Effetto Hilton
Di Chip Heath & Karla Starr
Lettera di presentazione La maggior parte delle aziende, al proprio centenario, si accontenterebbe di dare una
festa. Hilton invece, ha deciso di assumere un paio di figure esterne dallo sguardo critico -
autori di pubblicazioni in materia aziendale, di formazione sociologica - per raccontare
l’influenza che l’azienda ha avuto sull’industria del turismo, i viaggiatori, il personale, e su varie
comunità in tutto il mondo. Se consideriamo il modo in cui Hilton ha influenzato tutti questi
ambiti, siamo in grado di valutare l’impatto complessivo di Hilton sul settore dei viaggi. È questo
che intendiamo per “Effetto Hilton”.
Abbiamo scavato nella storia di Hilton per capire in che modo gli esordi di questa
azienda abbiano plasmato la sua efficienza, e il ruolo di quei primi successi sulle modalità
operative attuali. Hilton è un’azienda globale che, considerando tutti i suoi 14 brand, conta quasi
900.000 camere, e che continua a crescere a un ritmo molto rapido, specialmente in Cina. E
siccome abbiamo dovuto restringere il campo di indagine, ci siamo concentrati sul cuore
dell’azienda. La maggior parte delle storie che vi racconteremo si riferiscono al marchio
originale e di punta del gruppo: Hilton.
Non siamo così naïf da ritenerci totalmente imparziali. Hilton ci ha remunerati per
realizzare questo progetto, e la ricerca ha dimostrato che persino il più piccolo dei regali rende
più accondiscendenti nei confronti del donatore. Per questo voi, saggi lettori, dovreste tenere
conto del nostro possibile eccesso di benevolenza nei confronti di Hilton. Tuttavia non riteniamo
che la ricerca sconti distorsioni su aspetti di Hilton che abbiamo giudicato positivi.
Se abbiamo potuto raccontarvi la storia di Hilton è solo grazie al supporto di uno
storiografo d’eccezione, Mark E. Young, che dirige gli archivi del settore alberghiero dell’Hilton
College of Hotel Management dell’Università di Houston. Sin dall’inizio, ci ha aiutati a notare
piccoli quanto sorprendenti particolari della documentazione storica, che hanno poi costituito il
fulcro della nostra analisi, come l’importanza dell’aria condizionata nelle stanze degli hotel, di
una linea diretta per le prenotazioni, della nascita di Lady Hilton, di un design d’interni
interculturale, e foto che mostrano chiaramente come la costruzione di un hotel Hilton inneschi
lo sviluppo economico delle zone limitrofe. Ringraziamo inoltre tutti coloro che ci hanno aiutati a
ricostruire i case study contenuti in questo libro, inclusi i gruppi locali che hanno condotto le
interviste preliminari.
E siccome gli esseri umani hanno la tendenza a enfatizzare il proprio ruolo negli
avvenimenti, ci siamo serviti di fonti esterne per verificare i dati contenuti nei case study e
l’impatto complessivo di Hilton a livello mondiale. Abbiamo scoperto che, nella maggior parte
dei casi, i collaboratori di Hilton non davano il giusto valore ai risultati ottenuti. Durante la
seconda tranche di interviste, i loro racconti ci apparivano spesso ben più degni di nota di
quanto inizialmente avessimo intuito. Ciò che i membri del gruppo consideravano ordinario, era
in realtà abbastanza straordinario. Siamo impazienti di raccontarvi queste storie, tanto quanto
fummo sorpresi di scoprirle.
La redazione di questo libro serve a Hilton per capire meglio quali aspetti della propria
storia abbiano contribuito al successo della compagnia, così da proseguire sulla stessa strada e
fare ancora meglio in futuro. La speranza è anche quella di offrire uno spunto utile a tutte le
persone che gli stanno a cuore: voi, gli ospiti, e i vari amici sparsi in altri posti di lavoro.
Se lavorate per un competitor di Hilton, vi preghiamo di posare il libro immediatamente.
Se invece lavorate altrove, specialmente in Hilton, allora siete i benvenuti! Fate come a casa
vostra, curiosi lettori. Confidiamo di trasmettervi qualcosa di utile.
Da Hilton potrete imparare come ridare entusiasmo a clienti annoiati, creare un
ambiente di lavoro che coinvolga realmente i dipendenti, diventare influenti nella vostra realtà, e
scoprirete il potenziale d’azione di un’azienda capace di resistere alla prova del tempo.
Che possiate avere la fortuna di lavorare in un gruppo di lavoro appassionato quanto
quello del Colombo Hilton in Sri Lanka,
Chip Heath e Karla Starr
Perché Hilton’s Hotel è come la lampadina di Edison
Parlare di Thomas Edison come l’inventore della lampadina non è del tutto corretto.
Edison ne ha semplicemente brevettata una parte (il filamento di carbone che bruciava a lungo
in un tubo sottovuoto) e l’ha combinata con invenzioni preesistenti (fili elettrici e altri
componenti). Ma il suo contributo ha rivelato il pezzo mancante del puzzle, consentendo alla
rete d’illuminazione di prendere forma.
Neppure Henry Ford ha inventato l’automobile, ma solo il pezzo mancante del puzzle (la
catena di montaggio) che serviva a rendere il tutto (assemblaggio di motore, freni e carrozzeria)
economicamente sostenibile, attraente e abbordabile per un pubblico di massa.
Considerati questi precedenti, non è un oltraggio definire Conrad Hilton l’inventore della
moderna esperienza alberghiera, specialmente nel settore dei viaggi aziendali. Le persone
viaggiavano per lavoro anche prima (persino Ferdinando Magellano era in missione per conto di
Dio e del Re di Spagna), e gli hotel esistevano anche prima di Hilton (a Natale non ci sarebbe il
presepe se tutte le pensioni del posto non fossero state piene). Ma sappiamo che Hilton ha
fornito il pezzo mancante del puzzle, perché il suo marchio di hotel fu il primo a prendere il volo.
Nel 1943, Hilton divenne la prima catena di hotel coast-to-coast degli Stati Uniti.
Nel 1946, la Hilton Hotels Corporation fu la prima compagnia alberghiera a vendere le
proprie azioni, e nel 1947 fu pubblicamente quotata alla Borsa di New York.
Tre anni dopo, Hilton costruì il suo primo hotel internazionale e moderno, il Caribe di
San Juan, in Portorico. Nel 1963, un cronista della rivista Life scriveva persino che “in alcuni
paesi, come la Spagna, si sta diffondendo l’idea che ‘Hilton’ sia la parola inglese per ‘hotel’”.
Nel 2016, Hilton è presente in 100 Paesi.
E oggi, Hilton celebra i suoi 100 anni di attività.
L’azienda di Conrad Hilton decollò perché fornì l’anello mancante dell’esperienza
alberghiera, in cui si imbatté per soddisfare le esigenze di una categoria di clienti che Hilton
conosceva molto bene: i viaggiatori d’affari.
Hilton era cresciuto in una famiglia benestante. Suo padre Gus, norvegese di origini,
aveva fatto fortuna vendendo miniere di carbone. Ma nel 1907, il progetto speculativo da parte
di una banca newyorkese ne provocò la bancarotta. La banca chiuse, creando il panico e
provocando la chiusura a cascata di altre banche in tutta la nazione. Gus Hilton si ritrovò con
una sacco di merce che non poteva più convertire in denaro. “All’improvviso non eravamo più
ricchi”, scrive Hilton nelle sue memorie, Be My Guest (Fate come a casa vostra).
A detta di Hilton, la famiglia, improvvisamente al verde, convocò una riunione per
decidere come affrontare la crisi, e concluse che per restare a galla avrebbe dovuto sfruttare le
uniche quattro risorse che aveva a disposizione:
1. La forza lavoro
2. La merce rimasta invenduta nel suo negozio
3. La “più grande e mal costruita casa di mattoni rossi del Nuovo Messico, che dava su
una stazione ferroviaria della linea principale”
4. La cucina di Mary Hilton
La migliore analisi dei fatti la fornì il ventenne Conrad: “C’era solo una soluzione
possibile: creare un hotel Hilton”.
Ogni giorno, a mezzanotte, alle tre del mattino, e a mezzogiorno, Conrad e suo fratello
Carl si recavano al treno in cerca di clienti. I loro clienti erano spesso commercianti di
passaggio, che avevano denaro sufficiente per pagarsi una notte. Tre volte al giorno, Conrad
percorreva il tragitto dalla stazione alla casa di famiglia e pensione, portando con sé le borse
piene di campioni dei venditori. Mentre lo immaginiamo chiacchierare della vita lungo il tragitto,
Conrad cercava di promuovere la cucina della madre e di ricavare spunti utili per rendere felici
gli ospiti durante il loro soggiorno.
Conrad e Carl gestivano la drogheria e si occupavano dei bagagli. Svegliavano gli ospiti
assonnati. Dormivano dove potevano. Gus si occupava dell’esperienza degli ospiti, Mary gli
riempiva la pancia.
L’esperimento di famiglia si rivelò presto un successo. Un letto comodo, lenzuola pulite,
piatti fatti in casa, un negozio disponibile all’interno, un’ottima posizione vicina a uno snodo
ferroviario, e una paio di zelanti facchini? Per due dollari e mezzo a notte?
Ben presto tra i venditori più scaltri cominciò a girare la voce (una sorta di TripAdvisor
alla vecchia maniera) che a San Antonio, nel Nuovo Messico, c’era questo nuovo posto dove
soggiornare. “Prova ad andare all’Hilton”.
Nel giro di sei settimane, la voce era arrivata a Chicago. “Se lungo il viaggio devi fare
tappa”, proseguiva il consiglio, “falla a San Antonio e vedi se trovi una camera all’Hilton”.
E non importa se questa prima dimora, dove Hilton apprese l’arte dell’imprenditorialità e
dell’ospitalità, si trovava a San Antonio, New Mexico, e non a San Antonio, Texas. Gli Hilton
erano così bravi nel soddisfare i bisogni dei loro viaggiatori d’affari da spingerli a fare
appositamente tappa in questa piccola cittadina a metà strada tra El Paso e Albuquerque (o,
per essere più precisi, a metà strada tra il nulla e il nulla).
Cosa c’era di così speciale
lì? Il discorso proseguiva:
“Servono i migliori piatti del
West e hanno un ragazzo che è un
mago nel farti sentire come a casa.”
Nel 1919, Conrad Hilton
acquistò il suo primo hotel, il Mobley
di Cisco, Texas, che lui stesso
descrisse come “una via di mezzo
tra una topaia e una miniera d’oro”. Il
Mobley attraeva i lavoratori del
giacimento petrolifero di Cisco, ma
gli innumerevoli successivi hotel
Hilton, acquistati o acquisiti, si
rivolgevano ai viaggiatori d’affari in
sosta tra le città del Texas, come
Waco ed El Paso, durante il boom petrolifero dei primi del ‘900. Diventato il santo patrono dei
viaggiatori d’affari benestanti, egli aveva casualmente trovato la ricetta che avrebbe poi
funzionato su un pubblico ben più vasto. La gente vuole andare ovunque, sentendosi però
sempre come a casa propria.
Twilight Zone, puntata n. 157: un’hotellerie senza Hilton
Per avere un’idea di come l’abilità di Hilton di puntare al pezzo mancante del puzzle per i
viaggiatori d’affari, i comfort, si sia evoluta negli anni, dobbiamo fare un passo indietro e provare
a immaginare un mondo senza Hilton. Se riuscite, provate a ricordare l’immaginario bizzarro e
la colonna sonora delle prime scene della vecchia serie TV Twilight Zone. Ecco come ci
apparirebbe il mondo se tutto ciò che Conrad Hilton ha creato svanisse (insieme a quegli
esemplari di eccezionale qualità, come il Waldorf Astoria a New York, che Hilton ebbe il buon
gusto di acquisire). Immaginarne l’assenza dà il giusto peso alla loro presenza, con un effetto
simile a quello dei telefilm di paura del venerdì sera.
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Immaginate una camera d’albergo senza termostato: la temperatura della stanza resterà
la stessa in qualsiasi ora del giorno. Fa un po’ troppo caldo per i vostri gusti, così prendete un
bicchiere per riempirlo d’acqua da bere. L’acqua è a temperatura ambiente. Perciò, proprio
come la stanza, è calda.
In cerca di qualcosa che vi faccia rilassare in fretta (il volo è stato un incubo), gettate
l’acqua tiepida nel lavandino e cercate il minibar. Continuate a cercare. Non c’è nessun minibar.
Vi sedete sul letto e vi togliete le scarpe. D’istinto, le vostre mani si dirigono verso il
telecomando della TV sul comodino. Niente. Cercate la lista dei canali via cavo. Niente.
Setacciate la camera con lo sguardo in cerca della TV. Niente.
Siete esausti dopo il viaggio infinito dall’aeroporto, che vi ha fatto perdere la cena. Non
c’era un hotel più vicino all’aeroporto l’altra volta?
Decidete di ordinare del cibo in camera, per riparare alla cena mancata, pregustando già
la vostra pietanza preferita: le patatine fritte! Afferrate il telefono, ma il ragazzo che vi risponde
dall’altro capo del filo ridendo vi informa che non ha mai sentito parlare del servizio in camera:
“Intende dire che dovremmo cucinarle il pasto e portarglielo in camera?”, “Esattamente.” “Non lo
facciamo, può ordinare qualcosa fuori.”
E vi dà il numero di una pizzeria d’asporto.
Decidete di scendere per risolvere la cosa e prendere almeno un caffè Starbucks. Ma al
pian terreno non servono caffè.
Altrove nel mondo, gli avventori del bar sorseggiano piña coladas sotto gli ombrelloni.
Non c’è da stupirsi se le persone desiderano sentirsi
comode in viaggio come a casa. L’intuizione di Hilton? Se il
viaggio è molto stressante, i comfort a disposizione devono
superare quelli di casa. Tutte le innovazioni di Hilton offrono
comodità e comfort pensati per alleviare la fatica del viaggio.
Nell’era che precede l’invenzione dell’aria
condizionata, nel 1925, il primo hotel a portare il marchio
Hilton pubblicizza con orgoglio una caratteristica: non ci
sono camere esposte a ovest. In questo modo le stanze
degli ospiti non si riscaldano eccessivamente sotto il sole del
Texas.
Nel 1930, al Waldorf Astoria di New York nasce il
concetto di servizio in camera.
Nel 1947, il Roosevelt Hilton di New York è il primo hotel al mondo ad avere la
televisione nelle sue camere.
Nel 1954, al Caribe Hilton di Portorico viene inventata la piña colada.
Nel 1955, in tutte le camere dotate di termostato Hilton fa installare l’aria condizionata.
Hilton inventa il concetto di hotel dell’aeroporto nel 1959, con l’apertura del San
Francisco Airport Hilton. Morite dalla voglia di soggiornare in un hotel dell’aeroporto?
Probabilmente no. Riuscite a intuirne l’utilità quando siete a corto di tempo? Certamente.
All’apertura del London Hilton nel 1963, su Park Lane, le camere avevano due
telecomandi: uno per la televisione e uno per la radio.
Qualche anno dopo, Hilton introdusse il minibar (generando nei viaggiatori il senso di
colpa del “Non posso credere di essermi mangiato tutta la confezione di anacardi all’una del
mattino”).
Se vi è capitato di acquistare un caffè Starbucks o un rasoio in un hotel, dovete
ringraziare Hilton. Forse ispirato dal valore aggiunto di avere una drogheria nelle vicinanze della
pensione di famiglia, Hilton fu il primo a portare i negozi dall’esterno all’interno del suo hotel.
Conrad, nel 1947, ebbe l’idea di una linea di prenotazione diretta per gli ospiti di
qualsiasi hotel Hilton.
Se vi è capitato di fare una prenotazione attraverso un database computerizzato potete,
ancora una volta, ringraziare Hilton che lo introdusse nel 1973.
L’impulso iniziale di Hilton era quello di concentrarsi sui viaggiatori d’affari in sosta per
motivi di lavoro. Conrad si prendeva cura dei suoi indaffarati clienti ristorandoli con aria
condizionata, minibar, TV e servizio in camera. Se siete capaci di trattare con un venditore che
non ha tempo da perdere - stressato dalla chiusura di un affare, che si è fermato in un paesino
del New Mexico semplicemente perché stanco morto - e a farlo sentire a proprio agio in pieno
agosto, allora potete far sentire a casa chiunque.
Viaggiatori d’affari: ristorare gli ospiti esausti “Immagino che Conrad abbia inventato l’esperienza dell’hotel d’affari”, direbbe il cinico.
“C’è bisogno di commemorare la cosa? Hilton scelse la categoria più viziata di viaggiatori, e gli
offrì qualcosa in più: una camera generica, identica in tutte le città, con servizio in camera e
caffè al piano terra, nella hall. Lo scopo? Evitargli la necessità di vedere il luogo in cui si erano
recati!” Hilton stava forse semplicemente assecondando gli aspetti peggiori legati alla paura
delle novità?
Quello del turismo d’affari è un fenomeno da celebrare o da biasimare? Gli scrittori di
viaggio hanno criticato a lungo questa categoria di viaggiatori e la loro disponibilità a pagare un
sacco di soldi pur di restare nella bolla della business-class. Un giornalista di Vogue, nel 1965,
descriveva con tono di sufficienza un ospite che faceva colazione in un hotel Hilton in Turchia:
Una mattina, a Istanbul, stavo facendo colazione in una stanza dalle pareti in vetro
davanti al Bosforo. Al tavolo accanto al mio sedeva un uomo d’affari americano… Attraverso i
suoi occhiali osservava la sua colazione rigorosamente americana: spremuta d’arancia, pancake
e sciroppo d’acero, e una grossa tazza di caffè caldo… In quel preciso momento, qualche
chilometro più un là nella Moschea Blu, alcune persone venivano chiamate al cielo. La cosa
avrebbe potuto inorridire anche lui. Ma secondo voi se ne accorse? No. Si sentiva al sicuro nella
sua oasi.
Decenni dopo Annabel Jane Wharton, docente alla Duke University, faceva eco a
questo sentimento scrivendo che in gioventù aveva “disprezzato gli Hilton in quanto luoghi di
inautenticità istituzionalizzata. Per me rappresentano una fuga dall’esperienza del diverso che
appartiene al mondo reale”.
Un uomo d’affari seduto poco distante, mangia il suo pancake ignorando gli usi locali.
Al sicuro nella sua oasi.
Una fuga dall’esperienza del diverso che caratterizza il mondo reale.
Inautenticità istituzionalizzata.
Sono critiche piuttosto forti ma legittime. Fuggire dall’esperienza del diverso che
appartiene al mondo reale apparentemente contraddice il motivo stesso per cui le persone
viaggiano. Lasciamo casa per espandere i nostri orizzonti, per sperimentare qualcosa di diverso
da ciò che la vita quotidiana ci offre.
Il punto di visto critico dipinge una semplice istantanea e dimentica il contesto più ampio:
il caffè e il pancake del viaggiatore d’affari rappresentano soltanto l’inizio della sua giornata.
Forse la colazione è l’unico momento familiare di una giornata di nove ore di lavoro, di cui la
metà passata ad aggirarsi in un’azienda (sconosciuta) e l’altra metà di intense trattative. In
questo momento forse sta solo cercando di ricordare come pronunciare strani nomi e attenersi
alle prescrizioni locali (porgere il biglietto da visita con entrambe le mani, o non mostrare il retro
delle scarpe!). Più tardi forse lo aspettano uscite al bar e pranzi con gli autoctoni, e canti e balli
al karaoke.
Considerate questi due viaggiatori:
Viaggiatore A: una persona che mangia con le persone del posto a colazione prima di
trascorrere una giornata da flâneur, girando per la città, ammirando opere d’arte e sorseggiando
tè.
Viaggiatore B: un professionista che mangia pancake prima di avventurarsi in un nuovo
ufficio di un paese straniero per siglare un contratto con persone del posto.
Non si tratta semplicemente di modi diversi di relazionarsi con una nuova cultura?
Non soltanto viaggiare per lavoro è una ragione valida tanto quanto altre, è anche molto
stressante. Se vi è mai capitato di innervosirvi con il vostro compagno, il vostro cane, il router
Wi-Fi, o con un bambino dopo una giornata di lavoro febbrile, allora avete sperimentato quello
che si chiama “esaurimento”, una delle aree calde della ricerca psicologica degli ultimi decenni.
Attraverso una serie di manipolazioni sperimentali, gli studi hanno individuato un risultato
rilevante: la nostra energia mentale, che diminuisce con l’autocontrollo, non è una risorsa
illimitata. Tuttavia può essere recuperata. Se ci viene chiesto di esercitare l’autocontrollo per
troppo tempo, ci sentiamo pressati e mantenere la determinazione risulta difficile, anche se ci
dedichiamo a un compito diverso.
Il nostro bacino di risorse disponibili può esaurirsi per i motivi più disparati. Se il nostro
responsabile ci manda continuamente e-mail con richieste urgenti e stressanti, ignorando la
nostra richiesta ripetuta di concentrarci su altri obiettivi, le nostre energie diminuiscono e ogni
compito diventa più complicato. Dopo una giornata complicata, passata a tenere a freno la
delusione per una scadenza non rispettata o i commenti sarcastici riguardo la strategia
proposta, è più difficile essere gentili con i nostri familiari quando torniamo a casa.
Le cose diventano stressanti quando non possiamo esprimere la nostra opinione e
dobbiamo andare avanti. Le pressioni esterne hanno il loro peso, e non c’è esperimento
migliore, per valutare gli effetti dell’esaurimento, dell’osservare le persone mentre lavorano su
turni lunghi. Uno studio ha monitorato le abitudini correlate all’igiene della mani di 4.157
infermieri di vari ospedali, attraverso tecnologie di identificazione a radiofrequenza in azione sui
loro badge. Teoricamente, i lavoranti dovrebbero lavarsi le mani entro un minuto e mezzo dal
termine di ogni visita ai pazienti. Data la sproporzione tra costi (lavarsi le mani non richiede
molto tempo) e benefici (ogni anno 1 milione di decessi in tutto il mondo correlati alle cure
sanitarie potrebbero essere evitati con un’adeguata igiene delle mani), sembrerebbe una cosa
ovvia.
Ma col procedere del turno di lavoro, le persone sembrano perdere la propensione a
lavarsi le mani. Alla fine di un turno di lavoro di 12 ore l’attitudine a lavarsi le mani diminuisce
dell’8,7%, e se la giornata è più impegnativa o il turno di lavoro più lungo, questa attitudine
diminuisce ulteriormente. La stanchezza spinge le persone a cercare scorciatoie, anche quando
si tratta di un’azione semplice che potrebbe salvare delle vite.
Il lavoro diventa stancante perché esercita una pressione costante sul nostro
comportamento e non appena scatta l’allarme, entra in scena l’autocontrollo. Richiede di gestire
i nostri atteggiamenti più spigolosi, negativi e apatici con uno sforzo ancora maggiore:
l’autocontrollo, definito in una meta-analisi come “la capacità di alterare o ignorare gli impulsi
dominanti e di calibrare comportamenti, pensieri ed emozioni”. L’ambiente di lavoro richiede
questo sforzo contemporaneamente su vari fronti. Dobbiamo fare del nostro meglio a livello
sociale (assicurarci che Mohammed sia d’accordo prima di dirlo a tutti), emozionale (sorridi al
cliente!), e cognitivo (siamo sicuri che le condizioni del carried interest siano vantaggiose?). Il
lavoro richiede costantemente una tale dose di tempo ed energie da stancarci così tanto che
qualcuno dovrebbe pagarci anche solo per la presenza.
La Teoria del Ristoro Non c’è bisogno di ribadire ulteriormente che lavorare stanca. Ma che mi dite del
contrario dell’esaurimento? Che cos’è il ristoro e cosa significa ricaricarsi? Vediamo un altro
esempio che apparentemente descrive un altro caso di esaurimento mentale, ma che in realtà
racconta qualcosa di totalmente diverso. Dei ricercatori israeliani hanno cercato di comprendere
in quali casi le commissioni disciplinari - giudici e operatori sociali - concedessero la libertà
vigilata ai prigionieri.
Quella dei prigionieri che richiedono la libertà vigilata non è una categoria qualsiasi di
efferati criminali. Per ottenere un’ordinanza di libertà vigilata bisogna provare o l’errore
giudiziario o il reale pentimento dell’assistito. Seguono poi anni, o anche decenni, di duro lavoro
e buona condotta.
I ricercatori hanno esaminato le decisioni della commissione nel corso della giornata.
Giornata suddivisa in tre parti da una pausa di mezza mattina e da una pausa pranzo.
All’inizio della giornata la commissione aveva concesso la libertà vigilata in oltre la metà
dei casi mentre, col passare del tempo, le possibilità per un prigioniero di ottenere la libertà
vigilata diminuivano costantemente.
In altre parole, passare da un caso all’altro aumentava la sensazione di fatica o di
esaurimento mentale che rendeva le decisioni successive ancora più complicate. I dati
mostrano chiaramente una parabola discendente: nel corso del proprio turno di lavoro, la
commissione diventava sempre meno propensa a concedere la libertà vigilata. Il problema
dell’utilizzare tutta quell’energia mentale è che la sensazione di fatica rende tutto più difficile. In
realtà, respingendo le richieste di libertà vigilata la commissione non fa altro che aumentare la
propria mole di lavoro, perché probabilmente lo stesso fascicolo gli si riproporrà l’anno venturo.
Eppure al momento sembra l’unica via d’uscita. Concedere una libertà vigilata, piuttosto che
respingerla, espone a maggiori critiche.
Il messaggio sconfortante di questo studio è che anche in condizioni lavorative normali,
anche in situazioni ad alto rischio, anche con operatori esperti, l’esaurimento mentale ha un
impatto importante.
La seconda osservazione è che, se siamo consapevoli del problema, con i giusti
strumenti possiamo combattere l’esaurimento mentale. Nello studio sulla libertà vigilata, i giudici
riprendevano tono dopo una pausa a base di caffè e frutta.
I ricercatori hanno dedicato anni a discutere sulle ragioni teoriche dell’esaurimento. Ma
ciò che le persone fanno per ristorarsi, in pratica, ha una caratteristica: ci rilassiamo e
ricarichiamo attraverso ricompense di nostro gradimento. La risposta più comune alla domanda
“come si preparano le persone a tornare al lavoro?”, è semplice: con la caffeina e simili (il fatto
che l’acqua frizzante e il caffè siano due dei prodotti più venduti non è una coincidenza). Su altri
rimedi, c’è poco consenso. Alcuni giurano che basti un po’ di riposo, ma per altri, un pisolino a
metà giornata fa sentire ancora più intontiti. La scarica di endorfine dell’esercizio fisico
rinvigorisce alcuni, ma spedisce molti altri a letto.
Indipendentemente da quale sia il vostro rimedio preferito, la ricerca ha provato che è
possibile contrastare gli effetti della fatica attraverso piccole pause, comfort, e altre iniezioni di
felicità che ci rimettano in carreggiata. Questo ci riporta allo studio fatto in Israele. La
commissione per la libertà vigilata non operava in un’unica lunga sessione, ma su tre fasce
orarie suddivise da una pausa mattutina (in Israele a base di sandwich e frutta) e una per il
pranzo. Quando tornava a deliberare, ritornati dalle pause, accadeva qualcosa di magico alla
qualità del suo lavoro: tornava alla normalità. Staccare la spina per meno di un’ora era
sufficiente a ricaricarsi completamente e a contrastare gli effetti dell’esaurimento. Anche se la
sensazione di fatica ed esaurimento aumentavano nel corso della giornata, le pause avevano
un effetto ristoratore. A tal punto, infatti, che i primi casi esaminati subito dopo la pausa di
mezza mattina o il pranzo apparivano alla commissione esattamente come i casi iniziali.
Consideriamo adesso qualcosa di egualmente sorprendente: il viaggio è snervante. Per
tutti. Per tuffarci in un mondo di esperienze sconosciute, dobbiamo abbandonare il nostro
rassicurante rifugio di abitudini e certezze. E navigare in questo territorio inesplorato richiede
uno sforzo mentale ulteriore. Innanzitutto, dobbiamo concentrarci per risolvere problemi basilari.
Dove trovo il cibo? Da che lato della strada guardo per attraversare? Che ore sono? Il viaggio ci
pone in uno stato di disorientamento cronico, tipo quello della mattina dopo una festa con open
bar. Oltre a sentirsi perennemente assonnati o straniti, ogni singolo acquisto richiede la
conversione di valuta, a cui segue perennemente la sensazione di essere stati truffati.
Durante la vacanza, sopportiamo la strana sensazione di dover continuamente fare
calcoli e il persistente cerchio alla testa perché al viaggio ci teniamo davvero: “Finalmente
siamo in America! A vedere ciò che immaginavamo da anni!” E la motivazione si sa, aiuta a
prevenire l’affaticamento mentale.
Una delle cose più piacevoli dei viaggi di piacere è la possibilità di organizzarsi le
giornate come meglio si vuole. Stare vigili e freschi è più facile se siamo noi a decidere cosa
fare, perché abbiamo la possibilità di fermarci e ricompensarci per il lavoro svolto con ciò che ci
fa stare meglio, prevenendo l’esaurimento delle nostre risorse mentali. La fila per vedere La
Gioconda era lunga? Possiamo fermarci a comprare dei souvenir! La Muraglia Cinese non ci ha
detto poi tanto? Vada per i ravioli! Affrontare i trasporti pubblici del Sudamerica ci infastidisce?
Nessun problema: facciamo una passeggiata al parco.
Ma viaggiare per lavoro significa davvero aggiungere lavoro al lavoro. Quando si viaggia
per lavoro è necessario ricaricarsi il più rapidamente possibile. Bisogna restare lucidi per
l’incontro che è la vera ragione del nostro soggiorno all’estero.
Per questo: mangiamo cibo familiare a colazione. Dormiamo in letti morbidissimi.
Mettiamo l’aria condizionata al massimo. Indossiamo abiti stirati in modo impeccabile. Quando
sappiamo che la giornata che ci aspetta sarà molto impegnativa, e che nonostante questo
dovremo essere sempre al top, ci ricompensiamo in anticipo con ciò che ci fa stare bene. In
questo modo avremo la carica necessaria per resistere quando le cose si faranno difficili.
Decidendo di concentrarsi sulla clientela professionale, Conrad Hilton ha fatto centro
perché nessun albergatore l’aveva ancora fatto. A differenza dei viaggiatori europei di fascia
alta, che non avevano alcuna fretta di tornare al lavoro e lo sfoggiavano con orgoglio, i clienti di
Hilton non avevano tempo da perdere. Concentrandosi sull’esperienza di questa categoria di
viaggiatori, Hilton elaborò soluzioni innovative che consentissero ai suoi ospiti di ricaricarsi
rapidamente. E siccome viaggiare per lavoro significa aggiungere lavoro al lavoro, per ristorare
gli uomini d’affari in viaggio bisognava offrire loro comfort, svaghi e occasioni di divertimento al
di là di ogni aspettativa. Ed è esattamente questo il pezzo del puzzle mancante che consentì al
primo marchio di hotel di prendere il volo.
Lady Hilton Le ricompense motivano chi le riceve. Per questo con un pezzetto di cioccolato
riusciamo a spaccarci la testa su un problema di matematica per dieci minuti e più. Un buon
pranzo con il nostro collega preferito può fornirci l’energia necessaria per completare la
relazione che avevamo lasciato a metà. Ma una presentazione davanti a un pubblico abituato,
per ragioni culturali, a non sorridere troppo, potrebbe richiedere anche mezza bottiglia di vino
sorseggiata su un letto di piume.
Agli Hilton soggiornano sia viaggiatori d’affari che di piacere in cerca di rapido ristoro.
Ma mentre i vacanzieri possono utilizzare le loro risorse per andare al museo, intrattenersi con
le persone del posto, e imparare i costumi locali, il viaggiatore d’affari deve pensare a preparare
il discorso e al voltaggio dell’adattatore del computer.
Viaggiare significa sentirsi stranieri in situazioni straniere,
ma le stesse situazioni, ad alcuni viaggiatori, possono sembrare
ancora più stranianti. Per decenni, rivolgendosi ai viaggiatori
d’affari, Hilton si è confrontato con una categoria composta quasi
esclusivamente da uomini. Nei primi anni ‘20 del ‘900 al Mobley, il
primo hotel di Conrad Hilton, gli ospiti maschili superavano gli
ospiti femminili in una proporzione di quattro a uno.
Nel 1950, lo Stevens Hotel di Chicago iniziò a corteggiare
il pubblico femminile collocando in ciascuna delle sue 3.000
stanze una cartellina con la scritta “Per sole donne”, contenente
buste e carta da lettere, un set di cucito, e un opuscolo
informativo con servizi utili per il viaggio, incluso un servizio di
baby-sitting e di sartoria disponibili in hotel.
Dopo una fase preliminare di osservazione del pubblico femminile del Palmer Hotel di
Chicago, per capire quali fossero i servizi più apprezzati dalle donne in viaggio, nel 1965 fu
ufficialmente introdotto il programma Lady Hilton. Il programma mirava a supportare le prime
donne che si avventuravano da sole in viaggi di lavoro, facendole sentire a proprio agio. Per
non parlare del mondo dominato da uomini che si sarebbero trovate ad affrontare.
I cambiamenti necessari erano relativamente semplici. In alcuni hotel, il programma
Lady Hilton prevedeva stanze con servizi aggiuntivi quali asciugacapelli, speciali appendini per
vestiti, e specchiere. Si trattava di un pubblico ristretto. Si stima che a quell’epoca le donne in
viaggio per lavoro costituissero l’1% di tutti i viaggiatori d’affari.
Carol Brock, un dipendente della famiglia
Hilton che si occupò del programma Lady Hilton
presso lo Statler Hilton di Boston nel 1969,
afferma che molte delle donne che utilizzavano
questi comfort non li avevano mai visti prima. Data
la sproporzionata presenza di uomini negli hotel
all’epoca del maschilismo, la vera questione era il
bisogno di sentirsi in un ambiente sicuro, e non la
presenza di un asciugacapelli. Alcuni dei prodotti
Lady Hilton che oggi potrebbero apparire sessisti,
come i set di trucchi o i profumi, sono stati in realtà
strumenti di marketing che non devono porre in
secondo piano il vero core concept di Lady Hilton:
una Lady Hilton in carne e ossa, un’assistente
personale in hotel.
“La cosa più importante che Lady Hilton
offriva alle viaggiatrici era un’assistente che si
prendeva cura di loro”, dice Brock. Con il
programma vennero messe in atto misure
aggiuntive per garantire la sicurezza delle ospiti.
Al check-in, i dipendenti stavano attenti a non
pronunciare il numero di camera ad alta voce. Alcuni hotel predisposero dei piani riservati alle
ospiti Lady Hilton, e incaricarono il personale addetto agli ascensori di accertarsi che nessuno le
seguisse.
I viaggiatori sono stranieri in terra straniera, e le normali camere d’hotel forniscono
comfort universali che li aiutano a riprendere le forze. Ma negli anni ‘50, le viaggiatrici d’affari
erano al margine di questa categoria di outsider. Facendole sentire meno isolate e offrendo loro
assistenza personale, queste donne si sentivano al sicuro: un’ulteriore fonte di ristoro. Gli hotel
che offrono servizi per categorie specifiche di viaggiatori con esigenze particolari, sono come
quei ristoranti che inseriscono nel menù un piatto per i clienti con regimi dietetici particolari.
Siccome anche i carnivori a volte desiderano un pranzo leggero, un gustoso risotto vegetariano
può far felice chiunque, anche chi fino a quel momento non avrebbe mai pensato di
assiaggiarne uno.
Hamptonality: Quando un Waffle è più di un Semplice Waffle Phil Cordell è uno dei pionieri del settore alberghiero: era il Direttore generale del
secondo Hampton Inn, quando aprì nel 1984. Quel marchio, oggi l’Hampton by Hilton, rispetto
ad altri hotel si caratterizza per un numero inferiore di addetti, per esempio il facchino non è
sempre disponibile a portare i bagagli.
Ma non mancano altri servizi chiave. La colazione compresa nel prezzo dopo 30 anni è
ancora un servizio molto apprezzato: oltre il 90% degli ospiti di Hampton by Hilton ne
usufruisce. A causa della popolarità di questa offerta, Hampton by Hilton ha dato il via a una
vera e propria lotta tra le catene di hotel.
“Tutto è iniziato da semplici ciambelle glassate, succo d’arancia e caffè”, racconta
Cordell. Ma negli anni la colazione si è evoluta offrendo pasti caldi completi, e rimanendo
gratuita nonostante le difficoltà di offrire un pasto a prezzi così bassi. Con l’intensificarsi della
competizione e sempre meno elementi di distinzione tra Hampton e i suoi rivali, qualche anno fa
Cordell e il suo team decisero di fare qualcosa per riaffermare la supremazia di Hampton.
Ma i clienti non sempre sanno cosa sia a renderli felici. “Se andaste da loro a chiedergli
‘Ditemi cinque cose che vi farebbero stare meglio’, scoprirete che non è facile per loro trovare
una risposta”, afferma Phil Cordell, attuale Global Head per il New Brand Development di Hilton.
La Direzione di Hampton ha incaricato un gruppo di persone, composto da importanti
opinion leader, chef del settore e non, di individuare “possibili alternative originali” che facessero
letteralmente impazzire i clienti. “Abbiamo pensato alle cose più impossibili, a cose che i clienti
non si sarebbero mai aspettati.” Una delle idee emerse, che sono state testate, era la colazione
in forma di spiedo: involtini di salsiccia con uova strapazzate in pastella di pancake.
Un’altra proposta testata era quella di un waffle già pronto, inizialmente vuoto e non
molto invitante. Ma accompagnato da gustose salse d’accompagnamento (fragole, panna
montata, sciroppi aromatizzati), il waffle diventava decisamente più interessante.
Cordell racconta: “Ci siamo detti ‘okay non è male, ma cosa possiamo fare di più?’”.
Qualcuno avanzò la proposta di cucinare waffle sul momento. Subito il gruppo apparve
interessato ma preoccupato.
Un waffle fatto al momento è un cibo altamente sensoriale. I quadratini vuoti fungono da
recipiente per lo sciroppo d’acero e il burro, per una gran quantità di frutta e panna montata. Il
waffle è un modo intelligente di servire il cibo, un gioco di prestigio che trasforma un gustoso
dessert di fine pasto in un antipasto per la colazione.
E per qualche misteriosa ragione, è impossibile ottenere lo stesso waffle a casa, dove la
maggior parte delle piastre per waffle giacciono in qualche armadio piene di polvere. Quando
Alice nel Paese delle Meraviglie, di Lewis Carroll, diceva “Certe volte ho creduto fino a sei cose
impossibili prima di colazione”, una di quelle doveva essere riuscire a fare un waffle: preparare
la pastella, preriscaldare la piastra, e mettere insieme una quantità appropriata di salse. La
mattina, prima che il caffè abbia fatto effetto, questi semplici passaggi possono richiedere uno
sforzo titanico.
Ma se agli ospiti diamo una piastra, la pastella già pronta e delle salse, allora questo
sforzo potrebbe trasformarsi in qualcosa di entusiasmante.
La genialità dell’idea dei waffle non apparve subito chiara a tutti, in azienda. Cordell
ricorda: “All’inizio della discussione, se fossimo stati onesti, avremmo sollevato molti dubbi”.
Se sei nel mezzo di un brainstorming in ufficio, una piastra per waffle di metallo rovente
ti appare come un coacervo di pericoli imminenti. Secondo Cordell il gruppo avrebbe potuto
trovare mille motivi per contestare l’idea: “Si creeranno file troppo lunghe, sarà un casino, le
persone non sapranno come fare, si scotteranno!”.
Per tener testa ai signor no, il gruppo avviò un progetto pilota posizionando, durante la
colazione, piastre per waffle sul tavolo da buffet di vari Hampton.
A quanto pare, pochi giorni a osservare gli ospiti che si godono la colazione possono
rivelare molto più di anni passati a fare brainstorming in ufficio. Il team si rese conto che per
migliorare l’esperienza degli ospiti bisognava inventare un dispenser che fornisse una quantità
di pastella sufficiente a cucinare un waffle per volta. Se il procedimento non è poi così
complicato (anche prima che il caffè del mattino abbia fatto effetto), si tratta pur sempre di una
novità capace di innescare conversazioni tra gli ospiti. In soli tre minuti e mezzo un dilettante è
in grado di preparare un waffle perfetto, generando domande sulla tecnica di preparazione e le
salse.
Il team non aveva considerato che quel piccolo frammento di interazione avrebbe
migliorato l’esperienza. “Ingenuamente”, afferma Cordell, “non avevamo nemmeno pensato [alla
componente relazionale] fino a quando non abbiamo visto gli ospiti interagire l’uno con l’altro”.
Ma la preparazione del waffle consentiva a ogni ospite di condividere la propria esperienza
culinaria con il successivo, facendogli provare per un istante cosa si prova a essere Julia Childs
o Gordon Ramsey.
“Abbiamo fatto questa prova in diversi hotel e fu semplicemente un successo”, afferma.
L’Hampton di Times Square, a New York, dispone di meno di 300 camere e in un weekend
serve da mangiare a 1.200-1.500 persone.
Durante la sua ultima visita alla location, Cordell si rese conto che ciò che aveva
progettato 30 anni prima funzionava ancora bene. Era perfetta? No, perché ci viene molta
gente. A volte c’è un po’ di fila? Sì. Si crea un po’ di confusione? Sì. Le persone si sono scottate
con la piastra? No. Si rompono spesso? No.
Cordell tira le somme: “Non è successo nulla di negativo, e gli effetti positivi sono stati
ben superiori alle nostre aspettative”. Se avessimo continuato a discutere in ufficio per eliminare
le imperfezioni della nostra idea, la Direzione non avrebbe avuto modo di osservare quanto i lati
positivi superassero quelli negativi. E non avrebbe mai notato uno dei maggiori punti di forza di
questa soluzione, e cioè il fatto di offrire agli ospiti un momento di convivialità durante la
colazione. I comfort sono indispensabili per un viaggiatore d’affari che si avventura verso
destinazioni esotiche, ma sono apprezzati anche dai viaggiatori di piacere che fanno colazione
prima di percorrere 200 chilometri di strada. Per dare al viaggio la possibilità di cambiarci la vita,
dobbiamo prima sentirci ristorati e pronti ad affrontarlo. Certe volte, tutto quello che ci serve è
un momento di convivialità... accompagnato da un waffle.
Allargare gli Orizzonti Con tutti questi comfort a ristorare rapidamente anche il più affaticato tra noi, per i
viaggiatori di piacere è ancora più facile godersi tutti i vantaggi del viaggio, espandendo i propri
orizzonti e arricchendosi di nuove prospettive su sé stessi e il mondo che li circonda.
La psicologa Barbara Fredrickson della Duke University, ha dimostrato che le emozioni
positive aiutano le persone ad ampliare e a costruire il proprio punto di vista sul mondo. Quando
questo accade, un viaggio può davvero influenzarci profondamente e può accadere che ci
sentiamo riconoscenti per un buon pasto o emozionati davanti a un’opera d’arte. Queste potenti
emozioni stimolano la creatività, le relazioni con gli altri, e ci fanno vedere il mondo come
qualcosa di prezioso.
Prima di poter essere felici abbiamo bisogno di sentirci sicuri, mentre un umore positivo
favorisce il pensiero creativo, la valutazione di più punti di vista, e genera un numero maggiore
di soluzioni possibili e valide. Quando non siamo di fretta o affamati di energia, ci sentiamo
sicuri e a nostro agio nel presente. Una volta soddisfatti i bisogni basilari, siamo in grado di
esplorare e conoscere nuovi aspetti dell’ambiente, cosa che può renderci più creativi se ci
consente di confrontare il nostro modo di vedere il mondo con nuove prospettive, che ci
vengono offerte da altre persone o da culture diverse. Anche (o soprattutto) gli adulti traggono
vantaggio dallo stupore e dal gioco perché facilita l’interazione positiva con gli altri, ampliando i
nostri orizzonti grazie all’acquisizione di nuove competenze e relazioni sociali.
Il Waldorf Astoria, Amsterdam
“Si muove nella camera come se fosse sulle ruote”, scriveva Condé Nast Traveller,
descrivendo la naturalezza con la quale il 69enne Direttore generale dell’Hilton di Amsterdam,
Roberto Payer, si muoveva durante il cocktail party. “Payer è una leggenda ad Amsterdam.”
Durante una cena, anni fa, un amico di Payer raccontò che sua figlia aveva da poco
acquistato una fila di palazzi del XVII secolo lungo l’Herengracht. La serie di edifici, allineati
lungo il canale, nel XVIII secolo aveva ospitato una banca e abitazioni di lusso.
A Payer venne un’idea di cosa fare con quei palazzi: “Dovremmo farci un Waldorf
Astoria”. Dopo aver acquistato i diritti di gestione del Waldorf Astoria di New York, il leggendario
hotel, nel 1949, Hilton lo acquistò per intero nel 1972. Nel 2009 il Waldorf Astoria divenne il
marchio Hilton per gli hotel di lusso.
Ed ecco la vera sfida: come costruire un hotel di lusso in Europa che sappia offrire
un’esperienza unica a ciascun ospite, consentendo anche a coloro che hanno, o hanno visto,
già tutto di raccogliere i benefici di un viaggio che ci dona felicità?
Roberto Payer, una leggenda ad Amsterdam e membro del gruppo Hilton da 50 anni,
era l’unica persona adatta a realizzare questo compito:
“Avevamo l’idea. Ed era quella che non avremmo dovuto copiare nessuno, ma
presentare l’hotel in modo diverso”.
Per prima cosa, chiaramente, la storia: “È un luogo unico… un palazzo del XVII secolo”.
I sei palazzi che compongono il Waldorf Astoria una volta ospitavano la sede olandese della
banca MeesPierson, che fu fondata nel 1720. Nei cento anni seguenti, diventarono residenza di
alcune delle famiglie più ricche della storia olandese, con nomi quali Geelvinck e Huygens. Nel
2011 furono inseriti nella Lista dei Patrimoni dell’Umanità dell’UNESCO. Persino lo scalone
centrale ha una storia che non si può comprare: fu costruita da Daniel Marot, l’architetto di Luigi
XIV.
In secondo luogo, le persone: “Qual è la cosa più importante, il primo impatto, quando si
arriva in un posto? Le persone e il loro aspetto”, afferma Payer. In qualità di animali sociali, le
altre persone catturano la nostra attenzione come delle calamite. Jan Taminiau è uno stilista
olandese che ha lanciato la sua linea di vestiti, JANTAMINIAU, nel 2003. Dieci anni più tardi la
regina dei Paesi Bassi, Maxima, indossava una delle sue creazioni all’a cerimonia di
insediamento di suo marito (all’estero, i suoi capi d’abbigliamento sono stati indossati da
Beyoncé e Lady Gaga). Taminiau ha disegnato le divise dei membri dello staff del Waldorf
Astoria. Il personale femminile alla reception, indossa abiti di seta fantasia in tonalità beige e
marrone. Uno sguardo attento riesce a intravedere che quella fantasia rappresenta una mappa.
E solo chiedendo allo staff, o se avete una passione per la cartografia olandese del XVII secolo,
potrete capirne il senso profondo: la stampa si ispira a una mappa della zona disegnata nel XVII
secolo dal cartografo olandese Balthasar Florisz van Berckenrode.
Negli hotel di lusso, l’esperienza sensoriale è curata fin nei minimi dettagli. Per questo
non sorprende che l’hotel sia costellato di candele profumate che diffondono una fragranza
delicata e raffinata. La loro profumazione fu creata appositamente per il Waldorf Astoria, e
assicura ai suoi ospiti un piacere che non troveranno altrove.
Dopo aver preso possesso della stanza, un membro dello staff presenta all’ospite
quattro diverse profumazioni tra cui scegliere: “Finirà nel loro letto”, dice Payer riferendosi
all’abitudine di vaporizzare le lenzuola degli ospiti. Quel profumo contribuisce a personalizzare
ulteriormente la stanza. In seguito, all’ospite verrà consegnato uno speciale medaglione
contenente la fragranza dell’hotel da portare a casa per ravvivare il ricordo del soggiorno:
“[Gli ospiti mettono il loro medaglione] in valigia. E quando a casa aprono la valigia, ecco
il punto, sono di nuovo al Waldorf Astoria”. Le candele e le esclusive profumazioni sono state
create da Cire Trudon, compagnia francese che produce candele sin dall’epoca dello scalone di
Marot, il XVII secolo.
Al primo piano, nella hall principale dell’hotel situata nell’edificio che ospitava la
MeesPierson, gli ospiti possono ordinare cocktail ispirati a diverse culture. Un cocktail ispirato
alla cultura indiana per esempio, unisce la vodka aromatizzata al Chaat masala con coriandolo,
verjus, ananas al curry, zenzero e birra IPA. Questo drink, il Rupee, porta il nome della moneta
indiana. Al posto del menù, gli ospiti ricevono un portafoglio pieno di banconote colorate, una
per ogni paese.
Le bottiglie dei liquori sono posizionate sopra una fila di cassette di sicurezza ben
collocate; sì il tema del denaro prosegue. I nomi dei cocktail, il menù, le cassette di sicurezza
sono un modo per scherzare sul ricco
passato del Vault Bar, situato dove una
volta sorgeva il caveau della banca
MeesPierson.
Viaggiare può renderci felici
perché ci permette di vivere nuove
esperienze positive. Ma Payer doveva
riuscire a convincere persone che
potevano permettersi di andare
ovunque. Persone che avevano già
tutto, avevano già visto tutto, o che
forse erano semplicemente già stanche
di tutto. “L’idea era che non avremmo
dovuto copiare nessuno.” Competere con gli hotel di Parigi e Londra di pari livello costruendo
un hotel di lusso tradizionale in Europa, semplicemente non avrebbe funzionato. Perciò se le
divise, le invitanti fragranze e i menù del bar sono innovativi e ben fatti, dietro ogni dettaglio si
nascondono altri livelli di significato, capaci di incuriosire e affascinare ulteriormente. Alla
reception, giovani e splendidi volti indossano abiti ispirati a una mappa della città vecchia di
secoli, disegnati dallo stilista scelto anche da Beyoncé.
I piaceri dell’hotel sono frutto di una ricerca approfondita che intreccia le gioie dei sensi
con una tradizione vecchia di secoli, che si respira nella storia culturale di Amsterdam e dello
stesso hotel.
Di certo sarà un’esperienza nuova, fosse anche solo perché ciò che si trova qui non può
esistere altrove. Lo scalone restaurato in stile Luigi XIV si trova qui da secoli. I dolci a base di
miele che nel mese di giugno accompagnano il tè delle cinque utilizzano miele prodotto negli
alveari locali, situati sul tetto del Librije’s Zusje, il ristorante due stelle Michelin dell’hotel e uno
dei migliori della città.
Le innovazioni di Payer al Waldorf portano avanti l’idea iniziale di Conrad Hilton, quella
di rivolgersi alla clientela più difficile da accontentare: se riesci a fare felice un gruppo di turisti
annoiati, hai scoperto il segreto della felicità.
Il London Hilton on Park Lane
Da un po’ di tempo, Conrad Hilton voleva un hotel a Londra che potesse definire proprio.
Il 26 luglio del 1952, il New York Times scriveva che la Direzione del Grosvenor House,
un hotel di lusso nel quartiere di Mayfair a Londra, aveva rifiutato di vendere a Hilton le sue
500.000 azioni, a quanto si dice per non vedere un’istituzione della cultura inglese finire in mani
americane. Dopo poco più di un anno, il 5 ottobre 1953, il Times scriveva che Hilton aveva
annunciato piani per un ventilato hotel di 550 stanze con affaccio su Hyde Park, a meno di 800
metri dal Grosvenor.
Gli inglesi sembravano temere l’ostile scalata americana sugli alberghi inglesi. “Telefoni
e radio in ogni stanza, e televisione nelle suite, minacciano di disturbare la tranquillità che i
visitatori sono soliti trovare negli hotel londinesi”, scriveva il corrispondente estero del New York
Times, Thomas F. Brady, “Il boom dei turisti americani degli ultimi anni sta riversando capitali e
gestioni statunitensi nel settore alberghiero inglese, e la competizione con i dollari finirà per
costringere gli albergatori inglesi a emulare le innovazioni portate dagli invasori, che appaiono
come una barbarie in mezzo allo splendore delle travi di legno in stile edoardiano, ai lampadari
a bracci e a rispettosi servitori”.
Quando Hilton finalmente ottenne un pezzo di terra, era piccolo e costoso (1,25 acri), e
per ricavare qualcosa da questo investimento Hilton dovette farvi stare il numero più alto di
stanze possibile. Questo, ovviamente, implicò la costruzione di un edificio alto. Un edificio molto
alto. I piani iniziali di Hilton vennero rispettati passando per quello che potrebbe apparire come
uno sfogo rabbioso da parte dell’Inghilterra: inchieste pubbliche e un veto del London City
Council. I titoli dei giornali, come “Arriva il progetto dell’hotel grattacielo: simbolo dell’egemonia
del dollaro”, facevano ben poco per stemperare le tensioni. Nel 1959, quando il City Council
rovesciò la sua decisione, la risposta immediata di Hilton fu costruire, e costruire in fretta.
Trionfante nei suoi 100 metri di altezza, il London Hilton on Park Lane diventava così
l’edificio più alto della città, il primo a sovrastare la Cattedrale di St. Paul. A un certo punto, pare
che i domestici della Regina rivelassero a Sua Altezza Reale le loro preoccupazioni riguardo
alla possibilità che gli ospiti riuscissero a vedere nel giardino di Buckingham Palace.
Quando aprì, il 17 aprile del 1963, era anche il più grande hotel ad essere costruito in
Europa dopo la guerra con i suoi cinque bar, cinque ristoranti, e una hall che veniva descritta
ottimisticamente come “troppo piccola e troppo bassa”. Le camere erano piene di incivili comfort
americani: “Un impianto di aria condizionata regolabile a proprio piacere riscaldava o
raffreddava ogni stanza. Radio e televisione in ogni camera erano incassate nel comò in legno
di noce, e potevano essere azionate tramite un telecomando. Quattro canali in radiodiffusione
erano una novità all’epoca”, scrive il giornalista di viaggio Andreas Augustin. Un gruppo di
operatori telefonici rispondeva alle 88 linee dell’hotel, inoltrando le chiamate e annotando i
messaggi per gli ospiti assenti che venivano allertati al loro rientro da una luce rossa sul
telefono in camera.
Sulla scia della moda del momento, l’F&B Manager Lim Ewe Hin reinventò uno dei bar
chiamandolo Hilton's 007 Night Spot, ispirato al film Goldfinger del 1964, e lo arredò con arredi
scenici dello studio cinematografico. Il film per qualche tempo entrò realmente in relazione con
l’hotel: l’attore americano-giapponese Harold Sakata (Oddjob), il braccio destro del cattivo Auric
Goldfinger, passò qui le prime tre settimane di riprese. Oddjob indossava il costume di scena
con cappello a bombetta a falda in acciaio, e aveva il compito di dare il benvenuto agli ospiti agli
ascensori e scortarli fino al bar.
Il cocktail della casa? Martini shakerato, non mescolato, ovviamente.
Anche in questo contesto, era chiaro come l’hotel indossasse la sua inglesità a stento,
come una giacca presa in prestito più che come un abito confezionato su misura, incapace di
nascondere il suo stile all’americana: i piani dell’hotel, ad esempio, erano numerati in origine
secondo l’uso americano dove la hall è il Piano 1, e non il Pianoterra. A cena non veniva servito
il vino, come invece si usa fare in Europa.
Il suo cuore era americano, ma malleabile. L’obiettivo era creare un mix culturale, un
luogo dove gli ospiti di qualsiasi provenienza si sentissero i benvenuti.
Vale a dire, che al London Hilton on Park Lane: “Nel 1963 al ristorante internazionale un
trio di musicisti ungheresi intratteneva gli ospiti. La musica e le divise dei musicisti cambiavano
ogni paio di mesi a seconda del tema, delle decorazioni, del cibo e dei cocktail del ristorante. Se
il ristorante cambiava il suo stile da europeo a mediterraneo, da nordamericano a
centro/sudamericano, anche i musicisti si trasformavano da violinisti viennesi in frac a gondolieri
italiani, a chitarristi spagnoli, a mariachi messicani, a violinisti cowboy” scrive Augustin.
Tra gli ospiti illustri che nel corso degli anni hanno soggiornato in questo hotel citiamo:
gli artisti Sammy Davis Jr., Ray Charles, gli attori Peter Ustinov, Telly Savalas, Raquel Welch,
Michael Caine, John Cleese, il fondatore di Playboy Hugh Hefner, vincitori del Premio Nobel per
la Pace, e l’attore e Capo di Stato Ronald Reagan.
Subito dopo il rientro della Missione Apollo che portò il primo uomo sulla luna, l’Air Force
One del Presidente Richard Nixon atterrò a Londra con a bordo Neil Armstrong, Buzz Aldrin e
Michael Collins, che soggiornarono insieme alle loro mogli all’Hilton on Park Lane.
Se riesci a creare un luogo accogliente ed invitante per una clientela diversificata avrai
fatto centro perché avrai dato vita a una location in grado di distendere e al tempo stesso
ispirare gli ospiti.
La ricerca premia il pluralismo culturale. Durante uno studio, gli studenti di un college
americano vennero divisi in gruppi e gli vennero mostrati 45 minuti di prodotti culturali vari. A
ogni partecipante vennero mostrati quattro minuti di video musicali, quattro trailer, e 160
immagini che ripercorrevano tutta una gamma di produzioni artistiche, dall’architettura alla
decorazione, alla moda e al design. Gli vennero poi sottoposti dei test per mettere alla prova la
loro creatività: rivisitare la fiaba di Cenerentola immaginando un pubblico di bambini turchi nel
modo più originale e intenso possibile, o individuare analogie creative al concetto di tempo.
Al gruppo di base non venne mostrato nulla. Agli studenti fu semplicemente chiesto di
presentarsi in laboratorio per alcuni test di creatività. Gli altri vennero suddivisi in quattro gruppi.
A un gruppo di studenti vennero mostrati 45 minuti della più creativa produzione culturale
americana, a loro più affine. La creatività di questo gruppo risultò leggermente superiore a
quella del gruppo di base. A un altro gruppo vennero mostrati 45 minuti di prodotti culturali
cinesi. La loro creatività si attestò leggermente sopra a quella del gruppo di controllo, al pari di
quella del gruppo americano-americano.
Gli altri due gruppi, invece, mostrarono risultati migliori. In un gruppo, che chiameremo
“condizione buffet”, ai partecipanti venne mostrata una serie di prodotti culturali cinesi e
americani in alternanza: un abito cinese seguito da un abito americano, poi un’architettura
cinese seguita da una americana. Un altro gruppo, cui daremo il nome di “condizione di
mescolanza”, ai partecipanti vennero mostrati prodotti culturali rielaborati mescolando elementi
della cultura americana e di quella cinese, come ad esempio un hamburger di riso di
McDonald’s.
L’esperimento mostrò che l’affiancamento di culture aumentava la creatività. La giuria
stabilì che sia la condizione buffet che quella di mescolanza producevano livelli di creatività
superiori rispetto alle altre condizioni. La creatività trae spunto da elementi contrapposti perché
fornisce cambi di prospettiva, confini indeterminati e genera variazioni sui temi più familiari
Dai giorni della pensione di famiglia in New Mexico, Hilton aveva sempre cercato di
assicurare ai suoi ospiti parte dei comfort di casa. Ma nei centri nevralgici del commercio
internazionale, a cercare i comfort di casa c’era una pletora di culture e persone provenienti da
ogni paese, e per fare sentire tutti a casa nascevano esperienze interessanti. Molti degli hotel
internazionali di Hilton hanno dimostrato di aver messo in atto soluzioni estetiche creative e
servizi derivanti dalla giustapposizione tra culture.
All’Hilton Istanbul, la costruzione degli otto bar avvenne sotto la supervisione di manager
quasi totalmente stranieri. Il Roof Bar originariamente era un luogo d’incontro per l’élite di
Istanbul. Dopo la ristrutturazione sul finire degli anni ‘60, riaprì nel 1971 con il nome di Cloud 9
Disco e divenne la prima discoteca di Istanbul.
Il Karagöz Bar, un bar tradizionale turco, fu anch’esso eliminato durante la
ristrutturazione. A Londra giunse un architetto in pellegrinaggio culturale, e trascorse mesi a
osservare i bar inglesi per conto di Hilton. Il risultato fu il Pilsen Pub, una rievocazione del
tradizionale pub inglese costruito interamente in legno. Per la maggior parte venivano servite
bevande alcoliche e birra alla spina, a metà prezzo dalle 17:00 alle 19:00, guadagnandosi la
fama di primo locale “happy hour” di Istanbul.
Forse questa giustapposizione culturale e questo giocare sugli elementi culturali è un
insulto alla storia? La nozione di autenticità è semplicemente un punto di vista che non ha nulla
di oggettivo: le culture sono sempre in evoluzione e soggette a interpretazione. Giocando con i
confini culturali senza mancare loro di rispetto può favorire la nostra conoscenza di altri stili di
vita e renderci più creativi, farci apparire ciò che è estraneo come meno estraneo, mettere in
evidenza i nostri legami con esso, e far sentire tutti un po’ più a casa.
Sin dall’inizio, abbiamo definito Conrad Hilton come un “mago” nel far sentire gli altri
come a casa propria. Il pezzo mancante che ha permesso di completare il puzzle? Portare
l’asticella dei comfort oltre ogni aspettativa, consentendo alle persone di ribaltare gli effetti della
stanchezza e dell’esaurimento mentale, e di tornare nel mondo ricaricate. Prima di trarre i
benefici del viaggio e di espandere così i propri orizzonti, i viaggiatori hanno bisogno di riportare
la mente a una condizione di equilibrio.
Il concetto di “allargare e costruire” suggerisce che un hotel ha la capacità di offrire gioia
e piacere ai propri ospiti, ma anche di veicolare significati di livello più elevato attraverso
l’attenzione ai dettagli. La possibilità di personalizzare l’esperienza di viaggio, anche attraverso
semplici scelte, può rafforzare i legami sociali con le persone che viaggiano con noi.
Un’esperienza condivisa è semplicemente più appagante.
I risultati dello studio citato sopra mostrano chiaramente che la creatività nasce dallo
scambio culturale: pluralismo è meglio, mescolare è meglio. I piaceri del culturalmente altro
possono accendere la gioia e la creatività associando qualcosa di familiare (vodka) a variazioni
esotiche sul tema (aroma di Chaat Masala). Si può suscitare interesse anche associando
elementi provenienti da epoche diverse, come un abito contemporaneo accanto a immagini
provenienti da un tempo antico (una vecchia mappa).
Osservare queste contrapposizioni ci permette di tracciare connessioni tra culture
diverse, o epoche diverse, offrendoci nuove prospettive sulla nostra cultura e permettendoci di
vederla come una possibile variazione sul tema, e non come l’unico centro dell’universo
possibile. Uno dei grandi vantaggi del viaggio è la sua capacità di allargare gli orizzonti e
aumentare la consapevolezza, ovvero di allargare e costruire il nostro mondo. E se per fare
questo bastassero dei cocktail e splendidi vestiti culturalmente ispirati? Allora ci guadagnano
tutti.
Hilton ha sempre cercato di dotare ciascuno dei suoi hotel di una personalità unica ed
inimitabile. All’estero, questo avviene quasi sempre attraverso elementi del design della cultura
ospitante e dei suoi abitanti. Negli Stati Uniti, può avvenire semplicemente accostando il
passato al presente. In questo modo possiamo affidarci a ciò che ci è familiare e provare
qualcosa di nuovo: un’esperienza positiva sa confortarci e insegnarci qualcosa di nuovo in un
colpo solo.
Chris Silcock: da cameriere a guru dell’IA Dopo essersi laureato in informatica, Chris Silcock aveva deciso di concentrare i suoi
studi su qualcosa di meno remunerativo: la musica. Per sbarcare il lunario, di sera e nei
weekend lavorava come cameriere alla banchettistica dell’Hilton Watford, in Inghilterra:
“Mi piaceva il gruppo di lavoro”, racconta parlando dei suoi primi giorni, “Lavoravi in orari
scomodi con altra gente che lavorava in orari scomodi. Alla fine si diventava tutti amici e ci si
supportava a vicenda perché ci ritrovavamo a spasso quando tutti gli altri erano a lavorare”.
Dopo la fine del master, i capi di Silcock gli parlarono: “Mi offrirono un lavoro e delle
responsabilità che non credevo di meritarmi”, ammette. Come accadde spesso nella carriera di
Silcock, fu premiato per il buon lavoro svolto con nuove responsabilità. Gli chiesero se gli
sarebbe piaciuto diventare responsabile della banchettistica.
A soli 21 anni, Silcock all’improvviso era il responsabile di una squadra di decine di
persone che servivano durante banchetti e matrimoni centinaia di invitati. Era anche il
responsabile delle relazioni con i clienti, e interagire con i clienti era molto interessante:
“Ovviamente, per loro era un evento importante”. All’inizio fu affiancato da un banquet manager
più anziano, poi soltanto osservato da questi mentre faceva le chiamate più importanti ai clienti
e ricevendone i suggerimenti all’occorrenza.
Pochi mesi più tardi, il suo responsabile gli offrì un’altra posizione, un’esperienza di
apprendimento intensa che avrebbe contribuito ad accrescere le sue competenze: lo volevano a
gestire il turno notturno in hotel come night manager.
Silcock descrive il suo lavoro da night manager come un lavoro: “Dove si impara
moltissimo perché certe volte di notte ti ritrovi ad essere l’unico referente Hilton in tutto l’hotel.
Perciò che si tratti di un room service o di un check-in, o di un problema in una stanza o di
qualsiasi altra cosa, devi necessariamente saperla gestire”.
Dopo che il manager gli aveva elencato tutti i vantaggi di questo lavoro gli disse: “E
comunque sia, inizi stasera perché non c’è nessun altro disponibile”, ricorda Silcock con una
risata.
Indipendentemente dalla sede, dal reparto, o dall’anzianità di servizio, le promozioni in
Hilton offrono sempre la stessa ricompensa per un lavoro ben fatto: altro lavoro. Ma anziché
premiare Silcock per la sua bravura con i clienti della banchettistica attraverso un miglioramento
degli orari di lavoro, i suoi responsabili gli offrirono un lavoro più interessante.
Alla fine Silcock trovò la sua strada all’interno dell’azienda, acquisendo un’esperienza
internazionale in qualità di responsabile di zona: “Per la prima volta un’azienda mi pagava per
viaggiare in tutta Europa. Prima non ci avrei mai creduto. Un grande passo in avanti”.
Il suo prossimo passo lo condusse in un altro continente, dove viaggiava per formare il
personale locale riguardo alle politiche di prezzo e alle modalità di prenotazione della sede
centrale. Questa nuova promozione gli venne presentata più o meno com’era avvenuto per la
posizione di night manager, offrendogli un paio di rotelle di supporto ad ammortizzare
l’inevitabile percorso di formazione.
Silcock fu spedito all’Hilton Alexandria, in Egitto. Il novello viaggiatore, arrivato al Cairo,
saltò su un taxi e chiese di essere portato ad Alessandria:
“Venne fuori che ci volevano cinque ore di macchina”, dice Silcock ridendo. “Si trovava
nel bel mezzo del nulla, e la strada per arrivarci non era particolarmente ben messa. Pensavo
che mi avrebbero portato nel deserto e che di me non si saprebbe mai più saputo nulla”, dice
scherzandoci su.
Grazie al background informatico e alle competenze manageriali acquisite durante gli
anni, Silcock formava i membri dello staff riguardo al software di revenue management e di
gestione delle prenotazioni. Insegnò al personale come inserire le camere disponibili nel
database del call center centrale, e a modificare il prezzo delle camere per massimizzare i
profitti.
Dopo aver dimostrato di riuscire a cavarsela su un terreno di gioco più impegnativo,
Silcock fu promosso a vicepresidente del revenue management. In questo ruolo si assicurava
che tutti gli hotel Hilton International utilizzassero il sistema di cui si era occupato mille volte in
hotel come quello di Alessandria, attraverso il software e le strategie che consentivano ai
proprietari di massimizzare i loro profitti.
L’attuale carica di Silcock, quella di direttore commerciale, assomiglia ben poco al suo
ruolo iniziale di addetto alla banchettistica. Il suo team si occupa delle tariffe di circa 880.000
stanze, tramite il gestionale Hilton. Il complesso sistema multifattoriale per la determinazione dei
prezzi prende in considerazione fattori come la località (Topeka o Tokyo), il marchio (Embassy
Suites vs. Waldorf Astoria), il periodo dell’anno, e i servizi (l’hotel offre servizio bar, parcheggio,
colazione gratuita?). Attraverso l’analisi dei dati si gestisce l’e-commerce e vengono creati
messaggi pubblicitari ad hoc, a seconda degli eventi locali. Alla fine del soggiorno, il suo team
sottopone agli ospiti un questionario di soddisfazione. Le sue responsabilità ora vanno ben oltre
la gestione di un team di una ventina di camerieri durante un pranzo di nozze, coinvolgendo
migliaia di dipendenti in tutto il mondo. Oggi lavora alla sede centrale di McLean, in Virginia, e
riferisce direttamente al CEO di Hilton, Chris Nassetta.
Prove Lavorative di Arrampicata
Se la posizione attuale di Silcock non assomiglia per niente al suo ruolo di partenza, la
natura autonoma della carriera lavorativa in Hilton è già visibile dalla storia del suo fondatore.
“Fu lui ad inventare, ad esempio, la pratica inusuale quanto sana di nominare Direttori
indipendenti a gestire i suoi hotel, senza pretendere alcun investimento da parte loro se non
l’esperienza, l’onestà e lo zelo”, scrive il biografo Whitney Bolton in The Silver Spade: The
Conrad Hilton Story.
Nel 1969, lo psicologo Mihaly Csikszentmihalyi mise in atto un seminario sul gioco, con
l’obiettivo di scoprire come mai certe esperienze risultano più piacevoli di altre. In uno studio
preliminare, iniziò a chiamare delle persone a caso che avevano degli hobby, chiedendo loro
cosa stessero facendo in quel momento e quanta gioia gli dava.
Fu sorprendente scoprire che il grado di soddisfazione delle persone nel corso di una
settimana non era correlato alle ore trascorse sul lavoro piuttosto che a svolgere attività
ricreative, ma al numero di ore trascorse in uno stato di coinvolgimento attivo,
indipendentemente dalle etichette di svago e lavoro. Quando entriamo nella condizione che
Csikszentmihalyi chiama di “flusso”, o flow, ogni esperienza diviene intrinsecamente appagante.
Lo stato di flow si realizza quando le richieste che ci vengono poste incontrano le nostre
competenze. Essere in grado di affrontare una sfida interessante ci fa sentire vivi, ma perché
questo succeda ci deve essere una sfida interessante da affrontare.
Immaginate di parlare con un appassionato di arrampicata dell’esperimento di
Csikszentmihalyi, con un grado di abilità 9. Se gli chiedeste di scalare una cima di livello 4, si
annoierebbe. Per coinvolgere le persone bisogna chiedergli di arrampicarsi un po’ più in alto.
All’arrampicatore di grado 9 dovreste chiedere di raggiungere un livello appena superiore al suo
livello di comfort (10, o forse 11). Ma oltrepassare questo livello (con un grado 13), manderebbe
in agitazione l’arrampicatore che probabilmente si arrenderebbe. Se lo scopo è coinvolgere il
personale, bisogna porgli delle sfide che si trovano uno o due step oltre il loro grado di abilità.
I responsabili di Silcock sembrano aver fatto pratica con il manuale di Csikszentmihalyi.
Per convincerlo a lasciare la carriera informatica, gli offrirono una sfida: (grado di abilità 4, livello
di sfida 5): sai gestire una ventina di camerieri e soddisfare i clienti? Dopo aver preso
confidenza con questo lavoro, ma prima che lo sapesse fare così bene da iniziare ad annoiarsi
e a prendere interesse gli offrirono una nuova sfida: sei in grado di gestire l’intero hotel? La
nuova posizione di Night manager gli richiedeva di imparare cose totalmente nuove (grado di
abilità 6, livello di sfida 9), ma gli fu fornito il contesto migliore per imparare. Il ritmo più lento del
lavoro notturno gli consentì di confrontarsi con nuovi problemi che non richiedevano però
decisioni immediate. Poteva fare innumerevoli tentativi, sbagliare e poi trovare la risposta esatta
prima che gli altri si fossero svegliati per colazione. Uno degli aspetti chiave del flow è
l’autonomia: la possibilità di decidere autonomamente come restare aggiornati.
Il ruolo di Silcock in azienda gli consentiva di utilizzare il suo background informatico,
perciò la sfida si faceva ancora più interessante in quanto coinvolgeva le sue competenze.
Mentre viaggiava per il mondo, formando lo staff, la sfida era più complicata ma la formazione
dello staff in luoghi remoti ricordava quella del night desk, solo lontano dagli occhi della
Direzione che normalmente vegliavano sul suo operato e che gli avevano dato il tempo di
sperimentare e perfezionare il suo sistema. Dopo aver affinato le sue competenze insegnando a
svariati team locali come svolgere i loro compiti al meglio, era pronto per finire sotto i riflettori
come vicepresidente del revenue management.
Hilton incoraggia i propri manager a promuovere i dipendenti che, come Silcock, amano
le sfide. Sollecitando l’autonomia da linee guida standardizzate, l’azienda favorisce la
motivazione intrinseca. Flow e coinvolgimento sono profondamente radicati nel DNA aziendale.
Il flow si verifica quando una persona è totalmente immersa in un compito, il che presuppone
obiettivi chiari, interesse personale, concentrazione, perdita della consapevolezza di sé,
padronanza della situazione, e il giusto rapporto tra competenze personali e obiettivi da
raggiungere. Nell’insieme, tutti questi elementi permettono di accrescere le abilità e il senso di
autostima, in modo piacevole.
Il padre di Conrad Hilton, Gus, favorì in lui lo sviluppo di uno spirito imprenditoriale:
“Vendevo sow-belly bacon, porridge di mais, fagioli e caffè nella drogheria di mio padre
prima ancora di essere abbastanza grande da riuscire a vedere oltre al bancone.” Mentre gli
altri bambini decidevano con quale gioco giocare, Conrad decideva come contribuire all’azienda
di famiglia, che comprendeva una drogheria, una pensione, e più avanti, una banca.
Un profilo di Hilton tracciato dal New York Times nel 1949, racconta del suo stile
manageriale basato sull’incoraggiamento dell’autonomia: “Conrad Hilton non si fa carico delle
minuzie delle operazioni. Quando consegna uno dei suoi hotel a un manager, dà a quella
persona totale autonomia. Per questo, ciascuna unità è gestita in modo diverso e ha una sua
individualità”.
C’è una battuta che ricorre spesso in Hilton: “La ricompensa per un lavoro ben fatto, è
altro lavoro”. E non si tratta solo di altro lavoro, ma di lavoro più impegnativo. E quella sfida
viene offerta ai dipendenti in modo da favorirne la buona riuscita, che sia facendo pratica in
orari notturni dove non sono presenti occhi indiscreti, o quando l’hotel è ancora vuoto e i riflettori
spenti.
Come prevedibile, la ricerca dimostra che sentirsi sotto esame nello svolgere un
compito, svilisce la motivazione e l’appagamento, soprattutto se stiamo ancora imparando a
svolgerlo in modo appropriato. Un buon lavoro ci consente di uscire di scena a prepararci per la
prossima sfida. Una volta acquisite le dovute competenze, possiamo tornare in scena ed essere
guardati mentre facciamo bene il nostro nuovo lavoro, pronti per un’altra sfida. Essere guardati
mentre svolgiamo bene il nostro lavoro, al contrario, fa migliorare le nostre prestazioni.
Percepire che ci attende un complimenti può renderci avidi di ottenerlo, che si tratti di un
encomio o di una promozione che ci prepara a una nuova sfida.
Insapona, risciacqua, ripeti se necessario.
Dianna Vaughan Dianna Vaughan conosce il senso della parola
ospitalità. Come il fondatore Conrad Hilton, la Vaughan
inizia a conoscere questo settore da bambina, dando una
mano nell’azienda di famiglia. All’età di otto anni, la
Vaughan aiutava la zia nella registrazione degli ospiti
presso la sua locanda sulla strada, il Gladys’ di Huston.
Due aspetti del suo primo impiego pagato come
receptionist notturna contribuirono a plasmare la sua
carriera:
“Fui fortunata ad avere un direttore generale
donna. Lei fu un grande esempio per me, perché mi fece
capire che se avessi lavorato sodo avrei potuto diventare
general manager a mia volta”. Ciò che la Vaughan non
sapeva, era che nessun hotel della sua compagnia con più
di 300 stanze aveva un direttore generale donna. Ma l’aver
avuto una responsabile di sesso femminile era stato abbastanza per farle immaginare sé stessa
in quel ruolo, e a non vedere il suo genere un ostacolo.
Durante il turno notturno dalle 23:00 alle 07:00, uno dei primi direttori della Vaughan le
affidò un compito nuovo: “Devi chiamare 10 hotel per capire se sono pieni, e se lo sono, devi
chiedergli di mandarti la gente”. “E mi ricordo di essermi chiesta, pensando come una vera
dipendente, ‘Perché? Perché dovrei crearmi altro lavoro? Faccio i compiti durante il turno di
lavoro dalle 23:00 alle 07:00, perché dovrei chiamare la gente per farmi mandare altra gente
mentre sto cercando di fare i compiti?’
Tornai da lui e gli chiesi, ‘E io cosa ci guadagno?’”
All’inizio il suo capo ridendo disse: “Ci guadagni che non perdi il lavoro”. Poi lei propose
una formula: se avesse raggiunto i 10 ospiti per notte al posto dei soliti 5, avrebbe ricevuto una
percentuale del 10% sugli extra. Sentirsi controllati, per esempio mentre chiamiamo 10 hotel,
induce un senso di fatica mentale e di esaurimento. Essere personalmente motivati da un
risultato (“voglio guadagnare di più”) ci permette di raccogliere le energie e di restare
concentrati, l’elemento motivazionale in grado di generale il flow.
I lavoratori degli altri turni iniziarono presto a richiedere gli stessi incentivi:
“Così ottenemmo il risultato, e ci guadagnammo parecchio. Nacque una specie di
competizione tra turnanti che oltre a un po’ di divertimento ci mise in tasca qualche soldo in più”,
racconta la Vaughan.
La straordinaria carriera della Vaughan la fece passare dai ruoli di receptionist notturna,
receptionist, F&B manager, vice direttore generale, direttore vendite, direttore generale,
revenue manager di zona, ed infine svariati ruoli da vicepresidente. In tempi più recenti, si è
occupata del lancio di due nuovi brand extra lusso per Hilton: Curio e Tapestry. Oggi, la
Vaughan è vicepresidente senior e direttore globale dei marchi All Suites di Hilton.
“Alla base dell’ospitalità (e del settore alberghiero), c’è l’immagine di una casa aperta
che accoglie con generosità i propri ospiti, facilitandone il viaggio”, dice la Vaughan. Il concetto
di viaggio non riguarda soltanto gli ospiti che soggiornano negli hotel. Anche i membri dello staff
hanno bisogno di supporto durante il viaggio, che è la loro carriera lavorativa. Questo spirito di
squadra è ciò che ha consentito alla Vaughan di instaurare contatti sociali a tutti i livelli
dell’organizzazione:
“Posso raggiungere qualsiasi membro del team anche solo con un’e-mail o una
telefonata”, dice, “E allo stesso tempo, se qualcuno ha bisogno di me, cercherò di rispondergli il
prima possibile. Credo che questo sia utile. È come mettere denaro nella banca relazionale”.
Queste relazioni sono di supporto nel momento in cui si sta affrontando una nuova sfida, e
possono davvero favorire il passaggio al livello di abilità successivo.
La Triade di Houston: un ingegnere, uno chef, e un direttore
generale davanti all’uragano Gli abitanti del Texas hanno una passione sconsiderata per le cose grandi. Gli piace
pensare al loro stato come al più grande, ignorando sistematicamente l’Alaska, che detiene
questo titolo dal 1959. La più grande città di questo grande stato è Houston. E il più grande
hotel di questa grande città è l’Hilton Americas-Houston. L’hotel di 1.200 stanze, parzialmente
realizzato a spese della città, è situato proprio accanto al centro congressi. Osservare come i
dipendenti di Hilton siano lasciati liberi di apportare innovazioni a un livello così alto, può aiutarci
a capire qual è il modo giusto per un’azienda di coinvolgere e motivare i propri dipendenti.
Non è troppo lontano dall’epicentro della storia di Hilton, quando Conrad Hilton comprò il
suo primo hotel, il Mobley di Cisco, in Texas nel 1919. Nel 1925 aprì il primo hotel costruito da
zero, a Dallas.
Mo Khan
Mo Khan iniziò la sua carriera in Hilton 30 anni fa, come vice ingegnere capo. Oggi, è il
direttore delle operazioni immobiliari dell’Hilton Americas-Houston. Khan viene dall’India, dove
la sua famiglia viveva in modo molto modesto. Afferma che la sua esperienza personale sia alla
base di quella che è la sua ossessione professionale da oltre trent’anni: l’efficienza. Oggi, Khan
è specializzato nell’individuare le inefficienze e nell’individuare soluzioni per ridurre gli sprechi.
“Non sopporto gli sprechi”, dice. Nella posizione che ricopre attualmente, è responsabile
dell’intera infrastruttura: ristrutturazioni, costruzioni, aspetti tecnici come lo stato delle linee
elettriche, delle condutture idrauliche, dell’impianto di aria condizionata, della gestione dei
progetti e della supervisione dei budget.
In altre parole, la sua posizione attuale gli offre innumerevoli occasioni per mettere in
pratica la sua passione: identificare ed eliminare gli sprechi.
Dopo 11 anni a Houston in due diverse proprietà Hilton, si trasferì nel Pacifico nord-
occidentale e trascorse sette anni lavorando come direttore tecnico presso il Seattle Airport
DoubleTree by Hilton, prima di fare ritorno a Houston. Nel periodo di tempo trascorso nello
splendore del Pacifico nord-occidentale, la sua passione d’infanzia per la tutela ambientale
crebbe ulteriormente.
L’Hilton Americas-Houston si arricchì di tecnologie che favorivano il risparmio
energetico, anche laddove gli ospiti fanno scelte diverse, ma il progetto originale degli impianti
dell’hotel presentava un paio di soluzioni inefficienti. Khan, con grande zelo, cercò di risolverle
una per una. Ad esempio, in ogni camera dell’hotel venne messo un sensore per rilevare
l’assenza di persone e regolare il termostato evitando che l’aria condizionata resti accesa
quando in camera non c’è nessuno.
Una delle sue prime misure per eliminare gli sprechi riguardò le luci. Dall’arrivo di Khan,
nella proprietà di Houston sono state installate 7.000 lampadine LED in varie aree, compresa la
hall, il centro conferenze, e il bordo piscina. La città di Huston ha persino offerto a Hilton un
rimborso di oltre 66.000 USD. “Si sono praticamente pagate da sole!”, afferma con vanto. Ma
sono in corso progetti per convertire a LED l’illuminazione di tutte le camere durante la prossima
ristrutturazione.
Se il motto di Conrad “non risparmieremo sulle lenzuola” è ancora valido, ha comunque
un prezzo. L’acqua della lavanderia è una grande fonte di spreco, specialmente quando si
devono lavare asciugamani e lenzuola di 1.200 camere d’hotel. Khan scoprì un impianto di
riciclo dell’acqua capace di raccogliere e depurare l’80% dell’acqua di scarto dalle lavatrici.
Rimozione dei pelucchi, filtrazione a carbone, e un trattamento antibatterico a raggi UV
producono un’acqua talmente pulita che l’installatore inscena una dimostrazione in cui beve un
bicchiere dell’acqua depurata che aveva poco prima lavato le lenzuola.
Quando l’acqua riciclata e pulita esce dall’impianto, pronta per un altro ciclo di lavaggio,
è di 40° più calda dell’acqua della città. Grazie al sistema di riciclo della lavanderia, milioni di litri
d’acqua devono essere riscaldati di soli 40° (anziché dei soliti 80°), prima di essere usati per il
lavaggio. Il risparmio energetico è enorme, e si aggiunge a quello di un’incredibile quantità
d’acqua, che può essere riutilizzata sei volte.
L’impianto venne installato nel settembre 2011, e si è ripagato da solo in pochi mesi.
Dopo due anni, ha già consentito all’hotel di risparmiare 750.000 USD. Ora anche l’Hilton New
Orleans utilizza questo sistema, e Khan riceve chiamate dai colleghi degli Hilton di San
Francisco, Florida e Dubai.
L’Hilton Americas-Houston dispone di moltissime tecnologie per il risparmio energetico,
e Khan sta lavorando per ridurre ogni minima possibilità di spreco rimasta. Oltre a questo, Khan
ha introdotto impianti per l’aria condizionata e il pompaggio dell’acqua che consentono all’hotel
di risparmiare migliaia di dollari, riducendo al contempo l’impatto sull’ambiente.
L’impianto di refrigerazione dell’hotel, che immette aria fresca nelle stanze e nelle sale
conferenza, si compone di tre grandi serbatoi e un quarto più piccolo. Purtroppo, non furono
progettati in modo da monitorare la capienza e regolare la fornitura. Quando arrivò Khan, due
dei tre grandi serbatoi vennero interamente dedicati alla fornitura di aria fredda alla hall e ai
piani dedicati alle conferenze, mentre il serbatoio piccolo raffreddava le stanze.
“Avevamo tre impianti di raffreddamento che funzionavano 24 ore su 24, 7 giorni su 7, a
prescindere dalla temperatura esterna”, racconta Khan, “una pessima progettazione”.
Con l’aiuto di consulenti esterni, esperti di raffreddamento e riscaldamento, Khan fu in
grado di collegare i quattro impianti di raffreddamento a un unico collettore, cosa che consentiva
a ogni impianto di produrre aria fredda per qualsiasi area dell’hotel. Adesso, durante l’inverno, è
possibile riscaldare l’intero hotel utilizzando solo l’impianto più piccolo, invece di tre.
E incredibilmente Khan scoprì che anche quando le temperature estive salgono oltre i
100°F, bastano un impianto grande e uno piccolo per raffreddare l’intero edificio. La spesa per
l’elettricità diminuì di 100.000 USD mensili.
“Ecco una cosa interessante”, dice, “Ci sono state tre aziende che si sono offerte di
prestarci consulenza gratuita”. Queste aziende si ripagano le loro verifiche proponendo ai clienti
soluzioni per il risparmio energetico e proponendole al direttore generale. Ma tutte le compagnie
restarono profondamente deluse dal sopralluogo all’Hilton Americas.
“Tutte e tre ci dissero, ‘Ci dispiace, il vostro edificio è già troppo economico, non
sappiamo come aiutarvi.’”
Khan è un ingegnere che ama l’ambiente e detesta gli sprechi, perciò per lui ogni
minima vittoria sullo spreco è importante. Era entusiasta del rimborso di 66.000 USD per l’uso
dei LED quanto lo fu per la riprogettazione dell’impianto di raffreddamento che consentì all’hotel
di risparmiare oltre 1 milione di dollari all’anno sulla corrente elettrica.
I progetti di Khan l’avevano portato dal lavorare in hotel piccoli e modesti all’occuparsi
della revisione generale degli impianti di uno dei più grandi hotel dell’ecosistema Hilton, anche
se la sua posizione ufficiale gli fornisce già molti problemi da risolvere. Ma Khan ama risolvere
problemi, e cerca attivamente nuove sfide, procurandosi lavoro extra pur di sentirsi in quello
stato di coinvolgimento dove anche il tempo scompare, e che il ricercatore Csikszentmihalyi
chiama flow.
Nonostante la sua curiosità innata, tutto ciò che non rientra nel suo campo d’interesse
sfugge totalmente alla sua attenzione. Quando gli chiediamo quali brand Hilton hanno adottato
questa iniziativa ambientale, risponde: “Non so!”. Se gli chiediamo come si stanno muovendo i
competitor a riguardo, risponde: “Non mi interessa!”.
Non è un uomo interessato alle problematiche sociali, ma alle problematiche interne,
che premia sé stesso rendendo il proprio lavoro più interessante. La difficoltà di Hilton, e di altre
aziende dal forte spirito imprenditoriale, è che incoraggiando i propri dipendenti a coltivare le
proprie ambizioni individualistiche e imprenditoriali spesso si perde di vista la standardizzazione
di soluzioni consolidate chiaramente vincenti. Tutti gli hotel del paese dovrebbero avere un
impianto di raffreddamento come quello progettato da Mo Khan. Tutti. Ma le imprese dal forte
spirito imprenditoriale spesso sono riluttanti ad accettare la standardizzazione. Le tue soluzioni
sono tue e basta. Ma siccome non tutti i tecnici sono intelligenti e caparbi quanto Mo Khan,
standardizzare ciò che lui ha già imparato sarebbe certamente utile.
Come trovare un equilibrio tra la necessità di dare spazio alla creatività individuale e
quella di innalzare il livello generale? La risposta ci arriva da una categoria notoriamente fuori
dalle righe: gli chef. Chef che sono orgogliosi di creare senza seguire una ricetta, chef che si
ostinano a usare la tecnica del “un po’ di questo, un po’ di quello”, chef che si sentono insultati
all’idea di dover pesare qualcosa con precisione.
Lo Chef Ruffy Sulaiman
“Ruffy ha costruito un grande giro d’affari intorno alla banchettistica e alle conferenze”,
dice dello Chef Ruffy Sulaiman il direttore generale dell’Hilton Americas-Houston, Jacques
D’Rovencourt, “Abbiamo clienti molto affezionati che tornano da noi con grandi budget solo
grazie alla sua creatività e al suo cibo”. D’Rovencourt non è il solo a elogiare lo Chef Ruffy
Sulaiman.
Daniel Yergin, vincitore del premio Pulitzer con il suo The Prize: The Epic Quest for Oil,
Money, and Power, fondò la Cambridge Energy Research Associates (CERA) nel 1983. Oggi,
la conferenza annuale del CERA, un evento che dura cinque giorni, è una calamita per tutti gli
imprenditori del settore energetico (l’unica volta che l’Hilton Americas- Houston ha ospitato
contemporaneamente due presidenti, Clinton e Bush, fu durante il CERA).
Quando, durante la conferenza, si parlò di “innovazioni destabilizzanti”, lo Chef Ruffy
ebbe un’idea mentre ascoltava gli organizzatori discutere dei sorprendenti sviluppi del settore:
perché non pensare a una cena che proponga agli ospiti esperienze destabilizzanti? Si inventò
una cena per la conferenza, organizzata in cinque postazioni, ciascuna con la sua piccola
sorpresa destabilizzante.
A una postazione venne servito cibo himalayano, ma per gustarlo, gli ospiti dovettero
adattarsi all’uso himalayano di sedersi su dei tappeti (importati) e mangiare con le mani.
Dal cibo arrivarono altre sorprese. Una postazione serviva “midollo osseo”, che usciva
arrostito dal forno con ogni osso dorato di una perfetta cottura media. Prima di riuscire ad
addentare il midollo, agli ospiti veniva data la notizia scioccante: si trattava in realtà di mousse
di aragosta.
Un’altra postazione serviva qualcosa che aveva l’aspetto di normali hamburger. Invitanti,
certo, ma dal contenuto fortemente “destabilizzante”. La sorpresa stava nei dettagli: quel manzo
dall’aspetto delizioso era in realtà composto da proteine vegetali.
Il tavolo dei dessert appariva come un laboratorio, con vasi in vetro dal contenuto
ribollente. Con una stampante alimentare vennero stampati dei medaglioni di cioccolato.
“Li abbiamo sconvolti”, sorride Sulaiman.
Questo tipo di creatività non è casuale. Sulaiman aveva scelto Hilton perché parlava al
suo lato imprenditoriale, e si è sempre impegnato duramente, in mezzo a tanti colleghi, per
assicurarsi che i suoi menù fossero ogni volta ponderati su misura del cliente.
Chef Ruffy, di origini nigeriane, aveva iniziato la sua carriera culinaria lavorando per 12
anni nell’ancora esistente catena di hotel Adam’s Mark. Poi, un hotel di Orlando gli aveva offerto
il suo primo lavoro da executive chef, che svolse dal 1992 al 1997. Si era spostato poi in Texas
dove aveva lavorato come executive chef di resort e country club, ma si era presto reso conto
che non era l’ambiente adatto a lui.
Sulaiman voleva riuscire a lavorare in Hilton. Un giorno vide un annuncio per un posto
da executive chef all’Hilton Americas-Houston, uno splendido hotel ancora in costruzione. Non
ottenne il lavoro da executive chef ma gli fu offerto e accettò il posto di responsabile alla
banchettistica, rifiutando un’offerta che gli avrebbe dato l’occasione di lavorare come executive
chef in un altro hotel di Norfolk, Virginia. Sapendo che molti dipendenti Hilton lavorano lì da
anni, Sulaiman pensò che avrebbe avuto tempo per crescere e fare carriera. Scelse Hilton
perché voleva lavorare in un’azienda dove poter “trovare casa e restarci”.
Lo Chef Sulaiman, meglio conosciuto come Ruffy, entrò in Hilton nel 2003 giocando un
ruolo chiave come membro del team di apertura dell’Hilton Americas. Due anni dopo aver
firmato il contratto come responsabile della banchettistica, fu promosso al ruolo di executive
sous-chef. Otto anni dopo, venne promosso executive chef. Era il lavoro dei suoi sogni.
Non tutti i cuochi della catena avevano le capacità e la creatività della brigata di Chef
Ruffy. La qualità variava molto da hotel a hotel. “Il livello dei cibi e delle bevande che venivano
serviti non era degno di una delle più grandi compagnie alberghiere del mondo”, racconta Ruffy.
Dopo aver constatato evidenti incongruenze nei piatti, si diede inizio a una
ristrutturazione che investì tutto il settore food and beverage della compagnia e che ne innalzò
gli standard globali.
Il primo passo nella rivoluzione globale avvenne con la nomina a head chef di Marc
Ehrler, che aveva maturato la sua esperienza culinaria in hotel di lusso di tutto il mondo. Se i
clienti non si lamentavano del cibo che veniva servito in Hilton, non era comunque niente di
sbalorditivo. Ed Ehrler voleva dei clienti sbalorditi.
Ehrler costituì un gruppo, l’Hilton Corporate Culinary Council, formato da figure chiave, i
cosiddetti “C1”, con l’obiettivo di innalzare gli standard della compagnia. A ciascuna delle 11
regioni venne chiesto di selezionare uno chef, in base alla qualità e alla voglia di imparare, che
rappresentasse la regione in commissione.
Sulaiman fu scelto come fuoriclasse della sua regione. Il gruppo di virtuosi gastronomici
si incontrò per discutere di menù e piatti ideali, confrontarsi sulle particolarità regionali, proporre
idee per nuovi menù in brainstorming, e cucinare insieme (gli autori fanno sapere che sono
disponibili a partecipare alle prossime riunioni dei C1).
Una volta messo a punto, il nuovo menù venne inviato a tutti gli Hilton locali. Anziché far
lavorare gli chef in orario notturno per dargli il tempo di imparare, questa volta la Commissione
C1 aveva prodotto materiali di supporto, ad esempio dei video, per aiutare i singoli chef con le
tecniche culinarie utilizzate nella creazione dei nuovi piatti. Gli 11 chef della commissione
vennero incaricati di insegnare e valutare le competenze delle cucine della loro regione.
Chef Ruffy viaggiò in 18 hotel in tutto il Texas, la Louisiana e l’Oklahoma per formare
direttamente gli altri chef sul nuovo menù. Il percorso di formazione durò alcuni mesi, durante i
quali si svolsero workshop negli hotel e video-lezioni.
È facile immaginarsi la struttura della Commissione C1 trasformata in un noioso
apparato burocratico: “Possiamo aggiungere una patata dolce alla torta di pecan del menù del
Ringraziamento?”, “Prendi uno di quei moduli rosa vicino all’orologio e inoltra la domanda al C1.
Dopo averlo fatto firmare e consegnato, dovresti riceve una risposta entro sei settimane.”
Invece, non appena i membri del C1 furono sicuri che i loro hotel fossero pronti, si fecero
da parte. E poi? Un’esplosione di creatività.
Indissero un concorso in tutti gli hotel per il miglior piatto.
Ed è grazie a questo, racconta lo Chef Ruffy, “che ci rendemmo conto di quanti talenti ci
fossero all’interno della compagnia. Alcuni dei piatti che vinsero, e che alla fine si decise di
utilizzare, furono realizzati dai sous chef”. È proprio così, fu premiato il talento a prescindere dal
ruolo o dalla posizione. Lasciarono libero ciascun membro del team di stabilire il proprio limite, e
di rispondere alla sfida.
“Adesso si respira un certo orgoglio in tutti gli hotel. I menù principali gli appartengono.
Adesso, non sono più percepiti come qualcosa di imposto dall’esterno, ma come qualcosa che
anche loro hanno contribuito a creare. Davvero una gran cosa.”
Le cucine sono per natura ambienti creativi che attirano personaggi eccentrici, ma il
lavoro delle posizioni junior implica compiti ripetitivi e noiosi, quasi da catena di montaggio. Molti
parteciparono alla sfida per provare a fare ciò che li aveva attirati nel lavoro della cucina.
“Parteciparono anche alcuni cuochi”, racconta Sulaiman, “la possibilità di provarci, e di
essere il più creativi possibile, venne data a tutti”.
Il direttore generale Jacques D’Rovencourt
Dopo essersi laureato all’Università di Nevada-Las Vegas con una laurea in
amministrazione alberghiera, nel 1989 Jacques D’Rovencourt portò a termine l’Hilton
Development Program. Dopo il suo primo impiego come assistente direttore di ristorante
all’Hilton Irvine in California, lavorò in vari hotel di Minneapolis, Chicago, Long Beach e
Baltimora. Iniziò a lavorare all’Hilton Americas-Houston come direttore dell’hotel nella primavera
del 2011, e fu nominato direttore generale dell’hotel nell’aprile 2016.
Il 25 agosto del 2017 arrivò l’uragano Harvey. Il 26 agosto fu declassato al grado di
tempesta tropicale, e il vento sopra i 160 chilometri orari scese a 65 km/h. Ma il 27 agosto
Harvey si fermò sopra Huston, inondando la città con la pioggia di un anno in meno di una
settimana. Le precipitazioni dell’uragano Harvey raggiunsero i 124 milioni di milioni di litri, con
una cascata d’acqua superiore a qualsiasi altra tempesta nella storia degli Stati Uniti. Per
costruire un cubo in grado di contenere tutta l’acqua scaricata da Harvey, ogni lato dovrebbe
misurare cinque chilometri. L’uragano causò danni per oltre 125 miliardi di dollari.
Per quanto si possa essere preparati a un tale disastro naturale, Hilton lo era. Non
appena la tempesta iniziò a lampeggiare sui radar della città, il team di direzione tenne riunioni
giornaliere per assicurarsi che ci fossero scorte a sufficienza e tennero le linee di
comunicazione aperte con tutti i membri del team. C’erano linee guida e un “manuale”, ma il
team sapeva che era fondamentale restare fluidi e collaborativi.
Molte delle informazioni contenute nel manuale furono utili alla direzione, che le utilizzò
per organizzare la risposta al disastro naturale in arrivo: ordinare le scorte, riempire le vasche
da bagno, e assicurarsi ampie scorte d’acqua. Ma la portata di Harvey presto superò ciò che
qualsiasi manuale potesse prevedere, lasciando molte delle decisioni al giudizio dei membri del
team.
D’Rovencourt e il suo comitato esecutivo temevano che il personale disposto a lavorare
durante l’emergenza non sarebbe stato sufficiente, in quanto non avrebbero potuto tornare a
casa dalle loro famiglie per giorni in conseguenza degli effetti dell’uragano.
Alcuni membri del team cominciarono a chiedere se potevano restare e portare le loro
famiglie in hotel. D’Rovencourt rispose che non aveva nulla in contrario, ma che avrebbe dovuto
chiedere conferma al comitato esecutivo (i responsabili di tutti i reparti, incluso Mo Khan per il
settore tecnico e lo Chef Ruffy).
Era raro ma non insolito che un membro del team si fermasse in hotel. Se un dipendente
faceva doppio turno, e il responsabile era preoccupato che si addormentasse durante il
percorso verso casa, o se era in corso una tempesta di ghiaccio, era normale offrirgli una
stanza. Ma si trattava pur sempre di un evento raro e su piccola scala.
Per questo, consentire ai membri delle famiglie di restare a dormire comportava un
cambio di politica senza precedenti per Houston. Per quanto sapessero, nessun altro hotel della
zona l’aveva fatto. Ma quella che gli si presentava era una sfida senza precedenti e certamente,
acconsentendo a ospitare le famiglie, il numero di dipendenti disposti a fermarsi sarebbe stato
più alto.
Al momento di affrontare la discussione, si giunse a un accordo in tempi brevissimi per
una deviazione così importante dalle procedure standard. “Fummo tutti subito d’accordo che era
la cosa giusta da fare”, dice Jacques.
Gli chiediamo: “Nessun dibattito? Nessun disaccordo?”, “Nessuno”, risponde.
Il comitato esecutivo andò oltre le richieste e consentì al personale di portare anche gli
animali domestici. Cani, gatti, e uccellini furono tutti accolti con i loro familiari. “Nessuno
starebbe qui quattro giorni preoccupato per il proprio cane”, afferma uno dei membri del
comitato esecutivo. E se uno degli animali non ben educati avesse bagnato i costosi tappeti?
“Abbiamo ritenuto che era il caso di rimandare la soluzione del problema”, risponde, “a quando
saremmo stati certi che il personale e le loro famiglie fossero sopravvissuti”.
D’Rovencourt diede il permesso di restare in hotel ai dipendenti ancora prima di
realizzare che doveva attendere il permesso del vicepresidente di zona.
Uno chef soggiornò in una delle camere con la moglie, che lavorava come chef in un
altro hotel. Anche il suo hotel le aveva offerto di restare durante l’uragano, ma non avrebbe
potuto portare suo marito. Ma all’Hilton, tutti erano benvenuti. Delle 600 persone dello staff, una
su tre si offrì volontaria di restare in hotel. I membri della famiglia risposerò con generosità. Le
mogli e i bambini servivano il cibo in mensa. Gli adulti e i ragazzi davano una mano in
lavanderia o con la Croce Rossa al centro conferenze dall’altra parte della strada.
La cucina diede da mangiare a tutti. Durante l’uragano Harvey, il personale dello
Houston Police Department, lo staff e i loro familiari mangiarono tutti gratuitamente nella mensa
dell’hotel. A ogni bocca che si aggiungeva, veniva apparecchiato un nuovo tavolo,
raggiungendo le 500 persone per pasto.
“La prima sera si passò da 500 persone a 1.000. E prima che me ne rendessi conto,
eravamo a 3.000”, racconta lo Chef Ruffy, “Ho lavorato per quasi due settimane. Quindi sì,
abbiamo fatto quello che dovevamo fare. Ma ripensandoci, è stato giusto essere lì a prendersi
cura delle persone, dei propri colleghi”.
L’hotel diventò la postazione di comando per due divisioni dello Houston Police
Department i cui uffici si erano allagati. L’hotel diede da mangiare anche a loro. “Tutti i giorni gli
venivano offerti gratuitamente pranzo, cena e colazione. Ci assicuravamo che ogni giorno tutte
le persone in hotel ricevessero un pasto caldo”, racconta Lula Broussard, responsabile della
mensa dell’hotel. In tutto, la Broussard e il suo team, durante l’uragano, servirono a tutte le
persone che lavoravano in hotel oltre 25.000 pasti.
Innovazione e spirito di squadra ammortizzarono il contraccolpo causato dall’arrivo di
centinaia di nuovi ospiti. Venne apposta una nuova segnaletica per guidare l’elevato numero di
ospiti. Quando l’hotel venne adibito a sede temporanea per le postazioni di comando delle forze
dell’ordine, lo staff portò altre TV nelle aree comuni per consentire loro di restare meglio
aggiornati sugli avvenimenti. La polizia era lieta di poter utilizzare il parcheggio recintato,
soluzione che però aumentò il traffico. Ne risultò un compromesso: lasceremo i cancelli aperti
se lascerete una volante a vigilare sui veicoli parcheggiati. Gli altri hotel della zona, intanto,
avevano chiuso le loro porte a polizia, pompieri e personale di soccorso che avevano bisogno di
utilizzare il bagno.
I membri delle organizzazioni umanitarie, tra cui la Croce Rossa, stavano al George R.
Brown Convention Center dall’altro lato della strada, collegati da un ponte sospeso. Il centro
congressi venne predisposto per accogliere 1.000 residenti sfollati, ma dopo qualche giorno,
10.000 sfollati texani trasformarono il centro congressi in un mare di brandine. Hilton diede una
mano cucinando per gli sfollati, offrendo asciugamani e persino lenzuola pulite. La reception
riceveva continue chiamate di residenti in cerca di alloggio, dai vari capi di dipartimento della
città, dal Dipartimento di Sicurezza, dal Department of Health and Human Services and Veteran
Affairs, e dai giornalisti della CNN che stavano facendo la cronaca dell’uragano.
Le persone restarono fino a quando non furono certe di poter tornare a casa loro: cinque
giorni, per qualcuno. D’Rovencourt restò nove giorni. Alcune persone, le cui case erano state
danneggiate, restarono in hotel per mesi. Harvey consentì all’hotel di predisporre un piano per
eventuali disastri futuri. Da quel momento esiste persino un servizio di messaggistica per
consentire comunicazioni rapide tra direzione e staff. La verifica delle forniture,
l’immagazzinamento delle scorte, la creazione di copie di sicurezza e l’addestramento per la
gestione delle emergenze sono da allora pratiche abituali, estese a ogni periodo dell’anno.
Sono pronti per qualsiasi evenienza.
Una Riflessione su Norme e Procedure Standardizzate Se foste voi a detenere lo scettro del potere della gestione energetica di Hilton, forse
sareste tentati di installare degli impianti in grado di minimizzare il consumo energetico, un
metodo infallibile per risparmiare una cifra importante. Ma forzare l’applicazione di determinate
procedure va contro la cultura aziendale di Hilton, che mira a garantire l’autonomia del
personale sul modo in cui conseguire gli obiettivi. Se la gestione aziendale somigliasse
realmente al selvaggio west, non ci sarebbe più nessun Hilton a discuterne. Ma è il come a
differenziare l’approccio di Hilton.
In tutti i reparti si presentano occasioni per favorire il coinvolgimento e lo spirito
imprenditoriale del personale, dal reparto tecnico, a quello della ristorazione, o del crisis
management. Nella centrale operativa, un sistema denominato LightStay facilita l’equilibrio tra
autonomia del personale e raggiungimento dell’obiettivo aziendale di Hilton di ridurre gli sprechi,
così come il consumo di acqua e corrente. LightStay monitora l’utilizzo complessivo dell’energia
e gli interventi fatti nei confronti della sostenibilità, ma il modo in cui ciascun hotel raggiunge gli
obiettivi è a discrezione del Mo Khan di turno. Assegnare al personale la responsabilità di
scegliere le strategie di risparmio energetico facilita la condizione di flow e questo, di contro, ha
fatto risparmiare all’azienda oltre un miliardo di dollari negli ultimi dieci anni.
La storia del C1 e della competizione tra chef suggerisce un altro stratagemma per
massimizzare i benefici di regolamentazione e autonomia: un periodo di formazione una tantum
per garantire competenze standardizzate, seguito da un periodo di “supervisione” esterna che
favorisca il fiorire della creatività. Offrire ai dipendenti delle pause tra questi due periodi, di
innalzamento delle richieste e definizione degli obiettivi, diminuisce la sensazione di
esaurimento. Se innalzare il livello delle richieste è una buona strategia a breve termine, la
ricerca dimostra che nel tempo accresce la fatica e il calo di energie. E può persino ritorcersi
contro, incoraggiando comportamenti non etici nel momento in cui i dipendenti iniziano a
credere che non riusciranno a raggiungere gli obiettivi con mezzi leciti e a cercare di truccare le
carte.
Anche se i racconti dell’Hilton Americas-Houston, con le sue 1.200 camere, sono
racconti di vasta portata (texana), anche gli esempi di innovazione da parte di singoli individui
non sono rari. Se i waffle di Kansas City e i bar 007 del London’s Swinging Sixties vanno alla
grande, è grazie a questo spirito di imprenditorialità.
I dipendenti Hilton beneficiano di una specie di promessa: i colleghi di sfideranno a
estendere le tue competenze. Se hai imparato a cavartela con l’hotel del paese, è ora di
passare al centro città.
L’Effetto Hilton sulle comunità: impegno rilevanza, legami
sociali, e sviluppo economico
Sul finire degli anni ‘50 il docente di Harvard, Thomas Schelling, si mise a interrogare le
persone con un curioso gioco da lui inventato:
Siete stati messi in coppia con un’altra persona di cui non conoscete l’identità. Se, ad un
orario qualsiasi nell’arco delle prossime 24 ore, entrambi vi presenterete nello stesso
luogo di New York alla stessa ora, vincerete 100 USD ciascuno (entrambi indosserete
dei grandi bottoni rossi per farvi riconoscere).
Dove andate, e a che ora?
Normalmente ci metteremmo d’accordo attraverso la comunicazione, condividendo
informazioni. Dopotutto è questo il senso della comunicazione. Ma qui, Schelling ha eliminato
ogni possibilità di comunicare con altri. E non è nemmeno possibile imparare dai fallimenti e dai
successi precedenti. Non c’è una seconda possibilità.
Il motivo per cui questo dilemma è un dilemma, è che ci sono infinite soluzioni possibili,
come il magazzino di FAO Schwarz alle nove di sera, l’angolo sud-est tra Lexington e la
48esima strada al tramonto, o l’ingresso di Rikers Island alle quattro del mattino.
Nonostante le infinite possibilità, l’esperimento di Schelling rivelò che le persone
sceglievano un numero considerevolmente piccolo di risposte. Dovendo immaginare cosa
avrebbe risposto l’altra persona, gravitavano attorno a pochi luoghi iconici, le cose più evidenti.
Tutti scelsero di incontrarsi a mezzogiorno, l’orario più convenzionale. I nativi
newyorkesi tendenzialmente si diedero appuntamento al banco informazioni della Grand
Central Station. Le persone che non vivevano a New York gravitavano verso il luogo che per
primo saltava alla mente di un turista: la terrazza panoramica dell’Empire State Building.
Schelling definì queste soluzioni, i punti più salienti di una zona, come “focali”. Certi
luoghi, certe persone, certe esperienze hanno in comune abbastanza da consentire alle
persone di sapere, in modo quasi telepatico e senza bisogno di comunicare, ciò che qualcun
altro potrebbe trovare degno di nota o rilevante.
Provate a immaginare di giocare a questo gioco a Parigi: quando vi incontrate? A
mezzogiorno. Dove vi incontrate? Alla Tour Eiffel. Ci sono molte terrazze, e potreste scegliere
quella sbagliata, ma almeno avrete ridotto le infinite possibilità a un paio.
Fate questo gioco a Londra? Vi date appuntamento al Big Ben.
Cairo, Egitto? Prendete un cammello e percorrete il sentiero nel deserto che conduce
alla Piramide di Cheope. Chissà, forse incontrerete il vostro compagno di gioco lungo il tragitto,
con addosso i suoi bottoni rossi.
Istanbul? Ci sono buone probabilità che vi ritroviate all’ingresso della Moschea Blu. Ma
c’è una possibilità neanche troppo piccola che vi incontriate all’ingresso dell’Hilton Istanbul.
Istanbul: un luogo rilevante
Come si diventa un punto focale è un dilemma quasi quanto quello dell’uovo e la gallina:
in base a che cosa le persone scelgono i loro punti focali? In base alla loro rilevanza. E perché
quei luoghi sono rilevanti? Perché la gente ci va.
A New York ci sono moltissimi edifici più antichi della Grand Central, perciò il tempo non
è sufficiente a fare di un luogo un punto di riferimento. La Grand Central, per esempio, è uno
snodo ferroviario che permette a milioni di newyorkesi di spostarsi ogni giorno. Inoltre è un
luogo di interesse architettonico, ed entrambe le caratteristiche contribuiscono alla sua
reputazione di “luogo da visitare”.
Ogni icona, prima di diventarlo, era sconosciuta. Qualcosa deve aver innescato il
meccanismo. Conrad Hilton era pronto ad innescarlo quando l’Hilton Istanbul aprì. Se nel
periodo della ricostruzione del secondo dopoguerra, la maggior parte delle aziende spendeva
con prudenza e investiva nella propria terra, Hilton dava inizio alle danze. E pare che il mondo
avesse bisogno proprio di questo.
Il 9 giugno del 1955, due aerei passeggeri della Pan American, noleggiati da Hilton e
denominati per l’occasione The Flying Carpet e The Magic Carpet, atterrarono in Turchia con il
loro prezioso carico di ospiti per l’inaugurazione. L’elenco di 106 personaggi illustri
comprendeva Carol Channing, la medaglia d’oro olimpica del pattinaggio di figura e poi attrice
Sonja Henie, e William R. Hearst Jr., che vennero accolti all’aeroporto da migliaia di turchi. I
facchini impiegarono 45 minuti per portare tutti i loro 1.200 bagagli in camera. Dopo una
memorabile inaugurazione durata cinque giorni, i divi di Hollywood tornarono a casa, ma
lasciarono all’Hilton Istanbul una certa aura di importanza. La loro presenza aveva fatto
dell’Istanbul Hilton il luogo da visitare, consolidandone l’immagine.
Nel suo discorso ai presenti, Hilton previde che l’Hilton Istanbul sarebbe stata solo la
prima di molte altre location internazionali, e che ciascuna sarebbe divenuta un punto di ritrovo
per le persone di ogni estrazione sociale. (Fornì anche a Thomas Schelling il lessico che gli
permise di vincere il Premio Nobel):
Tra non molto, un viaggiatore in giro per il mondo troverà un hotel Hilton ad aspettarlo in
quasi tutte le città che si troverà a visitare… Questi hotel esprimono la nostra idea per
cui qualsiasi hotel, in qualsiasi luogo, dovrebbe essere più di un semplice centro
nevralgico. Da un punto di vista internazionale, un hotel può diventare il punto focale per
lo scambio di conoscenze tra milioni di persone, cittadini e visitatori che si sono dati
appuntamento lì per conoscersi meglio, intrattenere rapporti commerciali, e vivere
insieme in pace.
Conrad Hilton, 1955, Istanbul Hotel Scrapbook (Discorso
all’inaugurazione dell’Hilton Istanbul Bosphorus)
La sala da ballo dell’Hilton Istanbul era la più grande sala per le feste della città, e
divenne un luogo dove la gente del posto festeggiava matrimoni e occasioni speciali (con il
comfort dell’aria condizionata, come è ovvio aspettarsi da Hilton). Le sue caffetterie divennero
luoghi di incontro dove sorseggiare caffè importanti. In un punto focale ogni cosa, persino una
tazza di caffè, ha un significato speciale.
“In Turchia, bere una tazza di caffè ha un significato molto speciale”, scrive Conrad
Hilton nel suo Be My Guest, “La prima volta che mi venne offerta una tazzina della forte miscela
locale mi fu spiegato che, ‘Bere una tazza di caffè insieme’, diceva il mio ospite, ‘implica che
saremo amici per i prossimi trent’anni.’”
Anche se l’effetto novità passò, il senso di prestigio si conservò immutato negli anni a
seguire. Col tempo, l’Hilton Istanbul divenne luogo d’incontro per l’élite turca, che qui
organizzava anche i suoi matrimoni. Nell’estate del 1972, si raggiunse il record di 21 coppie
sposate all’Hilton Istanbul. Proprio così, 21 matrimoni in una sola settimana.
Aydın Doğan ricorda la sua visita all’hotel da studente: “In quegli anni, il solo bere una
tazza di tè all’Hilton era considerato un privilegio”. Dopo essersi fidanzato, aveva promesso alla
sua promessa sposa che si sarebbero sposati lì, ma per questioni familiari dovettero dirottare su
Gumuşhane.
Il destino è stato generoso con Doğan. Fondò la Doğan Holding, uno dei più grandi
gruppi turchi che possiede vaste risorse nazionali nei settori energetico, pubblicitario, e dei
media (compreso Milliyet), e diventò miliardario quando diventò pubblica.
Nel 2005, la branca turca di Doğan Group acquistò l’hotel per 255 milioni di dollari.
Immaginate vostro marito che torna a casa e vi dice: “Ti ricordi che avremmo dovuto
sposarci all’Hilton? Bè, ho trovato un modo per farmi perdonare di non esserci riuscito
all’epoca”.
Il successo si nutre di sé stesso. Una volta che un luogo diventa focale, probabilmente lo
rimarrà. Questo giustifica tutti gli sforzi che si fanno per ottenere il riconoscimento di un punto
focale da parte della comunità. Hilton mise insieme un cast stellare di ospiti per l’inaugurazione
e pensò a una serie di eventi che potrebbero sembrare esagerati, ma non se leggiamo tutto
questo come un tentativo per istituire un punto focale.
Sarebbe stato lo stesso senza attrici e bagagli? Per un direttore generale di hotel o
ristorante varrebbe la pena rifletterci. Che genere di eventi ricerchiamo attivamente? Per quali di
essi diamo il massimo in termini di preparativi? Gli eventi giusti sono quelli che vedono diverse
tipologie di persone appartenenti a una comunità partecipare a un evento che li coinvolge
emotivamente. Una raccolta di giocattoli per le vacanze di Natale, con preparazione dei
pacchetti? Una cena di chiusura di un campionato di calcio dilettantistico? Un contest di waffle
al festival d’autunno della città, sponsorizzato da Hampton by Hilton.
Schelling era affascinato dal modo in cui le persone collaborano senza comunicare, ma
nel mondo reale, la lettera che riceviamo contenente l’invito a collaborare, contiene una
richiesta ben più grande. Anziché contenere un semplice “incontriamoci domani”, la lettera dice:
“Incontriamoci qui. Aiutami ad allestire un negozio. Saremo buoni vicini, costituiamo un centro
così i visitatori verranno. Se lavoreremo insieme, ne ricaveremo ottimi risultati”.
Ma come essere certi che le persone faranno realmente ciò che hanno promesso? È
facile mantenere la parola quando le cose vanno bene, lo è meno quando sorgono i primi
problemi. Nel mondo reale, ci sono dei segnali che ci aiutano a decidere se è il caso di
collaborare: abbiamo informazioni riguardo alla reputazione degli altri.
Se siamo circondati da persone collaborative, la strategia migliore è quella di formare
una squadra e iniziare a giocare insieme. Ma se siamo circondati da persone che mettono al
primo posto il loro interesse, dobbiamo proteggerci. Schelling avrebbe considerato il compito di
rivitalizzare un’area marginale come un dilemma sulla collaborazione, dove le parole non hanno
molto valore e sono poco affidabili. Vogliamo credere alle promesse: incontriamoci qui,
allestiamo un negozio, siamo buoni vicini, costituiamo un centro così i visitatori verranno. Se
lavoreremo insieme, ne ricaveremo ottimi risultati. Ma come essere certi che le persone faranno
realmente ciò che hanno promesso?
Comunicare non è sufficiente. Il vostro compratore vi dice: “L’assegno è nella busta”. I
vostri colleghi: “Parla con il capo e saremo al tuo fianco a sostenerti!”. Al vostro appuntamento,
“Con il mio ex è completamente finita”.
Ma come funziona in pratica? Cercheremo di capirlo ripercorrendo una delle più grandi
trasformazioni della storia, un esempio di come si sviluppino le grandi città e che vede Hilton
protagonista.
Buenos Aires Mantenere la parola in tempi difficili è proprio ciò che ha fatto Hilton costruendo uno dei
suoi hotel in uno dei quartieri più fatiscenti di Buenos Aires, divenuto poi uno dei più amati di
sempre.
Buenos Aires, capitale dell’Argentina, sorge sulle sponde del Río de la Plata, a soli 240
chilometri dall’Oceano Atlantico. Le navi mercantili internazionali un tempo non vi si potevano
avvicinare via fiume, a causa delle acque troppo basse che rendevano impossibile raggiungere
la riva. Nel corso degli anni, la città rese possibile l’attracco grazie alla costruzione, nel 1802, di
una banchina di 35 metri, estesa a 200 metri nel 1855. Le navi venivano ormeggiate anche
all’ancora, mentre carico e passeggeri venivano caricati su delle chiatte. Infine, venne costruito
Puerto Madero, una stretta ma profonda via d’acqua con dei moli dove le navi cargo potevano
attraccare in parallelo. Una serie di magazzini in mattoni costellò la periferia della città, seguiti
dalla stretta via d’acqua. Sulla riva del fiume appena costruita, Puerto Madero, c’era il porto.
Dietro, chilometri e chilometri di campi.
Quando i moli aprirono nel 1897, furono salutati come una pietra miliare dell’ingegneria.
Ma dopo un decennio, le navi cargo internazionali erano diventate così grandi da non entrare
più nelle banchine, rendendole inutilizzabili. Tutta la zona di Puerto Madero non serviva più.
Con gli anni, tutte le attività commerciali si trasferirono e la gente del posto lentamente smise di
frequentare il litorale nei pressi dei campi.
La zona si trovava a meno di un chilometro dal Palazzo presidenziale, ma gli anni di
declino e abbandono gettarono l’intera area nel degrado: spazzatura nell’acqua, magazzini vuoti
e pieni di graffiti. Nel corso degli anni, decine di tentativi di rivitalizzare la zona fallirono.
Finalmente, verso la fine del 1989, il Governo federale argentino e l’Amministrazione comunale
della città di Buenos Aires siglarono un accordo per la rinascita del quartiere.
L’immobiliarista locale Alberto Gonzales acquistò alcuni lotti, degli appezzamenti di terra
ricoperti d’erba sul lungofiume di Puerto Madero, tra i moli numero tre e quattro. Gonzalez era
un uomo che conosceva l’importanza dei punti focali. Un tempo produttore e distributore di
programmi per la TV, aveva immaginato di costruire qui uno stadio sportivo, o un centro
convegni, ma dopo aver fatto i dovuti rilevamenti aveva optato per un hotel con una grande sala
riunioni.
“Guardavano ai brand che non erano ancora presenti a Buenos Aires, brand di hotel.
Hilton fu l’interlocutore chiave”, afferma Tom Potter, vicepresidente di Hilton per i Caraibi e
l’America Latina. Dopo aver iniziato la conversazione con Hilton nel 1998, Gonzalez assunse
l’iconico architetto argentino Mario Roberto Álvarez. Il contributo di Álvarez allo skyline della
zona comprende anche l’edificio dell’IBM (sede latinoamericana dell’azienda), e il Teatro
General San Martín.
Gonzalez, Álvarez e Hilton, un potente terzetto nel mondo degli affari immobiliari
argentini. Cosa sarebbe potuto andare storto?
Tutto.
Sul finire del 1998, una scossa provocò il dissesto della turbolenta economia argentina.
Le cose cominciarono ad andare male.
Dopo aver promesso che l’hotel avrebbe aperto a gennaio del 2000, Gonzalez fece
bancarotta nel 1999. L’economia peggiorava. Aveva anche promesso che avrebbe dato una
festa indimenticabile per salutare il nuovo millennio il 31 dicembre 1999, ed aveva immaginato
600 ospiti a riempire l’opulenta hall dell’hotel e il suo piano terra.
Ma l’economia non era dalla sua parte.
“In quel momento diventò tutto abbastanza
complicato”, racconta Potter. Una delle principali
imprese coinvolte nel progetto, una ditta edile
tedesca, fece bancarotta prima di finire il serbatoio
dell’acqua: “Questo ritardò il completamento della
commessa e di tutta la proprietà”.
Appaltatori e società di servizi dovevano
ancora realizzare delle infrastrutture nell’area a
prato: scarichi, fognature, collegamenti elettrici, e
linee telefoniche erano nel limbo: “Tutto venne
completato entro un anno dalla costruzione, il 1999.
Appena prima dell’apertura effettiva dell’hotel”.
Persino la strada di fronte all’Hilton venne
asfaltata solo tre mesi prima dell’apertura. Senza la
determinazione di Gonzalez, Álvarez e Hilton che
operarono all’unisono, l’intera operazione avrebbe
potuto fallire facilmente. Ma Gonzalez ebbe la sua
festa.
All’apertura, nel marzo del 2000, l’Hilton
Buenos Aires era il primo edificio commerciale di
Puerto Madero.
“All’inizio, gli affari non andarono bene a
causa della situazione economica globale dell’Argentina di quel periodo”, racconta Potter. A
luglio 2001 il tasso di disoccupazione era al 14,7%. Proprio quando sembrava giunta la tregua,
le cose cominciarono ad andare peggio.
Quel mese, Standard and Poor’s declassò il rating argentino a B–. La disoccupazione
aumentò.
Nel novembre di quell’anno, la paura che il peso presto non avrebbe avuto più alcun
valore causò l’assalto agli sportelli dei bancomat, erodendo ulteriormente la stabilità economica.
A metà dicembre 2001, il tasso di disoccupazione nel Paese toccò il 20%. Le proteste
degli argentini nelle strade giunsero a meno di 400 metri dal Palazzo presidenziale.
Se escludiamo piccoli periodi di stabilizzazione, o quantomeno di non peggioramento, la
crisi iniziata come una scossa finanziaria si trasformò in una depressione economica destinata
a durare quattro anni. I tagli ai salari e i limiti imposti ai prelievi bancari allo sportello
complicavano agli argentini la rimessa in circolo del denaro nell’economia.
Probabilmente un boutique hotel o un brand con tasche meno profonde non avrebbe
potuto, durante quel primo estenuante periodo, pagare i dipendenti.
Un brand alberghiero internazionale e conosciuto è un ponte sicuro verso il mondo
esterno, il segno di un afflusso costante di denaro, e di danaroso pubblico straniero, da Paesi
con economie più stabili. Persino durante una crisi, può assicurare stabilità sufficiente a
mantenere accesi i riflettori su un intero quartiere durante la sua costruzione. Se
sufficientemente forte, può addirittura invertire il declino e stimolare lo sviluppo economico nel
bel mezzo di una crisi.
E il nome di Hilton era abbastanza forte da riuscirci. Sia Schelling che Conrad ne
sarebbero stati orgogliosi.
“In circa sei mesi, iniziarono a svilupparsi gradualmente altre proprietà”, ricorda Potter.
La Argentine Petroleum Company YPF iniziò la costruzione del suo edificio simbolo proprio di
fronte all’Hilton. Si trasferirono qui persino due ambasciate.
“Molto rapidamente, la zona diventò un centro di opportunità e sviluppo per Buenos
Aires, perché c’erano grandi appezzamenti di terra liberi.” Se la terra è la tela degli
immobiliaristi, allora dei grandi appezzamenti situati a 500 metri dal Palazzo presidenziale di
una capitale cosmopolita sono tele uniche, occasioni che capitano una volta nella vita. Perciò è
ovvio che altre aziende e costruttori volessero aprirvi dei negozi.
Ma non bisogna dimenticare che quegli appezzamenti di terra erano rimasti disponibili
per decenni.
Ci volle un punto focale per innescare il meccanismo. “In circa due anni, circa il 25% di
Puerto Madero era completamente sviluppato”, stima Potter.
Oggi, Puerto Madero è un florido centro di affari internazionali e un quartiere di Buenos
Aires dove vivono brasiliani e stranieri amanti dell’architettura contemporanea. I graffiti di Puerto
Madero, oggi, sono realizzati con molta probabilità da Banksy. In meno di vent’anni una distesa
erbosa accanto a banchine abbandonate si è trasformata in qualcosa di molto più interessante:
il quartiere più ricco di Buenos Aires, che la star del calcio Lionel Messi chiama casa quando è
in città.
Alle spalle dei grattacieli moderni ancora in costruzione, la riserva naturale di Costanera
Sur è lo spazio verde più grande e ricco di biodiversità della città, un parco giochi naturale di
350 ettari.
Il costruttore Alberto Gonzalez morì un anno dopo l’apertura dell’Hilton, “ma solo dopo
aver lasciato in eredità la sua impronta definitiva”, racconta Potter. Secondo un’analisi, la
mancanza di una via di accesso pubblico avrebbe potuto soffocare gli sforzi di far rinascere
Puerto Madero. Gonzalez decise di risolvere il problema in modo spettacolare. Come regalo alla
città, chiamò l’architetto spagnolo di fama internazionale e ingegnere strutturista Santiago
Calatrava a progettare un nuovo ponte pedonale che collegasse Puerto Madero al resto della
città.
Calatrava progettò El Puente de la Mujer, il Ponte delle Donne, che raffigura una coppia
di ballerini di tango (e che può ruotare in pochi minuti per consentire il passaggio delle navi,
facendone un capolavoro dell’ingegneria).
Il ponte adesso è uno dei luoghi più fotografati di Buenos Aires, un simbolo perfetto
perché connette il passato cittadino con la sua nuova epoca di crescita e rinascita.
“Oggi è uno dei simboli della città”, dice Potter.
Purtroppo, Gonzalez morì mentre il ponte veniva installato.
Al momento di pesare le alternative possibili per rendere la zona più interessante,
Gonzalez scelse essenzialmente l’investimento più grande: un ponte, non un cartellone
pubblicitario. Infrastrutture, non marketing. Rivitalizzare un’area grande come quella di Puerto
Madero richiede considerevoli iniezioni di capitale, per neutralizzare gli effetti di decenni di
degrado. Il ritorno economico di quegli investimenti dipende sostanzialmente da quanto valore
acquista l’area. Mettendo per primi il denaro sul piatto, tutti gli altri saranno più propensi a
contribuire perché percepiranno un livello di rischio inferiore. Nemmeno gli altri vogliono perdere
il loro investimento.
Hilton fu il fortunato beneficiario della fulgida visione di Gonzalez. Ma il nome di Hilton fu
la grande risorsa che rese più credibile la promessa, aggiungendo valore all’intero piatto. Il fatto
che attori così importanti, con una reputazione e un passato credibili, rispettassero gli impegni
presi persuase altri soggetti a sostenere la causa e unire le forze con successo. Non mantenere
anche solo l’1% degli impegni presi può rendere gli osservatori riluttanti a giocare con noi. Se al
contrario la nostra reputazione dimostra che le promesse che facciamo sono credibili, gli altri
saranno più propensi a entrare in campo.
Siamo più propensi a investire se confidiamo che gli altri non si tireranno indietro: anche
loro, dopotutto, ci perderebbero. Nel bel mezzo di una turbolenta recessione economica, che
richiede la cooperazione di una sfilza di investitori e costruttori, chiunque potrebbe tirarsi
indietro ad ogni piccolo sovvertimento.
Ma se il superamento di quei primi ostacoli richiese resilienza e coraggio, ogni difficoltà
affrontata con successo favorì l’interessamento di altri al progetto e, conseguentemente, la
rinascita di Puerto Madero. E questo avveniva sostanzialmente ripetendo sempre lo stesso
messaggio: da qui non ce ne andremo.
La rivitalizzazione di Puerto Madero dimostra l’importanza della reputazione di Hilton per
la buona conclusione di un progetto: il marchio può fare da apripista confidando che altri
seguiranno il suo esempio.
Cleveland/York, Pennsylvania Gli psicologi sociali, affrontando il tema della reputazione considerano due fattori chiave:
il calore (la bontà delle intenzioni di qualcuno) e la competenza (la capacità di mettere in pratica
tali intenzioni). Per riuscire a immaginare come qualcuno si comporterà con noi in futuro,
consideriamo il suo comportamento con altri in passato, e questo influenza la nostra
predisposizione a ricambiare le sue buone intenzioni.
I brand, soprattutto i brand internazionali, sono comunemente considerati come portatori
di competenza. Il semplice fatto di essere un’entità conosciuta, nel mondo degli affari è segnale
di competenza: l’azienda conosce il mestiere abbastanza da fare sul serio. Sono nel giro da
molto tempo. Sanno come restare sul mercato. Abbiamo già dimostrato come i brand di lunga
tradizione siano capaci di tenere i riflettori accesi anche in periodi di turbolenza economica.
Tuttavia, il modo in cui la comunità risponde alla chiamata di costruire qualcosa insieme
(“Se lavoreremo insieme, ne ricaveremo ottimi risultati!”) dipende in larga misura dal secondo
fattore chiave della reputazione: il calore. Anche se riteniamo qualcuno abbastanza competente
da riuscire a far crescere l’intera torta, potremmo comunque avere dei dubbi sul modo in cui la
torta verrà spartita. E una reputazione “di calore” fa sì che le persone si aspettino che venga
spartita in modo equo.
Allungare un ramoscello d’ulivo ai membri più ricchi di una comunità potrebbe farvi
ottenere una donazione, ma un ramoscello d’ulivo senza intenzioni di profitto può farvi
guadagnare ciò che non può essere comprato: una buona intenzione.
L’Hilton Cleveland Downtown stabilì una priorità insolita nelle modalità di assunzione, sin
da prima dell’apertura nel 2016: dare la precedenza ai residenti, anche preferendo una persona
inesperta rispetto a un esterno con esperienza nel settore dell’ospitalità. Per reclutare il
personale si rivolsero a un’agenzia chiamata Towards Employment.
La Towards Employment è un’organizzazione non-profit che aiuta nella ricerca del
lavoro persone che faticano a trovarlo a causa del loro burrascoso passato o per mancanza di
opportunità. Quando l’hotel aprì, molte di queste persone del posto, che non avevano mai
lavorato nel settore, vennero sottratte alla povertà dei rifugi per senzatetto.
Quello alberghiero è un settore in cui, per molte posizioni, un dipendente con tanta
voglia di lavorare può riuscire a soffiare il posto a un altro con più esperienza. La priorità è
sempre quella di soddisfare i clienti. Anche in assenza di una lunga esperienza lavorativa, la
voglia di imparare unita a una forte etica del lavoro possono trasformare in breve tempo un
apprendista in un facchino, o in un cameriere ai piani, competente.
Qualcuno potrebbe criticare la scelta di assumere queste persone. Ma ascoltare la
direttrice generale dell’Hilton Cleveland Downtown, Teri Agosta, parlare di queste assunzioni
non fa sembrare questa scelta qualcosa di rischioso, quanto piuttosto una mossa intelligente:
“Ci siamo resi conto che, una volta che offriamo ai nostri membri del team una seconda
possibilità, generava in loro una grande riconoscenza. La loro etica e la loro produttività sono
superiori. Stiamo cambiando le loro vite, è questo che stiamo facendo. E vedere [con quanto
entusiasmo affrontano il loro lavoro] scalda il cuore. È qualcosa di contagioso”, aggiunge. Il
gesto così generoso di Hilton generò un reale entusiasmo, e fu caldamente ricompensato dai
neoassunti cui era stata offerta una prima occasione di lavoro.
Assumere personale non qualificato aveva richiesto a Hilton uno sforzo in termini di
tempo per la formazione. Ma pensate allo scambio: è difficile, se non impossibile, fingere calore
autentico (diversi studi dimostrano che le persone sono sorprendentemente brave a riconoscere
un sorriso falso). Il calore è la componente chiave della reputazione che non può essere
contraffatta, estende le buone intenzioni verso gli altri. E può nascere da zero.
Anche se aprire un hotel in un importante centro internazionale già zeppo di hotel può
sembrare azzardato, quel rischio è parzialmente controbilanciato dalla certezza della domanda,
un po’ come comprare azioni blue chip. E quando invece si decide di investire in società di
tutt’altro tipo, come per esempio piccole società senza tutto quel giro di affari e senza grandi
piani di espansione?
Oggi, York, Pennsylvania è una città con poco più di 40.000 abitanti. La sua popolazione
aveva raggiunto il picco nel 1950. La sua economia avrebbe potuto rialzarsi anche prima: era la
sede della casa automobilistica Pullman, che produceva auto di lusso in stile Model-T.
I piccoli sforzi fatti per rivitalizzare la città, negli ultimi anni stanno iniziando a dare i primi
risultati sull’economia del centro di York. Vista la scarsa popolazione dei paesi della cosiddetta
Rust Belt (Cintura di ruggine), anche una sola fabbrica, un solo ufficio o un solo negozio che
chiude in centro ha il potere di innescare una reazione a catena.
Lo Yorktowne Hotel aveva aperto i battenti nel 1925, ma era rimasto vuoto per anni. Le
attività vicine, birrerie e ristoranti, hanno iniziato a comparire solo negli ultimi anni. Nonostante
le gallerie d’arte, i caffè e il piano di bike sharing, la vera sfida alla rivitalizzazione urbana è
costituita dagli edifici inutilizzati, soprattutto in comunità così piccole che non hanno grandi
margini di guadagno. Per una società esterna può essere difficile investire quando c’è
un’incertezza così grande ad accompagnare l’operazione: i grandi edifici vuoti potrebbero
trasformarsi nel prossimo paradiso dei graffitari.
A maggio 2018, la York County Industrial Development Authority ha annunciato che la
proprietà avrebbe ospitato un edificio della Hilton’s Tapestry Collection nel 2020. Oltre a dotare
la zona di un nuovo punto focale, l’accordo prevede un partenariato con la scuola alberghiera
dello York College. Appalti e ristrutturazioni da soli pomperanno 30 milioni di dollari
nell’economia locale.
“Hilton nel centro della vostra città, è un fattore di prestigio”, afferma Kevin Schreiber,
presidente e CEO della York County Economic Alliance.
L’aver mostrato ripetutamente sia un atteggiamento positivo nei confronti delle comunità,
che una fondamentale conoscenza del settore, fa sì che gli altri siano più propensi a fidarsi di
Hilton e a ritenere che non chiuderà, anche se intorno altri lo faranno.
Abuja
Anche chi conosce bene la geografia e ha visto un planisfero milioni di volte
probabilmente non ha del mondo un’immagine reale. Le mappe traducono un mondo
tridimensionale in un’immagine bidimensionale, un effetto dovuto all’utilizzo della proiezione di
Mercatore, ideata nel 1569. L’immagine che la maggior parte di noi ha del mondo è influenzata
da una distorsione 3D-2D che accresce le dimensioni delle forme man mano che ci si allontana
dall’equatore. Ne risulta che la maggior parte delle persone sottostima l’enormità dell’Africa. Se i
nostri mappamondi fossero più precisi, ci renderemmo conto che l’Africa potrebbe
comodamente contenere Stati Uniti, Cina, India, Messico, Francia, Spagna, Giappone,
Germania, Italia, Nuova Zelanda, Regno Unito, Nepal, Bangladesh e Grecia.
La Nigeria è il Paese più popoloso dell’Africa. Un africano su sei è nigeriano.
Nel 1976, il governo nigeriano votò lo spostamento della capitale da Lagos, che era così
congestionata da richiedere ore di viaggio solo per fare pochi chilometri. Spostare la capitale
voleva dire offrire alla Nigeria la possibilità di avere una capitale neutra, una città nuova da una
tela bianca, che non apparteneva a nessuno e che per questo poteva appartenere a tutti i
nigeriani. Il luogo più neutro della Nigeria doveva essere in posizione centrale che non
appartenesse a nessun gruppo o regione.
La centrale e scarsamente popolata Abuja sembrò la soluzione migliore. La decisione di
spostare lì la capitale fu attuata nel 1991.
“Gli hotel internazionali Hilton sono sempre stati i primi ad arrivare nelle grandi capitali
dell’Asia e di altri Paesi”, afferma Andreas Jersaback, attualmente direttore generale di Conrad
Hilton Istanbul Bosphorus. Jersaback venne assunto nella task force che doveva aprire l’Hilton
Abuja, e lavorò nel team di apertura.
Essere il primo hotel internazionale di una capitale solitamente implica che le
infrastrutture locali hanno raggiunto un livello di importanza e sicurezza tale da garantire
l’interesse dei turisti e degli uomini d’affari di tutto il mondo. Ma con Abuja, era tutto l’opposto.
Qui, i funzionari governativi avevano detto: “Vedi questa zona sottosviluppata lontano da tutte le
altre infrastrutture del Paese? Portiamo qui la capitale“.
Gli alti funzionari del governo nigeriano erano da poco stati in visita al Noga Hilton Hotel
di Ginevra, in Svizzera, e avevano deciso
che un hotel simile avrebbe dovuto ospitare
i capi di stato nella nuova capitale del loro
Paese. Il proprietario, Mr. Nessim Gaon,
acconsentì alla costruzione. E così si iniziò.
Hilton mantenne la promessa di
costruire il primo hotel internazionale della
nuova capitale Abuja, nonostante la
carenza di infrastrutture.
“Abbiamo avuto il nostro impianto
fognario. Otto generatori elettrici. Per la
costruzione dell’hotel, l’hotel costruì una
falegnameria a Kaduna, il villaggio vicino,
per tutti i lavori di verniciatura delle parti in
legno”, racconta Jersaback. Hilton si era impegnata a essere il primo hotel ad aprire nella zona
nonostante i lavori aggiuntivi necessari a partire, come la costruzione di una fabbrica nel
villaggio vicino.
Inoltre, Hilton si era impegnata ad accogliere i diplomatici con un hotel che presentasse
numerose suite presidenziali, non con un qualsiasi hotel con più stanze possibili per
massimizzare i profitti. “In vista dei futuri incontri di governo costruimmo 50 suite presidenziali,
160 junior suite, e 40 royal suite.”
Poi arrivò il turno dell’ultima promessa, quella che si rivelò la più folle di tutte. Il governo
nigeriano aveva chiesto di poter utilizzare l’hotel per ospitare il summit della Comunità
Economica degli Stati dell'Africa Occidentale, ECOWAS, prima dell’apertura ufficiale dell’hotel.
Mancava ancora un anno al completamento dei lavori. A ECOWAS mancavano due
mesi.
Hilton accettò.
Il presidente della Nigeria invitò prontamente 14 capi di stato dell’Africa Occidentale a un
summit di due settimane all’Hilton Abuja.
Il team Hilton aveva dato la sua parola.
Insieme a decine di altri membri dello staff provenienti da 17 Hilton di tutto il mondo (da
Monaco a Parigi, dal Brasile a Zurigo), Jersaback arrivò a Londra, dove la task force ricevette
tutte le istruzioni. Dopo alcuni giorni, il gruppo volò a Lagos (non c’erano voli diretti per la
capitale), prima di raggiungere Abuja.
“Bisogna tener presente che ad Abuja praticamente non esisteva personale qualificato”,
racconta Jersaback. Quando la task force fece circolare la voce che si cercava personale, alle
porte dell’hotel si presentarono in centinaia. Siccome nessuno dei presenti aveva esperienze
precedenti, il processo di selezione andò più a casaccio del solito.
Si racconta che il direttore del personale fosse uscito dai cancelli e avesse iniziato a
indicare le persone: “Tu, tu, tu, e tu, venite”. Una volta entrate, le persone vennero assegnate
ciascuna ad un ruolo: “Tu farai il cameriere, tu il barman, tu la cameriera ai piani. Tu alla
mensa.”
Qualsiasi cosa gli europei avessero pianificato di utilizzare come manuale di formazione,
fu rapidamente cestinata. Prima di imparare come stappare uno Chablis, i neoassunti dovettero
imparare a portare un vassoio con tre bicchieri di vino senza rovesciarli. E prima ancora,
dovettero imparare a portare un vassoio. In realtà, dovevano anche imparare cosa fossero i
bicchieri.
Tre settimane prima di servire i capi di stato, alcuni membri dello staff impararono
qualcosa su posate e bicchieri per la prima volta nella loro vita. Alcuni membri del personale si
presentavano senza calze perché l’unico paio che avevano era quello che avevano indossato il
giorno prima, e che lavato, doveva ancora asciugare. Compiti e promozioni venivano assegnati
in base alla curva di apprendimento individuale.
Altrove, l’intero hotel era ancora in costruzione.
La natura offrì alcuni dei servizi iniziali.
“Non avevamo bisogno di un impianto per lo smaltimento dei rifiuti, perché alla
spazzatura ci pensavano gli avvoltoi”, scherza Curt R. Strand, l’allora presidente di Hilton
International Hotels. I dipendenti scattarono foto di decine di avvoltoi appostati fuori dall’hotel.
“Quando arrivammo per la prima volta, era tutto un cantiere”, racconta Jersaback,
“avevamo quattro settimane per arrivare in hotel, dove non c’era niente, che era solo una
scatola vuota, e per, come ho detto, disfare gli scatoloni, scaricare, e prepararci. Forse
avevamo tre settimane e la quarta era quella della conferenza”.
I camion, per esempio, dovevano consegnare centinaia di scatoloni di lenzuola.
Dovevano essere scaricati, contati, organizzati, e distribuiti in ciascuna delle 700 camere
dell’hotel. Bisognava preparare 700 letti. Tutti i nuovi membri del team dovevano imparare come
si fa un letto.
Materassi, posate, bicchieri, asciugamani, vino, cibo, condizionatori, marmo: tutto quello
che serve per completare la costruzione di un hotel a cinque stelle nel bel mezzo del nulla.
Verso la fine, i membri del team della task force lavoravano 20 ore al giorno in
previsione del summit, per preparare l’hotel e il nuovo personale all’arrivo degli 800 invitati.
In meno di due mesi dall’iniziale richiesta di terminare l’hotel in tempo, e dopo un mese
dall’arrivo del primo membro del team, un edificio in costruzione fu trasformato in un hotel
perfettamente funzionante, con più di 1.000 nuovi addetti pronti a servire oltre 800 ospiti durante
la conferenza. Capi di Stato inclusi.
L’Hilton ospitò l’ECOWAS.
Subito dopo, l’hotel chiuse per due mesi per portare a termine i lavori di costruzione e
riaprì con il 70% dello staff originale. Anche qui, come a Buenos Aires, il tasso di occupazione
era tutt’altro che ottimale ma Abuja iniziava a prendere forma come capitale. Tre settimane
dopo l’apertura ufficiale, l’hotel preparava 400 pranzi e 600 cene. Le strade asfaltate presero il
posto di quelle sterrate. Si costruirono scuole. Attività commerciali.
Conrad Hilton diceva sempre che per l’apertura di un hotel non ci si sente mai pronti al
100%, si apre e basta. Ma questo caso estremo fu reso possibile solo grazie agli sforzi
straordinari dei membri del team Hilton, che arrivarono qui da ogni parte del mondo. Veterani e
sopravvissuti di questa intensa apertura ne uscirono con una medaglia al valore: dire di essere
stato un membro del team di apertura di Abuja assicurava il rispetto immediato dell’interlocutore
e un paio di bevute in cambio del racconto della storia.
La maggior parte delle persone chiama i lavoratori di un’azienda dipendenti, e siccome è
quello che voi, lettori, vi aspettate, ci siamo riferiti a essi in questi termini.
Ma se discutessimo di questa scelta lessicale con Hilton, verremmo cortesemente
corretti: non sono dipendenti di Hilton, sono membri del team.
Ne risulta che il linguaggio è importante, forse più di quanto voi stessi crediate.
Il valore della parola “insieme”
Un gruppo di ricercatori della Stanford University ha cercato di capire i vantaggi
dell’appartenere a un team o a un gruppo. Chiaramente, l’interazione sociale è importante: un
collega che ci abbraccia o che ci batte un cinque contribuisce notevolmente a rinvigorire il
nostro ego scarico. Ma questi ricercatori erano interessati a dimostrare un’affermazione ben più
audace: ritenevano che anche il semplice pensarsi parte di un team avesse effetti positivi.
Anche senza il cinque, i consigli, i sorrisi, sembra che le persone diano valore all’appartenere a
un gruppo. Ma è sufficiente che la percezione di appartenere a un gruppo sia anche solo
accennata per dare dei frutti?
I ricercatori condussero alcuni studenti in un laboratorio e diedero loro un compito che
potrebbe apparire per bambini: le istruzioni erano di colorare una mappa senza usare lo stesso
colore per due sezioni adiacenti, e senza usare più di quattro colori in tutto. Come il parcheggio
in parallelo, il compito sembrava facile e innocuo ma presto si rivelò impossibile.
Gli studenti si presentarono al laboratorio, e dopo le presentazioni ciascuno venne
condotto in una stanza separata per lavorare al rompicapo. A tutti venne assegnato lo stesso
compito (un rompicapo irrisolvibile), nella stessa condizione (lavorando da soli in una stanza).
Per testare l’impatto psicologico dell’appartenenza, con la metà dei partecipanti i
ricercatori allusero vagamente all’esistenza di un team, accennando al fatto che ne facessero
parte. I soggetti in questa condizione di “insieme” ricevettero due piccoli indizi che gli facevano
pensare di non essere soli. Per prima cosa, ai partecipanti nella condizione di insieme giunse la
voce che lo studio testava “il modo in cui le persone collaborano alla soluzione di rompicapi”,
mentre il resto dei partecipanti, nella condizione di “individuo”, sentì dire che l’obiettivo dello
studio era testare “il modo in cui le persone risolvono dei rompicapi”.
Il secondo indizio: dopo due minuti e mezzo dall’inizio del test, un ricercatore entrò nella
stanza con un pezzetto di carta che conteneva un suggerimento per risolvere il rompicapo. I
partecipanti nella condizione di insieme ricevettero un suggerimento che era indirizzato “a” loro
“da” un altro partecipante. Quelli nella condizione di individuo, un pezzetto di carta “per” loro.
I partecipanti che avevano ricevuto l’indizio di solidarietà considerarono il compito più
interessante. Ma la scoperta più interessante non riguardò l’opinione soggettiva dei partecipanti,
quanto il grado di impegno che dedicarono a un compito impossibile. I partecipanti nella
condizione di individuo lavorarono sulla mappa per poco più di 11 minuti, mentre quelli nella
condizione di insieme per 17 minuti, un bel 48% in più.
Da ulteriori sessioni del test, emerse che i soggetti che avevano ricevuto gli indizi della
condizione di insieme si sentivano meno provati e affaticati. È importante notare, tuttavia, che
non erano meno affaticati perché avevano battuto la fiacca, ma perché la sensazione di essere
un insieme li aveva motivati a lavorare con più impegno.
La sensazione di lavorare con altri combatte l’esaurimento dandoci la sensazione di
avere a disposizione un altro bacino di risorse a cui attingere: le altre persone. Piccoli, semplici
indizi del fatto che non siamo soli nel nostro compito costituiscono un ammortizzatore e un
incentivo contro l’esaurimento, consentendoci di fare di più, impegnarci a fondo e non cedere.
Chris Silcock, lo Chef Ruffy Sulaiman, Dianna Vaughan, e Jacques D’Rovencourt non
sono mai stati dipendenti di Hilton perché Hilton, sulla busta paga, non si riferisce a loro con il
termine di dipendenti: sono membri del team. La semplice definizione di “membro del team” può
fare più di quanto anche gli abili dirigenti Hilton possano immaginare. A riprova della potenza di
queste parole, leggete la storia che segue, un racconto di quanto può essere grande l’impegno
di chi è membro di un team.
Sri Lanka Negli anni ‘80 e ‘90, la festa danzante settimanale dell’Hilton Colombo, nota come Blue
Elephant, era il centro del divertimento della capitale srilankese.
Kapila Mohotti iniziò a lavorare in hotel come apprendista steward all’età di 19 anni. Si
sentiva attratto dalle Blue Elephant, così chiese al performer DJ Bunty di insegnargli il mestiere.
Prima e dopo il suo turno si esercitava, e finalmente i suoi frutti vennero ripagati quando a
Mohotti fu chiesto di sostituire il DJ per una serata durante la Blue Elephant. Quando Bunty se
ne andò, il direttore generale dell’Hilton Colombo, Gamini Fernando, chiese a Mohotti se fosse
interessato a diventare il nuovo DJ delle Blue Elephant:
“Mi sentii come se le cose stessero finalmente andando nel modo giusto”, racconta
Mohotti.
Il Blue Elephant era il primo night club internazionale del Paese. Attraeva esponenti
dell’alta società e persone del posto che volevano sentirsi come loro. Ci si trovava a bere con gli
amici e a danzare fino all’alba, quando la pista si svuotava.
L’attuale direttore generale dell’hotel, Manesh Fernando, ricorda con affetto quegli anni:
“Questo hotel era un’oasi nella città”.
Con un drink tra le mani, danzando sulla pista da ballo, gli srilankesi dimenticavano ciò
che accadeva fuori: il Paese attraversava una sanguinosa guerra civile.
“Quando sei in guerra, impari ad avere la memoria corta. Impari ad affrontare le
situazioni. Non puoi stare a pianificare le tue decisioni per uno, due o tre anni. In quel momento
chi diceva “arrivederci” lo sperava davvero, perché non era certo che sarebbe tornato indietro”,
racconta Fernando.
“Le persone realmente, realmente si divertivano al nightclub.”
Il Blue Elephant è stato una bella esperienza, ma i tempi cambiano, insieme ai gusti
locali. Chiuse i battenti il 21 aprile 2007, dopo aver regalato agli srilankesi 20 anni di
champagne, musica, una grande pista da ballo e, ancora più importante, un luogo dove
potevano dimenticare le difficoltà di un Paese in guerra, e che è una calamita di disastri naturali.
La capitale dello Sri Lanka, Colombo, ha una popolazione di 700.000 abitanti. Il centro si
visita a piedi in un giorno. Gli edifici federali e gli uffici più importanti delle aziende si
concentrano nel centro della città, il Colombo City Center. In tempi favorevoli, la posizione
centrale di Hilton rispetto a questi luoghi era una manna, ma in tempi cattivi, faceva di Hilton un
obiettivo.
L’Hilton Colombo aprì nel 1987, quattro anni dopo l’inizio della guerra civile. Le Tigri per
la liberazione di Tamil Eelam, o LTTE, un gruppo separatista noto anche come le Tigri di Tamil,
nel 1983 diedero inizio al conflitto armato contro il governo nazionale.
Il 31 gennaio 1996, l’LTTE fece esplodere 200 chilogrammi di esplosivi nei pressi della
Banca Centrale dello Sri Lanka, uccidendo 91 persone.
L’anno seguente l’LTTE colpì di nuovo, questa volta il World Trade Centre, un palazzo di
39 piani inaugurato solo tre giorni prima e collegato all’Hilton Colombo.
Il direttore generale di quel momento, Gamini Fernando, all’epoca tirocinante
amministrativo che lavorava al turno notturno, lasciò l’hotel alle 3:00. Alle 7:00, mentre
Fernando dormiva a casa sua, un ordigno devastante di 450 chili di esplosivo scoppiò tra i
sacchi di riso nel retro di un furgone.
“Lo staff mi svegliò dicendomi che c’era stata una
grande esplosione nel centro della città”, ricorda
Fernando. La bomba era scoppiata nel parcheggio del
Galadarai Hotel, mandando in frantumi le finestre dei
palazzi del centro e persino dei dintorni. Aveva distrutto
anche le facciate dei colossi alberghieri internazionali: il
Galadari, l’InterContinental, e l’Hilton.
“Quando feci ritorno, la zona era completamente
disastrata… l’hotel era un macello. Su una delle facciate
non era rimasta nemmeno una finestra”, racconta
Fernando. Trentasei ospiti stranieri furono portati in
ospedale. Ci furono danni per decine di milioni di dollari.
Fernando chiamò a raccolta i membri del team
per annunciargli: “Non chiuderemo, e in qualche modo
riapriremo l’hotel nel minor tempo possibile”. Come
avrebbe poi fatto anche D’Rovencourt a Houston 20 anni
dopo, Fernando non si chiese mai se l’hotel sarebbe
rimasto riaperto. Semplicemente si era impegnato a
tenerlo aperto.
Poi, il direttore generale fece un secondo proclama: “'Non preoccupatevi per lo
stipendio’, dissi, e questo mise d’accordo tutti”, racconta Fernando. In Sri Lanka, lo stipendio dei
lavoratori nel settore alberghiero comprende un 10% di tassa di servizio. Sapere che i loro salari
non avrebbero subito riduzioni dovute all’inevitabile calo del turismo, li convinse ad andare
avanti. I proprietari dell’hotel presero in prestito 2 milioni di dollari da Hilton per tornare alla
normalità il prima possibile.
L’impegno è un percorso a doppio senso. Sentire che Hilton avrebbe mantenuto
l’impegno a restare aperto, ebbe un effetto ben preciso sul personale, ricorda Fernando: “Tutti
noi entrammo in azione come un esercito”.
“La prima cosa da fare era pulire… tutti ci mettemmo i guanti e prendemmo i secchi per
raccogliere i vetri sparsi in tutto l’hotel.” Mentre raccoglievano i vetri a mano, indossavano dei
caschi e altre protezioni per la testa per proteggersi dai pezzi di cemento e vetro che avrebbero
potuto cadere dall’alto.
Il ricordo di un’identità condivisa e il senso di appartenenza a un gruppo sono d’aiuto in
tempi difficili, e favoriscono la resilienza. Il ritrovarsi insieme, nel mezzo di una crisi, metteva in
luce il destino comune dei membri del team rendendo il gruppo ancora più coeso.
Il forte coinvolgimento innesca una spirale positiva: sapere che la situazione durerà a
lungo spinge a fare esattamente ciò che contribuirà a migliorare il nostro futuro. Vedere i
progressi fatti grazie a quegli sforzi supplementari, di contro, è rinfrancante. L’impegno è
promotore di altro impegno. Sentire che i manager avrebbero tenuto i riflettori accesi, e i salari
accettabili, aveva spinto i dipendenti a tornare a pulire l’hotel.
Poi, dagli uffici regionali di Singapore giunse qui un gruppo di ingegneri incaricato di
valutare i danni all’edificio e dichiarare l’integrità della struttura. Conoscendo la decisione
dell’hotel di restare aperto, la direzione chiese come, e non se. Fernando e l’ingegnere capo
decisero di proteggere gli interni dell’hotel realizzando rapidamente un rivestimento di
compensato.
Il Galadari Hotel situato accanto aveva subito un danno simile, ma esitava a mantenere
il proprio impegno a rimanere aperto. A detta di Fernando, non coprirono le aperture lasciate
dalle finestre esplose a causa della bomba. I direttori non erano certi nemmeno di riaprire in
quanto temevano entrate insufficienti. Davanti a un hotel, uno straniero tende a mettere il
proprio punto di vista in primo piano e quello dei dipendenti dell’hotel in secondo piano. Ma una
persona del posto guarda a un hotel in modo diverso, come una potenziale risorsa per trovare
un impiego, organizzare matrimoni, e aperitivi occasionali: ci sono loro in primo piano, e gli
ospiti sullo sfondo. Quando i proprietari stranieri iniziarono a temere che la guerra civile non
avrebbe mai avuto fine, si chiesero se il turismo sarebbe mai tornato come prima. Se non fosse
successo, restare non aveva più molto senso.
Le cose peggiorarono per il Galadari quando su Colombo, dopo la bomba, si abbatté il
monsone.
“La tempesta giunse e danneggiò l’hotel ancor più della bomba, credo, perché la pioggia
rovinò tutto ciò che era rimasto nell’hotel”, racconta Fernando.
Dopo il monsone, il Galadari chiuse. L’Hilton Colombo tornò in attività dopo alcune
settimane.
Ormai, la guerra civile aveva causato 50.000 vittime e il turismo internazionale stava
pagando un tributo enorme. Per qualche tempo l’Hilton rimase l’unico hotel internazionale di
Colombo, rendendolo la meta inevitabile per tutti gli uomini d’affari stranieri.
Gli altri hotel avevano sottovalutato l’importanza della loro presenza per i residenti, e la
loro chiusura aveva fatto di Hilton un punto focale determinante per le persone del posto. Anche
durante la guerra civile, i residenti di Colombo non avevano altra scelta se non quella di restare.
Sono realmente devoti al luogo di lavoro.
“La chiusura dell’hotel non è mai stata presa in considerazione. È il nostro piccolo
mondo, e Hilton deve funzionare”, racconta Fernando. Se non hai alcuna possibilità di
andartene, devi sfruttare al massimo quello che hai, non hai altra scelta. Allora ti stringi attorno
al tuo team e sviluppi un senso di fedeltà tale da non pensarci due volte a sacrificarti per esso
(c’erano membri del team che ogni giorno guidavano per più di 20 chilometri in condizioni di
rischio, attraverso una zona di guerra, per arrivare al lavoro.
Gli anni passavano e la guerra civile non sembrava fermarsi.
A un certo punto “a tutta la città venne chiesto di spegnere ogni luce per evitare che gli
aeroplani vedessero i luoghi da colpire”, racconta Fernando. Poi aggiunge: “non avrei mai
voluto veder chiudere l’hotel nel bel mezzo dei raid aerei”. La direzione decise di coprire tutte le
finestre dell’hotel con tendoni neri, esteticamente gradevoli sia dall’interno che dall’esterno ma
impossibili da aprire, chiusi ermeticamente per impedire il passaggio della luce.
Nel 2008, un kamikaze uccise nove persone di cui sette poliziotti, facendosi esplodere a
un checkpoint della polizia fuori dall’hotel, danneggiando qualche finestra. William Costley,
l’allora direttore generale (oggi Vice President of Operations for the Arabian Peninsula &
Turkey), come il suo predecessore non prese mai in considerazione la chiusura dell’hotel.
L’hotel si era ormai guadagnato la reputazione di restare sempre aperto e tenere tutti al
sicuro. Si decise semplicemente di continuare a tenere i riflettori accesi.
“La vita continua”, dice Fernando. “Questo hotel era il luogo dove le persone andavano e
dimenticavano tutti i loro problemi, tutta quella negatività. Era il cuore che pompava il suo
ottimismo alla città.” Era un luogo dove la vita riprendeva sembianze di normalità e sicurezza, e
dove le persone potevano sviluppare dei ricordi positivi.
Anche il giorno in cui il kamikaze
danneggiò le finestre di una facciata dell’hotel, la
vita andò avanti.
Una guerra civile non elimina il desiderio
delle persone di sposarsi o di festeggiare. Quel
giorno, nell’altra ala dell’hotel, si tenne un
matrimonio esattamente come era stato
programmato.
Vi ricordate il sarcastico giornalista di
Vogue infastidito per l’uomo d’affari che faceva
colazione nella sua oasi? In alcuni casi un’oasi può essere un tetto che ti salva la vita.
La possibilità di sentirsi al sicuro durante una guerra civile è niente di meno che un diritto
sacrosanto. E fare il suo sacrosanto dovere nel garantirlo è sempre stata una priorità per il
direttore generale Manesh Fernando, sin da quando era un tirocinante e vide il suo stesso
direttore generale, Gamini Fernando, andare avanti e indietro nella hall in pantaloncini ed
entrare in scena dicendo ai membri del suo team: “Non chiuderemo, e in qualche modo
riapriremo l’hotel nel minor tempo possibile”.
Il semplice sentire le parole “Non chiuderemo mai” era bastato a motivare il team
abbastanza da trovare la risposta a quel “in qualche modo”: l’impegno promuove l’impegno.
Cosa importa se il turismo subirà una flessione temporanea? I turisti sono solo un lato
della medaglia. Anche gli abitanti di un luogo anelano alla luce e al calore dell’ospitalità.
Sapere che i riflettori erano accesi, e che altri membri del team avevano bisogno di loro,
li convinse a restare. Dei 700 membri del team che attualmente lavorano all’Hilton Colombo,
200 fanno parte del team che era presente il giorno della bomba del 1996.
La visione di Conrad Hilton era semplice: essere una fonte affidabile di ospitalità per i
suoi clienti. Ma probabilmente non avrebbe potuto immaginare fino a che punto il suo impegno
per realizzare la visione di un mondo riscaldato dalla luce e dal calore dell’ospitalità, avrebbe
assunto, in oltre 100 anni, significati così diversi in tutto il mondo.
Semplicemente perseguendo la sua finalità primaria di essere ospitale, Hilton è in grado
di allargare gli orizzonti di chi viaggia e costruire comunità. Garantendo ospitalità, diventando
un’oasi ben radicata al territorio i cui i riflettori restino sempre accesi. Il suo impegno a essere
punto di riferimento per turisti e residenti, le cui porte sono sempre aperte, gli conferisce una
reputazione di affidabilità che favorisce l’impegno degli altri.
I contratti moderni sono scritti in modo da sollevare le persone dalle loro responsabilità
contrattuali in caso di “calamità naturale”. Ecco una clausola generica relativa alle calamità
naturali:
Il depositario non è responsabile per eventuali fallimenti o ritardi nell’adempimento dei
suoi obblighi cui al presente accordo, derivanti o causati, direttamente o indirettamente,
da circostanze indipendenti dal suo ragionevole controllo, incluse calamità naturali,
terremoti, incendi, alluvioni, guerre, disordini civili o militari, sabotaggi, epidemie,
sommosse, incidenti, controversie sindacali, atti di autorità civili o militari, o iniziative
governative.
Se questa clausola specificasse l’interruzione di servizio, sarebbe comprensibile. Ma il
vero obiettivo di questa clausola è quello di consentire alle persone di rinunciare a un appalto in
situazioni critiche che sfuggono al loro controllo. Ma le parole di questo contratto richiamano alla
mente tutta una serie di difficoltà che i team attivi in posti come Colombo, il Cairo e il Giappone
hanno dovuto affrontare.
Incendi? Già.
Alluvioni? Sì.
Guerre, disordini civili o militari, sabotaggi? Scacco al Re.
Nessuno biasimerebbe un dipendente che in una di queste situazioni uscisse prima dal
lavoro, ma è proprio in questi momenti che i dipendenti di Hilton danno il massimo. I membri del
team danno sempre il massimo per il team, consentendo a Hilton di mantenere i suoi impegni
nei confronti delle comunità cui si rivolge.
A Buenos Aires, l’aggravamento della crisi economica aveva portato alla bancarotta di
alcuni investitori e appaltatori principali, prima del completamento dell’hotel. Mentre la crisi si
trasformava in una depressione di lungo termine, l’hotel manteneva la sua promessa di aprire
nei tempi previsti e di mantenere i riflettori accesi. L’assicurare uno stipendio congruo ai membri
del team, garantiva che i riflettori non venissero spenti nei periodi più duri. Quando Hilton restò
l’unica realtà commerciale del quartiere, fu un segnale di stabilità così importante da sollecitare
lo sviluppo dell’area circostante, trasformando chilometri di prati e edifici abbandonati nel più
ricco quartiere di Buenos Aires, nel pieno della recessione.
Al Cairo, la rivoluzione della Primavera araba ebbe inizio vicino al Nile Hilton, e l’hotel
supportò i manifestanti pro-democratici. Qualcuno aveva commentato: “Non è un caso che
questi eventi si siano verificati vicino all’Hilton perché è sempre stato il fulcro della città”. E se
era il fulcro della città era perché, come a Buenos Aires, aveva sempre costituito un punto
focale attorno al quale si era sviluppata la città. In Giappone, i membri del team sopravvissero alla furia divina resistendo a un
terremoto, a uno tsunami, e alla fusione del nocciolo di una centrale nucleare.
È facile mantenere la parola quando le cose vanno bene. E quando in una località le
cose cominciano ad andare male? Un po’ meno.
Conrad Hilton probabilmente non avrebbe mai immaginato il suo hotel in una città
bombardata più volte nell’arco di un decennio. Ma sarebbe stato fiero di associare il suo nome
all’hotel Colombo perché i membri del suo team erano l’impersonificazione stessa della sua
visione dell’ospitalità.
Il 5 novembre 1954 Hilton, intervenendo al convegno dell’American Hotel Association a
New York, raccontò la sua versione di una storia antica:
Tanto tempo fa, l’umanità era costretta a vivere al freddo e nell’oscurità. Un giorno,
Prometeo decise di rubare il fuoco agli Dei e di portarlo sulla Terra. Uomini, donne e bambini
in schiere attendevano, dalle più alte vette fino ai confini della Terra, di ricevere la fiamma
per trasmetterla al proprio vicino. Improvvisamente ci fu un lampo, e la prima torcia del primo
uomo si illuminò. Rapidamente la fiamma passò di mano in mano. Da una fiamma se ne
crearono dieci, da cento mille, di città in città, da nazione a nazione, fino a quando la luce e il
calore riempirono l’intera Terra. Questa è la storia del nostro settore. In qualità di uomini e
donne che lavorano nel settore alberghiero, è nostra precisa responsabilità quella di
riempire la terra della luce e del calore dell’ospitalità.
“Riempire la Terra della luce e del calore dell’ospitalità.” Oggi, attraverso piccoli e grandi
gesti, Hilton persegue quella visione creando un Effetto Hilton su ospiti, membri del team, e
comunità.
● Un’ospite è all’estero per il suo primo viaggio di lavoro. Deve convincere un
cliente che parla un’altra lingua ad acquistare i suoi prodotti. Teme già che le
trattative si faranno complicate, ma si entusiasma al vedere la sua colazione
preferita al buffet della mattina. Sarà una lunga giornata, comunque vada si sarà
goduta la colazione. Sua madre ne sarebbe orgogliosa.
● Un giovane membro del team di Abuja, Nigeria, sta lavorando ai banchetti
dell’Embassy Suites di Houston, Texas. Viene chiamato in direzione e gli viene
proposto di lavorare per qualche tempo come night manager. “È un lavoro
impegnativo”, gli viene detto, “ma imparerai molte cose”.
● Un facchino di Cleveland mostra la stanza a una famiglia, che si sente subito
ricaricata dal suo entusiasmo e dai suoi aneddoti sulla storia dell’hotel. Prima di
avere il lavoro, era disoccupato da cinque anni.
Il ritorno del Blue Elephant Nel 2018 il Blue Elephant annunciò la sua riapertura in occasione di un party revival
organizzato per il 10 e l’11 agosto, a più di dieci anni dalla chiusura.
Per l’occasione fece il suo ritorno il DJ Kapila, anche se sarebbe più corretto dire che
restò. Kapila Mohotti infatti, è attualmente l’F&B manager dell’hotel, e lavora all’Hilton Colombo
da oltre 30 anni.
“La gente ci chiese di riaprire perché per loro quel posto era una miniera di ricordi”,
racconta il direttore generale Fernando.
L’annuncio della rimpatriata al Blue Elephant
creò un certo fermento sui social media. La gente
raccontava aneddoti nostalgici e poetici, e faceva
congetture sui vecchi amici che si sarebbero
presentati dopo dieci anni, a rendere omaggio a quel
club di un hotel del centro che per qualche tempo
aveva riportato luce e calore agli abitanti di un Paese
in cui le calamità naturali erano parte integrante della
vita.
Quando non sai quanto durerà la serenità,
impari a goderti il presente.
Al party di commemorazione, la fila all’ingresso era piena di facce sorridenti e diverse
persone indossavano vestiti rimasti a giacere per anni sul fondo degli armadi. Al bar fioccavano
le ordinazioni. Al DJ fioccavano richieste. “Era tutto pieno”, racconta Fernando.
Il DJ mise al massimo il pezzo forte di Whitney Houston, “I Wanna Dance With
Somebody”. In un hotel che non aveva mai chiuso, che aveva sempre assicurato luce e calore
anche nei momenti più bui, con la musica a tutto volume e cocktail ghiacciati tra le mani.
E si ballò.
Postfazione di CJN a “L’Effetto Hilton”
di Christopher J. Nassetta, President & CEO, Hilton
Come molti dei Team Member che Chip e Karla hanno incontrato durante le loro
ricerche per “L’Effetto Hilton”, ero molto giovane quando ho fatto i miei primi passi nel settore
ospitalità. Ai tempi delle superiori, spronato da mio padre, trascorsi le vacanze estive lavorando
nel team addetto alla manutenzione di un hotel di Washington D.C. Un’estate ho sturato
talmente tanti gabinetti che il mio regalo d’addio è stato uno sturalavandini spruzzato di vernice
dorata. Nonostante quel premio non esattamente onorevole, mi sono innamorato del settore e
da allora non ho mai cambiato idea.
Una decina d’anni fa sono arrivato in Hilton come Amministratore delegato, ed è stato
solo allora che ho davvero capito ciò che Conrad Hilton aveva intuito molti anni fa: che un
viaggio diventa una vera esperienza di vita se l’hotel sa far esprimere al meglio il viaggiatore.
Conrad lo aveva capito quando inaugurò il suo primo hotel a Cisco, in Texas, e si rese conto
che il trucco per fare felici gli ospiti stava nel creare uno spirito di squadra fra i suoi dipendenti:
una cultura del team che li motivò a innovare improvvisando sul momento, per arricchire
l’esperienza di viaggio degli ospiti.
Oggi, come hanno scoperto Chip e Karla, i nostri 400.000 Team Member restano fedeli
alla nostra storia e alle nostre radici in tutti i 5.400 hotel Hilton presenti in 106 Paesi e territori. E
sono numeri in crescita. Nel solco delle idee di Conrad, più di 10 milioni dei nostri Team
Member hanno riempito il mondo con la luce e il calore dell’ospitalità dal nostro inizio, al servizio
degli oltre 3 miliardi di viaggiatori.
Diamo ai nostri ospiti l’ispirazione per esplorare, sognare, ritrovarsi coi loro cari, agire,
conoscere le altre culture, fare cose che non avrebbero mai pensato di fare – cambiando il loro
mondo e il nostro.
In un periodo che sembra pervaso da preoccupazioni e discordia, non c’è mai stato così
tanto bisogno del potere unificante del viaggiare. Ecco la magia del viaggio: amplia la nostra
visione del mondo e allo stesso tempo ci fa avvicinare alle altre persone in giro per il mondo.
Come dico spesso, stiamo vivendo un Secolo d’oro dei viaggi. I ceti medi emergenti in
Paesi come l’India e la Cina alimentano una sete globale di esplorazione e avventura, aprendo
un numero sempre più ampio di mete a nuove culture e nuove idee. Nel 2017, 4 miliardi di
viaggiatori hanno usato l’aereo. In appena 20 anni, questo numero raddoppierà.
Ecco perché sono così grato di poter usare l’esperienza centenaria di Hilton nel creare
legami umani per aprire la strada a una nuova, entusiasmante era dell’ospitalità. Proprio ora
che celebriamo il nostro centenario. Forte di questa solida storia alle spalle, Hilton non è mai
stata così dinamica.
Stiamo aprendo la strada a nuove destinazioni di viaggio, aprendo centinaia di hotel in
quasi 50 paesi e territori nel solo anno dell'anniversario.
In Cina, stiamo dando a milioni di famiglie del ceto medio la possibilità di viaggiare con
maggior comfort e sicurezza, aprendo in tutto il Paese hotel di alta qualità e dai prezzi
accessibili.
Continuiamo a distinguerci nella missione di creare nuove frontiere di viaggio in tutta
l’Africa, con l’impegno di aprire 100 nuovi hotel entro il 2022 attraverso la nostra iniziativa
“Hilton Africa Growth”.
Le nuove generazioni di viaggiatori hanno esigenze e preferenze in costante evoluzione,
e noi ci stiamo adeguando attivamente: abbiamo aggiunto nuovi marchi smart ai prestigiosi 14
del nostro portfolio e lanciato la Connected Room, per un’esperienza in hotel davvero a misura
di dispositivi mobile.
Ogni giorno, diamo il massimo per onorare lo spirito pionieristico che ha animato il
nostro fondatore nel creare la prima azienda alberghiera globale al mondo.
Leggendo la ricerca di Chip e Karla, non posso che sentirmi onorato di essere parte di
questa storia, che loro chiamano “L’Effetto Hilton”. Sono davvero convinto che, 100 anni fa, la
nascita di Hilton abbia reso il mondo un luogo migliore. E se facciamo bene il nostro lavoro, nei
prossimi 100 anni Hilton renderà il mondo ancora migliore.
FONTI
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January 9, 2017, https://www.huffingtonpost.com/entry/women-in-business-qa-dianna-vaughan-
senior-vice_us_58735393e4b0eb9e49bfbd26
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saved the hotel over $750,000”: Elliott Mest, “How Large and Small Hotels Approach Laundry
Sustainability,” Hotel Management, January 23, 2018,
https://www.hotelmanagement.net/operate/how-large-and-small-hotels-approach-laundry-
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“Offering employees breaks between these periods of bar-raising and goal-setting”:
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Goals: Linking Goal Setting, Depletion, and Unethical Behavior,” Organizational Behavior and
Human Decision Processes 123, no. 2: 79-89.
Harvey: Angela Fritz and Jason Samenow, “Harvey unloaded 33 trillion gallons of water in the U.S.,” The Washington Post, September 2, 2017, https://www.washingtonpost.com/news/capital-weather-gang/wp/2017/08/30/harvey-has-unloaded-24-5-trillion-gallons-of-water-on-texas-and-louisiana/ “2017 Hurricane Harvey: Facts, FAQs, and how to help,” World Vision, https://www.worldvision.org/disaster-relief-news-stories/hurricane-harvey-facts
TERZA PARTE
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Mehmet Altun, Ambassadors of Turkish hospitality since 1955. Hilton Worldwide, 2015.
“Drinking a cup of coffee in Turkey has a very special significance”: Be My Guest, 266.
BUENOS AIRES Eric Firley and Katharina Grön, “Puerto Madero,” The Urban Masterplanning Handbook (2013).
“Timeline: Argentina’s economic crisis; How did Argentina get into this mess? Here are the key
dates in its tale of woe,” The Guardian, December 20, 2001,
https://www.theguardian.com/world/2001/dec/20/argentina1
CLEVELAND/YORK Andrew Small, “The Difference a DIY Cultural Revival Can Make,” Citylab, September 2017,
https://www.citylab.com/life/2017/09/the-difference-a-diy-cultural-revival-can-make/538812/
“Hilton in your downtown – that’s a prestige factor”: Anthony J. Machcinski, “Saving Yorktowne:
Unlikely story of how York landed Hilton and why that's such a big deal,” York Daily Record,
June 4, 2018, https://www.ydr.com/story/news/2018/06/04/hilton-tapestry-rescue-yorktowne-
hotel-story-behind-deal-downtown-york-efforts-could-have-died/630300002/
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Blue Elephant Retro Party: YAMU TV, https://www.yamu.lk/event/blue-elephant-retro-party
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John F. Burns, “Bombing’s Fallout Adds to the Gloom Hanging Over Sri Lanka,” New York
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Address by Conrad N. Hilton at the annual convention luncheon, American Hotel Association,
New York, NY. November 5, 1954. Transcript provided by Hospitality Industry Archives, Conrad
N. Hilton College of Hotel & Restaurant Management, University of Houston, Texas.