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Indice
Edgar Morin e il problema della complessità:
ecologia, etica ed educazione.
Introduzione pag. 3
Capitolo I: Ecologia e complessità
Premessa pag. 16
Paragrafo I.1 Perché l’ecologia? pag. 43
Paragrafo I.2 Dopo l’ecologia: un nuovo discorso sul metodo Paragrafo I.2.1 pag. 58 Paragrafo I.2.2 pag. 79
Paragrafo I.3 Il sapere dopo la complessità pag.100
Capitolo II: Etica ed educazione
Paragrafo II.1 L’etica dell’identità umana pag. 117
Paragrafo II. 2 Pensare ecologicamente: l’educazione nell’era planetaria pag. 136 Conclusioni pag. 154
Appendice pag. 163
Bibliografia pag. 181
Sitografia pag. 186
2
“I filosofi hanno soltanto diversamente
interpretato il mondo
ma si tratta di trasformarlo”. K. Marx
“I debiti economici potranno
dominare i titoli dei quotidiani
ma i debiti ambientali
domineranno il nostro futuro”.
Lester Brown
3
Introduzione
“Mai prima d’ora nella storia dell’umanità, il nostro destino
comune di esseri umani ci obbliga a cercare un nuovo inizio”1. E’
quanto viene affermato nell’ Earth Charter Campaign 2000 in cui si
sostiene altresì che:
ci troviamo a una svolta critica nella storia del Pianeta, in un
momento in cui l’umanità deve scegliere il suo futuro. Man mano che il
mondo diventa sempre più interdipendente e fragile, il futuro riserva allo
stesso tempo grandi pericoli e grandi opportunità. Per progredire dobbiamo 1 Carta della Terra tratta da “Assisi Nature Council”. Un’ iniziativa a livello internazionale ha dato vita a tale Carta che si configura come la sintesi di valori, principi e aspirazioni che riflettono le consultazioni globali condotte durante un lungo periodo. Essa è basata su rigorose analisi scientifiche, leggi internazionali e visioni filosofiche e religiose. Il Presidente dell’Assisi Nature Council, Maria Luisa Cohen, ha fatto parte nella preparazione della Carta della Terra e l’ha introdotta in Italia nel 1999, ad Assisi, con una cerimonia intitolata: “Gli Italiani e la Carta della Terra: un nuovo stile di vita per il Nuovo Millennio”; A new lifestyle for a new Millennium http://www.assisinc.ch/i/programs/programs.html
4
riconoscere che, pur tra tanta straordinaria diversità di culture e forme di
vita, siamo un’unica famiglia umana e un’unica comunità terrestre con un
destino comune. Dobbiamo unirci per costruire una società globale
sostenibile, fondata sul rispetto per la natura, i diritti umani universali, la
giustizia economica e una cultura di pace. Per raggiungere questo obiettivo
è imperativo che noi tutti, popoli della Terra, dichiariamo le nostre
responsabilità reciproche e nei confronti della comunità più grande degli
esseri viventi e delle generazioni future2.
Ai nostri occhi, di cittadini del mondo globale e globalizzato,
niente dovrebbe essere più palese di tali asserzioni; eppure è come se
qualcosa nel nostro modo di analizzare, interpretare, spiegare ci
impedisse di guardare al fondo delle cose, alla verità che il reale ci
mostra e di conseguenza ci rendesse ciechi di fronte all’evidente,
tangibile e consistente stato delle cose.
Non di meno, si constata quotidianamente un’opposizione
constante tra la Natura da una parte e l’Uomo dall’altra; un continuo
oscillare tra necessità e schiavitù, tra spinta all’indipendenza e
impossibilità di non dipendenza da parte dell’uomo nei confronti della
natura, tra una natura considerata minacciosa per gli esseri umani,
quindi inviolabile, e un bisogno perpetuo delle sue risorse per la
sopravvivenza umana, e dunque al suo sfruttamento incontrollato.
2 Carta della Terra, cit.
5
La situazione attuale può essere così schematizzata:
In epoca contemporanea, sul continuum di questa seconda
posizione, in cui l’essere umano si configura come unico dominatore,
l’uomo si considera addirittura estraneo alla natura poiché le
innovazioni tecnologiche degli ultimi 50 anni lo hanno illusoriamente
sollevato dal rango di animale. Senza nulla togliere all’importanza e
alla genialità di scoperte e innovazioni scientifiche di ogni epoca e
genere ciò che in questa sede si vuol portare alla luce è quanto in
verità sia l’ambiente, o meglio la relazione tra habitat e uomo, a
rivestire un ruolo decisivo per ciò che l’uomo, macchina naturalmente
perfetta, è riuscito a porre in essere.
E’ possibile apportare un esempio chiarificatore: l’energia
utilizzata per attivare una qualunque tecnologia o dispositivo
artificiale proviene necessariamente da un substrato naturale; ciò sta a
La minaccia da parte della Natura nei confronti dell’uomo
Si trasforma in sacralità:
l’uomo si integra alla natura, utilizzandola per la sua sopravvivenza
ma rispettandola con devozione.
Si trasforma in dominio: da parte dell’ uomo sulla natura
6
dimostrazione di quanto l’uomo non sia affatto svincolato dalla natura
e dai suoi elementi costitutivi ma piuttosto del fatto che egli ha
modificato i suoi meccanismi di relazione con l’ambiente naturale.
E’ questo un punto d’intersezione fondamentale e
indispensabile per lo sviluppo successivo del discorso qui appena agli
esordi, per alcuni motivi capitali e tra loro strettamente interconnessi:
• si annuncia oggi la necessità di un nuovo sapere, di una nuova
modalità conoscitiva in grado di superare le dicotomie
inaugurate dal pensiero moderno, soprattutto nella figura di
Descartes e che tengono separati soggetto/oggetto,
mente/cervello, natura/uomo.
• si rende altresì necessario ricollocare l’essere umano nell’
ambiente che gli è proprio; così da rendere evidente
l’impossibilità di un’etica, di una politica, di un antropologia, di
una scienza, nel senso più ampio del termine, senza una
indagine delle influenze reciproche e retroagenti di ogni azione
umana.
Soffermandosi sull’aspetto etico, senza aver la pretesa di
isolarlo in un excursus, è da sottolineare quanto sostiene Aldo
Leopold che a tal proposito scrive: “che la Terra sia una comunità
è l’idea fondamentale dell’ ecologia ma che debba essere amata e
rispettata è un’estensione dell’etica”3. Sulla scia delle sue parole è
possibile asserire che la Terra non dovrebbe essere considerata un 3 A. Leopold, Almanacco di un mondo semplice, Red, Como, 1997 , p. 188
7
bene appartenente al genere umano e di cui questi possa abusare
indiscriminatamente quanto piuttosto una comunità alla quale
l’umanità ontologicamente appartiene.
Anche se Platone e Aristotele (attraverso Kant) sono tra i filosofi che
hanno avuto maggiore influenza sulle teorie etiche si riscontrano dei
problemi nei fondamenti dell’etica, sia nei principi essenziali kantiani sia
nel razionalismo aristotelico. L’etica riguarda le scelte che si effettuano
nelle relazioni umane e noi, ora, ci troviamo in una cultura e multi cultura
globale in cui non possiamo evitare il confronto con valori diversi da quelli
occidentali dominanti, borghesi e patriarcali, che abbiamo appreso come
verità incontrovertibili della logica e della realtà dei fatti.
Separare l’etico dal deontico, il privato dal pubblico, l'intra-morale
dall'extra-morale, anche se solo temporaneamente, può distrarci dal vedere
la loro interdipendenza4.
Troppo spesso le categorie dei concetti etici sono astratte e
perciò distanti dalla complessità delle situazioni reali di cui si fa
esperienza.
Qualunque sistema logicamente coerente e privo di contraddizioni
presenta dei problemi di efficacia, poiché, come già ha indicato Gödel nel
suo attacco ai sistemi di logica formale, tali sistemi diventano auto-
giustificanti e circolari. Se l'etica fosse solo un insieme di concetti o
principi, non sapremmo cosa fare nelle situazioni in cui questi principi
vengono in conflitto.
4 cfr. “http://www.minerva.unito.it/Epistemologia&Etica/Articoli1/
EticaEducazione.htm"
8
Anche se i principi di universalizzabilità trascendono i valori
culturali, non siamo in grado di dedurne concetti le cui pratiche o
concezioni si possano valutare come estremamente utili. Il semplice pensare
all'interno di un sistema coerente di idee non ci aiuterà a risolvere le dispute
interculturali. I due grandi comprensivi sistemi etici, l'etica del dovere
kantiana e l'utilitarismo, pongono in modo esasperato l'accento sulla
razionalità umana. In un mondo complesso, sistemi coerenti in
competizione tra loro richiedono una negoziazione continua per i meriti in
competizione di differenti concezioni etiche, che possono a loro volta essere
coerenti con i propri concetti astratti, ma sono incompatibili tra loro. La
sola ragione non consente alla mosca di uscire dalla bottiglia che la
rinchiude5.
Rimane dunque da delineare un terzo punto tra i motivi capitali di
cui sopra si diceva, ovvero:
• si palesa l’esigenza di una nuova educazione, della quale in
questo elaborato per questioni metodologiche verrà presa in
considerazione soprattutto l’aspetto per cui essa si interessa
all’ambiente, come punto d’appoggio archimedeo per una
diversa elevazione dell’uomo: non più padrone indiscusso sulla
natura ma piuttosto motore di un nuovo rapporto col mondo e le
sue risorse, basato in primis sulla cooperazione e
l’inglobamento anziché sullo sfruttamento.
5 “http://www.minerva.unito.it/Epistemologia&Etica/Articoli1/ EticaEducazione.htm”
9
Una delle domande più vive ed attuali poste in essere
nell’ambito dell’etica ambientale, diramazione della filosofia che
considera in modo prettamente specifico i raporti tra uomo e natura,
può essere così proposta: l’umanità tecnologizzata, la civiltà umana è
strutturalmente basata sullo sfruttamento della natura? Il vero
problema da cui l’etica ambientale si sviluppa è, detto in altri termini,
l’uso, o meglio, gli usi della Terra.
La natura come fondamento dell’etica era il punto di vista
originario della filosofia ma nel mondo moderno uomo e natura sono
stati separati. Ciò di cui maggiormente ora si ha bisogno è
un’estensione dei confini del mondo morale in virtù di un dialogo vero
tra ecologia e fenomenologia. Ciò che serve infatti è una coscienza
ecologica che ponga in evidenza la consapevolezza dell’unità
strutturale (e funzionale) del mondo vivente. La questione ambientale
diviene un problema d’interesse peculiarmente etico nel momento in
cui la critica all’antropocentrismo, proprio della tradizione occidentale
(giudaico-cristiana e scientifico-moderna), si fa assoluta: l’esigenza
più impellente è di abbandonare ciò che è “ideologia del dominio
incontrastato sulla natura, che giustifica e razionalizza l’idea che essa
esista solo per l’uomo, per la sua utilità e il suo piacere”6 senza però
per questo dover approdare ad un ecocentrismo radicale, che
considerari la natura come realtà dotata di valore intrinseco. Allo
stesso modo, al centro della riflessione di Aldo Leopold, considerato
come il padre fondatore dell’etica ambientale o comunque il genio
fondatore e che si rifà al paradigma della comunità biotica7, vi è la 6 L. Battaglia, (a cura di ) Filosofia ed ecologia, Abelardo, Roma, 1994, p. 72
7 di Charles Elton, secondo il quale l’ecologia si configura come analisi delle relazioni alimentari tra i viventi: capire la relazione tra piante, erbivori e carnivori
10
presa di coscienza del fatto che non c’è rottura, ma continuità tra
natura e cultura come vi si trova altresì l’affermazione che tutte le
culture non sono altro che un modo specifico di abitare la natura8.
“Alla nostra costituzione fisica- infatti scrive Edgar Morin-
dobbiamo aggiungere il nostro insediamento terreno”9.
Riconsiderazione della posizione attribuita al soggetto umano
dunque e ipotesi di un’etica che sia relazionale prima che utilitaristica
o deontologica, sono gli imperativi a cui guardare per un’analisi del
presente.
E’ da tali presupposti che sorge il bisogno di farsi guidare e
accompagnare lungo la strada da un pensatore del nostro tempo che
più di chiunque altro ha lungimirantemente indagato e mirabilmente
descritto la situazione in cui verte il genere umano, nell’epoca
contemporanea, attraverso uno sguardo che tende costantemente ad
essere il più omnicomprensivo possibile.
Sociologo francese, in primis ma non esclusivamente, Edgar
Morin nasce in Francia nel 1921. Ciò che del suo pensiero più attrae è
al contempo ciò che più inquieta l’intelligentia post-moderna: volontà
dichiarata, l’aspetto che più attira la nostra attenzione delle idee
moriniane è la capacità, ad esse intrinseca, di cogliere la complessa
struttura del reale che ci circonda, spaziando dal microscopico
all’infinitamente grande. Presupposto essenziale di una tale missione,
significa avere la chiave per intendere la struttura globale e le attività delle comunità biotiche. 8 Cfr. articolo: La lezione di Aldo Leopold e le prospettive in Italia dell’etica ambientale, Marco Armandi, in rivista Silvae, http://www3.corpoforestale.it/flex/cm/pages/ServeBLOB.php/L/IT/IDPagina/1021 9 E. Morin, Metodo I. Natura della Natura, Raffaello Cortina, Milano, 2001, p. 7
11
che trova epilogo ma mai fine in ambito etico postulando l’importanza
della responsabilità e della relianza (come verrà esposto nel secondo
capitolo di questa trattazione), è, come poc’anzi si accennava, un
nuovo modo di intendere la natura del soggetto. Ciò che infatti Morin
ipotizza è l’idea di un soggetto vivente (in continuo divenire) o, come
lo definisce Sergio Manghi, un soggetto ecologico10; idea che sta a
significare l’attribuzione della qualità di soggetto a ciascuna creatura
vivente e di cui l’autore parla in questi termini:
ci appare evolutivamente logico che la chiave dell’individuo- soggetto
umano sia nell’individuo-soggetto batterico. Occorre dunque tentare di
legare queste due proposizioni in un anello produttore di conoscenza11.
Con tale concetto si annienta il mito dell’umanesimo moderno
che attribuiva all’uomo, unico ad aver diritto ad essere innalzato al
rango di soggetto, un potere assolutamente manipolatore sui contesti
ambientali, sennonché sociali, di cui è parte. Non solo,
l’ipotesi moriniana sulla soggettività di ogni essere vivente porta la
sfida del rispecchiamento reciproco uomo-natura nel cuore dell’idea
moderna di soggetto; nel cuore della separazione dualistica tra mente e
materia[…]12.
E’ intenzione esplicita di tale trattazione, più specificatamente nei
paragrafi che andranno a comporre il primo capitolo, mostrare la via
percorsa da Morin nella laboriosa costruzione del suo Metodo che
trova nella formulazione di ciò che viene definito “Pensiero 10 S. Manghi, Il soggetto ecologico di Edgar Morin, Erickson, Trento, 2009, p.22
11 E. Morin, Il Metodo VI. Etica, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2005, p.235
12 S. Manghi, Il soggetto ecologico di Edgar Morin, cit. p. 56
12
complesso” il suo scopo cardine. Questo pensiero si configura come
elaborazione di una scienza totale - non totalizzante- dell’uomo e
capace di far comunicare natura e cultura, bios e anthropos. Un
pensiero che si compone di principi esplicatori quali: principio
dialogico, anello ricorsivo, principio ologrammatico, computo, autos
che, pur essendo chiarificatori sono essi stessi inesplicabili cosicché,
pur rappresentando un avanzamento nell’ interpretazione dell’umano,
della vita e del mondo, non annullano l’incompiutezza insita nella
conoscenza umana e rafforzano il mistero intrinseco alla natura
umana.
Come Morin stesso scrive le idee di Metodo e di Pensiero
complesso non sono certo nate dal nulla o all’improvviso; anzi, esse
sono nate e si sono modificate lungo la ricerca da egli condotta e
hanno subito l’influenza di intuizioni che hanno modificato le nozioni
stesse della scienza classica, della fisica moderna, della biologia.
Concezioni che Morin ha saputo cogliere e interpretare appunto in
modo complesso, in quanto le ha integrate nel suo sitema di pensiero
superandole, e che ha attinto dalla cibernetica, dalla sociologia,
dall’antropologia, dalla biologia, dalla politica, dalla cosmologia, dalle
teorie dei sistemi. Quella della multidisciplinareità è un’esigenza che
Morin sostiene aver avuto da sempre ma che viene a svilupparsi in
modo significativo soprattutto dopo la sua esperienza (1969) al Salk
Institute - for Biological Studies-, in California. Per l’autore, questo
fu un periodo di autoformazione e riacculturazione che si unì alle sue
precedenti indagini, condotte soprattutto sulla teoria generale
13
dei Sistemi13, sulle opere di Gregory Bateson, di Heinz von Foerster e
che tendevano alla riformulazione di una dialogica aperta e non
totalizzante rifuggendo altresì il primato della causalità lineare. Tale
esperienza inoltre convinse definitivamente Morin dell’importanza di
riunire gli studi, allora separati, sulle società dei primati e sulle società
umane arcaiche così come quelli tra aspetto biologico e
sociale/culturale dell’umanità.
Il Metodo, che scaturisce dal percorso compiuto, ma mai finito, da
Morin è dunque il risultato di una gestazione e di continuii apporti
dall’esperienza vissuta in prima persona come anche dai più disparati
campi del sapere e conduce, come egli stesso sostiene, a una riforma
dell’educazione oltre che ad una svolta epistemologica.
Ripercorrendo (come sarà fatto nel primo capitolo della tesi) il
cammino tratteggiato nel volume Mon Chemin grazie all’intervista
condotta da Djénane Kareh Tager, si palesa il progetto, mai progettato
definitivamente potremmo dire, di Edgar Morin; un cammino che
riguarda non solo gli interessi conoscitivi ma anche la vita, nelle sue
tragedie e nelle sue gioie, e che, sulle orme di Machado, egli stesso
così commenta: “le chemin se fait marchant”. Questo errare trova
fondamentalmente inizio in ambito antropologico con l’opera
L’Homme et la mort (1951) e lo studio di Morin su Plozevet (ricerca
multidisciplinare di una Comune in Bretagna, e che darà luogo alla
pubblicazione dal titolo La Métamorphose de Plozevet nel 1967; si
tratta di uno dei primi saggi di etnologia sulla Francia contemporanea)
e ci conduce attraverso la fisica, la biologia, la cibernetica a rendere
giustizia al sapere nella sua complessità, intesa non in senso di
13 Cfr. p.36 della presente trattazione
14
complicanza ma anzi di interconnessione e relation; ad un sapere che
non è solo cultura ma anche civilizzazione e che non può essere
considerato tale se, come oggi invece avviene, è frammentario,
separato, specializzato e se non guarda ai molteplici aspetti del reale
nei loro legami, strutturalmente intrinseci e reciprocamente influenti.
Detto in estrema sintesi, l’opera più maestosa (composta di sei
tomi) e oggetto dell’intera trattazione, Il Metodo, raccorda
l’interrogazione dell’umano a quella del mondo fisico e del mondo
vivente per indagare poi, nei volumi successivi le possibilità e i limiti
della conoscenza umana legando antropologia ed epistemologia, le
quali si rinviano una all’altra, nella concatenazione operata da Morin
per approdare infine, nei volumi quinto e sesto, alla trattazione dei
problemi e del destino dell’umanità nell’era planetaria, nella quale
oggi siamo immersi. Scrive infatti Morin, “l’antropo-sociologia ha
bisogno di articolarsi alla scienza della natura e questa articolazione
richiede una riorganizzazione progressiva della struttura del sapere”14.
Oltre a ciò Morin non sottovaluta certo un aspetto di vitale
importanza che troverà spazio, per quanto riguarda questo elaborato
nel secondo capitolo: la necessità, e la sua urgenza, di una riforma
paradigmatica, in seno all’istruzione, in favore di una scienza nuova
in grado di mostrare le connessioni da cui l’uomo dipende e da cui
non può svincolarsi per amore di semplificazione, e che ponga in
essere un diversa conoscenza della conoscenza.
Si verifica perciò un movimento circolare tra causa ed effetto:
l’educazione, che insieme a Morin molti prospettano, non deve
estrapolare l’uomo dal suo ambiente, non deve considerarlo ad esso
14 E. Morin, Metodo I. Natura della natura, cit. p. 21
15
superiore ma anzi una nullità se strappato dal suo contesto originario e
che deve indurre a tenere uniti due campi del sapere da troppo tempo
separati: da un lato l’ambito scientifico/ tecnologico dall’altro
l’ambito umanistico/ letterario.
Nel campo dell’educazione, a mio parere, torna attuale il pensiero
di Maria Montessori (di cui si tratterà in Appendice a questo scritto)
per la sua attenzione all’ambiente, sia fisico che culturale, che
circonda il bambino nei primi anni della sua vita educativa ed
emotiva.
Nell’attuale momento d’instabilità e dubbio nelle metodologie
educative, sembra ineluttabile dedicarsi alla comprensione di tali
fenomeni. E’ altresì certo che la vastità della questione non permette
di spaziare in ogni suo ambito; per questo la presente trattazione
prende ad esempio strettamente le possibilità, e, dove queste si siano
attuate, le realizzazioni fattuali delle potenzialità espresse nell’ambito
dell’educazione ambientale.
Affinché si verifichi l’auspicata riforma paradigmatica, affinché si
sviluppi altresì una virtù ecologica moralmente significativa e ormai
di fondamentale importanza, un’educazione nuova è necessaria ma
per porla in essere bisogna assumere un paradigma di complessità,
quale è quello moriniano, a livello gnoseologico.
Questi due cambiamenti formano un equilibrio dinamico e sono
equiparabilmente essenziali e necessari l’uno all’altro.
16
Capitolo I
Ecologia e complessità
Premessa
E’ inammissibile, o quanto meno riduttivo, imprigionare Edgar
Morin in una definizione univoca di ciò che è la sua personalità e il
suo monumentale lavoro. Partigiano nella Resistenza francese,
sociologo, storico, geografo, appassionato di cinema, microfisica,
ecologia, poesia, politica, enciclopedico 15 come Diderot, di cui egli
assicura di conservare la misteriosa connessione tra le diverse
dimensioni dell’esistenza, ma anche figlio di Montaigne, da cui
sostiene di aver ereditato la lotta permanente contro la maschera della
pseudo-oggettività, in Morin si scorge la piena volontà di creare un
pensiero nuovo, complesso e capace di comprendere e agire nel
mondo contemporaneo. Una tal esigenza si è andata creando nello
15 Questo termine non deve essere inteso in senso accumulativo ma nel suo senso originale di ankhyklios paideia, apprendimento che mette in circolo il sapere
17
spirito di Morin e lo ha via via portato a superare una fase totalitaria
del suo pensiero per approdare ad una fase liberale16, attraverso
diverse tappe alcune delle quali caratterizzate anche da momenti
drammatici. Secondo Girolamo Cotroneo la teoria moriniana della
complessità si presenta come l’esatto contrario delle filosofie
totalizzanti e nasce indissolubilmente legata alla crisi delle certezze
che ha dominato la cultura post - idealista e post – marxista. E’ il ‘900
ad essere caratterizzato dal crollo dei fondamenti stessi del sapere.
Proprio al fondo del suo essere – scrive Cotroneo a proposito di
Morin- si trovano le basi intellettuali, le condizioni primarie del rigetto – e
della negazione dialettica- di tutti i dogmatismi e del pensiero semplice che
impoverisce la realtà, che vieta di cogliere gli infiniti particolari di cui è
composta17.
Mai totale, l’incertezza, sinonimo di dubbio –visto non come
nemesi ma come condizione del sapere-, non si trasforma in nessun
momento, nel vasto corpus delle opere moriniane, né in scetticismo né
in un relativismo radicale, che anzi Morin ripudia; piuttosto diviene
il terreno per demolire delle false certezze.
Oltre ai nomi citati in precedenza bisogna tener conto, per capire
da dove nasce l’insaziabile ricerca di verità di Morin, di altri pensatori
antichi e moderni quali ad esempio Pascal, che dichiarava di ritenere
16 Ispirato anche dall’affermazione di Niels Bohr, fisico e matematico danese che diede contributi essenziali nella comprensione della struttura atomica e nella meccanica quantistica e che sostiene: “ il contrario di una verità profonda è un’altra verità profonda”.
17 E. Morin, G. Cotroneo, G. Gembillo, Un viandante della complessità. Morin filosofo a Messina, Siciliano, Messina, 2003, p. 15
18
impossibile conoscere le parti senza conoscere il tutto, come
conoscere il tutto senza conoscere le parti proprio perché la relazione
tra le parti è generativa, e tener conto della smisurata distanza che lo
separa da Descartes. Sulla scia delle parole riportate
nell’articolo della giornalista Marianna Barone, dedicate a
Morin e pronunciate in occasione della sua insignazione
alla laurea honoris causa in Filosofia presso l’Università
di Messina (Marzo 2002), si può a ragione sostenere che:
con Morin si verifica una svolta metodologica, nel modo di
guardare al mondo di cui siamo parte integrante; un mondo
articolato e intricato, a fronte di quello tradizionale,
mutilante ed astratto, svolta che scaturisce avendo operato
una sintesi originale tra il pensiero di Vico18, di Hegel 19 e 18 Non a caso ne “Il Paradigma perduto” si legge: “il nuovo paradigma (i cui sviluppi vengono qui esposti e chiariti nel primo paragrafo di questo capitolo) dell’antropologia fondamentale richiede una ristrutturazione della configurazione complessiva del sapere. […] Si tratta dunque non soltanto di far nascere la scienza dell’uomo ma di far nascere una nuova concezione della scienza. […] La scienza dell’uomo non va concepita come un edificio da completare ma come una teoria da costruire. La Scienza Nuova, o scienza generale della physis, dovrà stabilire l’articolazione tra la fisica e la vita, […] tra il vivente e l’umano”. E. Morin, Il Paradigma perduto. Che cos’è la natura umana?, Feltrinelli, Milano, 2001, pp. 205, 206
19 del quale Morin parla in questi termini “mi ha insegnato ad affrontare le contraddizione piuttosto che ad eliminarle e mi ha condotto all’idea che il pensiero vivo vive alla temperatura della propria distruzione. Ma la dialettica di Hegel era troppo euforica per me, perché ha sempre una sintesi che permette di superare le contraddizioni : io ho eliminato l’idea che poi la sintesi arriva sempre. Le contraddizioni sono vitali. La mia concezione, più che hegeliana è eraclitea”. E. Morin, G. Cotroneo, G. Gembillo Un viandante della complessità, cit. p 19. Avvicinatosi prima ad Hegel credendo, come egli sosteneva, che “la verità è la totalità” Morin se ne discosta seguendo il principio enunciato da Adorno “la totalità è la non verità” per approdare infine alla presa di coscienza che queste due preposizioni possono in realtà convivere in quanto indicano un’aspirazione alla
19
di Marx da un lato e di Heisemberg20, Prigogine21, Von
Forster22 e Maturana23 dall’altro.
totalità con la consapevolezza che la pretesa di una conoscenza totale è pienamente sbagliata. 20 Ebbe l'idea della meccanica matriciale, la prima formalizzazione della meccanica quantistica, nel 1925. Il suo principio di indeterminazione, introdotto nel 1927 afferma che la misura simultanea di due variabili coniugate, come posizione e quantità di moto oppure energia e tempo, non può essere compiuta senza un'incertezza ineliminabile. 21 Ha elaborato la teoria dei processi irreversibili e la nozione di "strutture dissipative", quali sistemi che si generano, a partire da stati caotici, con dissipazione di energia, in condizione di lontananza dallo stato di equilibrio. La sua teoria delle strutture dissipative è la prima descrizione approfondita di sistemi auto-organizzantesi. Prigogine intuisce che la nascita della vita sulla Terra contraddice il principio dell’entropia e scopre che nei sistemi lontani dall’equilibrio la dissipazione di energia e il caos diventano fonte di nuove strutture ordinate. Tali sistemi sono espressi matematicamente da equazioni non-lineari le quali hanno infinite soluzioni non prevedibili poiché a ogni biforcazione il sistema si trova di fronte a diversi percorsi possibili da imboccare. La nuova alleanza (Prigogine-Stengers, 1979) tra umanesimo e scienze della Natura in nome del loro comune operare nel segno della complessità si presenta come una rottura epistemologica rispetto alla loro tradizionale separazione nella cultura occidentale. Le strutture dissipative sono sistemi chimico-fisici di tipo caotico. Si definiscono caotiche quei sistemi in cui le traiettorie che partono da due punti infinitamente vicini divergono nel corso del tempo in modo esponenziale. In tali sistemi gli errori si propagano in modo non- lineare e non sono possibili previsioni certe poiché cause microscopiche possono provocare effetti macroscopici sulla loro traiettoria di sviluppo, secondo il principio noto come effetto farfalla. È il fisico Edward Lorenz a introdurre nel 1979 il principio noto come “effetto farfalla”. Questo principio, che ha portato allo sviluppo della Teoria del Caos, indica che nei sistemi non lineari piccole variazioni delle condizioni iniziali producono effetti macroscopici non prevedibili nel comportamento successivo a causa della grande sensibilità del sistema agli agenti che lo sollecitano. 22 Ha lavorato nel campo della cosiddetta Seconda Cibernetica (che estende e complessifica la tradizionale prima cibernetica di Norbert Wiener e John von Neumann) ed è stato essenziale per lo sviluppo del costruttivismo radicale: posizione filosofica e epistemologica secondo la quale non è possibile perseguire una rappresentazione oggettiva della realtà poiché il mondo della nostra esperienza, il mondo in cui viviamo, è il risultato della nostra attività costruttrice. La vita è un processo cognitivo: vivere significa conoscere e conoscere significa
20
Analizzando inoltre l’aspetto etico-politico del pensiero di Edgar
Morin si evidenzia come egli sia giunto a una concezione della
complessità, basata in primis sul concetto di unità nell’accezione di
unitas-multiplex (l’uno nel molteplice/ il molteplice nell’uno), in
seguito al superamento di una ideologia politica riduzionista e
semplificante e attraverso il recupero di due idee epistemologiche
fondamentali:
- la relatività della verità e dell’errore
- la complementarità delle posizioni contraddittorie.
Approfondendo poi l’aspetto epistemologico del pensiero di Morin,
in particolar modo il nucleo centrale della svolta che lo ha portato alla
definizione della visione complessa, si manifesta la ridefinizione
radicale dall’autore operata di due concetti sostanziali del paradigma
tradizionale di conoscenza e della loro relazione:
- la nozione di soggetto
- la nozione di oggetto
La redifinizione del soggetto è stata ispirata a Morin […]dalla
constatazione, intorno al 1959, di un atteggiamento mentale che egli stesso
ha tenuto ma che è tipico dell’uomo in generale: […] quando un uomo
vivere. È attraverso il processo cognitivo, che nasce dall’esperienza individuale, che ogni essere vivente genera il proprio mondo. 23 Biologo, cibernetico e scienziato, ha inventato la cosiddetta teoria dell’autopoiesi proseguendo il percorso di Bateson, Wittgenstein, G.B. Vico (per la sua teoria dei Corsi e Ricorsi), Paul Weiss (per la nozione di Autoproduzione). Continua ad elaborare la sua teoria generando evidenza sperimentale che assecondi la tesi secondo cui la realtà è una costruzione consensuale della comunità nel momento in cui appare "oggettivamente" esistere. La nozione di "oggettività" è quindi sostituita da quella di "costruttivismo”.
21
abbraccia un’idea finisce spesso per credere in essa. L’uomo cioè si
trasforma da essere critico e razionale in dogmatico24.
Ciò avviene, sostiene Morin – nell’opera Introduzione al
pensiero complesso-, poiché la ragione porta in sé il suo peggior
nemico ovvero la razionalizzazione, cioè la riduzione a un sistema
coerente di idee della realtà che si pretende di descrivere. La
razionalità presuppone due dialogiche, termine che sta a significare
l'utilizzazione di principi o di argomenti complementari, ma che
potrebbero anche essere concorrenti o antagonisti.
1. La prima dialogica è quella tra il razionale, o meglio tra il
logico, e l'empirico. Da un lato lo spirito umano elabora dei
sistemi di idee logici, che confronta con il mondo
dell'esperienza, ed è necessaria una adeguazione tra il discorso
o il sistema e il mondo empirico o la sfera di esperienza alla
quale si dovrà applicare. Beninteso, se c'è un eccesso di logica e
le strutture logiche non corrispondono al mondo empirico, si
verifica un divorzio tra il logico e l'empirico. Nessuno dei due
ha la supremazia assoluta sull'altro, perché, se un sistema di
idee è perfetto, se ha una grande eleganza logica, e poi si trova
ad essere contraddetto dall'esperienza, bisogna abbandonarlo;
ma se si resta semplicemente al livello dell'esperienza, si ha a
che fare con meri dati o fatti, bisogna abbandonare anche l'idea
di razionalità.
2. L'altra dialogica, è quella tra lo spirito critico e lo spirito di
coerenza. Da un lato la razionalità critica attacca non soltanto i
24 E. Morin, G. Cotroneo, G. Gembillo,Un viandante della complessità, cit. p. 20
22
miti, le religioni, gli dei, ma anche i sistemi di idee, per tentare
di dissolverli; dall'altro c'è la volontà di costruire una visione
coerente delle cose, dei fenomeni e al limite del mondo stesso.
Queste due forze possano essere antagoniste: lo spirito critico
illimitato dissolve tutto, diventa uno scetticismo generalizzato e
inclina al nichilismo, dove non c'è più niente, nessuna certezza,
nessuna possibilità di pensare. Uno spirito di coerenza senza
limiti produce dei sistemi ammirevoli, capaci di spiegare tutto,
ma che sono chiusi in sé, e, al limite, deliranti: è ciò che si
designa col nome di "razionalizzazione".
Tutto ciò può essere così schematizzato:
Due dialogiche della razionalità
Tra logico ed empirico Tra spirito critico e spirito di coerenza
Sistema di idee in sé perfetto
Mera esperienza Scetticismo/nichilismo Razionalizzazione
23
Mentre la razionalità è, anche se non unicamente, unione di
coerenza e logica applicate al reale, la razionalizzazione cerca di
dissolvere l’empiria, di rimuoverla, di respingere ciò che non si
conforma alle regole dettatte da ragione cadendo così nel dogmatismo.
Molto frequentemente, infatti, le idee della ragione diventano a loro
volta miti e superstizioni mettendo in atto una sorta di circolarità con
effetto di retroazione negativa25.
25 A mò di esemplificazione può essere utile riportare l’intervista fatta ad Edgar Morin nel 1991; niente meglio delle sue parole infatti coglie l’aspetto fondamentale della questione, ovvero la differenza abissale e dicotomica tra razionalità e razionalizzazione: “La razionalità occidentale si è ritenuta, specialmente a partire dal XVIII secolo, proprietaria della ragione. Il che vuol dire che considerava arretrati gli uomini di altre civiltà, delle grandi civiltà come la civiltà indù o quella cinese; li considerava arretrati perché non erano arrivati allo stadio del pensiero razionale. E del resto, all'inizio del XX secolo questa concezione è stata teorizzata, in particolare, agli inizi dell'antropologia. L'antropologo francese Lucien Lévy-Bruhl ha elaborato la teoria di quelli che chiamava i "primitivi", espressione, sia detto tra parentesi, impropria perché non ci sono uomini primitivi. I cosiddetti primitivi, che sopravvivevano ancora all'inizio del secolo ( i boscimani del Kalahari, gli aborigeni d'Australia, gli indiani d'Amazzonia, ecc.) erano civiltà di cacciatori-raccoglitori, che avevano accumulato conoscenze e avevano una cultura millenaria, che affonda le sue radici nei primordi dell' homo sapiens, un essere che è apparso 50-60 mila anni fa. Non ci sono primitivi, ma società formate da uomini pluricompetenti, e ciò che c'è di più straordinario in quelle società è la pluricompetenza delle donne in ciò che concerne le piante, le proprietà medicinali delle piante, la preparazione degli alimenti, e la competenza degli uomini riguardo ai luoghi, agli animali, alle loro abitudini, alla loro anatomia, ecc. E inoltre le competenze pratiche: la fabbricazione di archi, frecce, utensili, giocattoli, ecc. Nacque l'idea che per comprendere quei primitivi bisognasse utilizzare le stesse categorie mentali che usiamo per caratterizzare i bambini e i nevrotici. In un certo senso il primitivo era un grande bambino, il cui modo di pensare mistico e magico aveva qualcosa di nevrotico. Ma una cosa evidentemente restava inspiegata in questa concezione, e l'aveva notato Wittgenstein nelle Osservazioni sul "Ramo d'oro" di Frazer dove dice: ma come è possibile che quei primitivi, che passano il loro tempo a fare cerimonie propiziatorie, a disegnare gli animali che poi cacceranno e a trapassarli con frecce immaginarie nelle rocce su cui li disegnano, che siano gli stessi che
24
sanno poi cacciare benissimo con frecce reali e sanno anche fabbricarle? Evidentemente sviluppano delle strategie, dispongono di buone tecniche, hanno una grande razionalità. Il fatto che restava totalmente in ombra nella visione razionalistica dominante è che nelle società cosiddette primitive c'era una grandissima razionalità, ma diffusa, sparsa, mescolata alla magia. Noi stessi, nella nostra società, abbiamo molta magia, molta mitologia mescolata alla razionalità e d'altra parte una razionalità concentrata nelle teorie, nei concetti. Si pensava che quelle società fossero incapaci di qualsiasi forma autentica di saggezza, di conoscenza e non producessero che un coacervo di superstizioni. Questa era la concezione etnocentrica dell'Occidente, che ha diretto e giustificato l'imperialismo e il colonialismo, con il pretesto dei vantaggi che la civilizzazione avrebbe recato a quelle popolazioni considerate arretrate. C'è stata dunque questa terribile malattia della ragione occidentale etnocentrica, una patologia atroce per coloro che l'hanno subita. Come ha potuto l'esperienza del mondo occidentale liberarsi da quella ragione chiusa in sé ed arrogante? C'è voluta la relativa decadenza dell'Europa, la perdita del suo primato mondiale, i processi di decolonizzazione. Questa autocritica comincia con Montaigne, comincia con gli indiani fatti prigionieri dai conquistadores in America. E' allora che si sviluppa la nozione, forse mitologica, del "buon selvaggio", l'idea che la nostra civiltà ha perduto qualcosa e che gli altri hanno qualcosa che noi abbiamo smarrito. Questa utilizzazione dei selvaggi e più tardi del mito dell'uomo di natura da parte di Rousseau è un elemento di critica, di auto-critica della nostra civiltà, ma un elemento di auto-critica ancora impuro, commisto di mitologia. Solo adesso possiamo cominciare a mettere in atto un'autocritica dell'Occidente. Dobbiamo mantenere la capacità di criticare non solo le nostre istituzioni, ma anche le nostre dottrine, le nostre idee. La capacità di auto-critica è uno dei beni, forse il bene più grande di tutta la storia, di tutta l'avventura della razionalità occidentale. Non è un caso che Freud abbia usato il termine di razionalizzazione per designare questa tendenza nevrotica e/o psicotica per cui il soggetto si intrappola in un sistema esplicativo chiuso, privo di qualsiasi rapporto con la realtà, pur se dotato di una logica propria”.
Tratto dall'intervista-lezione Razionalità e complessità, Napoli, Vivarium, 2 Aprile 1991 http://www.emsf.rai.it/articoli/articoli.asp?d=30
25
Per Morin, come nota Giuseppe Gembillo, una volta scoperta la
ragione, l’uomo ha finito per ridurre se stesso, o meglio la propria
facoltà conoscitiva al solo intelletto, trascurando o emarginando
nell’ambito del non conoscitivo, il resto di sé. Tutto ciò si verifica
relegando nell’ambito dell’illusione e dell’opinione la conoscenza
derivante dai sensi, tendenza che da Platone fino ad arrivare a Cartesio
e Kant si è sviluppata sistematicamente.
Vi è poi da tenere in considerazione un’altra riduzione, oltre
all’interna appena enunciata, ovvero quella di tipo esterno: nella
concezione tradizionale l’uomo è visto estraneo, diverso e distaccato
dal mondo in cui vive.
A tutto questo Morin ha voluto contrapporre l’Uomo intero, nel
quale il processo conoscitivo è il risultato della collaborazione e della
interazione tra razionale e immaginario, tra emozione e riflessione, tra
homo sapiens e homo demens. Ha voluto contrapporre l’idea di un
soggetto conoscente che ha una sua storia personale e di specie, che è
figlio del proprio divenire e che, nello stesso tempo è radicato non
solo nel processo storico, ma anche nella natura, di cui è parte
integrante.
A tal fine Morin ha inserito il soggetto all’interno del processo
evolutivo che ha condotto, per prove ed errori, per contrasti e
attraverso varie deviazioni dalla retta via, al configurasi della specie
“uomo”.
Quanto qui messo in evidenza, mostra come l’uomo, a sua
volta, si sia evoluto e si sia organizzato sfruttando e utilizzando,
innanzitutto, il proprio “immaginario” nel creare via via l’idea di vita
26
oltre la morte, di Dio, di famiglia, di società civile, di stato, fino alle
produzioni mentali più astratte ed elaborate.
In questo modo Morin ha nello stesso tempo storicizzato e inteso
in modo complesso il Soggetto conoscente, radicandolo fermamente
all’interno di un contesto e di un processo, nel quale è,
contemporaneamente, produttore e prodotto, creatore e creato, in un
rapporto interattivo il cui vero senso risiede nella reciproca relazione
tra le parti in causa.
Analogo discorso Morin ha fatto per quanto riguarda l’oggetto:
come è noto nella scienza classica l’oggetto è un elemento semplice,
immodificabile, misurabile quantitativamente e formalizzabile in maniera
perfetta. E’ situato in uno spazio-contenitore esterno e in un tempo
qualunque. E’ inoltre determinato da una causa esterna che ne condiziona in
maniera precisa […] il movimento26.
Parafrasando Gembillo si può affermare che Morin, lasciando
emergere l’influenza apportata dagli sviluppi della fisicai, ha operato
una profonda trasformazione di tale concezione mutando l’oggetto
semplice in evento storico e complesso.
Il secondo principio della termodinamica27 ha
dimostrato che tutti gli oggetti sono intrinsecamente
26 E. Morin, G. Cotroneo, G. Gembillo, Un viandante della complessità, cit. p. 23 27 Il primo principio è un principio di conservazione dell'energia. Esso afferma che, poiché l'energia non può essere né creata né distrutta, la somma della quantità di calore ceduta a un sistema e del lavoro compiuto sul medesimo deve essere uguale all'aumento dell'energia interna del sistema stesso. Calore e lavoro sono i mezzi attraverso i quali i sistemi si scambiano energia. In ogni macchina termica una certa quantità di energia viene trasformata in lavoro; non può esistere nessuna macchina che produca lavoro senza consumare energia. Il terzo principio della
27
strutturati in senso temporale; che hanno una loro storia;
che subiscono una degradazione irreversibile; che sono
situati in un contesto-ambiente fuori dal quale, per citare
Vico, “non durano e non permangono”; sono situati in un
ambiente diversificato, che loro stessi contribuiscono a
rendere diverso e particolare, e non quindi in uno spazio
omogeneo.
A tutti i livelli e a tutte le dimensioni l’oggetto della
scienza classica ha una storia, come il soggetto conoscente
e, come questi, è anche estremamente complesso28.
E’ altrettanto vero che dal tentativo di cercare
l’oggetto elementare, come sottolinea lo stesso Morin, è
emersa una conclusione del tutto divergente per cui ogni
oggetto è costituito da parti, è articolato e organizzato. E’
termodinamica afferma che è impossibile raggiungere lo zero assoluto con un numero finito di trasformazioni e fornisce una precisa definizione della grandezza chiamata entropia. L'entropia si può pensare come la misura di quanto un sistema sia vicino allo stato di equilibrio, o in modo equivalente come la misura del grado di disordine di un sistema. Questo terzo principio afferma altresì che l'entropia, cioè il disordine, di un sistema
isolato non può diminuire. Pertanto, quando un sistema isolato raggiunge una configurazione di massima entropia non può subire trasformazioni: ha raggiunto l'equilibrio.
28 Questo discorso vale anche a livello microfisico, dove si è constatata l’ intrinseca instabilità delle particelle elementari; dove si è imparato ad accettare la precarietà delle particelle stesse, che si presentano, addirittura, in forma diversa e opposta. Vale, ancora, a livello della morfologia del nostro pianeta, in relazione al quale dal 1912 abbiamo scoperto che anche la struttura dei contenenti è risultato di una evoluzione storica. Vale, infine, a livello dell’Universo intero, del quale, dal 1929, si è scoperta l’espansione, cioè l’intrinseca storicità.
28
emerso, cioè, che ogni oggetto-evento è un tutto che non
risulta né semplice né mera sommatoria di parti29.
E’ emerso che ciò che conta, in un sistema
organizzato, in un oggetto-evento, non sono le parti prese
singolarmente, ma l’effetto della loro interazione.
In questo senso il tutto è più delle parti che lo
compongono perché le parti di cui è costituito, interagendo
tra di loro, producono appunto qualcosa di nuovo e
imprevedibile, che è, solo ed esclusivamente, il risultato
delle interazioni stesse.
Ma, e questa è una novità, il tutto è anche meno delle
parti perché queste, interagendo, sfruttano soltanto alcune
delle potenzialità che singolarmente possiedono. Dunque il
tutto è articolato, è un sistema e un sistema è un’unità
globale, non elementare.
Oltre al riconoscimento di questa complessità interna
Morin mette in evidenza anche quella esterna, consistente nel
rapporto inscindibile che ogni oggetto ha con l’ambiente entro
il quale è situato. Rileva in proposito che bisogna certo
distinguere ogni oggetto dal proprio contesto, ma che non
bisogna mai disgiungerlo da esso.
Non bisogna disgiungerlo perché ogni oggetto-evento è,
come ha rilevato Prigogine, un “sistema aperto” che scambia
29 cfr. Pascal B., già enunciato p. 13
29
energia per lui vitale con l’esterno e che mantiene il proprio
ordine servendosi del disordine a lui esterno. In questo senso
ordine e disordine sono in rapporto interattivo e
interdipendente. Dunque non dobbiamo più pretendere di
eliminare una volta per tutte il disordine, perché esso alimenta
l’ordine, lo rende possibile, dunque ne è partner essenziale30.
Resta, al fine di concludere tale tematica riguardante
il soggetto e l’oggetto, di analizzare come Morin va a
modificare la concezione, tradizionalista, del loro rapporto,
ma tutt’ora imperante.
Da premessa va sottolineato che il punto di forza della
scienza classica era la pretesa di oggettività, cioè la pretesa
si separare nettamente l’osservatore dall’oggetto da
osservare o per meglio dire, citando Morin: “la scienza
classica era riuscita a neutralizzare questo problema: lo
‘scienziato’ -osservatore/concettualizzatore/sperimentatore-
stava sempre fuori campo, come un fotografo. I limiti della
mente erano soppressi poiché era soppressa la mente”31.
Ma dopo l’enunciazione del principio di
indeterminazione di Heisenberg, dopo le riflessioni sui
30 E. Morin, G. Cotroneo, G. Gembillo, Un viandante della complessità, cit. pp. 25, 26 e cfr. “Il pensiero ecologico” indagato in Capitolo II paragrafo 2
31 E. Morin Il Metodo I, Natura della Natura, Raffaello Cortina, Milano, 2001, p.
98
30
Sistemi di Von Foerster, dopo l’elaborazione del concetto
di autopoiesi di Maturana su menzionati, dopo tutto ciò è
possibile dichiarare che l’illusione dell’oggettività è stata
definitivamente smascherata.
In virtù di questi enunciati possiamo ammettere che,
come ha scritto espressamente Morin,
ogni conoscenza, qualunque essa sia, presuppone una
mente conoscente le cui possibilità e i cui limiti sono quelli del
cervello umano, e il cui substrato logico, linguistico,
informazionale proviene da una cultura, dunque da una società
hic et nunc […]. Vi sono sempre decisione e scelta, il che
introduce nel concetto di sistema la categoria del soggetto. Il
soggetto interviene nella definizione del sistema nei, e tramite
i, suoi interessi, le sue selezioni e le sue finalità; egli arreca
cioè al concetto di sistema, attraverso la sua
sovradeterminazione soggettiva, la sovradeterminazione
culturale, sociale e antropologica. Il concetto di sistema può
essere costruito soltanto nella e dalla transazione
soggetto/oggetto, e non nell’eliminazione dell’uno da parte
dell’altro32.
Dunque, per questa strada sistemica, l’osservatore,
escluso dalla scienza classica, il soggetto, “enucleato e
rimandato una volta nella spazzatura della metafisica, fa il
suo rientro nel cuore stesso della physis”33.
32 E. Morin Il Metodo I, cit. p. 98
33 E. Morin Il Metodo I, cit. pp. 160, 161, 163
31
Si palesa dunque come necessario fondare l’immagine
di una nuova noosfera, una
Scienza Nuova che prenda le distanze dal cartesianesimo
e che sia connotata storicisticamente.
Si tratta di un metodo, nel senso cartesiano, che permette
di “ben condurre la propria ragione e di cercare la verità nelle
scienze”. Ma il dubbio cartesiano era certo di se stesso. Al
contrario, nell’ottica della nuova prospettiva, il nostro dubbio
dubita di se stesso: scopre l’impossibilità di fare tabula rasa ,
poiché le condizioni logiche, linguistiche, culturali del pensiero
sono indubbiamente dei preconcetti. E questo dubbio, che non
può essere assoluto, non può nemmeno essere purificato in
misura assoluta34.
Tornando su argomentazioni di carattere più generale ed
introduttivo è interessante sottolineare che Morin stesso illustra il
cammino da lui percorso fino ad arrivare alla concezione della
complessità e del pensiero complesso: righe autobiografiche
riscontrabili sia nella lectio magistralis tenutasi a Messina sia in
opere quali Il vivo del soggetto, in cui Morin esplicita l’intento di
formulare un atropo-cosmologia, Il paradigma perduto, Il metodo, I
miei demoni. E, rimanendo sempre su un punto di vista preliminare al
discorso che qui va a formarsi, bosogna chiedersi cosa sia la
complessità. A tale interrogazione Fortin risponde scrivendo che
34 E. Morin Il Metodo I, cit. p. 11
32
“la complexité n’est pas la complication. La complexité est beaucoup
plus compliquée (complexe) que ce qui est simple complication”35.
Si può altresì asserire che idiosincrasie innate e preferenze
intrinseche alla personalità di Morin lo hanno reciprocamente
allontanato e spinto ad essere ciò che è e ad impegnarsi in un’impresa
definita a volte impossibile (secondo gli incastri che crea la
razionalità attualmente imperante) e che si delinea in definitiva come
una vera e propria sfida.
Svariati e molteplici fattori hanno di fatto influito in modo
decisivo sul suo modo di pensare moriniano: innanzitutto il contesto
storico. Non va infatti dimenticato che negli anni ’30 e ’40 del 900,
diversamente da altre nazioni europee in cui i totalitarismi
ingabbiavano gli ideali, la Francia, visse momenti antagonisti molto
violenti e conflitti politici la cui conseguenza più ragguardevole fu un
senso di incertezza e l’esigenza di trovare la verità. In secondo luogo,
la formazione universitaria di Morin fu molto singolare: fu infatti
pluridisciplinare (Filosofia, alla quale era integrata Sociologia; Storia,
Scienze politiche e Diritto, al quale era integrata Economia) e da
autodidatta ( soprattutto a causa del suo ingresso, nel 1942, come
Partigiano nella Resistenza francese e di cui già si è detto in
introduzione). Tale formazione rispecchia quell’aspirazione, che in
Morin è costante, alla multidimensionalità e alla transdisciplinareità.
Dopo l’esperienza da Partigiano e dopo essere stato membro del PCF
-Partito Comunista Francese-, dal quale, a causa delle sue posizioni
antistaliniste, fu però poi espulso, questa sua inspirazione alla 35 R. Fortin Penser avec Edgar Morin. Lire La Méthode, Pul, Chronique Sociale, Quebec, Canada, 2008 p.80
33
multidisciplinareità si riversa in primis nell’opera L’uomo e la morte,
scritta tra il 1949 e il 1951. In essa si delinea chiaramente la relazione
tra la morte, come fatto biologico ma anche culturale, letterario,
poetico, mitico, religioso, sociale e l’essere umano che teme la morte
ma al tempo stesso rischia volontariamente di morire ad esempio per
un’idea, per la patria, per difendere qualcuno. Questo argomento trova
molte implicazioni che verranno sviluppate nel corso dell’elaborato,
data la loro importanza.
Nel 1950 Morin entra a far parte del CNR francese Centre
National de la Recherche. In questo periodo, nonostante il suo
interesse principale rigaurdo il cinema, non abbandona né dimentica
nozioni acquisite in precedenza che si riveleranno essenziali nella
costruzione del suo pensiero quale ad esempio, citandone una tra le
più importanti, l’idea di rotatività dialettica (che brevemente può
essere descritta ome ciò grazie a cui il pensiero mai parte da un
singolo punto per approdare ad uno scopo univoco ma percorre
sempre in modo circolare la sua strada logica). Lo studio moriniano
sul cinema si concentra in particolar modo sulla relazione ipnotica che
si viene a creare tra le persone e le immagini cinematografiche e lo
porta a rilevare che vi è il sentimento complesso della vita umana più
al cinema, di fronte ad un film e nel comporlo, che nella realtà
prosaica della vita; il cinema stesso ha un’influenza sul mondo reale.
Inoltre, sostiene Morin, si costituisce negli stessi termini quella che si
può chiamare una dialogica tra produzione e creazione: un film,
soprattutto se di stampo hollywoodiano, è al contempo un prodotto
industriale (cfr. I divi ) il cui unico fine è il profitto, ma anche un’
opera culturale o, in certi casi, un capolavoro culturale.
34
Non va dimenticato che, sempre latente in Morin è l’attività di
autocritica che in più di un’occasione si manifesta. Esempi
significativi ne sono le sue esperienze personali. Ciò che egli
costantemente infatti compie è un’operazione di autocritica,
soprattutto nei riguardi delle proprie convinzioni politiche, e di
autoriflessione (le quali danno origine a due testi: Autocritica nel
1959 e, il già citato, Il vivo del Soggetto nel 1963, composto dopo un
soggiorno in America Latina e il ricovero in ospedale per una grave
malattia in cui Morin esterna la necessità fortemente sentita di
ritrovare il nucleo di verità della sua persona).
L’ambito antropologico, sociale ed etnologico è l’altro aspetto su
cui si focalizza il lavoro di Morin svolto presso il CNR; egli infatti
porta avanti un’ indagine sociologica su una Comune in Bretagna,
zona nord-ovest della Francia. In tale ambito conduce quella ricerca
multidisciplinare (di cui si accennava in Intruduzione) e che darà
luogo alla pubblicazione dal titolo La Métamorphose de Plozevet
(1967). A tale riguardo scrive Edgar Morin:
questo paese aveva tratti singolari, ma per capire ciò che volevo capire,
la modernizzazione e la trasformazione della sua realtà –non solamente
tecnica ed economica ma anche della mentalità delle donne, dei giovani,
dell’uomo-, le vicende di quel luogo dovevano essere integrate nel flusso di
civilizzazione che allo stesso periodo attraversava l’Europa. C’era la
necessità metodologica di non perdere la singolarità ma neanche la
generalità36.
36 E. Morin, G. Cotroneo, G. Gembillo, Un viandante della complessità cit., p. 50
35
Ciò inaugura anche un nuova modalità di studio sociologico, a
causa della quale Morin non verrà ben visto negli ambiti di ricerca
istituzionali; in essi infatti la ricerca è solitamente
costituita da una preindagine e da un questionario che viene applicato
meccanicamente senza nessun impegno personale del ricercatore, mentre io
–prosegue l’autore- penso che si debba utilizzare tanto il dato oggettivo che
la soggettività37
di chi conduce l’analisi.
Negli anni successivi, oltre a mostrare un vivo interesse per le
controculture giovanili (in particolar modo americane e per il Maggio
francese del 1968, riguardo al quale pubblica articoli sul quotidiano
Le Monde), Morin entra a far parte (1968) del Gruppo dei Dieci: un
gruppo di scambio, di contributi e di discussioni formato da Jacques
Robin e costituito principalmente da biologi e cibernetici. In questa
occasione si fa chiara a Morin un’idea che sarà poi fondamentale per
il suo pensiero ovvero quella per cui “la cibernetica, lungi dall’essere
una riduzione semplicistica a schemi meccanicistici costituisce invece
un’introduzione alla complessità”38.
L’anno successivo accade per Morin un avvenimento che può
essere definito come una vera e propria chiave di volta e che lo
condurrà, sebbene non immediatamente, all’ipotesi di pensiero
complesso. E’ infatti il 1969 quando Morin, grazie a Jhon Hunt e
Jacques Monod, viene chiamato in California all’Istituto Salk di
ricerca biologica dove entra in contatto con la General System
37 E. Morin, G. Cotroneo, G. Gembillo, Un viandante della complessità cit., p. 51
38 E. Morin, Il paradigma perduto, cit. p. 10
36
Theory39. Principalmente lì, come descrive lo stesso Morin, il suo
compito era quello di imparare e pensare; gli è stata data, in altre
39 La teoria dei sistemi o sistemica è un'area di studi interdisciplinari che si occupa delle proprietà di un sistema nella sua interezza. Essa fu fondata negli anni 1950 da Ludwig von Bertalanffy, William Ross Ashby ed altri, basandola sui principi dell'ontologia, della filosofia della scienza, della fisica, della geologia, biologia e dell'ingegneria, trovando poi applicazioni e nuove idee in tutte le scienze, tra cui geografia, sociologia, scienze politiche, teoria delle organizzazioni, management, psicoterapia, economia, etica, virtualità, didattica e sistemi intelligenti. La teoria dei sistemi nacque come risposta alle nuove conoscenze che la biologia cominciò a sviluppare nei primi anni del XX secolo e che fecero nascere la scuola di pensiero organicistica che si opponeva a quella meccanicistica, caratteristica del XIX secolo. Uno dei primi esponenti di questo tipo di pensiero fu Ross Harrison che studiò il concetto di organizzazione identificando nella configurazione e nella relazione i due elementi più importanti degli oggetti che compongono un sistema. Uno degli elementi fondamentali dell'organizzazione negli organismi viventi è la sua natura gerarchica, ovvero l'esistenza di più livelli di sistema all'interno di ogni sistema più ampio. Così le cellule si combinano per formare i tessuti, i tessuti per formare gli organi e gli organi per formare gli organismi. A loro volta gli organismi vivono in gruppi formanti sistemi sociali che vanno poi a formare, attraverso l'interazione con altre specie, gli ecosistemi, ultimo livello di organizzazione sistemica secondo il fisico e divulgatore Fritjof Capra. Ciò che risultò subito chiaro fu l'esistenza di diversi livelli di complessità e che ad ogni livello di complessità i fenomeni osservati mostrano proprietà che non esistono al livello inferiore. Nei primi anni Venti il filosofo C. D. Broad coniò per questo tipo di proprietà il termine Proprietà Emergenti. Questo tipo di concezione contraddice il paradigma cartesiano secondo cui il comportamento della totalità può essere compreso completamente studiando le proprietà delle sue parti. La teoria dei sistemi non può dunque conciliare con l'approccio analitico o riduzionistico che aveva caratterizzato il modus operandi degli scienziati fino a quel tempo. Il concetto di sistema si è rapidamente diffuso nell'ingegneria dove certi strumenti interpretativi ad esso connessi possono ritenersi patrimonio consolidato. Particolarmente efficace è la possibilità di ridurre, in sede di analisi, il funzionamento di fenomeni fisici complessi all'interazione di sistemi più semplici e, viceversa, la possibilità di progettare sistemi in maniera strutturata componendo unità più semplici. Scopo della classica Teoria dei Sistemi (TdS) è introdurre, nei principali metodi di studio, dei sistemi dinamici orientati con particolare riferimento alla classe dei sistemi lineari e stazionari, a tempo continuo e a tempo discreto. In Ingegneria la necessità di associare ai fenomeni una loro descrizione quantitativa ha poi dato luogo all'associazione sistema-modello, cuore della Teoria dei Sistemi: questa pertanto ha l'obiettivo di inquadrare in maniera unitaria le relazioni di causa-effetto e fornire degli strumenti di analisi matematica e sintesi ingegneristica.
37
parole, la possibilità di autorieducarsi.
Durante questa esperienza, contrariamente a quanto si possa
immaginare, non accadde una conversione alla biologia del nascente
pensiero moriniano quanto piuttosto una sua riconversione teorica. E’
in tale contesto, e grazie agli enormi passi avanti fatti in campo
biologico (campo in cui, al contrario del determinismo nelle scienze
fisiche e attraverso l’idea di mutazione ed evoluzione, si è introdotta
l’idea di caso; idea che, secondo Morin è di vitale importanza: il
fattore casuale non deve essere eliminato ma anzi integrato nei nostri
sistemi culturali), che sorge il concetto per cui non c’è differenza tra
la materia, la sostanza della vita e la sostanza fisico-chimica: l’unica
differenza che si può scorgere è di organizzazione, ovvero di
complessità dell’organizzazione della vita. Vita che, a livello
organizzativo, costituisce un caso sui generis in quanto si può parlare
di auto-organizzazione (sarà questa una categoria essenziale
nell’evolversi del pensiero moriniano).
Non bisogna dimenticare che molteplici e diverse sono le
correnti di pensiero che implementano l’edificio della Teoria
Generale dei Sistemi come non bisogna tralasciare il fatto che in
quegli stessi anni la problematica ecologica cominciava ad imporsi in
ogni dove.
Una volta tornato a Parigi, segnato dall’ esperienza oltremodo
formativa acquisita al Salk Institute, Morin trae, da due idee
fondamentali allora di recente scoperta, un’ulteriore spinta per la
rimessa in questione dei fondamenti stessi del suo stesso sistema di
pensiero. Tali nozioni sono:
1. L’idea di Von Neumann quale è espressa nella “Teoria
degli automi” che si auto-organizzano, cioè la differenza
38
tra una macchina artificiale e una naturale, viva. Si crea
in tale concezione il paradosso per cui la macchina
artificiale, costituita da componenti più solide e più
affidabili ha meno possibilità di durare di una macchina
naturale sebbene quest’ ultima sia costituita di
componenti (le proteine) molto deboli e che si
disintegrano rapidamente poiché tra le due solo la
macchina vivente è in grado di auto-ripararsi e di auto-
generare le proprie parti costitutive.
2. L’idea detta “order from noise” o “casualità
organizzatrice” del già citato Heinz Von Foerster
secondo cui il disordine (il rumore nel senso della teoria
della dell’informazione) gioca un ruolo nella creazione
dell’organizzazione.
Sempre dopo essere tornato a Parigi, Morin ha creato, con l’aiuto
di importanti figure del panorama culturale di quegli anni, il Centro
Royamount istituito per una Scienza dell’Uomo (prima del 1972
denominato CIEBAF acronimo che sta per Centre International
d’etudés bio-anthropologiques et d’anthropologie fondamentale) e
con l’intento di realizzare concretamente la connessione tra
antropologia e biologia, due cose prima totalmente disgiunte e
separate, un’istituto nel quale possano essere possibili scambi
interdisciplinari tra scienze umane e scienze biologiche. Nel 1972
scaturisce, da colloqui internazionali, incontri, letture, dibattiti e
indagini tra intellettuali e scienziati, il volume Il paradigma perduto
(opera che viene a costituirsi, sebbene non in completa
39
consapevolezza da parte dell’autore, come fase embrionale per il suo
lavoro più vasto, Il Metodo).
Nel pensiero di Morin è altresì forte l’influenza dell’opera di
Norbert Wiener, fondatore della cibernetica, coma anche della
rivalutazione del secondo principio della termodinamica, ovvero
dell’inevitabilità del disordine e, infine dell’idea di Gregory Bateson
sul problema della contraddizione, il cosiddetto double-mind: due
accezioni contraddittorie possono provocare una paralisi o spingere
alla ricerca di una soluzione. (Sulla stessa linea di pensiero Bateson ha
esteso le sue ricerche alla comunicazione animale, ai temi
dell’ecologia e del sacro, per arrivare – con la pubblicazione di Verso
un’ecologia della mente (1972) e Mente e Natura (1979) – a delineare
la trama di una complessa proposta epistemologica volta a ripensare la
Natura in modo sistemico).
Allo stesso modo, le riflessioni sulla scienza di altri eminenti
intellettuali come Heidegger, Husserl, Bachelard, Lakatos, Popper,
Khun portano Morin, oltre che a scrivere diversi testi a tale riguardo
raccolti poi in Scienza con coscienza, a delineare un’ idea centrale nel
suo lavoro e cioè che la definizione di homo sapiens non è sufficiente
a delineare la complessità umana; bisogna pensare in termini di homo
sapiens-demens, categoria che più avanti verrà meglio delineata.
Le esperienze di Morin fin qui tratteggiate, sebbene brevemente,
sono strettamente personali ma confluiscono incessantemente nel suo
lavoro e nel suo sistema di pensiero; così come influiscono ancor di
più nei suoi intenti riformatori e rinnovatori della logica occidentale.
Per quanto concerne quest’ultimo aspetto, in un’intervista di
Francesca Pierantozzi, Morin sostiene che
40
nella realtà ecco quello che succede ancora oggi: l’uomo biologico è
studiato dalla biologia, l’uomo non biologico dalla psicologia oppure dalla
sociologia o l’economia. Il cervello è sistemato nel reparto biologia, il
pensiero e lo spirito nella psicologia. L’uomo è letteralmente squartato.
Per lunghissimo tempo la scienza ha registrato i suoi più grandi
successi grazie al principio della separazione del lavoro e
progressivamente la specializzazione è divenuta eccessivamente
disgregante nel sapere umano tanto è che nel mondo contemporaneo
divisionismo, riduzionismo e semplificazione sembrano essere l’unico
modo di conoscere ed è andata perduta l’attitudine a globalizzare, a
contestualizzare, a tracciare ponti tra i nostri infiniti campi cognitivi.
Occorre altresì trovare un paradigma di congiunzione che permetta di
leggere la totalità degli elementi nel contesto complessivo.
Considerare le discipline come compartimenti stagni può portarci solo
ad un pensiero chiuso che mai potrà aspirare ad essere sistema. La
nostra conoscenza deve essere cosciente di sé stessa e delle
innumerevoli relazioni di ciò che è legato insieme, complesso (nella
valenza di complexus, termine di derivazione latina e che significa
abbracciato, compreso).
Vi è, come si diceva in precedenza, la necessità di una riforma
del pensiero che, nel lavoro di Morin da più di 30 anni or sono, si
configura in definitiva come un principio guida e filo conduttore. Si
cade così, quasi impercettibilmente in un paradosso, anticipato anche
nell’Introduzione, ovvero alla constatazione che per riformare il
pensiero (inteso nel senso di educazione e sapere) bisogna trasformare
l’istruzione, porre in essere una riforma dell’insegnamento. Non
41
sempre in modo evidente, ma la conoscenza in realtà serve per
affrontare la vita e per capire dove andare alla ricerca della verità; in
tutto ciò la didattica ha un ruolo fondamentale, o meglio, una
missione. “La conoscenza fine a sé stessa non serve, deve invece
servire per vivere”: questo il monito di Morin in occasione della sua
lezione “La complessità tra epistemologia e didattica” tenutasi al
Liceo Classico T. Campanella di Reggio Calabria. Si crea una
circolarità tra causa ed effetto inquietante per chi, come oggi accade,
è abituato a ragionare all’interno della casualità lineare in cui si sente
protetto dalle proprie connessioni logicamente rigorose ma limitanti.
All’egemonia del calcolo materiale e mercantile, del
consumismo globale, bisogna opporre il predominio dell’incerto e del
relativo, delle peculiarità della condizione umana, del caos; bisogna
abbandonare in altre parole
la fede nel progresso meccanico della storia e cercare un sviluppo
nella volontà, nella coscienza, nell’intelligenza umana. Insisto -prosegue
Morin- a puntare sull’improbabile perché la rinuncia al migliore dei mondi
possibili non significa rinunciare a un mondo migliore40.
Edgar Morin ha attraversato ogni campo della mappa del
sapere combattendo ogni forma di specialismo disciplinare per
muoversi nella contraddittoria e caotica complessità della realtà in cui
siamo immersi: è quanto enuncia Renato Minore nella sua intervista
40 Intervista di Antonella Marrone, SWIF Sito Italiano per la Filosofia-Il Mattino, 15 Novenbre 2002
42
dal titolo “Per capire il mondo e trasformarlo”; in essa vengono
riportate le splendide parole del filosofo francese che per l’appunto
sostiene: “per pensare localmente e padroneggiare discipline
particolari si deve pensare globalmente, avere la padronanza del
contesto generale. Solo un pensiero che unisce e interconnette, aiuta a
comprendere”.
La condizione propria dell’uomo post-moderno è quella di
essere nomade del sapere, nomade tra le varie discipline e non si deve
dimenticare che un nuovo modo di guardare il reale, cosa che Morin ci
spinge costantemente a fare, significa anche scoprire nuovi modi di
autoeducarci e diverse possibilità di essere cittadini del mondo
nell’era planetaria.
43
Paragrafo I.1
Perché l’ecologia?
Entrando nel pieno merito del discorso che qui va delineandosi,
si scorgono orizzonti prima invisibili ed è possibile rendersi conto
sempre di più di quanto nulla sia separato; di come siano fondamentali
le interconnessioni che legano i vari aspetti qui indagati, cosicché
sembra inammissibile intraprendere un’argomentazione senza
sconfinare in un altra e senza prendere atto delle sue ripercussioni
nell’intera trattazione.
A riprova di ciò basta vedere come Edgar Morin attua quella
che si può definire una sostanziale riabilitazione del contesto
ambientale, come anche dell’oggettività della soggettività, ponendo in
44
esso il soggetto/osservatore, inserendolo cioè all’interno della
situazione spazio/temporale in cui opera.
Si fa necessario qui porre in essere un riferimento ampio ma
essenziale all’ambito ecologico della questione. Questo va visto da
un lato come ponte tra il pensiero complesso e la metodologia che gli
è propria, che poco più avanti verrà delineata nel dettaglio, ed etica
ed educazione dall’altro.
Storicamente il termine ecologia (dal tedesco oekologie a sua
volta derivato dal greco oikos –casa- e logos – studio- letteralmente
sta a significare lo studio della casa) viene proposto per la prima volta
nel 1866, come illustra anche Morin nelle pagine de Il paradigma
perduto, dal biologo tedesco Ernst Heinrich Haeckel41. Nell’idea di 41 E. H. Haeckel (1834- 1919) fu uno dei principali esponenti del darwinismo in Germania, che egli interpretò, e in parte corresse, soprattutto sotto l'influenza della filosofia della natura di Goethe. Il darwinismo rappresentava per Heckel non solo una teoria scientifica e filosofica, ma anche uno strumento di liberazione politica e religiosa. Egli concepì una morfologia strettamente meccanicistica, come parte integrante, con la chimica e la fisica, della scienza della natura: forma, materia e forza. Haeckel pensava a un'unificazione della filosofia con la scienza in un'unica indagine. La legge dell'evoluzione di Darwin fu integrata da Haeckel con la «legge biogenetica fondamentale», secondo la quale l'ontogenesi, cioè lo sviluppo individuale degli embrioni, è una ricapitolazione abbreviata e incompleta della filogenesi, cioè dello sviluppo evolutivo della specie. Scrive: “Tutte e due le serie dell'evoluzione organica, l'ontogenesi, cioè lo sviluppo individuale degli embrioni, è una ricapitolazione abbreviata e incompleta della filogenesi, cioè dello sviluppo evolutivo della specie. Scrive: “Tutte e due le serie dell'evoluzione organica, l'ontogenesi dell'individuo e la filo-genesi della stirpe a cui esso appartiene, stanno fra loro nel più intimo rapporto causale. La storia del germe è un riassunto della storia della stirpe, o, con altre parole, l'ontogenesi è una ricapitolazione della filogenesi.[…] L'ontogenesi ossia lo sviluppo dell'individuo, è una breve e rapida ripetizione (una ricapitolazione) della filogenesi o della evoluzione della .stirpe cui esso appartiene cioè dei precursori che formano la catena dei progenitori del relativo individuo, la quale ripetizione è determinata dalle leggi dell'eredità e dell'adattamento. Questo dato fondamentale è
45
quest’ultimo, l’ecologia doveva essere per la natura quello che
l’economia era per l’uomo.
Più precisamente, l’ecologia è lo studio delle relazioni tra gli
organismi e il loro ambiente. Essa è venuta a formarsi gradualmente
nel tempo ma la sua qualificazione è di recente formulazione: si
distingue infatti dalla biologia e diviene una disciplina dai contorni
delineati solo intorno al 1900, ma un vero e proprio interesse generale
rispetto ai suoi contenuti si manifesta unicamente nel 1968-70 con
l’affacciarsi delle prime crisi ambientali.
Scrive Morin a tale riguardo: “la nuova teoria biologica,
sebbene incompleta, cambia la nozione di Vita. La nuova teoria
ecologica, sebbene embrionale, cambia la nozione di Natura”42.
Per quanto concerne il primo termine della posizione
moriniana, è nel 1953 che la biologia molecolare riesce a compiere
un passo di apertura verso il basso, decisivo per i suoi sviluppi futuri.
Il primo atto della rivoluzione biologica sta esattamente nella
possibilità di indagare le strutture fisico-chimiche, grazie alla
dimostrazione della sussistenza esclusiva di Sistemi viventi e non di
la più importante legge generale dell'evoluzione organica, la legge fondamentale biogenetica”.
E. Haeckel, Storia della creazione naturale, UTET , Torino, 1982, pp. 178-179
42 E. Morin, Il Paradigma perduto, cit. p. 23
46
una Materia vivente: ovvero di un’organizzazione particolare della
materia.
Grazie poi all’unione di tale idea e i concetti, prima
sconosciuti, di carattere cibernetico (in primis: l’identificazione della
cellula con una macchina autocontrollata da un codice informazionale)
e organizzazionale in chimica (nozioni come, messaggio, programma,
codice, espressione ed altre ancora, che si pensavano peculiari solo
delle relazioni umane e inscindibili dalla complessità psico-sociale ),
si è verificato un vero e proprio salto epistemologico in rapporto alla
scienza classica in virtù del quale, l’apertura verso il basso di cui in
precedenza si diceva si rivela essere anche un’ apertura verso l’alto:
non è avvenuto ciò che si temeva, ovvero la riduzione dei fenomeni
viventi a meri fenomeni psico-fisici.
Nonostante ciò, la preoccupazione ecologica restava – al tempo- la
minore nell’insieme delle discipline naturali e l’ambiente era concepito
essenzialmente come un modello geo-climatico ora formativo
(lamarckiano), ora selettivo (darwiniano) in seno al quale le specie vivono
in un disordine generalizzato e dove non regna che una sola legge, quella
del più forte o del più idoneo. La scienza ecologica non è arrivata che in
tempi molto recenti a concepire che la comunità degli esseri viventi
(biocenosi) in uno spazio –meglio definito come nicchia geo-fisica
(biotopo) - dà luogo, insieme a questo, a un’unità globale o ecosistema.
Sistema perché l’insieme di costrizioni, di interazioni, di interdipendenze,
in seno a una nicchia ecologica, costituisce, a dispetto e attraverso il caso e
l’incertezza, un’autorganizzazione spontanea43.
Scrive infatti Fortin : 43 E. Morin, Il Paradigma perduto, cit. pp. 27, 28
47
l’écologie n’est pas seulement la science des déterminations et
influences physiques issues du biotope; elle n’est pas seulement des
interactions entre les divers et innombrables vivants constituent la
biocénose: elle est la science des interactions combinatoires/organisatrices
entra chacun et tous les constituants physiques et vivants des éco-
systèmes44.
Va altresì puntualizzato che l’origine dell’ecologia come
disciplina risale proprio alla scoperta che “gli organismi e le
popolazioni non sono messi insieme a caso ma, al contrario, sono
organizzati in comunità o associazioni, la cui struttura e funzione non
possono essere comprese esaminando isolatamente le loro parti”45.
Non è possibile allora studiare la Natura - descritta dagli
scienziati del Seicento come un meccanismo dal funzionamento
ordinato e controllabile - mediante il classico e riduttivo approccio
analitico, proprio in conseguenza del fatto che la biologia ha svelato
una sua caratteristica peculiare incontrovertibile: la Natura è in realtà
un organismo autopoietico, costituito da relazioni complesse e
attraversato da dinamiche caotiche. La biologia svela altresì che la
Natura non ci mostra mattoni isolati ma appare come una trama
complessa e retificata di relazioni fra le varie parti di un tutto
unificato poiché è strutturata su differenti livelli di complessità46.
44 E. Morin, La Méthode 2, La Vie de la vie, Le Seuil, Paris, l980, trad. it. Il metodo 2, La vita della vita, Feltrinelli, Milano, 1987, p. 17
45 Goldsmith E., Ecologia della salute, della disoccupazione e della guerra, ovvero: la grande inversione dell'economia e dello stile di vita, Muzzio, Padova, 1994, p. 11
46 Ciò comporta del resto che a ogni livello superiore si riscontrino proprietà inesistenti al livello inferiore delle unità componenti e per questo denominate
48
Come cittadini nell’era globale sappiamo che il futuro non si può più
immaginare in base a un sistema interpretativo lineare e sappiamo che
l’approccio più fruttuoso e credibile è quello della complessità, per cui ogni
elemento del sistema è collegato a ogni altro, anche in modi che non si
notano a prima vista. Non per nulla, la parola ecosistema viene usata
sempre più spesso al posto di sistema: quest’ultimo concetto era stato
segnato dalla modellistica basata sui sistemi di equazioni lineari, mentre
l’ecosistema riesce, per analogia a quanto abbiamo assorbito del
funzionamento dell’ambiente naturale, a evocare la complessità47.
Una serie di intuizioni, quelle fin qui descritte, che conducono,
confluendovi, alla nascita del paradigma ecologico (sistemico) il
quale, identificando il tutto come qualcosa di diverso dalla semplice
somma delle parti –come si accennava anche nella premessa del
presente capitolo attraverso le parole pascaliane-, esamina la realtà
senza tralasciarne le interconnessioni e gli orditi; con l’ulteriore
consapevolezza che il soggetto, con le propri pre-comprensioni e
ipotesi, inquina sempre il campo che indaga.
L’ecologia inoltre si costituisce come disciplina autonoma
proprio in seguito alla scoperta che gli organismi vivono in comunità
organizzate e intessono tra loro e con il loro ambiente fitte e
“proprietà emergenti” (cfr. p. 36 della presente trattazione). La complessità può essere definita come l’insieme di proprietà emergenti derivanti dalle relazioni biotiche, abiotiche, fisiche, chimiche e sociali, che influenzano o sono modificate dagli organismi, uomo compreso: è dunque indispensabile, anche sotto questo punto di vista, un approccio multidisciplinare.
47 De Biase L., il Sole 24 Ore, 20 Novembre 2008, p.9
49
importanti relazioni così da dare vita a un ecosistema: una comunità
costituita dagli organismi, dal loro ambiente di vita e dal loro continuo
interagire. Al contempo l’ecologia fornisce al nascente pensiero
sistemico i concetti di comunità e di rete
attraverso la visione di una comunità ecologica come unione di
organismi, legati in un tutto funzionante dalle loro relazioni reciproche.
La concezione dei sistemi viventi come reti fornisce una prospettiva
insolita sulle cosiddette «gerarchie» in Natura. Poiché a ogni livello i
sistemi viventi sono reti, dobbiamo visualizzare la trama della vita come sistemi viventi (reti) che interagiscono in una struttura a rete con altri
sistemi”.48
Per la complessità e l’estensione dei suoi oggetti, l’ecologia,
non può configurarsi come uno studio parcellizzato: anzi, sua
caratteristica peculiare è quella di essere una scienza trans-disciplinare
capace di accogliere e raccogliere differenti contributi scientifici; di
coordinarli per comprendere la particolare natura dei processi gaiani.
Non accidentalmente Goldsmith sostiene che l’ecologia non è una
scienza fredda e distaccata bensì emozionale; l’ecologia è una fede.
Il pensiero, soffermandosi e riflettendo, trova analogia con
molti altri ambiti del sapere contemporaneo e sente di doversi
rivolgere in primis a Gregory Bateson che dell’ecologia della mente
ha fatto, oltre che il tema di un suo volume, un strumento formidabile
(sistemico appunto) di indagine della malattia mentale. Egli scrive: 48 F. Capra,. La rete della vita, Nuova visione della natura e della scienza, Rizzoli BUR, 2001, pp. 46, 47. Fritjof Capra si dedica dal 1995 a sviluppare programmi pedagogici volti a riconnettere i bambini al mondo naturale ed ha fondato, per questo intento, un centro per l’ “Ecoalfabetizzazione” in California.
50
“se volete comprendere il processo mentale, guardate l’evoluzione
biologica e viceversa, se volete comprendere l’evoluzione biologica,
guardate il processo mentale”49.
Un’ecologia della mente, quella di Bateson, che si mostra come
sapere sistemico anche soprattutto quando indaga l’intersezione della
mente umana e (presumibilmente) della sua volontà con l’ambiente
che la circonda; da ciò scaturisce il concetto di errore epistemologico:
la mente è stata addestrata ( o determinata per via genotipica –come
sostiene Bateson-) e mostra cose che nella realtà non sono come
appaiono, tutto ciò senza intervento della volontà e della coscienza.
Soffermandosi ancora sulla categoria di sistema, data la sua
importanza, si può sostenere che pure il mondo moderno può essere
visto come un sistema, cioè, detto in termini scientifici, un insieme di
elementi tra di loro collegati tramite flussi di energia ed informazione.
Un sistema, proseguendo con una terminologia biologica, origina un’
entità organica, globale ed organizzata. E quello che si può definire
un paradigma di complessità ha dunque lo scopo di capire il
funzionamento di un mondo tale, fatto di fitte relazioni fra ambiti
economici, sociali, culturali ed ambientali; aiutando così l’Uomo nel
suo percorso di adattamento piuttosto che supportandolo nello
sfruttamento dell’ambiente.
Basti pensare alle ricadute in ambito etico della maggior parte
delle scoperte scientifiche; o al fatto che, di fronte alla nuova
immagine della Natura come tutto unificato, dove ogni parte agisce e
49 G. Bateson, Mente e Natura. Un’unità necessaria, Adelphi, Milano, 1993, p. 290
51
retroagisce con le altre, ma anche di fronte ai problemi ambientali,
all’incertezza delle conoscenze umane e all’imprevedibilità dei
fenomeni naturali, sono emerse nuove visioni filosofiche che
ripensano allo stile di vita occidentale e alle idee che lo supportano,
riflettono sull’Uomo e sulla sua natura heideggeriana di essere-nel-
mondo.
L’evoluzionismo darwiniano ha dal canto mutato l’idea del
progresso come avanzamento necessario della storia verso una meta
desiderabile, riducendolo a una successione interminabile e senza
scopo priva di significati metafisici. La modernità e la razionalità
scientifica vengono giustamente accusate di portare a una “nuova
barbarie”50 che si evidenzia in una specializzazione, in
un’iperspecializzazione e in una forte frammentazione del sapere il
quale diventa esoterico, comunicabile solo fra esperti.
Scrive Fortin: si nous voulons sortir de la préhistoire et de l’ère
barbare des idées (religions, doctrines, idéologies réductrices et mutilantes),
nous devons civiliser les idées; apprendre a vivre avec nos mythes et nos
idées, trasformer la relation d’asservissement/parasitisme en relation
symbiotique51.
La reazione in ambito epistemologico porta a rivedere l’idea di
progresso e ad affermare che avanzare non corrisponde
necessariamente a migliorare poiché il concetto di “migliore” non è un
50 Questi i trermini di cui fa uso Morin; in linea con il pensiero della Scuola di Francoforte, secondo la quale l’eccesso di razionalizzazione presente nella società moderna ha condotto l’umanità a una nuova barbarie, il cui culmine è rappresentato dalle guerre mondiali e dall’olocausto.
51 R. Fortin, Penser avec Morin, cit., p 135
52
valore assoluto. Detto in altre parole, parafrasando Pier Paolo
Pasolini, il progresso non sempre è sinonimo di sviluppo.
Un altro fattore importante, che confluisce nell’esigenza di un
cambiamento paradigmatico, è l’idea per cui il mondo fisico tende
apparentemente alla decadenza e il mondo biologico tende al
progresso.
Mi sono chiesto –scrive Morin- in che modo questi due principi
possano essere le due facce della stessa realtà. Mi sono chiesto come
associare tra loro i due principi, il che ha posto dei problemi di logica e di
paradigma52.
Infine dunque emerge un nuovo concetto di Ambiente, che non
connota solo ed esclusivamente la Natura ma un tutto polisemico, un
“sistema di sistemi” di cui l’Uomo è solo una piccola parte che si
trova all’avventura della vita perché “il ramo di un ramo degli
antropoidi si è trovato proiettato, per fortuna o per sfortuna, nella
nuova avventura dell’ominizzazione”53.
Ciò che in tutto questo deve cadere e che la società deve perdere
è la distinzione jungiana tra pleroma (il mondo delle scienze fisiche) e
creatura (il mondo della comunicazione e dell’organizzazione); è il
paradigma del mito umanista secondo cui la dicotomia tra cultura e
natura è imprescindibile e in virtù del quale, prima delle grandiose
modifiche apportate dalla rivoluzione biologica e dalla cibernetica
52 E. Morin, Introduzione pensiero complesso. Gli strumenti per affrontare la sfida della complessità, Sperling & Kupfer, Milano, 1993, p. 101
53 E. Morin, Introduzione pensiero complesso, cit. p. 58
53
soprattutto, “sembrava che il mondo fosse costituito di tre strati
sovrapposti non comunicanti:
1. uomo-cultura
2. vita-natura
3. fisica-chimica
e a causa del quale sembrava che l’uomo ignorasse la vita”54.
Ciò che dunque deve venir meno, se veramente si vuol
conoscere, “non è la nozione di uomo ma una nozione insulare di
uomo”55, distinto dal Tutto. D’altro canto, è l’archetipo stesso della
chiusura tra i regni del sapere in favore di una loro saldatura
epistemologica a dovere essere scardinato.
Infatti “la conoscenza pertinente è quella capace di collocare
ogni informazione nel proprio contesto e se possibile nell’insieme in
cui si inscrive. […] La conoscenza è tale solo in quanto
organizzazione, messa in relazione e in contesto delle relazioni”56.
Deduzione logica a tali presupposti porta direttamente ad
esplorare le argomentazioni esposte da Morin nel suo lavoro più
indicativo: Il Metodo.
Il faut vraiment lire l’ensamble de la Méthode comme un multi-
démarche en chaìne qui, d’articulation en articulation cherche faire
54 E. Morin, Introduzione pensiero complesso, cit. p. 21
55 E. Morin, Il Paradigma perduto, cit, p. 191
56 E. Morin, La tète bien faite, Seuil, Paris, 1999, trad. it. La testa ben fatta,
Cortina, Milano, 2000, pp. 8-9
54
communiquer les grandes sphères du savoir : physis, bios et anthropos.
Chaque tome se boucle sur le suivant qui se boucle sur le précédent. […] La
Méthode est un mouvement spiral qui traverse et explore différents
territoires en traversant et explorant différents savoirs pour faire
communiquer ce qui ne communique pas mais devrait communiquer. […]
Cette méthode, si elle se formuler, elle ne pourra se formuler qu’à la fin, car
la méthode est chemin, chemin non pas tracé à l’avance, mais chemin qui se
fait en marchant57.
Questa la descrizione dell’opera magna di Edgar Morin
dedicatagli da Fortin; genericamente e in modo sommario questa può
essere suddivisa in tre ambiti:
• Tomo I e II: l’idea della complessità (e dunque
dell’organizzazione) viene applicata all’organizzazione fisica,
vivente e sociale. Si ha un primo compimento fisico-bio-
antopo-sociologico e il riconoscimento della complessità ad un
quadruplo livello: fisico, biologico, umano e sociale (Cfr.
Paragrafo I.2, Prima e Seconda parte)
• Tomo III e IV: l’idea della complessità viene applicata alla
conoscenza e alle idee. Si ha il compimento epistemologico che
ritorna nei feedback58 sul compimento precedente.
57 R. Fortin, Penser avec Morin, cit., pp. 80-81
58 La retroazione o feedback loop (anello di retroazione) oltre a costituire la differenza tra organismi viventi e macchine “è una disposizione circolare di elementi connessi causalmente, in cui la causa iniziale si propaga lungo le connessioni dell’anello così che ogni elemento agisce sul successivo, finché l’ultimo propaga di nuovo l’effetto al primo elemento del ciclo […] il che dà come risultato l’autoregolazione dell’intero sistema”. F. Capra, La rete della vita, cit., p. 69
55
Riconoscimento della complessità della conoscenza e delle
Idee a livello nooologico. (Cfr. Paragrafo I.3)
• Tomo V e VI: l’idea della complessità viene applicata
all’essere umano, alla società e all’etica. Ugualmente a quanto
avviene nei tomi precedenti, vi è il compimento atropo-socio-
politico-etico che ritorna (loop) sui compimenti antecedenti.
Riconoscimento della complessità ad un altro quadruplo
livello: umano, sociale, politico ed etico (Cfr. capitolo II
Paragrafo 1).
Un metodo è certo sempre un criterio con il quale si affrontano
le questioni ma, in Morin, esso è qualcosa di più, forse proprio perché
incompiuto e mai delimitabile del tutto. Come egli stesso sottolinea il
termine metodo non significa affatto metodologia.
Le metodologie sono delle guide a priori che programmano le
ricerche, mentre il metodo che viene elaborandosi nel nostro cammino sarà
un aiuto alla strategia (che comprenderà utilmente, certo, dei segmenti
programmati, cioè “metodologici”, ma comporterà necessariamente un
margine di scoperta e innovazione)59.
Dato il carattere quasi inattuabile della missione che si
prefigge, Morin apporta una breve ma decisiva giustificazione dei
suoi intenti riformatori sostenendo quanto segue:
59 E. Morin, Il metodo 3. La conoscenza della conoscenza, Feltrinelli, Milano,
1993, p. 33
56
so che è impossibile sul piano della completezza e della compiutezza
ma io, personalmente, non posso accettare le degradazioni e le devastazioni
provocate dalla suddivisione per compartimenti e dalla specializzazione
della conoscenza60.
La differenza è un’idea; poiché tale, può essere rivista e
modificata.
60 E. Morin, Introduzione al pensiero complesso, cit. p. 101
57
“Camminante, non c’è alcuna via.
Ogni via si fa camminando”.
Antonio Machado
“L’adeguatezza del metodo analitico è inversamente proporzionale
alla complessità studiata”.
Woçjciechowski
58
Paragrafo I.2
Dopo l’ecologia: un nuovo discorso sul metodo
Paragrafo I.2.1
Per quanto impossibile sia la missione prefissatasi da Morin lo è
ancor di più, come egli sostiene, rinunciarvi.
Ne “La Méthode”, come si diceva opera maggiore di Edgar
Morin il cui completamento è emerso dopo 3761 anni di lavoro e
costituita di sei tomi, vengono magistralmente affrontate le difficoltà
di pensare la complessità del reale e viene altresì illustrata la genesi
del pensiero complesso come unico capace di comprendere la realtà
mutevole e intrinsecamente non semplificabile. Quello che viene a
costituirsi è un metodo di certo esposto ai rischi dell’incertezza ma
che non pretende sicuramente di concepire teorie unitarie, se con tale
61
1977, La Nature de la nature 1980, La Vie de la vie 1986, La Connaissance de la connaissance 1991, Les Idées 2001, L’Humanité de l’humanité 2004, L'Éthique complexe
59
aggettivazione si intendono teorie astratte, semplificanti, ideologiche.
Un metodo che tende a collegare ciò che è disgiunto e ad articolare
ciò che è separato. Un metodo che altresì rivela e non nasconde i
legami, le solidarietà, le implicazioni, le connessioni, le
interdipendenze, le complessità.
Ripercorrere La Mèthode a grandi linee, data la voluminosità
molto corposa dell’opera, è lo scopo principale di questa parte della
trattazione che, nel conseguirlo, prende le mosse dal lavoro di Robin
Fortin. Egli, nel volume Penser avec Morin, metaforicamente
parlando ci porta a seguire il percorso tracciato appunto da Morin
nella costituzione in itinere del suo metodo.
Per questioni d’ordine metodologico e logico, l’indagine qui
perseguita prende le mosse dal testo La Natura della natura in cui è
possibile scorgere in primo luogo il passaggio da una scienza centrata
sull’essere a una scienza orientata al divenire.
La fisica classica, i cui concetti non possono essere considerati
antropomorfi quanto piuttosto antropocentrici perché permettono il
dominio dell’uomo sulla natura, ebbe un’ammirevole ambizione:
isolare i fenomeni, le loro cause e i loro effetti, sperimentare
manipolando, per strappare alla natura i suoi segreti fino a giungere
paradossalmente a considerare la manipolazione stessa uno scopo, per
di più utilitaristico. In altre parole,
la fisica –moderna- occidentale non ha soltanto disincantato l’universo,
lo ha desolato – un universo sbriciolato che oggi è in crisi-. La riduzione e
la semplificazione, necessarie alle analisi, sono divenute i motori
60
fondamentali della ricerca e della spiegazione, occultando tutto ciò che non
era semplificabile, cioè tutto ciò che è disordine e organizzazione62.
E – scrive Morin- “noi siamo eredi di questo pensiero dissociante.
Di più, abbiamo messo nel dimenticatoio Hybris e Kaos
(disintegrazione organizzatrice)”63.
Il problema fondamentale è allora quello di ristabilire e di indagare
ciò che nella dissociazione è andato perduto: la relazione, secondo
Morin permanente e simultanea, in tutti i campi del sapere e
soprattutto tra individuo/società/specie. Una saldatura empirica,
questa, necessaria affinché l’individuo (inteso in senso ampio: Uomo)
venga considerato come facente parte di un concetto trinitario in cui
non si può subordinare né ridurre un termine a un altro.
Come supportare una tale esigenza? Teoria dell’organizzazione e
principio di spiegazione complesso sono la risposta, non certo facile e
sommaria, ad una tale necessità e costituiscono anche i fondamenti
del pensiero moriniano.
La conoscenza complessa non può essere operazionale né tanto
meno manipolatrice cosa che invece è caratteristica propria della
scienza classica. Sostiene infatti Morin:
l’operazionalità della scienza classica è di fatto un’operazionalità di
manipolazione. Dal XVII secolo ai giorni nostri si è costituito un anello
prussico in cui la verifica sperimentale è al servizio della manipolazione in
62 E. Morin Il Metodo I, cit., p. 425, 426
63 E. Morin Il Metodo I, cit., p 61
61
quanto la manipolazione è al servizio della verifica; o, visto
schematicamente:
manipolazione sperimentazione
(tecnica) verifica
verità 64
Il concetto di organizzazione, di cui si è parlato in
precedenza per esplorarne la genesi, introduce una dimensione
fisica alle radici della vita e del sistema65 atropo-sociale; entrambi
questi due ultimi ambiti devono essere intesi come sviluppi
trasformatori dell’organizzazione fisica. Ergo, bisogna ancorare
non solo l’antropo-sociologia alla biologia ma entrambe queste alla
fisica:
64 E. Morin Il Metodo I, cit., p. 69 65 « Un système est une unité globale, non élémentaire, puisqu’ il est constitué de parties diverses interrelationnées. C’est une unité originale, non originelle: il dispose de qualités propres et irréductibles, mais il doit être produit, construit, organisé. C ‘est une unité individuelle, non indivisible […]; une unité hégémonique, non homogène […] ». Fortin R, Penser avec Morin, cit.,p. 105
62
Biologia Fisica
Antropo-sociologia
A prima vista circolo vizioso, questa è una relazione circolare
che esprime l’idea secondo cui una scienza dell’uomo postula una
scienza della natura la quale a sua volta richiede una scienza
dell’uomo, viene in realtà a configurarsi come circolo virtuoso
(riflessivo e generatore di un pensiero complesso).
La scienza classica –scrive Morin- non aveva a che fare con un caos
originario, in un universo eternamente e sostanzialmente ordinato. Essa
aveva anche, all’inizio del XX secolo, dissolta l’idea di cosmo […]. Ora,
l’astronomia posteriore a Hubble66 ha esplicitamente rigenerato l’idea di
cosmo mostrando che l’Universo era singolare e originale riabilitando così
anche l’idea di Caos. Esso è sinonimo di distruzione e confusione ma
soprattutto di indistinzione, che di certo precede quella di separazione e
distinzione67.
66 E. P. Hubble (1889 – 1953) astronomo e astrofisico statunitense. La legge empirica di Hubble –di cui non viene qui esposta la dimostrazione matematica per ovvi motivi- è un'importante conferma osservativa della soluzione delle equazioni di Albert Einstein che si ottiene ipotizzando un universo omogeneo isotropo ed in espansione.
67 E. Morin, Il Metodo I, cit., p 63
63
“Le désordre microphysique, en faisant souche au niveau le plus
élémentaire de la matière, ébranle les fondements de la physis”68.
Per tali cagioni, l’indagine moriniana si fa strada a partire dalla
cosmogenesi che si manifesta nel e tramite il Caos proprio perché esso
è visto come “ciò che è inseparabile nel fenomeno bifronte tramite il
quale l’Universo – simultaneamente- si disintegra e si organizza, si
disperde e si costituisce”.
Da ciò, egli sostiene, può venir messo in evidenza quello che
definisce anello tetralogico69 così composto:
In questo senso il Caos è veramente oriundo70; da esso poi
possono scaturire, senza per ciò eliminare e scalzare il caos, ordine e
organizzazione.
68 R. Fortin, Penser avec Morin, cit., p. 30
69 di cui viene fornita riproduzione di quello moriniano: E. Morin, Il Metodo I,
cit., p. 60
70 “La disgiunzione e la semplificazione sono morte a partire dalla stessa base della realtà fisica. La particella subatomica è sorta in maniera irrevocabile nella confusione, nell’incertezza, nel disordine”. Morin. E. Metodo I, cit., p.12
64
A detta di Morin, in tale anello nessuna parte può essere presa
in considerazione tralasciando le altre parti che lo compongono. I
termini costituenti infatti vanno concepiti come un insieme: termini
che nello stesso tempo sono concorrenti, antagonisti ma anche
complementari fra loro.
Tale anello viene inoltre, come si vedrà tra breve, a costituirsi
come principio immanente di trasformazione e organizzazione interno
alla physis.
Con tali presupposti si può ben dedurre che physis, cosmo e
caos non vanno più percepiti in maniera dissociativa ma sono anzi da
considerarsi sempre compresenti gli uni agli altri. Il problema è
esattamente qui che nasce poiché la nostra intelligibilità logica tende
costantemente a respingere ciò che il caos spinge a fare, ovvero
obbligare le nozioni antagoniste a contorcersi l’una verso l’altra e ad
allacciarsi fra loro.
Quella fede di cui parlava Goldsmith –riportata in questa sede
poche pagine prima- e che mostra un senso vivo della volontà di
sapere, scaturisce anche dalle toccanti parole di Morin il quale scrive:
il caos ci offre un universo grandioso, profondo, degno di
ammirazione con il quale vi invito a barattare senza esitazioni il vostro
piccolo ordine a orologeria costruito da Tolomeo e attorno al quale Galileo,
Copernico, Newton avevano fatto soltanto delle rivoluzioni senza
apportarvi la Rivoluzione71.
71 Morin. E. Metodo I, cit., p. 67
65
Puntare dunque non più all’equilibrio, alla resa del tutto
ingabbiabile dalle nostre ferree strutture logiche e razionalizzanti ma
anzi far frutto dell’incertezza e del dubbio estremo, non certo neanche
di sé, è l’esortazione moriniana.
Ora, come indica anche Morin, se poniamo il problema nella
sua maestosità cosmica, ci si palesa che l’universo non è, per certi
versi, un sistema; questo perché dobbiamo concepirlo dal punto di
vista del divenire messo in auge: anche l’universo si configura come
un apprendista sistema,
un processo che attraverso le sue continue metamorfosi ( si sbriciola
e fraziona nello stesso movimento in cui si costituisce) prolifera sotto forma
di polisistemi e di arcipelaghi di sistemi ma che, per questi stessi tratti, si
trova privo di ogni organizzazione sistemica d’insieme72.
Proseguendo nella sua dimostrazione, Morin sostiene che il
secondo principio della termodinamica considera, in parte
erroneamente, l’ordine e l’organizzazione come stati iniziali perché
ignora proprio ciò che egli stesso vuole dimostrare.
La sede originaria di questo principio è il sistema fisico (il
dasein, soggetto al tempo e dipendente dal suo habitat) nel quale esso
si definisce come principio statico di degradazione dell’energia, di
disordine degli elementi costitutivi e, quindi, di disorganizzazione.
L’aumento di entropia di un sistema significa crescita di
disordine e disorganizzazione. Accade allora, nella costellazione del 72 Morin. E. Metodo I, cit., p. 76
66
pensiero moriniano, che tale principio travalica i confini della
termodinamica, pur rimanendole intrinseco, per essere compreso in
una teoria dell’organizzazione.
All’entropia – tendenza irreversibile alla disorganizzazione propria
di tutti i sistemi che, in quanto universale, interessa anche i sistemi aperti ivi
compresi gli esseri viventi- bisogna fornire una vita di natura
organizzativa73.
A tale scopo bisogna che un sistema sia collocato in un
ambiente ed evitare di considerarlo in isolamento. E’ così infatti che si
fa chiara l’idea per cui ogni sviluppo di organizzazione, ovvero ogni
regressione di entropia, ovvero ancora ogni neghentropia locale
aumenta l’entropia nell’ambiente che comprende il sistema.
Detto ciò però non si deve certo considerare il secondo
principio della termodinamica come chiave dell’Universo né
l’entropia come unica legge a cui l’organizzazione è votata; anzi,
entrambe devono essere sempre associate, e per di più in modo
complesso, all’anello tetralogico, ovvero al principio cosmofisico e
alla nuova concezione della physis che ne consegue.
A questo punto non vi è più uno iato tra ordine e disordine ma si
ha quello che schematicamente così può esser descritto:
disordine interazioni ordine/organizzazione disordine.
73 Morin. E. Metodo I, cit., p. 77
67
Seguendo i vari punti fissati da Morin in tale dimostrazione si
può sostenere innanzitutto che il secondo principio della
termodinamica si applica, non più solamente agli oggetti fisici presi in
isolamento, ma allo stesso divenire universale; ed in ciò si staglia
come la grande legge dell’universo. Ma ciò comporterebbe solo una
conseguenza: saremmo incapaci di comprendere perché “tutto non sia
già disordine e polvere cosmica, perché si siano sviluppati ordine e
organizzazione”74.
E’ qui che si innesca allora la problematizzazione moriniana in
seno alla nostra concezione della physis e del cosmo; Morin dichiara
infatti che
si deve concepire il secondo principio come espressione parziale e
amputata di un principio cosmologico complesso –che altro non è se non
l’anello tetralogico esposto in precedenza- e come l’espressione necessaria
e insufficiente di un principio fisico fondamentale che associa e dialettizza
ordine/disordine e organizzazione75.
Va precisato che l’anello tetralogico non è affatto un circolo
vizioso né un moto perpetuo, soprattutto per il fatto che vi è sempre
ciò che viene definita una perdita, ovvero una parte di disordine non
recuperato che diventa dispersione.
74 Morin. E. Metodo I, cit., p. 76
75 Morin. E. Metodo I, cit., p. 76
68
Indagando ulteriormente i componenti dell’anello tetralogico, oltre
a quello di disordine già visto, ne scaturisce che:
• il concetto di ordine nella fisica classica era tolemaico; sostiene
infatti Morin: “come nel sistema di Tolomeo, in cui soli e
pianeti giravano attorno alla Terra, tutto girava attorno
all’ordine”76.
• il concetto di organizzazione è ciò che conduce dall’oggetto al
sistema. Molteplici sono le definizioni che si possono dare
all’idea di sistema ma quelle più interessanti mettono in
connessione la caratteristica globale del sistema stesso ( visto
dunque come unità costituita da parti) e l’aspetto relazionale (le
unità compongono un insieme in quanto in reciproca
interazione).
• per quanto riguarda le interazioni il discorso che si può portare
avanti è intrinsecamente complesso in quanto con esse si
intendono gli incontri aleatori e imprevedibili che avvengono
nel binomio disordine/ordine e tramite la catastrofe, vale a dire i
cambiamenti di forma. Vi è in altri termini un passaggio dalle
interazioni alle interrelazioni le quali diventano organizzative.
Scrive a tal proposito Morin, riprendendo un concetto già
espresso:
non vi è nella Natura un principio sui generis di
organizzazione o organtropia che, come deus ex machina
provocherebbe la riunione degli elementi che devono costituire il
sistema. Non esiste un principio sistemico anteriore ed esterno alle 76 Morin. E. Metodo I, cit., p. 117
69
interazioni fra elementi. Al contrario esistono condizioni fisiche di
formazione in cui taluni fenomeni di interazione77
prendono forma di interrelazione.
interazioni
interrelazioni
organizzazione sistema
Il sistema viene a configurarsi allora come “il carattere
fenomenico e globale che assumono le interrelazioni la cui
disposizione costituisce l’organizzazione del sistema”78. E una tale
organizzazione assume la caratteristica di essere ad anello e capace di
creare sistemi aperti, ovvero atti a richiusure attive, in virtù della sua
stessa peculiarità di mantenere relazioni con l’esterno e addirittura di
svolgere scambi con esso.
Una volta scardinati i concetti di semplificazione manipolatrice,
ordine e differenziazione posti in essere dalla scienza classica, fondata
e sviluppata avendo estirpato da sé ogni principio di finalità, si fa
77 Morin. E. Metodo I, cit., p. 117
78 Morin. E. Metodo I, cit., p. 117
70
urgente, nel pensiero moriniano, porre una trasformazione, affine e
conforme a quella precedente, ai concetti di causalità e di soggetto.
E’ ciò che appunto si accinge a fare Morin, il quale così prosegue
nel suo studio: mentre nella scienza classica il concetto di causalità era
deterministico, lineare, statistico e stabile ed
era fuori questione che un effetto retroagente facesse effetto sulla causa
e senza cessare di essere effetto, divenisse causale sulla sua causa
divenendo il suo effetto pur rimanendo causa79,
ora è necessario approdare al concetto di endo-casualità80.
Perno del discorso diviene la retroazione poiché essa è intrinseca al
concetto di anello, con cui poc’anzi si è descritto il principio che
sottostà alla natura stessa, e attraverso questo rimanda all’autonomia
organizzazionale (propria anche dell’essere- macchina) che a sua volta
rinvia, poiché la determina, ad un’autonomia causale. In altre parole, il
feedback che si viene a creare all’interno del loop tetralogico
determina l’ endo-casualità.
Va altresì sottolineato che la retroazione non annulla mai la
causa, ne annulla solo ed esclusivamente l’effetto normale che 79 Morin. E. Metodo I, cit., p. 297
80 Per ragioni di chiarezza si anticipa quanto scrive Morin: “L’anello retroattivo può produrre reazioni, contro-azioni che annullando la causalità esterna proteggono e mantengono l’endo-causalità; essa è così in grado di produrre effetti originali. Vediamo qui che la carenza del behaviorismo era quella di ignorare, concependo la reazione come prolungamento meccanico dello stimolo, la fonte causale originaria del comportamento. L’endo-causalità implica produzione-di-sé. Nel medesimo movimento in cui il sé nasce dall’anello, nasce una causalità interna che si genera da sola, cioè una causalità di sé, produttrice di effetti originali”. Morin. E. Metodo I, cit., p. 299
71
voleva attribuirgli la scienza classica. Grazie a questo tipo di
causalità non vi è alcuna causa esterna (o eso-causalità) che può
agire sul sistema senza che i suoi effetti vengano neutralizzati,
bloccati, deviati, deformati: ovvero, essa non può nel modo più
assoluto agire in maniera diretta e meccanica (a meno che la sua
aggressione non superi la soglia di tolleranza dell’organizzazione
stessa che in quel caso allora distrugge). Spesso la retroazione, in
questo caso definita negativa, non produce l’effetto aspettato e
sospettato ma è anzi in grado di annullare, contrastare e perfino
invertire gli effetti di una causalità esterna. Ciò comporta altresì
una produzione, in rapporto complesso con la causalità esterna, di
una causalità interna.
Quello che la scienza classica toglie, la cibernetica rimette in
auge: la finalità che sembrava scomparsa dall’idea stessa di scienza
rientra, a prima vista impercettibilmente, in virtù delle nozioni
rimesse in gioco appunto da questa scienza dei sistemi, o
sistemica. Essa sola, infatti reintroduce il senso di un fine nel
cuore della teoria fondamentale della vita. Una finalità che, come
scrive Morin, “è un prodotto della produzione autoproduttiva che
nasce con l’anello” 81 (che costituisce contemporaneamente la
finitudine di ogni essre macchinale ma anche la sua apertura,
sebbene chiusa nella finitudine, su ciò che non ha fine) e che si
configura come “emergenza nata dalla complessità
dell’organizzazione vivente nei suoi caratteri
81 Morin. E. Metodo I, cit., p. 304
72
comunicazionali/informazionali”82. A ben guardare, è possibile
scorgere un deficit della biologia molecolare a cui la cibernetica è
invece in grado di sopperire: un’armatura organizzazionale -basata
su concetti di programma, codice, controllo, traduzione,
comunicazione, retroazione-. E’ così infatti che la cellula (senza
dubbio concepibile come macchina vivente), da un tale punto di
osservazione, può essere vista come un’officina automatica in cui
ogni tipo di operazione e di funzione non è casuale ma
intrinsecamente dotata di uno scopo ben preciso e individuabile.
Non solo, la finalità di ogni parte della cellula confluiva in un
unico grande target: produrre, organizzare per vivere. Ma
diversamente da una qualunque macchina artificiale, quelle viventi
non sono finalizzate detrministicamente fin dal momento della
nascita; tendono sì ad uno scopo ma le modalità e i mezzi con cui
possano raggiungerlo sono lasciati completamente al caso ( o,
potremmo dire, al caos) e all’incertezza. Non vi è un sentiero
progettato e prefabbricato insito agli esseri viventi su cui lasciare
orme sicure.
Ora il vero progresso, prosegue Morin, per un cambio radicale
di paradigma83, sta nell’integrare la finalità nella causalità interna,
82 Morin. E. Metodo I, cit., p. 310
83 cfr. T. Kuhn (1922-1996), La struttura delle rivoluzioni scientifiche. Per paradigma si intende una costellazione di principi, leggi e metodi condivisi da una comunità scientifica. I paradigmi secondo Kuhn sono incommensurabili, cioè non conciliabili tra loro e il passaggio da uno all’altro avviene attraverso fratture discontinue e rivoluzionarie che portano profondi cambiamenti in tutti gli ambiti della vita.
73
senza dimenticare la caratteristica che le è propria ovvero quella di
essere generativa, nel suo rapporto complesso con l’eso-causalità
così da ottenere, non la risoluzione di un conflitto (tra finalità e
determinismo classico), ma anzi il mantenimento necessario di una
lotta all’interno di questo rapporto complementare, concorrente ed
antagonista tra endo ed eso-causalità.
Il principio di complessità che qui si è cercato in parte di
delineare, attraverso l’esposizione di concetti che concorrono a
formarlo, sarebbe incompleto se venisse a mancare in esso la
presenza di chi, come letteralmente scrive Morin, “è spuntato fuori
insieme all’incertezza cosmica: l’osservatore/concettualizzatore” 84. E’
indubbio infatti che “ogni conoscenza presuppone una mente
conoscente”85.
Si arriva così, ultimo ma non per questo meno importante, al
concetto di soggetto; questi subisce una metamorfosi rispetto
soprattutto alla posizione che ricopriva nella concezione cartesiana.
Di fatto, ciò che si cerca di scardinare è esattamente il
paradigma formulato da Descartes e che ha dominato l’Occidente fino
ai giorni nostri: la disgiunzione del soggetto e dell’oggetto, dello
spirito e della materia, l’opposizione dell’Uomo alla Natura.
Nel pensiero di Morin, in cui l’ordine non è più re, “il n’est plus
indépendant, il n’est plus autosuffisant”86, anche la nozione di 84 E. Morin, Metodo I, cit., p. 98
85 E. Morin, Metodo I, cit., p.98
86 R. Fortin, Penser avec Morin, cit., p. 31
74
soggetto trova le sue importanti modificazioni soprattutto perché,
come soggetto osservatore, ingloba la physis da cui viene inglobato.
Mentre l’ordine elimina l’incertezza, azzerando la mente umana
poiché qualunque certezza soggettiva si persuade di essere una realtà
indiscussa e oggettiva, il disordine lascia posto ad un osservatore
concreto e tangibile ed alle sue incertezze, di cui anzi può far tesoro.
Ogni scienza, anche quella di tipo più fisico, ha in sé e al suo
seguito una dimensione atropo-sociale. Questo è un fatto
misconosciuto poiché, in virtù dell’onnipotenza di un principio di
disgiunzione, nessuna scienza fisica ammette né vuole riconoscere la
sua natura umana. Un sapere di questo genere viene prodotto non per
essere pensato e capito ma per essere utilizzato in maniera anonima e
capitalizzato senza che se ne conoscano le finalità generiche.
Specializzazione e sbriciolamento delle discipline sono le vere
nemesi di una centralità tanto agognata dell’Uomo.
I progressi maggiori delle scienze contemporanee si sono
verificati reintegrando l’osservatore nell’osservazione. Nel dire che
ogni oggetto ideato rinvia al soggetto ideatore si ritrova l’evidenza
messa in luce da George Berkeley quando sosteneva che non esistono
corpi non pensati.
Non solo, si ritrova una prospettiva similare e congrua
nell’armatura concettuale di Maurice Marleau-Ponty il quale
instancabilmente commenta, critica e riformula il cogito cartesiano
(cogito tacito che pretende di essere libero da ogni mediazione
riflessiva), in quanto punto di intersezione di mondo/essere/verità.
75
Nonostante la difficoltà e il rischio di banalizzazioni in cui si
incorre cercando di ridurre la posizione di Marleau-Ponty in poche
righe, si può affermare che nella sua idea, una volta abbandonato il
dualismo tra anima e corpo, trova spazio un mondo della vita,
antecedente ad ogni riflessione, nel quale soggetto e oggetto ( o, in
termini cartesiani, res cogitans e res extensa) si presentano indistinti.
In esso il rapporto originario con il mondo si costruisce attraverso il
corpo, la cui dimensione fondamentale è data dall'esperienza vissuta
della percezione. Il mondo è ciò che percepiamo così come il corpo è
anteriore e irriducibile alla contrapposizione, costruita a posteriori
dalla riflessione e dalle scienze fisiologiche, tra soggetto e oggetto, tra
coscienza e mondo. Esso è l'unità indistinta e naturale di questi poli: il
soggetto del sentire è al tempo stesso oggetto sentito e viceversa.
Quella di soggetto è una categoria che, data la sua importanza, verrà
rispresa successivamente (in I.2.2).
Qui, in conclusione dell’argomentazione proposta, d’obbligo è
sottolineare ciò che maggiormente scaturisce dall’epilogo del discorso
moriniano, ovvero il concetto di una physis allargata, generalizzata,
elevata e aperta in cui “tutto” può rientrarvi, comprese le scienze
sociali e le scienze della mente. “E’ nel momento in cui la scienza
dell’uomo diviene una scienza fisica che – infatti- la scienza fisica
diviene una scienza dell’uomo”87. E non si tratta di ridurre l’una
all’altra ma anzi di farle diventare complementari nel loro
antagonismo.
87 E. Morin, Il metodo I, cit. p .437
76
“Ogni conoscenza è una prassi fisica che è
contemporaneamente una prassi antropo-sociale”88. Secondo tale
affermazione è possibile asserire che i nostri concetti fisici sono, non
solamente legati ad una determinata visione del mondo ma anche
inscritti, in modo assolutamente interconnettivo, in seno ad una prassi
antropo-sociale legata a questa visione del mondo.
La svolta radicale impressa da Morin all’idea di metodo (inteso
sempre come cammino e mai definitivamente tracciato) segna un
nuovo modo di guardare al mondo. Presupposta la caratterizzazione
data dall’autore, di soggetto/oggetto e delle loro interazioni, si può
sostenere che egli ha eseguito un duplice processo di storicizzazione:
- della logica filosofica
- della logica scientifica
unificando altresì questi due percorsi paralleli in un cammino
circolare.
“L’irruzione congiunta del disordine e dell’osservatore nel
cuore della conoscenza introduce incertezza”89 non semplicemente
nelle spiegazioni e nelle prospettive ma anche e soprattutto nella
natura stessa, sia del disordine che dell’osservatore.
Il paradigma di complessità viene allora a mostrarsi come
l’unico capace di creare una nuova giuntura: l’anello, che solo può
dare ragione ad un’unità di circuito mettendo da parte una
metodologia riduzionista.
88 E. Morin, Il metodo I, cit. p .437
89 E. Morin, Il metodo I, cit. p .447
77
Poiché si costituisce a forma d’anello, ogni conoscenza diviene
una comunicazione tra essa stessa e gli altri campi del sapere ma non
solo: si interseca finanche con la conoscenza di sé stessa in quanto
conoscenza della conoscenza.
Ciò che rimane da fare, arrivati a tal punto, è trasformare la
scoperta della complessità in metodo della complessità, consci del
fatto che una tale operazione comporta mettere in opera un pensiero
che implica la sua stessa riflessività.
Puntando l’attenzione sul caratteristico percorso a spirale
perseguito da Morin e preannunciando nel contempo ciò che sarà il
tema centrale delle prossime pagine, va affermato che
a livello dell’organizzazione vivente, il rapporto endo-eso-causalità
diviene un rapporto auto-eco-causale. L’organizzazione-di-sé, divenuta
autoorganizzazione, è dotata di una maggiore autonomia, ma anche di una
nuova dipendenza nei confronti dell’ambiente divenuto ecosistema,
obbediente esso stesso a forme sui generis di causalità generativa. Ciò
comporta che i rapporti tra endo e eso raggiungono qui un altissimo grado
di complessità simbiotica e di interpenetrazione, perché l’eco-sistema è
costituito da questi esseri viventi, che a loro volta si costituiscono in e
attraverso le loro interazioni ecologiche. Infine, indichiamo sin da ora che la
causalità interna si riversa sull’ambiente, nei suoi prodotti, nei suoi sotto
prodotti, nei suoi comportamenti, nei sui asservimenti, ma l’eco-sistema a
sua volta retroagisce sull’ asservitore/inquinatore facendogli subire nuove
dipendenze e il contraccolpo delle sue devastazioni90.
E’ altresì incontrovertibile che 90 E. Morin, Il metodo I, cit. p. 311
78
lo sviluppo e la conservazione dell’autonomia dell’individualità
umana sono legati a un numero grandissimo di dipendenze educative,
culturali e tecniche. […] La dipendenza/ indipendenza ecologica dell’uomo
si ritrova a due livelli sovrapposti e essi stessi interdipendenti, quello
dell’ecosistema sociale e quello dell’ecosistema naturale91.
Un chiaro esempio ne è l’ominidizzazione, inconcepibile solo
come evoluzione biologica per di più lineare o solo come evoluzione
sociale; essa è il frutto di una morfogenesi complessa e
pluridirezionale risultante da interferenze genetiche, ecologiche,
cerebrali, sociali e culturali.
Uno schema della situazione fin qui descritta può essere così
proposto:
91 E. Morin, Il paradigma perduto, cit. p. 28
Sistema genetico Sistema cerebrale
Prassi
Ecosistema Società-cultura
79
Paragrafo I.2.2
L’apparizione della vita corrisponde alla trasformazione di un vortice
di macromolecole in un’organizzazione di tipo nuovo, capace di auto-
organizzarsi, auto-ripararsi, auto-riprodursi92, atta a trarre organizzazione,
energia ed informazione dal suo ambiente, ma questa origine non sembra
rispondere ad alcuna necessità ineluttabile. Essa resta ancora un mistero
[…] perciò dobbiamo essere coscienti che navighiamo in un oceano di
incertezza93.
Con queste parole prende sostanzialmente avvio l’indagine
moriniana, propria del secondo tomo de La Méthode.
Se nel primo volume del suo Metodo, Edgar Morin si pone
l'obiettivo di non separare il problema della conoscenza della natura
da quello della natura della conoscenza, lo studio condotto in La Vita
della Vita indaga la sfida della complessità dalla quale è investito
l'ambito della biologia. Tale ambito fu profondamente trasformato
dalla scoperta del DNA, che però non fu accompagnata da una
rivoluzione concettuale adeguata alle nuove realtà che emersero e che
ancora oggi rimane prigioniera di miti riduzionismi e semplificatori. È
92 Per addurre qualche esempio: l’embriologo tedesco Hans Driesch mediante un esperimento si rende conto che gli organismi viventi, a differenza delle macchine, sono in grado di rigenerare degli interi a partire da alcune delle loro parti. Condusse un esperimento sulle uova dei ricci di mare. Distrusse una delle cellule di un embrione allo stadio bicellulare e dalla cellula rimanente non si sviluppò un mezzo riccio di mare, ma un organismo completo, sebbene più piccolo. G. Bocchi - M. Ceruti, Origini di storie, Feltrinelli, Milano,1993, p. 126 93 E. Morin, Il Metodo II. Vita della vita, Raffaello Cortina, Milano, 2004 p. 57
80
questa rivoluzione concettuale che Morin si propone di promuovere:
chiarire l'autonomia e la dipendenza dell'organizzazione vivente in
rapporto all'ambiente in cui si inserisce; senonché l'autonomia e la
dipendenza reciproca tra individuo e specie, dando così una risposta
complessiva al problema logico costituito da ciò che egli chiama
autos.
La connaissance de la vie concern l’organisation de nos échanges
avec l’environnement (la relation écologique), la problématique de
l’organisation vivante (l’autos) et les caractères non élémentaires de
l’individualité (l’individu-suject). Elle inclut tout ce qui possède, maintient,
organise, permet de produire ou de reproduire la vie : les premiers
organismes cellulaires, les organismes pluricellulaires, les milieux où se
tissent les relations entre les êtres vivants, les sociétés qui possèdent elles-
mêmes certains caractères et propriétés de l’organisation vivante94.
L’effettivo punto d’intersecazione tra La Natura della natura e
La Vita della vita è costituito dal concetto di informazione che, come
sostiene Fortin, “vont nous permettre de boucler ensemble ce premier
tome La Méthode et d’introduire au second95.
Come egli illustra, l’idea di informazione appare intorno agli
anni ’40 del XX secolo nel campo delle telecomunicazioni e risponde
a problemi di ordine pratico. In principal modo ad un quesito che si
rivelerà fondamentale poi per gli sviluppi futuri: come trasmettere un
messaggio, nel modo più economico possibile, minimizzando il costo
e massimizzando la qualità del messaggio stesso? A grandi linee è 94 R. Fortin, Penser avec Morin, cit., p. 56
95 R. Fortin, Penser avec Morin, cit., p. 50
81
possibile asserire in questa sede che la soluzione a tale interrogativo
nasce dal lavoro congiunto di Shannon e Weaver96 i quali definiscono
l’informazione come una grandezza osservabile e misurabile, quindi
calcolabile e quantificabile (in bits, o unità d’informazione).
Comme toute grandeur abstrait, l’information n’est pas visibile, elle
n’est pas localisable matériellement, elle n’a pas de dimension. Et pourtant
elle est reliée à la matière, à l’énergie, à la physis, à l’organisation
néguentropique97.
In questo senso si può leggere l’informazione –costantemente
relazionata e contestualizzata-, per lo più considerata mera astrazione,
come una nozione avente statuto fisico; essa ha anche tutte le
caratteristiche dell’organizzazione e della realtà fisica (e sostenendo
ciò Morin evita di deificare e reificare la nozione in oggetto) quindi
non può che rigenerarsi all’interno della sua disorganizzazione.
L’organizzazione informazionale degli esseri viventi non deve
essere posta preliminarmente alla loro organizzazione neghentropica98.
96 Architrave della teoria della comunicazione da loro elaborata, l’informazione è un concetto fisico che sorge in campo tecnologico – più precisamente per la società Bell- affinché si venisse a creare un sistema di comunicazione in cui un emettitore trasmettesse un messaggio a un ricevitore attraverso un canale dato. Non va sottovalutato il fatto che la teoria sull’informazione scaturisce in una situazione di sviluppo dell’ambito comunicazionale umano insito alle società industriali avanzate, occultando il suo sub-strato atropo-sociale. 97 R. Fortin, Penser avec Morin, cit., p. 51
98 Il primo principio della termodinamica, già descritto in modo più dettagliato (p. 26), stabilisce che la quantità totale dell’energia dell’universo resta costante; questo è anche chiamato “Principio della conservazione dell’energia”. Il secondo principio stabilisce invece, ricordiamolo, che la qualità dell’energia degrada in modo irreversibile trasformando energia libera, ossia spendibile, in energia non
82
Il carattere neghentropico precede, produce, avvolge il carattere
informazionale. […] La neghentropia deve innanzitutto trasformarsi in
informazione per permettere all’informazione di trasformarsi, in seguito
altrove e in modo diverso, in neghentropia.99
E’ solo in virtù di tali due peculiarità, ovvero quelle di essere
una realtà organizzazionista e neghentropica, che si è potuto applicare,
con successo, l’informazione al fenomeno vivente.
La vita è solo una forma particolare dell’organizzazione
neghentropica. Ergo:
Organizzazione
Neghentropia
Informazione
Entrando altresì nella dimensione della physis, grazie
all’organizzazione, l’informazione radica in essa “ciò che prima si
cercava unicamente nella metafisica. […] e diviene inconcepibile al
più utilizzabile, o meglio in entropia (Clausius, 1865). L’energia dell’universo è una costante mentre l’entropia tende sempre verso un massimo.
99 E. Morin, Metodo I, cit., pp. 345 e 353
83
di fuori di interazioni con energia ed entropia”100. Si può qui scorgere
una velata critica ad un aspetto deficitario, sostiene Morin, della teoria
shannoniana: Shannon infatti concepì il sistema emettitore-canale-
ricevitore come un sistema chiuso e dunque non generativo, e neanche
come organizzazione neghentropica.
L’informazione, “produit de le développement et de la
complexification de l’organisation néguentropique”101, fa, si
accennava, da ponte per il problema della nascita della vita a cui
Morin si rivolge partendo dalle condizioni che hanno fatto nascere la
prima cellula vivente. Con ciò che Morin chiama “l’ingresso nella
macchina” viene indicata l’intersecazione di tali teorie informazionali
all’universo delle macchine, senonché il ruolo rivestito, fin dai suoi
primordi, dalla cibernetica.
Non esiste un’informazione prodotta da un deus ex machina e
che, contrariamente a quanto avviene nelle macchine artificiali, sia
pre-generata e pre-stabilita. Anzi, per comprenderla appieno dice
Morin, bisogna partire dalle proprietà retroattive/ricorsive e
produttrici-di-sé dell’organizzazione attiva.
Non solo, per trarre un primo e pur sempre non definitivo
compimento riguardo all’excursus fin qui condotto sul concetto di
informazione, bisogna far menzione di un’idea ad esso strettamente
connessa, ovvero quella di rumore. Come spiega Morin esso è ciò che
nel suo percorso l’informazione incontra ed è “costituito dalle
perturbazioni aleatorie di ogni genere che sorgono nel canale di 100 E. Morin, Metodo I, cit., p. 354
101 R. Fortin, Penser avec Morin, cit., p. 53
84
trasmissione”102. Non bisogna altresì dimenticare che nella concezione
shannoniana della comunicazione non si presta affatto attenzione al
senso del messaggio; essa è muta e cieca sulla sua stessa
significazione.
Entrando sempre di più nel vivo del discorso ci si rende
immediatamente conto che vi è da dimostrare ampiamente, nonostante
i concetti fin qui esposti, l’autonomia dell’autonomia vivente, bisogna
cioè “risolvere il problema logico della complessità per riconoscere,
nella sua stessa dipendenza e attraverso di essa, l’autos”103.
“Si l’on définit la vie par l’organisation, l’autos est le macro-
concept de l’organitacion vivante”104 e diviene paradigma.
Per meglio esprimere il suo intento Morin apporta un’analogia
come esempio:
l’uccello che vola nel cielo è determinato fisicamente,
ecologicamente, geneticamente; il suo volo è aleatorio[…]. Ma è anche, in e
attraverso le sue determinazioni e i suoi caratteri aleatori, un individuo
vivente […]. E noi dobbiamo cercare una descrizione, una spiegazione che
non solo non sopprima l’uccello ma lo esprima105.
Per elaborare il concetto di autos Morin è in un certo senso
costretto a demolire tutte quelle concezioni che annientano 102 E. Morin, Il metodo I, cit., p. 348
103 E. Morin, Il metodo II, cit., p. 11 104 R. Fortin, Penser avec Morin, cit., p. 79
105 E. Morin, Il metodo II, cit., p. 13
85
l’autonomia vivente –soprattutto fenomenica-, tra cui due sistemi di
pensiero, sebbene tra loro contrapposti, quali l’ambientalismo –“qui
ne conçoit de causalité qu’extérieure et qui fait de l’être vivant une
marionette contrôllée, dirigée et mue par le milieu”- e il genetismo –
“assujettit l’individu à l’empire des Gene set qui nie la causalité
extérieure, affirmant que c’est la molécule, le gène ou l’ADN qui tire
les ficelles”106. Ciò accade perché la logica semplificicatrice schiaccia
l’autos nella morsa del determinismo.
“Il patrimonio ereditario dell’essere vivente107, il suo principio
d’organizzazione e il suo principio di riproduzione è di natura
informazionale”108 ma mai completamente determinato e immutabile.
La vita dispone di un’autonomia originale oltre a quella che
appartiene a tutte le organizzazioni fisiche ( esseri fisici organizzatori-
di-sé). Sue caratteristiche proprie sono quelle di essere un’:
- autonomia individuale: un indipendenza questa che si auto-
produce nutrendosi di materia/energia e di informazioni e
resistendo ad alee ed aggressioni.
- autonomia genetica: dalla quale la prima procede ed è costituita
a partire dal patrimonio ereditario (Cfr. DNA)
106 Cfr. Fortin R., Penser avec Morin,cit., p. 77
107 La duplicazione del DNA, nonostante tutte le precauzioni è un messaggio per nulla al riparo da perturbazioni aleatorie; tali rumori provocano un errore nella copia del messaggio che, se pur non sempre, possono dar vita ad una crescita di complessità organizzazionale.
108 E. Morin, Il metodo I, cit., p. 356
86
Queste due peculiarità si costituiscono come due livelli
strettamente connessi ma distinti, e sempre distinguibili, tanto da poter
essere interpretati reciprocamente anche in altro modo:
- livello fenomenico: che contempla e raccoglie su di sé
l’esistenza individuale hic et nunc inserita in un contesto
ambientale che la circonda.
- livello generativo: ovverosia un processo trans-individuale che
genera e rigenera gli individui.
Ciò suggerisce che l’autonomia vivente è un’autonomia
d’organizzazione e lo è a due livelli connessi/disgiunti.
Basandosi su quanto riportato nelle pagine precedenti e,
ovviamente, su quanto detto da Morin sappiamo che ora il concetto di
organizzazione è, diametralmente da come era in passato, molto
importante e che la nozione di autos lo rende ancor più vitale. Questa
nozione diviene anzi “la parola sfinge – in cui si celano un’evidenza e
un mistero- che ci pone il grande enigma della vita”109.
Il termine autos conferisce per di più, indicando un ritorno del
medesimo (idem, dimensione della riproduzione) a sé stesso (ipse,
essere individuale), un senso “vivente”, oltre che a quello di
organizzazione, ai termini di produzione e riproduzione, aggiungendo
loro una valenza di autoreferenzialità.
Resta certo di dare concretezza e maturità all’autos e, di
conseguenza, alla costellazione che esso viene a creare, senza affatto
dimenticare le sue relazioni di dipendenza/indipendenza dall’oikos e il
rischio di ridurlo ad uno solo dei termini su descritti. 109 E. Morin, Il metodo II, cit., p. 16
87
Sostiene infatti Fortin, a tale riguardo, che
l’auto-organisation est inséparable de l’eco-organisation et […]
lorsque nous passons de l’organisation physique à l’organisation vivante,
tous le caractères de l’organisation physique sont conservés et transférés à
l’organisation vivante, mais la vie va développer des caractères nouveaux et
originaux qui vont permettre à l’organisation physique d’accomplir une
véritable mutation110.
Riunendo le tre linee direttive del discorso fin qui posto in
essere e passando dal fisico al biologico (passaggio in cui l’esistenza
diviene vita e il sé diviene autos), è necessario operare un salto
concettuale.
Attraverso un dettagliato scandaglio, Morin conduce l’analisi
della relazione specie/individuo (binomio estrapolato dalla triade
specie/individuo/società per meglio definirne l’importanza) partendo
dalla constatazione che solo dal XIX secolo la dualità ad essa inerente
è stata profondamente trasformata dalla Genetica: prima delle sue
scoperte infatti si parlava solo in termini di opposizione dei due poli
che si possono intendere come generale/singolare, germen/soma,
genos/phainon (secondo quanto già detto). In realtà, spiega Morin,
non vi è, e mai vi potrà essere, opposizione tra questi due concetti; la
dualità geno-fenomenica è di fatto un’unità la quale va concepita non
solo nell’ambito
dell’interazione e dell’indipendenza ma anche e soprattutto nella
totalità dinamica di un’organizzazione ricorsiva. […] Un’organizzazione
110 R. Fortin, Penser avec Morin, cit., p. 62
88
ricorsiva è un’ organizzazione che produce gli elementi e gli effetti
necessari alla propria (ri)generazione ed esistenza111;
affermazione questa che congiunge nozioni appena espresse alle
idee riferite nel primo tomo e di cui qui si chiarisce tutta l’importanza.
Organizzazione vivente che, dunque, si costituisce come
organizzazione meccanica e ricorsiva ( poiché produce prodotti che
coproducono il proprio produttore), ma anche organizzazione
generativa, poiché usufruisce dell’organizzazione fenomenica in una
logica di retroazione coorganizzatrice. L’unità ricorsiva che nasce
dal congiungimento ad anello di genos e phainon, li porta ad essere in
primis indissociabili e reciprocamente costitutivi uno dell’altro; in
secondo luogo, ad essere costituenti necessari dell’autos, da cui
derivano, e a formare quella che appunto è stata definita la dualità
dell’unità o unidualità.
Impossibile a questo punto tralasciare l’influenza dell’ambiente
in tutto ciò, poiché genos, phainon e oikos compartecipano in
medesima misura alla relazione che viene così a costituirsi:
geno feno eco-organizzatrice
Infatti, l’autonomia, in virtù anche di quanto affermato in
precedenza, va pensata nel paradosso della sua dipendenza rispetto a 111 E. Morin, Il metodo II, cit., p. 32
89
ciò che Morin denomina l’impero dei geni e a quello dell’ambiente,
che in realtà vanno a configurarsi non come gabbie dell’autonomia
ma, permettendo e coproducendo l’auto-causalità, come suoi
presupposti basilari.
Si innalza così il vero punto in questione: non si può concepire
la determinazione genetica senza tenere in suprema considerazione il
contesto in cui è inserita né, tanto meno, l’individualità vivente in cui
essa si inscrive, e che per l’appunto non si limita affatto a subire
un’eredità genetica.
Quella che è sempre stata considerata la rigida determinazione
genetica diviene il fondamento dell’identità individuale. Ciò avviene
in virtù del principio che si confà ad ogni produzione d’essere e che
in questo caso fa sì che ogni individuo “costituisce un’emergenza
globale che retroagisce sulle determinazioni della sua formazione e a
sua volta le determina”112.
Proprio perché l’autonomia degli esseri viventi si forgia tra le
catene di questa schiavitù deterministica, diviene interessante
indagare (e concepire) in modo indissolubilmente connesso l’Io,
l’essere, l’individuo, l’esistenza e il destino genetico collocandoli,
come poc’anzi si asseriva, in un oikos.
Nel compiere tale operazione, non potendo certo riportare
integralmente, per questioni metodologiche, il percorso compiuto da
Morin lungo il corso della sua opera verrà comunque tracciata una
linea capace di arrivare fino a ciò che, in questa sede, più preme
112 E. Morin, Il metodo II, cit., p. 51
90
contestualizzare (pur non essendo l’unico aspetto focale) ovvero
l’abolizione della posizione imperante dell’uomo su qualunque altro
genere di essere vivente.
Attraverso un’analisi che si può definire millimetrica per quanto
risulta giustamente dettagliata, Morin illustra che non vi è una netta
separazione tra quelli che lui stesso definisce individualità di primo,
secondo e terzo tipo.
113
113 E. Morin, Il metodo II, cit., p. 127. Tale illustrazione schematica permette di cogliere meglio il senso delle parole moriniane nel momento in cui esprimono la tripartizione dell’individualità. Questa però non indica né divisione, né subordinazione tra i tre circuiti di cui è composta ma anzi correlazione e reciprocità.
91
L’individualità intesa in senso moriniano è innanzitutto diversa
dalla singolarità ed è un’entità complessa. Questa tripartizione va
considerata tale solo da un punto di vista formale poiché nella logica
ricorsiva propria del pensiero moriniano cui tutto sottostà, non vi
sono mai realtà nettamente distinte. Ad esempio, l’individualità del
secondo tipo, in cui quella di primo livello non viene abolita ma anzi
integrata in senso organizzazionale, viene a costituirsi solo in virtù
della tendenza associativa che è propria degli esseri unicellulari
facenti parte, in questo caso, del primo tipo di individualità. Ed ancora
l’individualità del terzo genere, ovvero quella umana sostanzialmente,
non è disgiungibile dalla prima in quanto è peculiarmente, anche se
non unicamente, biologica.
Proprio qui allora entra in gioco un altro fattore: a qualsiasi
livello, ogni essere vivente può essere considerato come un essere
computante; caratteristica che rende ognuno di questi capaci di auto-
affermazione attiva. Non a caso Morin esprime questo concetto con la
formula “il vivo del soggetto”.
Il termine computazione non va inteso nel suo senso riduttivo di
calcolo ma anzi nel suo senso originale (cum-puto: esaminare,
valutare insieme legando e confrontando ciò che è separato e
viceversa) ove appunto sta ad indicare un’azione/reazione
cognitiva114.
114 “L’unicellulare non reagisce meccanicamente, alla cieca, agli stimoli esterni”. E. Morin, Il metodo II, cit., p. 73
92
Sostenere che ogni essere vivente, dalla cellula all’uomo, è un
essere computante rende ben evidente il carattere
informazionale/comunicazionale che gli è proprio. Chiaro è che
un’auto-affermazione conduce direttamente alle radici dell’Io, per
quanto riguarda i soggetti umani, e indirettamente al problema –già
trattato sotto altri punti di vista- del soggetto come oggetto di sé
stesso.
Concentrandosi sulla dicotomia –imposta dal pensiero
occidentale- tra soggetto e oggetto, si palesa quanto la trattazione di
Morin sul computo sia funzionale all’abolizione di tale bipartizione.
Più precisamente,
l’idea del computo, derivata ed evocata dal cogito cartesiano, può
chiarirsi solo per confronto e opposizione con questo cogito. […] Benché
strettamente situato nella sfera della mente umana cosciente, esso si fonda
sugli stessi processi attraverso i quali si costituisce il soggetto biologico.
[…] Così, ad un primo sguardo opera la dissociazione totale tra la coscienza
umana e l’universo naturale, ad un secondo sguardo ci rimanda alla nostra
nozione biologica di soggetto 115.
Nel considerare la logica operativa del cartesiano cogito ergo
sum, formula che presuppone un’auto-comunicazione pensante tra sé e
sé in cui l’io soggettivo dell’io penso si oggettiva come oggetto di
pensiero, Morin scorge quella che definisce la sua spirale ricorsiva.
Nonostante l’ imputazione del merito a Cartesio, per aver istituito la
nozione di autoreferenza (insita nel cogito ergo sum), Morin ne
adduce una giusta critica composta da due momenti essenziali: in 115 E. Morin, Il metodo II, cit., pp.92 e 97
93
primo luogo, il cogito non va considerato come una verifica (tauto)
logica o come una prova ontologica ma piuttosto come un anello
generatore/produttore riferito all’ego. In secondo luogo, Morin
sostiene che l’autoreferenzialità posta in essere da Cartesio è, a ben
guardare, un’autocoscienza per di pù limitata, in quanto si riferisce
solo all’essere umano, e dipendente, per quanto riguarda la sua
origine, da una causa esterna (volontà divina). L’anello ricorsivo
costituitosi col cogito cartesiano non va di certo abbandonato ma deve
essere immerso nelle spirali interattive del mondo vivente –nelle quali
si ritrova- sempre aleatorie, incerte e indeterminate senza per questo
imporre dualismi.
116
Il cervello umano, questo il senso della spirale, è una mente in
grado di concepire il cervello che la produce.
116 E. Morin, Il metodo II, cit., p. 102
94
Solo attraverso un pensiero complesso, questo senso del cogito,
spesso incompreso e travisato, può essere interpretato come
costruttivo e ricorsivo della riflessività del soggetto. Ignorando
questo aspetto, ignorando l’anello che conduce all’ego si precipita
nell’errore di smaterializzare il soggetto, reificando l’oggetto, e
sradicarlo dall’essere individuale. Superando sia il pensiero
cartesiano, anche se in parte inglobato, sia, per certi aspetti, quello di
Piaget117 Morin può affermare che ogni atto di organizzazione vivente
comporta una dimensione cognitiva (sebbene non sempre si tratti di
una conoscenza che si conosce). Nel circuito auto-cognitivo118 “il
computatore si obiettiva come computato (Sé, Me) e si risoggettiva
come computatore (Io)”119. Dire Io, in altre parole, è un’auto -
affermazione ontologica e significa escludere dal centro, che ognuno
di noi è per sé stesso, qualsiasi altro soggetto stabilendo così una
relazione circolare, non per forza cosciente, tra Io ed esterno; istanze,
Io ed esterno, tra le quali non si crea opposizione e dicotomia ma co-
emergenza.
In definitiva, il computo, nel suo continuo connettere il soggetto
e il suo mondo di vita, salvaguarda, oltre che riconoscere e generare,
l’individualità del vivente (soggetto-conoscente-/oggetto-di
conoscenza-) e, nella sua dimensione peculiare riflessiva, è necessario
117 Piaget J. Biologie et connaissance, Gallimard, Paris, 1967 in G. Bocchi, M. Ceruti, Disordine e costruzione, Feltrinelli, Milano, 1981, p. 273
118 “Ogni atto di organizzazione vivente è un atto di auto-organizzazione e si suppone che la dimensione cognitiva dell’organizzazione vivente sia auto-cognitiva” E. Morin, Il Metodo II, cit., p. 100
119 E. Morin, Il Metodo II, cit., p.101
95
all’auto-organizzazione. Ma non solo, il computo si inscrive in un
ambito genetico/ bio-fisico: non può dunque esservi dissociazione né
tanto meno subordinazione tra cervello e spirito, tra ego cogitans120 e
res extensa.
Non c’è corpo vivente senza animazione computante, -poiché- la
nozione ad anello di autos è produttivamente anteriore alle nozioni di
spirito e corpo e -poiché- quella di individuo-soggetto è logicamente
anteriore ad esse121.
Tale affermazione, in altri termini, sta a significare una
comprensione complessa (e che dunque annulla) della dualità imposta
tra anima e corpo.
Il biologico non deve essere ridotto all’antropologico, o
viceversa, né, tanto meno va operata una sintesi tra i due concetti; ciò
che l’etologia dei primati superiori e la preistoria dell’uomo
dimostrano è che si può stabilire una saldatura empirica tra Natura e
Cultura, tra Animale e Uomo. E’ ciò che esige e pretende un principio
di spiegazione complesso e una teoria dell’autoorganizzazione122.
120 E. Morin, Il Metodo II, cit., p.97
121 E. Morin, Il Metodo II, cit., p.215
122 « La connaissance de l’organisation doit nous conduire à une réflexion en profondeur sur les principes organisateur de la connaissance (les paradigmes), laquelle devra nous conduire à une restructuration et une réorganisation on chaîne de notre système conceptuel de pensée ». R. Fortin, Penser avec Morin, cit., p. 83 Il passaggio dalla conoscenza dell’organizzazione all’organizzazione della conoscenza è ciò che, come poi si vedrà segna il passaggio dai volumi I e II ai III e IV de Il Metodo.
96
“L’autonomie de mouvement des individus et la plasticité
morphologique de la société sont inseparables”123.
E’ attraverso questi macroconcetti, attraverso in altri termini
l’integrazione di anelli multipli, che si viene infine condotti a ciò
che più ci interessa nel presente lavoro: si giunge infatti alla società
(di esseri policellulari, esattamente) o, in altra parole, alla comparsa
dell’emergenza dell’individualità/entità del terzo tipo.
Società, individuo policellulare e cellula sono tre insiemi che
costituiscono a loro volta un insieme, inglobandosi ad anello.
Sostiene Morin che, analogamente a quanto accade negli eco-
sistemi, le società, se osservate da un punto di vista storico,
comportano una dimensione eco-organizzazionale la quale nasce dalle
interazioni spontanee tra individui e gruppi e che cresce in modo
direttamente proporzionale con l’aumentare della complessità
sociale124.
La società, termine con cui ovviamente e diversamente da
quanto si pensasse non troppo tempo fa non si indica solo quella 123 R. Fortin, Penser avec Morin, cit., p. 74
124Ad esempio attraverso un capitale propriamente sociale quale può essere la cultura. Cfr. E. Morin Il Metodo II, cit., p. 165. La cultura è fonte di evoluzione dei sistemi socio-economici e, in un mondo dominato dall’uomo, il suo ruolo diventa fondamentale. La cultura implica la conoscenza dei processi naturali ed antropici quindi una società con un elevato grado di cultura riesce a valutare i propri limiti di azione; al contrario in assenza di cultura non è possibile valutare le azioni e la società si avvia quindi verso processi fortemente dissipativi dal punto di vista entropico. Il rapporto fra cultura ed entropia è mantenuto da feedback sia negativi che positivi riscontrabili anche nella realtà, dove, infatti, all’aumentare della tecnologia si verifica una conseguente riduzione di cultura.
97
umana, è comunque qualcosa di diverso dalla somma delle interazioni
di cui poc’anzi si è detto poiché queste “producono un tutto
organizzatore retroagente sui suoi elementi costituitivi”125.
In conclusione, con le parole di Sapir126, si può asserire che è
assurdo dire che il concetto di uomo è talvolta individuale, talvolta
sociale così come è assurdo che la materia obbedisce alternativamente
alle leggi della cultura e a quelle della fisica atomica.
La dissociazione dei tre termini individuo/società/specie spezza la
loro relazione permanente e simultanea. Il problema fondamentale è quello
di ristabilire ciò che nella dissociazione è scomparso: questa stessa
relazione. E’ dunque di primaria necessità, non solo la riarticolazione di
individuo e società ( processo che è stato talvolta intrapreso ma a prezzo
dell’appiattimento di una delle due nozioni a vantaggio dell’altra), ma
anche l’effettuazione dell’articolazione, considerata impossibile ( o peggio
superata), fra la sfera biologica e la sfera atropo-sociale127.
Interessante, e con questo si conclude la prima parte delle
trattazione, è il quesito che Morin si pone:
Non è forse un’estrema e derisoria pretesa egocentrica quella di
crederci gli unici e veri soggetti del divenire? […] Il divenire-soggetto non
può svilupparsi nell’esclusione di uno dei due termini della coppia
individuo/società. Nonostante le nostre spaventose carenze e i nostri deliri,
solo noi, individui umani, siamo in grado di confrontare conoscenza e
125 E. Morin Il Metodo II, cit., p.158
126 Edward Sapir (1884 –1939) etnologo e linguista statunitense
127 E. Morin Il Metodo I, cit., p. 4
98
coscienza, solo noi cerchiamo di accedere alla coscienza riflessiva del sé
mantenendo una referenza alla coscienza del tutto128.
Nelle righe conclusive di questa affermazione può essere scorto
ciò che conduce direttamente alle problematiche indagate da Morin ne
La conoscenza della conoscenza (oggetto del prossimo paragrafo).
128 E. Morin Il Metodo II, cit., pp. 224, 225
99
“Il semplice
è sempre il semplificato”
G.Bachelard
“Personalmente credo che vi sia almeno un problema che interessa
tutti gli uomini che pensano: quello di comprendere il mondo, noi
stessi e la nostra conoscenza in quanto essa stessa fa parte del
mondo”.
Popper K.
“Sono sempre più convinto che la scienza atropo-sociale ha bisogno di
articolarsi sulla scienza della natura, e che quest’articolazione richiede
una riorganizzazione nella struttura stessa del sapere”
Edgar Morin
La condizione fondamentale delle possibilità di un giusto sapere è il
sapere dei presupposti fondamentali di ogni sapere.
M. Heidegger
100
Paragrafo I.3
Il sapere dopo la complessità
Troppo spesso la conoscenza scientifica viene concepita
come
depositaria della missione di dissipare l’apparente complessità dei
fenomeni al fine di rivelare l’ordine semplice al quale obbediscono. Ma le
modalità semplificanti di conoscenza mutilano la realtà o i fenomeni di cui
rendono conto più di quanto non li esprimano129.
Il sapere scientifico non tiene in considerazione il fatto che “il
problema della conoscenza si annida nel cuore della vita”130. Con
questa espressione, Morin non sta certo invocando il bisogno di una 129 E. Morin, Introduzione al pensiero complesso, cit., p 1
130 E. Morin, Il Metodo III, La conoscenza della conoscenza, Raffaello Cortina, Milano, 200, p 43. La biologia ha posto nell’epicentro dell’organizzazione cellulare l’idea di programma e quella di informazione, aventi entrambe una dimensione cognitiva.
101
concezione biologistica; esprime anzi, cosa ben diversa, la necessità
di un radicamento vitale della conoscenza.
Proseguendo la tendenza già insita nella critica apportata al
cogito cartesiano Morin entra, nei tomi III e IV131 de Il Metodo, nel
vivo della conoscenza. Riafferma che, anche a questo stadio
propriamente epistemico del suo lavoro, finanche in termini formali di
composizione dell’ opera stessa, la presunta dualità si traduce in
unità: i due tomi infatti devono essere presi in considerazione in modo
ineluttabilmente intersecato.
Tale opinione trova riscontro, in primo luogo, nell’analisi
fortiniana ove non vi è posta una netta disgiunzione tra i due volumi,
che anzi “constituent une tentative audacieuse de reparadigmatisation
de la connaissance”132 ed in secondo luogo nelle parole di Morin
stesso, il quale interseca costantemente, non solo parti dei due testi,
ma questi con Natura e Vita. Si vedrà, poco più avanti l’importanza di
questi legami.
E’ inammissibile parlare di conoscenza senza apporre al centro
del discorso chi, massimo oggetto d’oblio delle scienze e della
maggior parte delle epistemologie, è stato rilegato a starne fuori:
riprendendo la tematica del soggetto/oggetto infatti Morin torna a
trattare la questione, e tutta l’importanza che essa comporta, della
riflessività della conoscenza, in primis dicendo che: “l’operatore della
conoscenza deve divenire nello stesso tempo l’oggetto della
131 Ovvero i volumi: Il metodo III, La Conoscenza della Conoscenza e Il metodo IV, Le idee: Habitat, Vita, Organizzazione, Usi e Costumi
132 R. Fortin, Penser avec Morin, cit., p. 91
102
conoscenza”133 pur rimanendo soggetto. A conferma di quanto si
sosteneva in precedenza, la reintegrazione del soggetto riporta sulla
spirale creata e preannunciata nei volumi iniziali de La Méthode.
La mente, non facendo attenzione a se stessa, s’illude e crede di
poter concepire effettivamente corpi che esistono come non pensati e come
esterni alla mente sebbene allo stesso tempo essi vengano colti ed esistano
in essa134.
Strettamente connessa all’abolizione del rapporto dicotomico
tra soggetto e oggetto trova spazio la problematizzazione della
relazione tra mente (psiche, spirito) e cervello. E’ questa in realtà una
tematica che si insinua giustamente in molte pagine dell’opera di
Morin proprio a causa del suo essere fondamentale e mai
completamente circoscritta.
Un medesimo paradigma continua a imporre un antagonismo
insormontabile alle nostre concezioni della mente e del cervello. Esse
rimangono condannate o alla disgiunzione o alla riduzione o alla
subordinazione”135.
Tale è l’antagonismo tra materialismo e spiritualismo, in cui
entrambe le posizioni hanno la pretesa di essere egemoniche. Ancora
più nettamente viene affermata da parte di Morin, l’esigenza di “far
cadere completamente l’idea che possa esistere un fenomeno psichico 133 E. Morin, Il Metodo III, cit., p. 34 134 G. Berkeley, Principles of Human Knowledge, Editore Oxford University
Press, USA, p. 23 trad. It. Trattato sui principi della conoscenza umana, Bari,
Laterza & Figli, 1991, p.39
135 E. Morin, Il Metodo III, cit., p. 80
103
indipendente da un fenomeno bio-fisico”136 e ancor più quella di
eliminare “la disgiunzione fra la sostanzialità dell’essere e
l’immaterialità del conoscere”137.
La soluzione apportata in prima istanza da Morin è quella di
concepire un anello ricorsivo-produttivo in cui, come ultima
emergenza dell’evoluzione cerebrale, lo spirito è continuamente generato-
rigenerato dall’attività cerebrale […] ed in cui svolge un ruolo attivo e
organizzatore per la conoscenza e l’azione138 .
Come è accaduto in precedenza, per le categorie di autonomia e
dipendenza, l’unità di spirito e cervello crea quella che è possibile
definire con l’espressione “unidualità”: nessuno dei due termini può
annullare l’irriducibilità dell’uno all’altro. Vi è poi da sottolineare
che, in ogni caso, chi conosce non è né lo spirito né il cervello
ovviamente ma è l’essere/soggetto che usa la mente/cervello come
mezzo. Scrive Morin:
abbiamo un bisogno vitale di situare, riflettere, reinterrogare la
nostra conoscenza, cioè di conoscere le condizioni, le possibilità e i limiti
della sua capacità di giungere a quella verità a cui mira139.
Si potrebbe essere tratti in errore e pensare che una conoscenza
che pretende di conoscere sé stessa debba necessariamente costituirsi
come meta-pensiero o meta-coscienza; che debba, in altri termini,
136 E. Morin, Il Metodo III, cit., p. 83
137 E. Morin, Il Metodo III, cit., p. 87
138 E. Morin, Il Metodo III, cit., p. 91
139 E. Morin, Il Metodo III, cit., p.114
104
costituire un sistema di meta-punti di vista sulla disposizione della
mente a considerare se stessa. Ma così non è ed anzi è stato forse
questo il grande errore di qualunque teorizzazione sia stata fatta fino
ora. Al riguardo, l’epistemologia moriniana auspica di fatto a tutt’altro
destino: una concezione in cui la conoscenza sia innanzitutto
peninsulare ovvero, a un tempo, biologica, cerebrale, spirituale,
logica, sociale e guidata da principi né separazionisti né dissociativi.
Ogni evento cognitivo richiede la congiunzione di processi fisiologici,
esistenziali, psicologici, fisici, collettivi, personali e trans-personali,
ingranantisi gli uni negli altri. In quanto fenomeno
multidimensionale, la conoscenza, se viene disgiunta e frazionata in
una miriade di aree specializzate che non comunicano tra di loro, non
è più in grado di svolgere quella che è la sua funzione.
Non concepibile come tribunale esterno né superiore alla
scienza, non trasformando la logica in diktat indubitabile
“l’epistemologia complessa deve avere una competenza più vasta
dell’epistemologia classica; non dispone di un fondamento e di un
sito privilegiato e non ha potere unilaterale di controllo”140. Essa
costituisce, nel momento in cui prende forma, una rivoluzione
hubbleana141 in campo epistemologico nel senso che, priva di
fondamento come è, non si reputa il centro della verità ma anzi ruota
attorno al problema della verità.
140 E. Morin, Il Metodo III, cit., p. 29
141 Hubble, come già sottolineato in precedenza, ha mostrato che l’universo è privo di centro.
105
Non è possibile addentrarsi pienamente nel merito del discorso
moriniano, che consta di un lavoro da lui mirabilmente condotto ma
in questa sede troppo specifico. Percorrendo e indicando però gli
snodi focali della questione si possono asserire qui vari principi guida.
Nella sua “Antropologia della Conoscenza” Morin inserisce una
Biologia e un’Animalità della Conoscenza. Arrivati a tale punto della
trattazione è chiaro che questi due termini hanno una valenza non
trascurabile nel discorso qui messo in essere.
La conoscenza della vita ci introduce alla vita della conoscenza
poiché “la cognizione, biologicamente dipendente dal soggetto, è un
processo costitutivo dell’organizzazione del soggetto conoscente”142.
Nulla dell’attività della mente umana sfugge alla
computazione143. Sebbene non tutta l’attività mentale sia riducibile ad
essa, ogni conoscenza presuppone una computazione144 e, nello
specifico, la computazione vivente, che è “ad un tempo
organizzatrice/produttrice/comportamentale/cognitiva”145, si trova a
dover risolvere incessantemente i problemi della sopravvivenza prima
142 Maturana H., Stratégies cognitives, 1974, in Piattelli-Palmarini M., Scienza come cultura. Protagonisti, luoghi e idee delle scienze contemporanee, Mondatori, Milano, 1992, p. 218
143 Come già si è visto, tale termine di derivazione latina indica l’azione di calcolare insieme, comparare, confrontare, comprendere. E’ un’attività di carattere cognitivo inerente non solo all’attività cerebrale ma anche all’auto-organizzazione vivente; negli esseri viventi, comprese le cellule, va ben oltre le capacità dei computer, di cui questa attività è propria, in quanto è in grado di computare in modo egocentrico la propria computazione 144 Nel dettaglio, nozione qui trattata in I.2
145 E. Morin, Il Metodo III,. cit., p. 51
106
ancora che quelli della vita. La computazione vivente inoltre
comporta in sé, e non potrebbe essere diversamente, un fenomeno
originale e fondamentale: l’auto-computazione, ovvero la capacità che
mette in atto il circuito ricorsivo (già presentato in I.2.2) formato da
“Io sono me”.
Per quanto riguarda il secondo costituente di un’antropologia
della conoscenza Morin riprende temi trattati nel volume La Vita
della vita e approfondendo studi da altri compiuti sull’apparato
neuro-cerebrale animale (portanti a dimostrazione tra l’altro che la
conoscenza è una computazione di computazioni) sostiene
l’importanza di indagare l’origine della specie umana.
Bisogna, egli sostiene, reintegrare l’umanità nell’animalità
senza dimenticare che, contenendola e conservandola146 l’umanità
appunto supera l’animalità. Scrive Morin: “l’uomo è intelligente ma il
suo cervello sfida la sua intelligenza”147. Sia che venga intesa in senso
fisico che filosofico, quest’organo è una macchina ipercomplessa, o
meglio una complessità di sistemi complessi, se non che un’
ammirabile esempio di unitas multiplex.
Si necessita di tre principi di intelligibilità per concepire questa
ipercomplessità cerebrale (e perché questa possa altresì applicarsi al
reale):
• principio dialogico, con il quale si intende
l’associazione complessa (complementare/concorrente/antagonista)
146 Questo il senso moriniano del termine superamento
147 E. Morin, Il Metodo III, cit., p. 97
107
di istanze necessarie contemporaneamente all’esistenza, al
funzionamento e allo sviluppo di un fenomeno organizzato. La
dialogica opera a tutti i livelli dell’organizzazione cerebrale148.
• principio ricorsivo a proposito del quale Morin scrive: “ogni
esame delle attività cerebrali deve utilizzare non soltanto
l’idea di interazione ma anche quella di retroazione”149 poiché
si tratta di processi circolari nei quali gli effetti non sono solo
tali ma divengono cause a loro volta. E’ ormai stabilito e
appurato che l’idea di anello non va presa come una mera
nozione cibernetica; essa anzi essa rappresenta molto di più:
ci svela un processo organizzatore multiplo nell’universo
fisico e che si sviluppa nell’universo biologico e ci permette […]
di concepire l’organizzazione del pensiero, la quale può essere
intesa solo secondo un anello ricorsivo in cui
computazione e cogitazione si generano a vicenda150.
Il dinamismo ricorsivo tra spirito e cervello si rispecchia
in quello tra cogito (in riferimento alla parte
psichica/spirituale di apparato cerebrale) e computo (in
riferimento alla parte neuro-cerebrale, al cervello in quanto
entità fisica e organica).
148E. Morin, Il Metodo III, cit., p. 112
149 E. Morin, Il Metodo III, cit., p.114
150 E. Morin, Il Metodo III, cit., p. 115
108
• principio ologrammatico: con ologramma (dal termine greco
holos, tutto) si intende un’ immagine fisica, concepita da
Gabor, in cui ogni punto dell’oggetto ologrammato è
memorizzato, in un certo senso, dall’ologramma nel suo
insieme e ogni punto dell’ologramma contiene la presenza
dell’oggetto nella sua integralità o quasi. L’ologramma
dimostra la realtà fisica di un tipo sorprendente di
organizzazione in cui il tutto è nella parte che è nel tutto. E’
questo un principio cosmologico chiave poiché la complessità
organizzazionale del tutto esige la complessità
organizzazionale delle parti, come fossero dei micro-tutto
virtuali.
Detto ciò si può asserire che
non si ha più entità di partenza per la conoscenza: il reale, la materia,
la mente, l’oggetto, l’ordine. Si ha un gioco circolare che genera quelle
entità che appaiono come altrettanti momenti di una produzione. Con ciò
non ci sono più alternative inesorabili tra le entità antinomiche che si
disputavano la sovranità ontologica151.
La vera disputa sta ora tra complessità e semplificazione.
V’è da aggiungere infine che, come non si può isolare il cervello dallo
spirito né viceversa, tanto meno si può separare il cervello/spirito
dalla cultura (termine che sta ad indicare genericamente codici
linguistici e simbolici sociali). Essa infatti è “un terzo incluso
151 E. Morin, Il Metodo I, cit., p. 445
109
nell’identità dello spirito/cervello”152 capace di trasformare
quell’unidualità in trinità.”
Questo punto costituisce il train d’union tra l’antropologia della
conoscenza fin qui indagata, la quale prende in considerazione “la
conoscenza dal punto di vista delle condizioni psico-cerebrali che
presiedono alla sua formazione”153 e che -nel far ciò- la esamina a
partire dalla percezione fino ai miti e alle idee, e una sociologia della
conoscenza: ambito e scopo del IV° tomo de La Méthode.
Face au probléme du fondement, et devant l’impossibilité de troveur
un fondement premier à la connaissance, Morin se voit contraine ancore
une fois à faire travailler la circularité154.
Alcuni concetti espressi nel suddetto volume possono in realtà
essere considerati introduttivi a nozioni esposte e trattate nei volumi
precedenti in quanto indagano le stesse problematiche; ma
quest’indagine ora viene condotta da tutt’altro punto di vista: invece
che muovere dal mondo concepito dalle idee che l’umanità ha, si
rivolge proprio alle idee, alla loro natura, organizzazione e condizioni
di sussistenza. Si ha così una chiara saldatura epistemologica tra le
differenti sfere della conoscenza che è tale solo in quanto prodotto
delle loro interazioni: “il n’est pas de sociologie de la connaissance
152 E. Morin, Il Metodo III, cit., p. 85
153 E. Morin, Il Metodo IV. Le idee: Habitat, Vita, Organizzazione, Usi e Costumi, Feltrinelli, 1993, p. 11 154 R. Fortin, Penser avec Morin , cit . , p. 91
110
sans antropologie de la connaissance, les conditions socio-culturelles
de la connaissance”155.
Alla prima esposizione in questi termini, ovvero alla trattazione
di un’ecologia della conoscenza che prende in esame la conoscenza
dal punto di vista delle condizioni socio-culturali e storiche che
presiedono alla sua formazione, fa seguito, logicamente e
cronologicamente, un esame noologico che invece considera la
conoscenza dal punto di vista dell’esistenza e dell’organizzazione del
mondo delle credenze e delle idee.
“Prigioniera della cultura, la mente non può liberarsi se non con
l’aiuto della cultura”156.
Strettamente connessa all’idea di cultura è certamente l’ecologia
della conoscenza tanto è che, scrive Morin,
le condizioni socio-culturali della conoscenza sono per natura affatto
diverse dalle condizioni bio-cerebrali, le une e le altre sono legate assieme a
mo’ di nodo gordiano: le società possono esistere, le culture formarsi,
conservarsi, svilupparsi solo attraverso le interazioni cerebrali/intellettuali
tra individui157.
L’attività cognitiva degli individui si nutre di memoria biologica
ma anche di una memoria culturale, la quale funge da strutturazione
interna più che da determinismo sociologico interno.
155 R. Fortin, Penser avec Morin , cit . , p. 104
156 E. Morin, Il Metodo IV, cit., p. 97
157 E. Morin, Il Metodo IV, cit., p. 19
111
Va ribadito, a questo punto, l’imperativo dell’autonomia
dipendente, ossimoro che si applica anche e soprattutto al concetto di
conoscenza. Infatti, nonostante il determinismo a questa attribuito,
Morin insiste, ragionevolmente, sull’aspetto potenziale di costante
libertà e liberazione della conoscenza stessa in virtù di ciò che egli
chiama crepe/buchi/rotture e depressioni e che stanno ad indicare
genericamente rivolte e devianze, libere polemiche, alee, autonomia
cognitiva, immaginazione individuale, scambi.
Riportando in questa sede in forma affermativa ciò che Morin
scrive in senso interrogativo, si può asserire, senza per ciò travisare il
senso moriniano dell’espressione poiché tutta la sua opera è
indirizzata ad una risposta affermativa a quella domanda: le nostre
idee possono sottrarsi non soltanto all’ego-centrismo personale ma
anche al socio-etno-centrismo (o empreinte sociale, così lo definisce
Fortin158) che ci racchiude in una società e in un’epoca determinate159.
Le idee non vanno astratte dal reale160, dalla società, dal contesto
culturale in cui nascono ma non per ciò vanno ridotte ad essi.
Per quanto concerne, in modo più generico, la sociologia della
conoscenza, si può asserire che la sociologia a cui fa riferimento
Morin, e a cui auspica, non è di certo quella deterministica ma anzi
un’ auto-trans-meta (termini il cui significato è messo in evidenza
nello schema che segue) sociologia in grado innanzitutto di
contemplare riflessivamente se stessa come oggetto hic et nunc. 158 R. Fortin, Penser avec Morin , cit . , p. 107
159 Cfr. E. Morin, Il Metodo IV, cit., p. 96
160 Come se fossero, di ispirazione platonica, meramente autonome e dominanti.
112
Questa va altresì inscritta in un rapporto di interdipendenza ad anello
tra logica ed epistemologia, tra scienza e conoscenza, tra nooologia e
biologia.
Riportando tale affermazione in modo schematico si ottiene che:
161
Inoltre, connettere questi concetti in modo sistemico significa in
parte addentrarsi nell’elaborazione di una noologia.
La noologia “considera le cose della mente come entità
oggettive”162 ma ciò non esclude che codeste entità possano essere
considerate in modo assolutamente complementari, invece che
antagoniste, sia dal punto di vista degli intelletti/cervelli umani che le
producono (Antropologia della conoscenza) che dal punto di vista
161 E. Morin, Il Metodo IV, cit., p. 100
162 E. Morin, Il Metodo IV, cit., p. 117
113
delle condizioni culturali della loro produzione (Ecologia della
mente).
Dire ciò, significa altresì dichiarare la necessità che la noosfera
vada articolata nel mondo atropo-sociale poiché “l’intelletto/cervello e
la cultura condizionano, eco-organizzano, vincolano, liberano la
noosfera, la quale condiziona, eco-organizza, vincola, libera
l’intelletto/cervello e la cultura”163.
Nous allons voire que les idées - scrive Fortin a tal riguardo- sans
disposer d’une autonomie propre, disposent d’un pouvoir propre qui leur
confère une réalité et une existence objectives ; […] les idées rétroagissent
sur les esprits/cerveaux et la culture 164.
Noosfera che va inoltre -per i motivi già esposti intrinseci alla
dinamica del pensiero moriniano- strutturata anche nella biosfera,
ovvero nella Natura e nel cosmo, in quanto vi è inglobata, immersa ed
è aperta ad essi.
Per comprendere poi le logiche che sottostanno alla noosfera,
come anche alla biosfera, all’universo fisico e a quello umano, è
necessario ritornare sui passi percorsi ne la Méthode poiché pure la
noosfera stessa è sottomessa a una dialogica di
ordine/disordine/organizzazione (in cui nascono, si trasformano e
muoiono le entità noologiche).
163 E. Morin, Il Metodo IV, cit., p. 129
164 R. Fortin,Penser avec Morin , cit . , p.115
114
E’ la complessità stessa, in definitiva, delle realtà umane e
antropo-sociali che rende la prospettiva noologica indispensabile. Ciò
perché:
senza occultare o negare le determinazioni e i condizionamenti sociali,
culturali, storici; senza negare o occultare i soggetti conoscenti e credenti o
la realtà fondamentale della psiche umana, il punto di vista noologico
consente di descrivere obiettivamente i fenomeni noosferici, di conoscere
[…] i modi di organizzazione meta-biologici delle idee, delle dottrine e
delle ideologie, di prender coscienza delle relazioni dominatrici e asserventi
che queste entità, nate da menti umane, fanno subire a queste stesse
menti165.
Ogni conoscenza comporta non solo caratteri individuali,
soggettivi ed esistenziali ma anche il fatto di essere, in un certo qual
modo, posseduti dalle idee che si crede di possedere.
Sebbene necessitino di un principio di incertezza (essenziale per
riconoscere l’errore, l’illusione o la verità), le tre istanze qui indagate -
antropologica, socio-culturale e noologica- sono simultaneamente e in
eguale misura necessarie alla conoscenza della conoscenza che, a sua
volta, è imprescindibile per una conoscenza complessa. E’ la
complessità intrinseca al reale stesso ad essere intessuta di incertezza.
Il cammino non è però ancora concluso: l’epistemologia
complessa, unica che può evitare il rischio di strumentalizzazioni,
idealismi, razionalizzazioni e che attua un controllo costante e
reciproco tra le nostre idee e le nostre menti, è necessaria ma non
sufficiente. 165 E. Morin, Il Metodo IV, cit., p. 165
115
Il problema cognitivo infatti è un problema quotidiano di tutti;
esso possiede una valenza storica, sociale e politica sicuramente
decisiva; ciò conferisce un ulteriore senso alla missione moriniana, si
vedrà il perché nel capitolo successivo.
Non possiamo fare a meno di una concezione – di noi e- del mondo
[…] per conoscere, per cogliere il nostro essere-nel mondo. […] I nostri
valori non possono certo essere dimostrati empiricamente e logicamente
ma la nostra logica e la nostra conoscenza empirica possono dialogare con
essi166,
aggiungo, ispirati da un paradigma di complessità.
167
Ciò che in tale schema viene sintetizzato è quanto fin’ ora si è,
almeno, tentato di esporre e troverà continuum naturale in ambito
etico ed educativo (nel prossimo capitolo).
166 E. Morin, Il Metodo IV, cit., p. 263
167 R. Fortin, Penser avec Morin, cit., p. 133
116
“The whole purpose of education is to turn mirrors into windows”. Scopo dell’educazione è trasformare gli specchi in finestre.
Sydney J. Harris
“Il destino dell’umanità dipende anche dal modo di pensare la realtà umana”. Edgar Morin
117
Capitolo II
Etica ed educazione
Paragrafo II.1: L’etica dell’identità umana
“L’ossessione principale della mia opera – scrive Morin-
concerne la condizione umana”168. Conoscere l’umano non deve e non
può significare astrarlo dall’universo ma anzi situarvelo; soprattutto in
quest’epoca, in cui possiamo dare per dimostrato il nostro doppio
radicamento nel cosmo fisico e nella sfera vivente dai quali siamo
contemporaneamente dentro e fuori. Rivalutando concetti espressi nel
primo tomo de Il Metodo si può asserire che l’essere umano non è
fisico solamente perché composto da particelle, atomi e molecole; è
piuttosto la sua auto-organizzazione ad essere nata da un’
organizzazione fisico-chimica. Non solo, il radicamento dell’essere
umano, per quanto si cerca di allontanarlo e di rigettarlo in un ambito
di sola competenza filosofica, è anche biologico:
168 E. Morin, Il Metodo V, L’identità umana, Raffaello Cortina, Milano, 2002, p. XIX
118
dalla Terra è effettivamente nata la vita e dallo sviluppo multiforme
della vita policellulare è nata l’animalità e, in seguito, il più recente
sviluppo di un ramo del mondo animale è divenuto umano169.
L’ominizzazione, avventura assoluta nell’evoluzione della vita
che prende avvio milioni di anni fa, conduce all’individuo la cui
caratteristica prima è quella di non avere specializzazione anatomica:
quella che può apparire una mancanza e un’insufficienza in realtà si
rivela essere una virtù e permette all’individuo di diventare un
factotum.
In secondo luogo, cosa che sostenne anche Mointagne, ogni
essere umano, porta in sé l’intera forma della condizione umana.
Torna in auge qui il principio ologrammatico, già descritto170, poiché
unico capace di mostrare quanto l’individuo, nodo gordiano della
trinità umana,
contiene il tutto (della specie, della società) pur essendo parte del
tutto; contiene in sé non solo le complementareità della trinità
individuo/società/specie ma anche i suoi antagonismi e le sue
contraddizioni. […] Non come microcosmo, puro riflesso del tutto ma alla
maniera di un singolo punto di ologramma che contiene la maggior parte
dei caratteri del tutto nella sua stessa singolarità171.
Idea centrale e colma d’implicazione quella di individuo, di cui
anche Fortin parla in questi termini :
169 E. Morin, Il Metodo V, cit., p.7
170 Cfr. Paragrafo I.3
171 E. Morin, Il Metodo V, cit., p. 51
119
l’individu n’est rien à l’èchelle de l’univers […] mais c’est que press
rien, cette partie insignifiante du tout le contient en retour […]. C’est la
notion d’individu qui fonde l’idée de sujet. L’occupation du site
égocentrique qui place tout individu vivant au centre de l’univers ( de son
universe), site qu’aucun autre individu ne peut occuper à sa place, definit sa
qualité de sujet172.
Contrariamente alla tradizione filosofica imperante in
Occidente, che si è basata e costruita su una nozione di soggetto
immateriale/incorporeo e sradicato da ciò che più in verità lo rende
fondamentale, uno degli intenti moriniani, va ribadito, è di innalzare
la nozione di soggetto a partire dal mondo della vita, immergendovelo.
Morin infatti denuncia tutte le visioni oggettiviste e positiviste che non
vedono nell’essere umano null’altro che una macchina determinista e
chiusa in sé e che sono incapaci di penetrare dentro la vita del
soggetto173.
Come esempio si può addurre (argomento tra l’altro indagato
da Morin anche in altri testi quali Il paradigma perduto e L’Uomo e la
morte) il concetto di morte poiché questo è al contempo l’evento più
oggettivo possibile ma anche il più soggettivo: “la mort objective à
toujours été traitée subjectivament, depuis les débuts de
l’humanitè”174; essa è un fatto, una realtà, un destino biologico
evidente ma che al medesimo tempo viene vissuto interiormente
come paura e angoscia. In virtù di questo, la morte, o meglio la
172 R. Fortin, Penser avec Morin , cit . , p.140
173 Paradossalmente l’oggettività non può che venire da un soggetto.
174 R. Fortin, Penser avec Morin , cit . , p.143
120
coscienza della morte, consacra la rottura tra mondo biologico e
umano dimostrandone altresì la situazione di vicendevole dipendenza.
Tutto ciò comporta conseguenzialmente l’esigenza di concepire
l’essere umano, pur nella sua individualità, reinserito anche in una
fitta rete di relazioni, in primis con gli altri individui; in questo caso,
il Noi che viene a crearsi, non elimina l’Io ma anzi lo contempla in
una relazione complessa. Idea questa che può essere espressa anche
sostenendo che i soggetti si auto-organizzano in interazione con altri
soggetti. “Il soggetto -scrive Morin- emerge al mondo integrandosi
nell’intersoggettività”175.
Viene a delinearsi dunque un nuovo complesso che connette, in
modo retroattivo e circolare, cervello, mano, linguaggio, mente,
cultura e società e nel quale l’ominide diviene umano a pieno titolo
poiché si ha, per il concetto di uomo così delineato, una doppia via
d’ingresso:
‐ biofisica
‐ psico-sociale-culturale.
L’umano, inteso in senso moriniano, convoglia su di sé l’essere
nel contempo individuale, sociale e biologico; è come se, date le sue
mancanze peculiari di cui poche righe sopra si è parlato, l’umanità
fosse dotata di una seconda natura: la cultura. L’umanità di Homo
sapiens infatti, scrive Morin, si realizza pienamente solo attraverso la
cultura.
175 E. Morin, Il Metodo V, cit., p. 57
121
Ci sono delle pre-culture nel mondo animale, ma la cultura che
comporta il linguaggio a doppia articolazione – nel quale cioè la frasi sono
analizzabili in elementi sonori (fonemi) privi di significato, che sono
associati in unità provviste di un senso (parole)176-, la presenza del mito, lo
sviluppo di tecniche, è propriamente umana177.
La cultura è, capitale cognitivo/tecnico e mitologico/rituale di
memoria e organizzazione –come può esserlo il DNA per l’individuo
preso singolarmente-, la maggior emergenza distintiva della società
umana.
L’umanità allora emerge nell’intersecazione di una pluralità di
triadi formata da:
• individuo-società-specie,
• cervello-cultura-mente,
• ragione-affettività-pulsione (espressione quest’ultima della
triunicità del cervello umano “Io, Es, Super io”)
Una triade di trinità che ci permette di non ridurre l’umanità
all’individualità sebbene questa costituisca un “nodo di interferenze
tra l’ordine biologico della pulsione e l’ordine sociale della
cultura”178. Questo nodo ci permette altresì di ammettere una saldatura
epistemologica e di concepire un anello ricorsivo in primo luogo tra
biologico e culturale; cosa che solitamente invece non avviene poiché
176 E. Morin, Il Metodo V, cit., p. 285
177 E. Morin, Il Metodo V, cit., p.15
178 E. Morin, Il Metodo V, cit., p. 33
122
non c’è comunicazione possibile tra una biologia - riduzionista-
priva di concetti di auto-organizzazione, di esistenza individuale, di
intelligenza e un’antropologia senza vita nella quale la nozione di uomo si è
disintegrata in nozioni disgiunte 179.
Si tratta, in altre parole, di porre fine ad una razionalizzazione
sfrenata e separatista posta in essere da una logica chiusa in sé stessa e
che altro non vede se non quello che vuol vedere: la razionalità
umana. Ciò anche in virtù del fatto che, oltre Homo sapiens, vi è
quella controparte che Morin definisce demens, non un surplus ma
una parte irrazionale e speculare a quella raziocinante. Lo stesso
lavoro posto in essere da Morin tende a dimostrare che la conoscenza
razionale dell’umano implica il riconoscimento di ciò che è in lui
eccede homo sapiens180.
Quella di sapiens è una denominazione insufficiente poiché
l’umano non è affatto privo di vita affettiva, istintuale, come neanche
di violenza e rabbia, sentimento estetico, religioso, vita ludica,
fantasiosa. E’ “irrazionale, folle, delirante nascondere la componente
irrazionale, folle, delirante dell’umano”181. E l’essere umano è proprio
vittima di questo modo di pensare che troppo spesso oppone e quindi
banalizza.
179 E. Morin, Il Metodo V, cit., p. 35
180 “E’ sapiens che ha sterminato i neandertalensi che vivevano in Europa” scrive Morin, per il quale etica significa anche e soprattutto resistenza alla barbarie umana – che in homo sapiens si riscontra- e alla crudeltà del mondo che sa essere impietosa e distruttiva nella sua naturalità.
181 E. Morin, Il Metodo V, cit., p. 100
123
Tra le due componenti si crea un rapporto circolare così che non
si è mai né l’una né l’altra separatamente ma una concatenazione
dell’una e dell’altra; così come anche l’universo, che crediamo
regolare, prosaico e razionale, ha la sua controparte, che sappiamo
essere vitale dalle prime pagine del presente lavoro, caotica,
disordinata e (in senso eracliteo) indistinta.
Si ha dunque un Homo sapiens-faber-consumans-œconomicus
ma anche ludens-demens che, presi unitamente, come è giusto che
vengano considerati e interpretati, costituiscono l’Homo complexus:
poetico, sognatore, istintuale e tuttavia capace di oggettività e calcolo
razionale. La razionalità deve comprendere e può includere in sé i
bisogni umani, le emozioni, le passioni insite in ogni essere
razionale. Come spiega Fortin:
la dialogique sapiens/demens s’inscrit dans la dialogique de l’ordre
et du désordre […]: c’est bien à cela que nous enjoint la complexité: non
pas au dépassement des contradiction comme dans la logique hégélienne,
mais un maintien de l’opposition et de la contradiction182.
Questa visione inclusiva dell’essere umano ci restituisce l’uomo
nella sua pienezza vivente, mentre le scienze hanno cercato di privarlo
della vita affettiva, mentale e immaginaria pur di analizzarlo.
Detto ciò, Morin passa in rassegna quelle che definisce le grandi
identità e va a scandagliare un percorso composto da cinque momenti
diversi:
1. identità sociale, nucleo arcaico
182 R. Fortin, Penser avec Morin , cit . , p. 153
124
2. identità sociale, il leviatano
3. identità storica
4. identità planetaria
5. identità futura
unendo così storia e avvenire.
L’auto-organizzazione, (punto1) come si deduce dal discorso
moriniano, produce l’autonomia della società nel suo ambiente, da cui
trae sì energie fisiche, biologiche, informazione e organizzazione ma
si costituisce anche in e grazie a questa dipendenza divenendo dunque
auto-eco-organizzazione. “Come l’essere individuale, l’essere sociale
è auto-eco-organizzatore”183. Una società ha bisogno in prima istanza
di individui evoluti che la compongano poiché
ciò che differenzia le società dagli organismi non è né la divisione
del lavoro, né la specializzazione, né la gerarchia, né la comunicazione
delle informazioni, che sono presenti in entrambi, ma la complessità degli
individui184.
La società umana, complessa e retroagente attraverso la cultura
prodotta dalle proprie parti, si organizza a partire da scambi di
comunicazioni tra le stesse menti individuali che la compongono.
Storicamente poi, questa auto-organizzazione-bio-socio-culturale,
benché integrata e corretta o comunque trasformatasi nel corso del
183 E. Morin, Il Metodo V, cit., p. 145
184 E. Morin, Il Metodo V, cit., p. 145 cfr. E. Morin, il Metodo II, cit., Sociologia della sociologia
125
tempo, è presente nella società odierna tanto quanto lo fu nelle società
arcaiche.
Ciò che viene a modificarsi col tempo, (punto 2) nel passaggio
dalle società appunto arcaiche a quelle che Morin definisce come “il
leviatano”, consiste in un aumento di complessità; in virtù di un
insieme di nuove presenze quali quelle dello Stato, delle città,
dell’agricoltura, delle classi sociali, dell’istituzione religiosa. Queste
nuove entità organizzative non cancellano le precedenti tipologie di
organizzazione ma le inglobano superandole.
Morin parla successivamente di identità storica (punto 3)
asserendo che
il destino storico non era inerente all’umanità. […] La storia –
fenomeno umano tardivo- introduce il primato del tempo irreversibile sul
tempo circolare, del tempo evenemenziale sul tempo ripetitivo, del tempo
agitato sul tempo rotativo […] assicurando la supremazia della mobilità 185.
La storia e lo Stato sono coevi, la storia nasce
contemporaneamente allo Stato; ciò perché essa non è un fenomeno
che sta a fondamento dell’umanità ma ne è rivelatore e sintomatico.
Da quando, all’inizio del XVI secolo, le nazioni europee si
lanciarono all’impetuosa conquista del globo dando così avvio all’era
planetaria, ad oggi assistiamo (punto 4) a ciò che si può definire una
seconda mondializzazione, dopo quella avvenuta nella preistoria.
Conquista ma anche mondializzazione dell’umanesimo, dei
diritti umani, della democrazia sono i motori di codesta era planetaria. 185 E. Morin, Il Metodo V, cit., p. 187
126
Essa si concretizza, similmente a quanto accade nel concetto di
individuo,
nell’essere ciascuna parte del mondo sempre più parte del mondo
stesso, e nel fatto che tutto il mondo è sempre più presente in ciascuna delle
sue parti. […] Come ciascun punto di un ologramma contiene
l’informazione del tutto di cui è parte, così ormai il mondo è sempre più
presente in ogni individuo186.
Destino storico e destino planetario, integrandosi
vicendevolmente, formano ormai un tutt’uno inseparabile poiché è la
planetarizzazione stessa, già in atto, a significare unità di destino per
l’umanità. Scrive Morin, “economicamente e tecnicamente tutto si sta
mettendo in moto per una società-mondo. Il problema non è tecnico. Il
problema è che non è solo tecnico”187.
Il principio di incertezza, inteso come modus operandi e che
governa tutto il sistema moriniano, si palesa ancor di più nel momento
in cui egli si rivolge al futuro (punto 5).
I destini locali sono sempre più legati al destino globale del pianeta,
a sua volta dipendente anche da eventi, innovazioni, accidenti, disfunzioni
locali che possono innescare azioni e reazioni a catena e biforcazioni
decisive che influenzano questo destino globale188.
E’ altresì vero che il destino dell’umanità dipende fortemente
dagli sviluppi locali, sempre imprevedibili e incerti nelle loro
186 E. Morin, Il Metodo V, cit., p. 215
187 E. Morin, Il Metodo V, cit., p. 233
188 E. Morin, Il Metodo V, cit., p. 231
127
conseguenze ad ampio raggio; come dipende altresì da ciò che spinge
lo sviluppo globale, ovvero il quadrimotore costituito da scienza-
tecnica-industria-capitalismo.
Non bisogna mai dimenticare che ciò da cui l’umanità d’altro
canto dipende è anche ciò che costituisce le sue condizioni di
autonomia: la Natura, da sempre sfruttata e manipolata ai fini
scientifici, oggi, anche a causa del quadrimotore, si sta trasformando
catastroficamente. Lo sviluppo tecnico infatti ha permesso e conferito
al genere umano un’autonomia considerevole in relazione a questo
ambiente naturale fino ad arrivare ad un suo reale dominio e ad una
sua addomesticazione. In realtà ogni essere vivente ha una
dipendenza interna ineluttabile, sia a livello
biologico/fisico/costitutivo che sociale/culturale.
Scrive Fortin : “les principes de la connaissance complexe qui
nous ont permis de repenser la complexité humaine vont nous
permettre de repenser l’éthique”189. Infatti, il lavoro fin qui condotto
da Morin, ripercorso nella presente trattazione, porta a dover attuare
un ripensamento anche dell’etica (termine usato con la stessa valenza
di morale) stessa, non scevra da riduzionismi e disgregazioni in seno
alla relazione individuo/società/specie. “Ogni atto morale è un atto
individuale di relianza: relianza con un altro, con una comunità, con
una società e, al limite, di relianza con la specie umana”190.
Comprendere ciò è il primo compito di colui che indaga la
questione etica. Innanzitutto allora vi è una fonte individuale 189 R. Fortin, Penser avec Morin, cit., p. 165
190 E. Morin, Il Metodo V, cit., p.6
128
dell’etica, come ve ne è una di origine sociale (norme e regole
comuni) e naturale (inscritte cioè nell’auto-socio-organizzazione
biologica dell’individuo memorizzate nel DNA).
L’auto-éthique est le résultat d’un long processus d’individualisation
et de démoctratisation qui a entraîné l’erosion du pouvoir religieux, la
dissolution des éthiques communitaires et l’affaiblissement du sormoi
social qui pouvaient encore servir de normes pour réguler les
comportements. L’auto-éthique reléve d’une exigence intérieure, qui est
ressentie par l’individu comme un devoir; son fondement n’est ni religieux
ni social, mais il ne les exclut pas191.
“La crisi etica della nostra epoca è nello stesso tempo crisi
della relianza individuo/società/specie”192. L’etica, per questo va
ricollocata, radicata nell’anello individuo/società/ specie, nella sua
primordialità e originalità, in prima istanza a livello cosmico,
rivalutando le molteplici dipendenze umane nei confronti della
biosfera. “Nous sommes […] faits de la même matière que l’univers,
[…] notre humanitè est le produit du dévoloppement de notre
cerveu”193.
Un atto morale non va mai considerato come isolato ma anzi
sempre in connessione con la conoscenza e con il suo inserimento nel
mondo, causa di conseguenze. Si verifica molto frequentemente negli
atti morali ciò che si può definire come uno iato tra l’intenzione e
l’azione: le divide l’incertezza degli effetti che, per essere compresa, o
191 R. Fortin, Penser avec Morin, cit., p. 173
192 E. Morin, Il Metodo VI. L’Etica, Raffaello Cortina, Milano, 2007, p. 14
193 R. Fortin, Penser avec Morin, cit., p. 165
129
quanto meno presa in considerazione, ha bisogno di un’ecologia
dell’azione. Quest’ultima “ci indica che ogni azione sfugge sempre
più alla volontà del suo autore nella misura in cui entra nel gioco di
inter-retro-azioni dell’ambiente (compreso quello storico-sociale) nel
quale interviene”194 introducendo così nell’etica, oltre che l’incertezza,
anche una potenziale contraddizione. Per questo non si può
prescindere dal riconoscere i limiti cognitivi dell’essere umano che
contemplano la relazione complessa tra rischio e precauzione.
Se l’incertezza è il primo principio dell’ecologia dell’azione,
quello di imprevedibilità a lungo termine, da cui di certo non è
possibile prescindere, è il secondo.
Nel caso della scienza moderna ad esempio si ha una notevole
disgiunzione tra conoscenza ed etica, in virtù dell’imperativo secondo
cui “sapere è potere”. “E’ il formidabile sviluppo, nel XX secolo, dei
poteri di distruzione e di manipolazione -che dall’idea baconiana
derivano- da parte della scienza che ci obbliga a una
riconsiderazione”195.
Niente può andare nel senso della verità, o alla ricerca di essa
senza una comunicazione tra etica e scienza.
Con tali presupposti, un’etica complessa non si fa solo ed
esclusivamente necessaria ma anche urgente; un’etica che sia in grado
di concepire bene e male non in modo assolutistico e nettamente
disgiunto ma che anzi riesca a sopportare l’idea che il giusto può
194 E. Morin, Il Metodo VI, cit., p.29
195 E. Morin, Il Metodo VI, cit., p.39
130
contenere l’ingiusto, o il male il bene; una morale precaria,
incompleta, problematica, contestualizzante e sempre in lotta, come
anche è, costitutivamente, l’essere umano.
Infatti, scrive Morin,
la morale è verità soggettiva e il sapere pretende la verità oggettiva.
Ma la condotta morale deve avere conoscenza delle condizioni oggettive
nelle quali si esercita. […] L’etica della conoscenza comporta la lotta
contro l’accecamento e l’illusione, ivi compresi quelli etici, e il
riconoscimento delle incertezze e delle contraddizioni, comprese quelle
etiche196.
Ricostruendo il percorso moriniano diviene ora chiaro come
l’epistemologia complessa, in precedenza invocata e ricercata,
permette di concepire un antropologia complessa che è a sua volta
condizione primaria dell’etica complessa. Ora, quest’etica complessa
è in grado di integrarsi nell’anello che con gli altri termini suddetti
compone, e in cui ciascun’entità è necessaria alle altre.
In Etica, dopo un ampio excursus su i rapporti tra etica, scienza
e politica in cui Morin mette in luce anche aspetti della propria
esperienza personale, deplorando altresì ove questi rapporti vengono a
mancare, egli indaga la questione dell’individualismo etico. Si dà per
acquisito che nessun dovere può essere dedotto da un sapere ma
anche che, tradizionalmente l’etica è soprattutto un dettame, un
insieme di imperativi.
196 E. Morin, Il Metodo VI, cit., p.49
131
L’etica, costruzione e convenzione umana è, al pari di molte
altre nozioni, un’idea e in quanto tale, scrive Fortin “n’est pas là pour
nous asservir mais pour nous servir”197.
Diversamente dai precetti morali
l’etica individualizzata, o autoetica –di cui parla Morin-, è
un’emergenza, cioè una qualità che può manifestarsi solo in condizioni
storiche e culturali di individualizzazione che comportano l’erosione e
spesso la dissoluzione delle etiche tradizionali, cioè il degrado del primato
della consuetudine (primitiva regola del dovere), l’indebolimento della
potenza della religione, la diminuzione ( del resto molto discontinua) della
presenza intima in sé del Super Io civico. Quella dell’auto-etica o etica
individualizzata costituisce una vera cultura psichica –esigenza
antropologica e storica al contempo- contro la barbarie interiore198
che ha altresì la specificità di sfociare in un’etica per l’altro,
radicandosi così nel principio altruista incluso nella soggettività
umana (e nel conseguente principio di solidarietà che implica una
comunità). “L’auto- etica ha infatti bisogni di rigenerarsi in
permanenza nell’anello -che la vede legata a solidarietà e
responsabilità e- che la produce e che essa stessa coproduce”199.
L’ auto-éthique, à travers la socio-éthique, doit se prolonger en une
anthropo-éthique. L’impossibilité d’isoler et de disjoindre la trinité
197 R. Fortin, Penser avec Morin, cit., p.181
198 E. Morin, Il Metodo VI, cit., pp.81, 83
199 E. Morin, Il Metodo VI, cit., p. 93
132
individu/société/espèce est inséparable de l’impossibilité d’isoler et de
disjoindre notre destin individuel du destin de la société et de l’espèce200.
L’idea di un’etica per la specie umana era, in effetti, astratta finché
questa specie non si è trovata concretamente riunita, in connessione e
interdipendenza, con lo sviluppo dell’era planetaria. L’antropo- etica issa al
livello etico la coscienza antropologica che riconosce l’unità di tutto ciò che
è umano nella sua diversità e la diversità in tutto ciò che è unità; da qui la
missione di salvaguardare ovunque l’unità e la diversità umane. Essa non
può essere dedotta dall’antropologia ma può essere chiarita
dall’antropologia complessa e può essere definita come il modo etico di
assumere il destino umano201.
Il destino globale del pianeta sovradetermina il destino delle
nazioni, e dunque quello dei cittadini ad esse appartenenti, così come
i destini singolari delle nazioni modificano quello globale. Ciò che i
tempi moderni allora chiedono non è più la disgiunzione tra etica e
politica ma anzi la loro unione, appunto in un’antropo-politica (com’è
quella proposta da Morin) la sola che è capace di integrare in sé gli
imperativi dettati da un’etica planetaria e di mostrare chiaramente
l’appartenenza dell’umanità a quella che l’autore chiama Terra-Patria.
Scienza, tecnica, economia e profitto (ovvero il quadrimotore) devono
necessariamente trovare oggi una guida regolamentatrice poiché tutti
e quattro, presi di per sé, sono carenti di una qual si voglia valenza
etica.
200 R. Fortin, Penser avec Morin, cit., p. 190
201 E. Morin, Il Metodo VI, cit., pp. 157, 158
133
Presupporre che:
Antropologia Epistemologia Etica
permette di legare
Processo cognitivo progresso morale
(in cui il progresso morale può effettuarsi solo nel radicamento, nello
sviluppo, nella sinergia della coscienza morale e intellettuale202)
si tratta di promuovere una politica di civiltà che militi contro
l’atomizzazione e la compartimentazione degli individui, restauri
responsabilità e solidarietà, riduca l’egemonia del calcolo e del quantitativo
a vantaggio della qualità della vita203.
Chi deve civilizzare? E come? Questo è dunque il problema.
Ciò di cui si ha necessità è una civilizzazione che sia soprattutto in
grado di integrare il mercato, la grande economia mondiale, da cui
sembriamo tutti soggiogati, e che non ne sia invece prigioniera.
202 E. Morin, Il Metodo VI, cit., p. 200
203 E. Morin, Il Metodo VI, cit., p. 171
134
Oltre che una riforma della società e della vita Morin ne
suggerisce una, a mio parere ancor più fondamentale delle altre, che è
quella della mente. Riforma necessaria in modo assoluto, a riguardo
della quale egli scrive:
che dovrebbe permettere agli uomini di affrontare i problemi
fondamentali e globali della loro vita privata e della loro vita sociale.
Questa riforma può essere guidata dall’educazione ma sfortunatamente il
nostro sistema di educazione dovrebbe prima essere riformato poiché è
fondato sulla separazione - separazione dei saperi e delle discipline, delle
scienze- e produce delle menti incapaci di legare le conoscenze, di
riconoscere i problemi globali e fondamentali di raccogliere le sfide della
complessità. Un nuovo sistema di educazione va fondato sullo spirito di
relianza. Riforma dell’educazione e riforma del pensiero si stimolerebbero
l’un l’altra in un circolo virtuoso204.
Proprio perché “il ruolo della coscienza umana è ormai
fondamentale per la salvezza del pianeta”205 si entra nel vivo
dell’argomentazione seguente, proposta in questa sede, riguardante
l’importanza dell’educazione; quest’ultima è di certo strettamente
connessa con il sapere e con la coscienza.
“La mia convinzione - sostiene Morin – è che la società non
esiste ancora. Da mille anni, essa cerca a tentoni una formula senza
però averla trovata”206. Una società che, del resto, deve fare i conti con
la ristrettezza del Pianeta. A questo aspetto tratteggiato dall’autore è 204 E. Morin, Il Metodo VI, cit., pp. 171, 172
205 E. Morin, Il Metodo VI, cit., p. 172
206 E. Morin, L’anno I dell’era ecologica. La Terra dipende dall'uomo che dipende dalla Terra, L'imperativo ecologico, Dialogo tra Edgar Morin e Nicolas Hulot (a cura di Nicolas Truong) Armando, Roma, 2007, p. 102
135
possibile avvicinare le splendide parole di Nicolas Hulton quando
sostiene che la traiettoria della Natura e dell’Umanità sono
indissolubili e che la nostra comunanza di origine è altresì una
comunanza di destino. Tali i motivi per cui, con la sua Fondazione, ha
deciso di sostenere Morin nel suo lavoro; ovvero un intellettuale che
non ha aspettato che la realtà si imponesse per riflettere sull’origine
dei problemi ecologici.
In conclusione, è necessario asserire che il discorso condotto da
Morin per quanto riguarda la questione etica, e i modi di rivedere e di
ripensare il problema etico dell’epoca contemporanea, forma un
tutt’uno, indissolubilmente unito ed interdipendente, con la
questione/problema dell’educazione. Ciò trova giustificazione nel
fatto che l’educazione (per di più intesa in rapporto ad un pensiero
ecologizzato) non può essere tale se non contemplando e inglobando
in sé un’etica di civilizzazione, basata su responsabilizzazione e
“relianza” quale è quella teorizzata da Morin.Va precisato dunque che
in questa sede, per scelta metodologica, si è preferito dare più spazio
(come si vedrà nel prossimo paragrafo) al secondo momento di tale
argomentazione, pur mantenendo intatta l’idea della sua
intersecazione con la questione morale.
136
Paragrafo II.2
Pensare ecologicamente:
l’educazione nell’era planetaria
L’ecologia di cui abbiamo bisogno -come scrive ad esempio
Edward Goldsmith- non è l’ecologia che implica l’osservazione
dell’ecosfera dalla quale dipende la nostra sopravvivenza a una certa
distanza e con distacco scientifico. Non salveremo il nostro pianeta
mediante una decisione cosciente, razionale e non emotiva, una specie di
contratto ecologico basato su un’analisi dei costi e dei benefici. E’
necessario un impegno morale ed emotivo207.
E’ facile riscontrare in queste parole il bisogno di annullare
dicotomie e separazioni proprie della logica meccanicistica
occidentale. Infatti iniziamo oramai ad essere consapevoli, dai capitoli
207 Goldsmith E., Ecologia della salute, della disoccupazione e della guerra, ovvero: la grande inversione dell'economia e dello stile di vita, Muzzio, Padova, 1994, p. 87
137
precedenti della trattazione, che l’esistenza di una discontinuità
ontologica tra il mondo umano e quello naturale è dovuta all’idea
platonica e ancor più cartesiana e di stampo moderno secondo cui il
proprium dell’essere umano sarebbe condensato nella sua vita
mentale, caratteristica che lo porrebbe al di fuori della Natura
accordandogli anche il primato su di essa e la possibilità di
manipolarla illimitatamente. Ma, come sostiene Morin, “ogni vita
umana comporta l’inserimento nell’ecologia e una determinazione da
parte dell’ecologia”208. E, per questo, si fa necessario muovere alla
ricerca di una nuova filosofia di vita ( costruita su paradigmi diversi
da quelli propri della cultura dominante del passato – la quale può, a
ragione, essere vista come un vero e proprio imprinting alla maniera di
Konrad Lorenz -) e di una filosofia biocentrica, che sappia dar
supporto alla formazione di una coscienza ecologica.
Hegel aveva a suo tempo individuato un principio di negazione
in grado di concepire e trasformare ogni entità nel suo contrario ma
questo stesso principio veniva posto, coerentemente al sistema
hegeliano, all’interno dello (auto) sviluppo dello spirito mentre esso
deve necessariamente essere reso e inteso in senso ecologico.
La dialettica sembra non bastare e pare poter essere sostituita, o
meglio superata contenendola, con una dialogica più radicale, più
complessa. E’ necessario sbarazzarsi della pseudoetica manichea e,
come suggerisce Hannah Arendt bisogna affrontare i rischi dell’azione
208 E. Morin, Il pensiero ecologico, Hopefulmonster, Firenze, 1988, p. 113
138
pur sapendo che “qualunque cosa facciamo accade dentro relazioni e
attraverso relazioni”209.
Anche qui dunque ritroviamo tutta l’importanza dei principi, già
esposti, dell’ecologia dell’azione e di un punto di vista ecologico
consistente nel percepire ogni fenomeno autonomo nella sua
relazione/dipendenza con l’ambiente. Solamente un pensiero
ecologizzato può opporsi al contempo all’isolamento dell’oggetto e
alla sua riduzione alle causalità esterne essendo in grado di connettere
in maniera “complementare, concorrente e antagonista, da una parte,
le logiche autonome e interne specifiche del fenomeno e, dall’altra, le
eco-logiche dell’ambiente”210 e di mettere altresì in rilievo il ruolo
attivo dell’osservatore /concettualizzatore.
Ciò a cui si deve oggi tendere è appunto un pensiero sistemico,
ed ecologizzato, termine, quest’ultimo, con cui Morin esprime
un’intenzionalità sempre viva nel suo pensiero. Oltre a tale valenza,
l’espressione “pensiero ecologizzato” indica (una volta presupposto
che la nostra cultura è l’eco-sistema dell’idea umana di natura) la
tendenza e la disponibilità a considerare la Natura nella sua
complessità il che, ricorsivamente, consente di sviluppare il pensiero
complesso per la comprensione della cultura stessa. 209 Intervento di S. Manghi al Circolo Bateson - Roma, 21-22 gennaio 2006 sede: Legambiente “I presupposti della relazione educativa” relazione di Sergio Manghi: “Pescatori nel vortice. La responsabilità educativa nel tempo della globalizzazione”. http://www.circolobateson.it/archiviobat/2006/seminario%20gennaio/programma%2021.22%20per%20cartellina.doc
210 E. Morin, Il pensiero ecologico, cit., pp. 119, 120
139
Scrive Morin:
nella nostra strada a spirale questo principio- ecologico- è diventato
un paradigma (di portata universale). […] Se rendiamo ecologico il nostro
pensiero della vita, dell’uomo, della società, della mente ripudieremo per
sempre ogni definizione autosufficiente, ogni causalità monodirezionale,
ogni semplificazione di principio. Di conseguenza il paradigma ecologico
appare nella sua natura fondamentalmente antidisgiuntiva, antiriduttiva,
antisemplificatrice. […] Esso installa non un principio solistico vuoto, ma
un principio di congiungimento, di multidimensionalità, di complessità211.
Inoltre, per quanto riguarda strettamente la scienza ecologica
(scienza nuova che, a differenza di molti altri settori scientifici, non
produce una prassi manipolatrice/mutilatrice/sfruttatrice) va detto che
essa è intrinsecamente inseparabile da una coscienza ecologica, la
quale è un’importante presa di coscienza del carattere della nostra
relazione di esseri umani con la natura vivente (in quanto si viene ad
elidere la dicotomia tra fatto e valore in quest’ambito).
L’ostacolo che deve essere rimosso per aprire la strada
all’evoluzione di un pensiero ecologizzato è sostanzialmente quanto
espresso da Aldo Leopold, ovvero:
smettere di pensare che un uso conveniente della Terra sia un
problema esclusivamente economico; -smettere di- esaminare ogni
circostanza nei termini di che cosa sia eticamente ed esteticamente giusto,
come pure economicamente opportuno. È giusto ciò che tende a mantenere
211 E. Morin, Il pensiero ecologico, cit., p. 125
140
l’integrità, la stabilità e la bellezza della comunità biotica; è sbagliato ciò
che ha una tendenza diversa212.
Quanto invece avviene è che “l’etica dell’uso della Terra è
tuttora totalmente governata dall’ interesse economico”213 e questo
produce purtroppo un sistema ambientale debole poiché “la maggior
parte della comunità terrestre non ha valore economico”214 per
l’Uomo ma ha estrema importanza per l’integrità e l’equilibrio
dell’ecosistema. L’Uomo non si rende ancora conto dei meccanismi
con cui opera la Natura, delle sue complesse interdipendenze e del
fatto che lui stesso è inserito in questa trama perfetta in cui le diverse
comunità biotiche devono poter vivere in armonia e rispetto.
Inoltre, vi è da tenere in considerazione che, come sostiene
Heidegger, ciò che caratterizza l’essere umano è la cura, la dedizione
intensa e affettuosa per chi e ciò che ha intorno al di là di motivazioni
puramente utilitaristiche.
Di fronte agli odierni pericoli siamo sempre più consapevoli che
il destino della biosfera e quello umano sono inscindibilmente legati;
che la Natura è la condizione della nostra sopravvivenza per cui
dobbiamo rivedere il nostro attuale rapporto con essa.
I deep-ecologists (o Ecologisti profondi), per apportare un
esempio concreto, adducono una proposta interessante e, a mio
parere in linea con il sistema portato a dimostrazione nel presente
212 A. Leopold, Almanacco di un mondo semplice, RED, Milano, 1997, p. 184 213 A. Leopold, Almanacco di un mondo semplice, cit., p.169
214 A.Leopold, Almanacco di un mondo semplice, cit., p. 170
141
lavoro, proponendo un mutamento di Gestalt nel rapporto Uomo-
Natura: una ridefinizione cioè dei modi di percepire il mondo e il
posto dell’umanità in esso. Secondo tale punto di vista non si ha più
bisogno di separare l’Uomo dalla Natura e ogni violenza nei confronti
della seconda viene percepita come una violazione di se stessi e
pertanto viene evitata o almeno maggiormente meditata. Una
caratteristica peculiare della Deep-Ecology è poi il principio dell’
autorealizzazione, inteso come la crescita spirituale di ogni uomo, la
progettazione della sua esistenza nella forma di un allargamento dei
confini del proprio Io a quelli dell’Altro da Sé, umano e non-umano.
Per i deep ecologists sarebbe la percezione della realtà come un tutto
unificato a causare il superamento della visione di Sé come realtà
isolata e la sua estensione ad altri esseri.
La realizzazione del singolo, in tale prospettiva, può diventare
un’auto-eco-realizzazione, grazie alla consapevolezza del fatto che il
senso dell’esistenza si pone a livello sistemico e non individuale e che
l’atteggiamento verso ogni altra forma di vita deve risolversi in un
comportamento etico, di cura. Infatti, come scrive Luigina Mortari,
l’etica biocentrica presuppone che il pensare al resto della Natura
come parte del proprio spazio vitale, farebbe percepire le varie forme di
violazione delle condizioni di vita esercitate nei confronti degli altri esseri
viventi, come una violazione a sé. Da questa percezione di continuità col
mondo scaturirebbe spontaneamente l’impegno etico nella salvaguardia
dell’Ambiente, poiché la protezione della Natura verrebbe percepita come
protezione di se stessi215.
215 Mortari L., Per una pedagogia ecologica. Prospettive teoriche e ricerche empiriche sull'educazione ambientale, La Nuova Italia, Firenze, 2001, p. 83
142
E’ indubbio allora che quello che “ci manca è la coscienza del
destino planetario, della nostra cittadinanza globale della Terra”216.
Ciò è provato anche da un altro grande ostacolo per lo sviluppo di
un’autentica consapevolezza della Terra; tale impedimento è
rappresentato dagli odierni sistemi educativi, i quali sembrano andare
proprio nella direzione opposta ad una tale consapevolezza, quasi al
pari di un sistema economico.
Il ruolo dell’educazione, principalmente quella scolastica, è
fondamentale nella situazione descritta in queste pagine; essa infatti
viene chiamata a promuovere conoscenze e a sviluppare nuove
formae mentis, cioè nuovi atteggiamenti esistenziali, nuovi modi di
considerare la condizione umana anche in rapporto con la Natura;
essa può altresì ridurre l’attuale senso di estraneità dal Mondo e farne
riscoprire il senso di appartenenza217, almeno alle generazioni future.
Nell’incertezza del vivere, l’educazione non è una mansione
come le altre; l’educazione è una vera e propria missione e “la
missione dell’educazione per l’era planetaria è quella di rafforzare le
216 E. Morin, Convegno di Formia, 27 Giugno 2003
217 Tale senso di appartenenza ha avuto eminenti sostenitori. Ad esempio la filosofia per M.Heidegger, come si è già accennato, ha il compito peculiare di indagare il Dasein, cioè l’Esserci, il quale, in quanto umano è in grado di dare voce alle qualità intrinseche dell’Essere. La ricerca ontologica che ne consegue pone l’Uomo al centro della disamina sull’essere-nel-mondo. La proprietà che contraddistingue l’essere-nel-mondo sta nel suo racchiudere in sé sia la consapevolezza del proprio agire tra gli enti intramondani riducibili a cose, sia la progettualità. Il Dasein è nel mondo in uno spazio e soprattutto in un tempo preciso, in cui abita muovendosi tra le cose e progettando il suo futuro, nella consapevolezza di essere-per-la-morte. Inoltre il Dasein è l’unico in grado di sperimentare ed esprimere, attraverso il linguaggio, le modalità proprie dell’Essere.
143
condizioni che renderanno possibile l’emergenza di una società-
mondo composta da cittadini protagonisti”218.
Quella umana, si sa, è una condizione sui generis sempre in
bilico tra l’incertezza e la speranza; troppo frequentemente però la
volontà di instaurare un paradiso in terra finisce per instaurare un
inferno. Allora il compito dell’umanità, come sostiene anche Morin,
non è tanto quello di cercare la salvezza quanto piuttosto l’evoluzione
dell’ominazione in umanizzazione; di cercare altresì non il migliore
dei mondi possibili ma almeno un mondo migliore.
Per far ciò occorre innanzitutto concepire, idea che si ispira al
terzo asse strategico/direttivo individuato da Morin, lo sviluppo
(tecno-economico) in modo antropologico poiché il vero sviluppo è lo
sviluppo umano. In questo ambito l’educazione può fare molto,
liberando l’idea di sviluppo dalla semplificazione generata dal
riduzionismo economista. Troppo spesso lo sviluppo tecnico-materiale
non trova un’evoluzione corrispettiva in senso morale, psichico e
intellettuale. Prendere coscienza di questo stesso sottosviluppo
mentale, reale o futuro, è di certo il primo passo per poterlo superare.
In secondo luogo poi, sempre a causa della loro natura
frammentaria, le stesse azioni e gli stessi provvedimenti politici attuali
che continuiamo a produrre sembrano ignorare completamente il
complesso antropologico e il contesto planetario. Scrive a tale
proposito Morin,
218 E. Morin; Ciurana E. M.; Motta R. D., Educare per l’era planetaria. Il pensiero complesso come metodo di apprendimento, Armando, Roma, 2004, p. 113
144
l’incorporazione del pensiero complesso all’educazione favorirà la
nascita di una politica della complessità che non si limiterà a pensare i
problemi mondiali in termini planetari, ma cercherà anche di percepire e
scoprire le relazioni di inseparabilità e di inter-retroazione che esistono in
ogni fenomeno e il suo contesto, tra ogni contesto e il contesto
planetario219.
L’epistemologia e la conoscenza della conoscenza devono
servire per vivere, per affrontare la vita; ed in questo ambito,
riprendendo una posizione che era già quella marxista, Morin
propone il problema di educare gli educatori. Come anticipato nella
conclusione del paragrafo precedente, in seno ad una politica
dell’umanizzazione che deve essere estesa a livello mondiale,
rimangono da compiere riforme, intrinsecamente legate tra loro
ovvero quella della vita, della società, delle menti, dell’educazione.
Quattro riforme, paradigmatiche -poiché concernono l’attitudine
umana a organizzare la conoscenza- ma di certo non programmatiche,
che sono assolutamente tanto dipendenti una dall’altra, quanto
necessarie una all’altra. Legate perché il nostro modo di pensare è
inseparabile dai nostri metodi di insegnamento.
Sostiene Morin, a tal riguardo, che ciò che serve è
un nouveau système d'éducation, fondé sur la reliance, radicalement
différent donc de celui qui existe actuellement, devrait s'y substituer. Ce
système permettrait de favoriser les capacités de l'esprit à penser les
problèmes globaux et fondamentaux de l'humanité dans leur complexité. Il
mettrait à sa racine l'éducation à la compréhension d'autrui, entre personnes, 219 E. Morin; Ciurana E. M.; Motta R. D., Educare per l’era planetaria. Il pensiero complesso come metodo di apprendimento, Armando, Roma, 2004, p. 124
145
entre peuples, entre ethnies. Un tel système d'éducation pourrait et devrait
jouer un très grand rôle. Mais malheureusement il faudrait réformer le
système d'éducation actuel pour qu'il puisse lui-même reformer les
esprits 220.
Considerate dal punto di vista logico nessuna di queste quattro
riforme è anteriore all’altra, o meglio ognuna lo è all’altra, poiché
appunto si pongono in un circolo, virtuoso e non vizioso, di
interdipendenza: dovremmo cambiare le menti per cambiare le
istituzioni ma dovremmo altresì cambiare le istituzioni per cambiare le
menti. “Le società addomesticano gli individui attraverso i miti e le
idee, che a loro volta addomesticano le società, ma gli individui
potrebbero a loro volta addomesticare le loro idee e nello stesso
tempo controllare la società che li controlla”221. Ci si trova di fronte a
un impasse logico ma, ciò nonostante, quello che possiamo fare è
“camminare e cominciare”222.
D’altronde, è il problema ecologico stesso, in atto a livello
globale, che ci obbliga a prendere in considerazione la ristrutturazione
delle vita e della società umana; soprattutto attraverso una bio-
antropologia. Paradossalmente l’insegnamento tralascia problemi
fondamentali: non insegna la condizione umana e dimentica di
sottolineare il fatto che l’umanità non può prescindere dall’habitat che
la ospita.
220 Article résulte d'un entretien donné par Edgar Morin à Laurence Baranski, 2003 221 E. Morin, I sette saperi necessari all’educazione del futuro, Raffaello Cortina, Milano, 2001, p. 29 222 Convengo di Sperlonga, 27 Giugno 2003, Sviluppo locale e formazione, Intervento di Edgar Morin
146
Nella fondamentale distinzione evidenziata da Morin tra
cultura e civilizzazione, ben si scorge l’importanza del suo sistema di
pensiero: la civilizzazione è ciò che può essere trasmesso da una
comunità all’altra, ovvero tecniche, saperi, scienze mentre la cultura,
sebbene anch’essa sia certamente tramandabile ma in modo più statico
rispetto alla prima, è l’insieme dei valori e delle credenze caratteristici
di una determinata comunità. Il problema si pone quando questa
cultura è, come è ben visibile oggi, non solo frammentata ma anche
spaccata in due blocchi:
- quello umanistico da un lato
- quello scientifico dall’altro
così da influire ricorsivamente su un qualunque tipo di civilizzazione;
l’ indebolimento, infatti, di una percezione globale conduce
all’indebolimento del senso della responsabilità, poiché ciascuno
tende inevitabilmente a essere responsabile solo del proprio campo
specializzato così come si verifica anche un indebolimento della
solidarietà poiché tutti sono nessuno per gli altri che pensano al Sé.
Si dimentica così che “per pensare localmente e padroneggiare
discipline particolari è necessario pensare globalmente”223 e che è
impossibile risolvere problemi sempre più multidimensionali, globali
e trasversali senza quella che Morin chiama una conoscenza
pertinente; una conoscenza non frazionata e disgiunta ma che anzi
renda evidenti il contesto, il complesso, il globale.
223 Intervista di Renato Minore ad Edgar Morin, il Messaggero 7 marzo 2002
147
Vincitore del premio Nonino come “Maestro del nostro
tempo”, Edgar Morin ha enunciato le sue idee a proposito
dell’educazione in una trilogia pedagogica composta dal volume
Relier les connaissances224, oltre che dai due volumi più conosciuti: I
sette saperi e La testa ben fatta. La sua posizione di base è che la più
grande difficoltà della comunicazione è il passaggio da una struttura
mentale ad un’altra struttura mentale. Ciò è oggi evidente in quanto,
nonostante un enorme sviluppo delle tecnologie comunicative, resta
uno spazio infinito dell’incomprensione e dell’individualismo. Come
è possibile sperare in un progresso della comunicazione umana tra
persone se non cambiando il nostro metodo conoscitivo e
progredendo, quindi, nella comprensione? In questa conoscenza non
può venir meno una parte soggettiva/emotiva di chi impara come
anche di chi insegna; tanto è che Morin sostiene: “la comprensione ha
bisogno di un minimo di simpatia. La ragione ha bisogno di
passione”225.
Educare al pensiero complesso –ad esempio- significa sovvertire la
prassi cognitiva che imperversa nelle scuole, combattere il paradigma
semplificatore che, trasferito nel pensiero politico adulto genera i mostri che
224 Questo testo è il resoconto di alcune giornate a tema, organizzate grazie al sostegno di Didier Dacunha-Castelle, che consentirono a Morin di mostrare la praticabilità delle sue idee dopo che il Ministro Claude Allègre gli chiese di presiedere un “Consiglio scientifico” formato per riflettere sulla riforma dei saperi nei Licei. 225 Intervista di Luciano Minerva ad Edgar Morin
148
conosciamo: politiche mondiali miopi di cui l’umanità intera e il pianeta
soffrono”226.
Per il tempo a venire si può, e forse si deve, allora iniziare a
parlare di pluriverso dell’educazione; un’educazione che sia anche
intraculturale, poiché in grado di inglobare le differenze.
I due testi, a cui prima si faceva riferimento, sono quanto ora
verrà preso in esame.
Nel primo volume, commissionato dall’Unesco227 e dal titolo:
I sette saperi necessari all’educazione del futuro, Morin enuclea ed
esplicita sette argomenti228 che a suo parere devono diventare
fondamentali nell’insegnamento e che l’educazione dovrebbe trattare
in ogni società e in ogni cultura. Sono questi “temi che permetteranno
di integrare le discipline esistenti e di stimolare gli sviluppi di una
conoscenza atta a raccogliere le sfide della nostra vita individuale,
culturale e sociale”229.
Non è, a mio parere, importante indagare distintamente queste
sette argomentazioni ma trarne il nucleo vedendole nella loro
omogeneità, sebben diversa.
226 Tratto da “Clio ’92: associazione di insegnanti e ricercatori sulla didattica” di Francesca Bellafronte
227 In particolare grazie alla figura di Gustavo Lòpez Ospina, direttore del progetto transdisciplinare “Educare per un futuro vivibile”
228 1) Limiti della conoscenza, 2) Educare ad un sapere pertinente, 3) Insegnare la condizione umana, 4) Educare all’identità terrestre, 5) Educare ad affrontare l’imprevisto, 6) Educare alla comprensione, 7) L’etica del genere umano.
229 E. Morin, I sette saperi, cit. p. 7
149
Morin ribadisce, anche in quest’ambito, l’importanza della
conoscenza della conoscenza; l’importanza di conoscerne i processi e
le modalità di formazione affinché la conoscenza che ne deriva venga
assunta come necessità prioritaria per educare i giovani ad affrontare i
rischi di errore e di illusione che insidiano costantemente la mente
umana230.
Occorre, altrettanto essenzialmente, insegnare metodi che
permettono di cogliere le mutue relazioni e le influenze reciproche tra
le parti; aspetto questo che di certo non poteva essere assente, se si
guarda nel complesso l’opera moriniana. Ancora, occorre apprendere
il senso dell’essere uomini e l’unica via per farlo è ricomporre l’unità
dell’essere umano stesso, al contempo biologica, fisica, culturale,
sociale. Quegli stessi uomini che non possono sentirsi
completamente mai certi di nulla, nonostante la tendenza scientifica
imperante cerchi di rassicurarli in ogni dove, ma che anzi, grazie
all’insegnamento, devono riuscire a convivere con l’imprevisto e con
l’incertezza propri della loro stessa condizione. Condurli alla
comprensione – “nel contempo, mezzo e fine della comunicazione
umana”231- e alla consapevolezza: questi devono essere i veri
obiettivi dell’educazione. Da ciò deriva il dover riconoscere un
principio d’incertezza, non dettato da scetticismo ma anzi da una
razionalità conscia di sé che nel rimanere aperta nel confronto col
reale riesce a non subire una pericolosa metamorfosi, riesce a non
230 Può illuminare, in questo ambito, un esempio che Morin stesso riporta nelle pagine de I sette saperi ovvero: “nessun dispotivo cerebrale permette di distinguere l’allucinazione dalla percezione, l’immaginario dal reale, il sogno dalla veglia, il soggettivo dall’oggettivo” E . Morin, I sette saperi, cit. p. 19 231 E. Morin, I sette saperi, cit. p. 14
150
divenire razionalizzazione (vera nemesi della razionalità il cui
contrario infatti non è l’irrazionalità). In conclusione allora “non si
deve abbandonare la conoscenza delle parti per la conoscenza della
totalità né l’analisi per la sintesi: si deve coniugarle”232; si deve essere
consapevoli dello sradicamento propriamente umano, il quale è però
all’unisono un doppio radicamento nel cosmo fisico e nella sfera
vivente, così come si deve tenere in considerazione la reliance -gioco
di parole fra relier (legare) e alliance (alleanza)- quale fondamento
del tutto.
Il titolo stesso del secondo testo che qui viene preso in
considerazione, ovvero La Testa ben fatta, è già di per sé significativo
in quanto si ispira ad un’idea espressa da Montaigne quando sostiene
che è meglio una testa ben fatta che una testa ben piena.
E’ indubbio infatti che oggi l’istituzione scolastica tenta di
“riempire” la testa di programmi, concentrandosi soprattutto sulla
quantità di nozioni a discapito della qualità e della loro utilità
allontanando così dalla vita chi invece ha più bisogno di immergervi,
data l’età della scolarizzazione. L’insegnamento è, sostiene Morin,
una missione di trasmissione che richiede ciò che nessun manuale
spiega.
Al fine di esprimersi a riguardo di un insegnamento veramente
educativo, nel testo sopra citato, Morin fa uno slalom, come egli
stesso sottolinea, tra due termini che si possono definire
complementari nella loro specificità: da un lato il termine formazione,
che ha il difetto di ignorare che la missione della didattica è di
232 E. Morin, I sette saperi, cit. p. 46
151
incoraggiare l’autodidattica, destando, suscitando, favorendo
l’autonomia dello spirito; dall’altro, la parola insegnamento, arte o
azione di trasmettere conoscenze a un allievo in modo che egli le
comprenda e le assimili, il quale ha un senso più restrittivo perché è
solamente cognitivo.
Si delinea prepotentemente, sempre nel suddetto volume, che la
riforma dell’insegnamento auspicata da Morin significa riforma del
soggetto che insegna e del soggetto che apprende; così come quella
del pensiero sta a significare riforma del soggetto che pensa e del
pensiero rivolto ad un oggetto pensato.
L’apprendimento ha preteso di spazzare, nella sua versione
contemporanea, il conflitto sotto il tappeto, metaforicamente
parlando. Questo tentativo di sbarazzarsi del conflitto si è riflettuto in
primo luogo sull’approccio riduzionista alla conoscenza.
L’attribuzione dei fenomeni a circoscritte serie di fattori con la pretesa
dell’esaustività costituisce uno dei problemi di fondo del pensiero. La
specializzazione delle discipline nasconde inoltre le facce di un
problema che non riesce a trattare, creando segmenti di realtà troppo
parziali.
Ciò concorre anche al deperimento democratico, che è suscitato
in tutti i campi della politica dall’espansione dell’autorità degli esperti,
degli specialisti di ogni genere, che limita progressivamente la
competenza dei cittadini; quest’ultimi infatti sono condannati
all’accettazione ignorante delle decisioni di coloro che si ritiene che
sappiano, ma la cui intelligenza è invece miope, perché parcellizzata e
astratta.
152
L’eccessivo specialismo è in fin dei conti un abbandono della
realtà a favore di un mondo, solo in teoria, coerente e inattacabile;
che rifiuta la pericolosità del pensiero divergente, ed il sistema
educativo pone l’accento su caratteristiche che riflettono questo tipo di
pensiero. L’epistemologia cartesiana va abbandonata in favore di
un’epistemologia complessa, di ispirazione pascaliana: questo sembra
suggerire Morin.
Nel recuperare la complessità dell’unità della cultura –
concependo i saperi nella loro interdipendenza senza la quale sono
incomprensibili- le sfide che il nostro tempo deve raccogliere,
sostiene Morin, sono dunque rimediare a questa separazione dei
saperi, alla loro inadeguatezza rispetto alla vita quotidiana di ciascuno
e alla loro potenzialmente infinita espansione (se si verifica essere
soprattutto di livello quantitativo).
Chi può provare a vincere tale sfida è però un unico soggetto:
l’essere umano. Egli è il solo che, nel mondo vivente, può fungere da
catalizzatore della complessità dei saperi. A causa di tale presupposto,
tutto il discorso moriniano sulla questione delle riforme è infatti
organizzato in modo antropocentrico ed altresì giustificato dal
principio, già esposto in questo lavoro, del “Io sono me”; principio
che permette sì di stabilire la differenza tra l’io soggettivo e il me,
oggettivo, ma che nello stesso tempo stabilisce anche la loro
indissolubile identità. Deduttivamente, ciò permette un trattamento
oggettivo dell’essere Uomo e della sua complessità biologico-
culturale ma, reciprocamente, permette all’Uomo di essere
l’elemento centrale, aggregante e centripeto per le scienze e le
discipline, poiché nell’essere umano può rispecchiarsi la loro
153
complessità biologico-culturale. In altre parole, la conoscenza
dell’uomo si fa viatico attraverso cui è possibile giungere alla
conoscenza dei saperi.
Solo così intesa233, la conoscenza può divenire sapienza;
sapienza per la vita, una volta fatta propria e incorporata; allora può
233 Ovvero una conoscenza dettagliatamente basata su determinati principi:
a - insegnare, fin dalle elementari, "che ogni percezione è una traduzione ricostruttiva, operata dal cervello a partire dai terminali sensoriali, e che nessuna conoscenza può fare a meno dell’interpretazione" (E. Morin; Kern A. B., Terra-patria, Cortina Raffaello, Milano, 1994, p. 50);
b - mettere in luce, nell’insegnamento secondario: da un lato "l’opposizione tra razionalizzazione, sistema logico di spiegazione ma privo di fondamento empirico, e la razionalità, che si sforza di unire la coerenza all’esperienza; [...] dall'altro i limiti della logica e si argomenterà la necessità di una razionalità non solo critica ma autocritica" (E. Morin; Kern A. B., Terra-patria, cit., p. 51).
Inoltre Morin delinea le finalità rispetto ai tre gradi dell’insegnamento:
A - La Primaria dovrebbe esaltare la curiosità e, partendo dall'avventura dell'ominizzazione, dovrebbe realizzare "un processo che legherebbe le domande sulla condizione umana alle domande sul mondo" (E. Morin; Kern A. B., Terra-patria, cit., p. 78). Sul piano gnoseologico, poi, si dovrebbe far comprendere la ricorsività complessa della cosa ("bisogna insegnare che le cose non sono solamente cose, ma anche sistemi costituenti un’unità che assimila parti diverse" (E. Morin; Kern A. B., Terra-patria, cit., p.79) e della causalità ("Bisogna apprendere ad andare oltre la causalità lineare causa --> effetto. Apprendere la mutua causalità, la causalità circolare - retroattiva, ricorsiva". (E. Morin; Kern A. B., Terra-patria, cit., p. 79).
B - La Secondaria "sarebbe il luogo dell'apprendistato a ciò che deve essere la vera cultura, quella cioè che stabilisce il dialogo fra cultura umanistica e cultura scientifica" (E. Morin; Kern A. B., Terra-patria, cit., p. 80). La storia dovrà giocare un ruolo chiave per apprendere a essere cittadino dell'Europa e della Terra. A tal fine "i programmi dovrebbero essere sostituiti da guide d'orientamento che permettono agli insegnanti di situare le discipline nei nuovi contesti: l'universo, la Terra, la vita, l'umano" (E. Morin; Kern A. B., Terra-patria, cit., p. 81). Un posto chiave oltre la storia è riservato da Morin alla filosofia che dovrebbe avere una portata trans-disciplinare.
C - All’Università Morin affida una missione transnazionale. Perché ci sia una riforma dell’insegnamento è indispensabile che ci sia una riforma del luogo dove si formano gli insegnanti. Accanto alla conservazione della conoscenza,
154
veramente costituirsi come quell’educazione alla mondialità di cui il
genere umano ha urgentemente bisogno.
l’università dovrà rigenerare le conoscenze, fondandosi sullo statuto epistemico della complessità. "Questa riforma dovrebbe comportare una riorganizzazione generale, con la creazione di facoltà, dipartimenti e istituti consacrati alle scienze che abbiano già operato un riaccorpamento polidisciplinare intorno a un nucleo organizzatore sistemico” (E. Morin; Kern A. B., Terra-patria, cit., p. 86).
155
Conclusioni
Edgar Morin, trasformando un’esperienza di vita234 in un’opera
riformatrice del sapere senza precedenti, non ha mai cercato né la
conoscenza generale né la teoria unitaria. Al contrario, come egli
stesso afferma, per principio, si deve rifiutare una conoscenza
generale: ciò che occorre trovare è un metodo che possa articolare ciò
che è collegato e collegare ciò che è disgiunto.
In più di quarant’anni di studi, egli, il più eterodosso e
multidisciplinare intellettuale francese del ‘900, ha messo in dialogo
la galassia parcellizzata dei saperi naturalistici e di quelli socio-
antropologici, alla ricerca di un modo unitario di raccontare la nostra
storia di specie, le nostre vicende sociali, e insieme la nostra esistenza
quotidiana di individui; invocando in ciò una metamorfosi del
234 Come si legge nel volume di Morin E., K. D. Tager, Mon Chemin, cit.
156
rapporto uomo-natura tale da poter affrontare l’attuale emergenza
ecologica.
L’enciclopedismo de Il Metodo, come si è potuto scorgere
nelle pagine del presente lavoro, si propone di mettere in movimento
la premessa immobile, di stampo moderno, dei discorsi separatisti che
vigilano sui confini tra saperi. Un metodo, quello moriniano, che è in
grado di mettere in circolo i saperi unendo storia e ambiente, natura e
umanità
Scrive Morin:
siamo contemporaneamente dentro e fuori la natura. Siamo nello
stesso tempo cosmici, fisici, biologici, culturali, cerebrali, spirituali. Siamo
figli del cosmo, ma a causa della stessa umanità, della nostra cultura, della
nostra mente, della nostra coscienza siamo divenuti stranieri a questo cosmo
dal quale siamo nati e che, nello stesso tempo resta per noi segretamente
intimo235.
Per questo Morin non può e non vuole esulare il suo lavoro dal
prendere
in considerazione il nodo gordiano che l’antropologia ufficiale era
convinta di aver orgogliosamente reciso. Come è noto- infatti- la teoria
antropologica dominante si fonda non soltanto sulla separazione, ma
sull’opposizione delle nozioni di uomo e di animale, di cultura e di natura; e
235 E. Morin, La testa ben fatta, Raffaello Cortina, Milano, 2000, p.
34-35
157
tutto ciò che esula da questo schema viene condannato come biologismo,
naturalismo, evoluzionismo236.
Giunge così ad affermare che “tutto ciò che parla della natura
parla della società e per la società”237.
Sempre per tali ragioni Morin indica che
abbiamo bisogno più che mai di ritrovare la natura, cioè di mettere in
relazione con essa ed a relativizzare ad essa tutti i nostri problemi umani,
compresi i nostri problemi esistenziali, e di superare la natura, cioè di
sviluppare la civiltà, la società. […] Dobbiamo anche oltrepassare
l’alternativa: seguire o guidare la natura per accogliere invece l’idea di
seguire/guidare la natura; il che è un’affermazione complessa. Dobbiamo
scorgere una coevoluzione simbiotica […] tra biosfera incosciente e
spontanea e un’umanità che sta diventando sempre più cosciente del suo
divenire238.
Il pensiero complesso, da Morin teorizzato e applicato ai
problemi costitutivi del nostro tempo, si costituisce allora come
un’alternativa, come una possibilità risolutiva anche se mai definitiva.
Sua caratteristica peculiare è infatti quella di essere sempre transeunte
e temporaneo perché il cammino non esiste ma si costruisce solo
236 E. Morin, Il paradigma perduto, cit., p 9. Morin al contrario attribuisce la qualifica di soggetto a qualunque essere vivente (tanto è che parla del batterio Eschericchia Coli) perché ciò che egli invoca non è solo la comprensione dell’essere vivente non umano attraverso quello che sappiamo dell’uomo, ma anche viceversa in virtù di un rispecchiamento reciproco. 237 E. Morin, Educare per l’era planetaria, cit. p 130
238 E. Morin, Il pensiero ecologico, cit., p 134
158
camminando; perché è il metodo stesso, intrinseco al pensiero
complesso e alle sue peculiarità, che apprende. Esso è strategico,
poliscopico, autoriflessivo, dialogico, aperto rimanendo sempre
incerto ed è “il solo pensiero che vive: quello che si conserva alla
temperatura della sua distruzione”239. Conoscere è un’esperienza
tragica, inquietante ma al contempo un’esigenza intrinseca all’essere
umano; così come la complessità, parola-problema e non affatto
parola-risoluzione, è una sfida: “la complexité est un défi a la
connaissance, non une solution”240.
Il metodo proposto da Morin è altresì funzionale ad un pensiero
che vuole farsi complesso per porre rimedio a quell’impoverimento
dell’intelligenza umana dato “dalla confusione cartesiana tra la
semplicità formale, o sintassi, e la chiarezza, o intelligibilità,
semantica”241.
Il pensiero complesso invece è in grado di tradurre l’incertezza
all’interno della scientificità, piuttosto che cercare di eliminarla o
annientarla, ma senza per questo assumere posizioni nichilistiche.
Infatti questo pensiero aspira ad una conoscenza
multidimensionale, responsabile, poietica e il suo imperativo cardine è
ottenere una scienza con coscienza; esso non annulla la linearità, la
monocausalità, la soggettività, la semplicità ma anzi le include in sé.
239 E. Morin, Educare per l’era planetaria, cit., p 50
240 E. Morin, K. D. Tager, Mon chemin, cit. p. 181
241 E. Morin, Educare per l’era planetaria, cit., p 61
159
“Dai concetti di strutture dissipative di Prigogine, fino a quelli
di caso organizzatore di Atlan, passando per il principio di incertezza-
indeterminazione di Heisemberg e per l’opera di Von Forster” 242
nascono problematiche diverse che esigono una nuova modalità di
pensiero. Non solo, una delle conseguenze delle scoperte del pensiero
contemporaneo è che i principi della spiegazione non sono spiegabili
razionalmente, nelle scienze come nella filosofia, e dà luogo alla crisi
del fondamento, alla scoperta, in altri termini, dell’assenza di un
fondamento ultimo della certezza. L’unico pensiero possibile è allora
uno in grado di sostenere il peso di una imprevedibilità a livello
globale e che può dare una speranza (perché no, a partire dalle nuove
generazioni) invece che accumulare nella testa degli uomini certezze
mistificatorie.
Interpretare e conoscere la realtà in modo complesso significa
innanzitutto ammettere tale mancanza e permette di trovare una
strada, pur nell’incertezza. E questa si configura come un’esigenza
fattuale perché il mondo in cui oggi viviamo è un nodo gordiano di
innumerevoli interazioni e reazioni, come sostiene Morin durante la
sua intervista riportata nel volume Mon Chemin:
la politique de civilisation doit bien sûr développer et utiliser tous
les aspects positifs des sciences, des techniques, de l’ État, du capitalisme,
de l’individualisme, investir sur la recherche, miser sur un nouvel âge de la
242 E. Morin, Introduzione al pensiero complesso, cit., p. 71
160
technique intelligente, et en même temps développer l’ économie solidaire,
le commerce équitable, les mutuelles et coopératives243.
Come scrive Bateson, “alcuni degli sforzi confusi dei
nostri giovani contengono più saggezza delle convenzioni dell’
establishment”244.
Infatti, la questione della formazione dei formatori, così come
l'urgenza di una riforma del pensiero e della conoscenza,
interconnesse alla riforma dell'insegnamento, è strettamente legata
agli intenti epistemologici del nuovo paradigma coniato da Morin.
Ad egli va riconosciuta la capacità di aver colto la chiave di
accesso alla roccaforte dei saperi, a quella che lo stesso Morin
definisce La Scuola del Lutto245, ossia le istituzioni formative che,
spesso, si presentano ripiegate su se stesse, impegnate a ragionare per
riduzionismi e iper-specializzazioni, piuttosto che per connessioni.
Una caratteristica delle innovazioni in campo cognitivo è costituita
dall’idea che l’intelligenza e i suoi processi riguardino prevalentemente non
un’attività di scomposizione ma di contestualizzazione continua che il
bambino, l’adolescente, l’adulto operano costantemente nello spazio
culturale in cui vivono. L’insegnamento deve contribuire alla
problematizzazione, all’interrogazione e alla riflessione costante sui
problemi del nostro tempo. Nel momento in cui
l’insegnamento/apprendimento si definisce quale sapere accumulato,
243 E. Morin, Kareh Tager D., Mon Chemin, cit., p. 50
244 G. Bateson, Verso un’ecologia della mente, cit., p. 52
245 Definizione tratta da Babel: Si to bibl iograf ico sul l ’opera di Edgar Morin, Università di Bergamo
161
ammucchiato, senza un principio organizzatore che restituisca alle nozioni
il loro senso complessivo, diviene fallimentare, lettera morta affidata alla
memoria d’archivio. In questo senso l’epistemologia di Morin riscopre dei
precursori privilegiati. Heidegger concepiva l’insegnamento come una
missione teoretica, ricerca delle postazioni avanzate del pericolo, dialogo
permanente con l’incertezza. Torna utile ricordare la differenza posta dai
filosofi ermeneutici tra la spiegazione e la comprensione. Un oggetto
spiegato (in Chimica come in Storia) è obiettivo nelle sue qualità che lo
caratterizzano, ma rimane pur sempre un oggetto che non soddisfa la
comprensione umana. La conoscenza comprensiva, invece si fonda sulla
comunicazione, sull’empatia e persino, come ricorda Morin, sulla simpatia
inter-soggettiva246.
Personalmente credo che l’unica vera conclusione possibile sia
iniziare; muovere, eliotianamente, il primo passo.
246 Baiamonte Carlo, Una riflessione sulla proposta educativa di Edgar
Morin da La Testa ben fatta. Riforma dell'insegnamento e riforma del pensiero, rivista: PROMETHEUS, Quindicinale di informazioneculturale, Anno I. Numero 10 - 15 ottobre 2001
162
“L’ecologia non è una scienza fra le altre: è un atteggiamento della mente e un modo di fare esperienza”.
John B. Callicott
163
Appendice
Concretizzazioni della complessità:
Tra le molteplici attuazioni del pensiero di Edgar Morin, la più
interessante e importante, affinché la civilizzazione sia globale e
tangibile, è senza dubbio quella in ambito scolastico/educativo. Egli
scrive:
je partais d’un constat : dans nos écoles, dans nos universités, on
nous apprend certes a connaître des choeses, mais celles-ci sont séparées,
isolées. On ne nous apprend pas à les relier, donc à affronter nos problèmes
fondamentaux, globaux. Je devais donc élaborer une pensée complexe,
c’est-à-dire une façon de penser non seulement les sciences, non seulement
la philosophie, non seulement la politique, mais aussi la vie quotidienne,
celle de chacun d’entre nous247.
Secondo uno studio condotto a cura della rivista .eco, ponendo
a confronto visione meccanicistica e visione ecologica, due paradigmi 247 E. Morin, K. D. Tager, Mon Chemin, cit. p. 206
164
tra loro dicotomici, molti sono i dati utili per approdare ad un nuovo
sistema educativo248. È inoltre possibile, almeno a mio parere, notare
quanto la conoscenza della nostra stessa conoscenza influisce nei
comportamenti, nelle azioni e nelle mansioni che ognuno svolge.
PRIMO LIVELLO: IL PARADIGMA EDUCATIVO
VISIONE MECCANICISTICA VISIONE ECOLOGICA I valori centrali
Preparazione alla vita economica. Partecipazione in tutte le dimensioni della transizione verso la sostenibilità, sociale, economica, ambientale.
Selezione o esclusione. Inclusione di tutte le persone in tutti gli aspetti e in tutte le età della loro vita e apprezzamento per tutti.
Educazione solo formale. Apprendimento durante tutta la vita. Conoscenza come valore strumentale (orientata a un fine pratico, a uno scopo, a un prodotto). Nel mondo occidentale porta all’educazione come merce e alla privatizzazione.
Essere/divenire (valori oltre che strumentali – lavorare per il cambiamento – anche intrinseci: l’educazione è un bene in sé, con un valore e un significato immanente).
Competizione. Cooperazione, collaborazione. Specializzazione. Comprensione integrata. Socializzazione, integrazione per l’adattamento. Autonomia-in-relazione con l’altro. Sviluppo di profili istituzionali. Sviluppo di comunità di apprendimento. Apprendimento efficace. Apprendimento trasformativo. Standardizzazione. Diversità congiunta a coesione. Misurabilità. Responsabilità. Fiducia nel Sistema. Fiducia nelle persone. Modernità. Sostenibilità ecologica. SECONDO LIVELLO: ORGANIZZAZIONE E GESTIONE DELL’AMBIENTE DI APPRENDIMENTO
VISIONE MECCANICISTICA VISIONE ECOLOGICA Curriculum
Prescrizione. Negoziazione e consenso. Dettagliato e ampiamente predefinito. Indicativo, aperto, reattivo. Conoscenza analitica. Valutata anche la conoscenza non analitica. Conoscenza decontestualizzata e astratta. Maggiore enfasi sulla conoscenza locale,
personale, applicata e di prima mano. Conoscenza predittiva che dà peso all’incertezza e all’approssimazione.
248 Studio tratto da S. Sterling, Sustainable education. Re-visioning Learning and Change, Green Books, 2001
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Conoscenza fissa e verità. Estremo interesse per la saggezza. Confusione tra “dati”, “informazione” e “conoscenza”.
Maggiore interdisciplinarietà, maggiori campi di interesse.
Organizzazione per discipline e difesa dei confini disciplinari. Specialismo.
Visione più generale e maggiore flessibilità.
Valutazione e giudizio
Ispezioni esterne. Autovalutazione, integrata da un supporto critico.
Indicatori esterni, fissati in modo molto puntuale.
Indicatori generati autonomamente, definiti in generale.
Misurazioni quantitative. Misurazioni tanto qualitative quanto quantitative.
Gestione Non sono considerate le sinergie e l’”emergenza”, vale a dire, secondo lo studio dei sistemi complessi, le proprietà qualitative che emergono dall’interazione di parti o di individui in sistemi complessi e che non sono riconducibili alle singole parti
Sono ricercate sinergie positive.
L’architettura, l’energia e l’uso delle risorse, nonché gli spazi dell’istituzione, non sono né gestiti ecologicamente né visti come parte dell’esperienza educativa.
Gestione ecologica legata al curriculum educativo e all’esperienza diretta
La scala di un’organizzazione o istituzione educativa non è considerata
Strutture e situazioni di apprendimento impostate a scala umana
Controllo e imposizione del curriculum. Potenziamento e determinazione del curriculum. Controllo dall’alto in basso. Gestione democratica e partecipativa.
Comunità Legami scarsi o nominali con la comunità. Confini si stemperano: la comunità locale è
sempre più parte della comunità di apprendimento
TERZO LIVELLO:
APPRENDIMENTO E PEDAGOGIA VISIONE MECCANICISTICA VISIONE ECOLOGICA
Visione dell’insegnamento e dell’apprendimento Trasmissione. Trasformazione. Orientato al prodotto. Orientato al processo, allo sviluppo e all’azione.
Enfasi sull’insegnamento. Visione integrata: anche gli insegnanti apprendono, gli
studenti sono anche insegnanti.
Competenza funzionale. Sono valutate sia le competenze funzionali, sia le competenze critiche e le creative.
Visione del discente
Come un essere cognitivo. Come persona intera, con un ampio arco di bisogni e di capacità.
Il modello sottolinea le carenze. Sono valutate la conoscenza esistente, le opinioni e le emozioni
I discenti sono concepiti come largamente indifferenziati.
Sono riconosciuti bisogni differenziati.
Valutazione dell’intelletto. Sono valutati l’intelletto, l’intuizione e le abilità.
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Intelligenza logica e linguistica. Intelligenze multiple.
Insegnanti come tecnici. Gli insegnanti sono professionisti riflessivi e agenti di cambiamento
Discenti come individui. Apprendono i gruppi, le organizzazioni e le comunità.
Stili di insegnamento e apprendimento
Esperienza cognitiva. L’esperienza è affettiva, spirituale, manuale e fisica.
Istruzione passiva. Stili di apprendimento attivo. Ricerca non critica. Ricerca critica e creativa. La ricerca è analitica e individuale. La ricerca apprezza l’unicità e le potenzialità di
ognuno ed Arco ristretto di metodi. Ampio arco di metodi e strumenti.
Visione dell’apprendimento Apprendimento semplice (di primo ordine: mette l’accento sull’informazione, accettando i valori e le convinzioni esistenti)
Tanto critico quanto epistemico (di secondo e di terzo ordine: sottopone ad esame gli assunti dell’apprendimento di primo ordine e ci consente di vedere le cose diversamente, portando l’apprendimento ad un livello trasformativo
Non riflessivo, causale. Riflessivo, iterativo. Il significato è dato. Il significato è costruito e negoziato.
I bisogni devono essere effettivi. I bisogni devono essere prima di tutto significativi.
La visione ecologica qui descritta, seppur in modo schematico,
è ciò che forse più si avvicina ad una messa in atto
(nell’insegnamento) dell’idea moriniana di complessità.
Si può parlare oggi di una sensibilità diffusa alle tematiche da
Morin indagate e trattate che ben si può scorgere in molti ambiti della
realtà quotidiana: non solo nella scuola dell’obbligo ma anche
dall’università alla politica, dalle associazioni e dagli enti di
protezione ambientale ai laboratori scientifici, dai media alle tavole
rotonde e congressuali.
Il pensiero di Morin trova, oltra a innumerevoli riconoscimenti,
onoreficienze e Premi internazionali, terreno fertile e approvazione in
molte realtà dei giorni nostri. Tra questi, apportando qualche esempio
senza avere la pretesa di essere esaustivi, è possibile annoverare:
167
l’insegnamento, da parte del professor Emilio-Roger Ciurana,
dell’Epistemologia della Complessità all’Università di Valladolid, in
Spagna; la creazione dell’ Instituto Internacional para el Pensiamento
Complejo dell’Università di Buenos Aires il cui direttore, Raul
Domingo Motta, è anche responsabile della “Cattedra Itinerante
UNESCO Edgar Morin per il Pensiero Complesso”; altri casi
comprovanti che la riforma è già iniziata sono individuabili in
Portogallo, Perù, Brasile, Cuba, Colombia e Messico (esattamente ad
Hermosillo dove è stata fondata la “Multidiversidad Mundo Real
Edgar Morin”: un’Università dedicata alla Filosofia della
complessità); ancora -per quanto riguarda l’Italia- all’Università di
Bergamo è attivo il CE.R.CO: “Centro ricerca antropologia ed
epistemologia della complessità”, nato con l'intento di promuovere
forme di pensiero e di ricerca interdisciplinari che permettano di
rispondere ai problemi della complessità che la natura, il mondo, la
società, l'essere umano pongono in tutti gli ambiti della conoscenza, a
livello scientifico, filosofico e politico; a Messina vi è “Il Centro
Studi di Filosofia della Complessità Edgar Morin” (fondato nel marzo
2002 da un gruppo di studiosi del Dipartimento di Filosofia
dell’Università, da tempo impegnati a indagare le relazioni fra
filosofia e scienze, e a esplicare i differenti paradigmi epistemologici
che si sono succeduti e contrastati negli ultimi due secoli). Per quanto
riguarda tale ambito, la bibliografia di riferimento è vasta e di facile
reperibilità.
Oltre ad accenni di tal genere, nel comporre questa parte
supplementare della trattazione, prendo spunto da tre esperienze
personali grazie alle quali sono venuta a conoscenza di realtà davvero
168
significative nell’ambito di ciò che può essere classificato come
educazione ambientale (ispirata ad un pensiero ecologico).
“La cultura della sostenibilità richiede uno sforzo congiunto e
coerente di tutte le sedi della società per promuovere nuovi stili di
vita”. Questa è la raccomandazione dell’UNESCO pronunciata in
occasione del DESS, acronimo che sta per “Decennio dell’educazione
allo sviluppo sostenibile”249 e promosso dalle Nazioni Unite per il
periodo 2005/2014.
249 Riporto lo Schema Internazionale d’Implementazione per il Decennio ONU dell’Educazione allo Sviluppo Sostenibile. Questo documento, approvato dal Comitato Esecutivo dell’UNESCO 13 settembre 2005, è stato elaborato su mandato dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, che nella Risoluzione 59/237 ha richiesto all’UNESCO di predisporre uno Schema Internazionale d’Implementazione per il Decennio delle Nazioni Unite dell’Educazione per lo Sviluppo Sostenibile (DESS). Lo Schema d’Implementazione costituisce un quadro di riferimento utile per tutti gli attori che intendono contribuire al Decennio. Non ha natura vincolante; contiene piuttosto degli orientamenti di massima per indirizzare l’ampia gamma dei partner, pur nel rispetto delle peculiarità di ciascuno, indicando le ragioni e le modalità del loro possibile supporto al Decennio e il contesto temporale e locale in cui possono agire. Presenta brevemente le sfide che l’ESS dovrà affrontare e delinea le caratteristiche che l’educazione dovrebbe avere per facilitare il perseguimento dello sviluppo sostenibile. Obiettivo dello Schema Internazionale d'Implementazione: nel dicembre del 2002 l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha adottato la Risoluzione 57/254, che proclama il Decennio delle Nazioni Unite dell’Educazione per lo Sviluppo Sostenibile (DESS) per il periodo 2005 - 2014. All’UNESCO è stato chiesto di assumere la leadership del Decennio e di predisporre una bozza di “Schema Internazionale d’Implementazione” (SII). Questo documento risponde a tale richiesta ed è il risultato di ampie consultazioni che hanno coinvolto Agenzie delle Nazioni Unite, governi, organizzazioni della società civile, ONG, esperti e specialisti. Il processo ha preso avvio nel 2003 con le consultazioni iniziali all’interno delle Nazioni Unite. L’UNESCO ha poi ampiamente diffuso la prima bozza di Schema Internazionale d’Implementazione - SII, ed ha ricevuto più di 2000 contributi, rappresentativi di opinioni consolidate di centinaia di soggetti interessati. Il SII è
169
In altri termini, si può affermare che l’interdisciplinarietà e la
complementarietà dei saperi di cui Morin parla, invitandoci ad andare
oltre lo stato attuale delle cose, deve concretamente trovare
applicazione per un cambiamento di paradigma che s’ispira ad una
visione ecologica.
E’ ciò che, tra gli altri, tenta anche in campo scientifico, ad
esempio un ente come “Arpa” (Agenzia regionale per la protezione
ambientale), da cui prendo a prestito le parole per esprimere l’urgenza
della metamorfosi paradigmatica:
la complessità va intercettata e utilizzata (con intelligenza) e non
soppressa o negata. Il problema è quindi quello di ricercare un diverso
rapporto con tale dimensione, oramai fortemente costitutiva dei nostri
sistemi sociali; di capire in che modo è possibile far funzionare il nostro
un documento strategico che si focalizza in primo luogo su quello che le nazioni si sono impegnate a perseguire attraverso il DESS e sotto la leadership dell’UNESCO. Riassume finalità e obiettivi del Decennio, e illustra il suo legame con altri importanti movimenti in corso nel campo educativo. Sottolinea l’importanza dei partenariati ai fini del successo del Decennio e evidenzia come questi possano fornire un contributo notevole a tutti i livelli (locale, nazionale, regionale e internazionale). Descrive le funzioni d’indirizzo assegnate all’UNESCO. Elenca inoltre i passi principali che sono stati compiuti per giungere al DESS. Il SII dovrebbe suscitare un senso di appartenenza collettiva nei confronti del DESS. Indica delle prospettive future nella speranza di stimolare l’immaginazione, la creatività, l’energia per fare del DESS un successo. L’aspettativa è che Stati e regioni (in senso sovra-nazionale) elaborino piani, approcci strategici e scadenzari sulla base del quadro di riferimento fornito da questo Schema.
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vivere associato, recuperando, appunto nella diversità, gli elementi che ci
possono unire e sui quali basare prospettive di sviluppo250.
Il problema fondamentale è che l’indeterminazione cognitiva è
sovrana nella nostra epoca, e lo è soprattutto perché vi è la difficoltà a
“mettere in relazione una varietà di istanze e di punti di vista, molto
maggiore che in altre fasi storiche”251.
Non possiamo permetterci di dimenticare l’eco-appartenenza
consegnataci dal darwinismo. Teoria, quella di Darwin, che può
aiutarci a capire i problemi odierni perché “se si è parte di una realtà,
se a questa realtà si appartiene, risulta assai difficile pensare di
metterne a rischio il destino”252. Detto in altri termini: la
comprensione del legame non semplicemente “filiativo” ma
“affiliativo”, che tiene insieme l’Uomo alla Natura, è indispensabile.
Sulla stessa linea di pensiero si dirigono le parole pronunciate in
occasione di un convegno promosso dall’Arpa:
un rapporto verticale tra dominatore e dominato è destinato al
fallimento, soprattutto nel nostro caso in cui il dominato è l’ambiente stesso
che dà vita e da cui siamo fortemente dipendenti, e deve trasformarsi in un
rapporto orizzontale253.
250 A. Raus, articolo: “Una società instabile: complessità, partecipazione, e conflitto come opportunità”, in Micron, Rivista di Informazione Arpa Umbria, dicembre 2008, numero 10, p. 32
251 A. Raus, art. cit., p. 36
252 A. Raus, art. cit., p. 39
253 Fabio Mariottini, Arpa Umbria: Intervento al Convegno “Cittadini nella società della conoscenza”, Perugia, 22/23 Gennaio 2009
171
Come sottolinea la giornalista Silvia Zamboni è importante
altresì postulare una comunicazione educativa, che si interponga tra
quella politica e quella istituzionale. Oltre a ciò, non vanno messe in
secondo piano due categorie di grande rilevanza ai fini di un cambio
di paradigma: quella relazionale, e di una sua lettura “ecologizzata”,
e l’idea per cui la separatezza è sinonimo di impoverimento, nei
rapporti umani come nei nostri sistemi di pensiero. Questi i
presupposti dell’intervento della Dott.ssa Rossella De Leonibus254 la
quale, in conclusione al medesimo, elenca le cinque parole chiave (in
cui possiamo trovare analogie con i concetti moriniani), o
gardnerianamente definibili intelligenze, essenziali ad un’ecologia
delle relazioni: globalità, limite, diversità, estetica ed etica.
Per quanto riguarda in modo più dettagliato la scuola,
nell’ambito della “Settimana dell’educazione allo sviluppo
sostenibile”255 è stato presentato il progetto dal titolo Georisorse tra
uso e abuso (patrocinato da “Università degli Studi di Perugia”,
“Ufficio Scolastico Regionale” e “Regione Umbria”) le cui curatrici,
Doretta Canosci, Antonietta Cosimetti e Laura Marchese, sostengono
che se le risorse, soprattutto degli adolescenti, venissero indirizzate
254 Intervento dal titolo “ E’ possibile un’ecologia delle relazioni umane? Cinque parole per cominciare” all’interno del ciclo di Conferenze su “Consumo responsabile: Come e Perché?” tenutosi a Perugia tra il 17 Febbraio e il 10 Marzo 2009 In collaborazione con CIFORMAPER, Centro Italiano di Formazione Psico-Eco-Relazionale, secondo la metodologia della Gestalt Ecology, che nasce tra professionisti della psicologia e delle scienze umane e ricerca principi, atteggiamenti e strumenti in grado di ricreare lo spazio per una visione integrata dell'essere umano, ricollocato in relazione al suo ambiente e all'ecosistema.
255 Svoltasi nel periodo 11-14 Novembre 2008
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con maggiore determinazione allo studio delle problematiche
ambientali e a valutare quanto ogni singolo individuo possa
rappresentare elemento decisivo e portante per la loro risoluzione,
potremmo pensare di aver gettato le basi per lo sviluppo di cittadini
consapevoli
Molti i progetti in quest’ambito che puntano ad integrare la
questione ambientale con quella sociale ed economica; tra i tanti si
può annoverare “Agenda 21”, ovvero quel piano di lavoro contenente
intenti e obiettivi programmatici (sottoscritto da 178 paesi di tutto il
mondo nel 1992 e che da allora sancisce le priorità di politica
ambientale) tendenti ad una visione globale (ci si può permettere di
dire complessa) dello sviluppo.
Splendida e significativa è la letteratura a disposizione, sia
giuridico/normativa che d’approfondimento, per quanto riguarda
l’evoluzione e i progressi fatti in materia di sensibilità ambientale; ma
ciò che credo sia più rilevante, seguendo anche gli inviti riformatori
moriniani in più occasioni pronunciati, è indagare come la scuola, ad
ogni grado e in ogni indirizzo, possa (debba) apportare novità
indiscutibili ed utili all’intera società. Rivalutandosi nel suo ruolo di
formatore, capace di dar senso alla vita e cessando di essere il luogo
che troppo spesso si sente definire come noioso e inadeguato, la
scuola può venirsi a configurare come l’epicentro ri-formatore poiché
ha senza dubbio un’importanza strategica per il futuro di ogni paese.
Scrive Luigina Mortari: “l’ipertrofia razionalistica -semplificante e
riduttiva- ha contagiato anche il pensiero pedagogico”256 e troppo
256 L. Mortari, Per una pedagogia ecologica, cit., p. 70
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spesso l’educazione ambientale, per questo, si riduce ad essere
applicata in modo tecnicistico e scientista. Ciò che è essenziale invece
è il recupero di un rapporto diretto con la natura, come già
sostenevano i protoecologisti, così da far emergere “un’idea
complessa di educazione ambientale, che implica un’alfabetizzazione
ecologica fortemente interrelata con l’educazione etica e quella
estetica”257. Un’educazione così intesa conduce ad un’identificazione,
soprattutto corporea, col mondo circostante. Permette così anche di
rivalutare il corpo, quel corpo che la tradizione cartesiana ci ha fatto
dimenticare.
Da tali presupposti nasce il desiderio di un’osservazione diretta
(di ispirazione montessoriana), che ho avuto la fortuna di poter
svolgere, in tre contesti diversi:
- Campo scuola258 di tre giorni in Valnerina con bambini di
classe elementare presso la struttura CEA, uno dei molti Centri
257 L. Mortari, Per una pedagogia ecologica, cit., p. 29
258 Progetto di educazione ambientale; a.s.2008-2009 e a.s.2009-2010 Direzione Didattica Statale 1 °Circolo di Perugia. Progetto dal titolo “Come un pizzico di sale, insieme noi possiamo….” Descrizione sintetica del progetto e suoi punti di forza: Il progetto è stato elaborato, per il biennio 2008-2010, dal gruppo docente in coprogettazione con i C.E.A. Esso dà continuità al lavoro svolto nei precedenti anni scolastici riguardo alle complesse tematiche dell’educazione ambientale e dello sviluppo sostenibile. Coinvolge tutti gli alunni delle diverse classi, tutti gli insegnanti, i collaboratori scolastici, gli operatori-educatori dei C.E.A, le famiglie e il territorio. E’ inserito nel P.O.F di Circolo ed è il progetto-portante delle scuole elementari interessate. Nei suoi percorsi educativo-didattici affronta le seguenti aree tematiche: l’acqua, l’aria, l’educazione al paesaggio, i rifiuti (intesi come risorsa), lo sviluppo e l’energia sostenibile, sia attraverso un “cammino comune” che vede gli alunni
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coinvolti da protagonisti nella progettazione e trasformazione degli ambienti comuni interni ed esterni alle due scuole; sia con visite e soggiorni presso i C.E.A. Ha come finalità prioritaria la costruzione, secondo i principi di Agenda 21, di una scuola di qualità che educhi bambini ed adulti ad appropriarsi di comportamenti corretti nei confronti di sé stessi, degli altri, del proprio territorio, del pianeta Terra e della sua sostenibilità. Una scuola-laboratorio “piena di tempo” che “passa dalle parole ai fatti”, che si rende costantemente “visibile”, una scuola “flessibile”, a cui sta a cuore riflettere sul proprio “agire”, una scuola “aperta” a nuove proposte e soprattutto capace di mettere in atto cambiamenti “dentro e fuori”. Il progetto nasce dal lavoro svolto negli anni passati, in continuità dal 2002 ad oggi, con il coinvolgimento progressivo da 1 classe alle attuali 11, da soli 20 alunni agli attuali 233 .Continuità che si avvale della ormai raggiunta solidità di intenti e d’azione con gli operatori dei CEA coinvolti nella coprogettazzione. Un’esperienza che spinge i ragazzi a non essere solamente degli utenti , ma dei protagonisti e dei divulgatori immediati della medesima, sia verso i genitori che verso compagni ed amici. E’ un progetto multidisciplinare che tra l’altro aumenta e consolida il senso di appartenenza al gruppo- classe e al gruppo-scuola e fa sì che ognuno percepisca le proprie “diversità” come risorse da mettere a disposizione per gli altri. L’ambiente sarà visto non solo come macrosistema, ma come microsistema, e quindi come punto di partenza per modificare il macrosistema. Per documentare il processo educativo messo in atto dal progetto e raccontare i momenti e le esperienze ritenuti più significativi, verrà costruito un diario, come strumento personale e del gruppo in cui annotare, registrare, raccogliere dati e impressioni utili per costruire progressivamente la “memoria” del percorso educativo compiuto.
Gli insegnanti utilizzando il diario potranno inoltre -interpretare, anche a distanza di tempo, l’esperienza progettuale -riflettere sull’azione educativa svolta e sui processi attivati -modificare, aggiustare il progetto stesso in itinere qualora emergano bisogni nuovi o altri fattori non ipotizzati e previsti nel progetto iniziale. Indicatori di efficacia relativi all’acquisizione di comportamenti responsabili e consapevoli: a) coinvolgimento di tutti gli alunni e tutti gli insegnanti risultati attesi: -consapevolezza del proprio ruolo all’interno della collettività scolastica -miglioramento e/o rafforzamento dei rapporti interpersonali -superamento di disagi e difficoltà -disponibilità ad aiutare e farsi aiutare -uso di competenze e diversità come risorse per il gruppo -capacità di gestione autonoma di se stessi, degli oggetti personali, delle azioni quotidiane, degli impegni presi b) costruzione di una affettività nei confronti del proprio ambiente di vita e
175
di Educazione Ambientale di Legambiente presenti nel
territorio umbro. Le finalità dei tre giorni si ispirano
innanzitutto al protagonismo degli studenti che vi partecipano e
alla co-progettazione, per una vera educazione ambientale.
Come sottolinea Gianfranco Bottaccioli (U.S.R.), il binomio di
questi due aspetti, quindi ciò che si può definire una
progettazione partecipata, permette quello che viene definito un
decentramento cognitivo favorendo l’arricchimento delle mappe
concettuali ed esistenziali di ciascuno. Oggi siamo in una
nuova fase dell’azione ambientalista che va ben oltre il bisogno
di sensibilizzare ed è piuttosto incline ad approdare alla
necessità del fare. Ispirati da tale principio, l’intento principale
dell’ambiente in genere risultati attesi: -capacità di emozionarsi di fronte ad un paesaggio -desiderio di “avere a cuore” l’ambiente vissuto nelle esperienze del progetto -assunzione di responsabilità per la gestione comune del patrimonio ambiente (es: giardino della scuola) -nascita di un senso di appartenenza al proprio ambiente di vita (relazioni interpersonali e con il territorio) c)acquisizione dei concetti basilari di ambiente naturale, ecosistema, paesaggio, energia, sostenibilità con l’uso di un linguaggio specifico risultati attesi: -acquisizione di competenze trasversali a tutte le discipline del curricolo utilizzando metodologie laboratoriali e di indagine sul campo d).1 uso di strumenti di misura come questionari ed osservazioni per analizzare gli atteggiamenti e i comportamenti dei ragazzi prima e dopo le varie fasi di realizzazione del progetto (es: prima e dopo il campo-scuola) d).2 uso dì questionari per sondare le opinioni dei genitori rispetto alle esperienze di educazione ambientale risultati attesi: -raccolta di dati utili a riflettere sui processi educativi messi in atto dal progetto e sugli eventuali “cambiamenti reali” avvenuti nei ragazzi sia all’interno (scuola e casa) che all’esterno (per esempio nei C.E.A) del contesto formativo.
176
dei CEA259 è quello di educare al paesaggio: avviare cioè “un
approccio attivo in cui gli aspetti sensoriali ed emotivi siano
strettamente collegati a quelli cognitivi, facendo mettere in
evidenza agli alunni l’invisibile al di là dell’invisibile anche per
riuscire a comprendere le relazioni tra gli elementi”260.
- Coinvolgimento in alcuni progetti, promossi e portati avanti
dall’ U.S.R. (Ufficio Scolastico Regionale -Provveditorato
degli Studi di Perugia-), quali: organizzazione Perugia Science
Fest (Festival della Scienza che rende altamente partecipativi
gli studenti in ambiti tradizionalmente visti come ostici quali la
fisica, la chimica, la biologia coniugandole con dimostrazioni e
spettacoli); partecipazione alla “tavola della Pace”261 tenutasi ad
Assisi (che ha coinvolto in modo particolare le scuole, non solo
italiane, e che ha posto al centro del dibattito un’ “economia di
giustizia”); analisi dei motivi della premiazione per il concorso
“Percorsi d’Acqua” (che ha visto la partecipazione di 35 scuole)
il cui scopo principale era quello di elaborare messaggi
promozionali per incoraggiare nei cittadini stili di vita e
comportamenti congruei al risparmio idrico; presa visione
259 il CRIDEA (Centro Regionale per l’Informazione, la Documentazione e l’Educazione Ambientale) è in stretta collaborazione con tali centri e sulla stessa linea di pensiero elabora progetti e iniziative in ambito scolastico (cfr. Versos. Verso una società sostenibile; Guida sperimentale per gli insegnanti delle scuole medie superiori, Giunti, Firenze, 2003 che propone un modello metodologico integrato e complesso ispirandosi a “pensare globalmente, agire localmente”).
260 Rivista Green, Ottobre/dicembre 2008, p.13
261 “Costruire la pace è opera dell’educazione; la politica può solo evitare la guerra” M. Montessori
177
dell’Osservatorio permanente regionale per “Cittadinanza,
legalità e costituzione” finalizzato ad una cittadinanza
consapevole e alla promozione dell’insegnamento
dell’educazione civica nelle scuole.
Le iniziative qui brevemente elencate stanno a dimostrare
quanto l’istruzione sia molto più recepibile se ha un’applicazione,
un fine pratico e svelano che i soggetti motivati
nell’apprendimento sono coloro i quali vedono nella cultura un
investimento a lungo termine. In ultimo, la terza esperienza si è
configurata come
- indagine conoscitiva, nella sua pratica quotidiana (75 ore di
presenza in aula), del metodo Montessori applicato nelle
classi di scuola elementare. Nel descrivere tale esperienza
tornano in mente le parole di Edgar Morin quando sostiene che
l’ educazione deve favorire la capacità naturale della
mente di porre e risolvere i problemi essenziali e, correlativamente,
deve stimolare il pieno uso dell’intelligenza generale. Questo pieno
uso richiede il libero esercizio della facoltà più diffusa e più viva
nell’infanzia e nell’adolescenza, ossia la curiosità, che troppo spesso
la scuola spegne e che si tratta, al contrario, di stimolare o di
risvegliare, se dorme262.
Nella scuola Maria Montessori di Perugia è semplice
scoprire quell’attenzione al contesto che anche Morin invoca,
anche se in termini diversi; l’importanza di prestare attenzione
all’ambiente (che se è organizzato è educatore e autoriformatore
262 Morin E., I sette saperi, cit. p. 39
178
di per sé) in cui bambini svolgono quello che per loro è un vero
e proprio lavoro, responsabilizzandosi e collaborando tra loro.
L’utilizzo non solo delle facoltà intellettive ma anche sensoriali
è uno degli aspetti che più colpisce durante le ore di scuola: “la
vita intellettuale non è affatto puramente mentale ma passa
innanzitutto per la mano e i sensi […] ed è questo uno dei punti
di svolta del percorso storico che ha portato nel Novecento allo
svecchiamento delle pratiche educative […]”263. Anche
l’ambiente ha subito, sulla scia di questa innovazione, una
significativa rivalutazione poiché fu posto in “relazione viva
con le esigenze dello sviluppo psichico”264. Ed è questa una
lezione che mai si dovrebbe dimenticare, cosa che invece oggi
ancora accade.
Siccome insegnare è un mestiere difficilissimo la premessa è
conoscere quello che si insegna ma anche conoscere l’anima di chi ci
ascolta. Va invertito il processo di apprendimento in tutte le sedi
scolastiche. Non si nega il valore della sintassi, dell’astrazione, senza le
quali non c’è cultura: si nega il fatto che esse vengano per prime, che siano
tutto. Solo pochi solo contemplativi, fra i ragazzi265.
Il rapporto di reciproco sostegno tra fare e sapere costituisce
elemento essenziale all’interno della scuola, così come il poter mettere
in comunicazione i saperi.
263 F. Pesci, Educazione senza vittime, Cedam, Roma, 2008, p. 222 .
264 F. Pesci, Educazione senza vittime, cit. p. 222
265 L. Berlinguer, “Atti della conferenza Regionale sul sistema educativo di istruzione e formazione” 9, 10 Maggio 2008 p. 9 in Rivista Tutto scuola
179
Vediamo che esiste uno stretto legame tra il lavoro manuale che si
compie nella vita comune e la profonda concentrazione dello spirito. Per
quanto a prima vista sembri che queste due cose siano opposte, in realtà
esse sono profondamente unite, poiché l’una è la sorgente dell’altra266.
E’ necessario acquisire la consapevolezza della complessità
dell’essere umano e del contesto in cui si trova costantemente
inserito. Rivalutando il sapere nella sua qualità di flusso, piuttosto che
continuare a parcellizzarlo –cosa che viene applicata anche ai
movimenti e agli elementi della vita psichica-, significa spingersi
verso la direzione di una ecologia pedagogica
intendendo con ciò non soltanto il posto che ha lo studio
dell’ambiente nell’ambito della cultura oggi necessaria per lo sviluppo di
personalità integrate nel loro ambiente sociale, ma anche una
considerazione della formazione come ambito di tematiche analogo a quella
che negli anni Ottanta si era cominciato a chiamare ecologia della mente267.
Serve dunque una rivoluzione didattica, che sia anche
epistemologica, poiché troppo spesso le tradizionali funzioni dei
sistemi educativi (riproduzione sociale, trasmissione della cultura,
promozione di cittadinanza, formazione professionale) rinchiudono gli
studenti in saperi parcellizzati, diffondono conformismo, avvallano
acriticamente pratiche insostenibili e non tengono sufficientemente
conto della ricchezza di capacità e bisogni che è racchiusa in ogni
discente. Un’educazione è “sostenibile” 268se incorpora altre funzioni,
266 M. Montessori, Il bambino in famiglia, Garzanti, Milano, 2008, p. 62
267 F. Pesci, Educazione senza vittime, Cedam, Roma, 2008, p. 194
268 Cfr. www.educazionesostenibile.it
180
se, rivedendo i suoi paradigmi, permette un pieno sviluppo delle
persone, le attrezza ad affrontare le difficoltà e le sfide della vita e
sostiene cambiamenti che portino ad una società migliore e ad un
mondo più pacifico.
Ciò che in definitiva serve, a partire dagli inizi dell’età scolare,
è una didattica interdisciplinare, o meglio transdisciplinare:
non si tratta di inventare nuove materie scolastiche ma di ripensare la
funzione delle varie discipline utilizzando l’educazione ambientale
(attraverso quella scienza nuova che è l’ecologia, la quale affronta il
problema delle relazioni tra vita e morte, scienza e coscienza, umanità e
natura) come risorsa […] per stimolare le discipline a confrontarsi e a
interagire tra di loro[…] e creando così anche cittadini più consapevoli269
del loro ruolo nell’era globale.
Un’ottimo esempio di questa pratica, che non solo è auspicabile
ma altamente realizzabile, è il centro di “Ecolfabetizzazione” fondato
da Fritjof Capra il cui intento, come egli stesso sostiene
non è insegnare la «teoria» dell’ecologia; vogliamo che i bambini,
una volta finita la scuola, siano responsabili per la Terra, e che non sentano
tale responsabilità unicamente in base ad una conoscenza teorica. Perciò
vogliamo che facciano esperienza dell’ecologia e che abbiano una relazione
emotiva con la natura, secondo un approccio partecipatorio. Intervista di
Andrea Markos, Rivista Ecole, settembre 2004
269 Arpa, Anche nel mio giradino, Supplemento alla Rivista Micron n° 8/ Dicembre 2007 p. 62
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