TITOLOORIGINALE:Epepe
LaPrefazioneètradottadaPiaCigalaFulgosi
Quest’operaèprotettadallaleggesuldiritto
d’autoreÈvietataogniduplicazione,
ancheparziale,nonautorizzata
Incopertina:W.T.Benda,copertinaperlarivista
«Woman’sHomeCompanion»(gennaio
1936).
©BLUELANTERNSTUDIO/CORBIS
Primaedizionedigitale
2015
©1999,2005ÉDITIONSDENOËL
©2015ADELPHIEDIZIONIS.P.A.MILANO
www.adelphi.it
ISBN978-88-459-7662-9
Laprecedenteedizionediquestolibromièstatamandata nell’autunno2000 da OlivierRubinstein,ildirettorediDenoël, con un laconicobiglietto diaccompagnamento:«Dovrebbepiacerti».Nonsapevo ancora che laprima mossa di Olivier,appena si insedia a capodi una casa editrice, è
quella di recuperare idiritti di Epepe perinserirlo nel suo nuovocatalogo, nella speranzadifarneungiornoillibrodi culto che èpalesemente destinato aessere. Quello che nonsapeva lui è quantoquestoromanzocascasseafagioloperme.Quandol’ho letto, infatti, stavogirando un
documentario su unungherese uscito disenno di cui penso nonsia fuori luogoraccontarequilastoria.
Nel 1944 AndrásToma, che al momentodel suo ritorno i giornalidiBudapesthannounpo’impropriamentepresentatocomel’ultimoprigionierodellaseconda
guerra mondiale, avevadiciannove anni.Trascinato dallaWehrmacht nella suadisfatta, catturatodall’Armata Rossa inPolonia, fu trasferito daun campo di prigioniaall’altro, sempre più aest, poi, probabilmenteinseguitoaunaccessodifollia, internatonell’ospedale
psichiatrico di unapiccola cittadina russachiamata Kotel’nič. Visarebbe rimasto percinquantacinqueanni.
Ho consultato la suacartella clinica, dove ilregolamento imponevadi registrare, ogni duesettimane,unanotasullecondizioni del paziente.La successione di questemillecinquecento note
circa, per la maggiorparte brevissime, è lacronaca di una lenta einesorabiledistruzione.
András Toma non eraun prigioniero politico,ma un prigioniero diguerra, cittadino di unpaese ormai amico, e aguerra finita non c’eraalcuna ragione ditrattenerlo in UnioneSovietica. Il punto è che
non parlava russo, maungherese, e nessunointorno a lui capival’ungherese. Inoltre – equesto non solo hacomplicatoulteriormentelecosemasuggerisce che senzaessere necessariamentepazzo non avesse unagrande capacità diadattamento–luinonhamai tentato di parlare
russo, di racimolarequalche parola che gliavrebbe permesso diesprimersi eprobabilmenteditornarea casa, e d’altra partenessuno ha cercato diparlargli in una linguaabborracciata, o a gesti,insomma di escogitareunmodopercomunicarecon lui. Che due personeprive di una lingua
comune non riescano acomprendersi di primoacchitoènormale,mainteoria con un pizzico dibuona volontà finisconopertrovareunterrenodiintesa. Al personaledell’ospedale deve esseremancato quel pizzico dibuona volontà, e adAndrás Toma non tantol’ostinazione quanto laflessibilità e forse
l’intelligenza: fatto stache la reciprocaincomprensione delprimo contatto è durata,assolutamenteimmutata, percinquantacinque anni.Per cinquantacinqueanni quest’uomo haborbottato tra sé nellasualingua,circondatodapersone che neparlavano un’altra, che
lui non ha mai potuto ovoluto capire. Ogniquindici giorni i mediciannotavanosobriamentenella sua cartella: «Parlaungherese». Eradiventatounsintomo.
András Toma è statoritrovato, in modo deltutto casuale,nell’autunno del 2000.Una giornalista localeseguiva il giubileo
dell’ospedale, il primarioha presentato agliastanti il decano deipazienti: «Un bravovecchio, moltotranquillo, parla soloungherese,ahahah!».Lagiornalista, scaltra, hafiutatolabellastoriaehascritto un articolo sultema: «Vi è nella nostracittà l’ultimo prigionierodella seconda guerra
mondiale». L’articolo èstatoripreso,ilconsolatoungherese si è occupatodella cosa e haorganizzato il rimpatriodi András Toma; che sichiamasse davveroAndrás Toma, a dir laverità, non era affattocerto,poichéilsuonomeera stato prima maldeclinato, poi traspostoin russo e in ultimo
storpiato nellatrascrizione.L’incertezzasullasuaidentitàharesoancor più romanzesco ilsuo ritorno al paesenatale, che ha fattonotizia sui giornali diBudapest. Alla fine dellaguerrasonosparitimoltiungheresi, e il lororicordo è stato rimosso,tanto più che l’Ungheriaera alleata con la
Germania. Di queifantasmi non si parlava,ed ecco che a un trattouno di loro si ripresenta.Per quanto possasembrare strano, decinedi famiglie hannorivendicato unaparentela con lui: era ilfratello Janos, lo zioGeza, il cugino Ferenc.L’esercito ungherese hasvolto delle indagini, e
alla fine è riuscito aidentificare la verafamiglia, che haaccettato di riprenderlocon sé. András è quinditornato,asettantacinqueanni, nel paesino da cuise n’era andato adiciannove. Io hoassistito al suo ritorno.Era uno spettro, unKaspar Hauser con icapelli bianchi. Si
rifiutavadicrederechesitrovava in Ungheria,poichélaggiùgliavevanodettochel’Ungherianonesisteva più: cancellatadalla carta. Eradiffidente, sospettavaunatrappola.
Nessuno lo capiva. Lasua lingua non era piùl’ungheresemaunasortadi dialetto privato,autistico, quello di un
monologo interiorerimuginato per tutta ladurata dell’esilio.Sopravvivevano alcunibrandellidifrasi,incuisiparlava della traversatadel Dnepr, di un lungoviaggiointrenonelqualequasi tutti i suoicompagni erano morti,della terra troppoghiacciata perché sipotesse seppellirli, di
stivali che gli avevanorubatoedellasuagambaamputata chepretendeva che glirestituissero. Siriconosceva anche ilnome di Hitler che luichiamava«HitlerAdolf»,all’ungherese, mettendoil cognome davanti alnome. Secondo luiquell’Hitler Adolf era unfurbacchione,edifronte
a questo giudizio, piùvolte ripetuto, è calato ilgelo.
Non so se leggeretequesta prefazione primaodopoillibro.Selastateleggendo dopo, non hobisogno di spiegare ilperché del racconto cheho appena fatto. Seprima, non penso dirovinarvi il piacere
riassumendo la trama diEpepe – in ogni modo èpoco probabile cheaffrontiate il librocompletamente vergini:qualcuno ve ne haparlato, o vi siete fattisedurre dalla quarta dicopertina. È la storia diunuomochesiritrovainun paese di cui noncapisce la lingua, e ilracconto giorno per
giorno della suasopravvivenza in quellecondizioni. C’è però unagrande differenza traAndrás Toma e Budai, ilprotagonista delromanzo di FerencKarinthy.Ilprimoerauncontadinosemianalfabeta cheparlava soltanto la sualinguamaternaeche,peruna resistenza psichica
difficile da spiegare masotto gli occhi di tutti, siè rivelato incapace diacquisire foss’anche iminimi rudimenti diun’altra, da cui puredipendeva la suasalvezza. Il secondo ètutto l’opposto: unlinguista di professione,che padroneggia decinedi lingue e dotato diun’eccezionale facoltà di
analisi. Ci sentiamo tuttia disagio quando ipersonaggi di unromanzo si comportanocome degli idioti,pensiamo che al loroposto faremmo meglio,ma non possiamopensare niente delgenere riguardo a Budai:sfidato sul suo terreno,hapiùstrumentiedèpiùabile della stragrande
maggioranza di noi, ilche non gli impedisce diincorrere in unfallimentodopol’altro.Èunodeipuntidiforzadellibro che il protagonistasia così industrioso, cosìcombattivo, che esploriin modo esaustivo tuttelepossibilitàdicavarsela– ovvero di capirequalcosa,anchesolounaparola,dellalinguachesi
parla attorno a lui – eche,nonostanteiprodigidi metodo che mette incampo, l’oggetto del suostudio gli rimanga cosìostinatamenteoscuro.
Un’altra grandedifferenzatraidueèchelastoriadiAndrásTomaè vera, mentre quella diBudai si svolge nonsoltanto nella finzione,ma in un universo
parallelo, un paese difantasia che sfugge alleleggi del realismoalmeno quanto le isoledovefinisceilGulliverdiSwift. Il libro non èmolto lontano, va detto,da quei deprimenti filmd’animazione dei paesidell’Est, tanto in voganegli anni Sessanta eSettanta,incuisivedevaun omino con la
bombetta aggirarsi framoltitudini dallosguardo vacuo in unametropoli tentacolaredove tutte le vie siassomigliavano. Queifilm avrebbero dovutoillustrare l’angosciadell’uomo moderno, ladisumanizzazione dellecittà, e nel dibattito cheseguiva c’era semprequalcuno che
pronunciava con gravitàl’aggettivo «kafkiano». Asottrarre Epepe a questocliché sono la precisionee il rigore con cui sonoriferiti i tentativi dievasione di Budai, el’esultanza che siintuisce nell’autore amano a mano chestrutturalastoriaesfidail lettore a coglierlo infallo. Per trovare
qualcosa che ricordiquesta esultanza nonbisogna cercare negliepigoni di Kafka, mapiuttosto nelmeraviglioso film diHarold Ramis,Ricomincio da capo.Stesso soggetto daincubo, privo diqualunquegiustificazionerazionale:unuomobloccatoinuno
squallido paesino rivivesenza fine la stessagiornata. Stesso modoesaustivo, quasimatematico di esploraretutte le conseguenze delpostulato. Stessaebbrezza narrativa. Ladifferenza è che glisceneggiatori diRicomincio da capo,nutriti a un tempo difiabe e di convenzioni
hollywoodiane, sitraggono d’impicciofacendo trionfarel’amore,mentreilpoveroBudai perde Epepe, dicui, colmo di sventura,nonènemmenosicurosichiami Epepe – né Bebe,néDiedie,néEtietie...
Strano libro,comunque, se neltentativo di collocarlo
ricorro da una parte auna delle storie vere piùdisperate di cui sia maivenuto a conoscenza,dall’altra a unacommediafantasticaallaFrank Capra. Stranolibro, che stona nellaproduzione del suoautore al punto che si ètentati di chiedersi: «Mache gli è preso?». Diquestaproduzione,perla
verità, il lettore franceseconosce assai poco,poichésonostatitradottisolo altri due racconti:Automne à Budapest èuna rievocazione sottilee relativamente audacedella rivoluzione del1956 e della suarepressione a opera deicarri armati russi; L’Âged’or è una commediaagra sugli amori di un
giovane dongiovanniebreo, nascosto in unedificio di Budapest neldicembre del 1944,mentre i sovieticiassediano la città e ilpartito filonazista delleCrocifrecciateviimponeilterrore.1Aquell’epoca,come ho appreso dallafiglia e traduttriceJudith, lo stesso FerencKarinthyavevadisertato
e si era imboscato in unospedale di Budapestdove, per giustificarequasi un anno dipermanenza, subì nonmeno di quattrooperazioni del tuttoimmotivate ma innocue:tonsille, appendice,adenoidi ... la quartaJudith non ricorda piùquale sia. Dal padreFrigyes Karinthy, uno
dei più famosi scrittoriungheresi fra le dueguerre, Ferenc avevaereditatounavisionedelmondo umoristica edistaccata, chebilanciavalaserietàdellasua attività sportiva.Campione di nuoto e dipallanuoto da giovane, èstato poi allenatore diuno dei più importanticlub dell’Ungheria, e
infine arbitrointernazionale, cosa che,oltre agli impegniletterari, lo ha fattoviaggiare in tutto ilmondo. Ha condottogiochi radiofonici,pubblicato decine diromanzi e pièce teatrali,tutti di ispirazionerealistica. Comunistafino al 1956, si è poiastenuto da qualunque
presa di posizionepolitica limitandosi a unruolo di osservatoreironico. Non voleva anessuncostoesiliarsidalsuo paese, e soprattuttodallasualingua–benchécome Budai ne parlassemolte altre. È morto nel1992elesueopere,comequelle di suo padre, perquanto in misuraminore, continuano a
essere lette in Ungheria.Eccoilpocochesodilui,e onestamente, se alritorno da un viaggio inGiappone non avessescritto Epepe, non avreialcun motivo di saperlo.MahascrittoEpepe.
L’hoappenarilettoperscrivere questaprefazione e mi accorgoche è la seconda volta.
Intendo: che lo rileggo,perciòèlaterzavoltacheloleggo.Nonsonomoltiilibri che si leggono trevolte in cinque anni. Misono divertito, per icinque che sono appenapassati, a stilare la mialista: Ethan Frome diEdith Wharton,Preghiera per Černobil’ diSvetlana Aleksievicč,AusterlitzdiW.G.Sebald,
Autobiographie de monpère di Pierre Pachet,Morire dentro di RobertSilverberg. Questi librihanno in comune unatonalità cupa e anchedesolata. I dueamericani, Wharton eSilverberg, raccontanostorie di solitudinestrazianti ma senzariflesso nella storiacollettiva. Gli europei,
invece, descrivono più omeno direttamente gliesperimenti sul genereumano che sono staticondotti su grande scalanell’Europa del secoloscorso. Il romanzo diFerenc Karinthy rientranella narrativa pura,ammesso che una cosasimile esista: narrativada orologiaio, ludica,chiusa sul proprio
risultato. Ma anch’essoaffonda le sue radici inciò che Georges Perecchiamava«l’histoireavecune grande hache».2
Sonostatolìlìperbarare,diecirighesopra,nelfarel’elenco delle mieriletture recenti, perincludervi dei libri chenon ho letto tre voltenegliultimicinqueanni,ma che avevo voglia di
nominare come si havogliadinominarequelliche si amano. Pensavo aW o il ricordo d’infanzia,e all’improvviso penso, emi pare assolutamentecerto,cheaPerecsarebbepiaciutodamattiEpepe.
1. Presso Adelphi è incorso la traduzione del
Aripensarciinseguito,non può che essereandata così: nellaconfusione dello scaloBudai deve aversbagliato uscita, è salitosuunvolodirettoaltrovee per qualche motivol’equivoco è sfuggitoanche al personaledell’aeroporto. Aposteriorinonsièpotutoneppure chiarire verso
doveeperquantotempoabbia volato, perché nonappena i motori hannocominciato a girare luiha reclinato lo schienalee si è assopito. Eraesausto per la mancanzadi riposo dei giorniprecedenti, avevasbrigato una gran moledi lavoro, fra cui larelazioneperilcongressodi linguistica a Helsinki,
doveeradiretto.Duranteil volo lo avevanosvegliato una volta solaper servirgli il pranzo,poi si erariaddormentato, forseper dieci minuti, forsedieci ore, forse più.Oltretutto era senzaorologio, perché avevaintenzione dicomprarsene uno là e alritorno non voleva
presentarsi alla doganacondueorologi;cosìnonaveva la minima idea diquanto fosse lontano dacasa. Si accorse di nonessereaHelsinkisolopiùtardi, quando arrivò incittà; all’inizio ignoravadove si trovasse.All’aeroportoeranosalitisul pullman, facevafreddo, era già buio, unasera o notte di vento, e
lui era ancorainsonnolito. Il veicolofermò varie volte, moltiscesero; Budai era giàstato a Helsinki, ma orascrutava invanol’oscurità alla ricerca diqualche palazzo noto odel mare. A una fermatascesero tutti, e ilconducente fece cennoanche a lui. Si ritrovòsotto una tettoia,
all’ingresso di unalbergo, circondato dauna folla di persone chetiravano da ogni partetrascinandolo via daisuoi compagni diviaggio, e gli ci volle unpo’perliberarsidaquellacalca. Un grasso uscierein pelliccia e con unberrettobordatod’oroglirivolse un solerte salutomilitareespinselaporta
avetri,maquandoBudaigli parlò in finlandesequello non parve capire,rispose in una linguasconosciuta, gli indicò lahall e non ci fu tempoper altri chiarimentiperché tutti premevanoperentrare.
Anche alla receptiondell’albergo c’eranomolte persone in attesa.Budaidovettemettersiin
coda e quandofinalmente si trovòdavanti al portiere, unuomo con i capelli grigiin uniforme scura, allesue spalle una famigliachiassosa e carica dibagagli, composta dapadre, madre e trebimbetti agitati,cominciòapressarloconimpazienza e perfino aurtarlo: a quel punto
successe tuttorapidamente, quasi suomalgrado.Parlòdinuovoin finlandese, ma ilportiere non lo capiva,alloraprovòininglese,infrancese, in tedesco, inrusso, senza successo: ilportiere rispose inun’altra lingua, cheBudai non aveva maisentito. Mostrò ilpassaporto, il portiere lo
prese, sicuramente perregistrareisuoidati,eglidiede una chiaveattaccata a una sferad’ottone. Tra le paginedel passaporto Budaiaveva infilato unassegno di viaggio indollari,lasuadiariaperilsoggiorno, il portiereprese anche quello, giròla manovella di unacalcolatrice manuale e,
lettoilrisultato,compilòin fretta un piccolomodulo già timbrato, untitolodicreditoinvalutalocale, accompagnando isuoi gesti con un fiumedi parole. Budai cercò diprotestare perché nonaveva intenzione dicambiare l’assegno, manon riuscì a farsi capire,e alle sue spalle lanumerosa e strepitante
famigliaglistavasemprepiù addosso,sventolando fogli in uncrescendo di strilliinfantili, mentre ilportiere gli indicava diandareallacassa;fucosìche, vedendo che erainutile insistere, lasciòloro il posto e si diresseversolosportello.
Anche lì c’era unalungacodacheavanzava
a passo di lumaca; simise in fila, sempre piùinfastidito,poichéoraglisarebbe toccatosistemare quellasituazione assurda. Lerapide frasi del cassiereglisuonaronoestranee,enon ebbe il tempo dispiegarsi neanche qui –inognicasononavrebbesaputochecosaspiegare,einchelingua.Ricevette
un fascio di grandibanconote nuove dizecca, qualcuna piùpiccola e sgualcita e unamezza manciata dispiccioli; si ficcò il tuttoin tasca senza badarcitroppo.Eraunafaccendaseccante e al tempostesso ridicola, ecominciò a riflettere sucosa potesse essererealmente successo.
ForseHelsinkinonavevaaccordato all’aereo ilpermesso di atterrare acausa del cattivo tempoederanofinitiinun’altracittà? Ma in quel caso gliavrebbero consegnato ilbagaglio, mentre luiaveva con sé soltanto laborsa che avevasistemato nellacappelliera. A benvedere, l’unica cosa che
poteva essere accaduta èche al momento delloscalo fosse salitosull’aereo sbagliato e, seera andata così, la suavaligia era approdatasenza di lui a Helsinkicome indicava ilbiglietto, ma – si accorsein quell’istante – nonaveva più neppure ilbiglietto, lì per lì nonricordava se qualcuno
gliel’avesse ritirato,all’aeroporto o altrove.Aveva lasciato a casa, inun cassetto, la cartad’identità e le altretessere, e si ritrovavaprivo di qualsiasidocumento. Eppure erala cosa che meno loinquietava, in qualchemodo tutto si sarebberisolto, l’essenziale eraarrivare a Helsinki. Ma
prima doveva spiegare aqualcunodadovevenivae come fosse capitato là,e bisognava trovarlo,questo qualcuno, peresempio alla sede localedella compagnia aerea e,certo, anche questaandava trovata. Davantialla reception la fila eraaddirittura più lunga, elui non aveva voglia dirifarelacoda;tantomeno
agli altri sportelli, chenon riusciva a capire acosafosserodedicatiesepotevano servire perchiarimenti einformazioni. C’erano sìdelle targhette qua e là,sui lunghi banconi, maerano indecifrabili,scritte in lettere maiviste, come le parole cheaccompagnavano leimmagini e i manifesti
appesialleparetioititolidellerivisteedeigiornaliin vendita. Non potéesaminarli perché la hallera completamenteinvasa da unamoltitudineondeggiantee tumultuosa: se solotentava di fermarsiveniva spinto etrascinato via. Perciòpreferì rimandare a piùtardi, avrebbe risolto le
cosealtelefono,dallasuastanza.
Sullasferadellachiavericevuta alla receptioneraincisoilnumero921,così immaginò che lacamera fosse al nonopiano. In fondo alla halltrovò gli ascensori: neerano in funzione tre suottoedavantiaciascunostazionava un foltogruppodipersone.Budai
aveva pensato di salire apiedi, ma dopo essersiguardato intorno incerca delle scale, senzavederle, aveva deciso dinon abbandonare il suopostonellacoda.Civolleun quarto d’ora perchéarrivasse il suo turno equando salirono eranocosì tanti che stavanopigiati uno addossoall’altro. A manovrare
l’ascensore era unaragazza alta e bionda, inuniforme blu, che difrequente si rivolgeva aipasseggeri in quellaincomprensibile lingua,probabilmente perchiedere dovescendevano, quindifermavalacabinaaquasitutti i piani. L’ascensoreerapresod’assalto,enonappena si svuotava
risucchiava una nuovaondata di passeggeri.Vicino alla ragazza, sullaparete della cabina,girava un piccoloventilatore, e a Budaivenne da chiedersi comefosse possibile lavorarein una gabbia chiusa esoffocante, con tuttaquella gente, magari perore, per un intero turnodilavoro.Masiaffrettòa
scacciare quel pensiero:non era affar suo, se nesarebbe andato al piùpresto da quel posto, ilgiorno stesso, siaugurava, o al massimol’indomani mattina.Prima del nono pianofece un segno perscendere, e insieme aparecchi passeggerisgusciò fuori dallacabina: lo spazio lasciato
libero fuimmediatamenteriempito da nuovepersone. Nei corridoi,invece,mentrecercavalasuacameranonincontrònessuno: si incamminòin varie direzioni,vagando, contando inumeri avanti e indietroin cerca della 921, mac’erasempreunangolooun corridoio a
interrompere lasequenza di porte. Perben due volte ripassòdagli ascensori, e allafine se la trovò davanti,in fondo a un remotocorridoiolaterale.
La camera eraminuscola, mal’arredamento eramoderno e confortevole,con un divano, unarmadio, uno scrittoio
provvisto di telefono eabat-jour, un comodinocon una lampada dalettura. Nella angustastanza da bagno c’eranouna doccia, unlavandino,l’acquafreddaecalda,ilwater,specchi,asciugamani. Benché inentrambi i locali ci fosseun piacevole tepore, nonsi vedevano caloriferi,dovevano essere
incassati nelle pareti.Alle finestre c’eranotapparelle e tende distoffa, e fuori, di fronteall’albergo, si vedeva unedificio simile, alto elargo, punteggiato difinestre illuminate ebuie. Un unico quadrocampeggiava su unaparete, un dipinto a olioprotetto dal vetro:raffigurava un pendio
innevato con due abeti ecerbiatti saltellanti sullosfondo. Accanto allaporta c’era un foglio inuna cornicetta, forse letariffe o il regolamentodell’albergo, scritto neglistessicarattericheavevavisto giù al pianterreno.Non riconobbe il tipo dialfabeto, ma certamentenon corrispondeva anessuno di quelli che
conosceva: non era nélatino né greco, non eracirillico, né arabo oebraico,enonsitrattavaneppure di caratterigiapponesi, cinesi oarmeni – un tempo,all’università, avevaavuto modo di studiarequalcosa anche di quellelingue. Qua e là, però,disseminati in quellascrittura totalmente
sconosciuta, spiccavanodei numeri arabi. Alloracercò il denaro ricevutoin cambio dell’assegno;con le scritte nonapprodò a nulla, masotto i soliti paesaggi oritratti riconobbe inumeri: diciotto bigliettida 10 nuovi fiammanti,qualchealtroda1eda2,e monete di diversovalore. Ma era troppo
stanco e intorpidito perproseguire nell’indaginedi quella faccenda, eanchesporcoperillungoviaggio. Presel’occorrenteperlavarsie,già che c’era, tirò fuorimetà delle cose cheaveva nella borsa. Perfortuna, per evitare chela valigia superasse iventi chili, lui e suamoglie avevano stipato
parecchia roba in quellaborsa di tela con lacerniera lampo:biancheria, pigiama,pantofole, il nécessaire,un paio di scarpe, unpullover, due bottiglie divino da regalare e altrecose... Strano cheall’arrivo in aeroportonon avesse pensato allavaligia; è pur vero chenon ne aveva avuto
modo, tra la fretta, ilsonno e la confusione diquando li avevanocaricati sul pullman. Oforse aveva creduto chela valigia fosse nelbagagliaio.
Si fece una doccia, sirase davanti allospecchio, indossò dellabiancheria pulita; quellausata la lavò subito,com’era sua abitudine, e
la appese ad asciugaresui rubinetti e sulbraccio della doccia. Poisi mise allo scrittoio efece qualche tentativo altelefono: in camera noneradisponibileunelenconénientedelgenere,cosìcompose dei numeri acaso, più volte, finchénon trovò qualcunoall’altro capo del filo.Risposero in molti, voci
maschiliefemminili,main qualunque linguaparlasse e per quantoripetesse e perfinourlasse la parolainformazione tutti siesprimevanonellastessaincomprensibilemaniera, una sequenzadi suoni chioccianti eapparentementeinarticolati: ebebe opepepe, etete o cose
simili; il suo orecchiofine, addestrato acogliere le varianti e lesfumature più sottili,non riusciva adistinguere altro che unborbottio gracchiante.Alla fine sbatté giù lacornetta con un risolinonervoso, seccato di nonaver concluso nulla. Eper giunta era affamato,chissà quante ore erano
che non mangiava. Sivestì, chiuse la stanza escesedabasso.
L’ascensorista questavolta era una donnaanziana, non la ragazzabionda, o forse eraun’altracabina,esemprestracarica. Nell’atrio,dietroalbanconevideunnuovo portiere al postodiquellocoicapelligrigi,ma la fila in attesa non
era diminuita. Neppurequesto portiere capìBudai, né Budai capì lui;era inconcepibile che inun albergo così grandeimpiegassero personalecosì incompetente, chenon sapeva parlarenessuna delle lingue piùdiffuse nel mondo. Lepersone cominciarono arumoreggiare, dal fondodella coda gli gridarono
qualcosa, gesticolavano,gli indicavano dimettersi alla fine delserpente umano perchéli aveva superati:confuso, Budai posò lachiave sul bancone e siallontanò.
Nella hall la folla nonsi era diradata, e tra urtie spintoni si aprì unvarco fino alla porta avetri. Il grasso usciere in
cappotto di pelliccia eberretto con il nastrodorato accennò anchestavolta il salutomilitare. Fuori, ilmarciapiede era gremitodiunamoltitudinechesispandeva e turbinava inogni direzione. Tuttiandavano di fretta,trottando, sgomitandoper fendere la calca emalmenandosi; una
vecchinacolfazzolettointesta che si trascinavaaccantoaluiglisferròuncalcio alla caviglia, e fucolpito più volte sullaschiena e sul fianco.Sullacarreggiataiveicoliavanzavano in colonnedense, frenando eripartendo di scatto,tantocheeraimpossibileattraversare, in uningorgo generale con
nervosieincessanticolpidiclacson:videunagranvarietà di automobili ecamion, furgoni datrasporto, filobus eautobus, ma nonriconobbe nessunamarca o modello,nemmeno stranieri.Doveva essere l’ora dipunta, e da qualsiasipartetentassediaggirarela baraonda, prima a
destra, poi a sinistradell’uscitadell’albergo,sitrovava davanti semprela stessa congestione.Allora svoltò in unatraversa: anche lì ilmarciapiede era invasodi persone e la stradabloccata da fiumi dimacchine. Riuscì a farsilargo con fatica. Certo,non voleva nemmenoallontanarsi troppo,
perché temeva diperdersi e non ritrovarelastradaperl’albergo.
In alto sfolgoravanoinsegne luminose e lamaggiorpartedeinegoziera ancora aperta.Vendevanoditutto,nellevetrinec’eranoarticolidiogni tipo: abiti, scarpe,stoviglie, fiori,elettrodomestici,tappeti,mobili, biciclette,
profumi, articoli diplastica... queste le cosechevidesolopassando.Eovunque una marea diclienti, le code sisnodavano dentro inegozi e spesso siprolungavano fino instrada. Particolarmenteassediate erano duegastronomie che Budaisuperò in quel brevetragitto, e con un grosso
sforzo: sul marciapiedela calca era quasiimpenetrabile, chirestavafuoridalnegoziosi assembravaall’ingressodisponendosi in colonnecompatte. Riuscire acomprare qualcosa gliparve un’impresadisperata. La fame peròlo tormentava, e fu consollievo che scorse un
ristorante poco più in là,dietroallegrandivetrinevidetavoliapparecchiati,clientichemangiavanoecamerieri in giaccabianca. Purtroppo c’erala coda anche lì, e moltolenta, perché lasciavanoentrare la clientela colcontagocce, tantepersone quante neuscivano. Condiscrezione, si mise a
osservare quelli chestavano in fila insieme alui. Ce n’erano siabianchicheditantealtrerazze: due ragazzi nericome il carbone e coicapelli crespi, più avantiuna donna dalla pellegialla con gli occhi amandorla in compagniadella sua bambina, deitipi alti dall’aspettogermanico, un uomo
grasso, mediterraneo,con il viso lucido disudore,inuncappottodicammello, malesi con lapelle scura, facce dailineamenti arabi osemitici, una ragazzalentigginosa coi capelliramati in pullover blu emunita di racchetta datennis: sarebbe statodifficile individuare unarazza o un colore
predominante, per lomeno là, davanti alristorante.
Dopo quaranta minutibuoni di attesafinalmente lo feceroentrare; consegnò ilsoprabito al guardarobae in cambio gli diederoun numero. I tavolierano tutti occupati, eimpiegò parecchio atrovare un posto in
fondoallasala.Domandòin inglese il permesso disedersi, ma nessuno locapì:alzaronolosguardodaipiatticonespressionevacua, poi continuaronorapidiamangiare.Anchelì avevano tutti fretta.Passò un’altra mezz’oraprima che arrivasse ilcameriere, certo, era purvero che lo chiamavanoda ogni parte e non era
mai libero. Sparecchiòsotto il naso di Budai,tolse piatti e bicchieriusati e li sostituì con uncoperto pulito, poi glimise davanti il menu eBudai non riuscì adecifrarne neppure unalettera.Cercòdispiegarloall’anzianocamerieremaquesti si strinse nellespalle,farfugliòqualcosadi incomprensibile e se
ne andò, richiamatoaltrove; Budai si rivolsedi nuovo ai suoicompagni di tavolo,parlò loro in sei o ottolingue, ma senza ilminimo risultato, nondavano nessun segno dicapire e a malapena glibadavano. Era semprepiù nervoso, aveva lostomaco stretto dallafame e dalla tensione, e
sul tavolo non c’eranemmenounpo’dipane.Il cameriere tornò dopouna ventina di minuti,portando al suo vicinouna bella porzione dipollo arrosto con unricco contorno, e benchéBudai tentasse dicomunicare a gesti chevoleva proprio la stessacosa quello si allontanò,senza lasciar intendere
se aveva recepitol’ordinazione oppure no.Nel frattempo nuoviclienti presero il postodei precedenti, ilcameriere rispuntòall’altro capo del tavolo,sparecchiò, servìpietanze e alcunipagarono il conto: diBudai non si curò e sidiresserapidamenteaunaltro tavolo. Budai gli
fece pss pss e si sbracciòfinché quello non tornò,mafusolopergracchiarequalcosa fra lo stizzito el’indignato, scandendocon foga le parole; sedomandasse pazienza odicesse che non potevaoccuparsi di lui, eraimpossibile capirlo.Budai ormai faticava adominarsi, si agitavasulla sedia, non sapeva
più cosa fare, dovevaaspettare o che altro?Quando il cameriereriapparve continuando aignorarlo anche questavolta, picchiò la manosultavolo,spostòlasediacon un calcio e siallontanò esasperato. Alguardaroba c’era la codaper ritirare il soprabitoperché il viavai eraaumentato, e Budai
avrebbe voluto prenderlia spintoni dalla rabbia.Pagò l’addetto con unamonetina: il vecchiodoveva essernesoddisfatto perchéborbottò qualcosa chesembravaungrazie.
Già, ma non avevaancora mangiato, ormainon riusciva a pensaread altro. Per stradaproseguì sgomitando
nella ressa che nondiminuiva, si fece largocon le mani e coi piedifino a quando, a prezzodicalciepugni,quasideicorpo a corpo perguadagnare qualchemetro, dopo una lungaricerca, più o menoottocento metri oltre ilristorante si imbatté inquella che pareva unatavola calda. Il locale era
gremito di persone infila,echissàperchecosa;si mise in fondo a unacoda qualsiasi.Procedevano piuttostolentamente; solo piùavanti scoprì che ilserpente umano facevacapo a una cassa dove sipagava, veniva rilasciatouno scontrino e di lì lacoda proseguiva nellavasta sala fino al
bancone dal latoopposto, dovedistribuivano i piatti.Quando arrivò alla cassala donna in camiceazzurro lo guardò inattesa: Budai precipitònell’imbarazzo e nonriuscì a proferire alcunsuono, ma tantoqualsiasi cosa avessedetto non sarebbe statocapito. La cassiera lo
redarguì inquella linguasconosciuta,einrispostalui balbettò qualcheparolainspagnolo,senzasapere perché. Ma lepersone dietro di luiavevanogiàcominciatoarumoreggiare,brontolandoperiltempoche ci metteva, facendotintinnare le monetenella mano, loincalzaronoelospinsero
via:auntrattosiritrovòoltre la cassa e senza loscontrino. Il clientesuccessivo era giàdavanti alla donna incamice azzurro, eraimpossibile rientrarenella fila, erano troppoammassati, e comunquenon gliel’avrebberopermesso, avrebbedovuto rimettersi alterminedelserpente.Era
assurdo rimanere incoda senza scontrino,non l’avrebbero servito,ma non aveva altrascelta, e si lasciò portaredal flusso. E quando allafine arrivò al bancone,dove ognunoconsegnava il fogliettoricevuto alla cassa alpersonalecolcappellodacuoco e otteneva incambio cibo e bevande,
solo lui gesticolava amani vuote, tentandoinutilmente di spiegarsi.Senza scontrino non glidiedero retta, gli feceropassare sopra la testa esotto il naso piatti pienidi arrosti e di pasticci: aquelpuntopestòipiedietirò un pugno nell’aria –chi gli garantiva chedopo un’altra fila cel’avrebbefatta?
Si trascinò in strada,abbacchiato e avvilito, eaveva ormai perso ognisperanza di cenarequando all’angolo scorseuna vecchietta chevendevacaldarroste,conappena tre o quattropersone che aspettavanoattorno al braciere dighisa. Impiegò mezzominutoperarrivarci,maanchequinonglivalsero
la sua professione dilinguista e la suaconoscenza più o menobuona di almeno ventilingue; per farsi capiredovettericorrereaisegnicome un sordomuto.Comprò tutte lecastagne, unaquarantina, non neaveva mai prese cosìtante. Pagò con unabanconota di piccolo
taglio e la vecchietta glidiede perfino il resto. Lemangiò subito, roventi,intanto che camminava,le divorò avidamente,scottandosi la lingua, ementre mangiava glivennero le lacrime agliocchi, provò pietà per séstesso, si sentiva cosìsperduto ed estraneo inquella città. Via, via: erail suo unico pensiero,
tornare in albergo,prendere il bagaglio eandarsene, al più presto,in aereo, in treno, conqualsiasi mezzo, pur dinon rimanere in quelposto un giorno, un’oradipiù.
L’usciere gli spinse laporta a vetri; al bancodella reception c’era unaltro tizio. Al terminedell’immancabile fila
Budai non riuscì aspiegarsi neanchestavolta,invanoindicavala sua chiave appesa frale altre, il portiere silimitava a scuotere latesta con aria un po’annoiata.Allorascrisseilnumero della sua stanzasu un foglietto e cosìottenne la chiave della921. A manovrarel’ascensore c’era di
nuovo la ragazza alta ebionda in divisa blu, luila salutò con un cennodel capo, ma lei non lovide nemmeno, fissavaconariaassenteeassortaoltre la sua testa, poi lospazio fra loro si riempìdi persone e lui potérivederla solo per unattimo,quandouscì.
In camera scoprì diavere il corpo pieno di
lividi ed escoriazioni, seli era procurati nellamischia, in strada, einoltre gli era piombataaddosso una grandestanchezza; con un lievesenso di allarmeconstatò che non avevaancora concluso un belniente. Nel luogo da cuiproveniva e in quello didestinazione,acasasuaea Helsinki, forse non
immaginavano propriodove fosse finito. Ma lavera assurdità era cheneppure lui ne sapeva dipiù: al momento nonaveva la minima idea dicome ripartire, da chepartecominciare,conchiparlare, quale prassiseguire... Fu assalito dauna sensazione sinistra,unoscurosensodicolpa,il sospetto di aver
tralasciato qualcosa, dinon aver fatto quel cheandava fatto, ma eranopensieri senza risposta.Inpredaall’ansiasibuttòdi nuovo sul telefonoostinandosi a comporrenumeri a caso: dovevaessere notte fondaormai, all’altro capo delfilo si sentiva squillarema risposero solo pochevociassonnate,esempre
in quella linguasingolare, esotica,inintelligibile, una sortadibalbettioinarticolato.
Per via della suaprofessione Budai avevaun acuto senso dellalingua: il suo campo eral’etimologia, lo studiodell’origine delle parole.Nel corso del suo lavorosi era occupato dellelingue più disparate:
senza contarel’ungherese e ilfinlandese,naturalmente, tra lelingue ugrofinnicheaveva studiato il voguloel’ostiaco,poiconoscevail turco, qualcosa diarabo e di persiano,nonché il paleoslavo, ilrusso,ilceco,loslovacco,ilpolacco, ilserbocroato.Ma la parlata di quel
luogo non ricordavanessuna di queste, enemmeno il sanscrito,l’hindi, il greco antico omoderno; e non potevaessere una linguagermanica, poiché Budaisapeva il tedesco,l’ingleseeancheunpo’diolandese. Conosceva illatino, il francese,l’italiano e lo spagnolo,masticava il portoghese,
il romeno, il ladino, eavevanozionidiebraico,armeno, cinese egiapponese. La maggiorparte, ovviamente, leconosceva soltanto periscritto, avendolestudiate sui libri quandosi era occupatodell’origine di certeparole, ma eraabbastanza per rendersiconto che quell’idioma
non somigliava anessunadiesse,eperciò,in base al solo orecchio,non era in grado dicomprendere a qualegruppo linguisticoappartenessero quegliedede,ghiaghiaghia–cosìsuonavano all’incirca.Andò a staccare il testoincorniciato accanto allaporta, e alla scrivania,alla luce della lampada,
loesaminòconmaggioreattenzione. Ma nonvenne a capo di nulla,non aveva mai vistocaratteri del genere,tentò di leggerli in unsenso e nell’altro,invano. Non capìneppure se si trattava diuna scrittura alfabetica,comelelingueeuropee,osillabica, come ilgiapponese, o di
ideogrammi, come ilcinese,odiunascritturaconsonantica, come leantiche scritturesemitiche o l’aramaico;di nuovo, non riuscì afarsi una ragione deinumeri arabi presentinel testo. Ma ormai eratalmente esausto che ilsuo cervello nonragionava più e preferìrinviare all’indomani
ogni chiarimento; sispogliòesicoricò.
Aveva l’abitudine dileggere una mezz’oraprima di dormire, e siaccorse di non averenulla: i libri, gli appunti,la relazione per ilcongresso, era tuttonell’altra valigia, quellagrande. Si rialzò, svuotòla borsa, ma niente; sistizzì per non aver preso
almeno un giornale ouna rivista sull’aereo. Sirigirò a lungo nel letto,senzaaddormentarsi,poidecisediaprireunadellebottiglie di vino rossocheavevaportato.Provòa cavare il tappo con lalama del coltellinotascabile, ma ottennesolo di sminuzzarlo inpezzi che spinse dentrolabottiglia.Nonpotendo
richiuderla finì per berlatuttaapiccolisorsi,eneifumi di un’ebbrezzasenzapensierisprofondòfinalmentenelsonno.
Il mattino dopo sisvegliò intontito e con ilmalditesta;iltempoeragrigio ma non pioveva.Dalla finestra chiusaguardò giù in strada,perfinodalnonopianosivedevalafollainbasso,il
flussoneroecontinuodiveicoli e pedoni. Sisentiva lo stomaco fuoriposto, aveva bevutotroppovino,esispazzolòi denti a lungo pereliminare il saporesgradevole che aveva inbocca. Fece una doccia,strofinandosi il viso e lafronte sotto il gettod’acqua caldissima, siasciugò energicamente
dallatestaaipiedi,conilgrande telo di spugna,finoadarrossarelapelle.In una tasca lateraledella borsa scovò unpanino al salame che gliera sfuggito: l’avevacerto messo lì suamoglie, per il viaggio.Poteva mangiarlo percolazione,magariconuntè, ma non c’era tracciadi un campanello per
chiamare la cameriera oun inserviente. Forsebisognava usare iltelefono, ma avrebbedovuto sapere qualenumerocomporreecosachiedere, insomma, sisarebbe ritrovato nellastessa situazione dellasera prima... Di colpo fupreso dall’impazienza eda una lucida voglia diagire: basta,
quell’assurdità eradurata fin troppo, luiaveva affari urgenti dasbrigare a Helsinki, abreve sarebbe iniziato ilcongressointernazionaledi linguistica e, sia purcon ritardo, dovevaarrivarci e tenere la suarelazione. Riempì dinuovo la borsa, la lasciòpronta sul portavaligie esi decise a scendere per
chiarire una volta pertutte quella faccenda eripartire.
Agli ascensori c’eranosempre lunghe filed’attesa, e a giudicaredalle lucine sullebottoniere stavanofunzionandotuttieotto;evidentemente almattino il viavai eramoltointenso.Budainontrovò le scale, o per lo
meno non le vide dopo icorridoi, così si rassegnòa mettersi in coda, nellafila più esterna. Gliascensori peròarrivavano di rado, perinteri minuti non sisentivacheillorofrusciodietroleportechiuse,sue giù. E quando uno sifermava ci entravanosolo in quattro o cinque,perché le cabine si erano
già riempite ai pianisuperiori – a quell’orascendevano tutti. Ilgruppochesisfoltivapiùlentamenteeraproprioilsuo, da dieci minuti nonsi aprivano le porteautomatiche; temendoche l’ascensore avessesospeso il servizio, passònella coda accanto. Edecco che l’altra fila simosse, mentre la sua si
bloccò,elepochevolteincui l’ascensore sifermavalafrecciaaccesaerasemprequellarivoltaverso l’alto; c’era daimpazzire. Quandoapprodò al pianterrenoBudai era ricoperto disudore, per la calca e larabbiarepressa.
Nella hall c’era lostesso affollamento delgiorno prima, forse di
più: capannelli di gente,persone in fila, altri checercavano diattraversare la salasgomitando; non erachiaro se fossero tuttiospiti dell’albergo oaltrimenti che cosa cifacessero lì. Iniziò adaprirsi un varco nellaressa fino alla reception,e gli occorse un sacco ditempo, forse una
mezz’ora, prima ditrovarsi al cospetto delportiere di turno. Eranuovo, non l’aveva maivisto, ma al pari deglialtri non capiva Budai erispondeva con lo stessoincomprensibilecicaleccio. Budai nonriuscìpiùadominarsi,fucolto da un accesso dicollera e, rosso in viso,picchiando la mano sul
banconepreseaurlareinvarielingue:
«Skandal, einSkandal!... C’est unscandale, comprenez-vous...?».
Gridòtuttoquelchegliveniva in mente,protestava che glirestituissero ilpassaporto e il bigliettoaereo,volevaparlareconil direttore, pretendeva
che chiamassero uninterprete; si abbandonòalle minacce, ripetevapass, passport,passaporto; la scenataattirò l’attenzione emolti gli si assieparonointorno. Il portiereallargava le bracciaperplesso,alloraBudaisisporse sopra il bancone,afferrò l’anzianoimpiegato per le spalle e
cominciò a scuoterlo, aurlargli in faccia. Senzacostrutto, dato chequesti non capiva unaparola, né gli altritestimoni della scenadavano il minimo segnodi intendere. Erano lì adaspettare il loro turno e,ormai spazientiti,premevano, ognunointeressato al propriocaso;tuttofinìinniente,
come una bolla disapone, il portiere siriaggiustò la giacca eBudai si perse d’animo,imbarazzato.Sitrattenneancora un momento,cercando con lo sguardolo schedario ol’armadietto dovepotevano esserecustoditiipassaporti,manon c’era modo dioltrepassare il bancone
per raggiungere l’ufficiodella reception; provòancheunpo’divergognaperilputiferiocheavevascatenato, non eradavvero nel suo stile. Sirese conto che sarebbestato penoso esoprattutto inutileesasperare la situazione,e dopotutto neanchequelli alle sue spallepotevano restare là in
eterno.Così,dopoessersiasciugato il collo e lafronte, e essersi soffiatoil naso, cedette e insilenzio, docilmente, silasciò spingere via,ancora una volta senzaaverconclusoniente.
Nella hall c’erano deigrandi tavoli rotondicircondati da poltrone;una si era appenaliberata.Andòasedersie
chiuse gli occhi. Magarituttoquestononeraveroe lui si trovava già aHelsinki, o ancora nelsuo paese, non si eramossodacasa.Oppuresitrovava là, ma ormaieranovenutiasaperedelsuoinconveniente,dilìapoco sarebbero arrivati,si sarebbero scusati, gliavrebbero spiegato; ognicosasisarebbechiaritae
sistemata. Forse eraquestione di pochiminuti, bastava contarefino a sessanta, almassimo fino a cento...Ma quando riaprì gliocchi vide la halldell’albergo e quellamassa di gente inmovimento, le scritte e imanifesti turisticiilleggibili, i paesaggi e legigantografie alle pareti
esullecolonne,igiornalidai titoli misteriosi eindecifrabili, uomini,donne, vecchi e giovani,persone di ogni tipo enatura. In quell’istantegli passò davanti unostrano corteodall’aspetto esotico, unaspecie di delegazione disacerdoti, vegliardibarbuti, per la maggiorparte di pelle scura,
vestiti con un lungocaffettano nero, ilcopricapo viola, cinturecolorateallavitaegrossecatene d’oro al collo: lafolla si apriva conrispettoalloropassaggiomentre incedevanomaestosi uno dietrol’altro.
Si sforzò di mantenerela calma: urla e strepitinon conducevano a
nulla, questo era chiaro.Provò a riorganizzare isuoi pensieri:innanzitutto dovevarecuperare il passaporto,questa era la cosa piùurgente, e naturalmenteanche il biglietto aereo,senza il quale nonsarebbepotutoandarenéa Helsinki né, dopo ilcongresso, rientrare inpatria. Con i documenti
inmanosisarebbepresoiltempodiscopriredovesi trovava, come c’erafinito,dichieralacolpa,in che modo era statocatapultato in quellastupida avventura e cosìvia... Ma prima di tuttodovevametterequalcosasotto i denti, poichéaveva fatto una magracolazione e lo stomacoglielo chiedeva con
prepotenza,naturalechepoi fosse nervoso. Nonera possibile cheall’interno dell’albergonon ci fosse unristorante o qualcosa disimile.Decisedicercarlo.
Affrontò la bolgia efece il giro della salad’ingresso, che eravastissima, cento ocentocinquanta metri dilunghezza e la metà in
larghezza. Da un latodella sala si vendevanosouvenir e altri oggetti:si mise a osservare lebambole, le statuine, icofanetti dipinti,braccialetti, spille e altrecianfrusaglie, lemacchinefotografichedimarca sconosciuta, ibinocoli da teatro. Preseun portachiavi da unripiano di vetro, c’era il
disegno di un bastione odi una torre con unascritta, probabilmente sitrattava di unmonumentocaratteristico della città:edificio ignoto, scrittaindecifrabile. Ciònonostante decise che,prima di andarsene, sene sarebbe compratouno, in ricordo diquell’assurda storia,
della notte trascorsa inquelposto.
Non riuscì però atrovare il ristorante, puravendo perlustrato conattenzione tutta la hall eperfino chiestoindicazioni a un signore,ripetendo le parolerestaurant e buffet;siccome quello silimitava a guardarlo conariaottusaBudaimimòil
gesto di mangiare,portando la mano allabocca. Allora l’uomo, untizio allampanato colnaso adunco, sembròcapire e alzando la voce,unavoceaspra,glichiesequalcosa che suonavacome:
«Patiaghiaghiabbu?Vevetereplibobo...?».
Ma può anche darsichedicessetutt’altro–in
quella città articolavanole parole in una manieracosì strana che a Budairiusciva impossibilescriverle, benchéconoscesse allaperfezione e usasseregolarmente l’alfabetofonetico con cui ilinguisti annotano i piùvari tipi di suoni e le piùsottili sfumature dipronuncia. Il tizio
berciava con tonosgradevole e quasiprovocatorio, ora l’avevapure afferrato per ilbavero della giacca eindicava in alto, non erachiaro verso che cosa.Budai avrebbe volutoandarsene, ma quellonon lo mollava, lotratteneva gesticolandosenza smettere di farequei versi chioccianti,
tanto che alla fine Budaidovette divincolarsi conlaforza.
Fucongrandesorpresache più tardi scoprì unascalinata all’angoloopposto della hall: unalarga scala con labalaustra di marmo,ricoperta da unapassatoia rossa, chesalivaalpianorialzato,oprimo piano, e
conduceva a uncorridoio. In fondo alcorridoio c’era un’ampiaporta a vetri, maentrambiibattentieranostati staccati eappoggiati al muro; al dilà della porta, si aprivaun vasto locale con ilsoffitto a volta,ingombrodiimpalcaturesullequalisimuovevanosu e giù alcuni
imbianchini, lanciandosigrida. Al centro, perquanto poté scorgere trai ponteggi, sembravaesserci una statua o unafontana ricoperta da untelo, da un lato unenorme bancone e,dietro, una pedana conun pianoforte protettoda un drappo; in unangolo, accatastati,tavoli e sedie in gran
quantità;eingiroschizzidi pittura, e malta ecalcinaccisulpavimento.Non c’era alcun dubbio,era il ristorante,temporaneamentechiuso per i lavori diimbiancatura. Adessocapì che cosa cercava didirgliiltizioallampanatoe perché indicava coninsistenza verso l’alto.Uno degli operai, con la
tuta sporca, il secchio inmano e un cappellino dicarta in testa, passòaccanto alla porta: Budaitentòdichiedereanchealui, a gesti, dove potevatrovare da mangiare.L’uomo strizzò gli occhi,mormorò qualcosa diincomprensibile, scossela testa e disegnò con ilbraccio un ampio arcoche forse voleva dire: da
nessuna parte in tuttol’albergo.
Era davvero il colmodella sfortuna: dopol’infeliceescursionedellasera prima il solopensiero di uscire instrada gli ripugnava. Mamangiare bisognava,calcolòchedovevaesserequasi mezzogiorno; inmancanza dell’orologioera il suo stomaco a
segnare il tempo, e lofaceva senza tregua... Siripromise di mantenerela calma, non importadoveoquantoglisarebbetoccato aspettare. Ingenere gli aerei partonolamattinapresto,quindiormai il volo mattutinoper Helsinki era perso.Voleva mangiare asazietà, almeno unavolta, ed era disposto a
dedicare a quello scopol’intera mattinata; poi sisarebbe informato suivolipomeridianioserali.
Tornòapassolentogiùnella hall e, dopo averpazientemente atteso incoda davantiall’ascensore, si feceportarealnonopianoperprendere il soprabito.Benché la notte primaavesse trovato senza
difficoltà la sua stanza,questavoltasismarrìperi corridoi e vagò in ognidirezione finché non siimbatténella921.Eradifronte alla porta quandosentìsquillareiltelefono,girò in fretta la chiavenella serratura, siprecipitòdentro.Noneranemmeno entrato chel’apparecchio tacque e,sollevata la cornetta, udì
il solito ronzio, chesembrava il tubare di unpiccione... Si domandòchi poteva essere achiamarlo:forseavevanoscoperto cosa erasuccesso, si erano messia cercarlo e l’avevanorintracciato, e adessostavanogiàprocedendoafarlo rientrare? Sedettesulletto,immobile,nellasperanza che
ricominciasse a suonare,poi si innervosì, si coprìla testa di pugni, conrabbia: perché non eratornato mezzo minutoprima?Iltelefonotaceva,Budai lo fissò a lungopregando che squillasse,ma la fame non gli davapace; uscì dalla stanza,rientrò, guardòl’apparecchio perqualche minuto, e poi si
deciseauscire.Allareceptionsilimitò
a consegnare la chiavesulbanco,infilandositrale persone;un’operazione semplice,che pareva consentita.Per strada il traffico nonera affatto diversorispetto alla seraprecedente, si trovò inmezzo alla stessaquantità esorbitante di
veicoli e pedoni, traclacson,ressaeurti:nonriusciva a spiegarsi dovesidirigevanotutticosìdifretta a quell’ora,tornavano dal lavorooppure ci stavanoandando, e in ogni caso,chi era tutta quellagente, da dove venivaquella pienainarrestabile di esseriumani?... Nessuno si
curava di lui, non lodegnavano diun’occhiata, ma se sidistraeva per un istante,se solo si fermava aguardarsi intorno,veniva immediatamentepreso a spintoni efaticava a rimanere inpiedi. Capì che se volevaottenerequalcosainquelluogo doveva ricorrereanche lui alla forza, alle
spallate e alle gomitate.Masiaffrettòascacciareunpensierocosìsubdolo:da quel posto lui nonvoleva proprio niente, senonmangiareasazietàeandarsene al più presto,adieu,finedellastoria.
Il tempo era nuvolosoe freddo, quasi si gelava,e soffiava un ventofastidiosoetenace;alzòilbavero del cappotto e si
calcò il cappello sullafronte. Si avviò nelladirezione opposta aquelladelgiornoprimaedecise, già che eracapitato lì, di osservareciò che lo circondava.Lungo la strada videpalazzi vecchi e nuovi,grattacieliebassecasettea un piano, baracche dilegno, casermoni diquattro o sei piani dalle
facciate scrostate, e poiuna torre di vetro ecemento armato, che sislanciavaversoilcielo,epoco dopo un’altrauguale, in costruzione:non aveva punti diriferimento, non sapevase quello era il centrocittà o la periferia.Guardòlastradaconpiùattenzione, e nel trafficotumultuoso che
somigliavaaunfiumeinpiena individuò tre tipidi autobus, alcuni verdi,alcuni rossi e altribianchiemarroni,eoltrea questi dei filobus conun numero – 8, 11, 37 e137 –, ma non potevaaverealcunaideadelloropercorso. Vide anche deitaxi, o per lo meno losembravano, tante autogrigie con una striscia
rossa sulla fiancata, iltassametro e unabandierina pieghevole difronte al conducente.Provò a fare un segnocon la mano, senzanessun esito: eranopressoché tutti occupati,ma gli autisti non glibadavano nemmeno seerano liberi, forse lacorsaeragiàprenotata.Èverocheisuoicenninon
erano particolarmenteconvinti, quasi temesseche anche in quellasituazione sarebbe statoinutile cercare dispiegare, esprimersi agesti; tanto nonl’avrebbero capito, e delresto neppure lui avevachiaro dove volevaandare.
Non lontanodall’albergo il traffico si
riversava in unapiazzetta, al centro dellaqualeun’ampiascalaconil corrimano giallo siinfilava al di sotto dellivello stradale, gremitadipersonechesalivanoescendevano.Ilcoloreelaforma del corrimano glisembrarono familiari:forse la sera prima, sulpullman che l’avevaportatoincittà,neaveva
visti di simili. Quandoscattò il verde alsemaforo, una mareascura di passanti lotrascinò verso il centrodellapiazzaedilìgiùperle scale. Proprio comepensava, era unastazione dellametropolitana: ungrandeatrioovaledacuisi diramavano tanticorridoi, con frecce
dipintesuimuriecartelligrandiepiccoli–per lui,alsolito,incomprensibili– a indicare le variedirezioni. I passeggeriche uscivano ocambiavano treno siincrociavano con quelliche scendevanonell’atrio,imbottigliandosi in unacalca vorticosa e quasiimpenetrabile. Dalla
parte opposta le scalemobili che portavano allivello più bassoinghiottivano erigurgitavano senzasosta flussi di folla: inquellaressaformicolanteBudai stentava a tenersiin piedi. Ciò nonostanteprovò a farsi strada,aveva scorto un’enormemappa sulla sinistra ecercò di raggiungerla.
Invece rimaseimprigionato nellacorrentedirettaallescalemobili, che lo strappòverso l’altro capodell’atrio, ma lui nonaveva nessunaintenzionedisaliresuuntreno,noninquellacittà.Però era impossibileresistere a un taleesercito, o passarci inmezzo, e solo a prezzo di
un vero contrasto, aforza di ginocchiate epugni, e restituendospintoni, riuscì aliberarsi e portarsi aimargini del flusso, dovel’impetodellamarciaerarallentato dalla correntecontraria.
La mappa incollata suuna lastra di vetrorappresentava la retemetropolitana, con le
stazioni,icollegamentiele linee in diversi colori;era uno schemapiuttosto intricato diraggi e cerchiconcentrici. Sotto c’erauna serie di pulsanti,presumibilmentecorrispondenti allefermate: schiacciandoneuno, sulla mappa siilluminava il percorso.Attese il proprio turno,
perché anche quiaspettavanoinmolti,poiprovòapremereunpo’acasaccio. La primadestinazione che scelseera raggiungibile conuna sola linea, per laseconda bisognavacambiaredueotrevolte;ma sulla mappa c’eranosolo le stazioni dellametropolitana,nonleviee le piazze in superficie,
la città vera e propria, eBudai non riusciva aorientarsi. E anche sefosse stato in grado dileggere i nomi suipulsanti non gli sarebbestato di nessun aiuto,perché non avrebbesaputo collocarli in quelnulla ignoto e sordo. Lafermataincuisitrovavaera segnata con uncerchietto rosso, ed era
anche un po’ più sporcadelle altre perché tutti ciappoggiavano il ditosopra. Budai non capì lascritta, ma notò che sitrovava in basso asinistra sulla cartina,all’intersezione tra unraggio e una lineacircolare, più o meno ametà strada fra il centroe la periferia, dunque inuno dei quartieri a sud-
ovest della città. Sempreche segnassero ancheloroilnordinalto.
Tornòinstrada:apocadistanza dal metròstavano costruendo ungrattacielo altissimo.Piegando il collo di lato,Budai si mise a contarnei piani: erano arrivati alsessantaquattresimo,malo scheletro d’acciaiosvettava ancora più alto.
Sulle impalcaturebrulicavano comeformiche nere nugoli dioperai, i montacarichiportavano su e giùuomini, materiali,elementi prefabbricati,enormi pannelli dicemento armato... Leproporzioni dell’edificioe le dimensioni delcantiere oltre cheimpressionarlo lo
spaventarono, come sequesto potesse crollargliin testa da un momentoall’altro e seppellirlo persempre. In ogni modo,non era certo uscito perstarsene lì a boccaaperta; entrò nel primonegoziodialimentarichevide e si misepazientemente in coda,come gli altri clienti. Equando i commessi non
capironoquelchedicevanon si arrese, e non silasciò spinger via finchénon ebbero preso epesato tutto ciò cheindicava. Gli toccò farecode diverse, per isalumi, per il burro e ilformaggio, per il pane eun’altra dalla parteoppostaperilpescefrittodi cui gli era venutavoglia. In cambio
ottenne solo scontrini,con i quali dovetteandare di nuovo in codaalla cassa. Pagò senzaavere idea di quantostesse spendendo, ritiròil resto, e tornò in fila aibanchi della merce:l’intera procedura duròcircaun’oraemezzo.
All’ingressodell’albergo stazionavasemprel’uomoobesocon
ilberrettodallafettucciadorata: ma questoquando dorme, si chieseBudaipassando.Ottennela chiave nello stessomodo della sera prima,scrivendo «921» su unfoglietto che poi si infilònella tasca del cappotto,per le future evenienze.Agli ascensori si fermòunmomentoaosservarein quale cabina fosse
l’ascensoristabionda;erain quella centrale, e fu lìche Budai entrò. Laragazza stava leggendo,non staccava gli occhidallibroneanchementreschiacciava i bottoni deipiani richiesti. Sollevò losguardo solo quandoBudai, non sapendocome comunicarle chevoleva scendere al nonopiano,lesfioròilbraccio.
Lei lo fissò per un breveistante, con l’aria un po’stranita, come chi sirisveglia da un sonnoprofondo, poi le porteautomatiche si aprirono,eranoarrivati.
Durantelasuaassenzaavevano rassettato epulitolacamera,erifattoil letto. Trovò il pigiamasotto la coperta e lepantofole dentro al
comodino. Questosuscitò in lui un vagoallarme: loconsideravanounclientestabile? Scacciò quelpensierosciocco:noneramicaaffaredelpersonaledi servizio, che cosapotevano mai saperne...Aprì il sacchetto, affettòilpaneconilcoltellinoe,smanioso, si preparò unsandwich. Tutto aveva
un gusto insolito,dolciastro, i salumi, ilpane, il cetriolo, perfinoil pesce, un saporediverso da quelli checonosceva. Incartò concuragliavanzielideposefuori dalla finestra.Aveva finalmentemangiato, a sazietà,mancava solo il caffè difinepasto.Manonavevanessuna voglia di uscire
e di mettersi in cerca diun caffè. Si sarebbeinvece riposato un po’,soddisfatto di essereriuscito a sfamarsinonostante le difficoltà.Lanciò via le scarpe e sisdraiòsulcopriletto.
Siaddormentòperdueo tre minuti al massimoper svegliarsi disoprassalto in preda aun’inquietudine
angosciosa, con il cuoreingola.Eraun’assurdità,una follia starsene làsdraiato mentre aHelsinki c’era ilcongresso di linguistica,dove era previsto il suointervento già il primo oilsecondogiorno;magariera stato eletto inqualche commissione e isuoi colleghi non sispiegavano la sua
assenza.Checifacevaluiqui, e che cos’era questoqui,doveera,inchecittà,paese, continente, inquale dannata parte delmondo era finito? Provòa ripercorrere ancorauna volta tutta quellavicenda senza senso,fidando nella suacapacità diragionamento,quell’attitudine
deduttiva sviluppata inanni di lavoroscientifico, e non ultimoanche nella suaesperienza diviaggiatore, poichéaveva visitato moltipaesi sin da quando erastudente. Ma per quantoripassasse nella mentegli eventi delle ultimeventiquattr’ore, anche aritroso, non gli riuscì di
individuare in qualecircostanza avrebbedovuto agirediversamente, dove o achi avrebbe potutorivolgersi. Non dubitavache l’equivoco all’originedi tutto si sarebbechiarito, e a quel puntolui sarebbe potutoripartire subito, tuttaviaebbe un attimo dismarrimento: senza
amici né conoscenti,privo di documenti,abbandonatoinunacittàsconosciuta di cuiignorava perfino ilnome, dove non capivaquel che dicevano enessuno capiva lui,nonostante tutte lelingue che parlava, inquella inarrestabile einestricabile massaumana, che non si
diradava mai, non avevaancora incontratonessuno con cuiscambiaredueparole.
Cercò di raccogliere lepoche idee che si erafatto di quella città.Doveva essere unagrande città, questosembrava assodato, unametropoli, uno di queicentri urbani di livellomondiale dove non era
mai stato. Per ilmomento non intuivanemmeno in quale partedel globo potessetrovarsi,inchedirezionee soprattutto quantolontano da casa. Riflettésu quest’ultimo dato,perché avrebbe potutopensarci la seraprecedenteeosservarelacrescitadellabarbadopoil viaggio in aereo,
durante il quale avevadormito tutto il tempo:perfarsiun’ideadelleoretrascorse e così calcolarela distanza in linead’aria. Ma la sera del suoarrivo, quando si erafatto la barba non ciaveva badato, dovevaessereunpo’ intontito,eoranonriuscivaaffattoaricordarsi quant’eralunga... Era una città
densamentepopolata,suquesto non c’era dubbio,una densità maggiore diogni altro luogo cheavesse mai visitato, maera difficile stabilirequale razza o gruppoetnico fosse prevalente.Il tratto più notevole,però, era che la gentenon parlava le linguestraniere, per lo menoquelle a lui note; perfino
in un albergo enormecome il suo parlavanosoltantonellalorolinguamaterna. E questasuonava completamenteestranea alle sueorecchie,diversadatuttele altre, puro e semplicegrammelot, come delresto il loro sistema discrittura, un insieme discarabocchivacuieprividi senso. Le condizioni
meteorologiche nonsembravano fornirealcun indizio: il tempoera secco, freddo,invernale, proprio comefebbraio dalle sue parti.Nemmeno i cibi chevendevano nei negozirivelavano molto delclima locale, eranoalimenti che si trovanoovunque – carni, salumi,formaggi, mele, limoni,
arance, banane,scatolame, conserve difrutta sciroppata, succhidi frutta, caffè, dolci,pesci di mare; potevanoessere benissimoprodotti d’importazione.Neppure la modadifferiva dai canoni delmondo civilizzato, gliabiti di boutique sidistinguevano da quellidei grandi magazzini
solo per la qualità, e glialtri articolirispecchiavano glistandard internazionali;tutto questo valeva benpoco per formarsiun’idea, eraun’equazione di soleincognite.
Che fare? Le autoritàlocali el’amministrazionedell’albergo forse
ignoravano che fossecapitato lì per errore,senza volerlo, altrimentigli avrebbero giàrestituito il passaportoe... Ecco un’altra cosaincomprensibile, unmistero assoluto, ilpassaporto: perché lotenevano loro, e dove, sesi usa restituirlo alcliente dopo le formalitàdellaregistrazione?Eche
fine aveva fatto ilportiere dai capelli grigiche gliel’aveva preso ilprimo giorno?, nonl’avevapiùvisto;dov’erafinito il suo bigliettoaereo, dove potevareclamare, e in qualelingua avrebbe dovutospiegaretuttociò?Provòdisagio ripensando allapenosa scenata dellamattina, alla sua insulsa
e inutile stizza – etuttavianonpotevamicalasciare le cose comestavano... Quantosarebbe rimasto lì, senzafarniente,alnonopianodi un albergosconosciuto di una cittàsconosciuta?
Passò in rassegna, conordine, i luoghi doveavrebbe potuto recarsiper ottenere aiuto. Alla
direzione? All’ufficioinformazioni? Da uninterprete, in un’agenziadiviaggi,allacompagniaaerea, le idee gliattraversavanolamente,ma dove erano queiposti, a chi avrebbechiesto indicazioni inquella ressa mostruosain cui tutti avevanofretta e si rifiutavano diascoltare oppure
reagivano blaterando inmodo astruso?Probabilmente in bancao negli uffici pubbliciparlavano altre lingue,ma dove erano, comericonoscere anche solol’edificio senza saperleggere le insegne? E seavessevolutorivolgersiaun’ambasciata, la sua oquella di un altro paese?Come l’avrebbe
individuata, da che cosaavrebbe capito che cel’aveva davanti? Dallostemma sul portone?Doveva tenere gli occhiben aperti: se avesseperlustrato la città inmaniera sistematica,muovendosi conattenzione e standosempreall’erta,l’avrebbetrovata per forza. Masoprattutto là,
nell’albergo stesso, erainverosimile che in unhotel così frequentatononcifossenessunoconcui riuscire a intendersi.Eragiuntoilmomentodidarsi da fare, dovevavincere il suo riserbo, ilsuo impaccio, scuotersidal torpore fisico ementale per tirarsifinalmente fuori daquella stupida
disavventura.Per prima cosa prese
un foglio dalquadernetto – ne tenevasempre uno in tasca perannotare quello che glipassava per la mente – escrisse poche righe ininglese per spiegare dadove veniva, dove eradiretto e così via,pregando la direzione diagire urgentemente per
aiutarlo a ripartire, o dimandargli una personacompetente con la qualepoter chiarire lafaccenda. Dopo averfirmato aggiunse«camera 921», comeavrebbe fatto undetenuto in cella, e glivenne da sorridere. Poitradusse il tutto infrancese e in russo;intendeva consegnare il
foglio alla receptiondove, logicamente,l’avrebbero passato a chidi dovere, qualcuno checonosceva per forzaalmeno una delle trelingueeavrebbepresolemisurenecessarie.
Sollevò di nuovo ilricevitore e provò aformare dei numeri che,a intuito, potevanoessere quelli di pubblica
utilità: 0, 00, 01, 02, 11,111, 09, 99 e così via,senza nessun risultato,oppure, per tuttarisposta, l’immancabilecicaleccio.Erafuribondo,noncapivaperchénoncifosse un elencotelefonico nella stanza,non riusciva a farseneuna ragione, cominciò aschiacciare esasperato iltastoperinterromperela
linea, a sbatacchiare iltelefono, urlando:«Pronto!... Hallo!», e allafinebuttògiùlacornettacontaleviolenzacheperpoco non la fracassò...Decise di procurarsi unelenco a qualunquecosto, non importa doveo come. Si rivestì infrettaeuscì.
Giù alla receptionprovò a superare le
personeinattesa:riuscìaconsegnare al portiere lachiave,estavaperdarglianche i foglietti quandogli altri iniziarono arumoreggiare, loostacolarono e gli fecerosegno di andare alla finedella coda. Così fucostretto a mettersipazientemente in fila euna volta dinanzi alportiere gli schiaffò in
mano il testo trilingue.Questisirigiròifogliettitra le mani sbattendo lepalpebre, farfugliòqualcosa che suonavacome una domanda, maBudai tagliò corto e sidefilò mescolandosi allafolla.
Camminò su e giùnella hall dell’albergo,alla ricerca di untelefono pubblico. Non
ce n’erano, o non netrovò, ma in compensogli venne in mente chequelmattinoerapassatoaccanto a una cabinatelefonica. Uscì, si lasciòtrascinare dal fiume difollaebenprestolavide,non proprio dovericordava ma all’angolosuccessivo. Era davverouna cabina telefonica,ma ovviamente era
occupata, e accerchiatadi persone in attesa. Gliparve un’impresa senzasperanza quella diaspettare il proprioturno e sotto gli occhi ditutti staccare l’elencofissato alla cabina eportarselo via – anzi, glielenchi, c’erano piùvolumi, grossi e pesanti.Ma non si arrese,insistette a girare per le
strade e a cercare, comese la sua vita interadipendesse dal fatto diprocurarsi un elencotelefonico; scese dinuovo nellametropolitana. Sì, siricordava bene, lungouna parete eranoallineate una decina dicabine: ma anche quierano occupate e daognuna partivano
lunghe code di cui, nellaressa dell’atrio, non sivedeva la fine. Rinunciòa mettersi in fila madecise, già che c’era, diandareastudiaremegliola mappa della retesotterranea.Nonriuscìacapirci molto di più, masenefeceunoschizzosultaccuino: segnò lastazione in cui sitrovava, quella col
cerchietto rosso, nericopiò perfino il nome,disegnando una per unale strane lettere – perritrovare la strada nelcasosifossesmarritoperlacittà.
Quando tornò insuperficie era ormaibuio, i lampioni eranoaccesi;eraaquell’oracheil pullman l’avevaportato in città il giorno
precedente. Così eranotrascorseventiquattr’ore. Nongliene importavagranché in quelmomento, mentre eraintento a procedere inmezzo alla calca,inquieto: ormai avevaimparato ad avanzare atesta bassa, a spingere, alottare per aprirsi ilpassaggio nella corrente
deipedoni,propriocomefacevano tutti... Ilcantiere del grattacieloera in pieno fermento,sottolalucedeiriflettorigli operai lavoravano,non meno numerosi chedi giorno. Più avantinotò una tavola caldache ancora non avevavisto, e vi gettòun’occhiata dentro. Eraun self-service, i clienti
prendevano a unbancone i piatti prontiche desideravano, e allafine pagavano alla cassaquel che c’era sulvassoio; e l’affollamentonon era maggiore chealtrove. Budai se nerallegrò, era la primasorpresa piacevole chegli capitava, ed entrò. Siservì di tutto, zuppa,uova farcite, arrosto con
un contorno, formaggioe dolce, in preda a unavaga apprensione –chissàquandoavrebbedinuovo avuto l’occasionedi poter mangiare asazietà. Si versò anchedelcaffèdalbeccucciodiun distributore. Allacassapagòconunpugnodispiccioli,lasciandochela cassiera prendessel’importo necessario, poi
si appoggiò a un tavoloalto lì vicino e divoròtutto. Ancora quellostrano sapore dolciastro,come se avesserozuccheratoicibi,perfinolacarneeleuova.
Fuoridallatavolacaldasi imbatté in una cabinatelefonica vuota. Sulvetro era incollato unfoglio con una scritta,presumibilmente diceva
che l’apparecchio eraguasto, ma le porte noneranochiuseeall’internoc’erano dei voluminosielenchi, protetti daastucci metalliciincernierati allastruttura. Cercò distudiarecomesmontarli;era già pronto adallentare le viti con ilcoltellino tascabilequandosiaccorsecheun
uomo in divisa grigia lostava osservando.Indossava unamantellina corta e unberretto: era senz’altroun poliziotto. Budai sirese conto di non avercon sé nessundocumento d’identità, edi sicuro non era ingrado di spiegare checosa stesse combinandolà dentro. Cominciò a
sfogliare il volume,fingendo di cercare unnumeroounindirizzo;ilpoliziotto non simuoveva, lo fissava, conaria diffidente. Decise dicambiare strategia, uscìdalla cabina e gli sirivolse direttamente.Provò in tedesco, ininglese, in italiano e inaltre lingue, anche seannaspava, non sapeva
benecosachiedere,qualiinformazioni:l’ambasciata,l’ufficiodelturismo, o che altrogenere di aiuto? In ognimodo il poliziotto annuìe puntò il dito verso dilui:
«Cetence glubglubb?Guluglulubb?».
Dissepiùomenocosìeestrasse un libretto conla copertina nera, lo
compulsò a lungogirandorapidolepagine,quindi cominciò aspiegare gesticolando inpiù direzioni. Parlòparecchio,concalma,poiindicò da qualche partealle sue spalle, ripetendoin tono pedante alcunefrasi, per non esserefrainteso – Budai nonavevalaminimaideadelluogo verso il quale
l’altro lo stavascrupolosamenteindirizzando. Infine ilpoliziottogliagitòilditosotto il naso, come achiedergli se fosse tuttochiaro:
«Turubuscetiekitiovovo?».
Sconfortato, Budairiuscìsoloadallargarelebraccia; il poliziotto feceil saluto militare e se ne
andò. Budai rinunciò aulteriori tentativi; eraanche in pensiero per lanota che aveva lasciatoin albergo, a quell’oraprobabilmente era giàarrivatanellemanidichidi dovere, forse sistavano dando da fare,magari lo stavanocercando e non lotrovavano: si affrettòsulla strada dell’hotel.
Stavolta,eccezionalmente, eraancora in servizio ilportiere a cui avevaconsegnato i foglietti, lovide da lontano, dalfondo della fila. L’uomo,dall’aria malaticcia escontrosa, gli gettò unosguardo assente, equando Budai gli mostròilbigliettoconilnumerodella stanza si limitò a
consegnarglimeccanicamente lachiave, senza altrecomunicazioni. Budaiallungò il collo pervedere se c’era qualcosanello scomparto della921, ma era vuoto, e ilportiere glielo sottolineòcon le palme delle maniaperte. Budai rimaseinterdetto,provòafarglicapirecheaspettavauna
risposta, un avviso, unanotizia, doveva esserciun qualche messaggioper lui, ma quelloscuoteva la testaborbottando e passò alcliente successivo.Naturalmente erapossibile che ilmessaggio fosse incamera, o fuori dallaporta, magari gliavevano lasciato scritto
il nome del luogo o dellapersona a cui rivolgersiper sistemare le cose.Stava per dirigersi versol’ascensore quando notòsul bancone un grossovolume, di sicuro unelenco telefonico. Ilportiere era voltatodall’altra parte: lo stessoBudai si meravigliò dicome ebbe il coraggio diprenderlo e portarselo
via sotto gli occhi dituttaquellagente.Fuungesto d’impulso, dettatodall’imperativo diprocurarsi un elenco atutti i costi, in fondo eraquella la ragione per cuiera uscito; la sua manoagì da sola: si mise ilvolume sotto il braccio esiallontanòtranquillo.
Al nono piano perònon c’era niente sulla
portadellasuastanza,nésulla maniglia, né perterra, né infilato nellospiraglio o altrove; perben due volte controllòche fosse proprio la 921.E anche in camera nonc’era nessuna nota, nonun rigo sul tavolo,niente, Budai perlustròogni angolo. Non sapevache cosa pensare: la suarichiesta non era stata
inoltrata o dovevanoancora cominciare aoccuparsene? Possibileche gli toccasse passareun’altra notte inquell’albergo? In tal casosarebbe arrivato alcongresso di Helsinkinellasecondagiornata,enonprimadellasessionepomeridiana – ciò loinnervosì al punto chegli salì il sangue alla
testa, ma preferìscacciare quei pensieri.Inoltre, era distruttodagli andirivieni dellaserata, era fradicio disudore e sentiva unimpellente bisogno difarsi una doccia. Eavrebbe dovuto, con suagrandevergogna,disfaredi nuovo il bagaglio perprendereilnécessaireeildetersivo per lavare,
come d’abitudine, labiancheriausata.
Dopo essersi un po’rinfrescato si misecomodo, in pigiama epantofole, e si sedettealla scrivania con ilvolumetrafugato.Eraunlibro rilegato di coloremarrone, sulla copertinaspiccavano tre righe didiversa lunghezza inlettere chiare, di varie
dimensioni: i caratterierano quelli già vistialtrove. Aprendolo, nellaprima pagina c’era unelenco di venti oventicinque parole, ogruppi di parole, ingrassetto e con unnumeroaccanto:dicertoi numeri di pubblicautilità. Seguivano settepagineditestofittissimoquasi senza interruzioni,
probabilmente norme eregolamenti del serviziodi telecomunicazioni, epoi alcune tabelle cheforse indicavano letariffe. Erano ottocento-mille pagine di grandeformato, su cinquecolonne, stampate acaratteri talmenteminuscoli che Budaidovevastrizzaregliocchiperriuscirealeggerli.Gli
parvedipoterdesumere,solo in baseall’impostazionetipografica, che i nominon erano in ordinealfabetico, maraggruppati sotto untitoletto per categorieprofessionali ocommerciali – una sfilzasterminata di parole enumeri,titoletti,paroleenumeri. Non soltanto
all’inizio, ma ancheprocedendonelvolume,inumeri non erano diuguale lunghezza: cen’erano di due, tre oquattro cifre, altri dicinqueosei,altridisetteo otto, in modo casualeperò, senza apparentecriterio. Provò acomporre qualcuno deinumeri in grassetto, cheaveva individuato come
probabili numeri utili,ma con scarso successo:il telefono non prendevala linea, oppure dava unsegnale intermittente dioccupato, oppuresquillava a vuoto, e sequalcuno finalmenterispondeva si esprimevain quel modoincomprensibile, perquanto lui tentasse ognivolta di parlare una
linguadiversa.Non aveva senso
continuare, dovetteammetterlo; preferìconcentrarsisulvolume.Benché non si fosse maioccupato di storia dellascrittura, ricordavaancora dai tempi deglistudi come Champollionavesse decifrato igeroglificieGrotefendlascrittura cuneiforme
nelle incisioni in anticopersiano, e come direcente fosse statosvelato il mistero delleiscrizioni maya e delletavoletteligneedell’IsoladiPasqua.Inquesticasiiricercatori disponevanodi testi bilingui otrilingui,comelastelediRosetta o i reperti diPersepoli, o delletrascrizioni di studiosi
precedenti, magarivaghe e imprecise, mapur sempre decifrabilicon un po’ di fatica,pazienzaefeliceingegno.Il metodo era quasisempre lo stesso: sullabase di alcuneconsiderazioni siipotizzava che certisegni, o gruppi di segni,corrispondessero adeterminate parole o
nomi, dunque a gruppifonetici noti, e inseguito, sostituendoquesti gruppi a singolielementi nel testo, sideducevaprogressivamente ilsignificato degli altrisegni, fino a dipanarel’intero sistema discrittura studiato.Eppure, nonostantel’impiego dei mezzi più
sofisticati, quantiavevano fallitonell’impresa, e quantevolte! E se avevanoottenuto qualcherisultato era stato alprezzo di decenni diingrata fatica. Al giornod’oggi,invece,afacilitareil compito degli studiosici sono potenticalcolatori elettronici ingrado di elaborare
un’enormemassadidati.Ma lui, lì, in quella
stanza, che cosa potevamaifare,dasolo,senzailbenché minimo aiuto, difronte alla scritturasconosciuta di unalingua sconosciuta? Daqualeipotesipartire,conche cosa confrontarlasenza disporre, per ora,di alcun punto diriferimento per capire il
significato da attribuirealmeno a una stringa dicaratteri? Che cosasostituireachecosa?Einche punto...? Ciònondimenoincominciòatrascrivere i segnidell’elenco: ricopiò unoper uno, sull’ultimapagina del volume, cheera bianca, ogni nuovocarattere che incontrònel testo. Questa attività
silenziosa, dal ritmopiuttosto simile a quellodella raccolta di dati nelsuolavoro,apocoapocolo rasserenò, calmò lasua agitazione e, almenoper il momento, loriconciliò con lasituazione in cui sitrovava; assorto in quelcompito preciso ecircoscritto, quasi siscordò di dov’era e come
c’era finito. Alla tavolacaldasierasaziato,enonpensò neanche agliavanzi che aveva messofuori dalla finestra;stappò invece l’altrabottigliadivino.
Continuava arimuginare, chiedendosiche razza di alfabetoaveva davanti: eranosegni molto semplici,due o tre tratti per ogni
carattere, come le runedell’antico germanico ol’antichissima scritturacuneiforme sumerica –maluinoneracertocosìsciocco da pensare chefossero imparentati consistemi di lingue estintedatempo.Notòl’assenzadi segni diacritici e delmaiuscolo, quantomenoin quel libro: i caratteriavevano tutti la stessa
dimensione. A un trattosi rese conto di avernericopiati oltre cento, econtinuava a trovarne;sorseggiando il vinorosso, si fermò ariflettere,domandandosichecosapotevadedurne.Che si trattasse di unascrittura logografica,dove ogni segnorappresenta una singolaparola, e per questo
eranocosìtanti?Odiunascrittura sillabica, comenell’antichità quellacretese e cipriota?Oppure aveva unastruttura composita,come i geroglifici egizi,che indicano piùelementi ciascuno –parole, gruppi di suoni esingoli fonemi? Magari –glivenneinmenteanchequesto – era un catalogo
di segni foneticivariamente combinati,come quelli che stilano ilinguisti per classificarele più sottili sfumaturedi pronuncia? Oppuredisponevano ditantissimisuoni,ognunocon una sua funzionedistintiva? Domande,domande, e nemmenouna risposta... Nelfrattempo, quasi senza
accorgersene, si erabevuto l’intera bottiglia.Il mattino dopo non erain grado di ricordarequando e in che modo sieraaddormentato.
Al risveglio il tempoera grigio come il giornoprecedente. Aveva latesta annebbiata, lanausea e si sentiva incolpa per aver bevutotroppoun’altravolta;era
in collera con sé stesso,come chi è venuto menoa una promessa. Nonosava pensare a quegliultimi due giorni, loassaliva solo unbruciante senso difallimento; l’unica cosache ormai sapeva conassoluta chiarezza elucidità era di esserearrivato al limite. Nelladoccia aprì il rubinetto
dell’acqua fredda,rabbrividì e starnutìsotto il getto gelido. Erauna follia, un delirio, unincubo dal quale dovevarisvegliarsi: non potevapiùandareavanticosì!
Si vestì, si preparò unsandwich con gli avanzidel giorno prima eelaborò un piano: eratalmente ovvio esemplice che si
meravigliò di non avercipensato prima. Se gliimpiegati diquell’albergo erano unbranco di incapaci concui non si riusciva ascambiareunaparola,semancava perfino ilpunto informazioni o lotenevano nascosto,doveva semplicementecercare un luogodedicato ai turisti. Alla
stazione dei treni, peresempio,odegliautobus,all’aeroporto, agli ufficidi qualche compagniaaerea, al porto,marittimo o fluviale, sece n’era uno da quelleparti. Doveva salire suuntaxiefarcapireinunmodo qualsiasi dovevoleva andare, tutto qui.Poi ci avrebbe pensatol’autista, e una volta sul
luogo avrebbe di sicurotrovato la personaadatta... Tutto questo glipareva ora così chiaro esemplice:stavaquasiperrifare la borsa e portarlacon sé per non esser piùcostretto a tornare inalbergo, ma poi preferìlasciarla lì, c’era pursempre il conto dapagare, altrimenti nongli avrebbero permesso
di andarsene, e poidoveva riprendersi ilpassaporto, sarebberipassato per forza.Avrebbe fatto il bagaglioa cose risolte, in un paiodiminuti.
Nell’ascensore c’era dinuovo la ragazza biondainuniformeblu.Conariapiacevolmente distrattaBudai posò a lungo losguardo su di lei. Notò
ancora una volta quantofossesnellaeslanciata,ecom’erano delicati itratti del suo viso ovale;oggi non leggeva, losguardostancoeassenteera perso nel vuoto –chissà quante corseaveva già fatto su e giùquella mattina. Soloquando arrivarono alpianterrenolaragazzalovide, e da una piccola
luceneisuoiocchiBudaicapì che l’avevariconosciuto.Lesorriseela salutò con un lievecenno del capo: eramoltoimprobabilechelarivedesse ancora. Non sinascose che un po’ glidispiaceva, ma eral’unica cosa che avrebberimpiantodiquellacittà.
Quella mattina tuttoappariva diverso, se
n’era già accorto inascensore ed ebbe lastessa sensazione anchenella hall, difficilespiegare come e perché.L’atrio era affollato dipersone, ma non c’era ilviolento pigia pigia deglialtri giorni: nelgigantesco salone ilflusso sembrava piùlento e pigro, rilassato,come se tutti se la
prendessero comoda. Ilnegozio dei souvenir erachiuso, la vetrina erasgombraebloccatadaunlucchetto. Era chiusal’edicola, sullo sportellodellacassaeracalataunasaracinesca metallica, edietro il lungo bancone,dove di solito siaffaccendava un grannumero di persone, oraciondolavano soltanto
due o tre impiegate, edera chiusa la maggiorparte delle porte degliuffici. In effetti, erapartito di venerdì edunque era domenica,essendo passate duenotti: a quanto pareva,era festivo anche lì.Soltanto alla reception ilnumero di persone erainvariato: fu preso dallosconforto vedendo la
lunghezzadellacoda,maattesequietoilsuoturnoper restituire la chiave.Lo scomparto 921 eravuoto,eormaisisarebbestupitodelcontrario.
Il bancone per unavolta era libero, le treimpiegate del turnofestivo si limitavano achiacchierare. Budaicolse l’occasione: siavvicinò,restòlìdavanti
per un po’, poi, siccomeloro non gli badavano,cominciò a bussare sulpiano. Quelle nonreagirono,eluibussòpiùforte finché finalmenteuna si accostò. Provò aparlarle in varie lingue:la donna lo fissavaperplessa e indignatacome se fosse matto.Allora Budai tirò fuori ilquadernetto e, con un
tratto piuttosto goffo,disegnò una locomotiva,poi un aereo, e con lebraccia mimò il gesto divolare, sforzandosi diesprimere cosaintendeva e dove volevaandare. Ma l’impiegata,una donna di mezza etàdal colorito giallognolo ei capelli raccolti in unochignon, lo assalìberciando con una tirata
incomprensibile estridula, uno sproloquioche Budai interpretòcome: «Che vergogna,che indecenza, neanchedi domenica si può starein pace!» – maovviamente poteva averdetto tutt’altro. Budaicapì che con le parolenon avrebbe risoltonulla: con audacedeterminazione estrasse
dalla tasca unabanconota di grossotaglio e la poggiò sulbancone davanti alladonna. Quest’ultimacontinuò a sbraitareancora un po’, ma preseil denaro e andò in unufficio sul retro: l’avevaaccettato, forse c’erasperanza che fossedisposta ad aiutarlo.Tornò in fretta, e con
un’altra ramanzinaconsegnò a Budai novebanconote di tagliominore, contandole unaper una, più unamanciatadispiccioli–gliaveva semplicementecambiato il pezzo dadieci – poi girò i tacchi elopiantòinasso.
Uscito dall’albergo lafolla gli sembrò piùfluida e il traffico,
sebbene intenso, un po’menofrenetico.Sispinsesul bordo delmarciapiede e alzò lamano per fermare tutti itaxi che passavano. Maeranopochi,nespuntavauno ogni tanto ed eraoccupato, anzi stipato dipersone una sull’altra,fino a otto o diecipasseggeri tra uomini,donne, bambini, anziane
signore. E quelli vuotiavevano la bandierinaabbassata, oppuretransitavano sulla corsiapiù lontana e nonsarebbero riusciti aspostarsi. Infine ne videuno che arrivava contutta calma, era anchelibero,mainvanogridòesi sbracciò, scese con unpiede sulla carreggiata,l’autista non rallentò,
non lo guardò, el’avrebbe pure travoltose non si fosse scansatoin tempo. Quandorinvennedallospavento,quello era ormailontano... Tornò confatica all’ingressodell’albergo,dovestavailgrasso usciere inpelliccia. Budai si rivolsea lui in varie lingue escandendobeneleparole
nel tentativo di spiegareche aveva bisogno di untaxi o di una stazione ditaxi, doveva per forzaessercene una nellevicinanze, e usavatestardamente la parolache suona identica inognipartedelmondo:
«Taxi...!Taxi,taxi...?!».Quello si limitò a
strizzaregliocchietticonun’espressione ebete
sulla faccia pingue eportando la mano allavisiera spinse la porta avetri per farlo entrare.Budai gli andò vicino,propriosottoilnaso,egliurlò in faccia cosavoleva, al che l’usciereborbottòqualcosacome:
«Kiripidulabadaraparaciara...patarasciara...».
E ripeté il saluto
militare, e spinse laporta, come un pupazzoamollacapacediduesoligesti.Nelfrattempoaltrepersone si eranoassiepate attornoall’ingresso. Budai nonintendeva bloccare ilpassaggio e temeva dinoncontrollarsi,eracosìinfuriato che avrebbeschiaffeggiato quelbabbeo: si allontanò
verso la carreggiata.Riprese a sbracciarsi, manon otteneva nulla, ecominciò a dubitare chele auto grigie con lastriscia rossa sullafiancata fossero davverotaxi... Stava per lasciarperdere quando unavetturacheavevavistoilsuo cenno incerto sifermò accanto a lui. Ilconducente si sporse dal
finestrino e gli parlò conla bocca piena, e Budaiinterpretò che glidomandassedovevolevaandare. Senza indugioglielomostrò,aprendolebraccia come ali, poimimòilmovimentodellebielle di una locomotivae aggiunse perfino ilfischio del treno.L’autista scosse la testa,ridendo, ma non era
chiarosefosseunnoosenon capiva. Intanto lemacchine dietrosuonavano e davano gasai motori, la fila di autosi allungava perché eraimpossibilepassarenellacorsia di fianco persuperare. Budai,preoccupatodiperderelasua unica opportunità,prese una banconota digrosso taglio e la porse
all’autista. L’autistarispose qualcosa che, agiudicare dal tono,spiegava il suo rifiuto,era prenotato o avevaterminato il turno estava rientrando. Iclacson ormaistrepitavano tuttiinsieme, coninsofferenza: l’autistariaccese il motore eingranò la marcia.
Disperato, Budai tiròfuori un altro pezzo dadieci e infilò la manonell’auto, che si mosseproprio allora: lebanconote caddero neltaxi. Budai non riuscì arincorrerlo nel trafficointenso.
Per un paio di minutirestò come paralizzatodall’ennesimoinsuccesso – o forse non
era un insuccesso, forsequella che lui vedevacome una catena disfortune in quella cittàera la norma. Quantomeno per uno come lui,un forestiero che nonparlavalalingua...Infinesiriscosseesifeceforza:infondo,potevaarrivarea una stazioneferroviaria anche senzataxi.Glispiacevasoloper
i soldi, quei due pezzi dadieci,nonsapevaquantovalesseroma,daquelcheaveva visto finora,sembrava una bellasomma.
Seinegozieranoquasitutti chiusi, compresi glialimentari, il metrò eraaffollato come nei giorniferiali; lungo la stradaverso la piazzettacircolare aveva
escogitato un modo perarrivare a destinazione.Sifecestradafralagentefino alla grande cartinasul muro, che per ilmomento rappresentaval’unico punto fermo cuiaggrapparsi e che oral’avrebbe aiutato aorientarsi. Cercò icollegamenti, gliinterscambi tra le linee,le fermate cerchiate in
rosso, presumibilmentele più importanti. Si sacheinqualunquegrandecittà del mondo lametropolitana ècollegata alla reteferroviaria; immaginòche i nomi incorrispondenza dellestazioni dei trenipresentassero unterminericorrente,comeper esempio a Parigi la
Gare de l’Est, la Gare duNord, la Gare de Lyon,eccetera. Mentreosservava la cartinaveniva costantementespintonato, e più di unavolta fu addiritturacacciato via, ma riuscìsempreariconquistareilsuo posto. Con granfaticaindividuòscrittedidue o tre parole nellequalil’ultimacoincideva,
non perfettamente,certo, ma potevatrattarsi di piccoledifferenze grammaticali.Le annotò tutte,riproducendo con cura isegni sconosciuti: laprima stazione su cuicadde la sua scelta era lapiù vicina, e siraggiungeva con la lineagialla.
Dovettemettersiinfila
allacassapercomprareilbiglietto–pagavanotutticonunamoneta–epoisidiresse verso le scalemobili davanti alle qualila folla s’ingrossava. Disottovidelamoltitudineincanalarsi in un dedalodi corridoi, tra manifestie cartelloni affissi daogni parte, svolte,incroci, sbocchi, e poiancora scale, giù e poi di
nuovosu;freccecolorateindicavano le direzioni,pannelli luminosi conscritte blu, verdi, rosse,nere e gialle. Budaiseguiva quest’ultimocolore, ma a un trattonon lo vide più, il flussoumano lo avevatrascinatooltreedovettevagare per un buonquarto d’ora prima diripescarlo. Si sforzò di
prestare più attenzione,si mantenne vigile, glialtricoloricominciaronoa scemare finché nonrestò che il giallo e siritrovò finalmente sullabanchina, in mezzo a unfrenetico andirivieni,investito dalla corrented’aria provocata daiconvogli in corsa neltunnel. Adesso dovevasolo cercare di non
prendere la direzionesbagliata: tirò fuori ilquadernettosucuiavevaricopiato il nome dellastazione e lo confrontòcon quelli sotto le duefrecce.
Il treno sbucò dallagalleria. I passeggeri lopresero d’assaltoscontrandosi con quelliche scendevano,generando il caos e
mulinelli di personevicino alle porte, cheriuscirono a chiudersidopo il fischio di uncapotreno dalla pellescura. Budai si infilò perun soffio. Dentro facevaun gran caldo ed eranoschiacciati uno control’altro; avrebbe volutochiedere indicazioni aqualcuno,aiutandosicongesti o disegni – ma non
poteva muovere lebraccia, e la gentespintonava, una lotta diposizioni, chi volevascendere premeva versoleporteelospazioliberoveniva subito riempito.Budai non aveva timorediperderelasuafermataperché lo schema dellalinea era appeso in varipunti del vagone.Riconobbe con facilità il
nome formato da treparole e contò quantefermate mancavanoprima di scendere daquel convoglio, chesfrecciava come unlampo e poi frenava cosìbruscamente che ipasseggeri cadevano gliunisuglialtri.
Quando scese siritrovò in uncomplicatissimo intrico
di corridoi, scarpinò perun bel pezzo, si smarrì,poicapìchelefrecceperl’uscita erano bianche epiù grandi delle altre,infinesalìsuscalemobilidi una lunghezzainfinita... Sbucò in unagrandepiazza;ilcieloeraplumbeo,copertodaunacoltre impenetrabile dinubi, e cadeva unapioviggine silenziosa e
gelida.Lafollaeradensacome ovunque, pensònon appena vi siimmerse, senza darsiuna meta precisa.Doveva essere finito inun mercato o in unafiera: sulle bancarelle eperfino sul selciato sivendeva di tutto, icommercianti urlavanoa squarciagola, musica ealtoparlanti al massimo
volume. C’erasoprattutto roba disecondamano,gliparve,mentre avanzava adagiointorno alla piazza,trasportato dal flusso:mobili, lampadari, abiti,pellicce consunte,vasellame, tappeti,cianfrusaglie, oggettid’antiquariato, prodottidifettosi o di scarto,giocattoli, palloni, grossi
tagli di gommapiuma,tubi di ogni colore ediametro arrotolati eimpilati, pneumatici,canne da giardino, lastredi vetro. Dentro a unatenda di tela cerata sisentiva gracchiare ungrammofono e sulbanchetto eraaccatastata una pila didischi;Budaisifecelargoper avvicinarsi, nella
speranzadiascoltareunaqualche melodiaconosciuta, o di scorgereuna copertina leggibile:avrebbepotutoessereunpunto di partenza, unachiaveperscioglierealtrienigmi. Ma rovistòinvanotraidischi–altricuriosi frugavanoinsieme a lui nella tenda–e videsoltantolesolitelettere e scritte
misteriose. Nelfrattempo dal megafonoveniva un gran baccano,e come se non bastasseproprio alle sue spallequalcuno si mise asuonare una trombetta:era un grassone con unacasaccadamarinaio,chesembrava un cuoco dibordo cinese: emettevasolo due note, stridenti,sempre le stesse – era
insopportabile, Budaipreferì lasciar perdere idischieseneandò.
Si vendeva anchevaporoso e candidozucchero filato, siarrostivano piccolesalsicce speziate chesfrigolavano nel lorograsso, ma erano cosìtantiinfilacherinunciò.Banchi di sementi,piante da fiore e
terriccio, più in làanimali vivi, conigli,colombi dalle zampepiumate, canarini,pappagallini, perfinotartarughe, e poi unaspeciedigrossalucertolacrestata ricoperta disquame che se ne stavaimmobile nella suagabbia, con lo sguardovitreo, rigida come fosseimpagliata. Un uomo
gigantesco con la facciarossa, e mani e piedienormi (simile agliindigeni della Patagonianelle descrizioni degliesploratori), con unaconsunta giacca aquadretti dal bavero divelluto, era intento adimostrare le virtù diuno smacchiatore:versava inchiostro, olio,succodipomodorosuun
paio di pantaloni chiari,poi faceva sparire ognitraccia con il suo liquidomiracoloso, senzasmettere di blaterare inungergotuttosuo.Piùinlà stava un pescivendolocol grembiuleinsanguinato, il quale,avendovistoinBudaiunpotenziale cliente soloperché aveva gettato unvago sguardo al suo
banco, lo tirò per ilcappotto e volevaaffibbiargli a tutti i costiuno smisurato merluzzoo chissà che cosa:picchiavalamannaiasulbanco, passava la lamadel coltello sulla pellesottile del pesce permostrarne la freschezza,glielo muoveva sotto ilnaso, gesticolava,insisteva, a momenti
glielosbattevainfaccia...Ad altri venditori fuinveceBudaiarivolgersi,dapprimainvarielingueorientali, poi slave, eancora in inglese,olandese, spagnolo eportoghese. Ma anchequi, di volta in volta, glidavano risposteincomprensibili oppurelo fissavano con ariaottusa, lo ignoravano o
addirittura loallontanavanocomeunoscocciatore, forsescambiandolo per unmendicante. Budairipiombò nell’imbarazzoenellosmarrimento.
Di stazioni ferroviarieneanche l’ombra. Avevaguardato in tutte ledirezioni. Aveva notatoun ampio edificio grigioin ferro e vetro ma
mentre si avvicinava siaccorse che era unmercato coperto, ed erachiuso. Agli ingressilaterali erano in corso leoperazioni di carico escarico:lemerciinarrivoscorrevano su nastritrasportatori, cassevuote e pile di sacchivenivanolanciatedentroai furgoni, elevatorispostavano balle e
container pesanti,facchini caricavanobotti,damigiane,blocchidi ghiaccio e di strutto,mezzene di maialecongelate. A un certopunto arrivò un camionpienodicassediverdura– erano porri, o qualcosadelgenere–enesceseuncorpulento autista conun giubbotto blu. VideBudaifermosullarampa.
Loafferròperunbraccio,lo tirò verso il camion eindicandoilpianaledissequalcosacome:
«Dümüciebrüdimrüciüre!Klütt!...».
Queltiziol’avevapresoper uno scaricatore. Unequivoco che l’avrebbeanche divertito, ma luinon era là per divertirsi:arrancandoinmezzoallafolla tornò verso la
metropolitana. Dovevacontinuarelasuaricerca,verificando la serie difermate dove potevaesserci una stazioneferroviaria.
Questa volta dovevaprendere la linea viola epoi la verde. I vagonierano affollati comesulla gialla; provò a fareun piccolo censimento,un esame antropologico
dei compagni di viaggioper individuare il coloredella pelle, il tipo e laforma del viso piùdiffusi. Durante il brevetragitto osservò unaquantità di sfumature,dal nero carbone albianco latte passandoper il bruno, ma i tipipuri – notò – eranopiuttosto rari, troppopochi per indicare in
maniera inequivocabileche ci si trovasse inEuropa, in Africa onell’Asia orientale;benché anche in queicontinenti esistesserozone con unapopolazione multietnica,per esempio le cittàportuali.Aognimodo,lamaggior parte degliabitanti di quella cittàdoveva essere un
incrociodirazze:comelagiovane donna – occhi amandorladagiapponese,capelli biondissimi elabbra negroidi – che erascesa insieme a lui,talmente carica disacchetti della spesa dafinirgli addosso mentrele porte si richiudevano.Budaicolsel’occasionee,dopo un vano tentativoverbale, mimò a gesti la
locomotiva per farlecapire dove volevaandare. La donna sorrisecome se avesseindovinato, dissequalcosa, indicò a destrae a sinistra, poi si avviòinfrettaincoraggiandoloa seguirla con un cennodel capo. Budai ebbefinalmentelasensazionedi essere sulla stradagiusta, si avviò dietro
alla donna attento a nonstaccarsi mai da lei, e leistessaditantointantosigirava per mostrarglicon la testa la direzione.L’uscita– segnalatadallegrandi frecce bianche –non era distante, ilcorridoio sbucava in unatrio a forma di stella,stavano per arrivarequando un’enormeondata umana lì investì.
Appena si riprese, siaccorse che quell’urtoirresistibile li avevastrappati l’uno lontanodall’altro; Budai cercòcon tutte le sue forze diriavvicinarsi a lei, mainvano. La testa biondariemerse per pochiattimialcunimetridopo,dove la marea l’avevatrascinata, per poisparire definitivamente
nel turbine deipasseggeri inmovimento. Budai laattese in superficie perun po’, ma non la videpiù uscire dallametropolitana.
Si diresse versosinistra, come gli avevaindicato la donna.Questa parte della cittàsembrava diversa daquanto aveva visto
finora, aveva un aspettopiù antico, un’atmosferapiù intima, le stradestrette ma semprepopolose;potevaessereilcentro storico, se neavevano uno. Passòdavantiaunsegmentodimuro antico incorporatoin una struttura piùmoderna, conun’iscrizione in alto:doveva trattarsi di un
monumento, forse dellevecchie mura cittadine.Anche da queste parti inegozi erano chiusi.Svoltò in un vicolotortuoso, con gli edificivetusti dalle facciatescrostate, la stradasporca, piena diimmondizie e bucce difrutta; gatti randagi siaggiravano tra le gambedei passanti e
sgusciavano dentro efuori da andronimaleodoranti.Ricominciò apiovigginare; muritagliafuoco si ergevanociechi, grigi e umidi nelnulla.
Giunse in una piazza;al centro c’era unafontana con la statua diun elefante chespruzzava un getto
d’acquadallaproboscide.Intorno girava il trafficodelle auto, incessante edenso,come sescorressedall’inizio dei tempi edovessedurareineterno.Dalla piazza se ne aprivaun’altra ugualmentemovimentata,iveicoliviconfluivano passandosotto un grande arco,sormontato da un altotorrionecoronatodauna
balaustra, con le feritoieeunacupolaincima.Glisembrò familiare, manon sapeva perché; loosservò da ogni lato e auntrattoloriconobbe:loaveva visto nella halldell’albergo,alnegoziodisouvenir, sulportachiavi. Non erafacile stabilirne l’epoca elo stile: la parte con lefinestre a sesto acuto si
sarebbe detta gotica,mentre la cupolaemisferica parevapiuttostoorientaleggiante,moresca. Eraprobabilmente statocostruito a scopodifensivo, e le opere diquel genere siassomigliano tutte –specie agli occhi diprofanicomeBudai–con
i loro volumi massicci,gli enormi blocchi dipietra grezza, il loroaustero scopo pratico: lefortificazioni romane, letorri di guardiamedioevali, perfino laGrandeMuragliacinese.
Ma di stazioniferroviarie non c’eratraccia. Eppure almenogliufficidellecompagnieaeree avrebbero dovuto
essere in quel quartiere,intuiva,esefosserostatichiusi li avrebbericonosciuti dallevetrine: modellini diaeroplani, cartine, borsecon il simbolo dellacompagnia. Anche laPostacentraleegliufficipubblici sono di solitonel centro storico dellecittà–maluivedevasolopiazzeestrade,palazzidi
varie dimensioni, negozichiusi, saracinescheabbassate, veicoli epersone, strade e piazze.Ormai cominciava adubitare di esseredavvero nel centrostorico; oppure qui lacittà vecchia noncoincideva con il centroamministrativo, comenel caso della City aLondra? O forse esisteva
da qualche parte unquartiere ancora piùantico? Oppure c’eranodiversi centri storici? Achi e come avrebbepotutochiederlo?
Si infilò di nuovo nelmetrò verso la stazionesuccessiva fra quelleannotate. Si ritrovò avagare tra edificianonimi e insignificanti:ricominciò a piovere, e
quando smetteva unapesante coltre di nubiincombeva sui tetti. Poicapitòinunparco,anchequello sovraffollato, conbambini che giocavanosuiprationellesabbiere,facevano navigarebarchette a vela, sidondolavanosull’altalena; donne conlecarrozzine,caniliberieal guinzaglio, e tutte le
panchine occupate, conlunghe code per sedersi.Si comprò una ciambellasalata e delle salsiccettearrostite,epranzòcosì:ilprofumo era eccellente,ma anche questeavevano un saporedolciastro estucchevole... E se laparola che ricorreva neinomi delle fermate, chelui aveva supposto
significasse stazione,avesse voluto diresemplicementevia,viale,piazza, porta o cose delgenere? O fosse soltantoun attributo comevecchio e nuovo? Omagari si trattava di unpersonaggio famoso, uncondottiero o un poeta acui avevano intitolatovari luoghi? O chissà,forse era il nome stesso
dellacittà?Alla tappa successiva
scese dal metrò insiemealla maggioranza deipasseggeri, il convoglioquasi si svuotò. Siriversarono in massaverso uno stadio, vide lagrigia costruzione dicemento ergersi in tuttala sua grandezza comeun gigantescotransatlantico, e già da
lontano udiva ilrimbombo del pubblico.Il tempo si era schiarito,e nel cielo del primopomeriggio siincrociavano scie diaeroplani. Budai compròil biglietto come tutti glialtri,siunìallaschieradicoloro che entravano esalìintribunadallescaleposteriori, fino alla filapiùalta.L’arenaeralarga
centinaia di metri epullulava di unaquantitàindescrivibiledispettatori, econtinuavano adarrivarne:ipostiasedereerano tutti occupati giàda un pezzo, ma in alto,nei posti in piedi la follasi gonfiava, c’era quasida aver paura chel’enorme edificiocrollasse sotto il loro
peso. Guardando inbasso era pressochéimpossibile distinguereilconfinetrail campodigioco e gli spettatori,ovunque era pieno dipersone: sull’erbabrulicavano almeno dueo trecento giocatori checorrevano dappertutto,con dieci o quindicicolori di maglie. Ilpubblico gridava
scatenato, accanto aBudaiuntiziosmilzoconun berretto giallo e unaispida faccia da gattourlava a squarciagolaagitando il pugno. Budainoncapivanientediquelche stava succedendo,osservava tutto quelmovimento laggiùsforzandosi diindovinare le regole delgioco, ma non riusciva
nemmeno a contarequante erano le squadre.Il terreno rettangolareera diviso in aree piùpiccoledalineebiancheerosse,eincampoc’eranoalmeno otto palle che igiocatori colpivano dimano e di piede, con ipugni o di testa,buttandole da una parteall’altra, oppure letenevano sotto il braccio
mentre discutevanoanimatamente tra loro.Porte o reti non se nevedevano; il campoinvece era recintatolungo tutto il perimetroda una rete metallica,che in alcuni punti eraalta quattro o cinquemetri e altrove arrivavaalle spalle dei giocatori,ed era proprio lì che lamischia sembrava più
vivace e i partecipanti siassiepavano in un murocompatto.
Auntrattounodiloro,con la palla in mano,tentò di scavalcare larecinzione,evidentemente con loscopo di abbandonare ilcampo. Icompagni seneaccorsero e si gettaronocontro di lui, che avevagià la gamba sinistra
oltre la rete, ma quelli loafferrarono per la destrae lo tirarono giù; dallatribuna si levò unruggito sinistro. Ilfuggitivo cercò diliberarsi, ma gli altrierano in troppi, nonmollavanolapresa eallafine riuscirono atrascinarlo sul campo: sirotolò sull’erba, perse lapalla, e a quel punto lo
lasciarono in pace, senzafargli male. Subito dopo,dal lato opposto, dove larecinzione era più alta,un nero spilungone inmaglia a righe si staccòdagli altri e svelto comeuna scimmia siarrampicò su per la rete,e stava per farcela,sembrava. Alloraaccorsero tutti,compreso quello che era
stato tirato giù pocoprima, e si slanciaronoverso il nero, loafferrarono, gli siaggrapparonoallegambementre quello scalciavacome un disperato, efinirono per trascinarlogiù. L’arena era intumulto, rimbombavanocori di incitamento einsulti – benché Budainonriuscisseacapireper
chi tifassero glispettatori. Quando ungiocatore tentava diabbandonare il campopareva riscuoterel’approvazione generale,ma appena gli altri sibuttavano al suoinseguimentoilpubblicopassava dalla parte degliinseguitori aizzandolicon passione e furiaspietata.
Il più sollecito ariacchiappare i fuggitiviera un ragazzottodall’aria spavalda,tarchiato e muscoloso –erastatoluiaprenderelapalla allo spilungonenero. Scattòall’improvviso e in menche non si dica era incima alla recinzione:prima che i giocatori sene rendessero conto
aveva scavalcato e sistava calando fino aterra. Gli altri cercaronodi trattenerlo attraversola rete e riuscirono adafferrarlo bloccandolocontro la recinzione. Mail piccoletto non siarrese, si dibatté finchénon sgusciò fuori dallamaglia, che restò làimpigliata mentre luipiombòaterra.Poibalzò
in piedi e salutandofelice con la mano corsepalleggiando neglispogliatoiesparìpropriosotto il settore dovesedeva Budai. I giocatorilo guardarono da dietrola rete, come chiusi ingabbia.Ilpubblicointeroera sollevato, la tensionesi liberò in applausi,risate e allegro brusio, ela massa di persone,
finora salda come ununico agglomerato,cominciò a sciogliersi inlente ondate... AncheBudai si avviò versol’uscita, il cuore aperto auna gioia lieve einebriante: si sentivapieno di fiducia eserenità.
Dopo vagò ancora perla città: di nuovo arrivòla sera, i lampioni si
accesero tutti in unavolta, in lontananzabrillavano delle lettererosse e blu in cima a ungrattacielo. Dovevaessere finito nella zonadei club o qualcosa delgenere, la musica di bar,taverne e locali notturniinvadeva le strade,suonata dal vivo oregistrata; e poi insegneluminose, vetrine con
esposte foto di artisti,ballerine espogliarelliste. Il solitosciame di persone in unsensoenell’altro,perfinoqualche passo di danzasul marciapiede, unastria turbinosa in mezzoal flusso infinito deipassanti, bianchi,orientali, neri, ragazzedallapelleolivastracomezingare con fiori tra i
capelli, soldati. Eracolpito dalla grandequantità delle divise:poliziotti coi manganellisiaggiravanonellacalca,comeneavevavistigiàalmercato, al parco eattorno allo stadio.Controllori dei mezzipubblici, sia uomini chedonne, vigili del fuococol casco rosso (sempreche lo fossero), postini o
ferrovieri in uniformeblu, e i bambini e lebambine spessoportavano una sorta didivisa, una giacchettaverde con pantaloni ogonnadellastessastoffa.Ma le più comuni eranonormali tute da lavoromarroni, di tela robusta,senza alcun distintivo,indossate da uomini edonne. Semplicemente
per praticità? Oppureerano membri di unaqualcheorganizzazione?
Quellaserasirespiravaaria di festa: gente apasseggio per le strade,venditori ambulanti obanditorieintornoalorocapannelli di persone euna gran ressa. Anche aBudai venne voglia dispendere i soldi cheaveva in tasca, decise di
comprare e consumaretutto quello che glicapitava a tiro; ritenevadi poterselo concedere,come minimo. Da unostrillone comprò ilgiornale con l’intenzionedi studiarlo una volta inalbergo,poiaunchioscosi mise in coda per unacrêpe: le preparava ungiovanotto in giaccabianca,cappellodipaglia
e papillon, una facciaambrata da indiano cheluccicava di sudore.Preseanchedabere:aunlungo banconevendevano una bevandasciropposa dal saporemielato e stucchevoleche non dissetava, e neordinò parecchibicchieri... A un angolodi strada c’era un tiziocon un pullover logoro e
sdrucito che urlava esbraitava mentreavvolgeva delle cateneintorno a un compagno,un povero disgraziatocon la gobba, e poipassava con un piattinofragliastanti.Pocodopoarrotolò il compare nellacarta da pacchi, lo legòstretto con uno spagorobusto finché perseogni forma umana:
sembrava una mummiao un pacco postale; perfinire lo infilò in ungrosso sacco e con altrospago strinsel’imboccatura in cima. Aquel punto soffiò in unfischietto e l’altrocominciò, per quanto glifosse possibile dentro aquell’involucro, amuovere le spalle e ipiedi. Il numero
consisteva nel suotentativo di liberarsi dasolo, senza alcun aiutoesterno, ma parevaimpossibile, cosìincatenato eimpacchettatodallatestaai piedi. Ma quell’omettostriminzito si agitavasempre di più, per faruscire un arto o almenoun dito, e dal sacco oraspuntava la sagoma di
un ginocchio, ora di ungomito. Nel frattempoemetteva suonigutturali, mentre il tiziocon il pullover illustravain tono entusiastico levarie fasi del numero epassava di nuovo con ilpiattino. Il sacco crollò aterra: il gobbetto sicontorceva e si rotolavasul selciato, stavalottando strenuamente
all’interno, si dava dafarecontuttelesueforzee la sua inventiva,brontolava e sbuffavafuriosamente, sidimenava e rimbalzavacome in preda alleconvulsioni. A un trattolo spago che chiudeva ilsacco si allentò,nell’apertura apparvedapprima un ditinosottile, poi la mano e
infine il braccio. Da quelpunto in poi si liberòpiuttosto in fretta,tirandofuoriinsequenzala testa, le spalle e lagobba. Un minuto piùtardi si scrollò di dossoinvolucro e catene e feceun inchino: aveva unafaccia storta elentigginosa, battevaconfuso le palpebre. Gliastanti applaudirono e
versarono soldi nelpiattino.
Budai aveva sete ebevve ancora: quellosciroppo dolciastrodovevaesserealcolicoeapocoapocoglidiedeallatesta, si sentivaannebbiato e con unostrano formicolio nelcorpo. Percepiva tutto inmodo chiaro, anzi, piùvivido, ma come
dall’alto,senzaprenderviparte. Adesso tuttaquella situazione glisembrava di pocaimportanza, non cifaceva molto caso, stavain un angolo remoto delsuo cervello: in fin deiconti non era colpa suase le cose erano andatecosì, non aveva micasceltoluidifinireinquelposto, che venissero a
cercarlo... In quelmomentogli interessavadi più l’atmosferaanimata della sera, lamiriade di piccoli eventisul marciapiede e nellestrade, abbandonarsi aquella chiassosa evariopinta allegriapopolare. C’erano moltiubriachi chebarcollavano,cantavano,con un cappellino di
carta in testa, sparavanocon pistole giocattolo elanciavano stelle filanti.Brillo com’era si sentivaquasi uno di loro, glisarebbe piaciuto fareparte di qualcosa, diqualsiasi cosa. Si unì auna rumorosa comitivadi adolescenti un po’bulli che sfottevanochiunque incontrassero,scherzavano, si
spintonavanol’unl’altro,giocavano alla cavallina,spruzzavano l’acqua alleragazze con dellecannucce. Tra risate eschiamazzisvoltaronoinuna traversa; Budai liseguì.
Eraunvicolopiuttostostrano, con case strettestrette, alcune non piùlarghedell’aperturadellebraccia, dipinte a colori
vivaci, verde, rosso,arancione, addirittura ascacchi. Le finestre,soprattutto al primopiano, erano moltograndi, quasi quanto lacasa,edietroaognunadiesse c’era una donna:truccate pesantemente,in abiti da sera dalleprofondescollatureochelasciavano scoperte lespalle e parte del seno.
Strizzavano l’occhio agliuomini di passaggioinvitandoli a entrare;Budai capì subito in chetipodizonaera capitato.E sebbene nonfrequentasse luoghisimili da quando erastudente, provandoneunacertarepulsione–dinorma evitava quelgenere di strade –, d’untratto intravide la
possibilità di unincontro: finalmentesarebbe potuto restare atu per tu con qualcuno,scambiare una parola,domandare e forse avererisposte, o almenoprovare a spiegare,trovare ascolto... Alpensiero si emozionò alpunto che cominciò asudare;entrònellaprimataverna e si mise in fila
per un bicchiere, perfarsi coraggio e vincerela sua naturaletimidezza.
Al pari dei colori dellecase, le donne dietro allefinestre erano tuttediverse: bionde dallapelle lattea, minuscoleorientali con gli occhi amandorla e uno chignonfermatodalpettinecomele geishe giapponesi,
bellezze color dell’ebanocon una massicciacollana d’argento alcollo. Ne vide una inabito di tulle bianco,avevalunghecigliascuresul viso madreperlaceo eun sorriso da madonnaagli angoli della bocca:non adescava nessuno,se ne stava seduta aguardare la strada, e fuquesto che attirò
l’attenzione di Budai.Passò più volte sotto lasua finestra, lei lo notòmarimaseimpassibile,silimitò a seguirlo con losguardo radioso e unsorriso pudico e beato...Con repentina decisioneBudaisuonòallaporta,ilcuore in gola come unoscolaro che sta per fareuna marachella; unronzio segnalò che
potevaentrare.Si ritrovò in un atrio
semibuio, a un tavolinosedeva una donnaanziana.Quandolepassòaccanto lei gli diede unpezzetto di carta conscritto il numero 174.Budai non capì, glielorestituì con ariainterrogativa, ma ladonna gracchiò qualcosascocciata e indicò una
scala. Lui salì al primopiano, dove c’era unvecchietto calvo erinsecchito, con la facciarossa e rugosa come unamela al forno. Gli chieseil numero, lo bucò conuna pinza, poi strappòunbigliettodaunblocco:datochenonsicapivanol’unl’altro,civolleunpo’prima che fosse chiaroche bisognava pagare
sull’unghiaconunpezzoda 10. A Budai sembròparecchio, chissà secomprendeva solol’ingresso o anchequalcos’altro, era giàpentitodiessereentrato.
Fu immesso in unasala rotonda sulla qualesi aprivano quattroporte. Lungo la paretecircolare erano dispostesedie e panche dove
sedevano venti oventicinque uomini, inattesacomedaldentista,enonc’eranopostiliberi.Un altoparlantediffondeva le note di unvalzer, e i clienticonversavanoeridevanotraloro.Budairinunciòaricorrere al linguaggiodei segni, tanto erainutile, e poi sivergognava un po’ di
trovarsi lì, comespiegarlo? Ci avrebbeprovato dopo, da solocon la ragazza... Di tantoin tanto si apriva unaporta e spuntava unadonna discinta, chefaceva una giravoltasollevando l’orlodell’abito;aquelpuntosialzava il cliente di turno– erano al numero 148 –e sparivano insieme
nella stanza. Ma c’eraanche chi passava lamanoperaspettarneunache gli piacesse di più, ealloratoccavaalnumerosuccessivo. Poco pervoltaavevavistol’interoassortimento, mapurtroppo quella con ilvisodamadonnanoneracomparsa: che fossesoltantouncampionedaesposizione?
In ogni caso gli affariandavano a gonfie vele,le porte si aprivano e sichiudevano incontinuazione: le donnesi ritiravano in cameracol cliente per dieci oquindici minuti, inqualche caso anchemeno, ed erano semprein arrivo nuoviavventori.Perviadiquelfitto andirivieni l’aria
della sala era viziata,molti fumavano e nonpareva ci fosse modo diventilare l’ambiente:afrorimaschilimescolatia fumo di sigaretta, afragranze dozzinali e aun vago odore didisinfettante oinsetticida. Budai trovòuna sedia libera ma nonandòmeglio:gligiravalatesta e si sentiva lo
stomaco sottosopra,aveva bevuto troppointruglio alcolico.Desiderava soloandarsene, ma temevacheavrebberimpiantodiessere fuggito come uncodardo e di aversciupato l’occasione; glidispiaceva anche per isoldi. Decise che nonavrebbefattoildifficileesi sarebbe accontentato
dellaprimachecapitava,chiunque fosse. Tantocon tutto quelcommercio gli erapassata qualsiasi vogliagiàdaunpezzo.
Arrivò finalmente lachiamata del 174:comparveunaragazzonarobusta dai capellirossicci e dalla pellescura o abbronzata.Budaisialzòelaseguìin
silenzio nello stanzino.Chiusero la porta, ma sisentivano lo stesso lamusica,ilchiacchiericcioe le risate dei clienti inattesa. La donnaindossava una leggeracamicetta bianca eun’ampia gonna verdemare, sotto la quale perun attimo si intraviderole floride cosce nude, eun paio di sandali.
Cominciò subito aspogliarsi: si era giàsfilata la camicetta dallatesta quando Budai lafermò alzando il dito.Iniziò a parlarle in piùlingue, indicando primasé stesso, poi lei, e feceun largo gesto dellebraccia tutt’intorno,infine aprì le mani conariainterrogativa:volevasaperecomesichiamava
la città, in che paese sitrovava, cose così. Laragazzanondovevaavercapito, perché con voceprofonda e ruvida dafumatricereplicòperbendue volte con unadomanda,fissandoloconle sopracciglia inarcate.Allora Budai tirò fuori ilquadernino e disegnògoffamentel’Europa,conle tre penisole
meridionali e i fiumiprincipali: in riva alDanubio segnò la suacittà natale, da doveproveniva, ne ripeté piùvolte il nome scandendobene le sillabe mentre sipicchiava l’indice sulpetto. La ragazza guardòil disegno, pensosa, eintanto gli fece cenno dimettersi a suo agio, luistava ancora lì in piedi
con il cappotto addosso.Budai si tolse solo ilcappottoeloappoggiòsuuna sedia: prese agironzolare impacciatoper l’angusto stanzino ela donna lo invitò asedersi accanto a lei sulsofà rivestito di pelle.Non gli metteva fretta enon si mostravaimpaziente, anche se làfuori – a giudicare dal
baccano, dalle voci e dalrumore di sedie spostate– i clienti nondiminuivano e il volumedella musica era semprepiù alto. Fra tutti quantidoveva averla toccata lasolitudine di quelforestiero, nonostantenon lo capisse, e forseaveva intuito che era uncliente diverso daglialtri.
Budai staccò il fogliodal quadernetto e glieloporse insieme allamatita, come a dirle difare un disegno simile.La donna fraintese ilgesto, piegò il foglietto elo ripose in una scatolametallica che tenevasotto il letto. AlloraBudaiprovòachiederleilsuonome,poitentòconinumeri da uno a dieci,
aiutandosi con le dita:uno, due, tre... Ma nonerachiaroseafferrava,lerisposte che dava eranolunghe e parlavalentamente, scoppiandoogni tanto in una risataamara: era impossibilecomprendere quel chediceva.Ladonnaestrassedi nuovo la scatola e glimostrò variecianfrusaglie: spille,
nastri, fermagli, vecchielettere, fotografie, unbinocolo da teatro, unanello, biglie colorate,una perla di vetro; forseerano i suoi ricordi e isuoi segreti. E parlava,parlava con voceprofondaeroca;richiusela scatola e poi la riaprì,ripetendo più voltequalcosacome:
«Tevebevedere
acipacitapp!Acipacitapp?... Buturügebeceacipacitapp?...».
Questo acipacitapp lodiceva in continuazione;a un tratto prese dallascatola una vecchiascarpinainfantileeisuoiocchi si riempirono dilacrime. Budai nonsapevacosaimmaginare.Era sua, di quando erabambina?Odisuofiglio?
E dov’era adesso suofiglio?... La ragazzastringeva a sé quellascarpina con tantapassione che eraimpossibile non provarepenaperlei:lepassòunamano sui capelli, cheerano soffici e rossi, ecarichi di elettricità,tanto che a sfiorarliemettevano quasiscintille, le accarezzò la
fronteeilcollo.Ladonnagliafferròlamanoeselaportò al viso, alla bocca,inumidendoladilacrime;lui ne fu imbarazzato,ma di colpo la suarigidità si sciolse comeneve al sole... Dalla salad’attesa si udì unnervoso scalpiccio dipassi: doveva essersitrattenutooltreiltempo.Qualcuno bussò alla
porta. Budai si sentì adisagio: gli dava fastidioche gli mettesseropremura, ma avrebbeanchevolutoliberarsidaquella situazione. Laragazza però lotratteneva, aggrappata alui, inginocchiata ai suoipiediconlatestasul suogrembo. Budai tentò disollevarla ma caddeanche lui in ginocchio
accanto a lei; restaronocosì, a metà strada tra ilpavimento e il sofà, inuna posizione goffa einnaturale, maabbracciati come uncorposolo.
Da fuori cominciaronoa vociare e a battere ipugni sulla porta:bisognava sbrigarsi. Ladonna lo baciò sullaboccaamo’dicommiato
e lui la abbracciò dinuovo...Levoltòlespalleinfilandosi il cappotto;dopo una breveesitazione posò conqualche impaccio unabanconota da 10 sullasedia. Lei non loguardava, intenta asistemarsi la pettinaturaallospecchio,enondisseuna parola. Budai uscìdalla porta sul retro,
passando per una scaladi servizio che puzzavadipipìdigatto.
Ilvicolosbucavainunampio spiazzo dovegirava una spettacolareruota panoramicasfavillante di luci, eintorno pullulavanomille attrazioni, giochi,tiroasegno,autoscontri,la nave dei pirati, legiostre: un lunapark.
Anche le giganteschemontagne russe eranoilluminate,echeggiavanostrilli,urlagioiose, squilli ditrombette, scoppiettii; esciami di folladappertutto. C’eranoscivoli, un tunnel dellapaura, lancio degli anellie punching ball, numeridi prestigiatori, acrobatie giocolieri,
mangiaspade emangiafuoco, uncontorsionista cheincrociava le gambedietro il collo, e unadonnacannone,cheperòstava seduta immobilesu una pedana,prigioniera del suo peso,enormeeinertecomeunidolopolinesiano.
Si potevano affittaredelle barchette,
naturalmente dopoun’attesa interminabile;ormai Budai non sicurava più del tempo,non gli importava cheore fossero. Gli diederouna barchettamonoposto, una lentacorrente lo trascinòdentro un tunnel aforma di grotta. Lamusica era assordante,una specie di barcarola
sentimentale,eovunque,perfino sull’acqua,ondeggiavano lanternecolorate dalla lucesoffusa. Su entrambi ilaticastelli inminiatura,cascate, chiuse, centralielettriche, ponti e cosedelgenere:nientediche,un’attrazione piuttostoordinaria.Eppureper luifu la gioia più grande einattesa di tutta la
giornata, forse la primadaquandoeraarrivatoinquelluogo...
D’estate aveval’abitudine di andare incanoa sul Danubio.Partivalamattinaprestoe risaliva la correntelungo la riva tortuosa efitta di alberi e cespugli.Tra isolotti e secche,l’acquanonformavamaiuno specchio
perfettamente liscio, maera increspata sullasuperficie da ondinescintillanti, a tratti piùmosse; anche con labonaccia il fiume eravivo e dotato di unproprio respiro. Spessoapprodava su unapiccola isola senza nomee si riposava: nei periodidi piena il Danubio lasommergeva, i ciuffi
d’erba e le alghetrascinate dalla correnterestavano impigliati neitronchi dei salici e neicespugli, e poi quando ilfiume si abbassava dinuovo si seccavano esembrava che gli alberiavessero la barba. L’isolaera tagliata a metà dauna stretta lagunanavigabile, dove lui siinfilava con la snella e
agile imbarcazione sottole fronde degli alberi el’intrico di liane. Nonaveva mai incontratonessuno da quelle parti,al massimo qualcheuccello selvatico chevolava via al suopassaggio.Allafocedellalaguna c’era una breverapida, il fiumeacceleravaall’improvviso e l’acqua
diventava trasparente,rivelandoillettosassoso:eraquicheglipiacevadipiù fare il bagno, nellacorrente, sentire sullalingua e sulla pelle ilsapore fresco e tenerodell’acqua dolce. Unmattinodimaggioavevavisto delle anatreselvatiche davanti allaspiaggia sabbiosa, erarimasto immobile a
osservarle da dietro uncespuglio senza che siaccorgessero di lui: lamadre stava insegnandoai piccoli a nuotare, atuffarsieapescare...
In preda a un’ebbrezzalieveecaricadiricordisiavviò per tornare inalbergo. Si era segnatosul quaderno il nomedella sua stazione, ma incompenso non sapeva
dove prendere lametropolitana: l’ultimafermata a cui era scesoeraormaitroppolontanae non sarebbe statocapace di ritrovarla, einvano si guardavaintorno in cerca delletipiche scale gialle.Cominciò a chiedere,fermava i passanti chegli venivano incontro,sperando che capissero
almeno il gesto, eindicava in basso, versoilselciato.Unadonnadailineamenti tartari, cheindossava quella tutamarrone, sembròfinalmente intuire: conaria rassicurante gli fecesegno di seguirlo, loprese addiritturasottobraccio, e dueisolati più in là locondusse in un bagno
pubblicosotterraneo.Temette di essersi
smarritopersempreedinon ritrovare piùl’albergo – ormai eratardi, doveva esseremezzanotte passata –,quando gli venneun’idea: osservare ilflussodellafolla,dov’erapiù denso e in chedirezione andava,individuare insomma
una corrente principale.E quella si sforzò diseguire,standoattendoanon allontanarsene mai:il corteo attorno a luidivenne via via semprepiù compatto, giratol’angolo si unì a unavasta fiumana di gentechedopopochecentinaiadi metri entrò in unacostruzione rotonda daltetto piatto: erano le
scalecheconducevanoalmetrò. Qui gli fu facileorientarsi; sulla mappacercò il suo percorso, icolori delle linee e dovecambiare.
Uscitoinsuperficieeranellapiazzettadacuierapartito al mattino. Neipressi c’era il grattacieloin costruzione che avevaammirato il giornoprecedente. Contò di
nuovo i piani: arrivò asessantacinque, eppuresi ricordava benissimoche eranosessantaquattro.Licontòun’altra volta:sessantacinque, ed eragià allestita la strutturadi ferro delsessantaseiesimo:l’avevano tirato su in ungiorno, non c’eranodubbi... Davanti
all’albergo il grassousciere portò la manoalla visiera e diede unaspinta alla portasbattendo le palpebre.Budai cominciavaseriamenteapensarechenon fosse un essereumano in carne e ossa,ma un robot in divisaprogrammato percompiere quei due o tremovimenti.Futentatodi
toccarlo per vedere diche cosa fosse fatto, mapoi si trattenne: chissà,poteva prendere lascossa...
Mentre era in coda perla chiave, si ricordòvagamente della letteralasciataperladirezioneilgiorno prima: avrebbetrovato una risposta nelsuo scomparto? Omagari era finalmente
saltato fuori ilpassaporto? Ma poi videche non c’era niente eche il portiere eracambiato ancora, e glipassò qualsiasi voglia dimettersi a discutere ericominciaredacapoconuna scenata inutile.Ritirò in silenzio lachiave e andò a fare lafilaperl’ascensore.
Non si aspettava
l’ascensorista biondaperché l’aveva giàincontrata al mattino; simeravigliò di vederseladavantiall’aperturadelleporte. Aveva l’ariaesausta,ilvisoarrossato,lesichiudevanogliocchiquando schiacciava ipulsanti con le lunghedita dalle unghie bencurate – possibile chestesse lavorando fin dal
mattino?Oeratornataacasa per poi riprendereservizio la sera? Dovepoteva abitare,nell’albergo o presso lasua famiglia? Aveva unafamiglia, un marito?...Nellacabinal’ariaerapiùsoffocante del solito, e siaccorsecheilventilatoreera guasto. Salendoaveva cercato di trovarsiproprio accanto a lei: la
peluria chiara delletempie era imperlata diminuscole gocce disudore. L’alcol avevaallentato i freni inibitoridi Budai: con il giornalecominciòafareventosulcollo e la fronte dellaragazza. Lei si voltòlentamente, con aria piùsorpresacheseccata,unosguardo stanco macurioso, e disse anche
qualcosa, con una breverisatina: per la primavolta Budai la videsorridere. Si sentìassalire da un misto difiacchezza e tenerezza,dall’improvvisodesideriodistarlevicino,di riposare al suofianco... Sì, mentreosservava lei e sé stesso,aveva solo il desiderio disdraiarsi e dormirle
accanto, nello stessoletto, aspettare che laragazza prendessesonno, ascoltare il suorespiro, sentire il battitodellesueveneattraversola pelle sottile dei polsi;questo l’avrebbeappagato totalmente.Quandogiunseroalnonopiano fu la donna adavvertirlo che eraarrivato. Quindi si
ricordava di lui, non leera del tuttoindifferente.
Anche questa volta lastanza era statariordinata, e il lettorifatto. Però erascomparso l’elencotelefonico: il personaledelle pulizie dovevaaverlonotatoeritirato,ecosìeranoandatiperdutigli appunti che aveva
annotato alla fine delvolume. Gli restava ilgiornale perricominciaredacapo,manon ne aveva nessunavoglia. La stanchezza gliappesantiva le membra,aveva camminato ore eore, vagando qua e là, eaveva sprecato un’altraintera giornata –confessò a sé stesso conun misto di derisione e
sgomento – senzaprogredire di unavirgola. In preda a unostato febbrile, passandoda un senso di disgustoper il proprio fallimentoa un torpore etilicovenato di apatia, sisvestì, si fece una docciae si coricò, ma nonspense l’abat-jour. Ilproblema era lui, il suocarattere alieno da ogni
forma di invadenza eprevaricazione: se nerese conto con grandelucidità, nonostante ilsonno e la sbornia. Senonfossestatocapacedivincere la sua irresolutamodestia, il suo timoredi esser di peso, non sisarebbe mai tirato fuoridaquellasituazione,nonsarebbe nemmenoriuscito a dare notizie di
sé, e nessuno sarebbevenuto a cercarlo.Doveva battersi da solo,non c’era altra viad’uscita: dovevacambiare radicalmente,solo così avrebbe potutoritrovarelasuavitavera,lasuapersona.
Dallarabbiapicchiòunpugno sul comodino conuna tale violenza che lalastra di vetro andò in
pezzi e si ferì la mano.Prese a sanguinare; sifasciò prima con ilfazzoletto, poi con unasciugamano, ma anchequestosiintrisesubitodisangue. Odiava quellacittà, la odiavaprofondamente perchégli riservava solosconfitte e ferite, locostringevaarinnegareeacambiarelasuanatura,
e perché lo tenevaprigioniero, non lolasciava andare, e ognivolta che provava afuggire lo ghermiva e lotiravaindietro.
Faceva un sognoricorrente. Era aHelsinki, la città sulmare che conosceva datempo, camminava perle strade linde, e daqualsiasi punto partisse– la cattedrale, il teatrodell’Opera,ilmercatodelpesce, lo stadio olimpico–, arrivava sempre almare. Gli piaceva quelsogno, guardare
l’orizzontechediventavavia via più blu dietro laschiera di case bianche emarroni: era perfinocapace di evocarlo inmodo vivido, dirichiamarlo dal fondodei ricordi più remoti,nell’incoscienza lieve echiaroscurata del primosonno o del risveglio.Intanto, il congresso dilinguistica di Helsinki
doveva essere ormaifinito, era previsto chedurasse tre o quattrogiorni, a seconda delnumero di interventinella discussione. Daquandoeralì,invece,perquanto frugasse nellamemoria, di acqua nonne aveva vista affatto,nemmeno un fiume, oun lago: soltanto in quellunapark, dove aveva
affittato la barca, o aigiardini pubblici, lavasca in cui i bambinigiocavano con lebarchetteavela.
Laferitaallamanononguariva, gli faceva male,un dolore continuo epulsante, avevacambiato la fasciaturapiù volte usando unfazzoletto pulito. Deciseche non avrebbe più
bevuto, aveva esagerato:doveva restare sobrio elucido, senza perdere latesta, e le sere seguentiriuscì a controllarsi. Sisforzò di mantenere perqualchegiornounasortadi routine. Mangiava almattino e al pomeriggio,disolitoallatavolacaldavicino al grattacielo incostruzione, e il restodella giornata
girovagavanellestradeosi spostava inmetropolitana. In unpaio di occasioni nonrestituì la chiave perrisparmiarsi la fila alritorno. Ma poi ciripensò;senelfrattempol’avessero cercato sisarebbe soltanto creataconfusionesudovefossefinito. Peraltro,continuava a non avere
notizie del suopassaporto e il portieredai capelli grigi chegliel’aveva preso laprimaseranonsierapiùvisto.
I dettagli delle mossesuccessive lo tennerocosì occupato dapermettergli di nonpensare troppo allasituazione in sé; e forseera proprio quello che
voleva, accantonarel’idea per un poco...Preparò diverse copie diun avviso in sei lingue,che affisse in vari puntidell’albergo – neicorridoi, in ascensore,nellahall,eperfinofuoridall’ingresso principale:invitava chiunque era ingrado di leggere e capirelesueparoleadandarloacercare nella stanza 921
e, nel caso non ci fossestato, a lasciargli unmessaggio nella suacasella alla reception;aggiunse la promessa diuna lauta ricompensa.Poisimiseabussareallecamerevicine:ilpiùdellevolte non gli risposenessuno,forseerasoloilmomento sbagliato, gliospitieranofuori,oforsedava dei colpetti troppo
discreti. Dove c’eraqualcuno, invece, capì diaver disturbato: dietrouna porta si udì berciareun’aggressiva vocefemminile, dietroun’altra invece, cheBudai aprì dopo averricevutoun’incomprensibilerisposta, due giovanottidalla carnagioneolivastra, in pigiama, si
allontanaronobruscamente unodall’altro:ilpiùbasso,untiziosmilzoeocchialuto,sgusciò fuori di corsa,infilò il corridoio escomparve dietro unangolo. La portasuccessiva non erachiusa: Budai sbirciòdallospiraglio,entròconcautela e fu investito dauntanfodiporcilechelo
fece arretrare per unistante.Nellastanzanonc’era nessuno, soltantogabbie piene di grassiconigli d’angorasistemate da ogni parte,per terra, sulle sedie, sulportavaligie,incimaagliarmadi, perfino sotto illetto e nel bagno, dentrola doccia, sulla tazza delwater; conigli chiusinelle loro gabbie a
rosicchiare e zampettarenei loro escrementi, inunfetoreinsopportabile,zigandoinsulsamente.
Glivenneun’altraidea:verso sera uscì e si misedavanti all’ingressodell’albergo ad aspettareil pullman che li avevacondotti lìdall’aeroporto. Ma nonavrebbesaputodireacheora erano arrivati, né di
checoloreerailpullman,e anche se lui era statol’ultimo a scendere nonpotevagiurarechequellofosseilcapolinea,perchéil pullman era ripartitodopo pochi istanti. Cosìsi limitò a tenere laposizionenellabolgiadelmarciapiede, lottando esgomitando per nonessere trascinato viamentre cercava di
identificareunmezzofratutti quelli chepassavanoneltraffico–ese il volo con cui eraarrivato non fosse statogiornaliero?
Eppure quell’uscitanon fu del tutto inutile,perché proprio allora, alpassaggio di unpoliziotto armato dimanganello, lo folgoròl’idea più importante e
clamorosa che avessefinora concepito: era diuna semplicità cosìgeniale, di un’efficaciacosì infallibilecheesultòtra sé per esserciarrivato. Se per unmotivo qualsiasi si fossefatto portare alla polizia,l’avrebbero interrogatoe, non capendo la sualingua, sarebbero staticostretti a trovare un
interprete, al qualefinalmente avrebbepotuto raccontare cosagli era successo... Tornòdi corsa nella sua stanzaper riflettere con calmasul modo migliore perfarsi arrestare. Potevaprovocare una rissa,attaccar briga con unpassante, spaccare unavetrina o una cabinatelefonica con un
mattone; bucare legomme a un’automobileal semaforo, oppurerompere il semaforo,accendere un fuoco digiornali e cartacce in unparco o un luogopubblico. Non riuscivaperò a vincere laresistenza che provavaverso simili attivandalici, e inoltretemeva una reazione
ostile da parte deipassanti, che avrebberopotuto malmenarloprima dell’arrivo dellapolizia. Nella cittàvecchia aveva visto unafontana con un elefantedi pietra: e se fosseandato a farci il bagno?Forse sarebbe bastatoanche spogliarsi inmezzoallastrada–mailsuo senso del decoro si
ribellava a una cosa delgenere. E se avesse fintoun malore, un attacco diepilessia, contorcendosisul selciato con in boccaun pezzo di saponeschiumante,comefannogliimpostori?
Non aveva ancoradeciso, ma uscì di nuovoin strada e si piazzòdavanti all’albergo, inattesa di un’ispirazione
momentanea. Nondovette aspettare molto:sul marciapiede scorseun agente di poliziamescolato tra la folla.Budai tirò un respiroprofondo,loraggiunsedibuona lena e, scegliendoilmetodopiùimmediato– non prima di averabbandonato e ripresol’idea per ben tre volte –,gli sferrò un gran pugno
in pieno petto. Ilpoliziotto credette chegliel’avesse datoinvolontariamente, pergli urti della folla, e siscansò per lasciarlopassare. Ma Budai non siarrese, anzi si infiammònelpropositoecongestoaudace gli fece volar viail berretto, mettendo anudo una fronte bassa,arrossata e lucida, e i
capelli cortissimi. A quelpunto il poliziotto nonebbe più dubbi, soffiòfurioso nel fischietto eassestò sulla testadell’aggressore una talemanganellata che Budaivide tutto nero; alsecondo colpo perse isensi...
... Si risvegliò in unabitacolo chiuso e inmovimento, deboli raggi
di luce filtravano dapiccoli finestrini asbarre: si trovava disicuro in un cellularedella polizia. La testa glironzava, sulla frontesentì due bernoccolidoloranti grossi comenoci, ma fu pervaso daun profondo senso disoddisfazione per averraggiunto lo scopo – oper lo meno era sulla
buonastrada...Iltragittodurò parecchio, circamezz’ora; Budai sirannicchiòsullapancadilegno, stordito dallabotta. Fuori cominciò apiovere, ascoltava ilrumore delle gocce sultetto del furgone: ilticchettio lo feceassopire.
Si svegliò di colpoquando il cellulare si
fermò e il portelloposteriore vennespalancato. Apparverodue poliziotti – nessunodi loro era quelloaggredito – e gliindicarono di scendere.Si trovò in un ampiocortile recintato da murigrigi e affollato da ungran numero di uominiin divisa e in borghese;Budai venne scortato
dentro l’edificio, doveimboccarono un lungocorridoio con un intensoviavai di gente. Seguìdocile i due poliziotti,senza provare a attaccardiscorso, tanto erainutile, e poi fra pocoavrebbe avutoun’occasione miglioreper parlare conqualcuno, di questo eraormai certo. Faceva
molto caldo, l’aria erapesanteeumidacomeinuna serra, si sudava e lefinestre erano tuttechiuse.
Lo condussero in unaspecie di ufficio: dietro aun tavolo ricoperto difeltro verde e macchiatod’inchiostro sedeva ungrasso ufficiale dalcoloritolivido,conibaffispioventi, che faticava a
tenere aperti gli occhi,due fessure dal taglioobliquo; ciò nondimenostava mangiando, eaffettava un tocco dipancetta dall’odore unpo’ rancido su un pezzodi carta bisunta eappiccicosa, da cuisgocciolava il grasso,scioltodalcaldo.Anchelìl’afa era insopportabile,Budai si domandava
perché tenessero ilriscaldamento acceso,come facessero aresistere, a sopportarequella temperaturaassurda. L’ufficialeguardò i presenti conaria insonnolita,asciugandosi la bocca elafaccialucidadisudorecon un fazzoletto aquadretti; i poliziottiabbozzarono un pigro
salutomilitare,equelloasinistra balbettòqualcosa a mo’ dirapporto,presumibilmenteriferì ilreato per il quale Budaiera stato fermato. Ilcomandante annuì,sospirandorumorosamente come seanchequestoglicostassefatica,epuntòsudiluilosguardo apatico degli
occhietti grigiastri,asciugandosileditauntesul feltro del tavolo, poigliruggìqualcosaintonointerrogativo.
Budai credette chefossefinalmentearrivatoilsuomomentoeavanzòdiunpasso–masubitosibloccò. Ora sì che avevabisogno del passaporto:era una sorta diimmunità,unaprovaeal
tempo stesso un appello,avrebbe sostituitolunghe spiegazioni,glielo poteva sventolaresotto il naso e tuttosarebbe andato liscio,avrebbero saputo chefare di lui... E invece perl’ennesima volta fucostretto a spiegarsi agesti e in più lingue:indicava sé stesso,ripeteva il suo nome, la
nazionalità, la città diresidenza, e chiedeva uninterprete.Nellosguardodell’ufficiale di polizianon apparve il minimobarlume d’intelletto;certo, quel caldosoffocanteavevafiaccatolo stesso Budai, eincrinato la sua inizialedeterminazione e, pergiunta, si accorse che labenda era insanguinata,
la ferita alla mano si erariaperta, chissà se per ilcalore o la colluttazionecon il poliziotto. Nelfrattempo l’ufficialeavevafinitolapancettaeora era alle prese con unpezzo di formaggiomezzo sciolto, molle emaleodorante: rimase acontemplarlo perqualche istante, poicominciò a mangiarlo a
piccoli bocconi. Iltelefono accanto a luiiniziò a suonare; dopounalungaseriedisquillil’ufficiale allungòsvogliato una mano esollevò la cornetta.Rispondeva amonosillabi, con ilminimo sforzo, inquell’idioma stranierosconosciuto, di tanto intanto emetteva un rutto
esiasciugavailcolloelafaccia con il fazzoletto.Quando l’ufficialeriagganciò,Budairitrovòunpo’dienergia:picchiòil pugno sul tavolo epretese che lointerrogassero, che glidessero il modo diprovare la sua identità edi difendersi, digiustificare il suocomportamento e così
via... Con tutta calmal’ufficiale si alzò, andòversodiluie,prendendolo slancio con la stessaflemma, gli assestò unoschiaffo, dopo di chetornò a sedersi, ansante,e continuò imperturbatoa mangiare. Aveva ilpalmodellamanosofficee carnoso ma, si intuiva,avvezzo a mollareceffoni. Budai sentì
distintamente tutt’ecinqueleditaeperfinoilgrosso anello a sigillo:rimasetalmenteattonitoper quel colpo inatteso –quello precedente, lamanganellata, in fondol’aveva previsto – cheammutolì, paralizzato.Senza opporre alcunaresistenza si lasciòammanettare econsegnare a un altro
agente in divisa, il qualegli tolse la cravatta, lacinturaelestringhedellescarpe e lo scortò fuoridall’ufficio di quelcomandante obeso esornione che puzzava diformaggio e di sudore eche probabilmente eral’equivalente di unprefettodipolizia.
Fu condotto per unaserie infinita di corridoi,
affollatissimi, fino a unagrande porta a sbarredove fu preso inconsegna da unospilungone nero.Quest’ultimo indossavala tuta marrone cheaveva già visto, e allacinturaavevaunpesantemazzo di chiavi: dovevaessere un secondino ouna guardia carceraria.L’agente che gli affidò
Budai di certo gli riferìche era ubriaco: lospilungone nero scoppiòa ridere scoprendo legengive rosse e i dentisani e bianchissimi,quindi gli diedeun’amichevole paccasulla spalla, gli tolse lemanette e lo fececamminare davanti a sé;dietro una svolta delcorridoio comparve
un’infilata di celle, tantemassicce porte di ferrotutteuguali.Ilsecondinonero si fermò, ne aprìuna con la chiave, rise,gli gridò qualcosa,gesticolando, e lo spinsedentro. Poi richiuse laporta con uno schiantocosì violento cherimbombò in tutto ilcorridoio.
Era una cella per due,
illuminata da unalampadina che pendevadal soffitto. L’altrogiaciglioeraoccupatodaun tizio che dormivavoltato verso la parete echenonsimossequandoBudaientrò.Anchequiilriscaldamento eraintollerabile, l’ariaumida e soffocante, ilcalorifero emetteva deicrepitii ma non c’era
nessuna manopola perregolarlo. Da quando eraarrivato in quel posto aBudai doleva la testa,non riusciva a pensaread altro, e poi perchéfaceva quel caldotorrido?, sarebbe bastatolasciar entrare un po’d’aria, ma non c’eranofinestre. Si sdraiò sultavolaccio con addosso ivestitielescarpe,chiuse
gli occhi e aspettò che ildolore lancinante alcraniosicalmasse.
Si assopì, il colpo intesta doveva averlointontito; al risveglio siaccorse che il suocompagno di cella eraseduto sul giaciglio, e lofissava. Sembravaubriaco, probabilmenteera dentro per unasbronza o chissà quale
altro disturbo dellaquiete pubblica: era unuomo barbuto dimezz’età, con un aspettoda straccione, gli abitisudici e logori, la facciaricoperta di cicatrici emacchie violacee, losguardo annacquato.Quando vide che Budaiera sveglio gli puntò ildito contro e con voceprofonda e rauca,
esalando un fiatoalcolico,glidisse:
«Chlombrattibratt?».Suonava come una
domanda e in quellacircostanza potevasignificare:«Chisei?».Ladeterminazione di Budaiperòsieraindebolita,eilmalditestanonglidavapace,così,anzichéperdertempo nelle solite inutilispiegazioni, rispose
istintivamenteripetendoquelcheavevasentito:
«Chlombrattibratt?».Iltiziobarbutogrugnì,
alzò le spalle e iniziò afrugarsiaddosso.Cercòalungo, borbottando,svuotò le tasche bucate,poi infilò le mani nellafodera e tirò fuori unaquantitàdicianfrusaglie:unfazzolettosporco,unacrosta di pane secco, dei
fiammiferi, unmozzicone di matita,chiodievitiarrugginiteealla fine una sigarettatutta storta dalla qualeera uscita buona partedel tabacco: glielamostrò e gliene offrìmetà. Budai fece di nocon le mani per dare aintendere che nonfumava... Forse ladomanda di poco prima
voleva dire: «Hai unasigaretta?», o magari:«Vuoi una sigaretta?».Ricominciò perl’ennesima volta aparlargli in varie lingue,in tedesco, in olandese,in polacco, inportoghese, addiritturain turco e in persiano,perfino in greco antico,ma quello non gli davaretta e a un certo punto
lointerruppe:«Scerederebe toghig
hodovee gürübülü pracc...Antapracc, varaledebedimekariciarapracc...».
«Che cosa? Che cosavuoi?!» esclamò Budainella propria lingua,scandendo bene ogniparola come se quellopotesse comprendere.«Dimmi che cosa
vuoi...!».Il barbuto lo fissò per
unpo’conilsuosguardovelatoeassente,siaccesela sigaretta, aspiròprofondamente, poisoffiò fuori il fumo eriprese a parlare. Conl’aiuto dei gesti e dellamimica facciale Budairiprovò a spiegargli cheluierastraniero,chenonlo capiva, ma era
impossibileinterromperequelfiumein piena, l’uomo parlavaincessantemente,incurante di essereascoltato o meno.Doveva aver cominciatouna storia piuttostolunga, la voce forte ecavernosa prese un tonoepico,sifermavasolopertirare qualche boccata:fumò la sigaretta fino a
bruciarsi le dita, poi labuttò per terra e laschiacciò. E parlando siinfervorava,facevaampigesti e riempiva ildiscorso di esclamazionia effetto, si schiariva lagola, sbuffava, ridevasguaiatamente,schioccava la lingua conaria sognante,all’improvviso saliva ditono, si adombrava,
ammiccava come a dire:«Capisce cosa intendo,no?».Budaiprovòaaprirbocca, ma l’altro lo zittìconungestodeciso:
«Durung!...».E continuò a
raccontare, a declamarela sua interminabiletirata,nonstavazittounsecondo, Budai avevaormai le vertigini, glitornò anche il mal di
testa...Eppure,rinchiusolà dentro, avevafinalmente un’occasioneche non gli si era maipresentata: farsi dire dalsuo compagno di celladove si trovavano, inquale paese, e di lì poicarpirgli in un modo onell’altro – ci sarebberiuscito di sicuro – leparole del suo idioma,peravereuniniziodacui
partire... Tentò a piùriprese di fermare ilbarbuto, buttò giù deidisegni sul taccuino,contòsulledita,indicòséstesso e poi l’altro conocchi interrogativi, poi,perdendo la pazienza, simiseagridargliaddosso,ma niente: non c’eraverso di farlo tacere, erainarrestabile, parlava,parlava,parlava...
Sembrava anziarrivato a un momentocruciale: levò in alto lamano sinistra come seimprecasse, fu invaso dauna sorta di fervore,abbassò gli occhi, tacqueper un istante e quindiscoppiò in una risatateatrale.PoifececennoaBudai di avvicinarsi eascoltare: la sua vocepassò al canto. Aveva
una robusta voce dibasso e intonò unamelodia sconosciuta,una specie di ariad’opera, un pezzo serio,di un certo spessore. Dacomeportavalavoce,dacometenevaemodulavai suoni, si intuiva che lenotevoli qualità vocalierano state educate, mala vita depravata evagabonda, l’alcol e il
fumol’avevanorovinata,rendendola opaca eroca... Sembrava tuttopreso dall’esibizione,inebriatodalcantochesispiegava libero. L’ariaculminava in unpassaggio virtuosistico,una serie di scale chesalivanoperpoiscenderelentamente verso ilgrave, sempre più inbasso,eancora,equando
parevachefossearrivatoall’ultima nota, ecconeun’altra più profonda, allimite delle possibilitàfisiologiche, perconcludereconunsuonofinalecupoeprolungato.
Budai non sapeva seapplaudire oppure no.Allafinediun’esibizionecanora di tale entità, ilbarbuto era visibilmenteestenuato; cercò un’altra
sigaretta, non diede ilbenché minimo segno direagire a nessunadomanda, rimase afissare il vuoto con unafaccia grigia e cerea,fumando, poi si sdraiòsul tavolaccio e si voltòverso la parete... Il caldonon accennava adiminuire, sembravaperfino che avesseroalzatoilriscaldamento,e
l’aria non circolava:Budai aveva la camiciafradicia, si era tolto ilcappotto e la giacca e liaveva deposti accanto asé. La situazione eraassurda, il caldo eraintollerabile anche inmaniche di camicia, ilcalorifero continuava aemettere insopportabiliscoppiettii – in preda aun’improvvisa collera
Budai cominciò atempestare di pugni laporta di ferro: volevaessere tirato fuori di lì,pretendeva che lointerrogassero, con uninterprete,nonpotevanopiù tenerlo rinchiuso inunacellatorridainsiemeauncantante,unmalatodimente.
Fece baccano finchénonsiaprìlospioncinoe
apparveilvisonerodellaguardia, che si mise aridere, come a dire:«Guarda questi duebalordi ubriachi». Maappena Budai lo assalì didomande – con chediritto lo trattavano aquel modo? –, quelloruggì con rabbia erichiuse di scatto lospioncino; e nonricomparve,neanchepiù
tardi, quando Budairiprese a picchiare sullaporta.
Il suo compagno dicella o parlava, odormiva; aveva parlatocosì a lungo che potevaavergli raccontato tuttala sua vita. Era evidentechenongli importavasel’altro stava a sentire omeno. Budai avevapensato addirittura che
fosse sordo, vista latotale indifferenza alledomande. Volleaccertarsene, e mentrequello sproloquiavaprovò a picchiettare lapenna contro ilcalorifero: il barbutodrizzò la testa e si girò aguardare – dunque cisentiva –, e poiricominciò tranquillo ablaterare...
Budai era entrato inquel luogo che era quasisera,enonmangiavafindal mattino. L’ora delpasto doveva essere giàpassata, e nulla facevasupporre che gliavrebberodatoqualcosa.Il suo compagno di cellasembrava anziprepararsi per la notte,sedette sul buglioloabbassandosi i calzoni
senza vergogna, e senzasmettere di parlare.Pareva avercela conqualcuno, batteva ilpiede per terra, iroso, eagitavaminacciosamente ilpugno, conun’espressione piena diodio e di amarezza. Pianpiano si calmò, quindi siinfuriò di nuovo, diedeun paio di schiaffi nel
vuoto e girò le spalle,comeseavessesistematoi conti col nemico; poi sipulì la mano suipantaloni e sputò interra.
Budai stentava adaddormentarsi sulgiaciglio duro, lotenevano sveglio il caldotremendo, la fame e ilsenso di impotenza.Quando riuscì
finalmente ad assopirsi,madido di sudore, ebbel’impressione che il tiziogli si fosse avvicinato econtinuasse a blaterare,gesticolandogli in faccia,col fiato che sapevad’acquavite. Ma forsestava sognando. Facevauncaldoterribileeavevamalditesta,elamanoglidoleva.
Alla mattina il
secondinoportòdelcibo:due pezzi di pane nero euna gavetta piena dibrodaglia simile a caffè.Il barbuto ne bevve unpo’, poi la passò a Budai,cherifiutòconungesto...Poco dopo riapparve laguardia e gli indicò diseguirlo. Percorsero glistessi corridoi della seraprecedente, fino allostesso ufficiale grasso
dalla faccia violacea.Stava mangiando –stavolta un pezzod’anguria troppomatura,esputavaisemitutto attorno – e lastanza era afosa emaleodorante, come senon avessero mai apertola finestra. A Budaivennero restituiti glioggetti ritirati il giornoprima, e l’ufficiale, dopo
aver finito l’anguria,essersi pulito i denti conuno stecchino easciugato la bocca e ibaffi con un fazzoletto aquadretti,gliurlò:
«Goroghetutunepetecc!Viripij?».
Budai restòimbambolato davanti altavolo macchiatod’inchiostro. Che altroavrebbe potuto fare?
Quello lo guardava con isuoi occhietti obliqui,aveva la stessa ariasonnolenta e annoiata, ilrespirocorto,lepalpebreche quasi gli sichiudevano. Poi glimostrò entrambe lemani,aperte,unavoltaepoi un’altra volta. Budainon capiva che cosavolessedalui.Iltelefonosquillò anche ora,
l’ufficiale sollevò lacornetta e rispose convoce strascicata,prendendo deidocumenti da uncassetto e grattandosi ilcollo tozzo e arrossato.Quando ebbe finito – enon fu cosa da poco –alzò verso Budai unosguardo che diceva: «Equesto che ci fa ancoraqui?».Restòcosìqualche
momento, con la facciatorpida e bisunta, poiscrisse «20» su un pezzodi carta e glielo allungò.Budai continuava a noncapire, al che l’ufficialetiròfuoriilportafogli,neestrasse due banconoteda 10 e gliele sventolòsotto il naso. A quelpunto finalmente ciarrivò, era improbabileche gliele stesse
offrendo: doveva pagareuna multa cheammontavaa20unitàdiquella valuta; ecco cosaaveva inteso l’ufficialemostrandogli per duevoltelemaniaperte.
Non aveva voglia didiscutere, era contentodi aver capito, e se sifosse messo a protestareavrebbero potutocommutare la multa in
giorni di reclusione, cimancava solo quello.Estrasse dunque dallatascaduebigliettida10eli posò sul feltro verdedel tavolo: la sua riservadi denaro si stavaassottigliando. Non glirilasciarono alcunaricevuta,dovettefirmaresu un grosso libro el’ufficiale–conleunghiesudicie–gliindicòinche
punto.E con questo la
faccenda in sostanza erachiusa. Esitante, azzardòancoraqualchetentativo– si era pur fattoarrestareconunoscopo–ma nessuno gli diederetta. Il secondino neroera sparito, l’ufficialeobeso era di nuovo altelefono e aveva tiratofuori dal cassetto un
tegame azzurro con unaspecie di stufato freddo:lo annusò un po’, poi sidiede a mangiarlo dibuonalena.Infilandosiilcucchiaio in boccaproduceva unosgradevole risucchio,rivoli di sugo glicolavano lungo i baffispioventi che lui poiripuliva con ilfazzoletto... Budai
temette che se avesseinsistito si sarebbe presoun altro ceffone. Ecominciavaapatirel’ariaafosa e viziata cheriempiva tutti i locali diquell’enorme edificio –alla fin fine provòsollievo quando vennescortato all’aperto e potérespirare a pienipolmoni.
Giunse alla fermata
della metropolitana conil metodo giàsperimentato, seguire ilflusso principale dellafolla. Cercò sulla mappala stazione in cui sitrovava, segnata da uncerchietto rosso in alto adestra, e individuò confacilità il percorso per lasua fermata nei pressidell’albergo... Uscito insuperficie lanciò
un’occhiataalgrattacieloin costruzione: anchequel giorno si lavoravaalacremente e imontacarichi andavanosu e giù. Per puracuriosità ricontò i piani,ce n’erano due in più,sessantasette...
Fece colazione allatavola calda. Mentresorseggiava il tè troppodolce, si rese conto con
sgomentodiaverfattolacoda per ogni singolacosa senza quasiaccorgersi: ci stavaprendendo l’abitudine.Eppure era proprioquello a cui non dovevamai abituarsi, lo sentì inmaniera molto forte echiara e il cuorecominciò a battergliall’impazzata. Accettarela situazione, anche in
modo inconsapevole,avrebbe significatorassegnarsi, arrendersi,perdere la sola cosa chegli dava speranza: lacertezzadiesserediversodagli altri abitanti, diessere uno straniero,capitato lì per errore edel tutto estraneo a quelluogo – edevidentemente nonpotevano costringerlo a
rimanerci.Tornò di corsa in
albergo: stavolta nonsolo immaginava oconfidava che ci fossequalcosa per lui, ma neera sicuro... Fu quasifelice di rivedereall’ingresso il babbeo inpelliccia, che gli sorrisebattendo le palpebre,facendoilsalutomilitaree spingendo la porta a
vetri; ma notò chel’avvisoinpiùlinguecheavevaaffissoprimadelladisavventura poliziescaerasparito.
Mentre era in fondoalla coda per la chiave –di turno c’era un nuovoportiere, un giovanottobiondo dalla faccia lisciache sembrava unragazzino –, scorse dalontano l’angolo di un
pezzo di carta chesporgeva dalla casella921,unaletteraounodiquei foglietti usati neglialberghi per scriveremessaggi, da lì nonpoteva vedere bene. Fupreso da un’eccitazionetale che le sue ditacominciarono a danzareconfrenesiasulbanconedella reception: la codanonglieramaisembrata
così insopportabile. Erala risposta delladirezione?, oppure unriscontro dell’avvisoaffisso in giro perl’albergo? O forse eraarrivata una telefonataper lui, la compagniaaerea l’avevarintracciato, qualcunol’aveva cercato da casa odaHelsinki?Sì,perchéinquella città non era
riuscito a ottenerel’attenzione di nessuno,alla polizia non gliavevanochiestoneppurecome si chiamava...All’improvviso scoppiò apiangere, mentreavanzava lentissimo lagola e il petto eranoscossi dai sussulti;temeva di darenell’occhioefeceappelloa tutte le sue forze per
contenerel’emozione.Giunto dinanzi al
giovane portiere glimostrò il numero dellastanza che tenevasempre in tasca. Questiannuì cortese, staccò dalgancio la chiave della921 e nel contempoestrasse quel qualcosadalla casella. Era unfoglietto piegato inquattro,eilgiovanottolo
aprì sul banconeaggiungendo qualcheparola inintelligibile: erauna specie di modulodiviso in caselle in cuierano stati scritti apenna dei numeri. Congestirapidiemeccaniciilportiere prese lacalcolatrice e girò unpaio di volte lamanovella, forse percontrollare le somme,
con una penna a sferaannotò velocemente iltotale, lo sottolineò condue tratti, poi fece ungrosso scarabocchio e,pronunciando in tonodisinvolto quella chesuonava come una frasedirito,loporseaBudai...A quel punto non ebbepiùdubbi,sitrattavadelconto dell’albergo, e siaccorsecheeratrascorsa
una settimana esatta dalsuoarrivo.Forseiclientiche si fermavano eranotenuti a pagare la stanzaognisettegiorni.
Nell’immediato quellochelolasciòsenzaparolefu il totale: 35,80, eccocosa c’era scritto infondo al foglio;sottraendolo a quantoaveva ancora in tasca glirestava pochissimo, più
o meno una cifraanaloga. È vero che daquando gli avevanocambiatol’assegnoavevaspesoadestraeamancaconunacertaleggerezza,come se fossero statisoldidelmonopoli,senzapensare che sarebberofiniti... Il portiere gliindicò lo sportelloaccanto, era là cheavrebbe dovuto pagare,
era la stessa cassa doveall’arrivo gli avevanodato le diciottobanconote da 10, nuovedi zecca. Ora col cuorepesante ne consegnòquattro – dopo una codadi almeno mezz’ora,naturalmente –, e conamara ironia constatòche nell’arco di unasettimana avevasperperato buona parte
del suo assegno senzasapere neanche in qualevaluta.
Si ficcò il conto intasca, e intanto cheaspettava l’ascensorecontrollò di nuovoquantoglirimaneva.Trebiglietti da 10, alcunitaglipiùpiccolida1eda2, come poté leggere suquei pezzi di cartasgualcita e sbiadita, e un
po’ di spiccioli. Eranopochi soldi, una sommapericolosamente misera:non osava immaginareche cosa sarebbesuccesso quando liavesse finiti, ma nonpoteva fare a meno dipensarci. Con la testa infiamme, sommando emoltiplicando cercò dicalcolare per quantigiorni sarebbero bastati,
e rifletté sul modo di fareconomia, fermorestando che bisognavapur mangiare. Magaririnunciare a tutti i suoigiri per la città,risparmiare sui trasportipubblici... Ma comedoveva ridursi, tappatoin camera ad aspettarel’arrivo delle truppe disoccorso?
Il suo cervello, ormai
innescato, continuava alavorare: oraall’improvviso, mentrel’ascensore lo portava alnonopiano,glivenivanomille idee, una miglioredell’altra, anche setardive e vane, su comearrivare allo scopo oalmeno provarci, se solonon avesse dovutolesinare ognicentesimo... Per esempio
avrebbepotutomostrarea qualcuno un bigliettoda 10 in una mano e ildisegno di un aereonell’altra, fargli capire agesti che cercava quellacosa lì, l’aeroporto o gliuffici di una compagniaaerea, sventolargli labanconota davanti agliocchiinsiemealdisegno,e pagarlo solo se loavesse condotto là.
Oppure poteva adescarein metropolitana unpasseggero che gli fossesembratoadatto,unounpo’ male in arnese,passargli la banconotasotto il naso come unapannocchia di granturcodavanti al muso di unmaiale, e imitando ilfischio della locomotivafarsi portare verso unastazione ferroviaria. Una
proposta esplicita dellostesso genere potevapersuadereunimpiegatodell’albergoaprocurargliuna macchina o un taxi,poi ci avrebbe pensatol’autista adaccompagnarlo dovevoleva, aggiungendoovviamente il prezzo perla corsa; sì, con untassista se la sentiva diprovarci ed era certo di
farcela. Questepossibilità glibalenavano nella mente,unadopol’altra,masullosfondorestavauntimoreagghiacciante: a chi sisarebbe rivolto se nonavesse concluso nulla enel frattempo fosserofiniti i soldi? In qualeaiuto poteva maisperare? A quanto avevasperimentato finora, per
la gente del posto luiavrebbe anche potutocreparedifame.
Nella sua camera eratutto uguale a comel’aveva lasciato, avevanosoltanto cambiato lelenzuola, gliasciugamanielatovagliadi tela sul tavolo:evidentementedavanolabiancheria pulita ognisettimana. Budai guardò
in strada dalla finestra evide la fiumana di follache serpeggiavainterminabile. AHelsinki il congressodoveva essere finito daun pezzo, i partecipantierano tutti ritornati acasa, anche i piùlontani...Sisvestì,tiròletende,sisdraiòsullettoesi mise sotto le coperte.Un minuto più tardi
sentì che il suo corpo siirrigidiva, il tronco e gliarti erano bloccati, comeinstatod’ipnosi,nonerain grado di sollevarsi enemmeno di voltarsi sulfianco, non riuscivaassolutamente amuoversi.Manonvolevamuoversi, sarebberimasto lì con gli occhichiusi per un tempoindefinito, senza alzarsi
La sua famiglia siaspettava che tornassequattro, cinque, almassimo sei giorni dopola sua partenza: avrebbedovuto essere a casa giàda un pezzo. Chissà checosaavevanopensatodelfatto che non avessescritto, telefonato,mandato untelegramma, che nonavesse più dato alcun
segno di vita. Quandoavevano cominciato acercarlo, e a partire dadove? Da Helsinki? Lasegreteria organizzativadel congresso dilinguistica doveva aversegnalato che lui non siera mai fatto vivo, chel’avevano attesoinutilmente. Forse sierano rivolti allacompagnia aerea? O uno
dopo l’altro ai probabiliaeroporti di scalo daiquali poteva essertransitato per sbaglio?Chissà quali stradeavevano tentato, inpreda a un’angosciacrescente: dov’era finito,era pensabile che fossesparito in quel modo,senza lasciare traccia?Come si spiegavanoquesto mistero i parenti,
gli amici, i colleghi, esoprattutto sua moglie,come doveva sentirsi? Esuofiglio,unbambinodipochi anni, e il cane?...Immaginare il lorosmarrimento,l’agitazione, i tentativivia via più disperati, leansiose congetture, iltimore di un incidente –questi pensieri glidavano un dolore quasi
fisico,chesisommavaalsuo senso di impotenza:era intollerabile, moltopeggio della suacondizione, ogni voltache queste idee loassalivano si sforzava discacciarle.
Non avrebbe saputodire per quanto tempofosse rimasto a letto,forse per due o tre notti.Durante tutte quelle ore
non era comparsonessuno, nessuno avevatelefonato o bussato allaporta; lui per lo menonon aveva sentito nulla,enoneranovenutiafarelepulizie.Sierasvegliatobruscamente e avevavisto che era mattina, laluce filtrava grigia dallafinestra, un’altragiornata fosca eplumbea: da quando era
capitatolìavevascortoilsolesìenounpaiod’ore.Si riscosse, andò inbagno a farsi una docciae la barba. Diedeun’occhiata al conto chesieraficcatointascagiùalla cassa: purtroppo inumerieranoscrittisoloin cifre, non in lettere. Epensare che avrebbepotuto essere un buonpunto di partenza per
capire la grafia dellecifre. Se l’avesseappurato, avrebbetentatodiascoltaredallaviva voce degli abitantila forma fonetica deinumeri, magariestorcendola condomande astute, e così,per gradi, sarebberiuscito a decifrareprimalascritturaepoilalingua; naturalmente
tutto questo avrebberichiesto parecchiotempo. E comunquesarebbe dovuto partiredauntestoconinumeriscritti sia in cifre che inlettere; e non era il casodi quel modulo... Perciòpreferì mettere da parteilcontoerimandareaunaltro momento lariflessione.
Nell’immediato aveva
compiti più seri eimportanti a cuidedicarsi, e perconcentrarsi in taliriflessioni lasciò la suastanza solo permangiare: andava allatavola calda che giàconosceva oppure, perrisparmiare,compravaalnegozio generi pococostosi come pane,pancetta,cetrioliesimili.
Macomunquenonavevaappetito, benché fosse adigiuno da giorni,assorbito com’era da unindefesso lavoriomentale: non avevaperso la fiducia nellapropria intelligenza, edera convinto che seavesse esaminato conordine tutto quello chegli era successo –dall’inizio, dal momento
incuierascesodall’aereoper salire sul pullmanche l’aveva portato incittà – qualcosa sarebbeper forza venuto fuori,proprio come unasomma in fondo a unalungacolonnadinumeri.Stava seduto allascrivania e riempivafogli di disegnini eappunti, col sistema cheusava a casa quando era
alle prese con qualchecomplesso problemalinguistico: accostava econfrontava i fogliettidove aveva annotato,come per gioco, diverseforme lessicali e relativevarianti, fino a quando,presto o tardi,all’improvviso i dati sidisponevano secondo unordine chiaro edevidente. Certo, quando
succedeva... Credevanella sua intuizione,nella prontezza del suoingegno,nellacapacitàdiapprofondimento, nelsuo estro, doteindispensabile per laricerca scientifica, eforse anche nellafortuna, che durante lasua carriera l’avevafinora assistito, riuscivaaportareaterminetutto
quel che intraprendeva.Era abituato a ragionarecon metodo, era il suomestiere, era così che siguadagnava da vivere.Anche ora, mentretracciava figure eappunti sul taccuino –attività che mettevaistantaneamente inmoto la suaimmaginazione –,provava quasi lo stesso
piacere che si prova nelrisolvere un problema dilogica: affrontare lamiriade di misteri diquella città con la solaforza dell’intelletto.Raccolse tutte leesperienze che gli eranocapitate e le inserì nelsuocervellocomedatiinuncomputer,aspettandoche le elaborasse eproducesseistruzioni.
Giunse a unaconclusione sostanziale,per quanto penosa eamara: per prima cosadoveva sapere conprecisione dov’era, sevoleva andarsene di lì,altrimenti ritrovare lastrada di casa era fuoriquestione. Non erapossibile evitare orovesciare quest’ordinedi priorità, una cosa
seguival’altra.Chissà,seno, quanto tempoavrebbe dovutoaspettarel’aiutodelcaso:gliimprovvisatitentatividifugaeranofallitienonc’eranessunagaranziadiun miglior esito infuturo.Qualechefosseilluogonelqualeildestinolo aveva scaraventato, sipersuase che lasciarlononerafacile.
Non che fossediminuita l’urgenza, maforse era stata proprio lafretta il suo errore piùgrave, scappare a gambelevate senza aver chiarosequellazonadelmondocomparisse sulle cartegeografiche, o se invecenonfosseinunterritoriosconosciuto, e lui ilprimo esploratore fra isuoi simili. Perché in tal
caso non potevasquagliarsela, dovevafarsi carico dei compitifondamentali di unesploratore: determinarelaposizionegeograficadiquella città, scoprirne ilpaese e continente, chierano gli abitanti, chelingua parlavano e cosìvia, in modo da poternedare notizia una voltatornatoacasa.
E,fral’altro,sitrovavasulla Terra o su un altropianeta? Nell’èra dellemissioni spaziali e dellafantascienzaladomandanon suonava cosìassurda. Riflettendoci amente fredda, però,scelse la prima ipotesi.Accanto a molti altrisegni, a testimoniarlaerano la vegetazionetipicamenteterrestreche
aveva osservato neiparchi – gli alberi, l’erba,i fiori –, e le specieanimali che gli eracapitato di incontrare:cani, gatti, piccioni,passeri, insetti, i coniglid’angora della stanzadell’albergo, i pesci almercato e i canarini, ipappagalli, le tartarughealla fiera degli animalivivi, a parte quella
lucertola a sei zampe dicui non aveva maisentitoparlare.L’odoreela consistenza dell’arianon erano diversi daquelli del suo luogod’origine. E,naturalmente, a indicareche fossero sulla Terraera soprattutto lapresenzadiesseriumani,per giunta con unadensità senza confronti,
e di case, strade,alberghi, trasportipubblici, veicoli,metropolitana: tutto eraidenticoomoltosimileaquel che si trova inqualsiasi grande città. Ilmodo di vivere ingenerale,iritmi,inegozi,i ristoranti, il cibo,l’economia basata suldenaro,ilfattostessochegli avessero cambiato
l’assegno di viaggio; inumeri arabi e l’uso delsistema decimale. Lascansione del tempo insettimane, la pausadomenicale, eccetera,eccetera.
Stelle non ne avevaviste, il cielo era quasisempre coperto, ma perfortuna la serasuccessiva si schiarì perqualche ora. Budai non
sapeva molto diastronomia, era in gradodi riconoscere soloqualche costellazione, lePleiadi, Orione e l’OrsaMaggiore e, a partire daquest’ultima, sin dapiccoloavevaimparatoaindividuare la stellapolare. Si mised’impegno a cercareproprioquesteeletrovò,dunque doveva essere
nell’emisferosettentrionale: non nesapeva molto, appunto,ma era sicuro che inquellomeridionalel’OrsaMaggiore non eravisibile... Ma se era sullaTerra, a che grado dilatitudine e longitudinesi trovava? In vita suanon si era mai occupatodi queste cose, forseavevalettodicoordinate
geografiche solo neiromanziperragazzieneiresoconti di viaggio. Sisforzò di ricordare comesi faceva a stabilirle, eprovò anche ad arrivarcida solo: se avesse messoa confronto ilmezzogiorno locale, cioèquando il sole è più alto,con l’ora del suo paese –semprecheavesseavutoconsél’orologioenonlo
avesse spostato sull’oralocale –, dallo scarto sipoteva calcolare lalongitudine: bisognavadividere le 24 ore per360 gradi, ognidifferenza di quattrominuti equivaleva a ungrado, e così avrebbesaputoaqualedistanzaaestoaovestsitrovavadacasa. Ma era senzaorologio, e non poteva
farci niente. In assenzadi qualsiasi strumento,determinarelalatitudinedi quel luogo era unaquestione di puraspeculazione e avrebbepotuto arrivarci solo aprezzo di estenuanticalcoli mentali. Ilsistema più rapido eramisurare l’angolo tra lastella polare, che èallineata all’asse
terrestre, e l’orizzonte.Ma ci voleva un sestanteo un teodolite, e doveprocurarseli? A occhionudopotevastimaresoloapprossimativamentel’altezza della fioca stellapolare–semprechefossequella – e gli sembravapiù o meno la stessa chedalle sue parti: dovevaquindi trovarsi sulmedesimo parallelo, o
non lontano, ma dove?In Europa? In Asia? InAmerica? O in uncontinente ancorasconosciuto?
Aveva consideratospesso il climasgradevole o lacomposizionemultietnica dellapopolazione, ma non nericavava indizi utili. Illoromododivestirenon
erapernullainsolito,eraparagonabile a quelloche si vede nelle grandicittà europee, forseappena più grigio eausteroeconunmaggiornumero di uniformi. Glivenne in mente laguardia nera alla polizia,che aveva la stessa tutaindossata da molti: chefossero tutti, fra uominie donne, dei secondini o
delleguardiecarcerarie?Intanto, andando su e
giù in ascensore, avevavisto spesso la ragazzabionda.Cercavadicapirei suoi turni, ma finivaper confondersi: a volteera lì nelle ore che luiprevedeva, a volte no,altre volte ancora,quando le porteautomatiche si aprivanoconilloroforteronzio,se
la trovava davantiinaspettatamente.Ormaisi salutavano, e da certipiccoli segni si intuivache anche Budai avevacolpitolasuaattenzione.In un paio di occasioni,mentre lui si apprestavaa scendere, la ragazza gliaveva anche rivolto laparola: in risposta lui leaveva sorrisotimidamente
stringendosinellespalle,come a dire che noncapiva, ma non c’erastato il tempo diaggiungere altro e quelliche uscivano l’avevanotrascinatofuori.
Ma la volta successiva,al nono piano, la donnagli posò la mano sulbraccio e lo trattenne;Budai finalmente capìche voleva invitarlo da
qualche parte. Restònella cabina, che via viachesalivasisvuotavadeipasseggeri, mentre inumeri dei piani siaccendevano uno dopol’altro sulla tabellaluminosa sopra le porte.Il diciottesimo eral’ultimo, e nell’ascensoreerano rimasti solo lorodue.Laragazzaaprìeglifececennodiscendere.
Era un piano diverso,senza stanze. C’eranoenormi serbatoiverniciati di bianco etubi di tutte ledimensioni, l’impiantodiriscaldamento,ilvanomotori dell’ascensore,pulegge e cavi. E ancheuna specie di bar oristorante che almomento era chiuso –forse lo aprivano nella
stagioneestiva–conunaterrazza panoramicaaffacciata sulla città, perquanto poté vedere dallaporta a vetri chiusa daunlucchetto.
La ragazza si acceseuna sigaretta e glieneoffrì una. Budai le fececapire che non fumava.Da come aspiravaavidamente il fumo e loespirava sembrava una
fumatrice accanita, e inascensore ovviamentenon poteva fumare. Nelfrattempo gli sorrise,come a scusarsi: ora erafresca e riposata, i trattidel viso erano distesi enon mostravano tracciadi stanchezza, aveva unmodo di fare spigliato esereno,unapettinaturaeun trucco perfetti. Noncercò di forzare la
conversazione, dovevaessersiormaiaccortacheera inutile, buttò lìqualche parola con vocemorbida,qualcosacome:
«Jejee tlehuatlan...Muulatlalaalli?».
Escoppiòinunarisatasommessa, lenta emelodiosa, soffiandouno sbuffo di fumo, conla schiena appoggiata auno dei serbatoi. Dalla
cabina aperta si udì untrillo, stavanochiamando l’ascensoredai piani inferiori, ma lacosalilasciòindifferenti.Budai si picchiò il ditosul petto, ripeté il suonome un paio di volte,poi indicò la ragazza conaria interrogativa. Leirise di nuovo e risposecon una parola di duesillabe. Lui non era
sicuro di aver capito edomandò:
«Pepe?Tete?».Ma avrebbe anche
potutoessereBebe,Veve,Ghieghie, Dede o chissàche altro ancora, l’avevadetto articolando i suoniin maniera così strana, equando lo ripetevasuonava diverso, a voltesembrava addirittura ditre sillabe, qualcosa
come Edede, Bebebe. Maforse declinava il nome,oppure aggiungeva unarticolo...Aquelpuntoilcampanello suonava coninsistenza, ai pianiinferioridovevanoesserein tanti ad aspettarel’ascensore. La donnaspense la sigaretta, labreve pausa era finita.Budai rientrò con leinella cabina, che tornò a
riempirsimanmanochescendeva: nuovipasseggeri si infilaronotradiloro,einbreveluiela ragazza non si videropiù. Soltanto al nonopiano,primadiscendere,intercettò il suo sguardoe si scambiaronoun’occhiatad’intesa.
Era elettrizzato: perquanto esile, era pursempre un legame, un
rapporto, il primo daquandoeralì–sel’avessemantenuto e coltivato,poteva diventare il filod’Arianna di quelgigantesco e popolosolabirinto... Magari stavafacendo una scopertadalla portata universale,e un giorno, alla fine,avrebbe visto con altriocchi quella situazione.Magari era il primo a
essere arrivato in quelluogo. O forse no, eratuttaunasuaillusione.
In ogni modo, era oradi affrontare il compitoche si era dato:innanzitutto farsiun’idea delle dimensionidella città. La mattinadopo uscì di buon’ora,salìsuuntrenoqualsiasiinmetropolitanaearrivòfino al capolinea, dove il
vagone si svuotòcompletamente. Sullabanchina si fermò unmomento a pensare alladirezione da prendere insuperficie: avrebbepuntato verso laperiferia, allontanandosidal centro. Si sforzò dimemorizzareilsensodeibinari per orientarsi, glisembrava la cosa piùlogica, ma i
sottopassaggi dellastazione si rivelaronotortuosi, un intrico dicorridoi, scale, svolte esbocchi: quando fu instradanonsapevapiùdache parte andare, così siincamminò a caso,nell’ignoto. Tracciò sultaccuino uno schizzodegli incroci e degliedifici più caratteristicichesilasciavaallespalle,
peraiutarsialritorno.Erauntipicoquartiere
diperiferia,lunghimuri,recinzioni, ciminiere,gasometri, strade larghee sporche, tetre case dimattoni; lontano controil cielo grigio la sagomascuraeimponentediunagrandefabbrica,coltettodentato come una sega,un’ariapienadifuligginee acre odore di fumo.
Qua e là spacci dialimentari, rigattieri,negozidiarticolivariconlevetrinepienedimercepiuttosto scadente. Eovunque la marea deipassanti era densa comealtrove... Forse avevasbagliato direzione?Oppure la metropolitananon raggiungeva iconfini della città? O lacittà era cresciuta a
dismisura? Comedovevano sentirsi gliabitanti, nati in mezzo aquel caos? Non sirendevano conto che lafollainondavaeintasavatutto,liobbligavaastareperennemente in fila, asprecare un mucchio ditempo, come riuscivanoatollerareunaqualitàdivita così infima? O nonsapevano immaginare
niente di diverso, a lorosembrava naturale, ciavevano fattol’abitudine? Ma ci sipotevamaiabituare?
Le strade erano pienediveicolianchelìeBudaiprovòaleggereletarghe,ma non fece nessunprogresso: lettereindecifrabili sialternavano a tre,quattro, cinque cifre, e
non c’era nessuna siglainternazionale chepermettesse di risalire alnome del paese. Seavesse saputo guidareavrebbe cercato diprocurarsiunamacchina– senza giri di parole, dirubarla – per poiinventarsi qualcosa. Manon era capace... etantomeno di rubare; epoi senza una cartina
non sarebbe andatolontano,inqueldedalodivie e piazze, in queltraffico da ora di punta.Gli venne in mente diaver visto un negozio dibiciclette,manonavevaisoldi per comprarne unae del resto non sarebbemai riuscito a usarlasenzaperdersi...
Di stazioni ferroviarienon c’era traccia, e
neppure di pontiferroviari o terrapienidovesupporredeibinari.Cercò invano unaeroporto; ogni tanto sisentiva in alto il rombodi un aereo ma non sicapiva da che parteatterrassero odecollassero. Se la cittàfosse stata sul mare,avrebbe camminatolungolacostaallaricerca
di un porto, e lì avrebbetrovato delle navi, unabarca: avrebbe issato levele con una rottaqualsiasi, perché il mareè una porta spalancata,unaviaversoogniluogo.Non si era imbattutonemmeno in un fiume,inuncanale,inuncorsod’acqua qualsiasi che inteoria – se lo avesseseguito–l’avrebbeprima
o poi condotto al mare,dove doveva sfociare.Aveva visto solo deibacini artificiali, neiterreni fra un edificio el’altro, pieni d’acquastagnante,sporcaenera,simili alle cisternecostruite nel suo paesedurante la guerra; e unlaghetto ornamentalesenza canale di scolo nelparco che aveva
attraversato un giorno,sulla cui superficiegalleggiavano cartacce,bottiglievuoteemacchieoleose.
Ricominciòafermareipassanti chiedendo dache parte fosse il mare,mimando con le mani ilmoto delle onde omuovendo le bracciacome un nuotatore.Ripeteva la parola più
volte, ora in una lingua,orainun’altra,perfinoingreco:
«Thalassa!Thalassa!».Naturalmente non lo
capivano e se neandavano per la lorostrada,indaffarati,senzatempo da perdere con isuoi grattacapi. Dopovari tentativi Budai siperse d’animo e smise didomandare, era avvilito,
inibito dagli insuccessi,sentiva un nodo allalingua. Ma continuò acamminare nella follache non diminuiva, perun istinto più forte diogni intenzionecosciente: aveva decisoche non avrebbeabbandonato la partita,doveva arrivare fino infondo, con tutte le sueforze, quale che fosse il
risultato.Sulle strade calò una
nebbia fredda epungente, a tratti cosìfitta che non riusciva avedereaduemetridasé.Iveicoliavevanoaccesoifari,procedevanoapassod’uomo, gli ingorghierano accompagnati daun concerto di clacson eurla, i motori siingolfavano. Ora Budai
faceva molta attenzioneai punti di riferimentoper orientarsi al ritorno.La nebbia si diradò perunattimoegliapparveilconoditelabiancadiuntendone da circo: non lointeressava in quelmomento, non sapevachefarsene,epassòoltrenella caligine grigio-viola. Più avantiintravide un portale
tutto illuminato: cosapotevamaiessere...?
A un tratto si accorseche le macchine eranoscomparse, c’eranoinvece tante lucinefioche e tremolanti.Luccicavano misteriosenella penombralattescente: erano stelle?O fuochi fatui? In quellafoschia fitta e soffice,privadiprospettiva,non
riusciva a stabilire a chedistanza fossero. E solodopo essere inciampatopiù volte in cumuli diterraesagomedimarmoe pietra, si rese conto diessere in un cimitero, equelle fiammelle eranocandele e lumini, chestavano sulle tombeoppure in mano aivisitatori. Questi ultimigremivano i viottoli di
pietriscooccupandoognipalmo di terra fra itumuli e i mausolei:Budai si chiese se percaso fosse il giorno deimorti, ammesso che locelebrassero da quelleparti. Oppure eracapitato in un corteofunebre, magari diqualcuno abbastanzafamoso da radunare unasimile moltitudine? O in
quella città era normalechecifosselafollaanchealcimitero?...Dalontanoarrivava una musicad’organo o di unostrumento simile, unamelodia grave e solenneche parevaaccompagnata da cantilenti, strascicati: eraimpossibile stabilire dadove proveniva, sedall’altoodasottoterra.I
monumenti funebri, perquanto si potevaintravederenellanebbia,erano di varie forme edimensioni, con fiori evasi, talvolta con unastatua o il ritratto deldefunto. Non eranomoltodiversidaquelliditutti i cimiteri, ma nonc’erano croci, per lomeno su quelli cheosservò da vicino: le
iscrizioni sulle lapidierano incise con queicaratteri simili a rune.Non poté fermarsi astudiarle perché venivacontinuamente spintovia dal torrente umano,che sembrava seguireunadirezioneprincipale;alla fine si ritrovò fuoridalcimiterocosìcomeciera capitato, cioè senzaaccorgersene.
La nebbia si era un po’diradata: gli apparve unquartiere operaio, tantecasette tristi, tutteuguali, con l’intonacoscrostato, dai tettimancava qualche tegola,in piccole aiolecrescevano sparuticespugli di erbearomatiche. Poi un altomuro di cinta, unportone di pietra
assediato da centinaia dipersone:noneraunafilaquesta volta, ma unassembramentorumoroso e disordinatodove tutti spingevanoper entrare. Budai sichiese che diaminestesse succedendo: lacuriosità lo attirò versoquel raduno chiassoso ein un attimo alle suespalle si era ammassato
un mare di gente, eanche volendo nonpoteva più tornareindietro. L’ingresso eratroppo stretto, e lepersone continuavano aspingereeadaumentare.A un certo punto eranocosìcompressicheBudaitemette di finireschiacciato o calpestato:quando fu finalmentedentro, gli sembrò di
esserepassatoattraversountritacarne.
Dovevaesserecapitatoinunozoo,omeglio,unozoo di scimmie, perchénon c’erano altre speciedianimali.Soloscimmie,tante gabbie piene discimmie. E centinaia divisitatori, ogni recintoera circondato da nugolidi persone checontemplavano a bocca
apertaesgomitavanoperguardare più da vicino:in gran parte bambini,ma anche parecchiadulti. Erano esposte lespecie più disparate diprimati, per quanto potéconcludere in base allesue scarse nozioni dizoologia: lemuri,scimpanzé, babbuini,enormi gorilla eminuscoli uistitì,
cercopitechi, gibboni,macachi. La cosa piùsorprendente era che,per quanto numerose,quellebestiemostravanopersonalità distinte,bastava osservarle perunpo’eognunarivelavaun carattere unico einconfondibile: il mododi correre, diarrampicarsi su e giù, dimangiucchiare con aria
irrequieta; sbucciavanola frutta, giocavano, sigrattavano o sispulciavano beate l’unl’altra facendo le faccepiù diverse, facce fiere odevote, affabili ospaventose, pietose oarroganti; squittivano,strillavano,chiacchieravano,gracchiavano,ridacchiavano, si
eccitavano e siannoiavano, si amavanoe si odiavano, sipicchiavano o siaccoppiavano, o se nestavano accovacciate inun angolo con ariaafflitta,sognandolibertàeforeste.
C’erano avvisi in ogniluogo e le reti dellegabbie erano piene discritte, più o meno
lunghe. Quanto a Budai,avrebbe preferito chefossero poche e brevi,perché allora si sarebbetrattatoinequivocabilmente delnome della specie,seguito dal nome latino,come si usa negli zoo.Certo, si trovava sempredavantiicarattericheluinon riusciva a leggere,ma questa volta avrebbe
avuto un punto dipartenza per decifrarequella scrittura:conoscendo il nomelatino del babbuino –casualmente se loricordava, papio – erapossibile scoprire i segnicorrispondenti a queisuoni, e sostituendoli inaltre parole un po’ allavolta avrebbe decifratol’interoalfabeto...Sì,mai
cartelli erano così tantiche potevano indicareogni sorta di cose: ildivieto di dar damangiare agli animali,notizieedatisullaspeciein questione, ladistribuzione geografica,perfino il marchio difabbrica della gabbia,cose generiche come«Vietatogettarerifiuti»o«Vietato fumare»...
Sembrava impossibilepescare da una talemarea di scritte quellariferita al nome dellascimmiadietrolesbarre,figurarsi poi il nomelatino, sempreché lousassero.
C’era una filalunghissima anchedavanti alla portadipinta di verde deiservizi igienici, due
colonne distinte per gliuominieperledonne:sela sorbì fino in fondo,non aveva alternative...Piùtardi,daunviadotto,che per chissà qualeragione faceva passareuna strada al di sopra diun’altra, scorse inlontananza unostabilimentobalneare.Vierano diverse piscine,grandiepiccole,affollate
dibagnantinonostanteilclima invernale;nell’acqua non c’eraquasi lo spazio permuoversi, la gente situffava vociando eschizzando,altristavanoappesi a grappoli altrampolino. Per quantopoté,attraversoilvaporeche si condensavanell’aria fredda,perlustrò con lo sguardo
tutta l’area dellostabilimento in cerca dicondotte o canali dismaltimentoperleacquereflue, ma non videniente del genere;dedusse che le tubatureeranosotterranee.
Il paesaggio dellaperiferia diventava piùdesolato, le case sidiradavano e sialternavano a terreni
incolti e a prati; però iltraffico stradalerimaneva pressoché lostesso. La nebbia erasvanita, l’aria era freddae secca, e per qualcheminuto fece la suacomparsa nel cielosporco il disco rossastroenitidodelsole.Quaelàerano sparse baracche dicartone incatramato oricavate da carcasse di
autobus, e lontano lalunga sagoma colorruggine di una discaricadi detriti chiudeval’orizzonte.
A un certo punto sicreò un ingorgo dipedoni e macchine, lamassa era così compattachetuttisifermavano,siriuscivaapenetrarvisoloa forza di spallate nellaressa; evidentemente un
ostacolo ostruiva lastrada. Budai non silasciò scoraggiare,riteneva di avere affaripiùurgentideglialtriesifece largo a spintoni,ormai aveva imparatochenonc’eraaltromododi cavarsela. Così, dopodiecioquindiciminutidimischia e botte, arrivò avedere ciò che impedivailpassaggio.
Dei bovini stavanoattraversando lacarreggiata, un’interamandria sfilavalentamente, muggendo,guidataacolpidifrustaecon l’aiuto di cani daalcuni mandriani instivali di gomma, giaccadi pelle o di velluto acoste, cappello a tesalargaobasco–unaviadimezzotracowboyebulli
di periferia... Budai agìd’impulso e seguì ibovini sul terrenoerboso, lasciando lastrada asfaltata econfondendosi con imandriani, anche se ilsuo abbigliamento eradiverso dal loro. E nonsapeva il perché di quelgesto,nonsichiesedovestava andando, volevasolo uscire dalla città.
Nessuno gli domandòche cosa ci facesse conloro; la mandriaavanzavadisordinatamente esollevando nuvole dipolvere, ogni tantoqualchetoroimbestialitotentava di fuggire ecreava un gransubbuglio,finchéicanieibovari,unendoleforze,non lo riprendevano con
grida selvagge e nervosilatrati.
Attraversarono unadistesa sabbiosa,oltrepassarono unasegheria dove si tagliavail legname in mezzo asibili assordanti, e poientrarono in una zonaabitata, gli zoccoli deglianimali scalpitavano sulselciato con un rombosordo. Poi guidarono
quel branco di bestiameverso un terrenorecintato e da lì in unedificio dalle volteimmensechesorgevasullato opposto. Budai sibuttò in avanti, un po’per curiosità, un po’portato dal suo stessoslancio: si accorse che lebestie erano entratequasi tutte nel vastocapannone a pilastri, ma
non vide la testa dellamandria, che dovevaaver raggiunto una zonapiù in là nell’edificio.Uomini e boviniriempivano tutto lospazio, oltre aimandrianic’eranooperaiin grembiule di tela chesi affaccendavano: imuggiti e le grida eranosempre più sinistri eogni suono rimbombava
fra le pareti nude,nell’aria aleggiavanoodoricaldienauseanti:sitrovava al mattatoio,nonc’eranodubbi.
Quell’orda rumorosa escomposta di bestie euomini confluiva in unagrande sala rischiaratada lucernari, dove ilpavimento era rosso escivoloso per il sangue.Gli animali dovevano
intuire il destino che liattendeva, forse perl’odore del sangue, siimpennavano epestavanodisperatamente glizoccoli,dilìnonavevanoalcuna via di scampo, eda dietro spingevanonuovicapi.Quandoerailsuo turno, l’animaleveniva circondatoall’improvviso da un
gruppo di nerborutigarzoni,unoloafferravaper le corna, un altro lotenevaconunacordaeloimmobilizzava con lezampe divaricate. Alloraquello con la scure locolpiva da dietro sullanuca: lezampecedevanoe la povera bestiacrollava sul pavimento.Una volta a terra, locolpivano anche sulla
fronte, ma dovevarestare vivo ancoraparecchio tempo perché,riversosuunfiancosullepiastrelle, si agitava escalciava scuotendo latesta, anche dopo che gliavevano ficcato uncoltello nella gola perdissanguarlo, e il suosguardotristedamartirediventava vitreo, conuna lentezza
esasperante.Budai non tollerava
quella vista, non volevapiù guardare, maovunque si girassegiacevano animalimoribondi, dieci, venti,trenta, che poi venivanotrascinati via per esserescuoiatietagliatiapezzi,e di seguito toccava adaltrial loroposto,sottoicolpi della scure, e
quando anche questierano stati abbattuti,eccone ancora, senzafine,comesearrivasserolì tutti i bovini delmondo... Indietro nonpoteva tornare perché lamandria che rifluivanella sala lo avrebbetravolto e schiacciato,poteva solo andare oltre,in avanti, dentro lacarneficina,
inciampandoininteriorae pelli, in frattaglie epezzi di carcasse, inmezzo al sanguefumante, a macellai coivestiti insanguinati e amuri sporchi di sangue,fra i pilastri: sentiva chesenonfosseuscitoalpiùprestosarebbesvenuto.
Quando finalmente siportò fuori dalcapannone, si ritrovò
nell’angolo di un cortilesul quale si aprivanodelle officine dilavorazione: sipreparavanoinsaccati,lemacchinemacinavanolacarne e la riducevano inpoltiglia. Ormai lontanodalla scure, da quellosterminiodimassachesitrasformava a poco apoco nella routine dellaproduzione su larga
scala, non riuscivaancora a liberarsi dalleimmagini che avevavisto là dentro. Leginocchiaglitremavano,e le forze lo stavanoabbandonando al puntochedovettetenersiaunagrata per non crollare aterra... Dopo quellaviolenta commozione,sopraffatto da undisperato senso di
solitudine, cercòconforto evocandol’immaginedellaragazzadell’ascensore mentrefumava all’ultimo pianodell’albergo: la sentivamolto vicina, provava ilbisogno quasi vitale diaggrapparsi a lei, anchesolocolpensiero.Eppurenonsarebbestatocapacedi raccontarlequell’esperienza da
incubo, dato che nonriuscivano a capirsi allivello più elementare;non sapeva nemmenocon quale nomepensarla: Bebe, Tetete,Epepe?
Uscì dal cortile delmattatoio passando dalcancello posteriore eproseguì ilsuocamminolungo un fossato.Osservò la superficie
dell’acqua, vigalleggiavano dellefoglie morte, immobili:acqua ferma e fangosanel suo letto, odore dimarcio. Poi, in manierapiuttosto sorprendente,il paesaggio ritornòurbano:ricomparverogliedifici, all’angolo di unastrada svettava ungrattacielo rotondo dallelineemoderne.All’uscita
del metrò si eraincamminato nelladirezione sbagliata oaveva girato in cerchio estava tornando indietro,verso i quartieri centralidai quali era partito?Oppure quella era unacittà diversa? E sorgevacosìvicinoall’altra?
Davanti a un negoziodi scarpe un giovaneparalitico in sedia a
rotellesuonavailviolino– ma forse questa scenarisaliva a un’altra voltachesieraavventuratoaiconfinidellacittà, leduegiornate ormai siconfondevano nella suamemoria. Aperta perterra giaceva la custodiadelviolino,conattaccatoun cartello. Budaistavolta provò a intuirequelchec’erascrittocon
l’aiuto della situazione,del contesto. Dovevanoessere parole toccanti,perché i passanti, cheanche qui riempivano lestrade, gettavano spessodegli spiccioli nellacustodia, facendolicadere anchetutt’intorno, e parecchiepersonesieranofermatein circolo ad ascoltare ilmusicista, bloccando il
passaggio. Il ragazzosuonava discretamente,maneggiava lostrumentoconunacertaabilità, di sicuro avevastudiato musica, forsec’era scritto questo sulcartello. Suonava unastrana melodia, moltosemplice, commovente,densa e pura, carica dinostalgia, o almeno cosìparveaBudai;nonaveva
frettadiproseguireilsuocammino e si unì agliastanti. Il ragazzoeseguiva sempre lastessa aria,ricominciandola ognivolta; aveva le cosceatrofizzate, e i suoipiccoli piedi striminziti,nelle scarpe minuscole,pendevano inerti dallasedia; il viso un po’gonfio, la fronte
incorniciata dai riccioli,chinosulsuostrumento,tirava l’arco traendonequella sola melodia,ignaro di tutto,incurante, lo sguardovuoto puntato sullecorde – o forse eracieco...?
Visto l’effetto cheesercitava sugliascoltatori e le copioseofferte, Budai immaginò
chesulcartelloilgiovaneinvalido informasse ilpubblico che avevaintrapreso la carriera dimusicista ed era statocostretto a interrompereglistudiperlapovertà.Ebenché si trattasse solodella sua supposizione –che tra l’altro,quand’anche l’avesseindovinata, potevacomunque essere una
subdola messinscena,unodeisolititrucchiperabbindolare gli ingenui–,Budainefucomunquecolpito e commosso.Certo,erainunostatodiprofonda prostrazione,abbandonato a sé stessoda chissà quanti giorni,sempre più solo in unagiungla sterminata dipietra, cemento emattoni,inmezzoaisuoi
innumerevoli abitanti...Sebbene avesse deciso dibadare al centesimo e dispendere il minimoindispensabile, oralanciò anche lui unamonetinaalviolinista.
E poi tirò avanti per lasuastrada.Glisembròdientrare di nuovo in unquartiere del centrostorico: le strade eranodiventatepiùstrette,agli
incrocic’eranoisemaforipedonali, ogni tanto unpalazzo antico mostravala patina dei secoli, e vierano resti di mura efortificazioni comequelle già viste inprecedenza. Era stancoper il gran camminare,ma non trovò né unparco né una panchinasucuisedersi.
Mentre cercava un
postoperriposare,scorseun edificio con unacopertura di acciaio evetro, con una torre euna cupola, e quattrograndi orologi sullamaestosa facciata chesegnavano il tempoall’unisono; all’internointravide una salaenorme e profonda, efiotti di gente cheentrava e usciva
dall’ingressoprincipaleeda quelli laterali. Laformadell’edificioglierafamiliare, ne aveva vistidi simili in tutto ilmondo. Budai lo osservòcon il cuore in gola perl’emozione: che fossefinalmente una stazioneferroviaria?... Ma unavolta entrato in quellospazio immenso, unaspeciedihangardivetro
e acciaio, non vide nébinari né vagoni nélocomotive,eilviavaieirumori erano ditutt’altro genere. Eppurel’edificio visto da fuori,nelle linee generali e, aosservare bene, persinonella pianta, aveva tuttele caratteristiche di unastazione, tanto che sisentì di concludere cheera proprio quella la sua
destinazione originaria,e poi dovevano averloconvertitoadaltro.Achecosa, lo ignorava; quelvasto atrio gremito dipersone sembrava unasala d’aspetto. Da lì,divisi da file di colonne,si diramavano corridoi adestra e a sinistra, egruppi di persone inattesa, in silenzio obisbiglianti, si
concentravanosoprattutto inprossimità delle ported’entrata; posti a sedere,però,noncen’erano.
Altre porte a vetri siaprivano su locali piùpiccoli, e con qualchespallataegomitataBudairiuscì ad avvicinarsi esbirciare dentro. Unuomo vestito di scurosedevaauntavoloposto
sopra una pedana, e difronte a lui il pubblicoassisteva in file dipanche. In un angololaterale c’era una speciedi pulpito dal qualeparlavaun’altrapersona:nella prima stanza eraoccupato da una donnadi colore dallacapigliatura lanosa, intailleur blu; in quellasuccessiva, da un uomo
alto e atleticonell’uniforme di telamarrone. Sulle primeBudai credette di esserecapitato in una scuola oin un’università, dovequelli sul pulpitorispondevano aun’interrogazione, incattedra c’era ilprofessore, e tutti glialtrieranostudenti–maalloraperchésitenevano
addosso il cappotto, esoprattutto perchéveniva tollerato quelcontinuo viavai? Ma eratroppo stanco perrifletterci:aprìlaportadiuna stanza a caso,nell’ultimafiladipanchec’era un posto libero eandòasedersi.
Dal pulpito un omettobasso dall’aspettoinsignificante stava
cercando di spiegarequalcosa: sbatteva lepalpebre, farfugliava eincespicava, siconfondeva, si vedevache non era abituato aparlareinpubblico.Ognitantounuomovestitodiscuro nella prima fila glifaceva delle domande,così come quello sedutoal tavolo sulla pedana. Aquel punto Budai capì
dov’era finito: era untribunale, e moltoprobabilmente vi sidiscutevano le causecivili, a giudicare dalcontesto edall’atmosfera. E quelloche aveva preso per uninsegnante eranaturalmente il giudice,l’individuo che faceva ledomande era unavvocato o qualcosa del
genere,quellosulpulpitopoteva essere invece ilquerelato,ilquerelanteountestimonechiamatoadeporre. Non riuscì peròa capire l’oggetto dellaquestione, dato che ildibattimento si svolgevanellalorolinguaastrusa.È vero che non vi prestòmolta attenzione;camminava dal primomattino, anzi da giorni,
quella marcia continualo aveva spossato,faticava a tenere gliocchi aperti e per un po’siassopì.
Si svegliò disoprassalto quando ladonnaaccantoaluidissequalcosa ad alta voceverso lo scranno delgiudice,chesovrastavailpubblico, di certo inrisposta a quanto aveva
appenasentito.Ladonnadoveva essere lì già daprima, soltanto che luinon l’aveva notata:portavaocchialispessi,eanche le palpebre eranospesse e arrossate, comese avesse pianto molto.Per il resto era piuttostoattraente, non sembravaavere più di trent’anni,portava un cappelloverde sui capelli biondi
raccolti nello chignon,aveva labbra bendisegnate chesuggerivano una certasensualità dietro allaconcitazione delmomento, e un corpodalleformepiene,sodeedesiderabili che siintuivanosottoilvestito.Era evidentementeirritata da quel chebalbettava l’ometto che
sbatteva le palpebre, erarossa in viso, teneva labocca socchiusa, prontaa interromperlo – eraforse suo marito? Eraun’udienzadidivorzio?
Aunanuovadomandadell’avvocato l’omettorispose con una solaparola, in manierastraordinariamentepronta; a quel puntoscoppiò un putiferio. Il
pubblico tuonava, nellaprima fila un’anzianavirago balzò in piediagitando minacciosa unombrello, altri si miseroa gridare a squarciagola,il giudice suonava unacampanella senzariuscire a frenarequell’uragano dipassioni: la vicina diBudai proruppe insinghiozzi, un signore
con i capelli grigi e ifavoriti alla FrancescoGiuseppe si rivolse algiudice indicando ladonna piangente.Spuntarono degli uscierichetentaronodicalmaregli animi e far tornare lepersone ai loro posti, lacampanella del giudicetrillava senza posa.Allora la donna colcappello verde – senza
dubbiounadelleparti incausa – sgusciò fuoridalla fila di panche, sislanciò verso il pulpito esi gettò sull’uomo chestava deponendo. Questitentò goffamente ditogliersela di dosso, ladonna vacillò, poi emiseun lamento di dolore – ilcaos era totale. Il piùimpaurito sembraval’ometto insignificante,
che sbatteva atterrito lepalpebre: tese la manoverso la donna con unosguardo tenero eapprensivo del tuttoinaspettato, visto quelche era appenasuccesso...
Per una volta,eccezionalmente, Budainon si sforzò affatto dicomprendere che cosastesse accadendo. Non ci
avrebbe capito granchéneanche se avesseparlatolalorolingua:erauna faccenda privata,senza speranza nésoluzione, che gli era deltutto estranea, lui nonc’entrava e non volevasaperne. Così si alzò euscì dalla stanza,passando in mezzo algruppetto di genteassiepata davanti alla
porta.In strada, si voltò a
guardare la singolarefacciata dell’edificio e glivenne in mente che, sedavvero era stata unastazione, lealtrestazionidella città dovevanotrovarsi lungo quellostesso viale circolare, oalmeno una parte, comea Mosca – e magari traqueste ce n’era qualcuna
che non era stataconvertita ad altri scopi.Le probabilità eranosenza dubbio esigue, mane bastava una soltanto,ealmomentononavevaidee migliori: a ognimodo, si avviò nelladirezione che ritenevapiù plausibile. Ma la viafiniva perpendicolare auna stradina, e lui siguardòperplessoprimaa
destra e poi a sinistra:adesso da che partedoveva andare? Avevasenso sforzarsi diindividuare unoschema?Forselestazionierano disseminate per lacittà senza seguire uncriterio e uno se letrovava davanti neipuntipiùdisparati,comea Berlino, Parigi, Londra.O forse c’era una
stazione centrale chesmistava la maggiorparte del trafficoferroviario, come adAmsterdam, Francofortee Roma. O al massimodue,comeaNewYorklaGrand Central e laPennsylvaniaStation.
In una piazza, strettafra le case, si elevavasopra ai tetti una chiesaalta e imponente.
Sembrava un’anticacattedrale, unmonumento storico,anche se i numerosicampanili, la cupolagigantesca, gli archi e levolte a tutto sesto, lecolonne, le cornici, ifregi, le statue, i pilastri,le decorazioni in pietra ele volute le davano unaspetto a dir pocoeclettico: era arduo
stabilirne l’epoca,probabilmente era statacostruita nel corso divari secoli, come spessole cattedrali. Di fronteall’ingresso principale lepersone aspettavano infila per due, formandouna coda lunghissimache costeggiava unanavata laterale per poisvoltare e sparire dietrola chiesa... Già che era
arrivato fin là, si disse,valeva la pena dedicarviun po’ di tempo:raggiunse il fondo dellacodaesiunìaglialtri.
La piazza era piena dipiccioni chezampettavano esvolazzavano in foltistormi. Erano sfacciati einvadenti: quandoavvistavano qualcunocondellebricioledipane
non si limitavano adavvicinarsi, maandavano a beccarledirettamentedallemani,siposavanosullespalleesulla testa, tubando efrullando, sollevandosiin volo come nuvolegrigie, spargendo piumee escrementi. Budai, incoda, provò ad attaccarediscorso con un’anzianasignora con un logoro
collo di pelliccia che,come altri, dava damangiareagliuccelli,maforse le si rivolse troppodiscretamente,oppureladonna era un po’ sorda,fattostachenonreagìinalcun modo: continuavaa gettare le briciole,tubava per attirare ipiccioni e lasciava che lesi posasserodappertutto... Non si
capiva neanche se adattirare quella follaimmensa fosse ladevozione religiosa o lacuriosità di visitare unachiesaimportante.
Dopo un bel po’ –ormai non ci faceva piùcaso,avevapersoilsensodel tempo – arrivòfinalmente all’ingresso,dove sperava di trovarequalche opuscolo
illustrativo,comeèd’usoin luoghi simili. Maappena varcati i battentidel portone ildisciplinato corteo ebbeun’improvvisaaccelerazione, perchétutti si lanciavano suibanchetti dei venditoriche riempivanol’ingresso. Da quel cheriuscì a distinguere al dilàdellaressa,vendevano
oli, unguenti, unapoltiglia o pasta dall’ariasospetta, arredi sacri ocomunque accessori dacerimonie, e poi candelee incensi, ma nienteguide. Le persone simuovevano spingendosie quasi calpestandosil’un l’altro, e chi erariuscito ad arraffare unvasetto o una boccettaproseguiva a forza di
ginocchiate e gomitate,con il bottino stretto alpetto.Lamitevecchiettache poco prima dava damangiare ai piccioniadesso assestava calcitremendi a chi lecapitava a tiro, il logorocollo di pelliccia le erascivolato sulle spalle esventolava come unvessillodibattaglia.
Lo spazio interno,
talmente ampio da nonpoter essere abbracciatocon un solo sguardo earticolato in modocaotico, era invaso daifedeli e dal loromormorio salmodiante.Varie liturgie sisvolgevanoinpiùluoghicontemporaneamente, oalmeno così sembravadalle frotte di personeche qua e là si
stringevano attorno auomini in tonaca ezucchetto – di certosacerdoti – intenti arecitare o cantarequalcosa a voce alta. Lepareti erano quasiinteramente ricoperte diaffreschi, immagini,dipinti e mosaici, eintorno erano statue,stucchi, rilievi, pulpitisovrastati da
baldacchini, edicole,nicchie, archi e volte,decorazioni e intagli amerletti, dorature,smalti, avorio, vetratemulticolori,pavimentidimarmo intarsiato, spessitappeti e pesantilampadari in ferrobattuto: il tutto era diuna ricchezza eabbondanza cosìstrabiliante che era
impossibile coglierne idettagli. Budai tentò diindividuare uno stile inquell’intrecciosfolgorante, ma – forseperché non se neintendeva molto – nonseppe riconoscere né ilromanico, né ilrinascimentale, né ilbarocco, né altro, purriconoscendo deglielementidiognuno.Così,
su due piedi, non riuscìneppure a capire a qualereligione o mitologia siriferissero le immagini,lestatueeledecorazioni:figurediuominiedonne,giovaniedecrepiti,perlopiùinabitiantichi,conilsaio o una specie ditonaca, rappresentati ingruppi, scene di caccia,cervi e caprioli, cani,leoni, uomini armati di
picche e archi e uncavaliere in armaturache lottava con unserpente. Pur avendopoca familiarità conl’iconografia, potevaperò escludere che fosseun luogo di cultocristiano o ebraico,poichénonc’eranoaltari,crociostellediDavide,omusulmano, perché ilCoranovietalestatue.Se
fosse capitato in unasortadipagodaorientalel’avrebbe capito dallacaratteristica figura delBuddha seduto o di Šivadalle molte braccia...Naturalmente questeerano osservazioni cheprocedevano peresclusione, e potevadarsi benissimo che sitrattasse di templid’altrogenere.Anchequi
le iscrizioni sui muri ealtrove erano in quellaspeciedialfabetorunico,ma i caratteri avevanoun aspetto più arcaico equalchesvolazzoinpiù–forse la loro lingualiturgica stava allalinguavivacomeillatinoall’italiano o l’anticoslavo ecclesiastico alrusso?
La cerimonia era
bizzarra e selvaggia;Budai si avvicinò a unodei gruppi più folti, inprossimità dell’ingresso.Fu allora che si accorseche, non lontano, sopraun tavolo coperto da undrappo scuro, giacevaimmobile una donnacorpulenta, davveroenorme, vestita coneleganzaecircondatadaifiori: era morta. Aveva
unvisograssoecolorito,forse l’avevano truccata,un collo pingue coldoppiomento,eanchelemani, accanto al corpo,erano paffute e piene difossette,carichedianellid’oro affondati nellepieghe delle dita. Gliastanti, che chiaramenteeranolìperdarel’ultimosaluto alla defunta, levoltavano invece le
spalle, guardando versoil sacerdote: questi,reggendo un grossorecipiente metallico,quasi una teiera, appesoa delle rumorose catene,all’improvviso cominciòa gridare qualcosa intono dolente. Alloraanche tra i fedeli silevarono gemiti e guaiti,molti si gettarono sulpavimento, sbattendo la
fronte così forte datemere che sirompesserolatesta.Enelfrattempo nonsmettevano dilamentarsieiloropiantisalivano eriecheggiavanotralealtevolte, mescolandosi allelitanie provenienti daaltre zone della chiesa.Alcuni avevano gli occhipieni di lacrime, una
donna esile con unfoulard nero in testa sisentì male, le gambe lecedettero e dovetteroaccompagnarla fuorifendendolafolla.
Ragazzi in cotta rossasistemarono dellecandele accese intornoalla defunta, mal’assembleacontinuavaanon curarsi di lei.Tenevano gli occhi fissi
sul sacerdote, che alzò espalancòlebraccia,tantoche le ampie manichedell’abito talare gliscivolarono fino aigomiti, poi chiuse gliocchiconun’espressioneestatica, quasivoluttuosa, e declamòdelle parole con vocemetallica, ripetendoleper due volte. O forsenon erano uguali, ma
solo simili, due versi inrima che suonavanopressappococosì:
Zöhömöö,pröhödööTüridümimödölnöö...!
Queste parole
produssero sull’uditoriol’effetto di unaeccitazionesenzafreni,eanche coloro che fino a
quel momento eranorimasti in silenziocominciarono asinghiozzare,agridare,siprosternarono a terrafinendo uno sull’altro,poiché non c’era spaziopertutti.Unvecchioaltoe secco si strappò didosso prima il cappotto,poiglialtrivestiti,ilgilè,la camicia, i pantaloni,gli stivali, restando in
lunghi mutandoni aquadretti:avevailtoracericoperto di un foltovellocanutoeroteavagliocchiinpredaaunafollefrenesia.
Anche altri sispogliarono, nonostanteil freddo, persino donnee ragazze, come ossesse,quasi a offrire la loronudità... In Budai,stranamente, lo
spettacolo non suscitòindignazione né stupore,ma piuttosto si sentìcontagiato dall’ebbrezzadi quella devozione:provò il desiderio digettarsisulpavimentodimarmoinsiemeaglialtri,di togliersi le scarpe e diallentare colletto ecravatta. Era comestordito, invaso da unagioia estatica, felice di
trovarsi là e di potersidonare agli altri, difondersi nella grandecomunitàdeicredenti.
Accesero l’incenso, e ilsacerdote sollevò ilturibolo e lo feceoscillare. Allora tuttiquanti, come a unsegnale, si precipitaronoin avanti verso di lui.Benché vinti dall’estasimistica si disposero
comunque in fila perdue.Alcunitentavanodisorpassareperesserepiùvicini, ma quelli in filanon lo permettevano e liricacciavano indietro: siscatenò una vera rissaper i posti. Un signoreobeso con la bombetta eil bastone da passeggiofinì letteralmentecalpestato, glicamminarono sopra
nonostante agitasse lebraccia ed emettesseflebili strilli come unmaialinodalatte.
Lo scopo di tutta labaraonda era arrivare alsacerdote, prostrarsi aisuoi piedi e baciargli lascarpa che fuoriuscivadall’abito talare. Era unascarpina di vernice nerache un tempo dovevaesserstatalucida,maora
era diventata opaca acausa del contatto ditutte quelle labbra.Quando arrivò il suoturno, Budai si chinòcome gli altri ma lasfiorò appena,provandone ribrezzo. Sirivolse al sacerdoteprima in latino e ingreco, bisbigliandoveloce per sfruttare almassimo il brevissimo
tempo a suadisposizione, quindi inebraicoe inanticoslavo,lingue usate nei ritireligiosi epresumibilmente noteagli studiosi di teologia.Il sacerdote rimaseimmobile, sul voltoscultoreo dallacarnagione bronzea noncomparvealcunsegnodicomprensione. Agitò il
turibolo che tenevaancora alzato sopra lasua testa; Budai vennespinto via malamentedal fedele dietro di lui,una specie di cinese conla testa rasata e i baffispioventi, e dovettecedergli il posto perpermettereanchealuidibaciare la scarpa divernicenera.
La cerimonia si
concluse così;l’assemblea si sciolse elui si allontanò, sospintodalla densa corrente deivisitatori. Era stanco enon aveva abbastanzaenergia per provare achiedere informazioni aqualcuno, si lasciòtrascinare. Il flussoumanosidividevainduedavanti a una scala achiocciola che portava
verso l’alto con unaleggera pendenza. Scelsequesta via e iniziò asalire,sempregirandointondo.Prestoglivenneilfiatone e gli siindolenzirono le gambe,ma gli altricamminavano così infretta che volente onolente dovette stare alloro passo, mosso anchedallacuriositàdiscoprire
dovestavanoandando.Dopo un bel pezzo, e
chissà quanti giri,all’improvviso ilpercorsomutòdirezione.Svoltarono in unballatoio circolareintorno a un immensovano coperto da unsoffitto a forma dicampana: erano arrivatisotto la cupola dellachiesa. Dalla balaustra si
potevagettarelosguardoverso il basso, sullamoltitudine cheformicolava ottanta ocentometrisottodiloro:vista da lì era solo unamassa nerastra anonimae impersonale, carneviva che ondeggiavalenta. Ma si provava unavertigine ancora piùintensaaguardareinsu,nella cavità della cupola,
seguendo i costolonicurvi fino alla cima, chesembravacosìaltadafarvenire il batticuore: lasommitàdellacupolaeraquasialtrettantolontanacheilsuolo.
Bisognava fare tutto ilgiro del ballatoio,seguendo le freccedisegnate. Poi si varcavauna porta, e di qui sisalivano altre scale,
moltopiùstretteeripidedella precedente, che siarrampicavanoall’interno dellastruttura a guscio dellacupola. Poi anche questeterminavano e siproseguiva su sempliciscale a pioli, angustepasserelle e di nuovoripide scalette semprepiù faticose e cherichiedevano quasi
un’agilità da acrobata.Ma non poteva piùtornare giù, perché c’eragentedietrodilui,ealtriancora, in fila indiana,senza fine, sin dovearrivavailsuosguardo.
Eranoormaiviciniallacima, gli sembrava, e ineffetti l’ultima scalettaverticale l’avevacondotto in un piccololocale circondato da
tante finestrine. Dovevatrattarsi di quellastruttura cilindricacostruita sulla sommitàdelle cupole perconsentire l’ingressodella luce nello spaziosottostanteche,aquantoricordava, in gergoarchitettonico si chiamalanterna.Sopradiessasielevava una minuscolacalotta di vetro, il punto
piùaltodellachiesa.Unascaletta di ferro portavalassù,eallafine,unopervolta, ci si potevasporgere con il busto. Lascomodità eraampiamentecompensata dalla vistache si godeva: tuttointorno si allargava ilpanorama dell’interacittà.
Stavacalandolasera:il
cielo si tingeva di colornero inchiostro, ma eradifficilediresequellachegravava sopra i tettifosseunanebbiadifumoe fuliggine o una nuvolacaricadipioggia.Lacittàsi estendeva a perditad’occhio in tutte ledirezioni: ovunque ci sivoltasse non se nevedevano i confini. Nonc’erano altro che case e
isolati, vie, piazze, torri,quartieri antichi emoderni, caseggiatilogori e fatiscenti egrattacieli nuovifiammanti rivestiti dimarmo candido, viali evicoli, fabbriche,officine, gasometri, e ilgigantesco capannonedel mattatoio, chericonobbe anche dalontano. E camini,
camini dappertutto,cometantegoledidragoverso il cielo chesputavano fumo bianco,nero, giallo e violaceo. Eilventolorimescolavaincumuli sporchi e nesoffiava alcuni filamentianche attorno al suopunto d’osservazione;era un vento freddo efurioso che ululavacingendo d’assedio la
cupola, tanto che lastruttura cigolava egemeva sotto le sueraffiche e la sommitàoscillava sensibilmente.Si infilava anche nellapiccolagabbiadivetroincui stava appollaiatoBudai,ilqualetremavaebatteva i denti marestava lì, incapace distaccarsi da quellavisioneincantevole.
Però, per quantospaziasseconlosguardo,nonvedevanébinari,néstazioni; l’oscurità,inoltre, si infittiva eandavacancellandoognidettaglio. E non scoprìneppure fiumi, ponti olitorali, per quantoaguzzassegliocchi.Forsesoltanto lo specchio diun bacino idrico – ci erapassato accanto strada
facendo – luccicò perqualche istante,riflettendo un raggio disoletardivoederrante,epoi scomparve tra i velidel crepuscolo... Soloallora cercò quei terreniincolticheavevacredutoai margini della città eche aveva attraversato apiedi. Li colse all’ultimomomento, prima chesvanisseronelnulla:una
striscia sottile di unospento colore bruno-verdastro, in mezzo adue quartieridensamenteedificati,siada una parte chedall’altra. Ma non capivache cosa dividevano dache cosa, se era davverouna linea di separazionetopografica...Dunqueeraallo stesso punto diprima: era arrivato in
un’altra città o erasemprelastessa?
Aognimodo,decisedidesistere. Non tanto perla stanchezza, se fossestato per quello avrebbeproseguito; aveva unanotevole resistenzafisica, a casa era solitotemprare il corpo convari sport, ed eraabituato a nonrisparmiarsi fatiche se si
prefiggevaunoscopo.Masapeva che da quellachiesa ce l’avrebbe fattaa ritrovare la strada perl’albergo, da qualsiasialtro luogo più lontanoinveceno,specieoracheera calato il buio: nonsarebbe riuscito a tenerea mente o segnare sultaccuino tutti i punti diriferimento. E poi, sedavvero quella era
un’altra città, chegaranzia o speranzeaveva, lì, di orientarsimeglio? La lingua,l’alfabeto e tutto il restoerano sconosciuti tantoquanto nella prima, esimile il numero deipassantieilloromododifare frettoloso,sgomitante e cinico.Avrebbe dovutoricominciare tutto da
capo, raccapezzarsi,imparare i percorsi deimezzi pubblici e comesoddisfare i suoi bisogniprimari: ilsobrioeparcostile di vita che avevafaticosamenteinstaurato sarebbeandato perduto. E nonaveva uno straccio dipostodoveposareilcapo–perché,sevifossestatocostretto, a chi e in che
maniera avrebbe potutochiedere alloggio per lanotte, dove mail’avrebberoaccolto?
Le luci si accesero,isolatoperisolato,stradaperstrada;apocoapocoemersedalblugrigiastroil panorama serale dellacittà. Non se nevedevano i confini danessuna parte: inlontananza, là dove le
linee dei lampioni e gliammassi di luciconvergevano in ununico chiarore, nebbieluminose e vie lattee nelasciavano intuire unseguito, così come lospazio concentra inun’unica scia la miriadedi stelle distanti milionidi anni luce nella voltaceleste... Per tutta la suaesistenza Budai aveva
vissuto in città, per luieral’unicacornicedivitacompatibile con il suolavoro,lesueabitudini,isuoi svaghi, e avevasempre subìto il fascinodelle grandi metropolidel mondo. E sebbene leproporzioni di quellacittà lo atterrissero, e difatto lo tenesseroprigioniero, non potevanegarne l’imponente
DaquandoeraarrivatoBudai era entrato inpossesso di alcuni testiche potevano servire perlo studio del sistema discritturainusodaquelleparti. Innanzitutto ilfoglio appeso nella suacamera, che sembravaun regolamento e cheaveva già esaminato. Poic’era il giornalecomprato la prima
domenica nel quartieredeidivertimenti,chenonavevapiùpresoinmano.Ma ora decise diconcentrare la suaattenzione sul contodell’albergo, trattandosidell’unico scritto di cuiintuisse almenovagamente il contenuto.Aveva già appurato chele varie voci erano statecompilate solo in cifre,
senza nessuna lettera, etuttavia riteneva valessela pena di occuparsenepiùafondo.
In cima al modulo, inmezzo ad altri segniilleggibili, spiccava ilnumero 921. Erachiaramentel’intestazione principale,essendo lui l’occupantediquellacamera;macheilrestofosseilsuonome,
ammesso che losapessero, era un’ipotesiimpossibile daconfermare o confutare,al pari di tutte lespeculazioni precedenti.Provò ad analizzare icosti addebitati, per lasomma finale di 35,80.La spesa maggiore eranaturalmente il prezzodellastanza,allaqualesiaggiungevano altre voci,
forse le telefonate, ilriscaldamento,oletasse,o chissà. Cercò invanoimporti di una certaentità: il più alto era5,40, poi un 2,70, un3,80 e cifre simili.Eppure da qualche partedoveva esserci unamoltiplicazione, latariffa giornaliera persette, dato che gliavevano consegnato il
conto una settimanadopo il suo arrivo. Manon ritrovòun’operazione delgenere, pur avendorilettotuttoecontrollatolesommepiùvolte.
Allorapensòdicercaresulfoglioladata,inaltoein basso: niente. Glisembrava impossibileche il conto nonriportasse una data –
forse era scritta inlettere?Perchémai,forsesi usava così?... Poi glivenne un’altra idea, epassòinrassegnatuttelevoci lasciate in bianco.Dedusse che si trattavadi servizi di cui nonaveva usufruito, e chenon gli erano statiaddebitati: colazione,lavanderia, stiratura ecosì via. In mancanza di
altri criteri, provò aindovinare il tipo diservizio dalla lunghezzadella dicitura,naturalmenteallaciecaesenza successo, poichéavrebbe dovuto almenosaperecomesuonavanoitermini. Fu allora chenotò la brevità delleparole:unpaiodilettere,o poco più. Forse avevadavanti delle
abbreviazioni? Se eracosì, probabilmente sitrattava di abbreviazionicorrenti, note a tutti,comequellesullebollettedellaluceedeltelefono–ma in questo caso il suocompito diventavaenormemente difficile,pernondireimpossibile.
Riprese inconsiderazione ilgiornale, lo guardò, lo
rigirò fra le mani pervedere che cosa potevacavarne.Feceunastranae spiacevole scoperta.Finoadalloraavevalettoda sinistra a destra edall’alto in basso, comein latino e nei sistemi discrittura europei. Cosìsembravano suggerire ilconto, il regolamentodell’albergo e purel’elenco telefonico
sottrattoallareception,epoi sparito dalla suacamera. Ma ora glisorgeva un dubbio. Equesto perché in cimaalla prima pagina c’erauna specie di testata, untitolo più grande e ingrassetto, ma ce n’erauna anche in fondoall’ultimo foglio, eidentica. Da dovebisognava cominciare?
Da davanti, dall’alto? Oda dietro e dal basso? Oforse da una parteall’altra come nel grecoantico, nella cosiddettascrittura bustrofedica,dove si legge da destra asinistra e poi a ritroso,specularmente, dasinistraadestra?Oppureera soltanto quelgiornale a essere scrittoin una lingua con
caratteridiversi?Ricopiòalcune lettere, scelte quae là fra tutti i testi chepossedeva: fin dalleprime trovò dellecorrispondenze. Erasempre piùdisorientato... E neanchesulgiornalec’eraladata,per lo meno non innumeri, lo esaminò inlungoe inlargo;pernonparlare del nome della
città o del luogo distampa del giornale:dove andarli a cercare,nella testata, appenasotto, o al di sopra?Doveva essere proprio lì,sarebbe stata la cosa piùlogica – ma poi qualetestata, quella davanti oquelladietro?
Allora gli venne l’ideadiprendereildenarochegli era rimasto in tasca e
dispose con ordine lebanconote secondo iltaglio. Vi eranoraffigurati personaggisconosciuti, paesaggi oscorci di edifici ignoti,figure allegoriche,elementi ornamentali...Come su tutte lebanconote. Anche leimmagini sulle monetenon erano moltodissimilidaquelleinuso
ovunque: testefemminili, spighe digrano, fiori, uccelli.Provò a cercare suibiglietti il numeroespresso in lettere, datoche doveva esserci. Mac’erano scritte di ognigenere, di variagrandezza e forma, ecopie di firmescarabocchiate. Potevatrattarsi di molte cose: il
nome della banca odell’istituto, quello delloStato, la legge che neregolava l’emissione e lacircolazione. Forse laconsueta formula chestabiliva la sommapagabile al portatore eche la falsificazione erapunita a norma di legge,quelgeneredicosechevivengono stampate – inognicaso,eratroppoper
riuscireaorientarsi.Un’analisi delle
monete forse era piùpromettente: di solito –almenoneipaesidov’erastato finora – oltre allacifra c’era solo il nomedella valuta locale equellodelpaesediconio.Fece tintinnare glispiccioli nella mano:eranopezzida50,da20eda 10. Su ogni moneta
unascrittacorrevalungoil bordo, senzainterruzioni. Non solonon riuscì a decifrare ilnome della valuta, maneppure dove iniziavanoofinivanoqueisegni.
Così non era giunto anulla: brancolava nelbuio a occhi bendati...Doveva rimettersi acopiareicaratteridituttii testi? E a cosa sarebbe
arrivato?Erainutile,nondisponeva di documentisufficienti, o meglio, glimancava un punto dacui cominciare, uncriterio–ilbandolodellamatassa. Quello che civolevaeraundizionario,o almeno uno scrittobilingue.
Aveva bisogno di unalibreria,efinoraneisuoigiri per la città non ne
aveva mai incrociate. Inrealtà, si ricordavavagamente di avernevista una alle spalle delgrattacielo incostruzione – eradiventato più alto, nelfrattempo, adessocontava sessantanovepiani... Le stradine diquel quartiere eranoparticolarmente strette,con un traffico e una
ressa eccezionali perfinoper la media della città,nella calca di fronte acerti negozi si mettevaquasi a rischio la vita.Dovevaessercapitatonelpieno dei saldi di finestagione, e in effetti,pensò,erapartitodacasaa metà febbraio, ilperiodoeraquellogiusto,a fine inverno. Icommercianti gridavano
sul marciapiede, fuoridai negozi, offrendo aprezzi stracciati abiti,maglioni, biancheriaintima: i clienti liaccerchiavanoformandocapannelliimpenetrabili,passandosi i capi dimano in mano, liprendevano e liributtavano alla rinfusanelle casse, e tutticontrattavano, nella
confusione generale.Alcuni negozitraboccanti di clientiavevano abbassato lasaracinesca per nonfarne entrare più, ma lepersonesiammassavanolo stesso, urlando versol’interno aggrappate allaserranda e, appenaquesta si alzava perpochi secondi per faruscire qualcuno, un
nuovo fiotto di genteriusciva a infilarsidentro. Montagne discarpe, pantofole difeltro e calze, e decine dialtri articoli: tutto inofferta. Un venditore dicaramelle ciecocantilenava senza posaunafilastroccastridulaestonata.
Nella libreriac’eraunabaraonda simile: c’era
chi frugava fra i libriimpilati per terra o suitavoli, chi tirava giù ivolumi dagli scaffali e lisparpagliava sulpavimento sollevandonuvole di polvere, chi siarrampicava sullescalette per raggiungerelemensoleinalto;perunbel pezzo Budai non funeppure in grado diindividuare il libraio.
Nella mischia, tentò dirivolgersi a qualcuno edovette gridargli nelleorecchie,mailfrastuonoera tale che non glibadavano, tutti presidalla lettura e dallasceltadeilibri.Dopoaverscrutato a lungo, la suaattenzione fu attratta daun grassone in fondo alnegozioconuncamicedicotonina, la faccia
coperta di macchieepatiche,ilnasogrossoele labbra carnose, untiziosguaiatoepetulanteche freneticamenterimetteva a posto i libri,li impacchettava e lilegava con lo spago, siaccalorava nellecontrattazioni, oratogliendo, oraaggiungendone uno,come se fossero patate o
pomodori. In quellasituazione Budai nonaveva modo di spiegarsio di chiedere, e neppuredi farsi capire a gesti;riuscì a ad arrivare finoal tizio con le macchieepatiche e fece untentativo, ma erano cosìin tanti a parlarecontemporaneamente, aspingere e a gesticolareche la sua voce si perse
nelbaccanogenerale.Allora cominciò a
passare in rassegna gliscaffali,nellasperanzadiincappare in undizionario, un’edizionecol testo a fronte, unaguidaturistica,oalmenoun libro scritto in unalingua straniera checonosceva, così damostrarloalnegozianteefargli capire che gli
serviva un vocabolario.Ma, per quanto frugasse,trovava solo libri in queicaratteri simili a rune;perlopiùvolumiantichi,di varia forma erilegatura, alcunimalridotti, altri quasinuovi, intonsi. Provò averificare il senso dellascrittura,sedasinistraadestra o al contrario,come aveva sospettato
osservando il giornale.Ma sfogliandoli in frettanon riuscì ad arrivare auna conclusione, primagli parve che fosse in unmodo, poi nell’altro,alcunisembravanoaveredue copertine, sul frontee sul verso, oppure lacopertina davanti e ilfrontespizioinfondo.
I libri erano in offerta,e il prezzo dietro al
volume era statocancellato con un trattod’inchiostro e accantoc’era quello scontato. Maerano comunquespaventosamente alti,quantomeno per le suetasche:andavanodai3o4earrivavanofinoai10,15 e 25 – non li avevanemmeno, quei soldi.Spulciò dappertutto perpiù di un’ora, e gli
passarono fra le manilibri d’ogni genere.Raccolte di poesie,volumi con l’aspetto diromanzi, edizionipregiateperintenditoriecopie rilegate o inbrossura di serie ad altatiratura, operescientificheetecnichesucarta lucida dellediscipline più disparate,eperfinotesidilaureain
chimica e matematica,piene di formule ederivate – forse avrebbepotuto ricavare qualcherisultato dalle parti ditesto, se solo non fossestato così miseramenteestraneo a quellematerie. C’erano intereannate di riviste dalcontenutoincomprensibile,rilegate, cataloghi
ricoperti di numeri conun’infinità di note etabelle che illustravanochissà cosa, raccolte didisegni e caricature difacce mai viste, con incalce firme indecifrabilie pochi versi, una speciedi programma teatralecon le foto di un’attricesconosciuta che posavacon vari costumi, einoltre fiabe per
l’infanzia, se mai loerano, probabili libriscolastici e un sacco dialtre cose... Ma non netrovò neppure uno chefosse scritto in unalingua diversa, anchesolo in parte. Inmancanza di meglioavrebbe potuto bastarglianche una grammatica,ma non la scovò tra lemigliaia e migliaia di
volumidiquelnegozio.Tutto questo era
abbastanza avvilente esnervante, e per giuntaschiacciato e spintonatoin un baccanoassordante.Certo,sesoloavesse potuto spiegare aqualcuno che gli servivaun dizionario... ma inquella baraonda nonsarebbe mai riuscito adavere l’attenzione del
libraio, assediato da unatorma di clientispazientitiegesticolanti:ci provò comunque, maneanche stavolta quelloglidiederetta.Avendonefin sopra i capelli diquellabolgia,eritenendodisperato ogni ulterioretentativo, alla fine siscelse un libro da solo.Primadiandarsenecolseperunistantelosguardo
del tizio in camice dicotonina,glielomostròepagò.
Si sarebbe detta unaraccolta di novelle, vistal’impostazionetipografica e la presenzadi molti dialoghi. Inquelle pagine, adifferenzachealtrove, lascrittura procedevainequivocabilmente dasinistra a destra e
dall’alto in basso, comedicevanolaposizionedeititoli e l’inizio e la finedei racconti. Era unvolumetto smilzo, dalprezzo relativamentemodesto: 3,50. Sullacopertina c’era unpaesaggio esotico daicolori blu e verdepastello, un golfo, lepalme, un grappolo dicasette bianco gesso
addossate sul fianco diuna collina, con i tettiattaccati uno all’altro –forse quel libro lo avevacolpito anche perl’azzurro saturo el’orizzontesconfinatodelmare.
Sul bordo ripiegatodella copertina, ilcosiddetto risvolto, c’erauna fotografia,certamente dell’autore:
un uomo sullaquarantina in piedidavanti a uno steccato,con un pullover a colloalto, una posturadisinvoltaespontanea,ilviso pieno, i capellicortissimi; teneva gliocchi socchiusi, con unosguardo stanco oannoiato e sulle labbrauna strana smorfialeggermente beffarda,
come se cercasse direprimere uno sbadiglio.La faccia gli erafamiliare, ma nonricordava dove potesseaverlo visto. A ognimodo, il suo aspetto e lostile suggerivano chefosse un autorecontemporaneo, chescriveva della vita ditutti i giorni – la suascelta era caduta sul
volume proprio perquello. Non gli sarebbestatodigrandeutilitàuntesto in una linguaarcaica o poetica, aulica,oppure in un gergotecnico-scientifico tipicodi certe discipline, o inuna prosa di carattereastratto e trattatistico. Alui serviva la linguacorrente, quella parlatadalla gente per la strada
al giorno d’oggi, nellaquale avrebbe dovutoaddentrarsi parola perparola: stando alla suaipotesi, e secondo ogniprobabilità,queiraccontierano scritti in unalinguadelgenere.
Al ritorno in albergo,passò davanti ai negozidi souvenir nell’atrio ediede un’occhiata piùattenta alle cartine sullo
scaffale di vetro. Cen’erano molte e tuttediverse, così tante cheall’improvviso fu vintodall’esitazione e nonseppe più qualeprendere. Ne aprì una acaso, pensandonaturalmente cherappresentasse la città.Ma non riuscì aorientarsiinquell’intricoin miniatura di vie e
piazze che ricopriva lasuperficie della carta: ilimiti dell’insediamentourbano noncomparivano, o forse sitrattava solo di unaparte, il centro, magariun quartiere. Non eranosegnati binari ferroviari,rappresentati perconvenzione da sottililineenere;nelrettangolodellacartinanonc’erano
nemmeno corsi d’acqua,solo piccole macchiolineazzurre sparse qua e là:forse dei laghettiornamentali, o queibacini artificiali diraccolta che aveva vistoin giro. Nell’angolo inbassoadestrasisnodavauna striscia azzurralunga e stretta, chefiniva fuori dal bordodella carta; ma a risalire
le anse tortuose indirezione contraria lastriscia a un certo puntosi interrompeva, sparivanel nulla, infrangendol’improvvisa speranza diBudai che potessetrattarsi di un fiume.Tutt’al più, anche senulla lo provava, ne erasolo una diramazionemorta: anzi, magari unfosso, come quello che
aveva seguito dalle partidelmattatoio.
Avrebbe volutoindividuare l’albergo,sulla cartina, oconfrontarla con lamappa delle stazioni inmetropolitana.Farlocosìa occhio era difficile:l’unanonglieraneppurechiaro come andassetenuta, quale fosse ilversogiusto,el’altranon
gli si era fissataabbastanza bene nellamemoria. Certo, avevascritto sul taccuino ilnome della fermatavicino all’albergo, ma lìnon lo ritrovava. Per dipiù,sulfogliopieghevoleche teneva fra le maninon sembrava segnalatoil metrò: non c’eranolinee continue otratteggiate per indicare
la rete sotterranea, nécerchietti semplici odoppi, vuoti o pieni otagliati da una lineettaperlestazioni.Ricordavache su alcune cartine lefermate dellametropolitanaeranounasemplice M maiuscola –sì, ma quale letteracorrispondeva qui allaM? O forse quellarappresentata era una
zonadellacittàdovenonpassava lametropolitana? E se nonfosse stata neppure lacartina di quella città?Madiqualealtra,allora?
La voltò per guardareche cosa c’era scrittodietro. Conteneva moltotesto, in caratteri di varicolori e dimensioni; cosìa una prima occhiatanon si riusciva a
individuare la parolaprincipale, ossia il nomedellalocalità.Ineffettilescritte più grandipotevano significare ditutto: per esempio«nuova», «aggiornata»,«cartina», o meglio«istituto cartografico», ilnome di una casaeditrice, indirizzo, via enumero civico, o perfino«benvenuti, vi
auguriamo un piacevolesoggiorno», o «feliceanno nuovo» e unmucchiodialtrecosechedi solito si stampano sulretro delle cartine.Poteva anche trattarsi dipubblicità, marche dibirra, vermut, cioccolataochissàchealtro,oppurenomi di ristoranti,alberghi... La cartinastessa era ricoperta di
scritte minuscole, pertutta la lunghezza dellevie e in ogni puntoimmaginabile, paroleframmiste a numerettimisteriosi: solo con unalente d’ingrandimentosarebbe riuscito aspulciarle, ma ne futalmente atterrito chepreferìlasciarperdere.
Si rivolse invece allanegoziante e cercò di
chiederle a gesti dimostrarglisullapiantinail nome della città e ilpunto esattodell’albergo, se c’era, oaltrimenti di dargli lacartina giusta. Ma ilcomportamento diquell’uomo che frugavatra le cartine e chiedevainformazioni, mentretutti gli altri clientiaspettavano al banco,
doveva aver infastiditola donna: non gli diedeascolto e lo liquidò conuna frase seccata. MaBudai continuava ainsistere e facevatintinnare le monete persaperequantocostasselapiantina,efinalmenteleiscrisse12suunpezzodicarta. Lui girò i tacchiall’istante,brontolandoeimprecando contro chi
aveva la faccia tosta divenderlaaquelprezzo.
Più tardi, a mentefredda, si chiese se unacartina gli sarebbe statadavvero utile. Senzaneanche essere certi diavere fra le mani lamappa della città, ecomunque, di qualequartiere? Non era forseuno studio del tuttoinutile,chenonl’avrebbe
avvicinato d’un passoall’obiettivo? Non c’eraun metodo più diretto,più efficace?... Se netornò dunque nella suastanza per dedicarsi, conserietà e impegno, aun’indagine sulla linguae sulla scrittura localiche si attenesse aiprincìpi della scienzamoderna e alla suapreparazione
accademica, servendosidi tutti i mezzi e lepossibilità adisposizione.
Purtroppo,comeavevapiù volte rimpianto dache era arrivato in quelluogo, non si era maioccupato di storia deisistemi di scrittura, etantomeno dicrittografia,essendounospecialista di studi
etimologici, ovverodell’origine delle parole.Però, scavando nellamemoria, si ricordò chenelle letture giovanili cisi imbatteva iningegnosedecifrazionidicodici segreti, peresempio nei romanzi diVerne. In MathiasSandorfciriuscivanoconl’ausiliodiunagriglia,inViaggio al centro della
Terra invecemodificando l’ordinedelle righe secondo uncerto criterio. Avevaanchesentitodirecheintempi più recenti,durante le due guerremondiali,iservizisegretiavevano elaborato deisistemi perfetti perdecrittare i messaggicifratidelnemico,graziea metodi matematici e
statistici: in praticaqualsiasi codice, anche ilpiùelaborato,puòessereviolato. Quei crittografiperò,unavoltatrovatalachiave, ristabilivano laversione originale di unmessaggioredattoinunalingua nota, e solo inseguito trasformato ecamuffato. Budai invecesi trovava di fronte allascrittura sconosciuta di
una lingua sconosciuta:non l’avrebbe capitaneanchesefosseriuscitoaleggerla.
È vero che l’ingegno ela pazienza degliarcheologi, al di là deicasi già citati, avevanorisoltoancheproblemidiquesto genere quandopotevano contare su unreperto multilingue.Bastava pensare alle due
grandi prodezze inquesto campo delventesimo secolo, ladecodificazione deicaratteri cuneiformidegli Ittiti e quella dellacosiddetta «lineare B»cretese, due sistemi discrittura pressochésconosciutidipopolifinoallora sconosciuti.Eppure il punto dipartenza fu proprio quel
quasi, il piccolo impulsonecessario a muovere iprimi passi. Nelle tavoled’argilla degli Ittiti unbuon numero di segni sipotevano identificarecon ideogrammibabilonesi già noti inprecedenza. E anchecolui che decifrò lalineare B, l’ingleseVentris, poté sfruttarel’affinità, evidente in
base ad alcunecorrispondenze, traquesta e il sillabariocipriota. Dunque da unacosaderivòl’altrael’aversvelato il significato dipochi segni sillabicipermise, grazie a variespeculazioni e ipotesicombinatorie, diindividuare i successivi.Inoltre, gli studiosiavevano buoni motivi
persupporrecheneitestiricorressero alcuni nomipropri, come succedevanelle tavolette cretesicon i nomi delle antichecittà di Cnosso eAmnisos; quest’ipotesicontribuì in misuradecisivaallorosuccesso.
A rendere moltodifficile il compito diBudai era il fatto di nonsaper leggere nemmeno
unodiqueisegni,dinonavereilminimopuntodiriferimento: con qualesistema di scritturapoteva confrontarequello locale? –naturalmente nonconosceva a memoria lescritture cuneiformi, ingranparteormaiestinte,né le aveva mai studiateapprofonditamente.L’altro problema era che
non poteva formulareipotesi, non avendo unappiglio,unaparolaounnome da cercare, unatraccia da seguire, siapurvaga.Eppuredovevaesserci,daqualcheparte.
Per comprendere lanatura di un sistema discrittura,unbuonpuntodi partenza può essere ilnumero dei segniimpiegati. Ce ne sono
moltissimi nei sistemiche fissano parole interee concetti, come nelcinese,peresempio,dovesi dice che superino icinquantamila. Nellescritture sillabiche,naturalmente, nebastano molti meno: igeroglificicretesiacuisiaccennava sopra sonoottantanove, la scritturacipriota ha
quarantaquattrosegni,ilgiapponese modernocentoquaranta. Unnumero inferiore disegni indica senzadubbio una scritturaalfabetica, come quelledei moderni popolieuropei: l’inglese ne haventisei, come ilfrancese, il russotrentadue,ecosìvia.
Si mise dunque a
ricopiare,comegiàavevafatto una volta, icaratteri dei testistampati che aveva adisposizione. Superò benpresto i cento e nullaindicava che fosserofiniti...Sitrattavaquindidiunsillabario?Igruppidi segni gli sembravanotroppo lunghi perchéfosse una scritturasillabica. Allora erano
logogrammi? Proseguìnellavoro,madiventavasempre più difficilesuddividere i caratteri eraffrontarli. Un dubbiolo assalì: e se avessescrittopiùdiunavoltalostessosegno?
Alduecentotrentasettesimoaveva ormai perso lasperanza di arrivare allafine, e lasciò perdere. Si
cimentò con un altrometodo: scegliendocaratteri a caso eimprovvisando deicalcolitentòditrovarelelettere più ricorrenti e lepiù rare, partendo dallaconsiderazione che levocali, essendo moltemeno delle consonanti,in genere sono piùfrequenti.Peresempio,èstato calcolato che in
ungherese le lettere piùfrequentisonolaeelaa,e poi t, s, n e l, e le piùrare x, q e w – in altrelingue naturalmente laproporzione è diversa. Ilragionamento peròavevasensosesitrattavadi una scritturaalfabetica,enonsillabica– dove ogni segnocorrisponde a un nessodi consonante e vocale:
in tal caso era faticainutileesprecata.
Allora si domandò sequella lingua avesse gliarticoli, come il grecoanticoel’arabo,l’ebraico,l’inglese, il tedesco,l’italiano, lo spagnolo, ecosì via. Perché, se sì,poteva essere un buonavvio. Anzi, in un testoscritto li avrebbeindividuati più
facilmente che non nelparlato, dove spessol’articolo si fonde con ilsostantivo. Per esempio,quando la ragazzadell’ascensore gli avevadetto il suo nome, lassùal diciottesimo piano, laseconda volta gli eraparso più lungo. Forsel’articoloerae,pe o te? Ecome si scriveva? Sel’avesse trovato,
sarebbero state le primeletterecheeraingradodileggere, sia pur inmanieraapprossimativa.
Perciòdecisedicercareparolette brevissime,uguali o almenosomiglianti, all’inizio dirighe abbastanza lungheo di frasi e paragrafi. Mainvanosfogliòilgiornalee il libro che si eraappena procurato, quasi
nonnetrovò,eseriuscìamettere insieme alcuneparole identiche questeerano di cinque o seilettere: che prove avevache si trattasse diarticoli? Stranamente,invece, trovava delleparticelle di due segniidentici alla fine di ogniparagrafo e in fondo aicapitoli, o novelle, delvolume.Allorasiricordò
che in rumeno, inbulgaro, in albanese e inmordvino l’articolo nonprecede il sostantivo malo segue – che fosse cosìanche in quella lingua?Oppure non c’eranoarticoli – come in latino,in finlandese, nellelingueslavee incinese–e quella paroletta finaleserviva a chiudere ilcontenuto
dell’enunciato, come inlatino dixi o l’augh neiromanzi sugli Indianid’America?
Se in una linguaesistonoleparolesìeno,allora è chiaro che il noricorrerà relativamentespesso. Lo stesso dicasiper il che, il ma e lacongiunzione e, benchéquest’ultima possatrovarsinellafraseanche
comeparticellaenclitica,attaccata alla parola chela precede, come il -quedel latino. Una voltaaveva letto una ricercasui sostantivi piùricorrenti nella linguaungherese: grande,popolo, casa,appartamento, paese ecosì via. Erano gli stessianche qui? E se sì, comepoteva pescarli in quel
mare di testi, cosal’avrebbe aiutato aidentificarli?
E se si fosse inoltratoin quella giungla apartire dagli elementisintattici?Aquelloscopoavrebbedovutoricercaregruppidisegnisimilimanon proprio identici. Peresempio, se erano ugualiall’iniziomadiversinellaterminazione, si poteva
supporre che fosseroforme flesse della stessaparola. Trascorseun’intera giornata acercare di articolaregruppi del genere: liaveva disposti per benein colonne, per poipoterli confrontare.Aveva trovato per lo piùparole in cuicoincidevano soltanto iprimi due o tre segni.
Certo, non potevaescludere che fosse unacasuale allitterazione divocaboli affatto diversi,come porta e porto, o ininglesesix e sister. Ma seinvece si fosse trattatodella stessa radice, comesperava, che cosa potevacelare quellaterminazione variabile?Flessione del nome o delverbo,desinenze,suffissi
derivativi,postposizioni? O ladistinzione del generemaschile e femminile,come in francesedirecteur e directrice?Quelchecredevafosselaradice della parolapoteva anche essere unprefisso verbale, o laprima parte di uncomposto, o un mucchiod’altrecose.
Quando, al contrario,era uguale l’ultimomembrodellaparola–netrovò diversi esempi nelsuo paziente lavoro dispigolatura –, si potevaimmaginare che sitrattasse di vocabolidotati dello stessosuffisso. Come inungherese szobában,házban, városban oppureszobának, háznak,
városnak;3 e ce nesarebbero potuti essereancora tanti, a secondadi quante desinenzepossedevaquellalingua–ma di nuovo, a qualecaso corrispondevano, ecome si pronunciavano?Esenonsifossetrattatodi suffissi, ma disemplice assonanza orima,allostessomododipiatto e gatto, oppure
stabilimento, pentimentoe bastimento? Quellaparte finale avrebbeanche potuto essere unabase verbale precedutada un prefisso, come adesempio in predire,disdire e contraddire emolti altri, come nelletrentaepassalinguechebene o male conosceva.La questione restavaancora una volta la
stessa: come fare aorientarsi e capirciqualcosa?
Lavorare così erainutile, uno sforzosterile, un susseguirsi dicongetture e nessunacertezza. Perdersi inipotesi, speculazioniteoriche, giochi dipazienza logici esostituzioni non sarebbeservito a fare dei passi
avanti, se non allavelocitàdiunalumaca.Ese pure, con un lavoroimmane, grazie a calcolistatistici e probabilistici,a prezzo di una quantitàenorme di energia, condisagio e fatica fosseriuscito a decifrarequell’alfabeto e astabilire il valorefonetico di tutti i segni –cosa dalla quale era
lontanissimo, nonavendone individuatonemmeno uno –, da ciònon sarebbe affattoconseguita lacomprensione di quellalingua. La scrittura degliEtruschi, per esempio,non ha più misteri pernoi, sappiamo leggerlacompiutamente; ma laloro lingua, nonostante itentativi delle menti
migliori e l’aiuto dei piùmoderni strumentiscientifici, resta ancorasconosciuta, conl’eccezione di qualchedecina di parole e di unpaio di formulegrammaticali. Perfino lasua parentela genetica èoscura e controversa –forse anche l’epepeparlato da quelle partiera un idioma isolato e
senza affiliazioni, comel’etrusco, il basco e unpaio di lingue africane ecaucasiche?
Ciò nondimeno lui sitrovava in unasituazione ben piùfavorevole di coloro chelavorano allaricostruzione di unalingua morta. Essidispongono solo didocumenti scritti, e
perciò sono costretti aricorrere a metodiindiretti, complicati,speculativi, checomportano tantiinfruttuosi esperimenti.Lui invece potevacontaresullalinguaviva,sulla sinfonia a millevocicherisuonavaperlestrade, nelle piazze, inalbergo, inmetropolitana: non
doveva far altro cheprestarvi attenzione eisolarelevariemelodieenote – ad annotare lapartitura ci avrebbepensato dopo. Misedunquedaparte,almenoper il momento, ilgiornaleeglialtritesti,esi risolse a tenere daallora in avanti leorecchiebenaperte.
In teoria avrebbe
potuto imparare lalingua da chiunque, daun qualsiasi abitantedella città, carpendoglipiano piano le parole, leregole e così via, se soloquesto chiunque gliavessededicatounpo’ditempoepazienza.Maeraproprio ciò che mancavaai locali, un minimo dicortesiaedisponibilitàinquellafrettaperpetua,in
quella ressa continua;sarebbe bastata unapersona con cuispiegarsi, che degnassed’attenzione il suogesticolare dasordomuto almeno unavolta, con calma. Daquando era arrivato nonavevaancorastabilitouncontatto umano connessuno. Ma no, forseconqualcunosì...
Scrissesubitoinumerida 1 a 10 su una paginadel taccuino e corse acercare Pepe agliascensori, la invitò asalireall’ultimopiano, lemostrò il foglio e indicòil numero 1. La rispostadella ragazza non fuchiara, probabilmentenon capiva che cosavolesse, rideva, si acceseuna sigaretta, si strinse
nelle spalle, e mormoròcon voce flautataqualcosacome:
«Tuulli ulumulu alaulptleplé...».
Non poteva essere ilnome di un numerale.Budai non si arrese,sollevò il pollice, indicòl’1 anche su unabanconota, insistendo.Stavolta Bebe rispose inmaniera più breve, con
unmonosillabo:«Dütt!».Allora lui le domandò
il 2, il 3, il 4 e così via,annotando le risposte inalfabeto fonetico. Arrivòfino al 10, ma nelfrattempo il campanelloaveva cominciato asuonare,aipianidisottodovevano essere in tantiad aspettare l’ascensore.Perverificareleindicòdi
nuovo l’1, ma stavolta laragazzadissequalcosadicompletamentediverso:
«Sümülükada».Budai era confuso:
qual era il nome dell’1,questooquellodiprima?Il campanello trillavasempre più imperativo,la donna spense lasigaretta, gli fece segnoche le dispiaceva madoveva veramente
andare.Maluisentivadinon poter rimandareancora a chissà quando,cercò di far capire allaragazza che l’avrebbeaspettata lì e la pregò ditornare al più presto.Edede si arrestò,pensierosa.Budaidovevaavere un’aria talmentedisperata da superarel’abisso linguistico che liseparava. Annuì seria,
battendolecigliabionde,come a dire che sì,sarebbetornata.
Passòunamezz’oraelaragazza riapparve tra leporte automatichedell’ascensore. Budairiprese a domandarle inumeri, ma non erasoddisfatto del risultato:soltanto due o tretermini suonavanougualiosimiliaquellidi
prima. Certo, dallerisposte di Tete eradifficile isolare ilnumeraleveroeproprio,perchéleinonsilimitavaadireunaparolasola,eilresto poteva significareditutto.Cosecome:bene,va bene, sì, prego, hocapito, aspetta, te l’hogiàdetto, o altre particellediscorsive che si usanoparlando. O forse in
questa lingua dicevanoin più modi lo stessonumero? Come in altrelingue per lo 0: nulla,zero,niente,eccetera?
Dopo quella voltainiziò a fare la postapresso gli ascensori inattesa di veder spuntareDedede – non era ancorariuscito a capireesattamente il suo nomepur avendoglielo chiesto
innumerevoli volte – perproseguire con lei lelezioni di lingua.Naturalmente la ragazzadoveva lavorare, portaresu e giù il flussoininterrotto dipasseggeri, e di sicuroera sorvegliata,controllavano se era inservizio.Soltantodiradoe per brevi momentiriuscivanoarimanereda
soli, su al diciottesimopiano, mentre da sottonon smettevano disuonare in manierapiuttosto snervante. Avolte Budai restava conlei nell’ascensore, nonavendo nient’altro dafare, andava su e giùnella cabina che siriempiva,sisvuotavaesiriempiva di nuovo,mescolato agli altri
passeggeri. La donnaintanto era impegnata amanovrare l’ascensore,rispondeva al telefono,forse per ricevereistruzioni, e solo ognitanto era libera dilanciargli uno sguardod’intesa,comeadirgli:soche sei lì, non mi sonoscordata di te...Nell’ascensoresovraffollato il piccolo
ventilatore non bastavaa garantire un buonricambio d’aria. Eraancheperquestaragioneche Budai non vedeval’ora delle loro brevipause, per respirare unpo’ d’aria fresca eprovare a impararequalcos’altrodalei.
La ragazza,stranamente, non misein dubbio neppure per
un attimo il ruolo diinsegnante che Budai leaveva assegnato, e anziloassunsedibuongradoe con zelo, come se fosseun suo dovere oun’ambizione. Quandoarrivavano all’ultimopiano, si accendeva unasigaretta, espirava ilfumo e si disponeva adascoltare, pronta arispondere alle sue
domande. Certo,neppure per lei dovevaessere facile capire sullabase di gesti escarabocchi cosa volessesapere quell’ospite cheparlava una linguasconosciuta. Forsesentiva fino a che puntoquell’uomo avessebisogno di lei e del suoaiuto – o forse nutrivaverso di lui un’altra
inclinazione?Eppure più di una
volta Budai la cercòsenza trovarla, non eraancora riuscito astabilire né a farsispiegare i suoi turni,semprecheneavesse.Inquei momenti la vita gliapparivavuotaeprivadisenso, si sentivasmarrito, un pesce fuoridall’acqua. Per ora non
aveva alcuna intenzionedi rivolgersi a qualcunaltro, pensava che sisarebbesoltantoconfusoe avrebbe rimesso inquestione quelpochissimo che credevadiaverimparato.Eforsegli sembrava una formadiinfedeltàneiconfrontidi Dede, che era semprecosì gentile e pazienteconlui.
Inoltre non si illudevadipoterfermarelagenteper la strada con i suoiproblemi grammaticali,ormai l’aveva capito.C’erano parecchiubriachi,inparticolarelasera, dappertutto: per lestrade, inmetropolitana,nell’atrio dell’albergo,uomini e donne,barcollavano, vociavano,cantavano, litigavano,
vomitavano, siazzuffavano: con loronon aveva moltesperanze... Aveva paurasoprattuttodisera,lasuacamera gli pareva unacella carceraria, sisentiva imprigionato; sealmeno avesse avutoqualcosa da leggere, inuna qualsiasi delle tantelingue che conosceva!Non sempre aveva
l’energia di buttarsi inquei rebus indecifrabili,sentiva la mancanza diun po’ di nutrimentospirituale, di evasione,temeva quasi diimpazzire. E non osavaneppure allontanarsidall’albergo, nel casoriapparisse la ragazza: incerte giornate eracapitatocheleilavorassesia al mattino, sia di
notte. Però Budai nonreggeva più a stare nellasuastanzaconlemaniinmano, era agitato,tormentato dalla smaniadi darsi da fare, diseguirepiste,diandareevenire,perilterroreche,sefosserimastoinattivo,nessuno avrebbe mossounditopersalvarlo.
Scese a gettare unosguardonellahall,dacui
poteva tener d’occhio gliascensori. Il gigantescoatrioerariempitodaunafolla enorme che, aquanto pareva, nondiminuiva neanche anottefonda:lepersonesiappisolavano sullepoltrone oppure sitrascinavano qua e làmezzo addormentate.Davanti alla receptionc’eraunalungafila,dove
figuravano molti nuoviarrivati con le lorovaligie.Notòperlaprimavolta che si vedevanosolo bagagli in entrata,mai in uscita – doveandavano a finire levaligie di chi partiva? Ese avesse provato aseguirne le tracce?... Oforse passavano da unaltro ingresso? Ma dovepoteva essere, questo
ingresso? Oppure qui lagente arrivava dicontinuo, e nessunopartivamai?
S’imbatté di nuovonella delegazione disacerdoti dall’aspettoesotico che avevaincontratoilgiornodopoil suo arrivo. Il piccolo evariopinto gruppo divegliardi barbuti dallapelle scura e lucida,
vestiti di lunghicaffettani, adorni dicatene e copricapi, sfilòin maestoso silenzio trala folla che si aprivadeferente al suopassaggio – nonportavano nessun segnoosimbolocherivelasselaloro identità, la loroprovenienzaoreligione.
Decise di fare un giro,superò il grasso usciere
che lo salutò comesempre, portando lamano alla visiera. Silimitò ad andare algrattacielo incostruzione per vedere ache piano fosseroarrivati. Vi stavanolavorando a pienoregime, schiere dimanovali brulicavanosui muri, le fiammeossidriche scintillavano,
imontacarichiandavanosuegiù,sottoiriflettori;strano però, dall’ultimavoltacheavevacontatoipiani l’edificio eracresciuto solo di uno –ora ne aveva settanta –,eppure erano passatiparecchigiorni.
Di notte la vitascorreva con la stessaintensità. Le uscite dellametropolitana
rigurgitavano einghiottivano gentesenza posa, le schiere diquelli che tornavano acasa stanchi dal lavoro equelli che invece siavviavano con la facciagonfia di sonno verso ilontani quartieriindustriali, per il turnodell’alba. Altri erano ingiro senza meta, siraccoglievanoagliangoli
dellestradeonellepiazzeingaggiando discussionisenza fine, forse su unevento sportivo, oppureaspettavanoigiornalidelmattino. Nei bar sivendeva quella bevandaalcolica dal saporesciropposo di cui si eragià ubriacato una volta.Gli avrebbe fatto piacerecedere all’alcol, allalevità e all’incoscienza
dell’ebbrezza, mamantenne il suoproposito, e poi glispiaceva sprecare così ipochi soldi che glirestavano.
In lontananza, in alto,scorsedinuovolelettererosse e blu chelampeggiavano; chissàche cosareclamizzavano... Da unlocale sotterraneo, che
finoaquelmomentononaveva notato, provenivaun ritmo martellante dibatteria, musica mista afrastuono. Sbirciòall’interno, per puracuriosità: la grande salaera strapiena, forse eraun locale da ballo, anchesetrailfumo, ilbaccanoe la folla che occupavaogni angolo possibile eimmaginabile, non poté
individuare una pista,perché la gente ballavaanche fra i tavoli, al bar,lungo i muri e perfinosulle scale d’ingresso.Naturalmente erano inmaggioranza giovani,abbigliati nello stilesgargiante oprovocatoriamentestracciato che in tutto ilmondo è la divisa dellagioventù. Le coppie di
ballo non erano solo disesso opposto, ma anchedi ragazze con ragazze, eragazziconragazzi.Madivere e proprie coppie nevide poche, per lo piùognunoballavacontuttie per conto suo, in unturbinio generale, in unfracasso assordante.Inoltre, le differenze digenere erano pocomarcate, parecchi
ragazzi sfoggiavanolunghe capigliature difoggiafemminile,etraleragazze molteindossavano i pantaloni.Sembrava poi che ognirazza presente sullaTerra vi fosserappresentata; sidimenavano e sicontorcevano a ritmo didanza mescolandosi inun intrico caotico di
bracciaegambe.Non vide però
musicisti, la musica eraregistrataeamplificataalivelli insopportabili. Ipezzi si susseguivanosenza interruzioni, tuttiuguali, almeno alle sueorecchie; puro ritmo,nientemelodia,unritmospezzato, sincopato,insinuante, impudico...Ma era soprattutto il
volume a infastidireBudai, che si sentivaquasiscoppiarelatestaenon si capacitava dicome gli altri riuscisseroa resistere in quelbaccanoincessante.
Stava per andarsenequandoinfondoallasalaci fu un improvvisodisordine, una specie ditumulto. Che cosa stessesuccedendo di preciso
non gli fu chiaro perqualche secondo, ebbel’impressione di unoscarto,diunmovimentosfasatorispettoaltempodellamusica.Poicapìcheerascoppiataunarissa,ea poco a pococominciarono anche adelinearsi i due fronti,bianchi contro neri.Quale ne fosse la causaeraimpossibilecapirlo,e
fu una sua meracongettura, del tuttoprivadifondamento,chepotesse avere a che farecon una biondinaslavata, il cui visoapatico e beffardo eraapparso per un attimodietroaicontendenti.
Inmenchenonsidica,i litiganti erano già statiseparati. Da chissà doveeranosaltatifuorideitizi
in divisa, con la solitatuta marrone. Colfischietto tra i denti,disposti a cordone,avevano formato unabarriera vivente tra ledue fazioni: i litigantinon smettevano diminacciarsi e insultarsi,digrignando i denti, dauna parte e dall’altra delmuro di agenti inuniforme, con una furia
che non accennava aplacarsi... Budai fuincuriosito dalle lorourla,eritennecheancheda queste potesse trarrequalche dato utile. Nelcaos e nel frastuono –perché nel frattempo lamusicanoneracessata–sentì che i rivali,agitando i pugni, sigridavano qualcosacome:
«Durumba!...Udurumbunda!».
Naturalmente potevasignificare un sacco dicose: carogna, fetente,bastardo, stai attento,vieni qui, ti ammazzo, tispacco la faccia e altregentilezze del genere.Budaiselescrisse,aognibuon conto, insieme aglialtri appunti, in alfabetofonetico, aggiungendovi
interpretazionipossibili.Fu allora che uno dei
bianchi, un tiziotarchiato in pullover, sisporse oltre la catenaumanadiuominiintutamarrone e, prima chepotessero trattenerlo,colpìconunabottigliadibirra la fronte di unonero allampanato che sisbracciava davanti a lui.Si udì un rumore secco:
sieraspaccatoilvetro?osi era rotto il cranio?Quello che avevaricevutoilcolpovacillòerivoli di sangue rossoscuro cominciarono ascenderglilungolafaccianerissima. Gli agenti disicurezza, o quel cheerano, fischiarononervosamente mentretenevano a distanza irivali. Ma un altro
giovanotto nero accantoal ferito estrasse ilcoltelloaserramanico:siaccovacciò di scatto,passò sotto la catena dibraccia e vibrando uncolpo rapido come unfulmine trafisseall’addome il tizio con ilpullover... Questi siguardò attorno con ariastupita, senza rendersipienamente conto di
cosa era successo. Sipremette la mano allavita, là dove erapenetrata la lama, e congrande lentezza si piegòinavanti,conlosguardodi chi non riusciva acredere che fossecapitato a lui, proprio alui; quando rimaseimmobile tra le bracciadei suoi amici avevaancora quello stupore
fissonegliocchi.Fuoriululòunasirena,
forse l’ambulanza o unavolante della polizia. Inmezzo alla confusionebalenò di nuovo per unattimo la chioma biondadella ragazza, poi ipoliziotti irruppero nellocale, scendendo gliscalini a suon dimanganellate... Budainon ci teneva a
rinnovare la loroconoscenza eprudentementeselafilò.Era sconvolto dallavicenda a cui avevaassistito, ma non si erascordato del suoimpegnoconEpepe.Nonvoleva assentarsi troppoalungo,nelfrattempoleipoteva essere riapparsa;ritornòversol’albergo.
Non trovando la
ragazzanell’ascensore,siritirònellasuastanzaesirimise a fare tentativi altelefono.Avevaannotatoalcuni numeri cherispondevano anche dinotte, riconoscevaperfino le voci dellepersone che chiamava.Eraun’esperienzastrana,quasi onirica, quella diconversareconqualcunoe non capire una parola:
ormai li chiamavaspesso, gli piaceva. Inrealtà nutriva anche lasperanza chel’interlocutore dicesse ilproprio numero, comespesso accade quando sichiama quello sbagliato.Certo, da quelle frasirapide era pressochéimpossibile afferrare lerisposte che cercava, maanche così, senza trarne
nessuna utilità, glifaceva bene dire«Pronto?», porredomande, sentire chec’era qualcuno all’altrocapodelfilo,chelostavaascoltando, immaginarecom’era fatto... Cosastrana, tra i suoiinterlocutori telefonicic’erachinonriattaccava,anzi, si tratteneva alungo a parlare, e per
quanto la conversazionefosse inutile reggevaquel gioco assurdo – cherazza di perversione, eh?O forse era solo noia, emancanza di unpassatempomigliore?
Una volta, mentrestava per cominciare ilgiro delle chiamate,l’apparecchio prese asquillare. Ne fu cosìsorpreso, e perfino
spaventato, che nonosava sollevare ilricevitore. E quandofinalmente si decise arisponderenonsapevainchelinguafarlo,astentoriuscì a mormorare unesitante: «Hallo»... Erauna voce femminile, eparlavainfretta,comeseavesse poco tempo;aveva pronunciato lapenultima sillaba
salendo di tono, quindidoveva aver conclusoconunadomanda.Budai,cheintantosieraripreso,cercò di dire in inglese,in francese, in russo e incinese che non avevacapito. Allora la donnaripeté la stessa frasearticolando piano ogniparola, il chenaturalmente non gli fud’aiuto. Budai provò in
altre lingue, una dopol’altra, così come glivenivano, ma la donnanon lo lasciò finire,scoppiò in una lieverisataeriattaccò.
Chi era, che cos’erasuccesso? L’avevanofinalmente trovato? Lostavano cercando dacasa? Magari erano sullesuetraccegiàdaqualchetempo? La compagnia
aerea si era resa contodell’errore e l’avevarintracciato? O forsequalcuno aveva letto ilsuoavviso?Laletteraperla direzione era statarecapitata? Ma alloraavrebbero dovuto sapereche non parlava la lorolingua, l’aveva scrittoben chiaro. E perché silimitavano atelefonargli? O era solo
una donna che avevasbagliatonumero?
Poi all’improvviso glivenne in mente chedoveva essere Bebe!Com’è che non ci eraarrivatosubito!Macerto,quante volte inascensore lei gli avevavisto in mano la chiavecon il numero di stanza:perché non avrebbepotuto fargli uno
squillo? E se era lei, disicuro voleva dirgli cheerainalbergo,cheavevapreso servizio, che loaspettava...
Infatti si aprirono leporte di una cabina, edeccola. Lei strizzò gliocchi sorridendo.Stavolta davvero nonvedeval’oradirestaredasolo con lei lassù aldiciottesimopiano:cercò
in ogni modo possibile,mimando una cornettaall’orecchio e il gesto dicomporre un numero, difarle capire che avevacolto il messaggio ed eravenutodalei...Ancheorala donna, mentremanovrava l’ascensore,di tanto in tanto glisorrideva, ma con unvelo di misteriosariservatezza. E Budai fu
assalito da un nuovodubbio: come dovevainterpretare ilcomportamento di Veve,complice intimità onient’altro che la suaconsuetagentilezza?
Quando furono aldiciottesimo piano,Budai per prima cosa lechiese il suo numero ditelefono. Le porse iltaccuino perché lo
scrivesse, fece il gesto dicomporre il numero,imitò lo squillo,esortandola in tutti imodi.Maleisilimitavaaalzare le spalle e afumare, non capiva –oppure non volevacapire, non desideravadargli il suo numero? Oforse non aveva iltelefono? In effetti, doveabitava, e con chi? Era
sposata o ancora nubile?Viveva con la suafamiglia o da sola?... Inrealtà non sapeva nulladilei,maaesseresinceri,non gliene importavamolto. Il motivoprincipale per cui avevabisogno di quella donnaprescindeva dai rapportiche potevano legarla adaltri; bastava che lelasciassero il tempo di
dedicarsi a lui. Ma forseneppure questo eraimportante, dato che iminuti che Etetetrascorreva lassù aldiciottesimopianoeranosottratti all’orario dilavoro.Quantoalui,nonpoteva permettersi illusso di sprecare la suaattenzione, non potevalasciarsi sfuggire l’unicofilo che il caso gli aveva
messo tra le mani. Per ilmomento, Budai tenevaallaragazzaperun’unicaragione, a cui tutto ilresto era subordinato:era la sua insegnante dilingua.
Erano ancora ainumeri.Immaginòchelerisposte della donna allastessa domandasuonassero semprediverse perché
mescolava i numericardinalicongliordinali.Potevano nonsomigliarsiaffatto,comeuno e due rispetto aprimo e secondo, o ininglese one, two e first,second...Alterminediunlavoro lungo e faticoso,condotto con enormepazienza, dopo averchiestolestessecosefinoallo sfinimento, era
giunto – in manieramolto approssimativa econqualcheincertezzadipronuncia – a mettereinsieme i numeri da 1 a10,elisapevaanchedire.Eccoli:1=dütt,2=kloozogrooz,3=tösh,oanchebaar, 4 = gedirim, 5 =baar o tösh(stranamente, il 3 e il 5sembravanointercambiabili, o forse
sololuinoneracapacedidistinguerli),6=kus,7=rododod, 8 = hodod, 9 =dohodod,10=ezrez.
Così, nel loro insieme,non gli ricordavano inumerali di nessunalinguavivaomorta,aluinota.Certo,conunpo’difantasia il gedirim (4)poteva essere assimilatoal russo četyre, il kus (6)al kuusi del finlandese,
l’ezrez (10) all’ashrdell’arabo.Masitrattavaprobabilmente dicoincidenze fortuite. Erasorprendente lasingolare assonanza trail 7, l’8 e il 9, ma potevaancheavercapitomale.
In generale quel cherendeva il compitoparticolarmente difficileera l’indefinitezza deisuoni che udiva. Eppure
nel corso del suo lavoroaveva maturato unacerta pratica nelriconoscere conprecisione le sfumaturefonetiche. Soltanto chenella lingua degliabitantidiquellacittàvierano modalitàarticolatorie cosìbizzarre come non neaveva mai udite altrove.Formavano le parole in
maniera strana, opaca,confusa, senza seguire leregole di pronunciacondivise, per lo menonei paesi civilizzati.Parlavano con voceingolata, emettendosuoni gutturali, ma nonal modo dei cinesi, deigiapponesi,degliarabi:levocali erano mormoratee di colore variabile, leconsonanti rauche e
biascicate,accompagnate talvoltada suoni occlusivi similia schiocchi di lingua.Quest’ultimacaratteristica ricordava iclick delle lingue degliOttentotti e deiBoscimani dell’Africameridionale, mentre lafrequenza del nesso tll’azteco centro-americano.
L’abbondanza di ö e üsembrava inveceindicare una parentelacon la famiglialinguistica turca... Matuttequesteeranovagheimpressioni,troppopocoperorientarsi.Secondolestime degli studiosi lelingue del mondo eranoquasi tremila: a quale diesse poteva assimilare lalingua che parlavano in
quel luogo, sulla base dicosìpochielementi?
Ilpassosuccessivofuiltentativo di rintracciarele forme allocutive neldiscorso, non solo inquello di Tjetje: stavasempre in ascolto, con leorecchie tese, ma perquantosisforzasseriuscìa cogliere un’unicaforma, che suonavaall’incirca come klött o
klütt, sempre che avessecapito bene. Gli tornò inmente che al mercatocoperto, durante la suaprimagrandeescursioneincittà,ilcamionistachel’avevascambiatoperunfacchino si era rivolto alui proprio con quellaparola, come achiamarlo: «Ehi, lei!»...Sembrava essere la solaforma allocutiva
esistente, in luogo delletante in uso altrove: tu,lei, voi, signore, signora,signorina, vossignoria,vostra grazia, zio, zia,compagno, collega e cosìvia.Ilchenonerad’aiutoallasuaindagine.Perchése c’era un’unica formache andava bene pertutti, uomini e donne,bambinieanziani,alloradal punto di vista di
Budaiilsuointeresseerapari a zero: non sapevache farsene, non loportava da nessunaparte.
La stessa cosa valevaperilsaluto:parasciaraoparatecera,oqualcosadelgenere; all’ingressodell’albergo, peresempio,ilgrassouscierecol nastro dorato glielodiceva sempre mentre
spingevalaportaavetri:lo diceva al mattino oalla sera, di giorno o dinotte, quando arrivava equando andava via,senza differenze. Eccodunque un altro datopoco analizzabile,linguisticamente nonclassificabile, unelemento lessicale chenon poteva essere divisoin parti. L’unica utilità
era che ora sapeva comecisisaluta,nulladipiù.
Poi si mise a cacciadelle espressioni dicortesia come prego, miscusi, si accomodi,eccetera. Gli venne inmente che avrebbepotuto elicitarle inqualche modo. Se peresempio si fosse fattourtaresulmarciapiede,ogentilmente avesse
cedutoilpassosullescalein metropolitana, ilpassante probabilmenteavrebbe mormoratoqualcosa come scusi,oppure grazie... Ma con ipronomi personali nonera riuscito a cavare unragnodalbuco,edirecheaveva passato parecchiotempoacercarelaformadelcorrispettivodiio,tu,luiolei.Avevatentatoin
mille modi, con i gesti econ un sacco didomande, di sentirlodalla bocca di Dedede,ma la ragazza nonsembrava afferrare nellamaniera più assoluta.Non faceva che scuoterela testa, mentre soffiavafuori il fumo con ariapassiva, e non servivainsistere. Che motivopoteva esserci dietro
quella ritrosia, quandoper altre cose simostrava cosìdisponibile e sagace? ABudai venne in menteche quella lingua nonavesse pronomipersonali. Si potevaimmaginare,teoricamente, checomunicassero in unaspecie di linguaggioinfantile che impiegava
solo la terza persona,come i bambini piccoliquando parlano di sé:Giovanni mangia, ilbimbo cammina. Alcunipopoli primitivi siesprimevano proprio inquesto modo. Ma eranocompatibiliigrattacielieuna coniugazione da etàdellapietra?
Non aveva maipensatofinoachepunto
le situazioni potesseroessere equivoche, equanto fosse difficiledeterminare una e unasolareazione;oranefecel’amara esperienza. Allastessa domanda,formulata a parole omimando, ricevevarisposteotroppolunghe,quindi noninterpretabili, o semprediverse; oppure dei gesti
– ma anche quelli,quante cose potevanocomunicare! Per dire dinoinEuropaoccidentalescuotono la testa, i grecila gettano all’indietro,mentre i bulgariannuiscono, e perchiamare qualcunoallontanano da sé lebraccia. Si dice chepresso gli eschimesistrofinarsi il naso l’uno
conl’altroequivalgaaunbacio, e così via – chi gliavrebbe spiegato checosa significano i varigestidaquelleparti?
Ilsuocervelloperòeracostantemente attivo edescogitavasemprenuovisistemi. Tra essi quelloche finora si era rivelatoil più efficace: cercare lescritte il cui significatofosse inequivocabile. Per
esempiolaparoladipintasulla parte anteriore deitaxi, alla quale nonpotevano darsi moltealternative. Oppurequella che si leggevasulle rampe gialle dellestazioni del metrò:qualunquefosseilsuononella lingua locale, eraincontestabile cheindicasse lametropolitana.Lascritta
sopra l’ingressodell’albergo, illuminatala sera, era già menocerta,potevaesserehotelma anche il suo nomeproprio, Palace, Royal,Park o altro... Lui l’avevaannotato comunque, peroravolevaraccoglierneilpiù possibile e poi farleggeretuttoaPepe.
Quando un ascensorenon funzionava e sulla
porta era affisso uncartello era quasi sicurochesignificasseguasto.Ecosì pure sulle cabinetelefonichefuoriservizio– come quella da cuiavevaprovatoasottrarrel’elencotelefonico,primache arrivasse ilpoliziotto. Oppure labreve comunicazionesulla vetrina dei negozichiusi, evidentemente
chiuso... Oltre a queste,aveva ricopiato lestringhe di lettere vistesu alcuni locali: trattoria(o ristorante, osteria,mensa?), tavola calda (oself-service, bistrot?), etintoria (lavanderia,lavasecco?).
I negozi sembravanoun buon terreno dicaccia, per la possibilitàdi confrontare l’insegna
coniprodotti,all’internoe in vetrina. In tal modoaveva raccolto le parolefiori, ferramenta, legna ecarbone (o forsecombustibili), tappeti,mobili, stoviglie, vetri,lampadari, strumentimusicali, tessuti, abiti (oconfezioni), merceria,giocattoli, articolisportivi, eccetera. Ovvio,anche qui c’era un
margine di errore.Sull’insegna diun’attività commercialepoteva esserci il nomedel proprietario,l’indirizzo o una parolasimbolicaogenerica–adesempio Arcobaleno(negozio di tessuti otappeti), Cristalli (vetri,stoviglie, lampadari),Arredamenti, Articoli perla casa, Tessili e un
mucchio di altre cose,comecapitavaovunque.
Nei negozi dialimentari la vetrina eramolto istruttiva per lui.Se un articolo avevavicino una targhetta cherecava il prezzoaccompagnato da unascritta, c’era ragione disupporre che questafosse il nome. Gliinteressavano
soprattutto generi comearance, limoni, banane,zucchero,caffè,tè,cacao,cioccolata,ossiaprodottiil cui nome era simile inmolte parti del mondo –sarebbe statointeressante e rivelatorescoprire la versionelocale di queste parolemigranti... Certo, poipensò che nemmenoquesto criterio era
infallibile, poiché leparole sulle targhettepotevano significareanche prezzo imbattibile,prima qualità, specialità,qualità extra, autentico,dolcissimo, appenatostato, offerta speciale,solooggi,sconti invernali,liquidazione, o qualsiasialtro richiamo usato daicommercianti perpromuovere la loro
merce. Le copiò dunquesul taccuino con unpunto interrogativoaccanto alla presuntainterpretazione.
Durante i suoi giri perla città aveva annotatoparecchie scritte di cuiaveva dedotto ilsignificato: guardaroba,cassa, acqua potabile (oacqua non potabile),vietatol’ingresso,fermata
d’autobus, attenzione,vernice fresca, vietatocamminare sull’erba,lavori in corso sullacarreggiata, passaggiopedoni sul lato opposto(sarebbe stato un belcolpo,seciavessepreso),alta tensione oppure chitocca i fili muore e altrecosedelgenere.
Raggiunto un numerosufficiente di casi simili,
aveva intenzione dichiedere a Ebebe dileggergli quelle parole avoce alta, una per una.Ma la prima volta che ciprovò la ragazza eranervosa, di pessimoumore, non volevaneppure salire con lui aldiciottesimo piano.Doveva esserle successoqualcosadispiacevole,inascensore lo ignorava
visibilmente, voltava latesta dall’altra parte,schiacciavaibottoniconaria apatica. Budai perònon rinunciò, andò su egiù pazientemente eattese finché la ragazzanon decise di prendersiuna breve pausa perfumare.Madopoqualcheboccata, non appena lerivolselaparola,gliocchiarrossatilesiriempirono
di lacrime, tirò fuori unfazzolettino sgualcito ecominciòapiangere.
Budai la guardòturbato e perplesso:come poteva consolarlasenza sapere chi o checosa la faceva soffrire? Epoioranonavevatempoperoccuparsidiquesto,eneppureavrebbedovuto,pensava. Bisognava chefosse freddo e
determinato, anzi,egoista e spietato, era lasua unica opportunità.Alla ragazza dovevadedicare solol’attenzione sufficiente amantenere la loroconoscenza,tuttoilrestonon era che uno sprecodi energia. E se da partedi lei ci fosse statodell’altro nei suoiconfronti, ebbene sì, lui
avrebbedovutosfruttareanche questo a propriovantaggio.
Così non mollò lapresa, caparbiamente:tanto insistette che allafine la donna,accantonato il suomisterioso malumore, simise di nuovo adisposizione e cominciòa leggere a voce altal’elenco che lui le
sottopose... Forse per laprima volta da quandoera finito in quella città,Budai ebbe la sensazionedi aver raggiunto unqualche risultato graziealle sue capacità logichee alla sua costanza. Adimostrarlo eranodiversi segnali, a partiredalla mimica e dai gestidiTete:avevaindovinatogran parte delle parole
annotate, si era mossonellagiustadirezione.Gliridiede un po’ di fiduciavedere che quella sualotta solitaria non erastata vana. Proseguì conraddoppiato zelo,sfruttando ogni spunto,provava quasigodimento mentreannotava la maniera incui la ragazzapronunciava le varie
stringhe di lettere, e poile ripeteva subito pertenerle nell’orecchio esullalingua.
Rimase invece delusodalle parole migranti,perchénessunaavevaunsuono riconoscibile.Taxi, autobus, metrò,hotel, buffet, arancia,banana, cacao, eccetera,erano nomicompletamente diversi.
Questo provava che ilpaese – cioè i lorolinguisti, le scuole, lastampa – difendeva conun rigoroso purismo lalingua nazionale dagliinflussistranieri.Oppureche era un luogotalmente isolato daglialtri popoli e lingue delmondo che non nerisentival’influenza?
Aveva messo insieme
un glossario di circatrenta o quarantaespressioni, corredate dipronuncia, significatopresunto, e probabilialternative nei casidubbi: era lui stessostupito di come gli erariuscito bene. Si sentivaelettrizzato, in camerasistemò le sue schede inordine fischiettandoallegramente, e la sera si
concesse in viaeccezionale un bicchieredi quella bevandaalcolica dolciastra.Decisecheperunpo’nonavrebbe cercato altromateriale, ma si sarebbesforzatodielaborarequelcheavevaraccoltofinoaquelmomento.
La mattina dopo però,quando provò aconvincere la ragazza a
scomporre le parole insegni, ovvero in suoni, oquantomeno leespressioni più estese inparole singole, con suagransorpresalacosanoningranava:sibloccavano,ricominciavano da capo,siinceppavanodinuovo.Appena ricontrollava ivalori fonetici, le varielettere suonavanodiverse,piùlungheopiù
brevi, oppureirriconoscibili. E non èche a furia di domandeottenesse risposte piùcoerenti, anzi, il quadrosi faceva sempre piùconfuso e imbrogliato.Forse la pronuncia diogni segno cambiava infunzione del contesto, aseconda che si trovasseisolato o all’interno diuna parola? Come in
inglese e in francese? Einversamente: potevadarsi che uno stessosuono fosse restituito davarielettere?
Queste analogie, delresto, avevano valore sesi trattava di unascrittura di tipoalfabeticoenonsillabico– ecco, di nuovo questoproblema –, e men chemeno logografico, come
in cinese, dove il segnocorrisponde a unconcetto compiuto; perquanto quest’ultimaipotesi gli sembrassepoco verosimile, icarattericinesieranopiùiconografici e complessidi quelli, e soprattuttoesprimevano in manieramolto concisa unaquantità diinformazioni... Ma nel
caso di una scritturasillabica,avrebbedovutoseguire un approccio dilavoro totalmentediverso, poiché la sillabaè in genere composta dauna vocale e da unaconsonantee,sepercasofosse riuscito aindividuare, diciamo, lasillaba pe, non avrebbepotuto scinderla in p ede. Perché in un tale
sistema di scrittura, perdefinizione, accanto a peanche pi, po, pudispongono di un segnoautonomo, così come inessime,re,de,eccetera,dunque il suono cercatosarebbe stato celato ognivoltainaltrisegni.Epergiunta avrebbero anchepotuto esserci sillabe diquattroocinquelettere–dove era il filo per
dipanarequell’intrico?Se nella lettura dei
singoli caratteri nonaveva fatto grandiprogressi, almenoconosceva la formascritta e la pronunciaapprossimativadialcuneespressioni. Peccato chefossero in gran partetermini di frequenzaoccasionale, non ilgenereutileaorientarsie
a cavarsela nelquotidiano. Esoprattuttoeranotroppopochi,nonsarebberomaibastati per partire etornare a casa. Dovevaproseguire nella raccoltadi parole in ambitisemprenuovi.
Cominciò a osservare inomi delle vie, stranoche non ci avessepensato prima.
Sembrava una cittàordinata, le targhetoponomastiche eranoappese agli angoli dellestrade, ben visibili,secondo un modellopreciso: rettangolari,gialle, a caratteri neri.Budai cercò l’elementocomune, la parola ogruppo di segni chepotesse significare viale,corso, via,
circonvallazione,passeggiata, passaggio,lungofiume o cose delgenere. Per quantiappunti prendesse, però,non trovava alcunacorrispondenza: forseerano specifiche omesse,ritenute superflue? Oforse usavanodenominazioni a séstanti, come Strand oPiccadilly a Londra,
Broadway e Bowery aNew York, Rond-Point aParigi, Graben a Vienna,il Körönd o il vecchioOktogon a Budapest? Maqueste erano delleeccezioni, possibile chein questa città fossero lanorma?
Ottenne risultati dipoco migliori con lepubblicità; c’eranotantissimi cartelloni in
metropolitana, lungo lescale,neicorridoienegliatri sotterranei, maanche per le strade,alcuni erano didimensioni gigantesche,ricoprivanointerepareti.Moltidiessiliconoscevafino alla nausea: l’uomobiondo dalla faccia rossache beveva birra, con laschiuma che gli colavagiù per il mento, la
grassa cuoca nera chesollevava in alto il suomestolo ammiccando efacendo balenare lacandida dentatura, ilcavaliere in armaturacon l’ombrello apertosopralatesta,lafamiglianumerosa i cui membri,seduti in cerchio,immergevano i piedinudi in un catinocomune, e così via; non
vedeva mai articoli eprodotti diffusi in altreparti del mondo. Eradifficile riuscire adistinguereilnomedellamarca da quello delprodotto. Leggendo ShipSoda non sapeva qualefosse Ship e quale Soda.Ciò nonostante riuscì ascoprire alcune parolenuove: detersivo,pneumatico, lassativo,
cartine per sigarette,tosaerba, dado da brodo.Non che fosseroparticolarmente utili sulpianopratico.
Molto spesso i simboligrafici sostituivano lescritte, ne trovavadappertutto: frecce,indici tesi, disegnistilizzati, silhouette. Inalbergo sulle porte deibagni era rappresentata
una vasca o una doccia,sulle toilette una testamaschile o femminile,oppure una scarpa dauomoodadonna.Anchesulle cabine telefonichenonc’eranoscritte,maildisegnodiuntelefono.Ildivietodifumareeraunapipa fumante tagliata dauna riga rossa, inmaniera simile ad altridivieti. Anche i cartelli
stradali funzionavanopiùomenocomeintuttoil mondo, e il labirintodella metropolitana eraorganizzato alla stessamaniera: informazioni eorientamento sibasavano soprattutto sufrecce e colori. I segnaliingeneraleeranostatidigrandeaiutoaBudai,chesenzaconoscerelalinguaera riuscito a orientarsi
in tante situazioni e acrearsi un certo tipo divita, sia pur limitata apoche attività. D’altraparte, però,sostituendosialleparole,gli impedivano diimpararle.
Poi gli tornò in mentecheilgiornoincuisieraspinto verso i confinidella città, avevaintravisto in lontananza
un portale illuminatonella nebbia, ma in quelmomento aveva fretta eaveva tirato dritto, nonsi era avvicinato... Sefossestatouncinema?Ela prima domenica, nelquartiere deidivertimenti dove si eraaggirato fino all’alba –ormai i suoi ricordierano vaghi –, c’eranosolo locali di varietà o
forse anche deicinema...? Allora non gliinteressava, ma ora nonsmetteva di pensarci.Meditò se tornare fin là,se ne valeva la pena e laspesa. Ormai gli eranorimasti pochissimi soldi,gli dispiaceva spenderliperfino per il metrò –nonosavapensareacosasarebbesuccessoquandofosserofiniti!–,emagari
non era una pista cosìpromettente. Avevaavuto tante di quelledelusioni da quando eracapitato in quella città,perché rischiarneun’altra? Meglio lasciarcadere l’idea,dimenticarla come senonglifossemaivenuta,cancellarla...
Ma non riusciva ascacciare quel pensiero,
che continuava alavorare tenacementedentro di lui,indomabile: e se stessetrascurando unapossibilità? Gli si annidònel cervello comeun’ossessione: se nonavesse fatto di tutto, senon avesse seguito finoin fondo ogni minimobarlume di speranza, seanche solo una volta
avesse desistitosignificava che si eraarreso a quellacondizione, che avevarinunciato a lottare,insomma che avevaaccettato di nonandarsene mai più di lì.Non si trattava delcinema in sé o della suautilità,quantodiandarciper non avere niente darimproverarsi.
Decise di dedicarviun’intera giornata, dalmattino presto a notteinoltrata. Arrivò fino alcapolinea del metrò e dalì proseguì a piedi nellastessa direzione dellavolta precedente. Passòaccantoallungomurodipietra, ai gasometri,rivide la fabbrica con ilprofilo dei tetti a formadi sega, i bacini di
raccolta idrica – nonavrebbe mai creduto chesarebbetornatosuquellastrada! Apparve iltendonebiancodelcirco:il portale che sembravauncinemadovevaesserenei paraggi, per fortunaera vicino alla stazionedel metrò. Ora non c’eranebbia, non sarebbestato illuminato, maBudai non aveva
dimenticato comearrivarci, e infatti pocodopo lo vide sul latoopposto della gigantescapiazza, brulicante difolla.
Non era un cinema,erano dei grandimagazzini. Un edificioenorme, come lo sonoovunque, di diciotto oventi piani, e dainumerosi ingressi la
genteentravaeuscivaincontinuazione.Eppure,agiudicaredallevetrinealpianterreno, la sceltanon era più varia chealtrove: confezioni unpo’fuorimoda,daltagliogoffo, articoli per la casae prodotti in serie dallafattura piuttostoscadente, mercedozzinale che si sarebbepotuta trovare anche
sulle bancarelle di unmercato... Ma lui nonvoleva comprare niente,non aveva soldi, nonentrònemmeno,giròsuitacchi e se ne andò.Restava ancora ilquartiere deidivertimenti, e con unpiccolo sforzo dimemoria riuscì aricostruire il percorso inmetropolitana per
arrivarci – in genereaveva un buon sensodell’orientamento,quando era stato in unpostosapevatornarci.
Era un giorno feriale,malafollaerafittacomela volta precedente.Mentre calava il buiocominciarono adaccendersi ovunquescritte luminose, dai baredalleosterievenivauna
musica assordante, gliubriachi barcollavanosui marciapiedi,gridando, soffiando intrombette di carta.Ritrovò l’angusto vicolodove aveva fatto visita aquella casa: la donna intullebiancodalle lungheciglia e dal viso dimadreperla sorridevaanche ora dalla finestracon il suo pudico
sguardo da madonna...Budai ripensò con unpizzico di nostalgia aigiorni in cui potevapermettersiquellecose,eanche un giro in barca,unbicchiere,unacrêpe.
Benché di cinema nonci fosse traccia, non eradispiaciuto di esseretornatolì.Eracosìsolo,epiù tempo passava inquella città
sovrappopolata più sisentivaabbandonatoaséstesso. Il semplice fattodiritrovareunpostocheconosceva creava unasorta di legame, unminuscolo punto diriferimentoinunoceanodi estraneità. La ruotagigante, la nave deipirati, il tiro a segno, ladonna cannone. Nonriusciva ancora a capire:
davveroquinonavevanoi cinema oppure era luiche non sapeva vederli?Ma questa cosa non glipareva più cosìimportante, o forse erapassatainsecondopianonellasuaattenzione.
Adesso era tutto presodal suo stato d’animomutevole. Ora la follafluttuante di cui luistesso faceva parte non
gli era affatto sgradita,gli sembravasopportabile, anzipiacevole. Soprattutto ilsenso di leggerezza,l’unico ma tutt’altro chetrascurabilevantaggiodiquella permanenza: ilnondoverrenderecontodi nulla a nessuno. Ci sipoteva anche abituare auna vita complicata,fattadicontinueattesee
code, in cui bisognavasgomitare nella ressa;avrebbe finito per nonaccorgersene più,l’avrebbe consideratauna cosa naturale, cometutti gli altri. Questeidee, naturalmente,nascevano dall’umoredel momento, untemporaneo stato digrazia, una sorta diottundimento della
coscienza che altrimentilo tormentava. E sottoquellapiccolascintilladiserenitàc’eraforseancheEpepep, l’allettantecertezza che quel giornostesso, o al più tardil’indomani, l’avrebbe dinuovoincontrata.
Unattimodopoinvecesiabbattevaancorasudilui l’amarezza, ladisperazione. No e poi
no, non avrebbe maipotuto abituarsi a quellavita: i cibi, le bevande, ilsapore dell’aria –fuligginosa, dolciastra,quasi granulosa, greve esoffocante come se fossepovera d’ossigeno –, laressa perenne, il doverprocedere a spallate,gomitate e pedate, lacalca, il ritmo folle eintollerabile. Budai
amava gli spazi vasti eassolati dove lo sguardopoteva correre libero,come le piazze italiane –che se ne faceva di quelcumulo di mattoni ecemento sempresovraffollato, che aveval’aspetto di un’unicagigantesca periferiaurbana?... E poi provavaunanostalgiasemprepiùacutadisuamoglie,della
famiglia, del lavoro, delsuo ambiente, di casasua. Che sforzo scacciareil pensiero più penoso,che non gli dava tregua:come si erano spiegati lasua scomparsa, svanitosenza lasciare traccia ounsegnodivita?
Gli venivano in mentedelle cose tremende: ilsuo cervello girava avuoto, producendo un
incalzare di domandesenza risposta. Peresempio: e se non fossefinito lì per errore, comeaveva finora creduto? Seal momento dello scalonon fosse stato lui asbagliare aereo, maqualcuno l’avessedirottato, in altre parole,rapito? Forse sull’aereogli avevano messo delsonnifero nel pranzo
perché non si rendesseconto della durata delvolo... E da allora lotrattenevano in quelluogo, impedendogli ditornare a casa. Ma chierano, e per qualeragione,eachescopo?Eperchépropriolui?Achidava fastidio? Che cosaaveva fatto di male, e achi?
Eppure sarebbe stata
una situazione piùsopportabile. Rabbia,malevolenza, odio: unarelazione con due poli.Alla collera si puòrispondereconlacollera,la si può accettare,identificandol’avversario, e lottare,combatterlo, dunqueanche sconfiggerlo. Mase a confinarlo là eranol’indifferenza e la
paralizzante noncuranzadi chiunque – cosa chesembrava più verosimile–, allora come tirarsifuori da quelle sabbiemobilisenzanienteacuiaggrapparsi, niente sucuipuntareipiedi?
L’importante era nonperderelatesta,cosìsolocom’era, non arrendersial disordine, alla massacaotica.Incertimomenti
era assalito dalla paurache la sua menteabbandonasse quellalotta disperata esprofondasse nellababelechelacircondava,o in una malinconiagrigiastra e incerta.Eppure non aveva altrearmi che la sua lucidità,l’unico faro che potevapuntaresuquell’incuboaocchiaperti.
Riassumendo le sueincessanti speculazioni,ecco a che cosa eragiunto con gli strumentia sua disposizione:conosceva il significatoapprossimativo diqualche espressionedella lingua parlata, inumeri da uno a dieci,una maniera diinterpellare e una disalutare. Inoltre, il senso
e la forma fonetica divarie stringhe di lettere,in base alla pronuncia diDeded–dovevanoesserenomi di prodotti incommercio –, e due o trefrasi più lunghe. Era ingrado di leggere soloparole intere e fallivaognivoltachetentavadiscomporle in unitàlinguistiche minori. Nonconosceva ancora il
valorefoneticodinessunsegno né, inversamente,i caratteri cherappresentavano i varisuoni; per finire, nonaveva ancora capito chetipo di scritturaimpiegassero da quelleparti.
Erano risultati di unapochezza disarmante,insufficienti nonsoltanto a ricostruire
uno straccio di sistema,ma perfino a comporreuna frase di sensocompiuto. E quandoprovò a usare le paroleche credeva di averdecifrato, per esempioper chiedere dov’era unatavola calda o unastazione dellametropolitana,sperimentò condelusione che lo
capivanoastentooppurelo fraintendevano. Leaveva forse pronunciatemale? C’era poco dastupirsi, data lastranezza del loro mododi articolare i suoni...Un’altravoltaperò,inunsottopassaggio dellametropolitana dove erascoppiatounimprovvisotafferuglio, Budai ebbel’impressione che le
persone urlassero eblaterassero parolevuote, e che nessunostesse a sentire nessuno.Forse nemmeno gliabitanti si capivano l’unl’altro, forse in quellacittà si parlavano deidialettidiversi,operfinolinguediverse?Nellasuamente sovreccitatabalenò il dubbio assurdocheavesserotantelingue
quantierano.
3Inungherese-ban/-benè il suffisso inessivo,mentre -nak/-nek è ildativo. Negli esempicitati:«nellastanza,nellacasa, nella città» e «allastanza, alla casa, allacittà»[N.d.T.].
Intanto, il venerdìsuccessivo trovò il contosettimanale nella caselladella 921. Il portiere –un’altra faccia nuova,ma quanti erano? – fecele somme e stavolta ilrisultato fu di 33,10.Appena un po’ meno delprecedente. Budai loritirò annuendo insilenzio, ma non andòallacassaasaldarlo.Non
aveva abbastanza soldi:quel che gli rimaneva intascanonerasufficiente,anche se nell’ultimasettimana aveva spesomoltomenodiprima.
Che cosa sarebbesuccesso, ora? Quandoavrebbero reagito, esoprattutto come? Forsepoteva venirne fuoriqualcosa di buono, peresempio se lo avessero
convocato in direzioneper avere dellespiegazioni: finalmenteinterpellato, avrebbepotuto parlare, chiedereun interprete... Oppurenon sarebbe successoniente, non si sarebbefatto vivo nessuno? Finoa quando avrebberotollerato che alloggiasselìsenzapagare,unavoltache l’amministrazione
l’avessescoperto?Inognimodo i soldi stavanofinendo,inesorabilmente.Contòericontò il denaro cheaveva in tasca: il suopatrimonio ammontavaa 9,75. Ecco quanto glirestava dei 200 e rottiricevuti in cambio delsuoassegnodiviaggio.
In preda al panico, silanciò in calcoli febbrili:
se la prima settimana,oltre all’alloggio, avevaspeso circa 130, e laseconda, pur avendostretto i cordoni dellaborsa, 26, con ilrimanente, limitandosiall’indispensabile,avrebbe potuto tirareavanti solo qualchegiorno. Che ne sarebbestato di lui se non fosseintervenuta una svolta
nel suo destino? Dovevaprocurarsi del denaro,madove,come?
E poiché le disgrazienon vengono mai sole,cominciò anche a farglimale un dente. Era unmolare superiore:all’inizio avevacominciatosubdolamente, una fittamomentanea, credevafosse solo la sua
immaginazione, provò anon farci caso. Poi ildoloreesploseintuttalasua violenza e divennelancinante,lamascellasiinfiammò e gli si gonfiòla faccia. Era inutileilludersi che sarebbepassato, il tormento eraormai insopportabile enon aveva medicinali ocalmanti, la piccolafarmacia da viaggio che
sua moglie gli avevapreparato era nell’altravaligia,quellasmarrita.
In albergo avevatentato invano di farcapire il problema alpersonale, non gliavevano dato retta o gliavevanorispostoilsolitoblablabla. Disperato,nellamorsadelsupplizioe non sapendo più checosa fare si precipitò in
strada. Proprio in quelmomento un taxi liberorallentava per fermarsial semaforo rosso. Budaispalancò la portiera esenza chiedere o direniente saltò a bordo.All’autista che si eravoltatoversodiluitentòdi spiegare dove volevaessere portato: sipremette la mano sullafacciagonfia,poimimòil
gesto di estrarre undente. L’autista sembròafferrare, non replicònulla, schiacciòl’acceleratore: era ungiovanotto dai trattimongoli, l’ariaimpassibile, il berretto avisiera.
Ma appena giraronol’angolo si ritrovaronobloccatineltraffico.Nonsi andava né avanti né
indietro, la carreggiataera invasa dalle autoimbottigliate. Restaronofermi nello stesso postoper interi minuti, poi lafiladimacchinesimosselentamente e si arrestòdopo qualche metro.Avanzavano con unalentezza snervante,intollerabile: dovevaesserci un incrocio o unsemaforo che impediva
altrafficodifluire,comeuna chiusa. E iltassametro scattava,ancheconl’autoferma,enon si vedeva alcunasperanza di liberarsidall’ingorgo... Budai nonce la faceva più,apostrofò l’autista intono pressante, esiccome questinemmeno si era voltatogli picchiettò la spalla,
indicandosi di nuovo lafaccia gonfia. Mal’autista eraimperturbabile, non lodegnava della minimaattenzione, e nullaconfermava che avessecapitolasuarichiesta.
Quando guardò iltassametro vide conterrore la cifra 8, e pocodopo 8,40 e poi 8,80 ecosì via, e l’auto si
muoveva appena, ilmotore giravaprevalentemente avuoto. In pochi minuti ilprezzodellacorsasuperòi 10, non li avevaneppure in tasca, emagari erano previstianche dei supplementi...Era nervosissimo, il maldi denti era quasiinsopportabile:prigioniero in quel taxi
accerchiato dallemacchine, si pentì diesserci salito, gli vennevoglia di spaccarlo apugni. O di spronarel’autista a buttarsi atutta velocità contro ilgrosso camion chesbarrava loro la strada,che esplodessero pureriducendosiauncumulodi lamiere contorte,purché succedesse
qualcosa!Ma oltre alla rabbia, a
consigliargli la fuga eraanche la parte lucidadellasuamente:checosasarebbe successo almomento di pagare lacorsa? Uno scandalo?Sarebbe arrivata lapolizia? Rabbrividì alsolo pensiero di doveraffrontare unasituazionedelgenerenel
suostato,amenoche...Amenoche,approfittandodi un momento didistrazione dell’autista,mentre ingranava lamarcia ma l’auto simuoveva a passod’uomo... Budai aprì discatto la portiera e siproiettò fuori dallavettura. Inciampò nelbordo del marciapiede,ma non si fece male. Per
unattimovidegliocchiamandorla dell’autistache si voltò a guardarlo,poi il taxi scomparve neltraffico: anche lui siperse nella massa deipedoni.
Era una zonasconosciuta, anche se sitrovava appena dietrol’albergo. E la primapersona che fermò, allaquale mostrò a gesti che
aveva mal di denti,sembròcapirealvolo:gliindicò un vicinocomplesso di edificipiuttosto alti con lafacciata giallo pallido. Agiudicare dall’aspettoesterno avrebbe potutoessere un ospedale, unaclinica o un istituto dicura, dietro il corpoprincipale siestendevano altre ali e
padiglioni, e dall’ampiopassaggioavoltaentravae usciva una gran folla.Vide perfino una speciedi ambulanza che sbucòdaunaltroingresso,unavettura bianca, chiusa, asirene spiegate... Quindil’autistadaitrattiasiaticil’aveva portato nel postogiusto? Povero ragazzo,ci avrebbe rimesso ditasca sua i soldi della
corsa,propriolui,l’unicoche gli fosse mai statod’aiuto...
Qui tutti capivano ilsuolinguaggiodeisegni,e venne subitoindirizzato verso ilreparto odontoiatrico.Nel corridoio degliambulatori, comeperaltro immaginava,c’era una quantitàinfinita di gente in
attesa, in piedi o sedutasulle panche, e perfinoaccovacciata o sdraiatasulpavimento,molticonla faccia fasciata oincerottata, con l’ovattache usciva dalla bocca. Ei pazienti venivanochiamati con unalentezza esasperante, disicuro per ordine diarrivo, e perciòscoppiavano ogni tanto
alterchi e risse. Davantialla porta dove Budaiaveva trovato postoc’erano almeno trentapersone prima di lui. Manon aveva scelta, edoveva pure esserecontento di esserearrivatolà.
Passò un sacco ditempo,Budaisudavaperil dolore. Avevarinunciatodaunpezzoa
contare le ore, quandofinalmente toccò a lui eallora gli eventiacceleraronoimprovvisamente. Nonappena entrònell’ambulatorio, fucircondato da uomini edonne in camice biancoed ebbe giusto il tempodi indicare il dente chegli faceva male. Allorauno di loro lo sbatté su
una sedia, l’altro glirovesciò la testaall’indietro, il terzo gliiniettòunliquidofreddoe dolciastro nellagengiva. Il quarto, untipo tarchiato enerboruto in scarpe digomma con la suolabianca, come quelle deilottatori, gli infilò inbocca una pinzascintillante. Una fitta
acuta, uno schiantosecco: il tizio levò in altoilmonconeinsanguinatoe glielo mostrò, poi logettò nel secchio vicinoalla sedia, dove Budaisputò il mezzo bicchiered’acqua che gli diederopersciacquarsilabocca.
Gli chiesero qualcosa,forseilsuonome,eluilodisse, e diede anchel’indirizzo di casa, senza
immaginare come lipotevano capire escrivere, e soprattutto ache serviva. Nonbisognavapagareniente,o comunque nessuno glidomandò dei soldi. Ilpaziente successivo eragiàpronto,enonappenaBudai si alzò dalla sediaquello vi si sedette, edietro se ne accodò unaltro... Per uscire non
tornò sui suoi passi,cambiò strada perdisattenzione,oforseperil sollievo di essersilasciatoallespallequellafaccenda.Sismarrìlungocorridoi tortuosi, rampedi scale, ovunqueaffollamento ecaratteristico odored’ospedale, e poi ancora,unodopol’altro,corridoitortuosi o che
attraversavano cortilicoperti da tettoie divetro: a quantosembrava, le varie partidi quel complessoospedaliero erano stateaffastellate l’unasull’altra in diverseperiodi. Poi a un trattosbucò in una salaenorme.
Doveva trovarsi nelreparto di ostetricia,
davanti a lui eranoallineate centinaia ecentinaia di culle dineonatiinfascebianche.I neonati, proprio comela popolazione adultadellacittà,eranodituttelerazzeumane,dallapiùchiaraallapiùscura,conogni colore di pelle, ognitipo e forma di viso. Enonriempivanosolounasala, ma anche quella
dopo, e quella dopoancora, neonati eneonati, bianchi, neri,bruni, gialli, e se non cistavano nelle corsieeranoneicorridoi, lungole pareti. A voltegiacevano insieme due otremarmocchi,chissàseerano gemelli odividevano il lettino permancanza di spazio? Eanche i padiglioni
successivi erano pienizeppi di bebè, e così diseguito,comesetuttociònon avesse mai fine, enelfrattempoinfermierevestite di biancosbucavano dalle saleparto o chissà da dovecon portantine a rotellecariche di neonati, adecine, a ventine, chestrillavanofuriosierossicome gamberi, oppure
assopiti, spossati dallafatica di venire almondo... A Budaipiacevano i bambini, ingenere si inteneriva aguardarli, però non neaveva mai visti tantitutti insieme, eraconfuso e turbato daquello spettacolo. Ebbel’impulso di scappare,iniziò a cercare l’uscita oquantomeno un reparto
senza neonati, conun’impazienza crescenteche sentiva trasformarsiin angoscia: che cosasarebbe successo inquella città quando queipiccolifosserocresciutiesi fossero aggiunti allamoltitudine?
Tornato in albergo,nell’ascensore si imbattéin Bebe. La ragazza notòimmediatamente la sua
faccia gonfia e con losguardoglifececapiredinon scendere. Quandofurono al diciottesimopiano Budai tentò dispiegarlechegliavevanocavatoundente,eaprìlabocca per mostrarlequale. Veved eravicinissima e i suoicapelli biondi glisfioravano la fronte,sentiva la pelle e il
respiro della ragazza: inseguito non fu più ingradodiricostruirecomefosse andata, e in fondoche importanza avevaormai, se fosse stato luiad accarezzarla e abaciarla, oppure lei aporgere con teneroabbandonoprimailviso,poi labocca.LelabbradiBudai erano ancoragonfie e intorpidite per
l’iniezione, o per lagengiva ferita, eranorigide e goffe, nonsentiva quasi nulla,doveva essere anche unpo’ intontito,annebbiato. E poi ilcampanello cominciò atrillare, chiamavanol’ascensore, bisognavascendere: la cabina siriempì rapidamente digente, e a poco a poco
quel che era successolassù sembrò lorosempre più lontano eirreale.
Ma il problema deldenaro era ancora darisolvere.Dovevacercaredi lavorare, gli servivaunmestierequalsiasiperguadagnaredeisoldi,madove, da chi? Nonriusciva a ottenereinformazioni ben più
semplici. E poi non erapiù capace di faredomande alla gente, erauna cosa più forte di lui,difficile da contrastare.Quel chiudersi in séstesso era conseguenzadelle innumerevolifrustrazioni e delusioniche aveva subìto, unaformadiautodifesadellasua psiche. Era semprepiù impacciato e timido,
e quasi non osavarivolgere la parola aipassanti, a chiunque:ammutoliva e sibloccava. Forse, dato ilsuo temperamento, eral’unico modo in cuisapevareagire.
Alloraglisovvennecheun lavoro gliel’avevanoproposto, al mercatocoperto, la primadomenica, quell’autista
che voleva fargliscaricare la verdura dalcamion... Si vestì con gliindumenti più scadentidel suo miseroguardaroba, delle duepaia di scarpe scelsequelle ormai sformatedalle lunghecamminate,indossò il pullover cheaveva nella borsa daviaggioesiavviò.
Ci mise parecchio
tempo a ritrovare ilmercato. Scese allafermata giusta, inmetropolitana, maattraversò per ben duevolte l’enorme piazzaprima di essere sicurochefosselastessa:eraungiorno feriale, l’area erasgombradaibaracchiniedai banchi di vendita, ilselciato era spazzato epulito, e al centro si
vedeva la statua di unsoldato ferito: era unmonumento ai caduti?Dedusse che il mercatodelle pulci si teneva solola domenica e nei giornifestivi... C’era invece unbel movimento nelmercato coperto sotto lastruttura di vetro eacciaio dall’altro latodella piazza. La parteanteriore era presa
d’assalto da chi volevafare acquisti, mentresulla rampa laterale sisvolgevano intenseoperazioni di carico escarico, con un granlavorio di gru, nastritrasportatori emanodopera umana.Tanti scaricatoriindaffarati attorno aicamion,figurimalvestitiche trasportavano
all’interno balle, blocchidighiaccioecanestri.
Non fu difficilemescolarsi a loro, siformavano delle bandeoccasionali che sifacevano assegnarequesto o quel carico.Bastò stare attentoall’arrivo del primocamion di merce,avvicinarsi, voltarsi dispalle e già gli avevano
messo un sacco sullaschiena. Doveva esserepieno di patate o cipolle,non era particolarmentepesante; lo portò dentro,seguendo gli altri, lobuttò in un mucchiosopra una gigantescapesa,poitornòindietroaprenderne un altro. Nongli chiesero nessundocumento, e dopo unpaiodidomande,quando
fuchiarochenoncapivala lingua, non glirivolsero nemmeno piùla parola. Non che cifosse molto da dire: quelche doveva fare erachiaro senza bisogno ditanti discorsi. E neppuregli altri scaricatori glibadarono, avevano illoro daffare, e nonsembravano neppureconoscersitraloro.
Budainonavevapauradel lavoro fisico; dagiovane, quando erastudente borsistaall’estero e spesso inbolletta, gli era capitatodi lavorare per interenottate alle Halles diParigi o al mercato diCoventGardenaLondra.E aveva ancora un fisicorobustoesano,glifacevapiacere il movimento.
L’unicacosacheglidavafastidio era che i sacchigli sporcavano le mani eil pullover: ci miserocirca un’ora e mezzo aportare tutto il caricosulla pesa. Allora ilcamionista li pagò, eficcò in mano a tuttiquantiunabanconotada1. Poi gli fecero portaredentro delle mezzene dimaiale, era merce
refrigerata, gelida eumida, la sentiva freddasulla schiena e le palmedelle mani glidiventarono unte ebagnate. Quindiprocedetteascaricaredaun furgone dellevoluminose gabbie condentro grassi coniglid’angora,comequellicheavevavistoinunastanzadell’albergo. In tutta la
giornata guadagnò ottobanconoteda1equalchespicciolo. Provava unapiacevole stanchezza eanche un pizzicod’orgoglioall’ideache,senecessario, era capace dimantenersi con il lavorodelle sue braccia. Perònon vedeva l’ora ditornare nella sua stanzadabagnoefarsiunabelladocciacalda.
Da allora in poi, tuttele volte che andò almercato coperto, aqualsiasi ora, trovòsempre da lavorare. Enessunomaivollesaperechi fosse. Notò chealcuni scaricatori delturnodinottealterminedel lavoro non se neandavano, restavanonelle mescite aperte neipressi dell’edificio. Altri
si mettevano a dormireinmezzoalleballe,soprasacchi vuoti o in unangolotranquillo,dentrocasse di grandidimensioni. Dovevanoessere vagabondi, gentesenza fissa dimora,avevano vestiti sporchi,un aspetto trasandato:ecco, si era ridotto comeunodiloro.
Un giorno, tornando
dal mercato, scese inmetropolitana sullalunga scala mobile,accanto alla quale salivain senso contrario ilflusso interminabile dichi ne usciva. A untratto, con un certoritardo, vide sull’altrascala un uomo con inmano una rivistaungherese. Non c’eraalcundubbio,noneraun
abbaglio, era un numerodel vecchio settimanale«Színházi Élet»,4 il titolosi leggeva benissimo.Anche l’attricefotografata in copertinagli sembrò familiare: incostume da bagno arighe,stavainpiedisullascalettadellapiscinaconleondedeibagniGellért,bionda e snella, con lamano sinistra alzata in
un saluto... Era una cosatalmente sorprendente eimprevista: prima cheBudai se ne rendessepienamente conto, iltizio con la rivista, unuomo di una certa età,dai capelli grigi, con gliocchialieunlodenverdepiuttosto liso, era giàpassato oltre sulle scalemobili ed era ormai allesue spalle. Così, su due
piedi, non gli venneniente da dirgli, e colrespiro spezzato gligridò:
«Mi scusi... Dico a lei,signore...!».
Ma le scale mobilironzavano e cigolavanocosìrumorosamente,einquel tunnel obliquo erimbombante, gremitodi passeggeri, c’era untale baccano che il
signore in loden di certonon lo sentì. AlloraBudai, atterrito all’ideadi perderlo di vista persempre, gli urlò dinuovo:
«Ehilà, guardi daquestaparte...!».
L’uomosivoltò,conlosguardo di chi si sentechiamare dall’aldilà.Allungò la mano versoBudai, da lontano, con
gesto incerto, forse neldubbio che fosse unmiraggio:
«Ma allora anchevossignoria...?».
Il resto fu coperto dalrumore circostante edalla distanza sempremaggiore tra di loro.Budai tentò di risalireperavvicinarsialsignorein loden, ma le scalemobili procedevano
piuttostovelocementeeipasseggeri dietro di luiformavano una barrieraimpenetrabile, anzi,alcuni scendevano igradini per la fretta diarrivare ai binari: nonavevaalcunasperanzadiraggiungerlo, non c’eralo spazio, né il tempo.Disperato gridò ancoraverso quella macchiaverdastra che si
allontanava sempre piùinaltoesiperdevaormainellafolla:
«Miaspettialla...».Ma lì per lì non gli
venneinmenteunluogoin quell’intrico dicorridoi e sottopassaggidella metropolitana. Sealmenogliavessechiestol’indirizzo, o gli avessedato il suo mentrepassavano uno accanto
all’altro! Ma non sapevail nome dell’albergo, eneanche la via... Intantola figura dellosconosciuto era statacompletamenterisucchiata dal gorgo delmetrò.
Budai non riusciva adarsi pace, provò amettersi nei pannidell’altro: che avrebbefatto se qualcuno
l’avesseinterpellatocosì,dovel’avrebbeaspettato?Il posto più ovvio era incima alle scale mobili.Soltanto che non erafacilearrivarcidadovesitrovava. In fondo c’eraun divisorio a separareuna scala mobiledall’altra, e poi ilpercorso venivaincanalato da variebarriere, passando per
corridoi tortuosi, incrocie nuove svolte edeviazioni. E quando,dopo aver vagato alungo, vide la scalamobile, non era piùsicurochefosselastessa.Dove terminava necominciava un’altra, edopo un’altra ancora;qual era dunque la finedelle scale mobili? Ederano tutte stipate di
genteinmezzoallaqualeil suo sguardo cercòinvano il signore inloden. Ovviamente nonsipotéfermare,lamassalotrascinòvia.
Eseilsignoreinloden,ragionando come lui,l’avesse atteso in fondoallescalemobili?Ritornòindietro, facendosi largoafatica,finoall’altezzaincui aveva incrociato il
tizio in loden: avrebbefatto meglio a saltaredall’altra parte inquell’istante, ascavalcare il corrimanodi gomma che separavauna scala dall’altra,perché non ci avevapensato sul momento?...Non lo trovò, di sotto,neanche giù sullabanchina percorsa dalrimbombo dei vagoni e
dalla corrente d’aria.Potevadarsicheiltiziolostesse aspettando su instrada? Ma a qualeuscita?Perchécen’eranootto o dieci... Vagòancora in su e in giù perillabirintodellastazione,a lungoe invano: l’uomoche stava cercando nonemerse piùdall’inesauribile mareaumana che riempiva
uniformemente ognispazio.
Nel turbamentodell’emozione,nonseppedecidere sequell’incontro fosse unsegno positivo onegativo. Anche se nonera riuscito a parlargli, astabilire un contatto, lorassicurava,nell’isolamento totaleche lo aveva afflitto
finora, scoprire di nonessere il solo stranieroproveniente dal suopaese. Poteva sperare diincontrarlo di nuovo, luio un altro compatriota,oppure uno straniero diun’altra nazionalità: laprossima volta lecircostanze sarebberostate meno sfortunate, efinalmente lui avrebbechiarito tutte le
questioniinsospeso.D’altra parte, però, se
provava ad analizzarequella strana scena,c’erano degli elementiinquietanti.Apartiredalfatto che lo sconosciutoavesseinmano«SzínháziÉlet».Larivista,aquantoricordava Budai, avevacessato le pubblicazioniuna trentina d’anniprima. Quel signore
viveva lì da così tantotempo? E se sì, vi si erastabilitodisuavolontàoci era finito per erroreanche lui? E come ci eraarrivato, con qualemezzo di trasporto? Siera portato dietro larivista per leggerla inviaggio, magari proprioil numero dellasettimana, e da quelgiorno la conservava?...
Questo poteva spiegarelo stupore incredulo delsuo sguardo quando siera voltato verso di lui,reagendo al suo gridocome se avesse sentitouna vocedall’oltretomba. E anchequel «vossignoria», unaforma allocutivaantiquatacheormainonusavapiùnessuno.Epoiperché «anche
vossignoria»? Perchéquella parola chesembrava accomunarliin uno stesso destino? Siriferiva soltanto al fattoche erano connazionali,oppure – era questo chepiùtemeva–quell’uomo,proprio come lui, nonriuscivaadandarsenedatrent’anni,oforsepiù?
Per giorni non potédarsipace,sitormentava
per l’occasione perduta,si colpevolizzava erimuginava incontinuazione: avrebbedovuto comportarsidiversamente? E comel’assassino che torna sulluogo del delitto, andòancora molte volte inquella stazione delmetrò, vagando per ore,nella speranza che ilsignore in loden
ripassasse di lì – magarifaceva parte del suotragitto abituale. Esebbene non riuscisse aincontrarlo, da allora inpoi coltivò il segretosospetto che nellamoltitudine cheinvadeva le strade e lametropolitana siaggirasse qualcuno concui scambiare unaparola... forse più di uno
– ma come avrebberofattoariconoscersi?
Illavoroalmercatoeleronde nella stazionedella metropolitanafinirono per dare unordine alle sue giornate.In genere mangiava allasolita tavola calda e poitornava a piedi inalbergo. Passava sempreaccantoalgrattacielo.Daquando aveva
cominciato a contarne ipiani ne avevanocostruiti otto, ora eranoal settantaduesimo: maqual era l’altezzaprogettata? In albergoandava sempre a cercarePepepe agli ascensori, edopoaverlaincontrata,ose non la trovava inservizio, non gli restavache ritirarsi in camera.Malvolentieri,perchéera
là che si sentiva più soloe abbandonato, e iltempo sembrava nonpassaremai.
La stanza era semprepulitaeinordine,illettorifatto, e una volta lasettimanacambiavanolelenzuola, la tovaglia, gliasciugamani e il telo dabagno. Ma non era mairiuscito a sorprenderechi si occupava di tutto
questo: quandorimaneva in camera, etalvoltapergiorni,nonsifacevano vivi. Unamattina, per puracuriosità, finse di usciree si appostò dietrol’angolo del corridoio,ma per l’intera mattinanon comparve nessuno.Altre volte, invece, erasceso brevemente allareception e quand’era
risalito, dopo un quartod’ora, aveva trovato lastanzarassettata.
La cosa che glimancava di più era lalettura, la parola scritta:acasapassavametàdellasua vita in biblioteca, inmezzo ai libri, talvoltafino a diciotto ore algiorno – gli dispiacevarinunciare aquell’abitudine. In preda
all’astinenza riprese inmano la raccolta dinovelle che avevacomprato al negozio dilibri usati. La sfogliòancora una volta, senzacapirci un’acca; osservòla copertina, il golfo conl’acquaazzurra,lepalme,le casette di un biancoabbagliante sul fiancodella collina. Poi guardòla foto dell’autore sul
risvolto di copertina,l’uomo in pullover dalviso pieno e con i capellia spazzola: gli occhisocchiusi, la suaespressione annoiata eun po’ beffarda gliparveroancorafamiliari.Sidomandòdovepotesseaverlo visto... A chiassomigliava, chi gliricordava, che cosa loattraeva in lui? L’ironia?
Quell’ariapigraevigilealtempo stesso? Finchéuna sera, dopo una duragiornata di lavoro almercato, guardandosiallo specchio del bagnomentre cercava direprimere uno sbadiglio,all’improvviso capì:assomigliava a lui. Eraper questo che gli erasimpatico e aveva sceltoproprio quello tra le
migliaia di volumi? Eraquesto che gli erapiaciuto, la propriafaccia?
E così si ripresentavaalla sua mente la piùangosciante delledomande: che ne era deisuoi familiari? Perché iltempo non si era certofermato, a casa: stavanobene, erano in buonasalute,eranovivi?Esesì,
in che modo potevanoaver reagito allasconcertanteassurditàdinonaverel’ombradiunanotiziadatresettimane?Invanosisforzavadinonpensarci, questaossessione torturava ilsuo sistema nervoso. Seavesse almeno potutoavvertirli, mandare unsia pur breve messaggio,farsaperecheeraancora
vivo–chissàdove...Finora non aveva mai
visto un ufficio postale,danessunaparte;eppuredoveva esserci. Forse ciera passato davantisenza accorgersene?Niente cassette dellelettere,ancheseleavevacercate nella halldell’albergo. Lì avevatentato di spiegare allecommesse dei vari
negozi che voleva unfrancobollo, nonvedendone esposti, madalle risposte e dai gestinon era chiaro se noncapissero o lo inviasseroaltrove–sì,madove?
Allora gli venneun’altra idea: piegò aformadiletteraunfogliodi carta e scrissel’indirizzo della moglie.Naturalmente, era
piuttosto turbato ecommosso mentre loscriveva, la solitudinel’aveva reso fragile eincapace di dominare leproprie emozioni.Adesso però si sforzò dicontenersi e portò lalettera di prova giù allareception.Laconsegnòalportiere di turno, cheperòsilimitòaguardarlae a rigirarla tra le mani,
probabilmente senzariconoscere i caratterilatini.Oforsenonsapevachefarne,nonspettavaalui, non volle ritirarla, egliela restituì con unabreve frase di cortesia.Credendo che si riferissealla mancanza delfrancobollo, Budai presedel denaro, lo fecetintinnare, come achiedergli quanto
costava, e posò sulbanconeunamanciatadispiccioli, fissandolo consguardo interrogativoper capire se bastavano.Il portiere, un uomo diuna certa età, dall’ariadistinta, dovettefraintenderloepensareaun tentativo dicorruzione: in preda aun’improvvisa stizza,esclamò sdegnato
qualcosa e allontanò dasé il denaro. Distolse losguardo da Budai e sirivolse ostentatamentealclientesuccessivo.
Nonostantel’insuccesso, meditò senon fosse comunque ilcaso di scrivere unalettera a sua moglie.L’avrebbe lasciata sulbancone della reception,quando in servizio ci
sarebbe stato qualcunaltro, con accanto deisoldi, una sommasensata perl’affrancatura, e poi sisarebbe allontanato infretta. Nella remotaeventualità che fossearrivata, dal timbropostale sarebbero potutirisalire allaprovenienza... Peròtemporeggiava e
rimandava il momento,non riusciva a prenderein mano la penna, nonavevaanimo.Oforse,piùsemplicemente, nontrovava le parole perspiegare quello che gliera successo. No, perquanto ci girasseintorno, era incapace dimetterloperiscritto.
Tornò nella sua stanzae si attaccò al telefono.
Formò i numeri allacieca, senza guardare ildisco dei numeri, echiamòisuoiconoscentisconosciuti: non gliimportava che gliaddebitassero lechiamate il venerdìsuccessivo, tanto ormaiera in debito. Sequalcuno gli rispondeva,scandiva al microfonosempre la stessa cosa,
andòavantiperoreeore,sforzandosi di nonperdere la pazienza: ilnome della sua cittànatale e il numero ditelefono di casa sua,questo ormai era capacedi dirlo nella lingualocale, sei semplici cifredi base. E lo faceva nellaconvinzione che prima opoi avrebbe azzeccatounalineaperlechiamate
internazionali, o magariun numero pubblico dalquale avrebberoinoltrato la suatelefonata; non dovevafar altro che ripetereostinatamente la suafilastrocca.Magridòfinoa diventare rauco, inrisposta non ottennealtro che il solitociangottio, voci oramaschili, ora femminili,
ora infantili, ora senili,ma nessun segno checomprendessero quelche diceva. Passò cosìtuttalaserata:allafineloassalì una rabbiaimpotente, sbatté giù lacornetta, schiumante dicollera maledisse lapropria sorte e prese apugni la parete, tantoche dalla stanza accantobussarono in risposta.
Che sventura tremendagli era capitata! Perchéproprio a lui? Perché erasuccesso proprio a lui?Perché, perché, perché,perché?
Poi, quando si fucalmato un poco, siimmerse per l’ennesimavolta nellacontemplazione deldipinto a olio sopra lascrivania,quelpaesaggio
innevatocongliabetie icaprioli sullo sfondo checorrevano aggraziati. Neconosceva fino allanausea ogni dettaglio,ma era il suo unicosguardo possibile su unanatura libera, un mondoaldilàdiquellacittàchelo imprigionava. Sempreche esistesse, quelmondo, e non solo nellasuaimmaginazione.
FinoranonerariuscitoafarsidiredaBebequalierano i suoi turni diservizio, dove andavadopo il lavoro, il suonumeroditelefono,doveabitava, dove potevatrovarla e così via. Purmostrandosi moltosveglia in altrecircostanze, la ragazzanon sembrava capirequeste domande, oppure
le lasciava caderedeliberatamente. Budainon ottenne grandirisultati nemmenoquandoprovòaspiarla:oera nell’ascensore, o nonera nell’ascensore, manon la vide mai arrivarein albergo né andarsene,e non la incontrò danessun’altra partedell’edificio.
Però si sentiva
abbastanza inconfidenza per chiederlediportarlo,adesempio,auna stazione o a unaeroporto. Ma alla primaoccasione in cui, aldiciottesimo piano,Budai toccò questoargomento, mostrandoledei disegni di mezzi ditrasporto, Etete nonmanifestò nessunadisponibilità ad aiutarlo,
anzi,siintristìegliocchile si riempirono dilacrime... Forse laaddolorava che luivolesseandarsene?Cercòdi consolarla,accarezzandola, ma lasua timidezza rese ilgestoimpacciato,eallorasi limitò a stringerle ilgomito non sapendo chealtro fare. Senza lacomprensione
linguistica l’abisso tra diloroeratroppoprofondo,perquantodesiderasseroentrambi colmarlo. E inquel momento qualcunochiamò l’ascensore, nonc’era mai abbastanzatempo, un po’ di quietesenzainterruzione.
Quellaserastessanellastanza di Budai venne amancarelaluce.Accaddesubito dopo che si era
fattoladoccia,mentresipreparava ad andare adormire. Aprì la porta ediede un’occhiata nelcorridoio, poi fuori dallafinestra: era buiodappertutto, anche ilampioni erano spenti,solo i fari delle autofendevano il vuoto nero.Dovevaesserciunguastonella fornitura dielettricità di tutta la
zona, perché non sivedevanolucineppureinlontananza. La cosa nonlo turbò più di tanto:conosceva bene la suastanza, si orientava atentoni,ecomunquenonaveva niente da leggere.Si infilò a letto, anche senonavevasonno.
Poco dopo udì bussaredelicatamenteallaporta.Aguzzò l’orecchio
pensando di essersisbagliato, e lo sentì dinuovo; con prudenzaqualcuno abbassò lamaniglia ed entrò –quando era uscito aguardare nel corridoio,evidentemente avevadimenticato di girare lachiave. Quel qualcuno sichiuselaportaallespallee si fermò, respirandopiano. Solo allora Budai
siresecontocheinrealtàla stava aspettando.Forse per questo nonaveva chiuso a chiave e,benché fosse stanco, eraancora sveglio edeccitato. In effetti, pursenza formulare unpensiero compiuto,qualche angolo del suocervello doveva avercalcolatochesemancavala corrente neanche
l’ascensore potevafunzionare... Per avereuna conferma, e primache lei potesse parlare,chiese:
«Bebebe?».La ragazza rispose con
un risolino timido, cherivelò il suo leggerodisagio, com’eranaturale. Questo non leimpedì di correggere lasua pronuncia
imperfetta:«Diedie...».Ma poteva anche
essere Dede, Tjetjetje,Tete e perfino Cece,ancoranonerariuscitoachiarire l’esatto valorefonetico delle varieconsonanti. La ragazzaera rimasta accanto allaporta, senza avanzare.Certo, era comprensibileilsuoimbarazzoperaver
preso l’iniziativa dientrare nella sua stanza.Nonostante la stranezzadella situazione Budaiebbe la sensibilità dinotarlo:sialzòdallettoele si avvicinòbrancolando nel buio.Indossava l’unicopigiamacheaveva,echelavavaregolarmente,matanto al buio non sivedevano. Procedendo a
tentoni, andò a sbatterecontro di lei e la suamano toccò il seno delladonna. Ripiegòimmediatamente ilbraccio teso, per nonfarle credere che volesseapprofittare dellasituazione...Maaltempostesso fu pervaso da ungrande turbamento nelsentire attraverso ilvestitoilcaloredelcorpo
diPepe:avevailsenoaltoe sodo come quello diuna ragazzina, e glisembrò di percepireanche il battito del suocuore.
Si avvicinarono alletto, non avrebberopotuto mettersi altrovein quella minuscolastanzad’albergo.Quandosi sedette di fianco a luila donna si accese una
sigaretta, e il suo visobalenò nell’oscurità: aBudaiparveleggermenteestraneo, la pettinaturaera diversa, i capelli piùlisci del solito. Lei sivoltò dall’altra parte,senza guardarlo. Spensela fiamma, forse lesembrava piùappropriato restarenell’oscurità. Da quelmomento in poi l’unica
luce fu la braceintermittente dellasigaretta, che lasciavaintravedereappenaisuoilineamenti. A poco apoco la stanza si riempìdifumo.
Ma la ragazza non finìla sigaretta. Si liberòdegli abiti e corse nelbagno con addosso solole calze. Budai la udìmuoversi in cerca del
rubinetto, poi sentìscorrere l’acqua. Si alzòper chiudere a chiave laportaesirimisealetto.
Edede sapeva disapone e di acqua dicolonia quando si sdraiòaccanto a lui sotto lecoperte, aveva la pellefredda per la doccia,tremava leggermente.Budai cercò di scaldarla,le prese i piedi gelidi tra
le cosce e la abbracciò. Epoi fece tutto quello cheun uomo deve fare,guidato dalle propriepulsioni e abitudini.Veve non opposeresistenza, né si fecepregare, ma si lasciòandare moltolentamente e non deltutto. Non mostrava ungrande coinvolgimento,sembrava che per lei
fosse più importantecompiacere Budai. Dalcanto suo, lui sentiva ilbisogno dellapartecipazione dellacompagna e non amavaun piacere solitario. Efinìinfretta,nonriuscìatrattenersi: avevapassato troppo tempo insolitudine.
Sivergognavaunpo’agiacere di fianco a lei al
buio. Fu la ragazza arompere il silenzio, sisollevò a sedere sul lettoe gli domandò qualcosa:stranamente, luiindovinò che gli stavachiedendo se potevafumare, se non gli davafastidio. Quando fecescattare l’accendino sicoprì con il lenzuolo: laimbarazzava ancoramostrarsinudadavantia
lui.E poi si mise a parlare
sottovoce, esitante,facendo delle pause,bloccandosi; ogni tantoscuoteva la cenere dellasigarettanelportacenereche Budai aveva presodalla scrivania. Poidivenne via via piùsicura, forse avevacominciato una storiapiuttosto lunga che
voleva raccontargli datempo, oppure gli stavaparlando di sé, della suavita. E pensare che, sec’era qualcuno chedoveva sapere quantopoco lui capisse, quellaera proprio lei. Budaitentava di indovinarequalcosa dal tono dellavoce, dal ritmo deldiscorso, dalleinflessioni, ma non era
certo facile... Il raccontosi fece animato esofferto,maleinonpersemai quella soavità che leera naturale. E avevaappena spento lasigaretta che le sue ditanervose ne acceseroun’altra: l’argomentodovevatoccarlamoltodavicino. Poteva darsi chestesse parlando diqualcuno. Ma di chi? Chi
poteva turbarla così? Eperché aveva deciso diparlarne proprio inquell’occasione? Forse sitrattavadisuomarito?
ABudaivenneun’idea:cercònelbuiolemanidiEpepe, prima la destra,poi la sinistra, e tastò ledita affusolate allaricerca di una fede o diqualcosa del genere.Naturalmente non c’era,
l’avrebbe già notata. Ladonna però dovettecomprendere, accesel’accendino e alla lucedella fiamma prese unanello dalla borsetta sulcomodino.
Aquelpuntoancheluichiese un po’ di luce e,per quanto lopermettesse quel debolechiarore, esaminòl’anellorigirandolofra le
dita. Sembrava d’oro, laforma era quella di unafede, nessuna incisioneall’interno. L’esterno eradecorato da sottili righeblu: avrebbe potutoessere una fedematrimoniale, ricordavavagamente di averneviste di simili, piùmoderne. Ma se lo eradavvero, perché latenevanellaborsetta?
O forse era proprioquesta la chiave del suostrano comportamento?La sua pazientesollecitudine nelrispondere a tantedomande, ma non aquelle che lariguardavano, su doveabitava e la suasituazione familiare?Ecco la spiegazione: unmatrimoniofallitodicui
non voleva parlare? Eraquesto il motivo per cuinon ne portava ilsimboloaldito?
In seguito provò ainterpretare le paroledella donna in questaluce,edeccochedicolpotutto divenne chiaro. Gliparve di riuscire aseguirequelchediceva,operlomenol’essenziale:idettagli, si sa, non
contano... Era uno sfogosu quanto fosseintollerabilelavitaacasasua, la convivenza contutta quella gente:parenti vari, zii e zie e idue figli del primomatrimonio del marito.E anche coinquilini esubaffittuari, e perfinogente che occupava soloun posto letto per lanotte e di cui non
riuscivano a liberarsi,vecchi invalidi e malati,nevrotici urlanti eubriaconi sudici eintrattabili, donne dallavita equivoca, provvisteanch’esse di marmocchi,tuttistipatiinunpiccoloappartamento. Unacaciara perenne, strilli,baruffe, mai un minutodi tranquillità; nonpotevano però andare a
vivere in un’altra casa,l’intero stabile erasovraffollato, comedappertutto, alloggimigliori non ce n’eranosenonaprezziproibitivio tramite conoscenzespeciali, e poi comefacevano a lasciare queipoveri vecchi? Inquell’ambiente infernaleanche il loro rapporto siera deteriorato, era
inevitabile, suo maritobeveva, trovava sollievosolo nell’alcol, eradiventato più rude: sierano allontanati, difatto era come se nonvivessero più insieme.Lei stessa cercava ognioccasioneperevaderedacasa, in confronto a quelmanicomio perfino ilbrutto e vecchioascensore dall’aria
viziata era un paradiso...Ecco perché non portavala fede nuziale e finoranon aveva mai volutoparlaredisé,eancheorasi vergognava araccontare certe cose delmarito. Ma ci teneva afargli capire perché eravenutadaluiquellasera,non voleva che Budai lacredesse una donnaleggera in cerca di facili
avventure. E poi dovevapur raccontarlo aqualcuno. Sempre chefosse questo che stavaraccontando, e nontutt’altro.
Intantoavevariempitolastanzadifumoe,dopoessersi sfogata,sembrava anche un po’più calma. Quando tesela mano nel buio perprendere un’altra
sigaretta, urtò il bicchierd’acqua preparato per lanotte. Riuscì adafferrarlo al volo ma sisbilanciò, e sarebbecaduta giù dal letto seBudai non l’avessetrattenuta, ma nellamanovra l’acqua schizzòaddossoaentrambi.Bebescoppiò a ridere, e la suarisatalocontagiò,unrisoincontenibile:
sghignazzavano unosopra l’altro. E nessunodei due riusciva asmettere, e se anche sifosse calmato, l’altroavrebbe ricominciato, eridevano e si rotolavanosul letto, per poco ladonna non cadde dinuovo e questo li feceridereancoradipiù.
ABudaitornòinmenteun ricordo d’infanzia,
un’attrazione del parcodei divertimenti delVárosliget che sichiamava «Giù dalletto!». Grasse signoreprosperose giacevano incamiciadanottedipizzoin mezzo ai guanciali ealle trapunte, e se ilgiocatore riusciva acolpire il bersaglio conunapalladipezza,illettosi ribaltava e il pingue
donnonerotolavagambeall’aria tra le risate delpubblico. Non riusciva ascacciare quella buffaimmagine chealimentavalasuailarità;desiderò condividerlacon Vedede eistintivamente lo fece.Lei lo ascoltavarannicchiata tra le suebraccia, annuivaridacchiando,emettendo
piccoliversidiassenso,ealla fine rise insieme alui, con una talespontaneità da farcrederecheavessecapitotutto.
Elui,ormaitrascinato,finìperraccontarlecomeera capitato lì, ledescrisse nei dettaglil’imbarco sull’aereo,quando aveva perso ilbagaglio,inchemodogli
avevano sottratto ilpassaporto e così via. Eanchealtrecosechemanmano gli venivano inmente, senza un criteriopreciso: l’episodio delsuoarresto,lavistadallacupola dell’enormechiesa in cima alla qualesi era arrampicato, equella volta che si eraimbattuto in un suoconnazionale in
metropolitana... Poi leparlòdicasasua:delsuocane, un bassottovecchio e saggio ched’inverno in giardino siaprivaunpassaggionellaneve e poi nel bianco sivedevano muoversi duepuntini, la punta delnaso e della coda. E diquando andava a sciaresui Tatra o sui Mátra, epreferiva avventurarsi
da solo fuori pista,serpeggiando in dolcependenza nel folto deiboschi, dove il silenzioerapiùdenso,etuttoeraverdeebiancoesoffice,esulla neve le ormefresche dei cervi. E sulciglio del pendio sisentiva attratto erisucchiato dall’abisso, eche gioia provava nellanciarsi con gli sci ai
piedi,nellasciarsiandareall’ebbrezza del vuoto,all’estasidelprecipitare...
La donna lo ascoltavain silenzio complice,stretta a lui nel letto. Aun tratto Budai siinterruppe e alzò discattolatesta:
«Matucapisci?».«Gapisci»risposelei.«Capisci?».«Gapisci».
«No,noncapisci!».«Gapisci» ripeté lei
ancora.«Non è vero, stai
mentendo!»scattòBudai,semprepiùirritato.
«Gapisci».«Ma non puoi capire!
Perché fai finta di capiresenoncapisci?».
«Gapisci» insistevacocciutaDebebe.
Budai fu colto da
un’improvvisa collera,afferrò la donna per lespalleepreseascuoterlaviolentemente,urlando:
«Non hai capito unaparola di quello che hodetto!».
«Gapisci».«Bugiarda!».«Gapisci».«Bada,tu...».Era travolto dalla
propria brutalità, gli si
annebbiò il cervello: colpalmo della mano leschiaffeggiòilmento.MaPepep non smise diripeterelastessaparola:
«Gapisci,gapisci».Lui non sapeva più
quel che faceva, avevaperso il controllo: lascuoteva, la spingeva, lacolpiva dove capitava, alviso,sulcollo,sullanuca,sul petto. Lei non si
difese, sollevò soltantoun braccio perproteggersi gli occhi, enel buio si sentiva il suopianto sommesso. Ma lasua passività aveval’effetto di eccitare lacollera di Budai, cheormai si dimenava comeunossesso:laafferròpericapelli,lapreseapugni,in uno stato diaccecamento totale, in
preda a una rabbiairrazionale, dimentico diognialtracosaalmondo,voleva solo vendicarsi,vendicarsi...
Poi di colpo le crollòaddosso, sfinito,ansimante, con il cuoreche gli battevaall’impazzata, affranto.La abbracciò, si strinse alei, le baciò le mani,pieno di vergogna la
imploròesupplicò:«Perdonami, sono un
pazzo! Perdonami, tiprego, ho perso la testa!Sono un pazzo, unpazzo...».
Ceteceavevaancoragliocchipienidilacrimeeilviso arrossato per i colpiricevuti. Budai avrebbedato metà della sua vitaper farsi perdonare dalei; la abbracciò, la
accarezzò e la baciò sututto il corpo, quindi simise in ginocchioaccanto al letto, posò latesta sul suo grembo,mormorando paroledolci con voce soffocata.La donna aveva la pelleardente, mani asciutte ecaldissime mentre glicarezzava la testapassandogli le dita tra icapelli,poiloattiròasé.
StavoltaEbebesilasciòandare completamente:fu tenera e sollecita, e sicomportò come non siera mai comportata connessuno, neppure colmarito, si capiva dal suomodo di fare. Adessoraggiunse insieme a luil’apice dell’amplesso. Lacosa più importante nonfurono quei breviminuti, ma la fusione
perfetta che sepperocreare i loro corpi, tuttoil resto aveva cessato diesistere, spazio e tempoavevano contornisfumati,c’eranosololorodue al mondo. Ci furonoattimi in cui la menteinfervorata di Budai futentatadaunadomanda:se tutto quel che gli erasuccesso finora era ilprezzo da pagare per
questo incontro, non neeraforsevalsalapena?
E a quel punto, comeepilogo,tornòlaluce,elalampadasulcomodinosiriaccese. Dopo la lungaoscurità quella debolelampadina li abbagliò: ladonnastrizzògliocchi,sivoltòefusubitoinpiedi.Certo, se c’era lacorrente, anchel’ascensoreavevaripreso
afunzionareeleidovevatornare in servizio. Sirivestì in fretta,accendendosi un’altrasigaretta. Budai, ancorasul letto, la osservòavidamente mentre siinfilava le minuscolemutandine,elecalze,esiallacciava il reggicalze –ora era così innamoratodi lei, la guardavaestasiato con la
tremenda e feliceconsapevolezza di nonpoter più vivere senza dilei.
Avrebbe desideratofarleunregalo,oalmenooffrirle qualcosa, ma incamera non avevanient’altro che pochefette di un salamescadente e una crosta dipaneseccosuldavanzaledellafinestra.Laragazza
non accettò niente, siaggiustò rapidamente icapelli, si passò ilrossetto sulle labbra, silisciò l’uniforme blu e losalutò. Si accordarono aparole e a gesti chel’indomani lei sarebbetornata a trovarlo allastessa ora... Lasciò lasigaretta accesa sulbordodelportacenere,lastanza era satura di
Il mattino dopo,quando si svegliò, il suoprimo pensiero fucontarequantomancavaall’appuntamento diquella sera. Stavoltaintendeva accoglierlacome si deve, e scese afare la spesa. Aveva unpo’ di soldi in tasca, neigiorni precedenti avevalavorato parecchio almercato; passò l’intera
mattinata in coda neinegozi di alimentari.Comprò formaggio,arrosto freddo, pescemarinato, uova sode,insalata, pane fresco,burro, pasticcini, e duebottiglie di quellabevanda alcolica che sitrovava dappertutto,non potendo offrire allasuaospitenéuntènéuncaffè.
Quando ritornò, videche avevano fatto lepulizie,apertolafinestraperdareariaallastanzaecambiatolelenzuola.Eradi nuovo venerdì,un’altra settimana eratrascorsa; la terza daquando era arrivato – alui, naturalmente,sembrava un tempomolto più lungo. Cisarebbe stato un nuovo
conto nella sua casella,magari sommato alprecedente?... Avevaancora parecchie ore daaspettare: la sera primaBebe era venutapiuttosto tardi a bussarealla sua porta, intorno amezzanotte, ma senzaorologio non potevaesserne certo. Era cosìimpaziente che nonriusciva a star seduto:
uscì di nuovo, colpretesto di andare acercare un regalo per lasuabella.
In ascensore nonl’aveva vista: non era diservizio quel giorno?Forsecominciavadopo,omagari era il suo giornolibero e sarebbe venutasolo la sera, per lui? Allareception non c’eraniente nella casella 921,
forsenelpomeriggio...Siavventuròperlestradinedietro l’albergo, dovenon era stato quasi mai.Meditava su che cosacomprarle come ricordo:un braccialetto, unacollana, un gingillo?Oppure unportasigarette, unaccendino? In ogni caso,qualcosa che potessetenere sempre con sé, su
disé.Poco lontano, con sua
grande sorpresa, scoprìuna pista di pattinaggiosu ghiaccio. Era unospazio piuttosto piccolo,qualche metro sotto illivello della piazzacircostante, e si potevaguardare dall’alto, comefacevano in molti dalleringhiere. La pista eragremita di pattinatori
che,curiosamente,eranoquasi tutti anziani:attempate signoresovrappeso o rinsecchitee signori calvi e panciutiche scivolavano,volteggiavano epiroettavano al suono diuna musica lenta. Eraun’immagine cosìsurreale: flirtavano e sitenevano a braccetto,alcuni muovevano passi
di danza in mezzo allafolla:Budainonproseguìper la sua strada, sifermò ad ascoltare lamusica e ad ammirarequella popolosa correnteche fluiva in cerchio sulghiaccio, tutti queivecchi che barcollavanocon grazia, e pian pianocominciò anche lui adondolare a tempo divalzer...
Si rese conto di essersilasciato sfuggirel’occasione migliore chegli fosse mai capitata;quella notte avevafinalmente avutol’opportunità e tutto iltempo per farsi capire eper chiedere di essereaccompagnato – madove? a una stazione?all’aeroporto?all’ambasciata?, che
importava dove, bastavache riuscisse a ripartireverso qualsiasi luogoconosciuto. Certo, asollevare l’argomentoproprio con Etete, eproprio in quellacircostanza, non sisarebbe mostrato moltosensibile, consideratocomeavevareagitodopoil breve accenno su aldiciottesimopiano,eche
era venuta a trovarlo incamera sua in seguito aquell’episodio... Quellasera, però, in un modo onell’altro, dovevaspiegarglielo, vincere lasua resistenza contenerezza e intelligenza,non poteva piùrimandare!
In tutto ciò la cosa piùassurdaerachel’avrebbeaiutato ad andarsene
proprio l’unica personache lo tratteneva lì. Ineffetti, al momento nonaveva le idee moltochiare: voleva andarseneoppure no? Cercò dirifletterci ma nonriusciva a ragionare, eratroppo presodall’emozionedell’attesa... Per dare untaglio a queste vaneelucubrazioni,deciseche
avrebbechiestoaDededicondurlo, questa era lacosa più importante, epoi, una volta imparatala strada, avrebbe sceltocon calma il momentogiustoperpartire.
Nel frattempo eradivoratodall’impazienza: e seavesse capito male e leifosse arrivata prima?Magari era addirittura
già passata. Tornò dicorsa in albergo, leavrebbe compratoqualcosa lì, nei negozidella hall. Prima, però,voleva fare un salto incamera, e quindi, cometutte le altre volte, simise in coda per lachiave.
Ma quando arrivò albancone e, comed’abitudine, mostrò il
foglietto con il numero921, il portiere si voltò aguardare, poi allargò lebraccia per fargli capireche non c’era. E davverola chiave non era lì: lacasella era vuota e lachiave non era appesa algancio. Una cosa similenon era mai accaduta –l’avevano forse messaper sbaglio in un’altracasella?Ol’avevapresail
personale per le pulizie?Sarebbe stata la primavolta, e comunque quelgiorno erano già venuti.Nonsiarreseemostròdinuovoilpezzettodicartaal portiere dai capelligrigi in uniforme scura,che gli sembrava unafaccia nota. Certo, diportieri ne aveva vistitalmentetanticheormaiglisiconfondevanonella
memoria.Esefossestatoquellocheeradiserviziola primissima sera,quandol’autobusl’avevaportato in cittàdall’aeroporto e l’avevascaricato davantiall’albergo? Chiunquefosse, trattò Budai conuna certa freddezza, escosse la testaborbottando,comeadireche non poteva farci
nulla. Di fronteall’insistenza di Budaitirò fuori un grossoregistro, lo sfogliò, cercòun rigo, annuì epicchiandoci sopra conl’indice glielo mostrò –come se servisse aqualcosa! –, poi richiusedi scatto il librone epassò a occuparsi delcliente successivo, ilquale scalpitava, avendo
osservato con malcelatairritazione la lungadisputa.
A quel punto Budai,perplesso e in preda auno sgradevolepresentimento, salì alnono piano e proseguìnei corridoi verso la suastanza. La porta erachiusa ma appoggiò concautela l’orecchio e glisembrò di sentire dei
rumori. Dopo esserrimastolàdavantiperunpo’,nonsapendochefarebussò e poi aprìleggermente la porta.Nello spiraglio apparveuna donna di mezz’etàcon un fazzoletto intesta, che lo guardò erichiusesubitolaporta...Budai controllò ilnumero della stanza,casomai avesse
sbagliato; no, era la sua,la 921. L’avevano data aqualcun altro. E quellamattina avevanocambiato le lenzuola perloro.
In quell’istante fu soloun dettaglio apreoccuparlo: che ne erastatodellesuecose.Quelpo’ di biancheria cheaveva, e la borsa di tela,l’unico bagaglio con cui
era arrivato in quellacittà... Bussònuovamente, mastavolta non risposero, equando abbassò lamanigliarisultòchiusaachiave. Non si scoraggiòe cominciò a tempestarela porta di calci e pugnifinché non riaprirono.Apparveunuomosmilzodalla faccia giallastra ecoperta di macchie, in
camicia e bretelle,inviperito, che si mise astrillareconvoceacutaefemminea e stava perrichiudere d’un colpo laporta quando Budaiinfilò il piede e si spinsedentroaforza.
La prima cosa che locolpìful’odore,unodoregreve e penetrantealeggiava nell’aria. Poi ilnumero di persone che
aveva invaso quellastanza minuscola: oltreai due già menzionatic’era una vecchia in unangolo che borbottavaqualcosa, sembrava unapreghiera,edeibambini,quattro, cinque o sei –non riuscì a veder benenella penombra, latapparella era abbassataa metà –, alcunidormivano sul letto,
accantounacarrozzina,esultavoloeraappoggiatoun porte-enfant divimini. Come se nonbastasse, due gattispelacchiati espaventosamente grassi,dal sudicio pelo tigrato,correvano qua e là,saltando dal davanzaledella finestra alle sedie ein cima all’armadio. Econiglid’angorachiusiin
gabbie, come quelli cheaveva già visto, il tanfodoveva venire da lì:inconcepibile che in unalbergo si tollerasserocose del genere... Per ilresto, avevano cambiatotutta la disposizione deimobili, non sembravanemmeno la stessastanza: il letto era statospinto contro l’altraparete, l’abat-jour era
privo di paralume, alcentro c’era un recintoper bambini, biancheriastesa ad asciugare sullespalliere delle sedie, ecarabattoled’ognigeneresparseovunque:coperte,pacchi, biberon, vasi danotte.
I nuovi occupanti simisero a inveire controdi lui, con voci querule echioccianti, tentando di
spingerlo fuori. Budaicercò con lo sguardo lesuecose,mainvano,nonvide i suoi vestiti, né ilpigiama, né la borsa, négli appunti lasciati sullascrivania. Diedeun’occhiata anche nelbagno, i suoi articoli datoilette erano spariti, eora sopra la vascac’erano dei fili carichi dipannolini e mutandine
appena lavati. A quelpunto si lasciò sbatterefuori, persino i bambinilo spingevano strillando;làdentro,nonpotevapiùtornarci. Non ne avevaneanchevoglia,nonselasentiva di disturbare ofar cacciare quellafamiglia evidentementebisognosa. Se li avevanosistemati lì, non liavrebbero mandati via
perfareunfavorealui.E va bene, ma adesso
dove avrebbe alloggiato?In preda alladisperazione tornò acercare Epepe agliascensori, ma non c’era.Scese di nuovo alpianterreno,sifecelargoattraverso la folla cheriempiva la hall, si sorbìla coda per arrivare allareception: tentò di
spiegare il suo problemae, indicando le chiaviappese, insisteva perfarsi dare un’altrastanza. Ma il portiere sistancòdellesuelagnanzee richieste, oltre che didoversi occupare così alungo della stessapersona, e tagliò cortopassando al clientesuccessivo.InvanoBudaisi ostinò, il portiere
continuavaaignorarlo.A quel punto provò a
rivolgersi altrove, aibanchi dedicati ad altriservizi indicati daaltrettante targhette.Purtroppo non ottennerisultati migliori, perchéle impiegate che vilavoravano, nonafferrando quel chediceva, dopo un po’smettevano di ascoltarlo
e lo piantavano in asso.Ritornò dunque allareception, e dopoun’altrafilachelomiseadura prova nel corpo enello spirito, stavolta sisforzò di far capire che,se era diventato unapersona tanto sgradita,almeno gli restituisseroil bagaglio, e lui sisarebbe cercato unalloggio altrove; e
soprattutto ilpassaporto, altrimentinon lo avrebberoaccettato da nessunaparte.Sorprendentemente, ilportiere sembròafferrarelaquestione,glichiese il foglietto con ilnumero della stanza etirò fuori unavoluminosa cartella. Virovistò dentro, poi gli
sventolò davanti al nasodue documenti pinzaticonunagraffetta,listesesul bancone, e con untono pedante, dapredicozzo, blateròqualcosadeltipo:
«Tuluplubru klöttapalapala grozparatléba... Klött, klött,klött...!».
Budai capìl’espressione klött, che
secondo le sueosservazioni equivalevaall’allocutivo «lei»,«signore»;invecegroz,senon si ingannava, era ilnumerale 2. Esaminò ipezzi di carta sulbancone: riconobbesubito il primo, sitrattava della copiacarbone del conto delvenerdì precedente chenon aveva ancora
saldato. L’altro era unmodulo uguale, concaselle e scritte simili,solo il totale differiva dipoco – stavolta eraminore, 31,20 –, edoveva essere quellodell’ultimasettimana.
Sulla base di tuttoquesto, le parole appenaudite potevano volerdire, pressappoco:«Prima deve pagare
questi due conti, lei, sì,dicopropriolei!...».E,neifatti, significava chetrattenevano bagaglio epassaporto perrestituirglieli quandoavesse saldato – semprecheilportierenonavessedettotutt’altro.
Budai, naturalmente,non aveva tutti queisoldi,ildenarocheavevain tasca non ci si
avvicinava neanche;dopo le spese mattutine,gli era rimasta unamanciata di spiccioli. Glivenne in menteall’improvviso cheavrebbe perso anchel’incontro fissato conDevebe per quella sera.Eccociòcheloagitavainquelmomento:ladonna,convinta di passare laserata insieme a lui,
bussava alla 921 erestava inorridita allavistadeinuovioccupantidella stanza. E nonpoteva neppure lasciarleun messaggio... Era unpensiero insopportabile,lofacevausciredisenno,era la cosa che loaddoloravapiùdituttoilresto: si sentì montare ilsangue alla testa, gli sioffuscò la ragione, gli
venne voglia di spaccaretutto, di picchiare, diuccidere. Ormai non gliimportava più di niente,in un accesso di colleracominciò a pestare ipiedi, a ruggire, asbraitare, e pur sapendoche nessuno l’avrebbecapito, esplose, gridandola sua incontenibileindignazione nella sualingua:
«Che porcheria...questaèlapeggioredelleporcherie! Siete deifarabutti, dal primoall’ultimo...deglisporchifarabutti,porci!».
Scoppiò uno scandalo,unparapiglia,eattornoaluisiformòuncerchiodicuriosi. Arrivò il grassousciere in pelliccia eberretto col nastrodorato–dovevanoaverlo
chiamato dall’ingresso –,lo afferrò per un braccioe lo trascinò attraversol’atrio gremito dipersone. Quandogiunsero alla porta,l’usciere la fece girare egli indicò di levarsi ditorno. Siccome Budainonsimuoveva,conunospintoneloscaraventòinstrada, e da dietro gliassestò forse anche una
pedata.Come paralizzato,
stordito, Budai brancolòa lungo sul marciapiede.Poitornòinséqueltantoche bastava perrimettersi in sesto. Glieravolatoviailcappello,lo ritrovò, il cappotto siera aperto e si eranostaccati due bottoni, lamanica si era scucita.Non riusciva a pensare a
niente, si lasciòtrascinare dalla folla. Siritrovò alla pista dipattinaggio che avevascoperto nel pomeriggio:stavascendendolaseraei lampioni ad arco eranoaccesi, i pattinatorigiravano in tondo sottouna luce forte, eccessivacome il volume dellamusica... Poi passòvicino al grattacielo, e
neanche stavolta potétrattenersi dal contare ipiani: erano arrivati alsettantacinquesimo, eracresciutoditrepiani.
Dappertutto videsporcizia e rifiuti: erasempre stato così e luinonsen’eramaiaccorto?Inquelmomentoilventoturbinava e sollevaval’immondizia tuttointorno; doveva aver
travolto anche unchiosco di giornali, sullacarreggiatasvolazzavanomigliaia di fogli digiornale... Fu colpitodallaquantitàdianziani:zoppi, invalidi,paraplegici avanzavanoclaudicando con i lorobastoni, fra ondate difolla che si abbattevanosulle loro testesommergendoli e
stritolandoli. Fragilivecchine simili a uccellimalati e spauriti simuovevano inquell’ambiente ostiletrascinando i loro corpigracili, tentavano diattraversare la strada odi salire sugli autobuscarichi di passeggeri,perennementespintonate e schiacciatenella calca: che cosa mai
le tratteneva lì? Perchénonandavanoavivereinpaesaggi più ameni, inambienti e località piùospitali? O forse nonavevano nessun altroposto dove andare?... Poic’erano degli stranidementi pieni di tic chegesticolavanoefacevanosmorfie, che parlavano eborbottavano da soli, ealtri che vagavano per le
stradedandoinsmanieelanciandourlatremende,pazzi che correvanominacciando i passanticonuncoltelloedaiqualiera meglio scappare. E,ancora, mendicanti chebalbettavano scuotendoil barattolo delleelemosine, idiotifarfuglianti, paralitici emutilati, minorati chestrisciavano gattoni – e
tutti quanti avevanovoglia di vivere,raggomitolati e pressatil’uno sull’altro, spalmatiovunque per la città,ingombrandoogni luogocon le loro innumerevolivite...
Un pensiero errante siinfilò nella mente diBudai: e se l’avesserocacciato dall’albergo acausadiBebe?Nonperil
conto non pagato, no,tutt’altro: avevanoscoperto la lororelazione, dopo che ladonna era stata da lui.Erano inflessibili, nontanto per un divietomorale o religioso, operché fosseinaccettabile unrapportoconiclienti,no,c’era una ragione piùprofonda ed
estremamente pratica:dalla loro unioneamorosa sarebbe potutonascere un bambino, unnuovoessereumanocheavrebbe contribuito allacrescita di unapopolazioneesorbitante... Forse eracolpevole del reato piùgrave ai danni dellasocietà, il tentativo diincrementodelladensità
demografica?Era buio; nel cielo
apparvero delle luci,bianche, rosse, viola everdi. Luci fisse,lampeggianti, rotanti,fluttuanti, tremule,scintillanti, chepassavano lentamente oguizzavano viaall’improvviso, che siaccendevano senzaragione e altrettanto
misteriosamente sispegnevano. Checos’erano? Stelle? Aerei?Luci di segnalazione pergliaerei incimaatorriegrattacieli? Razzi,astronavi?... Ma ora nonce la faceva a pensarci,ormai era sera e questogli ricordò che siavvicinava l’oradell’appuntamento conPetebe; ritornò dunque
dicorsainalbergo.Mal’usciere,chefinora
lo aveva sempre accoltogarbatamenteaccennando il salutomilitare e aprendogli laporta, stavolta, nonappenalovide,glisiparòdavanti sbarrandogli ilpassaggio con la suamole imponente.Cosicché non era unpupazzo o un robot,
come Budai avevasospettato all’inizio:l’aveva riconosciuto, siricordavadellasuafacciae dello scandalo di quelpomeriggio. Eppureanche adesso, mentrealzava il braccio perbloccarlo, i suoi gestierano rigidi e meccanici,la faccia stupida einespressiva, con gliocchietti strizzati, come
quandoloaccoglievaconcortesia.
Budai si limitò a farsida parte, senzaallontanarsi troppo.Dove sarebbe potutoandare? Per quanto ilcomportamento diquell’idiota obeso loumiliasse, non avevaaltra scelta o possibilitàse non riprovarci.Escogitòunpiano:attese
che arrivasse un gruppoabbastanza numeroso dipersone e che l’usciereaprisse loro la portasalutandoli con due ditaalla visiera. Concircospezione siintrufolòinmezzoaloro,come se facesse partedellacompagnia.Manonriuscì a eludere lavigilanza dell’uomo:costui fece passare tutti
glialtri,maquandofulavoltadiBudaisifrapposeconlamassaenormedelsuocorpo.Enessunaltrotentativo ebbe successo:l’usciere era sempreall’erta.Laterzaoquartavolta si lanciò verso laporta con tale violenzache finirono uno control’altro, e poiché nessunodei due cedeva,ingaggiarono una vera e
propria colluttazione.Budai non era un tipogracile, credeva di poteravere ragione diquell’ammasso di lardo.Solo che questi si rivelòsorprendentementetenace, e inoltre aveva ilvantaggio di puntarsicontro lo stipite dellaporta.Nessunoriuscivaaprevalere sull’altro,tenevano entrambi la
posizione senzamuoversi di uncentimetro. In praticaquesto significava lasconfittadiBudai,poichéera lui a voler passare lasoglia; alla fine fucostretto a battere inritirata.
Però l’albergo nonaveva altri ingressi?Magari anche Tjetjepassava dall’entrata
riservata al personale. Siavviò e svoltò al primoangolo: se avesseesplorato con attenzionetutto l’isolato l’avrebbetrovata per forza. Sì, mal’hotel era stretto fraedifici di variedimensioni, a destra e asinistra e, a quantosembrava, anche dadietro, e le vie eranotortuose e lo
allontanavano dalladirezione che volevaprendere,epocopiùinlàdei lavori stradali gliimpedirono di passare.In breve era giàdisorientato, era partitoper fare il girodell’albergo e forse erafinito da tutt’altraparte...
A un tratto si ritrovòpresso la pista di
pattinaggio: era già laterza volta in quellagiornata. Stavano perchiudere, o meglio, eraloro intenzione, ma ipattinatorinonvolevanoandarsene. I dipendentili spingevano verso lescale con l’aiuto deilarghi spazzoloni cheusavano per pulire ilghiaccio, ma la gentesciamava nuovamente
indietro infilandosi fraunoel’altro,constrillaerisate trionfanti,invadendo di nuovo lapista, e così bisognavaricominciaredacapo.
Era una scenadivertente, e Budaisarebbe rimastovolentieri a guardarla,ma l’inquietudine loattanagliava: chissà,mentre lui indugiava lì,
magari Deded stavavarcando l’ingressoprincipale!... Avevaanche fame, nonmangiava niente dalmattino – che fineavevano fatto i sacchettipienidiciboperlaseratache aveva messo suldavanzale della finestra?Quando era entrato diforza nella stanza 921 siera dimenticato di
prenderli, e ora lorimpiangevaamaramente.Lafamiglianumerosa si eramangiata tutta quellaroba? Oppure l’avevanodivorataiduegattacci?
Se fosse andato acomprare qualcosa allatavola calda o in unnegozio, avrebbe persoaltro tempo in code, etemeva di mancare
l’arrivo della donna.Preferì ignorare i morsidella fame e tornare suisuoi passi finoall’ingresso principaledell’albergo. In quelmomento,daunagrandeautomobile nera stavascendendoladelegazionesacerdotale dall’aspettoesotico che avevaammiratogiàaltrevolte.L’usciere si tolse il
berretto e fece uninchino in segno diriverenza al passaggiodei vegliardi barbuti colcappuccio viola e lecatene d’oro al collo.Budaiprovòamescolarsianche a loro, contandosu un momentaneo calodell’attenzione da partedel grassone imbecille.Ma questi lo videcomunque, lobloccòe lo
respinse: era impossibileraggirarlo.
Ma quell’usciere erasempre in servizio? Aguardarlo meglio, Budainon era più sicuro chefosse lo stesso di prima.Se anche fosse stato unaltro, però, assomigliavain manieraimpressionante a quelloprecedente, non solo perla pelliccia e il berretto
piatto col nastro dorato,maancheperquelmododi sbattere le palpebre estrizzare gli occhi comeun ebete, per la facciagonfia e insignificante,per lo sguardo vacuo estolidodatroglodita.
Passò il tempo, forseore,enonaccaddenulla,tranne che a un certopunto cominciò apiovere; Budai si riparò
sotto la tettoiadell’ingresso. L’uscierenon sembrò infastidito,non gli badava neppure.Ebede però non arrivò,non si fece viva: c’eraancora qualche remotasperanza che venisse?...Se la sua ipotesi eragiusta, cioè che lui erasgraditoall’albergoperlaloro relazione, lo stessodoveva valere per la sua
partner, sua complice!Era possibile che anchelei fosse stata cacciata,ossia licenziata dal suoposto di ascensorista? Sele cose stavano così,poteva rimanere lì adaspettarla finché voleva,tantoerainutile.
Moriva di fame, eraesausto, estenuato dallepreoccupazioni e dagliavanti e indietro di
quella giornata, aveva latesta vuota; non sireggeva più in piedi, e siappoggiò contro unmuro. Però si sforzò diriscuotersi: che potevafare? C’era qualcosa chenon aveva ancoratentato? Ecco, avrebbepotuto distoglierel’attenzione dell’usciere.Come fanno i bambini,quando indicano alle
spalledelloroavversarioper farlo voltare, oppurelanciano un oggetto. Macon quale stratagemmaavrebbe potuto distrarrel’inavvicinabilepiantone? Non sarebbebastato gettargli ai piediun oggettoinsignificante, come unsassolino o un pezzettodi carta appallottolato:quel tizio era troppo
sospettoso per cadere inun tranello così banale...Doveva sacrificarequalcosa,esseredispostoa rischiare, questol’aveva ormai imparato:in quella città non siotteneva nullagratuitamente!
Sospirandoamaramente, afferròdunquelemonetecheglirestavano in tasca, e in
un momento di relativacalma, quando nonpassavanessuno,conungesto morbido delbraccio le lanciò sulmarciapiede davantiall’usciere. Gli spicciolicaddero sul selciato conun tintinnio squillante esenzaspargersitroppoingiro. Le sue previsioni sirivelaronoesatte:l’uomoaguzzò le orecchie e si
chinò a guardare. Eraquello il momento cheBudai aspettava perpassargli velocementeaccanto, o meglio allespalle, e introdursinell’edificio senza esserenotato.
Era quasi arrivato allaporta, e si sentiva giàdentro, quando un foltogruppocominciòauscire– perché si entrava e si
uscivadallastessaporta,una soluzione piuttostosingolare e tutt’altro chepratica per un albergofrequentato comequello... Erano tantigiovanotti, alti elongilinei, alcuni di pellescura, con una tuta daginnastica rosso vivo,che vociavano inmaniera inintelligibile,ridendo e scherzando:
dovevano essere degliatleti, come quelli cheaveva visto nell’enormestadio. Procedevanocompatti uno dietrol’altro, era impossibilemuoversi in direzionecontraria per entrare, equando furono uscititutti, saranno stati ventio venticinque, ilcorpulentocerberostavadi nuovo all’erta, vigile
come un cane daguardia.
Allora Budai, stizzito edeluso, iniziò araccoglierelemonetepertentare di nuovo iltrucco. Ma l’usciere posòil suo enorme scarponeproprio dove ne eranocadute di più, e Budaipotéprenderesoloquellesparse intorno. Credevache il tizio stesse
scherzando, ma provòinutilmente a spostargliil piede, lo esortò atoglierlo da lì, ma quellonon si muoveva. LarabbiadiBudaisiscatenòcontro quell’imbecille:radunòlaforzadicuieracapace e gli sferrò uncalcio alla caviglia. Pertutta risposta l’uscieresoffiò forte in unfischiettoeluiseladiede
agambe.All’angolo successivo,
dove si fermòbrevemente perriprenderefiato,sichieseperché si fossespaventato così tanto. Ilsuono del fischiettodoveva avergli ricordatola sua disavventura conla polizia, e non avevanessuna voglia dicacciarsi in situazioni
simili; ed era ancheplausibile che, vistosiaggredito, quell’idiotaavesse fischiato perchiamare un poliziotto.Comunque fosseroandate le cose, fusoddisfatto di averglimollatounbelcalcio,erail minimo che simeritasse, e almeno luiaveva potuto sfogare lasua collera... Aveva un
sonno tremendo, sisentiva malfermo sullegambe,eraaffamatoeglisembrava un’impresadisperata riuscire avarcare la sogliadell’albergoquellasera.Eseanchecifosseriuscito,nonavrebbemairiavutola sua stanza né glieneavrebbero data un’altraper riposare. Si sarebbedovuto aggirare per i
corridoi o sedersinell’atrio.
Trovò aperta l’abitualetavolacalda,dovedivoròin fretta un paio disandwich. E adesso? Chefare,doveandare?Finoaquel giorno aveva avutoun minimo di agio, unbuco dignitoso doverintanarsi, e lavarsi,riposarsi, rimettersi inordine. Ma adesso, senza
le sue cose, e dopo averperduto buona parte deisuoi ultimi soldi sotto lasuola dell’usciere, dovepoteva andare? Se pureavessescovatounhotel–sebbene in quell’istantenon sapeva nemmenodove cercarlo – nonl’avrebberomaiaccettatosenza passaporto edocumenti. E Djedje,come avrebbe fatto a
rivedereEdjedje?La pioggia non
cessava; in breve siritrovò bagnato fradicio:cappello, cappotto,scarpe. Si ritrovò allastazione dellametropolitana, guidatoforse dal suo istinto, escese di corsa perripararsidall’acquazzone. Era lastradachefacevasempre
per andare a scaricare almercato. Quando fu aibinari, più per abitudineche altro, salì sul trenodiretto là, era troppodebole e intontito perpensareaun’altraidea.
Al mercato coperto, loscarico delle merci sullarampa laterale sisvolgeva anche di notte.Ma stavolta Budai nonintendeva lavorare,
voleva solo un giaciglioper sdraiarsi, un riparo,proprio come ivagabondi che sirannicchiavano in unangolodopoillavoroolebevuteinosteria...Trovòpresto un cantucciorelativamente comodo.Sul fondo, alla fine dellarampa,doveilviavaieraminore, dietro a unagran catasta di casse
vuote c’era lo spaziosufficiente per unapersona, e non l’avrebbevisto nessuno. Sulpavimento di cementoerano stati gettati alcunivecchi sacchi: l’angolinodovevaesseregiàservitoaqualcuno.Sisdraiòcosìcom’era, con gli abitizuppi addosso, si coprìcon il cappotto fradicioche sapeva di pioggia,
radunòunmucchiettodistracci sotto la testa,vincendo l’istintivoribrezzo per quellecondizioni prive di ogniigiene. Era esausto, nonebbeneancheiltempodigirarsi che cadde in unsonnoprofondo.
Si svegliò con il corpobollente, battendo identi; non del tutto,però,rimaseinunostato
di dormiveglia. Era buio,dafuorifiltravanoleluciartificiali, i rumori delloscarico, il rombo deicamion, il cigolio delnastro trasportatore,non sapeva dire però seera la stessa notte oquella successiva. Avevala febbre alta, senzadubbio: doveva averpreso un raffreddore,oppure un’influenza,
tutte quelle ore adaspettare fuoridall’albergo sotto lapioggia. Tremava difreddo, forse aveva lapolmonite.
Non era mai cadutocosì in basso da quandoera arrivato lì. Eracompletamenteabbandonato, senza unmedico e senza farmaci:in quello stato non ce
l’avrebbefattaneppureatrascinarsi fino allaclinica dove gli avevanocavatoildente.Nascostoin quell’angolo nessunol’avrebbe aiutato, certo,maalmenolo lasciavanoinpace,ederaquellochedesiderava: come unanimale voleva solorintanarsi, lui e i suoimali. Si ripiegò su séstesso, i suoi pensieri
erravano stentati sulfondo della coscienza.Eraprostratonelcorpoenello spirito, madido disudore, divorato dallafebbre.
In quella condizionevegetativa le suefunzioni vitali efisiologicheeranoridotteal minimo, e non era unmale, non potendosoddisfarle. Non aveva
fame, ma non avrebbesaputo come procurarsidel cibo. Un tè gliavrebbe dato sollievo, sisentivalagolaseccaeuncattivo sapore in bocca,ma non era in grado ditrovarlo, e allora meglionon pensarci... Avevaanchealtribisognimoltomeno gradevoli, e ormaiimpellenti. Quandoveniva a lavorare, aveva
scoperto che dietro almercatoc’eraunalatrinasudicia, tuttavia alcunipreferivano usare ilmuro esternodell’edificio,insozzandolo.Madovevaalzarsi e arrivarci, ed eraun’impresa al di sopradelle sue forze. Però nonvoleva farsela addosso,non avrebbe mai potuto:una cosa del genere,
finché avesse avuto unbarlume di lucidità, eraimpensabile.
Solopersollevarsiebbebisogno di una lungapreparazione: per interiquarti d’ora si spronò adalzarsi, ma poirinunciava, sconfitto.Dopo essersi dato piùvolte la spinta,lentamente si drizzò asedere ma ebbe un tale
capogiro che dovettecoricarsi di nuovo, esvenne,sprofondandoinuna nebbia rosso scuro.Quando tornò in sé,ricominciò, penando eimprecando: non potevaaccettareilfallimento.Sesi fosse arreso ora, sidisse,eratuttoperduto.
Decise di alzarsi, acosto di sputare l’anima,maledisse la propria
debolezza, e alla fineriuscì a tirarsi in piedi, ese ci riuscì fu solo graziealla sua ostinazione.Avanzòafatica,tastandoil muro come un cieco,lottando per ogni metroe sentendosi mancare aogni passo: in queimomenti per non cadereaterrasireggevaaquelloche trovava. Eracostretto a fermarsi,
appoggiato a una balla oa una cassa, e dopoqualche minuto era ingrado di proseguire. Perquel breve tragitto diandata e ritorno gli civollepiùdiun’ora,eallafine era completamentestremato: quando crollòdi nuovo sul suo miserogiaciglio avevaconsumatoognienergia.
Si dibatté in un
dormiveglia confuso, alconfine tra sogno ecoscienza: i due piani simescolavano e a volte sifondevano,indistinguibili.All’improvviso gli parvedivederedeiratticheglipassavanosuipiedi,eluinonneavevapaura.Maaposteriori non riuscì acapire se fosse successodavvero, il che non era
affatto improbabile inquel luogo, o fosse statosolo uno scherzo dellasuaimmaginazione.Fecemoltisogni,ancheper lafebbre.Sognòvarievolteche incontravafinalmentequalcunoconcui parlare, cambiavanosolo la persona,l’occasione, lecircostanze. L’uomo checompariva più spesso e
in diverse situazioni eral’ungherese in lodenincontrato in metrò. Poifaceva a botte con ilgrasso uscieredell’albergo, e scivolavasul ghiaccio coipattinatori, ogni tantoruzzolando goffamente.E viaggiava in aereo, intreno, in nave, e andavaaddirittura a cavallo,anche se non aveva mai
praticato questo sport:trottava su un terrenoumido e sabbioso,lasciandosi dietro unalungafiladiimpronte.
E gli avvenimenti piùrecenti vissuti in quellacittà si mescolavano coni ricordi di casa sua. Aquestopunto,qualunquericerca sarebbe statainutile, non l’avrebberopiù trovato, ormai non
aveva un alloggio, unrecapito, era diventatoun vagabondo senzadimora: chi avrebbepotuto sapere dove sitrovava?... La suadisgraziavistaattraversoocchi altrui, ecco l’unicacosa per la quale ancorasicommuoveva–simiseperfino a piangere, tuttosolo, nascosto dietro allecasse, sul cumulo di
vecchi sacchi. Queldestino sarebbe stato unpo’piùtollerabilesenonavesse avuto la famiglia,il lavoro,gliamici, ilsuocane. Gli mancavasoprattutto sua moglie,com’era naturale, eraquesto il sentimento piùforte e profondo; avevavissuto così a lungo alsuo fianco, lei era comeuna parte del suo io, e il
pensiero della suasofferenza gli dava undolore insopportabile. Seavesse potuto, avrebbechiesto a un chirurgo ditagliargli via quel pezzodicuore.
No,nondovevastarelìa compiangersi, gli erachiaro anche tra i fumidella febbre.Commiserarsi nonserviva a nulla, anche
perché, al di fuori di luistesso, nessuno sisarebbe dispiaciuto perlui: era solo unosvantaggio, un intralcioulteriore... E per forza dicose arrivò pure aconsiderarelapossibilitàpiù estrema, quella chein sostanza giaceva infondo a ogni suopensiero. In quellecondizioni non avrebbe
dovuto fare quasi nulla,forse solo lasciarsiandare, farsi scivolarefraleditaqueltenuefiloa cui ancora siaggrappavaegiàsarebbesprofondato nellabeatitudinedelnulla:perlui al momento eradavvero la scelta piùfacile...
Ma la rimandò, erimandò anche il
momento in cui ciavrebbe riflettutoseriamente: c’era tempoper pensarci,quest’ultima via d’uscitasarebbe sempre statadisponibile. Oraquell’idea gli ripugnava,non tanto in sé stessa,quanto perchésignificavaunafuga,unaritirata ingloriosa. Purnella miseria e
nell’infernotorbidodellamalattia, dentro di luiera rimasta una solapassione: la caparbietà.Quell’indefinibileaccanirsi,quell’inspiegabile furia,quella resistenza che gliimpediva di arrendersi,di uscire vinto da quellalotta.Quandostringevaidentieimprecava,anchenei momenti più
strazianti della crisi, sistava battendo permantenere vivo almenoun frammento dicoscienza, per nonarrendersi per nessunaragione al mondo aquella insensataoscurità. Era una speciedi puntiglio, di sensodell’onore, di assurda eforse ridicola fedeltà aisuoi propositi, o di
alleanza con sé stesso,dato che non potevacontaresunessunaltro.
Poi gli apparve insogno anche Pepe, insituazioni diverse masempre cariche diangosciaesensodicolpa:non riusciva aperdonarsi di averlapicchiataquellasera.Eraun pensiero che loinseguiva come
un’ossessione: era perquesto che la donna nonsi era più fatta viva?Forse in un secondomomento aveva provatorancore verso di lui?...Comunque fosse, nonpoteva finire così,doveva rimediare, farsiperdonare, cercare dispiegarle,dirlechesierapentito. Tra le altre, unaragione per guarire in
fretta era che bisognavatornare in albergo,cercare Bebebe: senza dilei non poteva vivere inquel luogo, e nemmenoandarsene.
Non aveva la minimaidea di quanto tempoavesse languito in quelmisero nascondiglio,aveva perso lacognizione del tempo,confondevailgiornocon
la notte. Quando si alzòper trascinarsi fino allalatrina, vide che ilmercato era deserto, ichioschi, i negozi e ibanchi erano chiusi, conle saracinescheabbassate, con le sbarrebloccate da lucchetti,benché ai latidell’edificio operai,macchine e grucontinuassero a lavorare
con gran frastuono.Dunque era di nuovodomenica,comelaprimavolta che era stato lì. Esiccome era statocacciato dall’albergo divenerdì, aveva passatoduenottialmercato.
Si sentiva un pocomeglio, la febbre gli eracalata. Per due o tregiorni ancora non lasciòil suo cantuccio, era
troppodeboleperfarlo,epian piano iniziò ariprendersi. Gli era puretornato l’appetito, ma leuniche cosecommestibilicheavevaaportata di mano eranodelle mele mezze marceprobabilmentecadutedaqualche cassa. Tentò dirosicchiare le parti sane,erano piuttostodisgustose, ma era
comunque meglio diniente.
E dopo tutto queltempo sentì anche ilbisognodilavarsi.Sialzòe vagò a lungo, in predaallevertigini,allaricercadell’acqua, e finalmenteall’angolo opposto dellarampa scoprì unrubinetto. Una lungacoda di gente aspettava,provvista di gavette,
bottiglieeperfinosecchi.Si unì a loro e sidomandò chi potevanoessere: commercianti,clienti o scaricatori agiornata? E la fila siallungava dietro di lui,cosicché quando arrivòal rubinetto ebbesoltantoiltempodibere,in mancanza di unrecipiente bevve con lemaniacoppa,sisciacquò
la bocca e si ritrovò piùin là, spinto oltre dallamera presenza di chi glistavaallespalle.
Preferì ritornarci lasera tardi, quando inegozi erano chiusi el’attività del mercato eralimitata al carico dellamerce dai magazzinilaterale e posteriore eallosgomberodellecassee degli imballaggi vuoti,
come sempre, giorno enotte. Stavolta c’eradavvero poca gente incoda davanti alrubinetto, soltantoquattro o cinqueubriachi barcollanti, edopo una breve attesaBudai poté restare solo eindisturbato. Il gettodell’acqua era più debolee non aveva neppuresapone, ma si prese il
piacere di rinfrescarsi lemani, la faccia e il collo,mise la testa sotto ilgetto gelido perraffreddare la frontesofferenteesciacquarsi icapelli. Si sarebbe lavatovolentieri anche le partiintime,maachesarebbevalso se poi dovevarimettersi la biancheriasporcaesudata?
Col passare dei giorni
si ristabilì, e siccomedoveva mangiare evivere,ripresealavorare.Per fortuna c’era semprequalcosa da scaricare, insostanza era lui adecidere quando equanto lavorare, aseconda dell’umore edelle sue forze. Quandotrasportavano generialimentari, potevasottrarne un po’, lo
facevano anche i suoicompagni, nessunoriusciva a controllare:carote, cipolle, frutta,verdure crude, e a volte,quando il magazziniereera distratto, rubava deipezzi di salsiccia e diciccioli di maiale. E seaveva bisogno d’altro, selo comprava subito coisoldi guadagnati, lì almercato.
La sua vita eracambiata radicalmenterispetto a prima, e unavolta superata lamalattia, gli sembròancora più tremenda einsopportabile. Le pochecose che ancoravenivano da casa suaeranorimasteinalbergo,compresi i suoi articolida toilette. Per primacosa dovette procurarsi
sapone, spazzolino dadenti e dentifricio, cheeranoinvenditaanchealmercato. Il dentifricioera dolce come lamaggior parte dei cibi diquel luogo. Non compròinvece l’occorrente perradersi, costava troppo eservivano tante cose,lamette,rasoio,pennello,sapone o crema – e poiperché, per chi? Non era
mai stato da un barbierein quella città, non ciaveva pensato: gli eracresciutaunpo’dibarba,aveva i capelli arruffati,leunghiedimaniepiedieranocresciuteesieranoindurite. I suoi abiti sierano strappati e nonaveva ago e filo, avevapersoparecchibottoni,sierano rotte le stringhedellescarpe,ilcappottoe
lagiaccasieranoscuciti,bucati e sporcati in varipunti, poiché li tenevasempre addosso, quandodormiva e lavorava. Unavolta che si era un po’allontanato dal mercatosi vide riflesso in unavetrina e faticò ariconoscersi in quelvagabondo barbuto estraccione. La cosa chepiù lo spaventò furono
gli occhi, lo sguardosconvolto, spossato,cupo e torbido in quelvolto giallo, patito edemaciato dacavernicolo...
Soffriva soprattutto dinon potersi cambiare, dinon avere dellabiancheria pulita damettersi addosso. Eancheseavesseavutouncambio, dove poteva
lavare quella sporca,dove farla asciugare, ecomunque dove tenerla?Gli articoli diabbigliamentocostavanouno sproposito, comeaveva notato nellevetrine di quei grandimagazzini di periferiache aveva scambiato perun cinema. Non glibastavano i soldi, perracimolarli c’era da
sgobbare parecchio:doveva rimandarel’acquisto. E fino adallora non poteva farealtrochepensareallasuapersona senza tenerconto dei propri abiti –anzi, ancora meglio,dellasuapelle,dituttoilsuocorpotrasandato.
Si era inselvatichito, eora anche la nostalgia dicasa si era attenuata.
Non teneva più neppureilcontodiquantotempoera passato dal suoarrivo in città. A casa siricordavano ancora dilui? Oppure lo avevanodato per disperso,cancellato, forse perfinorimosso? La casa, quelladi un tempo, eradiventata un ricordosempre più vago enebuloso; l’unica cosa
invariata eral’imperativo diandarsene da lì. Dove econ quale mezzo non gliimportava, l’essenzialeeraandarevia,via,via.
Non appena cominciòasentirsimeglio,preseilmetrò per tornareall’albergo. Era quasicertochenonl’avrebberolasciato entrare, e infatticosì fu. Il grasso usciere
in uniforme gli bloccòl’ingressoanchestavolta,alzando il braccio insegno di divieto: delresto, perché maiavrebbe dovuto fareentrare un pezzentesimile, un losco figuromagari deditoall’accattonaggio o adattività anche peggiori?O forse quell’idiota siricordava di lui
dall’ultimavolta,quandolo aveva sbattuto fuoridall’albergo e gli avevaimpeditoinognimododirientrarvi?... Ma ancheBudai era più fiacco,menocombattivodiquelgiorno, e si fece bastareun paio di incertitentativi. L’usciere stavaall’erta e gli sbarravaautomaticamente ilpassaggio appena lo
vedeva. E nel frattempoborbottava qualcosasottoilsuonasocarnoso,come rivolto a lui. Budaisi avvicinò per sentiremeglio e gli sembrò dicoglierequantosegue:
«Parataciara... Kiripilaba parascera...parataciara...».
Ovvero era la stessafrase che il tizio avevadetto tempo addietro
allorché Budai gli avevachiesto informazioni suitaxi; durante le sueanalisi linguistiche, piùtardi, l’avevainterpretata come unsaluto. Si era forsesbagliato? Non eraplausibile che nelrespingerlo l’usciereusasse una formula dibenvenuto... Oppurepoteva darsi che quella
locuzione avesse undoppiosignificatoecheasecondadellecircostanzevolessedire«Benvenuto»o «Va’ all’inferno»...Come in latino, adesempio,l’aggettivoaltusche può significare sia«alto» che «profondo», esacer sia «sacro» che«maledetto», il perfettocontrario l’unodell’altro?
L’albergo, visto dafuori, gli apparve comeun paradiso perduto. Fucon profonda nostalgiache rievocò – anche seormai ci riusciva solo afatica – i giorni in cuidisponeva di una stanzatutta per sé, di un lettoconlenzuolaecoperte,diuna scrivania, di unbagno con lavandino edoccia. E vedeva Edede
tutti i giorni... Chissà seadesso si trovava làdentro e andava su e giùin ascensore,schiacciandoitasti?Selaloro relazione era statascoperta,cometemeva,edavvero era considerataunreatograve,alloraerainutile cercarla inalbergo, la ritorsionedoveva aver colpitoanchelei.Delresto,orasi
sarebbe vergognato difarsi vedere in quellecondizioni.
Le sue energie eranopoche, la mente arida espenta, quel giorno nonaveva nessuna voglia diricominciare i giochinitentati la voltaprecedente con ilgrassone. Si aggiròancora qualche minutointorno all’ingresso, ma
la situazione non eramutatanéluifuingradodi escogitare altristratagemmi. Almomento non eraneppure certo di volerentrare a tutti i costi.Dopounpo’,senzaaverlodeciso veramente, siincamminò verso lastazione dellametropolitana. Ilgrattacielo in
costruzione era più altodi due piani dall’ultimogiornochecierapassatoaccanto:eranoarrivatialsettantasettesimo.
Tra i facchini delmercato era ormai ingrado di riconoscernequalcuno; nondesideravaapprofondirne laconoscenza.Ecomunquec’era un ricambio
piuttosto intenso,vedeva sempre faccenuove, e lo colpiva ilfatto che i neri fosseropiù numerosi chealtrove. Verso sera, maanche a qualunque ora,chi come lui era senzadimora veniva a cercareun posto dove coricarsi,sulle balle, su mucchi dicarbone o perfinoaccanto al muro, spesso
in evidente stato diubriachezza. Ogni tantounpoliziottopassavaperla rampa di carico efaceva sloggiare quelliche trovava, ma il covodi Budai non venne maiscoperto. Poi, quando lapolizia se ne andava,tutti tornavano asdraiarsi nel luogo cheoccupavanoprima.
Dopo il lavoro, aveva
iniziato a bazzicare lamescita nella viaaccanto. L’aveva inseritafra le sue abitudini:faceva parte della suaroutine,moltopiùdiunacamicia pulita, ancheperché non potevaprocurarsela. Date le suefinanze fu costretto ascegliere se mettere daparte i soldi per labiancheria oppure
berseli, e riflettendo amente lucida optò per laseconda ipotesi: senzaalcol la sua situazioneera semplicementeintollerabile.
In genere l’osteria erastrapiena, sebbeneservissero solo due o tretipi di bevande. Lui nonriusciva a coglieredifferenzesostanzialitradi esse: il solito liquore
sciropposo, dal gusto unpo’ stucchevole che sitrovava dappertutto eche, per sua esperienza,aveva un grado alcolicopiuttosto elevato. Nellocale sudicio, dall’ariaviziata, pieno di fumo edi rumore si incontravasoprattutto chi vivevaintorno al mercato,scaricatori occasionali egente della malavita,
oltre ad alcune donnealcolizzate, dall’aspettoequivoco e sfiorito. Disolito gli avventoritrascorrevano ore interealbanco,conilbicchierein mano, immersi inlunghi discorsi, anche seBudai nutriva il sospettoche neppure loro sicapisseroenonfacesseroaltro che parlare da solitra i fumi dell’alcol. A
volte la discussionetrascendeva escoppiavano improvvisialterchi, furibondepolemiche cheminacciavano didegenerare in risse. Inquei casi il gestore, unnero dalle spalle larghe,con la testa rasata, ingrembiule verde,accompagnava idisturbatori all’uscita,
oppurelisbattevafuori.Budai si divertiva a
stare a osservare quelche accadeva nellabettola, quantomeno eraun modo di passare iltempo. Rimaneva lì aberefinchéglibastavanoi soldi, o fino a quandononsistordiva,isensisiottundevano, i pensieridiventavano nebulosi,per tornarsene poi nella
sua tana e crollareaddormentato. Ilmattino dopo sisvegliava in preda aipostumi della sbornia,col mal di testa, unsapore disgustoso inboccaeunfortebrucioredi stomaco; ciònonostante la sera dopoera di nuovo là allataverna.
Isuoinerviperòerano
sempre più logorati,viveva in un continuostato di tensione, comecarico di energiaelettrica. A volte, erasufficiente un gestoirrilevante o anche solol’aspetto sgradevole diqualcuno perché Budaisentisse montare unafuria cieca e improvvisa:era consapevole diquanto fosse una collera
inutile e assurda, eppurenonriuscivaasoffocarla.Glisiannebbiavalavista,provava un odioviolento, insultava ilmalcapitato e lomalediceva,immaginavadi picchiarlo e diprenderlo a calci, digonfiargli la faccia dischiaffi. Un giorno almercato, per esempio,notòunbelragazzoaltoe
sottile, dalla pelleambrata, vestito comeun damerino, con dellecatenelle al collo e alpolso, che, a giudicaredal movimento ritmicodella mandibola, stavamasticandounagomma.La sola vista di quelbellimbusto dalle ossasottili, in camiciasportiva, assorto amasticarelasuagomma,
scatenò in Budai un taleaccessodiirache,senonavesse temuto leconseguenze del suogesto, l’avrebbe preso apugniinfaccia,l’avrebbemassacrato di botte. E,ancora qualche giornopiù tardi, appena ilpensiero gli riandava aquel ragazzo stava maledallarabbia.
A suscitare la sua
colleraeranosoprattuttoivecchi,imalati,ideboli:si rendeva conto diquantociòfosseingiustoe perverso, ma nonriusciva a dominarsi. Ungiorno trovò occupato ilsuo giaciglio dietro lecasse:cidormivauntiziogracile e deforme, daicapelli grigi, poco piùalto di un bambino, conun paio di pantaloni di
tela blu tutti macchiati.Budai si sentì montare ilsangue alla testa e con ilrespiro strozzatoagguantò e scaraventòvia quell’inerme relittoumano che non tentòneppure di difendersi...Più tardi, assalito dalrimorso, partì allaricerca dell’uomo perrimediare al suo gestooffrendogli un bicchiere,
maquelloerascomparsosenza lasciare traccia,come tutti gli altri cheavevaincontrato.
E ora, ovunqueandasse, attraversava dipropositolastradaconilrosso, buttava per terral’immondizia, calpestavale aiole recintate neiparchi e in generaletendeva a infrangerequanti più divieti
possibile, per unistintivo senso diribellione: le regole e leleggi locali non loriguardavano,quellanonera casa sua, lui era unostraniero, un nemico. Equando qualcuno lospingeva nella calca, ilchesuccedevaspesso,luirestituiva subdolamentecalci e pugni, e se non ciriuscivatornavaindietro
ad accanirsi sulcolpevole, non si davapace finché non si eravendicato. Danneggiava,rovinava o spaccavatutto quello che glicapitava a tiro: inun’occasione capitòdavanti a una cabinatelefonica isolata estrappòviailricevitore,epoi rovesciava icassonetti fuori dai
portoni per spargere ingiro la spazzatura,quandoerabuiolanciavasassi contro le finestreper rompere i vetri oprendeva di mira ilampionistradali.
E però non avevasmesso di perlustrare lacittà:partivadalmercatocoperto e si avventuravain direzioni semprenuove. Non aveva
perduto la speranza discorgere da qualcheparte una stazioneferroviaria, la posta, unabanca, gli uffici di unacompagnia aerea,un’agenzia di viaggi, unpunto informazioni, diimbattersi in un suoconnazionale, comel’uomo in loden con lacopia di «Színházi Élet»,o in chiunque fosse in
grado di scambiarequalche parola in unadelle numerose lingueche conosceva... Ognitanto tutto questo glisembrava talmentevicino e possibile chenon si sarebbe stupitoche accadesse giratol’angolo. Altre volte,invece, in preda alladisperazione, era prontoa fare un compromesso:
avrebbe accettato direstare lì ancora per unanno o due, ma anchecinque o dieci, acondizione di avere lacertezza di tornare acasa. Voleva qualcosa daaspettare, volevamisurare i giorni, lesettimane, i mesi chemancavano.
Oppure da lì non c’eraritorno? Era quella
l’ultima stazione,l’ultima Thule degliantichi a cui dovevaapprodare ovunquestesse andando, chefosseHelsinkioqualsiasialtroluogo,edoveprimao poi tutti sarebberoarrivati?
Laprimaveraarrivòdaun giorno all’altro. Almattino, quando Budaiaprì gli occhi, una lamadi luce obliqua etagliente penetrava nelsuo rifugio. In quellacittàiltempoerasemprestato uguale, grigio enuvoloso, e sulle primeBudai credette che fosseuna lampadina, e solo apoco a poco, col cuore in
festa, si rese conto cheera un caldo raggio disole.
Nell’aria si respiravauna specie di stranaeccitazione. I canirandagi che siaggiravano sempreintorno al mercato quelmattino erano piùirrequieti del solito,correvano, abbaiavano,mugolavano, guaivano,
si azzuffavano per unosso. La tiepida luce delsole si spandeva sullarampa, lo scarico dellemerci era sospeso. Inlontananza si udiva unamusicaditamburi,piattietrombe.
Attratto dal frastuonodella banda, Budai loseguìebenprestoarrivòa un ampio viale dalqualeeragiàpassatopiù
volte nel corso delle suecamminate. Adesso peròera molto più affollatodel solito: i marciapiedierano invasi dai curiosi,mentre sulla carreggiataun corteo senza finescorreva come un fiumeinpiena.
Eranobambini,maschiefemmine,scolariconlagiacca impermeabile ealtre divise variopinte,
facevano rotearebacchette e volteggiarepiume colorate; con lapelle bianca, gialla, neraocaffellatte,sfilavanoindrappelli omogeneioppure misti. Alcuni apasso di danza, altri supattini a rotelle, ofacendorimbalzarepalle,agitando palloncini. Ereggevano bandiere,cartelli, striscioni con
scritteincomprensibili,eimmaginiedisegniilcuisignificato sfuggivatotalmente a Budai:erano stemmi, emblemicomposti di varielementi, caricature,pecore e volpi con testaumana, uccelli, unascimmia che brandivauno scacciamosche, unavecchiachecadevadaunalbero, un grassone sul
ghiacciochecedevasottoil suo peso, un neonatodal viso rugoso cheveniva rapato... Che cosaraffiguravano queidisegni? Chi prendevanodi mira? Poi vennerodelle tamburine, unasquadra di ragazze inscintillanti abitiargentati, ognuna con ilsuo tamburo, etrombettiericonlastessa
uniforme scura deicontrollori dellametropolitana. Eun’intera banda di vigilidel fuoco, giovanotti colcasco rosso seguiti apasso d’uomo dalleautopompe con a bordoil corpo al completo e lascalaeretta.
Passarono uomini acavallo,poinecroforicongli stivaloni e i colletti
neri,seguitidarombantimotociclisti cheindossavano quella tutaintera che portavano inmolti – Budai sidomandò per l’ennesimavolta che tipo diassociazionepotessemaiessere. E camion carichidi bambini chesventolavano bandierinestrillando con le vocetteacute. Dietro di loro
veniva trainato su unrimorchio un gigantescocilindro verniciato digrigio, lungo circa unaquarantina di metri, allacui vista il pubblicocominciò a mormorare,mentreBudaisichiedevache cosa diavolo fosse:unabomba,unsiluro,unrazzo, una navicellaspaziale? E poi di nuovomusicisti, percussionisti
con strumenti simili axilofonievibrafoni,cori,e il flusso del corteo cheognitantorallentavaperpoi ripartire. Quindipassò,dasola,unadonnadi mezz’età un po’grassoccia, con un abitogiallo sgargiante e uncappello in tinta ornatodi fiori, e fu accolta dauno scroscio di applausie un gran vocio mentre
procedeva sorridendo eringraziandoadestraeasinistra. Infermiere incamice biancospingevano paralitici einvalidisusediearotelle,alcuni malatizoppicavano reggendosia stampelle o bastoni, ealtri ancora eranotrasportatiinbarella.
E poi sfilaronoun’infinità di categorie,
una più bizzarradell’altra: sportivi,ciclisti,sollevatoridipesidalla muscolaturapossente, acrobati,pagliacci, gente inmaschera – anche sequesti ultimisembravano unacomponente piuttostoesiguadiquellafesta,maforse il corteo confluivada percorsi diversi... Il
gruppo più numerosoera anche il piùsconcertante:detenutiindivisa a righe,ammanettati, a testachina, scortati ai latidalle guardie in tutamarrone, la stessa deimotociclisti. Questastrana processionesembrava senza fine,dietro agli uominiavanzavano più
lentamente delle donne,sempre vestite daprigioniere, poi deibambini, alcuni moltopiccoli, ragazzini eragazzine di otto-diecianni, tutti in abiti dadetenuto e con lemanette ai polsi. Eranodei veri carcerati?Compresi i bambini? Edove li stavanoportando? O era tutta
una messinscena, unoscherzo, o magari unamanifestazione, unadimostrazione – macontro che cosa? Leguardieeranoarmatemaridevano allegramente,salutavano con la manogli spettatori, e questirispondevano.
Un tramestio inlontananza preannunciòlo spettacolo successivo:
stormi di uccellisvolazzavano evolteggiavano sopra ilviale. Soltanto dopo unbel pezzo si vide checos’era:uncamioncaricodigabbieaccatastateunasull’altra, che venivanoaperte una dopo l’altra,liberandogliuccelli.Nonerano colombe,assomigliavanopiuttosto a storni, si
libravano con un granfrullar d’ali, in fittinugoli, cinguettando,fischiettando e garrendofelici per la libertàritrovata,siposavanosuifili elettrici con strilliacuti, e poiall’improvvisospiccavano il volo versoil cielo azzurro einfinito... Questa ful’attrazione che riscosse
più successo, venneaccoltaovunquedagridadi giubilo, e anche Budail’ammirò incantato, conil cuore rapito, e attesecon ansia quel chesarebbevenutodopo.
Ma da quel momentoin poi la sfilata cambiòaspetto. Quattrovegliardi barbuti vestitidi scuro procedevano apassolentoesolennecon
ariatetra,edietrodiloro,in formazioni ormaiscomposte, una quantitàsterminata eschiamazzante di gentecomune, un flussocolorato e turbinante,come se fosse il seguitodei vecchi saggi dellacittà. Alla processione siunirono anche glispettatori che erano suimarciapiedi,
ingrossandola adismisura. Budai vennetrascinatodallafolla,masi sarebbe unitocomunque,spontaneamente.
La moltitudine sigonfiava sempre più escorrevaormaiquasiperinerzia, non se nescorgevano né l’inizio néla fine, e probabilmentenon era l’unico a non
sapere dove stavaandando e perché. Qua elà sopra le testeondeggiavano lebandiere e i cartelli, sisentivanogridareslogan,a tratti si alzavano deicori per cantare odeclamare qualcosa.Accanto a Budai undemagogo in pullover,con la pelle scura comeuno zingaro e madido di
sudore, urlava in uncono di cartonecontribuendo allostrepito generale. Pocooltre un gruppetto didonne sia giovani chemature ridacchiavanoscherzando fra loro.Presero a stuzzicareancheBudai,unaragazzagli fece il solletico sulcollo con un ciuffo dipiume colorate. A tratti
ondate di rabbiaattraversavano la follacomeraffichedivento.
La tumultuosa ecaotica marea umanasfociò in una grandepiazzarotondagiàinvasadalla folla, confluita daaltre direzioni. Al centroc’eraunafontanaconunelefante di pietra: dallaproboscidedovevauscireil getto d’acqua, ma ora
era spenta; la statua gliera familiare, l’avevavista durante una dellesue prime passeggiateper la città. Sulpiedistallo, appoggiato auna zanna dell’elefante,stava un giovane altocon i capelli lunghi.Indossava una camicianera abbottonata fino alcolloearringavalafolla:a giudicare dai gesti
cadenzati e dalle rimeche si riconoscevanonelle sue parole, stavadeclamando una poesia.L’assemblea lo ascoltavamormorando eondeggiandolievemente,ogni tanto si levavanogrida di approvazione, ealcuniripetevanoconluideiversichesembravanoun ritornello – ammessoche l’interpretazione di
Budai fosse vicina alvero. Il ragazzo con lacamicia nera siaccalorava sempre più, aun tratto sferrò unpugno nell’aria e infinepuntò il dito al cielo congliocchichiusi...Quandoebbe terminato, tuttiapplaudirono gridando elui saltò giù dalpiedistallo.
Ma al suo posto venne
subitoissatounaltro,unuomo anziano smilzo egracile, con i baffibianchi e radi capelligrigi. Tremavavisibilmente, eramalfermo sulle gambe esorretto da altri due, glizigomi pronunciati e lafronte sporgente siarrossarono appenainiziò a leggere qualcosada un foglio, la voce
flebile si spezzava perl’emozione. La piazzaammutolì, tuttiascoltavano commossiquell’uomo che parevagodere della stimagenerale. E solo quandofaceva una pausa ealzava lo sguardo silevavano voci dicondivisa indignazione:si sarebbe detto chestavaleggendoipuntidi
unprogramma,unaseriedi rivendicazioni oproteste. Quel discorsodavanti a un pubblicocosì vasto dovevaturbarlo al punto che atratti perdeva la voce,ormai non riusciva piùneanche a sussurrare,tossì a più riprese in unfazzoletto, con il viso infiamme, e alla fine loaiutaronoascendere.
Il nero bassino in gilè,bombetta e giacca aquadri che si arrampicòsulla statua dopo di luipronunciò in tutto sei oottoparole;concluseconuna smorfia beffarda epicchiandoilpalmodellamano sulla proboscidedell’elefante. Dovevaaver detto qualcosa dimoltospiritoso,perchéilpubblico esplose in una
risata generale. Nonvolevano lasciarloscendere, e il nero liringraziò per l’ovazionecon inchini in tutte ledirezioni e nuovesmorfiebuffe,chefeceroridereancheBudai,tantocomicaeralascena.
Prese il suo posto untizio occhialuto dal visomolle e glabro. Nonappena cominciò a
parlare fu travolto dafischi e urla di sdegno:aspettòchesicalmasseroun po’ e proseguì.Probabilmente stavatentandodidarequalchespiegazione, la folla loscherniva e cercava dizittirlo,mailtiziocongliocchiali insisteva e liinvitava almeno adascoltare. Arrivò quasi asupplicarli, ma così non
ottenne altro che diirritarli di più. Loinsultavano, lominacciavano con ipugni alzati, glilanciarono addossobottiglie vuote: le sueparole vennerosommerse dal frastuonoe dai fischi. Anche Budaiera esasperatodall’untuosa insistenzadel tizio e gridò a gola
spiegata:«Tiratelo giù! Basta!...
Machevuolequestoqua?Fuori dai piedi, che vadaaldiavolo!».
Allafinealcuniragazzilo spinsero giù dalpiedistallo e locacciarono: dovevaconsiderarsifortunatodiessererimastoilleso.
Seguirono molti altrioratori, tra cui la donna
grassoccia col vestitogiallo che Budai avevagiànotatonelcorteo.Orareggeva un canestropieno di distintivi ococcardeelilanciavaallafolla.Lagenteannaspavae faceva letteralmente abotte per acchiapparli;Budaieratroppolontanoper prenderli, da quelladistanza vide soltantoche erano degli affarini
neriapallinirossiorossia pallini neri, come lecoccinelle. La donna sene appuntò uno al pettoe la folla riunita nellapiazza andò in visibilio,si levarono grida digiubilo, tutti urlavanoevviva,pestavanoipiedisul selciato. Ecominciarono a cantareincoro.
Poi a salire sul
piedistallo fu unsacerdote con la vesteliturgica e la mitra,simileaquellocheavevavisto nella chiesa con lacupola. Srotolò unabandiera rossa e nera,come i distintivi, astrisce però, con alcentro un uccellostilizzato ad ali aperte –uno storno? –, eragrandissima,dasolonon
riusciva a reggerla e duechierici lo aiutarono adaprirla. Il sacerdotemormorò una breveformula, poi gli diederoun turibolo e lui lo agitòverso la bandiera, e inuna nuvola di fumobianco la benedisse o laconsacrò... La gente loosservavaconcommossadevozione. Moltiavevano le lacrime agli
occhi, e chi riuscivaandava a baciare l’orlodella bandiera, pregavain ginocchio oaddirittura si prostravadavantiaessa.
Si sentirono dellesirene in arrivo, da piùlaticontemporaneamente.Ambulanze? Pompieri?Polizia? A quel suono lagigantesca adunata si
riscosse e cominciò adisperdersi in ognidirezione,versolestradeadiacenti. Il ramo delcorteo che avevatrascinatoconséBudaisiinfilòsottol’ampiaportadi un vicino bastionemerlatodovescorrevanole auto. Al passaggio deimanifestanti i negozichiudevano uno dopol’altro, abbassando di
schianto le saracinesche.Lacircolazioneeraormaiparalizzata,gliautobuselemacchineaccostavanoal marciapiede, ipasseggeri scendevano esi univano alla folla. Dalontano giungevanorintocchidicampaneeilsuono continuo di unasirena come quello chenelle fabbriche segna lafinedelturnodilavoro.
Siritrovòneipressidelgrattacielo del qualecontava i piani. Adessonon gli passò neppureper la testa di farlo.All’avvicinarsi dellafolla, gli operai sceserodall’edificio con imontacarichiocalandosidalle impalcature, le grue le macchine sifermarono, l’altissimastruttura d’acciaio e di
cemento si svuotò. Cosìcom’erano, con le tutemacchiate di vernice ocol berretto di carta intesta, gli uomini delcantiere si unirono aglialtri ingrossando lamoltitudineondosa–machecos’era,unoscioperogenerale?
Suimuricominciaronoad apparire deimanifesti, ancora umidi,
con titoli a carattericubitali,edifronteaessisi formavano capannellidipersonecheleggevanoe discutevano con foga.La corrente della follarisucchiava tutti, quelliche uscivano dalle caseper unirsi agli altri e lagentechesbucavaafiottidalle scale gialle delmetrò. Da unaltoparlante una voce
gracchiò in manieraconcitata, come per dareistruzioni urgenti. Lacosa non piacque aimanifestanti, che simisero a protestare, sibloccarono indignati e aun tratto scoppiò untafferuglio. Come se nonbastasse, una fiumanache veniva da una vialaterale incrociò quellaprincipale, si crearono
vortici e ingorghi, le dueali si mescolarono, siammassarono e sipigiarono nel caos. Edall’altoilmegafonononsmettevadigracchiare.
Il cuore di Budai cessòdibattereperunistante:sulmarciapiededifrontegli sembrò di vedereEpepe. Fu solo unsecondo, o forse meno,nella folla apparvero la
testabiondael’uniformeblu... Oppure erano statiil colore dei capelli e ilvestito a trarlo ininganno, e il pensieroche fosse lei era solo ilfrutto della suaimmaginazione? Perchénonavevafattointempoad apparire che era giàscomparsa, e Budaiimpiegò tutte le sueenergie per andare in
quella direzione ma nonla rivide più, né unadonnachelesomigliava;certo,potevaanchedarsiche nel frattempo lei equelli intorno fosserostatispintiavanti.
Eppure la delusionenon lo scoraggiò, nonaveva affatto perduto lasperanza che il caso liavrebbe fatti incontraredinuovoinquelturbinio
caotico. Anzi,quell’episodio gli infusesicurezzaevogliad’agire,desiderava davveropartecipare alle cose chestavano accadendo,voleva andare doveandavano tutti gli altri,condividerne il destino,fare sua la loro causa elanciarsi anima e corpoinquell’avventura.
Decise di imparare le
canzoni. La più ripetutaeraunamarciadalritmoserrato, l’aveva sentitatalmente tante volte cheormai aveva nellamemoria non solo lamelodia ma anche leparole, per come erariuscito a distinguerlenei cori, e facevapressappococosì:
Cetectopadebette
EtekglöchrifefeeBügiütignemelagaPecice...!
Laparolafinaleveniva
urlata in modo secco,come un colpo, conrabbia o allegria.Ripetevano questo cantoin continuazione, e inmaniera martellante –era una provocazione,una minaccia, o fino a
quel momento era unacanzone proibita? Il piùesaltato era un ragazzoossuto con una foltazazzera:ognivoltachelacanzone finiva lui laricominciava da capo,dava l’attacco con le suelunghe braccia e quelliattorno gli andavanodietro. Erano comeinebriatidalcantoedallaloro voce, e tutti,
compreso Budai,condividevano la stessasensazione: stavanofacendo qualcosa digrande e di importante.Questa euforica certezzasi diffondeva tra di loro,la certezza che uniti,tutti insieme, erano piùforti,chenessunopotevafermarli, si sentivanoinvincibili – e questo liriempiva di una gioia
selvaggia, gli estranei siabbracciavano e sibaciavano,danzavano,siscatenavano, quasivolteggiavano amezz’aria.
A fianco di Budai unaragazza in un abitoargentato, con la pelleambrata e i capelli nericrespi come la lanasuonava il tamburo:doveva far parte del
gruppoditamburinecheprima sfilava in ordinenel corteo, formato daragazze vestite tutteuguali, che poi si erasciolto e mescolato aglialtri. Non aveva più diquindici anni e battevasul tamburo con unafoga instancabile, sulviso le si leggeva unentusiasmo cherasentava l’estasi, e
mentrealzavalosguardoverso un vago puntolontano mostrava ilbiancodegliocchi.Budainon poté reprimere ilpensiero che quellaragazzina, se fossegiunto il momento,avrebbe sacrificato lapropria vita senzaesitazione.
Lì vicino avevanoinnalzato una barricata.
Avevano divelto lapavimentazionestradale, portato deimobili dalle case vicine,perfino credenze epianoforti, e sparsosabbia e ghiaia: avevanocostruito unosbarramentoaltoelargo,in cima al quale erapiantataunabandiera.
All’angolosuccessivoilpassaggio nella traversa
era sbarrato da uominicon la solita uniforme ditela: una schiera disoldati armati. La follascorreva accanto a loro,un gruppo di giovanidonne però si fermò astuzzicarli. Siavvicinaronoapplaudendo emuovendo passi didanza,sordealleurladelcomandante che
ordinava loro di starlontano, appuntaronofiori ai berretti deiragazzi, e quando questiimbracciarono i fucili neinfilarono anche nellecanne. Si aggiunseroaltre donne, offrirono aisoldati sigarette eprodigarono abbracci,pacche sulle spalle estrette di mano,sorridendo e vociando.
Con tutte questemanifestazioni diamicizia, nel giro di dueminuti l’intera pattugliavenne disarmata. Lastrada bloccata si aprì elamoltitudine,compresoBudai,visiriversò.Anzi,gran parte del drappellomilitareappenascioltosiunì al corteo, gli uominiin tuta ridevano ecantavano insieme agli
altri. Qua e là, sivedevano alcuni civilicon in spalla i fucilisottrattiaimilitari.
Poi giunsero in unaviuzza stretta dove unafolla rumorosa occupavala carreggiata. Eranoconcentrati davanti allafacciatagrigiaeanonimadi un grande edificio diquattro piani, le cuifinestreeranogremitedi
curiosi, e anche le casedirimpetto, più basse,brulicavano di personecome un formicaio.Budai si spinse fin sottoil palazzo grigio: ilportoneerachiuso,conipesanti battenti di ferrosprangati. Davanti, unmezzo cingolato dacombattimentoimpediva il passaggiocon la sua massa
d’acciaio.Non capiva bene che
cosa stava succedendo:entrò in una delle bassecasedifronte.L’androne,le scale e i ballatoi sulcortile interno eranoaffollati, e nessuno glichiese dove stavaandando. Salìindisturbato finoall’ultimo piano, spinseuna porta socchiusa ed
entrò in unappartamento che siaffacciava sulla strada.La stanza era stipata digente,erachiarochenontutti abitavano lì, anzi, iveri occupantidell’appartamento forsenon erano neppurepresenti. Arrivò sulbalcone e si sporse aguardare, in bassoondeggiava una folla
densa e torpida; da lìvedeva bene anche lecase accanto, tuttestraripantidipersone.
Di fronte, al primopiano dell’edificio grigio,dei tecnici stavanoinstallando unaltoparlanteallafinestra,con la tromba rivoltaverso la strada. In bassola folla si era un po’sedata ma li osservava
con tangibile sospetto,gridando ogni tantoqualche frase di ironicoincoraggiamento. Unronzio e uno sfrigolioindicarono chel’altoparlante era acceso,e l’apparecchio cominciòafischiareeagracchiare.Quando i rumorid’interferenzacessarono,una voce femminilerapida e agguerrita
scandì qualcosa, poiseguìunapausa,qualchesecondo di silenziopesante, e infine uncolpo di gong. Dopo diche una voce maschilepiù profonda ecavernosa, lenta esolenne,annunciò:
«Cetencia...».Questa prima parola
suscitò delusione: venneaccolta da un coro
irritato di fischi e buu.Accanto a lui, la ragazzanera alta e snella agitòfuriosa il pugno dalbalcone.Lavocediprimaripeté in tono un po’ piùincerto:
«Cetencio...».Non poté proseguire
per l’ondata di protestache esplose con forzaelementare. Un mattonevolò verso l’edificio
grigio, lanciato con ogniprobabilità dalla casadove si trovava Budai:colpì il muro, sifrantumò nell’impatto ecadde a terra in pezzi. Ilsecondomattonefinìsuldavanzale della finestra,il terzo invece centrò inpieno la trombadell’altoparlante, chetacque. Tutte le finestreintorno si svuotarono, i
curiosi si ritrasseroall’interno. Davanti alportone il carro armatoaccese il motorerombando, fece unmezzo giro sui cingoli edalla torretta d’acciaiouscì minaccioso ilcannone. I pedoniarretrarono, ma nontroppo, restarono neipressi del veicolocorazzato tuonando
contro l’equipaggioinvisibile,lamanoalzatacome in un giuramento.Poi ricominciarono acantarequellamarcia:
CetectopadebetteEtekglöchrifefee...
Illanciodimattoninel
frattempo non eracessato, e quando Budai,spinto dall’inquietudine,
corsegiùdallescale,videnel cortile dei grandimucchi di mattoni, cheservivano da munizioni:una catena umana se lipassava di mano inmano fino agliappartamenti chedavanosullastrada.
Uscendo dalla casa,notò all’angolo alcunicamion chetrasportavano uomini in
uniforme. Arrivavanopianissimo, suonando ilclacson, cercando diincunearsi in mezzo allafolla che non volevaaprire loro il passaggio.Un uomo alto e dalportamento fiero saltòsul tetto della cabina delprimo veicolo: dovevaessereunufficiale,anchese indossava la tutasenza mostrine come
tutti. La sua voce daltimbro metallico giunselontano, sovrastando ilfrastuonogenerale.Dissepochefrasibrevi,intonomilitaresco,accompagnate da gestidelle braccia duri edecisi: presumibilmentestava ordinando aidisturbatori didisperdersi. Ma fuinvestito da urla di
contestazionedapartediuna folla sempre piùostile e inquieta, e glitiraronoaddossoperfinoun mattone. Sebbenel’avessero mancato dipoco l’ufficiale nonmostrò alcuna paura,gettò uno sguardo didisprezzo nella direzioneda cui era partito illancio e scese dallacabina con aria che non
prometteva niente dibuono.
Gliuominiinuniformesaltarono giù daicamion, formarono uncordone da una parteall’altra della strada ecominciarono arespingere la massa. Illoro numero però eratalmente esiguo inconfronto a quello deimanifestanti che con la
sola forza fisica non cel’avrebbero mai fatta,neanche caricandoli.Allora provarono adisperderli con gliidranti, dirigendo aventaglio il gettod’acqua: quelli in primalinea, inzuppati, sispostavano indietrofradici e gocciolanti. Maun mattone benassestato colpì la mano
del soldato cheimpugnava l’idrante edanneggiòlapuntadellabocchetta.
Imilitaririsposerocondei fumogeni, che sirivelaronopiùefficaci:lagente si disperse e siritirò, poi si mise acorrere per sfuggire allenuvole bianche cheesplodevano qua e là.Budai era abbastanza
lontanodanonsubireglieffetti del fumo, mavenne travolto dal fuggifuggigenerale.Svicolòinuna traversa e corselungolarecinzionediunparco,finoall’angolo.
Mentre riprendevafiato, notò unasaracinesca abbassata ametàsottolaqualemoltisiinfilavano.Sichinòpersbirciare dentro, per
curiosità, quindi vientrò: dei gradiniilluminati da nudelampadine conducevanoa un tiepidoseminterrato in cuialeggiava un vago odoredicanapa.Dovevaessereil deposito di un negoziodicordeeteloni:lungoleparetiimbiancateacalceerano allineate pile altefino al soffitto di sacchi
ripiegati, rotoli di tela,corde, sugli scaffalitantissimirocchettituttiugualidispagoenastro...Epoivideunmucchiodigente: uomini, donne,ragazzi; sulle primeBudai non capì che cosastavano facendo.Volevano portarsi via lamerce? A che scopo sieranoraccoltilì?
A sinistra si apriva un
locale più piccolo,anch’esso pieno dipersone. Dovette alzarsiin punta di piedi pervedere al di sopra delleteste che cosa facevano.Un uomo in giacca dipelle, con una faccialunga e giallastra e baffispioventi, prendeva deimitra da una cassa e lidistribuiva:dicevapocheparole a ognuno, gli
stringeva la mano e gliconsegnava l’arma.Alcuni indossavanouniformi, quelle cheBudai aveva già visto:controllori, ragazzi eragazze in giaccaimpermeabile verde, lesolite giubbe di tela,perfino un vigile delfuoco. Gli altri eranocomunque in tenuta dacombattimento, un
bizzarro misto di abiticivili e militari, stivali,giacche di feltro conl’interno di pelle dipecora, impermeabilimimetici, bandoliere ecinture portamunizioni,colbacchioberrettirigidida poliziotto. C’eranoaddirittura due uominirapati a zero in divisa arighe da galeotto, comequelli che avevano
sfilatolamattina–eranodue di loro, omanifestanti travestiti?Oeranoduecondannati?E condannati per cosa?Per reati comuni? Oprigionieri politici?Eranoevasi?
A quanto sembrava,Budaieracapitatoinunadelle basi dellasommossa che erascoppiata nella zona o
forse nell’intera città;tutto l’andirivienisembrava confermarequesta ipotesi. Più tardiarrivòanchedabere,unapiccola botte fu fattarotolare pian piano suigradini. Fu accolta darisate e grida di gioia epresa d’assalto. Lastapparono e neversaronoilcontenutoingavette e bottiglie, che
poi passavano di manoin mano. Anche Budaibevve un sorso: questononerailsolitointrugliodolciastro servito nellebettole, ma veraacquavite di vinaccia,cosìfortechedavasubitoallatesta.
Conl’arrivodellabottesceseroaltrepersone,tracui una strana ragazzadall’aspetto deforme e
armata di mitra. Tenevala schiena curva, o forseera gobba, il colloincassato nelle spalle,aveva la fronte bassa, lafacciapiattacomequelladi una scimmia,un’espressione ebete euna luce opaca negliocchi mentre si aggiravaguardinga per ilseminterrato. Nonbevevainsiemeaglialtri,
non parlava e nonrideva,misuravaillocalecon un passo lento efelpato, un’ariamisteriosa, squadravatutti in modo ambiguo,come a caccia diqualcuno, o come sefosse finalmente il suomomento, ora che avevaun’arma a disposizione –ma da dove era saltatafuoriquella?
Nel bel mezzodell’allegrabevutafeceilsuo ingresso, quasiinavvertito, un giovanebiondo. Per meglio dire,la sua presenza si notò ascoppio ritardato perchéuno dopo l’altroammutolirono al suocospetto. Si fermò suigradini senza dir nulla,immobile, e guardava inbasso strizzando gli
occhimentresiabituavaalla penombra. Dovevaavere circa venticinqueanni, aveva le labbrasottili ed esangui e gliocchi grigio-azzurri,comeilghiaccio;portavaun vecchio berrettosciupato, gli anfibi, unatuta verdastra con unacintura portamunizioni,la mano destra eraposata sul fodero della
pistola. Quando ilsilenzio fu totale siinoltròinmezzoaglialtrie sempre senza dire unaparolastrappòlagavettaa un ragazzo che stavaper bere. L’acquavite siversò sul pavimento,quello fece perriprenderelasuagavettama il nuovo venuto glidiedeunoschiaffo.
Questo era un giovane
robusto e armato, manon tentò di restituirel’offesa né di difendersi.Nessuno mosse un dito,molti arretrarono eperfino la ragazza dalviso scimmiesco siirrigidì... Il biondo sistrinse la cintura in vitaeruppeilsilenzio.Parlòavoce bassa, in tonodistaccato, e scandivacon una tale chiarezza
che per una volta Budairiuscìadistinguerequasitutto, e suonavaall’incircacosì:
«Deperetj glüttudjurumba?» – e si voltòattorno con ariainterrogativa. Gli altrinon lo guardarono, lamaggior parte abbassògli occhi. «Begec alaulpatipatitjapp?»proseguì,epoi ripeté:
«Atipatitjapp?...Atipatitjapp?...». L’uomocoi baffi e il visogiallastro in giacca dipelle che distribuiva imitra cercò diinterloquire, ma ilbiondo gli fece cenno ditacere e con la stessanoncuranza, come disfuggita, gli disse: «Jeduruntj...».
Parlò per due o tre
minuti, in tonomonocorde; gliascoltatori, dispostiintorno a lui, parevanosempre più convinti, loascoltavano senzafiatare. Finì con unadomanda, alzandoappena il tono di vocesull’ultimasillaba:
«Eleedje kurupududibadi?... Dibadi, akateresce mutju lolo
dibadi?».«Dibadi! Dibadi!...»
gridarono tutti insiemeconentusiasmo.
Nessuno pensò piùall’acquavite e uscironoin strada. In quelmomento passavano deicarri armati, con unfrastuono assordante:erano aperti, carichi diuomini in uniforme.Quelli del magazzino si
riversarono nellacarreggiata,circondarono i blindati evi si arrampicarono, conil ragazzo biondo intesta.Siripetélascenadipoco prima: cominciòuna discussioneanimata, i civili sirivolgevano ai militari,gesticolando. Questiultimi sembravanomolto turbati da
quell’assaltospontaneo,icarri si fermarono edall’interno sbucaronoaltri soldati conl’elmetto. Uno di loro sitolse un auricolaredall’orecchio – dovevaessere il comandante –,alzò il braccio perchiedere silenzio edomandò qualcosa. Glirisposero in centoagitando i berretti, e lui
scesenellatorretta.Dopoqualche istante riemerseconlatestaedissesolo:
«Budjurim».Scoppiarono grida di
gioia, tutti acclamaronoil comandante. Spuntòuna bandiera, anch’essaa bande rosse e nere, etra evviva e applausivenne issata sul primocarro della colonna. Poisi mossero, i cingoli
scricchiolarono,popoloecarri avanzaronoinsieme nella stessadirezione,cheeraancorail palazzo grigio, mastavolta il retrodell’edificio. Trovaronouna gran folla, i militarinon dovevano essereriusciti a sgomberare lazona oppure la gente eraritornata. E anche daquesto lato alle finestre
si affacciavano tanticuriosi,unmistodicivilie militari, com’era nellestrade. Budai cercò dinon perdere di vista ilgiovane biondo,seguendocongliocchilatuta verdastra. Laragazza gobba armata dimitra, invece, non sistaccava da Budai, lotallonava con il suopassosilenzioso.
A quel punto sisentirono degli spari,qualche colpo isolato epoi raffiche. Da dove sitrovava Budai non sicapiva se avesserocominciatodall’internoodall’esterno del palazzo.Forse dall’edificioavevanosparatodeicolpidi avvertimento e gliassedianti avevanorispostocontirimirati,o
viceversa. Ma ormai nonfaceva molta differenza:c’eranocosìtantearmiingiro e il clima era cosìrovente che prima o poile cose sarebberoinevitabilmenteprecipitate. Dovevanoesserci dei tiratori anchesui tetti. Poi al crepitioacuto degli spari simescolò una linea dibasso di esplosioni più
gravi e cupe: erano icannonideicarriarmati.Un pezzo di muro grigiosi staccò e cadde sulselciato, lasciando unampiobucorotondo.
Dall’interno risposerocon raffiche dimitragliatrice chepiovvero come grandinepertuttal’ampiezzadellastrada. Si scatenarono ilpanico e il caos, la
moltitudinesisparpagliòdi colpo, tutti fuggivanoterrorizzati cercandoriparo dove potevano,nei portoni dei palazzi,dietro le auto in sosta, icassonettidell’immondizia, lecolonne per le affissioni,oppure si gettavanoproni davanti ai negozichiusi. Quando lacarreggiata fu deserta,
parecchi giacevano aterra, immobili, oppurestrisciavano tra ilamenti. Una donnaferita piangeva eimplorava aiuto.Dall’altopartìunanuovaraffica.
Il piccolo gruppo alquale Budai si era unitocercòrifugiotraipilastrianneritidalfuocodiunacasa in rovina. Budai
tremavaintuttoilcorpo,ribollivadirabbiadentrodi sé, provava unimpotente desiderio divendetta, sentiva l’odiosalirgli in gola simile aun conato di vomito,urlavainsiemeaglialtriemalediceva il nemicoinvisibile, li chiamavaassassini, assassinisanguinari. Ma allaraffica successiva fu
assalito da un taleterrore che si precipitòcome un pazzo dentroquella casa e, attraversoun dedalo di murifuligginosi, cercòdisperatamenteun’uscita posteriore dacuifuggireilpiùlontanopossibile e non sentirepiùilcrepitiodellearmi.
I resti della casatestimoniavano una
catastrofe precedente,non era stato unsemplice incendioperché l’intonaco nudo eaffumicato erascheggiato dai proiettili;doveva essere statacolpita dalle bombe,dall’artiglieria, da uncombattimentoravvicinato, e alla fineerastataincendiata–main che occasione? Che
cosa era successo? Unassedio, una guerra, unarivoluzione? E chi avevacombattuto,controchi,equando,achescopo?
Aveva quasi trovato ilmodo di uscire: dovevasolo scendere alcunigradini e dopo uncorridoio a cielo apertosarebbestatofuori.Mainquel momento sentì unavoce e qualcuno lo
trattenneperilcappotto.Sivoltòsobbalzando.Erailgiovanebiondo,cheglifececennodiavvicinarsi.Budai si bloccò, noncapiva dove lo stavachiamando e perché. Ilgiovane gli tese unrevolver, poi, vedendoche non reagiva, glieloschiaffò in mano...All’improvviso fuassalito dalla vergogna:
quel gelido sguardogrigio-azzurro gli avevaletto nel pensiero.Avrebbe volutospiegarsi, ma comepoteva, e poi non c’eranemmeno il tempo. Cosìguardò la pistola,soppesandola, e annuìconariaimbarazzata,perdire che sì, va bene, eraconloro.
Giunserofurtivamente
fino alla strada checosteggiava il palazzogrigio, a sinistra dellafacciata principale.Sull’altro lato dellastrada c’era unacostruzione piùmoderna, rotonda, dicolore chiaro, una speciedi torre, e corsero inquella direzione. Unarampa larga quattro ocinque metri si
avvolgevaaspiraleversol’alto, per dieci o dodicipiani:eraunparcheggio,unastrutturamodernaeleggera in grado dicontenere un grannumero di automobili.Nonsimuovevanessunamacchinaalmomento,lastruttura era presidiatada uomini armati comeloro,egliscontriafuocosi erano ormai estesi a
tutta la zona. Sparavanodadovepotevano,dietroil parapetto della rampa,leauto,qualunquepuntooffrisseprotezione.
Salirono lungo il latointerno della rampa,tenendosi più indietrorispettoallepostazioniditiro, poi infilarono dellescale. I combattenti sierano impadroniti delparcheggio, avevano
depositidimunizioni,unserviziodicollegamento,avevano appeso in girocartelli scritti a mano efrecce, e perfinoorganizzato un locale dipronto soccorso per iferiti. Il ragazzo in tutaverde, dopo velociscambi di parole conaltre persone, li guidòall’ultimo piano, e poipiù su, in una specie di
sottotetto a voltemultiple dal quale siaprivano delle piccolebocchette d’aerazioneverso la strada. Daquell’altezza si potevamirareversoilbasso,sultetto del palazzo difronte. La ragazzataciturna dal musoscimmiescosiaccovacciòsubito presso una delleaperture e cominciò a
farefuoco.Del gruppetto
facevano parte anche ilragazzo che si era presolo schiaffo, il baffuto ingiacca di pelle, il vigiledel fuoco con l’elmettorosso e uno dei detenuti.Alla piccola squadraimprovvisata si eranouniti alcuni militaripassati dalla parte degliinsorti e una decina di
civili armati di fucili omitra che dovevanoessersiaggregatilungolastrada.Traloroc’eraunadonna, una nera robustadi una certa età,senz’armi, con un gransorriso allegro stampatosulla faccia larga... Ilcomandante, su questonon c’era dubbio, era ilbiondo in tuta: dirigevala squadra con naturale
autorevolezza e indicavaaognunoisuoicompiti.
Rimasero in quelsottotetto tutto ilpomeriggio e la sera, aspararesulpalazzogrigiodi fronte. Budai nonavevanessunapraticadiarmi da fuoco, e così glimostrarono comefunzionava il revolver ecome si ricaricava, maanche dopo le
spiegazioni sparò allacieca,senzaconvinzione.Le finestre di fronte sieranospopolate,maognitanto riapparivaqualcunoperprenderelamira.Sicapivacheeranotantissimi e di etniediverse, esattamentecome i combattentidell’altro fronte: dunqueilconflittononparevadinaturarazziale.
Accaddero ancoramolte cose quella sera,era difficile nonmescolarle insieme.Spararono,siriposarono,ripresero a spararedandosi il cambio allevarieaperture.Qualcunoportò da mangiare, unaspecie di zuppa di carnespeziata ma dolciastra, edel pane nero dacaserma. Uno dei loro,
un ragazzo in giaccaimpermeabile, venneferitoecaddeall’indietrosbiancandoall’improvviso. Nongridò, ma dalle labbraserrate e dallo sguardoconvulso si capivaquanto stava soffrendo;lo portarono via inbarella.
Budai riuscì anche adormireunpaiod’ore,in
un giaciglio approntatoin un angolo delsottotetto, sopra deitrucioli di plastica. Laragazza dall’aria balordagli rimase appiccicata,ancheinquell’occasione.Non gli parlò – non lasentì mai dire unaparola,chefossedavveromuta? –, si limitò afissarlo conun’espressione ottusa,
con insistenza, sdraiatasu un fianco con ilgomitopuntatoaterra,esenza abbandonare ilmitra:checosavolevadalui? Budai sentiva unastrana inquietudine,anche nel dormiveglia,un torbido senso dicolpa: perché si trovavalì, che cosa ci facevanoinsieme, che cosa potevamaiaveredaspartirecon
una mentecatta delgenere...? Poi gli sembròdi tenerla tra le braccia,di stringerla con cruda eturpe libidine, malgradolo sgradevole puzzo disudore della ragazza e inmezzo al fragoreincessante dellabattaglia. E aveva paurache il giovane in tutaverde lo punisse, checosa sarebbe successo se
li avesse sorpresi inquell’angolo buio? –certo, forse tutto questoerasoloilfruttodellasuaimmaginazione, unaproiezione dei suoiistinti sconvolti edegenerati. Più tardi unboato enorme scosse ilsottotetto, come se fossecadutaunabombaounagranata – o eraun’allucinazione?
Quest’ultima, comepoté constatare, non sel’era inventata: alleprime luci dell’alba,quando abbandonaronoil parcheggio, vide chenei muri si erano aperteenormi crepe, e lamaggior parte delle autoera andata distrutta. Ilpalazzo grigio di fronteaveva subìto danniancorapiùgravi,aiquali
avevano contribuito icannonideicarriarmati:la facciata eraattraversatadaunampiosquarcio, uno degliangoli eracompletamente crollato,e numerose lesioniancora fumanti lodeturpavano.
La sua squadra si recòall’ingresso principaledelpalazzoassediato:era
evidente che gli attacchidei ribelli ormai siconcentravanolì.Ilcarroarmato che proteggeval’ingressodelpalazzoerabruciato, con la torrettapiegata da un lato e icingoli divelti. I piùaudaci lo usavano comecopertura e vi siappostavano dietro persparare; poi, con sforziimmani e voci di
incitamento, riuscironoa smuovere quellapesantemassad’acciaioela spinsero come arietecontro il portonesprangato e crivellato dicolpi, bloccatodall’interno con puntelliesacchidisabbia.
Non cedettefacilmente: il gigantecorazzato ci sbattécontro dieci o quindici
volte, tra le urlad’incoraggiamentogenerale, ma i pesantibattenti di ferro siincurvavano per poitornare com’erano.Lanciarono delle bombeamano, locolpironoconraffiche che produsseroun gran fumo e unrumore assordante, efinalmentefecerosaltareicardini.Quandolanube
di polvere da sparo sidissolse, bastò un’altraspintaeilportonecrollò.Con grida di trionfo lamoltitudinesiaffollòperentrare, esortando quellidelle prime file nellasperanza di trovare vialiberadentroilpalazzo.
Ma il passaggionell’androneerasbarratoda ranghi serrati diuomini in uniforme, la
stessa da una parte edall’altra – o forse c’eraeffettivamente unadifferenzanelle lorotuteo in certi dettagli che luinon riusciva a notare?Come videro lemitragliatrici e i fucilid’assalto gli attaccanti sibloccarono. Budai nonera fra i primi, ma sitrovava abbastanzavicino per avere una
buona visione delcampo. Dall’interno unavoce rauca e quasisoffocata intimòqualcosa, di sicurol’ultimo avvertimento.Ma il fronte degliattaccanti non avrebbepotuto retrocederenemmeno se avessevoluto, poiché alle lorospalle c’era un’orda digente che spingeva per
entrare: a brevesarebberoinevitabilmente finitiaddossoaidifensori...
Un fuoco di fila. Urla,ruggiti, caos. E ordinistrillati, quasi cantati. Epoiunaltrofuocodifila,che passò rasentel’orecchio di Budai. Maera troppo tardi perfermare l’avanzata, lagenteeracomeunfiume
in piena, una correnteinarrestabile chetravolgeva e calpestavatuttoetutti,feriti,morti,difensoriarmati:alterzoordine di fuoco,un’ondata umana crollònell’androne... Il ragazzobiondovicinoalui,tuttoinfervorato e arruffato,fendeva con la rivoltellain pugno il turbine dicorpi mentre con la
mano sinistra facevacenno ai compagni, lichiamava a gran voce,ma nel boato delcombattimento sivedeva solo ilmovimento delle labbra.Budai lo seguiva in unanebbia rossa, in preda auna sorta di ebbrezzanella quale non avevapiù paura di niente,abbandonandosi al
piacere sconosciutodell’assalto,conunasolacertezza: dovevanopassare. Accanto a lui laragazza gobba dal musoscimmiesco si portò lamanoallaspallaecadde,ma Budai non si curò dilei, si buttò in avantinella calca, assalì gliuomini armati di fucili,lottando corpo a corpo eurlando insieme agli
altri, con una vocestrana, che non avevamai sentito uscire dallapropriagola.
Di colpo ci fu uncedimento in avanti e siritrovarono nel piccolocortiledipietra.Avevanosfondato le linee.Quando si voltò aguardare, l’androne eracompletamente invasodalla folla densa e nera
che era dietro di loro: auna simile superiorità dinumero non erapossibile resistere. Idifensori eranoscomparsi, lamoltitudine vittoriosacorrevainebriatasuegiùper l’edificio. C’era unascala in un angolo delcortile, Budai salì dicorsaalprimopiano,poial secondo, eccitato e
curioso di vedere quelche avrebbero trovato,ora che avevanofinalmente raggiuntol’obiettivo. Ma nonc’erano che corridoi eporte, stanze arredatecome uffici, e glioccupanti stavano giàfrugando ovunque,mettevano tutto asoqquadro, rovesciavanole suppellettili e
sparpagliavano idocumenti, il pavimentoera ricoperto di carte. Ilpalazzo pullulava digente, in divisa e inborghese, con o senzaarmi, alcuni erano feritie bendati, e lui nondistinguevapiùfrachisitrovava già dentro e chiera venuto da fuori, ecomunque che cos’eraquel palazzo, e perché
avevano dovutooccuparlo?
Un uomo vennecondotto con violenzalungo il corridoio. Erascortato da due figuriarmati di mitra, i moltiche lo seguivano e quelliche incontrava al suopassaggio cercavano diafferrarlo,diprenderloacalci, a pugni, loinsultavanopienid’odio,
lo minacciavano, gliuomini col mitrafaticavano a difenderlo.Era alto, dal portamentomarziale, con la tuta abrandelli, la testa e lacamicia insanguinate, esi proteggeva gli occhicon il braccio piegato.Una ragazzina esile ebionda, con lunghicapelli d’angelo, si feceagilmente largo
attraverso il cerchio dipersone che locircondava e gli sputò infaccia.
Avevano fatto altriprigionieri e ora listavano portando giùall’ingresso. Una donnaveniva trascinata per icapelli: si dibatteva,lottava con le unghie ecoi denti. Quando lacostrinsero a
inginocchiarsi, lei aprì lebraccia,simiseagridaree a piangere, come achiedere pietà. Lestrapparono di dosso lagonna, poi le mutandinerosa, e così mezza nudala trascinarono giù daigradini.
In quel tumulto ancheBudai si ritrovò sottol’androne, dove erano incorso la vendetta
selvaggiaeiregolamentidiconti:unodopol’altro,uomini e donne, giàmalmenati e incapaci direggersi in piedi,venivano condotti aforza all’ingresso delpalazzo e dati in pasto auna folla assetata disangue e pronta alinciarli. Quello cheBudai non capiva era inbase a che cosa
scegliessero uno o l’altroin quel caos generale. Èvero che la maggiorparte aveva la tuta ditela, ma quella laportavano ancheparecchi tra i giustizieridel popolo; non riuscivaa venire a capo dellaquestione della divisa.Furono consegnati deicivili, delle donne, e poiancoraun’interasquadra
di uomini in uniforme –era evidente che nellascelta interveniva ancheilcaso,oltrechelarabbiadel momento, accusesommarie e una ciecaisteriacollettiva.
Ed era come se lacomposizione deipartecipanti fossecambiata: non vedevapiù in giro quelli con cuiavevacombattuto.Erano
invece comparsi deifiguri loschi chedirigevano le operazionie si distinguevano per laloroferocia.Peresempio,un uomo barbuto conl’aria da farabutto, unafaccia piena di cicatriciche gli sembravastranamente familiare,voleva impiccare unprigioniero. Ilmalcapitato era in fin di
vita, l’avevano mezzospogliato, gli avevanotolto gli stivali, legato lecaviglie e l’avevanoappesoatestaingiùaunlampionenellastrada,difronte al portone, traingiurie, sghignazzi edeliranti grida diincitamento.
Alcuni uomini armatisi stavano peròindignando, erano
evidentemente contrari,avrebbero volutostaccare il corpo dallacorda. Un ragazzodall’aria assennata,probabilmente unostudente, tentava didissuadere le personeintorno a lui dalcommettere altriassassini, mentre facevascudocolsuocorpoaduenere di mezz’età, forse
due donne delle pulizie.Con scarso successo,perché la marmagliainferocitalofischiavaeilbarbuto dalla facciasfregiata lo scostòruggendo:
«Durung!».In quell’istante Budai
lo riconobbe: era il suocompagnodicella,quellaspecie di cantante liricofallito che per tutta la
notte non aveva fattoaltro che parlare; oquantomeno glisomigliava parecchio...Eraunaveracanaglia,uncaporione, provava unpiacere perverso nelcompiere violenze: conuna spranga di ferrocolpì alla nuca unsoldato prigioniero.L’uomo si accasciò aterra e lui gli si buttò
sopra, gli puntò leginocchia sul petto e lotrafisse ripetutamentecon il coltello aserramanico,affondandolo nel collo enei genitali, mentre lavittimascalciavaancora.Poi portarono dellabenzina,glielaversaronoaddosso e gli diederofuoco: il corpo arse finoad annerirsi
completamente,emanando un odore dicarnebruciata.Questafuuna delle tante atrocitàchecommisero.
Nel frattempo eratornatoilgiovanebiondointutaverde.Insiemeadaltri quattro o cinquecompagni si erapresentato fuoridall’edificio, come sequalcuno l’avesse
chiamato. Quandoapparve, i fanaticisanguinarisifermarono,non era chiaro se perchélo consideravano il lorocapo o perché la suamera presenza incutevaun timore reverenziale...Siavvicinòaiprigionieri,che subivano conrassegnazione la lorosorte, scacciò lamarmaglia che li
circondava, sferrò ancheun calcio nel sedere albarbuto,chefinìcolnasoper terra suscitando loscherno generale. Tra iprigionieri scelse quelliindivisaerivolselorounsecco comando:lentamente,controvoglia, gliobbedirono. Li mandòverso il muro, la folla siritrasseeammutolì.
Iprigionierieranounadozzina, gironzolavanoimpacciati sulmarciapiede;moltieranogià feriti, con un braccioappeso al collo, la fronteo la testa fasciate. Unuomo di mezz’età con icapelli brizzolati,elegante malgrado ladivisa strappata,sostenuto da un vicino,fumava quieto la sua
sigaretta e osservavasenza paura la follainferocita. Il giovanebiondo li esaminò consguardo freddo einespressivo, serrando lelabbra.Dopounpo’disseloro qualcosa con vocesommessa, e quellialzarono tutti le braccia.Poi chiese il mitra a unodei suoi compagni, losoppesò, se lo girò tra le
mani, sbirciò perfinodentro la canna. Iprigionieri in uniformestavano lì con le bracciaalzate. Sui loro volti nonsi leggeva paura, mapiuttosto incertezza,imbarazzo, quasi nonsapessero comecomportarsi in unasituazione così strana.Uno di loro si soffiò ilnaso con una mano,
tenendol’altraalzata.Il biondo si voltò di
fianco e aprì il fuocotenendo il mitraall’altezza della vita.Scaricò su di loro unalunga raffica, spostandol’arma da destra asinistra. Gli uominicrollarono l’unosull’altro, molti cadderodi peso, qualcunorantolava fra scatti
convulsi. L’uomo daicapelli brizzolati fece intempo ad aspirarel’ultima boccata e agettarelasigaretta,poisipiegò in ginocchio sulselciato come di suavolontà, lo sguardotorpido, quasi annoiato,e prima di accasciarsimise il braccio sotto latesta. All’estremità delgruppo ce n’erano due
che gemevano ancora,agitati dai sussulti. Congli occhi socchiusi, ilragazzo in tuta verdesparò un’altra raffica inquella direzione. Poi nonsimossepiùnulla.
Quella stessa mattinaBudai assisté ad altre treesecuzioni del genere.All’ultima non funemmeno scosso, riuscìad assistervi dall’inizio
alla fine senza provarenessuna emozione. Sefosse esistito un Dio,pensò stancamente, loavrebbe pregato di nonlasciare che la pietà sispegnesse mai nel suocuore.
Era esausto, avevafame. Vagò per le stradeaffollate: la moltitudineera ancora più densa delsolito, e la gente, in
spasmodica attesa dinuovi eventi, si riunivain capannelli a discutereanimatamente o siassiepava attorno aimprovvisati oratori. Ilcieloerasolcatodaaerei,e da lontano provenivaun fragore incessante ecupo, come se la cittàfosse già sotto assedio.Ogni tanto passavanorombando dei camion
carichidiuominiarmati.Nellestradesicantava,sidistribuivano volantini,e quando appariva unostrillone con i giornalifreschi di stampa venivaletteralmente presod’assalto. I muri eranotappezzati di avvisi, nonsolo manifesti, anchefogli scritti a mano, e inmolti si fermavano aleggerli, aggiungendovi
commenti oaffiggendonealtri.
Più avanti videun’altra zona che avevasubìto danni gravissimi,gli edifici erano in partecrollati, nelle stradegiacevano alti cumuli dimacerie, qua e là lerovine anneritefumavano ancora: quelquartiere doveva esserestato teatro di scontri
violenti. Moltiabbandonavano lepropriecaseconfagottiepacchi, famiglie rimastesenza casa tiravanocarrette cariche dellepoche masseriziescampate alladistruzione. Un follevestito di stracci, con icapelli lunghi e la barbada profeta, camminavainmezzoallacarreggiata
roteando gli occhi eagitando le braccia,urlando ossessivamentelastessaimprecazione:
«Tohoree! Muharee!...Tohoree,muharee!...».
Budai sentiva unanausea indefinibile,aveva lo stomaco strettoin una morsa. Credevafosselafame,maquandoriuscìametterequalcosasottoidenti–compròda
unambulanteunaspeciedi polenta da due soldi abase di farina di mais osimili – , il senso didisgustononsiattenuò.
Nel pomeriggio arrivòla pioggia, unabbondante acquazzoneprimaverile. E quelrombo che si udiva insottofondo si avvicinò,divenne all’improvvisopiù forte, spaventoso. La
gente fu sopraffatta dauno strano terrore, tutticorrevano, siaddossavano ai muri, siinfilavano negli andronie nei negozi scassinatiman mano che ilfrastuono cresceva;gemevano, inveivano, ledonne strillavano epiangevano impaurite.Poco più in là, sul murodi un edificio, avevano
teso fra due finestreun’enorme bandierarossa e nera conl’emblema dell’uccello.Budai e alcuni altripassanti si rifugiarononel negozio di stoviglieall’angolo,edallavetrinaspaccata si disposero aosservare quel che stavapersuccedere.
Arrivarono nuovetruppe a bordo di carri
armati, mezzi corazzati,motociclette, pezzi diartiglieria pesante.Portavano un’uniformediversa: una tenutachiara,quasibianca,euncasco mimetico. Duecarri armati sifermarono proprioall’altezza del negozio,dei soldati sporsero latestafuoridallatorretta,si fecero dei segnali, si
gridarono qualcosa gliuniaglialtri;perBudailaloro parlata era sempreun blaterareincomprensibile.
Il lorobreveconfrontoprodusse il seguenterisultato:preserodimirala grande bandiera sulpalazzo di fronte e senzatanti preambolispararono. Si levò unnuvolone di fumo e
polvere e crollò un belpezzo di muro. Il colposuccessivofecetremareimuri al punto che nelnegozio di stoviglie ipiatti, i vassoi, i vasi e ibicchieri caddero dagliscaffali e andarono inpezzi.
Budai corse fuori arotta di collo. Avevaricominciato a piovere adirotto, in meno di un
minuto si ritrovòbagnato fradicio.Attraversò una zonadove non era mai stato:sembrava un quartiereoperaio, un’infilata dicaseggiatienormietetri,orrendi casermoni coninnumerevoli eminuscolefinestre,eallafineunapiazzalastricatadi forma ovale,contornata dalle case. Le
truppe motorizzateerano già là, giunte daun’altra strada, e lapiazza era gremita digente nonostante lapioggia. Solo in unsecondo momento siaccorse che erano tuttedonne,vecchieegiovani,madri e bambine, sottotantissimi ombrelli, equandosimescolòaloro,per almeno dieci volte
credettedivedereBebe.Le donne si
avvicinarono ai soldatiparlando tutte insieme egesticolando. Ma quellinonrisposero,nemmenouno aprì bocca, rigidicome statue guardavanola pioggia con visiimpenetrabili, le gocceticchettavano sui loroelmetti. A Budai non erachiaro se tacessero
perché parlavanoun’altra lingua e noncapivano, oppure per ildivieto di parlare... Allafine le donne si misero acantare la marcia bennota:
CetectopadebetteEtekglöchrifefeeBügiütignemelagaPecice...!
L’ultima parola lagridarono in tono disfida, con esasperazione,quasiavolerlagettareinfacciaaisoldati indivisabianca;questiultiminonreagirono neppure ora.Nel frattempo lacomposizione della follacominciò lentamente amodificarsi: a poco apoco arrivarono gliuomini. Si avvicinavano
ai carri armati con ariaapparentementeinnocente, come sevolessero solo curiosare,maBudainotòchealcuninascondevanodellearmisotto i cappotti. Siscambiavano sguardid’intesaesimescolavanoalla folla sempre piùnumerosi. Le donne aquel punto, comeseguendo un piano
prestabilito, si ritiraronoconcautela.
Iniziò tutto con unfischio: all’improvviso lapiazza riecheggiò di urlaselvagge, di battaglia.Estratte le armi, gliuomini aprirono il fuocosui carri armati,lanciarono bombe amano e bottiglieesplosive piene di unasostanza strana,
probabilmentefabbricate in casa. Nelcontempo nuovi rinforziusciti dai caseggiati silanciarono nelcombattimento con unadotazione analoga aquella degli altri: adessoerano in diversecentinaia ad attaccare isoldati. Disposti informazioni singolaricorrevano a zigzag,
cambiavanoimprovvisamentedirezione, si gettavano aterra proni, poi sialzavano di scatto perscagliare le bombe e dinuovo si appiattivanosulselciato.
Ma stavolta nonottennero un granrisultato. I carristiscomparvero dentro letorrette corazzate, i
cannoni tuonarono, e lafanteria motorizzatareagì all’attaccoimpiegando armiautomatiche a fuococontinuo. I ranghi degliattaccanti si ruppero, eben presto decine diferiti si contorcevanosulla piazza. I carriarmatisimiseroinmotocon un’agilitàimprevista, e puntarono
versoilfoltodellafolla:icingoli schiacciaronosenza pietà chiunquetrovassero sulla lorostrada, come mostruositritacarne: urla,frastuono rimbombante,la pioggia scorrevasporca e rossa sulselciato.
Budai vide tuttoquesto da una certadistanza, ma fu travolto
dall’angoscia, da unapaurainfernaledimoriree, mentre si lanciava aperdifiato passando inmezzo a vivi e mortiaveva la sensazione diessere inseguito da uncarroarmatocheeralì lìper raggiungerlo estritolarlo sotto il suocorpo d’acciaio. Avevaancoralapistolaintasca,avrebbe voluto
liberarsene, ma nonosava gettarla via pernonattirarel’attenzione.Dall’altro lato dellapiazza ovale scorse unpiccolo padiglione giallocon le colonne, sotto cuisi riparavano in molti, esidiresselà.
Tutti si disperdevano,gli sconfitti scappavanosoprattutto nelle casecircostanti. E
continuavano a sparare,dalle finestre e dalleaperture dei tetti, nonvolevano arrendersi.Allora i soldati conl’elmettosceserodailoromezzi, li inseguirono findentro i palazzi, su per ipiani: la battagliaproseguì nelle case traspari e lampi diesplosioni,semprepiùsufino ai sottotetti. E il
drammagiunseallafine:un corpo precipitòdall’alto e cadde sullastricatoumidoconunoschianto agghiacciante;poi un altro e un altroancora,certigridavanoescalciavanonell’aria,edinuovocorpi,molticorpi,cadevano l’uno sull’altroe giacevano in pozze disangueepioggia.
Era una vista
insopportabile: Budai sifecelargocontuttelesueforze verso l’interno delpadiglione. Fu allora chesi accorse che quellapiccola edicola gialla erauna stazione dellametropolitana. Nell’atriosotterraneo riuscì agettare di nascosto lapistola in un cestino deirifiuti. Una granquantità di persone, in
piedi o sedute per terra,riempiva le scale, icorridoi e le banchine, ela circolazione dei treniera sospesa. Si sentivasolo una voce atonagracchiare senzainterruzioneall’altoparlante. Facevaun caldo asfissiante,l’ariaeraumidapertuttequellepersonefradiciedipioggia, e lui aveva
Sisvegliòbruscamenteallo stesso suono colquale si era assopito: ilgracchiare lontano einstancabiledell’altoparlante. Làsotto non c’eradifferenza tra il giorno ela notte, il viavai eraimmutato, la gentevagava nei corridoioppure dormiva. Sitrascinò fino in
superficie, le porte delpadiglione giallo eranostate chiuse con unaspranga di ferro, non sipoteva né entrare néuscire, dei soldati indivisa bianca armati difucile piantonavanol’ingresso. Attraverso lagrata, nella luce fioca –eral’albaoilcrepuscolo?–, si vedeva solo che lapiazza ovale e le strade
intorno erano deserte, eche ogni angolo erapresidiato dalle guardie:doveva esserci ilcoprifuoco. Decise ditornaregiùadormire.
Quando si svegliò dinuovo,capìdaunrombosotterraneo che lacircolazione era ripresa,e sentì il familiarespostamento d’aria. Lavia verso l’esterno era di
nuovo aperta: fuori iltempo era soleggiato eventoso e il traffico dipedoni e veicolimovimentato comesempre. I morti eranospariti, e le tracce deicombattimenti celate daponteggi e frettoloseimbiancature. Budai simescolò alla folla sulmarciapiede e si diresseal negozio di stoviglie
dove si era rifugiato: levetrine erano statechiuse con assi di legnomalavenditaeraripresa,anche se l’assortimento,così gli parve, era piùscarso di prima. Sullafacciata di fronte, doveera stata cannoneggiatala bandiera, il buco eraschermato con delcanniccio.
Il cambiamento era
ancora più vistoso nelquartieredistruttodacuiavevavistoandarsenegliabitanti rimasti senzacasa. Le rovine eranostate demolite e lemacerie rimosse, ilterreno era statospianato e sembrava unnormale spazioedificabile. Là doveerano state erette lebarricate, non solo le
avevanosgomberate,maavevanoperfinoriparatoil lastricato divelto. Piùoltre, sul grattacielo incostruzione che avevatante volte ammirato, edal quale erano scesi glioperai per unirsi allosciopero, fervevano dinuovo i lavori: adessoerano arrivatiall’ottantunesimopiano.
Tornò nella strada del
palazzo grigio – perespugnarlo si eracombattuto una notteintera. Aveva subìtodanni troppo gravi peressere riparati in pocheore, ma eraimpacchettato daiponteggi, come sedovesse essererestaurato, e le traccedell’assedio eranoinvisibili; davanti al
portone il relitto delcarro armato erascomparso... Se Budainon avesse partecipatoin prima persona aglieventi, dall’aspettoattuale della città nonavrebbe potuto intuirenulla di quanto erasuccesso.
Di fianco al palazzovide un parco: era larecinzionelungolaquale
era fuggito per scapparedai fumogeni. Il beltempo aveva attiratofuoridicasamoltagente,i bambini sirincorrevano sull’erba,qualchebarcadondolavasul laghetto, moltisedevano sulla riva, sierano tolti le scarpe estavanocoipiediamollonell’acqua... Si domandòse rivolte simili non
fossero già avvenute inaltreoccasioni.Ineffetti,le rovine affumicate inmezzo alle quali avevacercato rifugioportavano i segni dibattaglie precedenti.Poteva darsi che questesommosse fossero unfenomeno necessario,una conseguenzainevitabile del modo divivere di quel luogo,
un’esplosione periodicadalla duplice funzione,arginare l’espansionedemograficaeincanalarelarabbia?
Vendevano le solitesalsiccette speziate,aveva abbastanza soldipercomprarseneunpaioe si mise in coda: eranoancora più buone dellealtrevolte.Intornoaluiiragazzi correvano e
giocavano a palla, gliinnamorati siscambiavano baci, e lepersone mangiavano,cantavano, ascoltavanoil mangiadischi a tuttovolume, prendevano ilsole, dormivano,lanciavano sassi inacqua, si godevano labella giornata. Avevanodimenticatocosìinfrettagli scontri e i morti? Gli
pareva un tradimento,ma la cosa non lointristiva. Mentremangiava sdraiatosull’erba, quella loroavida voglia di vivereriempiva anche lui diallegria e di speranza.Adesso si sentiva insintonia con loro, forseera addirittura felice.Appallottolò la cartadelle salsiccette e la
lanciònellaghetto.Fusolodopounpaiodi
minutichesiaccorsechela palla di carta si eramossa sull’acqua.All’iniziopensòchefossestatoilventoaspingerla,manoneracosì:lefogliesulla superficie del lago,le bollicine sotto il pelodell’acqua, i pezzi dellecanne e le algheandavano tutti nella
stessa direzione. L’acquasi muoveva! Lentamente,molto lentamente,scorreva.Provòdinuovo,gettò dei rametti:venivanotrascinatidallacorrente.
La scoperta loemozionò nel profondo,si sentì rinascere. Se eradavverocosì,quell’acquadoveva sfociare daqualche parte... Si avviò
lungo la riva per fare ilgiro del laghetto. Avevauna forma più o menorotonda, con undiametro che nonsuperavaidueotrecentometri. Da un lato unafontana di marmo viriversava il suo getto,poco oltre avevanocostruito una vastaterrazza, con una statuaequestre su un alto
piedistallo che si ergevacontro il cielo sereno. Lebarchette colorate eleggere,dalfondopiatto,cullate sulla superficieincrespata,eranoportateda ragazze e ragazzi cheremavano fra grida digioia.
Trovò lo sbocco dellago dalla parte oppostaalla fontana. Un corsod’acqua attraversato da
due passerelle di legno,un ruscelletto tranquilloche serpeggiava verso ilfolto del parco. Eranoacque basse e lente, illetto era molto stretto,bastavano due passidall’una all’altra sponda,maperpiccoloemodestoche fosse, prima o poisarebbe confluito in unfiume, e il fiume nelmare.Elìavrebbepotuto
trovare un porto, unanave, e sarebbe statolibero di andareovunque!
Non voleva piùpensareall’uomocheerastato fino a cinqueminuti prima, come senon ci fosse più. Ormaidoveva solo seguirequell’acqua senza maiperderla, lungo la riva –altrimenti poteva
affittare una barca, orubarla, insomma se lasarebbe procurata! Glisembravagiàdisentireilrumoredelmare,eilsuoodoreintensoesalato,divedere il blu scintillantee i riccioli delle ondedalle forme semprenuove sul suo specchioin movimento, e igabbianichescendevanoin picchiata... Addio