FM, Salerno RM, Di Giannantonio M, pref. di Ballerini A. Milano: Cortina 1998.
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Conrad K. Die beginnende Schizophrenie. Stuttgart: Thieme 1958 (citato da Blankenburg 1971).
Heidegger M. (1927). Essere e tempo. Ed. it. a cura di Volpi F sulla versione di Chiodi P. Milano: Longanesi 2005 (1ª ed. it. 1970).
Schneider K (1968). Psicopatologia clinica. Trad. it. di Callieri B. Roma: Fioriti 2004.
Terminio N. La generatività del desiderio. Legami familiari e metodo clinico. Pref. di Pontalti C. Milano: FrancoAngeli 2011.
Valenziano-Gaya L. El delirio paranoide y la razon vital. Arch. Neurobiol. 1961; 115-144 (citato da Blankenburg, 1971).
Terminio N. I presupposti evolutivi dell’evidenza naturale. Pref. di Rossi Monti M. Caltanissetta-Roma: Sciascia 2003. Laing RD (1959). L’io diviso. Studio di psichiatria esistenziale. Pref. di Rossi Monti M. Torino: Einaudi 2001.