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Generazioni a confronto nel mercato del lavoro in Italia tra
crisi e mutamenti socio-demografici
di
Eugenia De Rosa
Federica Pintaldi
Mauro Tibaldi
Paper for the Espanet Conference
“Sfide alla cittadinanza e trasformazione dei corsi di vita:
precarietà, invecchiamento e migrazioni”
Università degli Studi di Torino, Torino, 18 - 20 Settembre 2014
Eugenia De Rosa - Istat, Disa, Servizio Istruzione Formazione Lavoro –
Federica Pintaldi - Istat, Disa, Servizio Istruzione Formazione Lavoro –
Mauro Tibaldi - Istat, Disa, Servizio Istruzione Formazione Lavoro – [email protected]
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Generazioni a confronto nel mercato del lavoro in Italia tra crisi e mutamenti
socio-demografici
Eugenia De Rosa, Federica Pintaldi, Mauro Tibaldi*
Istat, Disa, Servizio Istruzione Formazione Lavoro
Introduzione
L’Italia è il secondo paese in Europa con l’indice di vecchiaia più elevato (151,4% nel 2013), un
“debito demografico” nei confronti delle generazioni future elevatissimo, che comporterà anche un
debito finanziario soprattutto in ambito previdenziale e socio-sanitario (Istat, 2014a). I cambiamenti
demografici, congiuntamente al sistema di regolazione del mercato del lavoro e agli assetti di
welfare, contribuiscono a determinare, in Italia come negli altri paesi europei, le opportunità
lavorative e di vita di giovani e anziani, con implicazioni dirette sulla composizione e il ricambio
generazionale della forza lavoro nonché sui rapporti tra generazioni e il benessere della società.
Da un lato la bassa fertilità, il miglioramento delle condizioni di salute e l’incremento della
speranza di vita hanno generato un aumento dell’incidenza della componente anziana sulla
popolazione e una diminuzione di quella più giovane, solo in parte compensata dal fenomeno
migratorio. Dall’altro l’innalzamento del livello d’istruzione, la deregolamentazione del mercato del
lavoro avviatasi a partire dalla seconda metà degli anni Novanta e l’inasprimento dei requisiti per
accedere alla pensione hanno ritardato sia l’entrata sia l’uscita nel mondo del lavoro. Su tale
scenario si inserisce la crisi economico-finanziaria globale del 2008, un fenomeno congiunturale
che riversa i suoi effetti sul mercato del lavoro italiano e sui corsi di vita di uomini e donne, italiani
e stranieri, giovani e anziani. Per tali ragioni, l’invecchiamento della popolazione e quello della
forza lavoro, sebbene fortemente legati, in parte riflettono dinamiche differenti.
Gli elevati e crescenti tassi di disoccupazione giovanile, accompagnati dalla discesa dei
corrispettivi tassi di occupazione, costituiscono per l’Italia come per molti paesi europei
un’emergenza sociale. Molta attenzione è stata posta dagli analisti all’impatto della crisi sulle
dinamiche del mercato del lavoro giovanile (OECD, 2010; Barbieri e Scherer 2008, 2009). Minor
rilievo è stato invece attribuito alla componente matura della forza lavoro e ancor più, come
evidenziato dall’OECD (2013), agli effetti della crisi sui rapporti tra generazioni nell’ambito del
mercato del lavoro1. Ciò a dispetto dell’impegno da parte dell’Unione Europea di diffondere, presso
gli Stati Membri, i paradigmi dell’invecchiamento attivo e della solidarietà intergenerazionale,
ritenuti leve sia per favorire la sostenibilità dei sistemi previdenziali e la coesione sociale sia come
supporto per l’attuazione della strategia “Europa 2020”.
L’importanza di affrontare congiuntamente la questione dei lavoratori giovani e anziani è ancor
più rilevante in un contesto, come quello italiano, caratterizzato da un modello di gestione delle
politiche di welfare di tipo mediterraneo (Ferrera, 1996); la famiglia e le reti di parentela svolgono
ancora un ruolo primario di tutela e, più che attraverso le istituzioni (pubbliche o charities), la
solidarietà tra generazioni passa tradizionalmente tramite la famiglia (Micheli, 2011). Come
sottolineato da diversi autori, anche durante la crisi la famiglia ha rappresentato la principale rete di
sostegno per i più giovani e le donne continuano a farsi carico di responsabilità di cura e assistenza
agli anziani, sebbene con la crescente collaborazione di badanti e lavoratrici straniere.
Gli anni della crisi segnano però un impoverimento dei lavoratori, nonché un cambiamento nella
struttura del reddito familiare. Nel 2013 tra le quasi 4 milioni di famiglie senza occupati, che al loro
* Il testo è frutto di un lavoro comune. Eugenia De Rosa ha redatto l’introduzione e il paragrafo 1, Federica Pintaldi il paragrafo 2 e
le conclusioni, Mauro Tibaldi i paragrafi 3 e 4. Le opinioni espresse sono presentate a titolo personale e non sono attribuibili all’Istat. 1 Da segnalare i lavori dell’IZA (2013); Munnell e Yanyuan Wu (2013); Barbieri e Scherer (2011).
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interno combinano anche la presenza di ritirati dal lavoro e di persone alla ricerca di occupazione,
oltre un terzo vive in condizione di povertà (Istat, 2014, 2014b).
L’intensità e la persistenza della crisi economica coinvolgono gruppi di popolazione che in
passato non erano stati interessati da forme di disagio economico (come gli appartenenti al ceto
medio) e contribuisce a modificare assetti sociali e familiari: si riducono le differenze di genere nel
mercato del lavoro a causa del forte peggioramento della componente maschile e all’aumento delle
donne breadwinner, ovvero le famiglie monoreddito in cui è la donna ad essere l’unica occupata
(Reyneri e Pintaldi, 2013). L’incremento della quota di donne in famiglia, che anziché scoraggiarsi
sono alla ricerca attiva di un lavoro, riflette le strategie familiari messe in campo per fronteggiare la
massiccia riduzione dell’occupazione maschile e il conseguente calo dei redditi disponibili.
La crisi rischia quindi di far saltare un “patto sociale intergenerazionale” che in Italia ha trovato
un caposaldo nella “famiglia zattera” (Micheli, 2011) quale principale ammortizzatore sociale.
Quali sono gli effetti sui lavoratori giovani e maturi nel mercato del lavoro? È possibile parlare di
sostituibilità tra le due componenti della forza lavoro? Il prolungamento dell’età lavorativa degli
anziani rappresenta effettivamente un ostacolo per l’inserimento dei giovani nel mercato del lavoro?
Questi sono alcuni degli interrogativi da cui muove il presente lavoro.
Il paper si articola in quattro parti principali. Analizzando i dati della Rilevazione sulle forze di
lavoro, nella prima parte si fornisce un quadro descrittivo dell’andamento e delle caratteristiche dei
due gruppi di lavoratori negli anni pre-crisi e crisi per valutare i cambiamenti e l’impatto della
congiuntura economica sfavorevole. L’analisi della dinamica del mercato del lavoro degli ultimi
dieci anni viene condotta effettuando una comparazione tra giovani e più adulti, in ottica
intergenerazionale, mettendo in luce alcune delle principali questioni e criticità evidenziate dal
dibattito attuale sul mercato del lavoro.
La seconda e terza parte dell’articolo analizzano più nel dettaglio i due segmenti di popolazione
focalizzandosi in particolare prima sulla fase di ingresso e la permanenza nel mercato del lavoro dei
più giovani, poi sul prolungamento della vita lavorativa e la transizione verso il pensionamento dei
lavoratori più adulti. Per restituire l’eterogeneità del gruppo dei giovani nelle differenti fasi di vita,
l’ingresso nel mercato del lavoro dei giovani (15-34 anni) in Italia, così come il cambiamento della
forza lavoro giovanile (occupati e disoccupati) e la mancata partecipazione al mercato del lavoro
degli inattivi, vengono studiati per fasce di età quinquennali. L’approfondimento sulle classi di età
più mature si concentra invece sui 55-64enni, per i quali sono disponibili anche i dati del modulo ad
hoc europeo della Rilevazione sulle forze di lavoro “Conclusione dell’attività lavorativa e
transizione verso la pensione”, relativo al secondo trimestre del 2012 (Istat, 2013).
Nell’ultima parte dell’articolo si restringe l’osservazione al quinquennio 2008-2013 per indagare
nel dettaglio i cambiamenti, dall’inizio della crisi finanziaria ed economica, nella struttura
occupazionale, per settori e professioni, dei lavoratori giovani e più adulti. Obiettivo è analizzare
l’esistenza o meno di una sostituibilità tra le due componenti della forza lavoro, valutare la
sostenibilità dell’attuale patto intergenerazionale nel mercato del lavoro e di come potrà evolvere
(Micheli, 2011).
1. Lavoratori giovani e lavoratori maturi: l’impatto della crisi
Una prima valutazione degli effetti della crisi sulla partecipazione al mercato del lavoro dei
giovani (15-34 anni) e delle persone in età matura (55-64 anni) è possibile attraverso l’analisi
comparativa, per livelli e tassi, di alcuni dei principali aggregati del mercato del lavoro (occupati,
disoccupati, inattivi)2. Le evidenze empiriche mostrano come nel periodo 2004-2013, i due gruppi
di età siano stati interessati da dinamiche in parte opposte e per certi aspetti speculari.
2 I dati qui utilizzati fanno riferimento alle popolazioni precedenti ai dati definitivi del Censimento generale della popolazione e delle
abitazioni 2011.
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Diminuiscono, nel corso del decennio appena trascorso, i tassi di occupazione dei lavoratori giovani
(si passa dal 52,1% del 2004 al 50,4% del 2008, per arrivare al 40,2% nel 2013) mentre per i
lavoratori maturi l’andamento è tendenzialmente positivo, malgrado la crisi in atto (Figura 1). La
sempre minore presenza di giovani nel mercato del lavoro a cui si accompagna l’aumento
dell’occupazione dei più adulti con almeno 55 anni, non rispecchia solamente un fenomeno
demografico ma riflette anche gli effetti della crisi insieme all’aumento della scolarizzazione, della
flessibilizzazione e le recenti riforme del sistema pensionistico.
Nel decennio 2004-2013 al costante declino dell’indicatore per i giovani tra 15 e 34 anni si
associa l’ascesa progressiva di quello dei 55-64enni, il segmento maggiormente coinvolto dalle
riforme pensionistiche, tanto che nel 2013 il tasso riferito a questa classe di età ha superato quello
dei più giovani. L’analisi declinata per genere da una parte conferma traiettorie specularmente
opposte per fascia di età, dall’altra il tardivo ricongiungimento dell’indicatore per la componente
femminile, generato dal più ampio differenziale esistente tra i due segmenti di popolazione rispetto
a quella maschile.
A livello territoriale emergono traiettorie molto differenti. Nel Nord il ricongiungimento per gli
indicatori maschili è ritardato al 2013 ma rimane il gap a favore del tasso delle 15-34enni rispetto
alle donne più adulte; nel Mezzogiorno, invece, il tasso maschile dei 55-64enni è più elevato di
quello dei giovani fin dal 2005, segnale che in quest’area il modello del male breadwinner è più
radicato; diversamente il sorpasso delle 55-64enni sulle donne più giovani avviene nel 2011, anche
se su livelli molto bassi (intorno al 24%).
Figura 1 – Tassi di occupazione e mancata partecipazione al lavoro di giovani (15-34) e adulti (55-64)
per sesso - Anni 2004-2013 (valori percentuali)
Tasso di occupazione Tasso di mancata partecipazione
60,1
45,543,9
34,742,2
52,9
19,6
33,1
10
15
20
25
30
35
40
45
50
55
60
65
70
2004 2005 2006 2007 2008 2009 2010 2011 2012 2013
15-34 anni Maschi 15-34 anni Femmine
55-64 anni Maschi 55-64 anni Femmine
17,7
32,128,8
38,3
10,7
14,017,0
15,6
0
5
10
15
20
25
30
35
40
45
2004 2005 2006 2007 2008 2009 2010 2011 2012 2013
15-34 anni Maschi 15-34 anni Femmine
55-64 anni Maschi 55-64 anni Femmine
Fonte: Elaborazioni su dati Istat, Rilevazione sulle forze di lavoro
Negli ultimi cinque anni, il tasso di disoccupazione dei 15-34enni aumenta di 11,3 punti
percentuali mentre l’incremento è più contenuto tra i lavoratori più maturi (+2,6 punti percentuali)
colpendo, in entrambe le fasce di età, in misura maggiore gli uomini. Con la crisi la distanza tra il
tasso di disoccupazione dei giovani e quello dei più adulti raddoppia a svantaggio dei primi,
passando da 8,6 a 17,3 punti percentuali.
L’area della disoccupazione, che nel 2013 interessa il 23% dei giovani e il 5,7% dei lavoratori
più adulti sulle corrispondenti forze lavoro, si amplia se si adotta una definizione più estesa e
realistica di disoccupazione che include coloro che presentano un livello di attaccamento al mercato
del lavoro più elevato rispetto agli inattivi non disponibili (Istat-Cnel, 2013). Se insieme ai
disoccupati in senso stretto si includono anche gli individui che pur non cercando attivamente un
lavoro sono disponibili a lavorare si ottiene il tasso di mancata partecipazione al lavoro. Nel 2013 le
percentuali di quanti pur sfiduciati vorrebbero lavorare salgono al 34,9% tra i giovani e al 14,7% tra
i lavoratori maturi. I valori più elevati dell’indicatore riguardano, come per la disoccupazione, le
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donne con divari di genere pari a 6,2 punti percentuali tra i 15-34enni e 1,6 punti tra i 55-64enni. La
definizione estesa di disoccupazione sottolinea in maniera più netta le disparità territoriali: nel 2013
la distanza tra il Mezzogiorno e il Nord supera i 23 punti percentuali mentre lo scarto relativo al
tasso di disoccupazione si attestava su 11,3 punti.
Per meglio indagare in che misura sono cambiate, dal periodo pre-crisi a oggi, le traiettorie
lavorative ed il livello di stabilità-instabilità dei due gruppi di lavoratori, è interessante considerare
congiuntamente alle stime di stock, quelle di flusso. Queste ultime si riferiscono alla popolazione
longitudinale e sono rese possibili tramite le ricostruzioni dei dati longitudinali della Rilevazione
sulle forze di lavoro3 che collegano le informazioni rilevate sugli stessi individui in due diverse
occasioni di indagine, in questo caso a 12 mesi di distanza (Discenza e altri, 2010). Le matrici di
transizione della popolazione giovanile e della popolazione in età più adulta (Tabella 1) per gli anni
2004-05, 2007-2008, 2008-09 e 2012-13, relative al primo trimestre, delineano in che misura la crisi
ha modificato le traiettorie lavorative e le probabilità di transitare tra i diversi status (occupato,
disoccupato e inattivo), approfondendo il quadro sopra delineato.
Tabella 1 - Matrici di transizione della popolazione giovane (15-34) e adulta (55-64) nel I trimestre -
Anni 2004-05, 2007-2008, 2008-09 e 2012-13 (composizioni percentuali)
occupati disoccupati inattivi occupati disoccupati inattivi
occupati 90,5 3,7 5,8 82,7 0,6 16,8
disoccupati 32,3 33,9 33,8 22,4 22,1 55,5
inattivi 10,3 8,7 81,1 1,7 0,6 97,6
occupati 91,9 3,1 5,1 81,3 0,5 18,2
disoccupati 34,0 31,4 34,6 20,8 17,6 61,6
inattivi 12,7 7,2 80,1 2,4 0,8 96,9
occupati 89,7 3,9 6,4 84,7 1,0 14,3
disoccupati 32,3 36,3 31,4 16,8 19,7 63,5
inattivi 9,5 7,8 82,7 2,0 0,5 97,4
occupati 88,6 5,2 6,2 87,0 2,1 10,9
disoccupati 24,5 41,5 34,0 16,0 28,0 56,0
inattivi 8,2 11,4 80,5 2,0 1,4 96,6
2007_t1
2009_t1
2008_t1
2013_t1
2012_t1
15-34 55-64
2005_t1
2004_t1
2008_t1
Fonte: Elaborazioni su dati Istat, Rilevazione sulle forze di lavoro
La recessione economica ha avuto ripercussioni differenti nei due segmenti analizzati. Le
permanenze nell’occupazione si riducono per i giovani mentre aumentano tra i lavoratori più adulti,
tanto che lo scarto tra i due gruppi della probabilità di mantenere lo status di occupato nel periodo
2012-2013 si riduce a 1,6 punti percentuali dai 10,6 punti nel 2007-2008. Questo a fronte di un
netto incremento delle permanenze nella disoccupazione associato, in entrambi i segmenti di età, a
una riduzione delle permanenze nell’inattività.
In particolare, nel 2012-2013 per i lavoratori tra i 55-64 anni, complice l’innalzamento dell’età
pensionabile, si riducono le transizione dall’occupazione verso l’inattività anche rispetto al 2008-
2009, a vantaggio sia di una maggiore permanenza nell’occupazione (+2,3 punti percentuali) sia di
una transizione più rilevante verso la disoccupazione (+1,1 punti). Appare allarmante
l’intrappolamento nella disoccupazione dei giovani che cresce dal 33,9% del 2004-05 al 41,5% del
2012-13, a cui si accompagna un aumento della probabilità di perdere il lavoro che per gli anni
2012-13 è più che doppia rispetto a quella sperimentata dai 55-64enni (5,2% contro il 2,1%). La
probabilità di trovare un’occupazione decresce anche tra i disoccupati di 55-64 anni (dal 22,4% del
periodo 2004-05 al 16%), il che indica anche per questo gruppo una difficoltà di inclusione o
3 Per popolazione longitudinale si intende la popolazione che mantiene la residenza nello stesso comune per tutto il periodo
considerato. Tale popolazione viene calcolata come la popolazione residente a inizio periodo (esclusi gli individui che fanno parte di
convivenze), al netto dei morti e dei cambi di residenza verso altri comuni e/o verso l’estero.
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ricollocazione lavorativa. Peraltro, nel periodo di crisi l’incremento della probabilità di permanere
nella disoccupazione è più elevata tra i lavoratori maturi (+8,3 punti percentuali rispetto al 2008-09
a fronte del +5,1 dei giovani).
2. La difficile condizione dei giovani 15-34enni
L’impatto della crisi economica degli ultimi cinque anni è stato particolarmente intenso sui
giovani: a fronte della significativa riduzione degli occupati sono aumentati in misura considerevole
i disoccupati e le forze di lavoro potenziali, ovvero l’insieme di soggetti che mostrano una vicinanza
al mercato del lavoro4, tra i quali molti non cercano più attivamente perché scoraggiati dalla
possibilità di trovare un impiego. In particolare, dal 2008 al 2013 gli occupati diminuiscono di 1
milione 803 unità mentre i disoccupati e le forze di lavoro potenziali aumentano di 808 mila unità.
Suddividendo la popolazione giovanile in sotto-gruppi per classi di età è possibile individuare
come le diverse fasi del ciclo di vita influenzino in modo determinante il rapporto con il mercato del
lavoro. In primo luogo, tra i 15 e i 24enni su un totale di 6 milioni di persone oltre il 90% vive
ancora in famiglia, tra i 3 milioni e 355 mila 25-29enni inizia a essere più frequente andare a vivere
da soli o formare una famiglia, mentre tra i quasi 4 milioni di 30-34enni oltre il 40% è rappresentato
da genitori. A ciò si accompagna una varietà nelle traiettorie lavorative dei 15-34enni, legata anche
alle differenze di genere, cittadinanza e dei contesti territoriali caratterizzati da sistemi locali del
lavoro che offrono disuguali opportunità (Figura 2).
Figura 2 - Giovani (15-34 anni) per condizione occupazionale e classe di età - Anni 2004, 2008, 2009 e
2013 (composizioni percentuali)
76,480,1 82,5 84,7
31,8 35,4 36,5 36,4
9,4 10,2 11,5 12,0
1,7 2,1 1,9 2,0
5,75,0
4,24,4
7,76,4 6,7 8,1
9,8 9,5 9,6 10,6
11,1 10,4 10,9 11,0
3,53,9 4,0
3,7
6,18,1 8,7
10,1
6,5 8,0 8,49,7
6,0 7,0 7,8 9,2
5,03,8 3,7
4,6
11,49,2
10,9
16,6
9,8 7,99,3
15,0
6,7 5,9 6,811,1
9,5 7,2 5,6 2,7
43,0 40,9 37,128,8
64,5 64,3 61,252,8
74,5 74,7 72,566,7
2004 2008 2009 2013 2004 2008 2009 2013 2004 2008 2009 2013 2004 2008 2009 2013
15-19 20-24 25-29 30-34
Occupato Disoccupato Forze di lavoro potenziali Non cerca non disponibile Studente
Fonte: Elaborazioni su dati Istat, Rilevazione sulle forze di lavoro
Nella classe dei 15-19enni prosegue la tendenza, già avviatasi prima della congiuntura
economica sfavorevole, all’allungamento dei percorsi di istruzione: gli studenti passano dal 76,4%
del 2004 all’80,1% del 2008 e all’84,7% del 2013; al contempo, si riducono gli occupati ma
rimangono abbastanza stabili le percentuali di disoccupati e di forze di lavoro potenziali.
Diversamente, per i 20-24enni negli anni della crisi si arresta quasi del tutto la crescita degli
studenti (dal 35,4% del 2008 al 36,4% nel 2013), aumenta quella di disoccupati o forze di lavoro
potenziali (dal 17,3% al 26,7%) e si riduce fortemente la quota degli occupati, ossia il tasso di
occupazione (dal 40,9% al 28,8%).
4 Si tratta dell’aggregato composto da coloro che pur non cercando attivamente un lavoro sono disponibili a lavorare e da coloro che
non sono subito disponibili ma hanno effettuato una ricerca di lavoro nell’ultimo mese.
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Particolarmente critica anche la condizione dei 25-29enni, i giovani più spesso coinvolti nella
fase di transizione tra gli studi universitari e il lavoro, per i quali si segnala la forte riduzione del
tasso di occupazione (-11,6 punti percentuali dal 2008) e la sempre più elevata incidenza della
disoccupazione e delle forze di lavoro potenziali sul totale della popolazione di riferimento, che nel
2013 arriva al 24,7% (8,8 punti percentuali in più rispetto al 2008).
Anche i giovani adulti di 30-34 anni, nel quinquennio presentano una diminuzione del tasso di
occupazione in concomitanza all’aumento di quanti cercano lavoro con varia intensità, in
particolare i disoccupati in senso stretto, e senza significative variazioni della quota di studenti e
degli inattivi a cui non interessa lavorare.
In relazione al genere, malgrado le donne presentino una percentuale di laureate decisamente più
elevata dei coetanei (27,2% rispetto a 17,7% nella classe di età 30-34 anni), con un divario quasi
raddoppiato nell’ultimo decennio, le difficoltà di inserimento nel mercato del lavoro diminuiscono
molto lentamente ponendo una questione di insostenibilità sociale e di mancata valorizzazione del
capitale umano femminile, soprattutto nel Mezzogiorno dove la situazione è più critica. Difatti, in
tutte le classi di età le giovani sono molto meno occupate dei coetanei maschi, sebbene siano simili
le percentuali di disoccupate e di forze di lavoro potenziali, cioè di coloro che vorrebbero lavorare.
Le donne dopo i 24 anni presentano anche una significativa quota di inattive che non cercano lavoro
e non sono disponibili, soprattutto a causa delle difficoltà di far fronte al compito di cura dei figli
(Figura 3). Pertanto, tra le giovani generazioni la nascita di un figlio costituisce ancora un ostacolo a
partecipare al mercato del lavoro, spingendo molte madri a non cercare attivamente un’occupazione
e spesso neppure a essere disponibile a un’eventuale proposta di un impiego.
Figura 3 – Giovani (15-34 anni) per condizione occupazionale, genere e cittadinanza – Anno 2013 (composizioni percentuali)
83,0 86,5
32,240,8
11,3 12,71,8 2,3
4,24,6
6,2
10,1
5,0
16,2
3,5
18,7
4,33,0
10,3
9,9
8,8
10,6
7,0
11,4
5,1 4,1
18,3
14,8
15,2
14,8
11,8
10,4
3,3 1,9
33,024,4
59,7
45,8
75,9
57,3
Maschi Femmine Maschi Femmine Maschi Femmine Maschi Femmine
15-19 20-24 25-29 30-34
Occupato Disoccupato Forze di lavoro potenziali Non cerca non disponibile Studente
85,378,2
38,8
15,1 13,63,0 2,3 0,7
4,3
5,6
7,3
15,69,1
18,99,9 16,2
3,64,1
10,1
10,2
9,8 9,3
9,28,9
4,28,4
16,1
20,9
15,2 13,8
11,011,5
2,6 3,7
27,738,2
52,4 55,0
67,562,7
Italiani Stranieri Italiani Stranieri Italiani Stranieri Italiani Stranieri
15-19 20-24 25-29 30-34
Occupato Disoccupato Forze di lavoro potenziali Non cerca non disponibile Studente
Fonte: Elaborazioni su dati Istat, Rilevazione sulle forze di lavoro
La crisi ha colpito anche la popolazione straniera, sempre più presente tra le giovani generazioni
(dal 9,1% del 2008 al 13,2% del 2013), soprattutto nelle fasce più adulte, fino ad arrivare
nell’ultimo anno al 17,3% per i 30-34enni. Il titolo di studio conseguito dai giovani stranieri è
inferiore a quello dei coetanei italiani e il loro inserimento nel mercato del lavoro spesso avviene
prima, anche per la presenza di maggiori responsabilità familiari: oltre un terzo dei giovani stranieri
ricopre il ruolo di genitore (36,9% rispetto al 15,1% degli autoctoni) e più raramente quello di figlio
(31,5% in confronto al 72,1% degli italiani).
Nei cinque anni della crisi la forte diminuzione della quota di occupati tra i giovani stranieri (dal
58,5% del 2008 al 47,1% del 2013) si associa all’aumento di quella di disoccupati e di forze di
lavoro potenziali (rispettivamente +7,1 e +3,4 punti percentuali dal 2008) mentre l’incidenza di
quanti continuano gli studi è quasi la metà paragonata a quella degli italiani. In particolare, se per i
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15-19enni anche tra gli stranieri è molto alta la quota di studenti (78,2% in confronto a 84,7% gli
italiani), tra i 20-24enni scende a meno della metà degli italiani. La maggiore presenza degli inattivi
più lontani dal mercato del lavoro e non inseriti in un percorso di studio è dovuta soprattutto ai
maggiori carichi familiari delle donne straniere (il 47,9% sono madri, percentuale che scende al
20,4% per le italiane).
I forti divari territoriali divengono drammatici al crescere dell’età, in quanto la bassa presenza di
occupati si associa sempre più all’alta percentuale di disoccupati e di forze di lavoro potenziali: se
nella fascia di età 20-24 anni la quota di occupati nel 2013 scende dal 37,2% del Nord al 20,2% del
Mezzogiorno, in quella 25-29 anni l’indicatore passa dal 67,0 al 35,3% e tra i giovani adulti dal
78,8 al 48,5% (Figura 4). Inoltre, a eccezione dei 15-19enni, nel Mezzogiorno l’incidenza di
disoccupati e forze di lavoro potenziali è superiore a un terzo dei giovani per tutte le classi di età,
mentre nel Nord scende al crescere dell’età, dal 19,4% per i 20-24enni all’11,7% dei 30-34enni;
nelle regioni meridionali e insulari, peraltro, la bassa partecipazione è testimoniata anche dalla più
alta quota di inattivi che non cercano e non sono disponibili a lavorare, condizione che riguarda in
particolar modo le giovani donne poco istruite e con figli piccoli.
Figura 4 – Giovani (15-34 anni) per condizione occupazionale e ripartizione geografica – Anno 2013 (composizioni percentuali)
86,3 87,481,7
36,5 38,835,2
7,913,2 15,9
1,1 2,0 3,2
3,5 3,6
5,7
7,07,9
9,3
9,5
9,5
12,2
8,5 9,1
15,2
1,92,7
6,1
5,3
7,116,3
4,3
6,9
16,9
4,26,4
16,8
4,64,1 4,8
14,1
16,9
19,0
11,3
13,3
19,8
7,4
10,0
16,2
3,7 2,2 1,8
37,2
29,3
20,2
67,0
57,1
35,3
78,872,4
48,5
Nord Centro Mezzogiorno Nord Centro Mezzogiorno Nord Centro Mezzogiorno Nord Centro Mezzogiorno
15-19 20-24 25-29 anni 30-34 anni
Occupato Disoccupato Forze di lavoro potenziali Non cerca non disponibile Studente
Fonte: Elaborazioni su dati Istat, Rilevazione sulle forze di lavoro
A dispetto del luogo comune – sempre più diffuso in Italia – che non serve proseguire gli studi, il
livello di istruzione conseguito riveste un ruolo molto importante per la partecipazione al mercato
del lavoro: nel 2013 il tasso di occupazione dei 30-34enni, pari al 76,0% per i laureati e al 70% per i
diplomati, è decisamente basso per i meno istruiti scendendo al 54,4% per i giovani che possiedono
al massimo la licenza media. Il fattore istruzione è determinante soprattutto per le donne: è occupata
il 73,6% delle laureate tra 30 e 34 anni a fronte del 37,5% delle coetanee con al massimo la licenza
media; nel Mezzogiorno il già ridotto tasso d’occupazione per le giovani con un basso livello di
istruzione è due volte e mezzo inferiore a quello delle laureate. Peraltro, i divari con i coetanei
maschi diminuiscono al crescere del titolo di studio conseguito.
Focalizzando l’attenzione sui disoccupati, la durata media della ricerca di lavoro è lunga e
aumenta nel corso degli ultimi anni: da 17 mesi nel 2008 a 19 mesi nel 2013. Non vi sono
particolari differenze di genere, mentre è molto forte il divario territoriale: in media i giovani del
9
Mezzogiorno stanno cercando lavoro da circa due anni, in confronto a 15 mesi nel Centro e 13 mesi
al Nord. È evidente la distanza dall’obiettivo stabilito dalla “Garanzia Giovani” che prevede
l’offerta di un’occupazione da 4 mesi dall’inizio della disoccupazione. Più in particolare, la ricerca
di lavoro dura meno di 4 mesi per il 21,8% dei disoccupati, a fronte del 40,6% (+10,8 punti
percentuali dal 2008) per i quali la ricerca di lavoro è iniziata da almeno 12 mesi. Nel complesso,
643.000 giovani sono in cerca di un impiego da almeno un anno, concentrati nel Mezzogiorno, dove
il fenomeno riguarda quasi la metà dei disoccupati 15-34enni.
Se tra i 15-24enni è più frequente chi è in cerca di prima occupazione (62% dei disoccupati),
all’aumentare dell’età diventa prevalente la quota di coloro che hanno precedenti esperienze
lavorative (65% e 78%, rispettivamente per i 25-29enni e i 30-34enni). Inoltre, la maggioranza dei
giovani disoccupati fino all’età di 24 anni risiede ancora nella famiglia di origine, mentre nelle altre
fasce di età aumenta il rischio che la mancanza di lavoro si associ alla presenza di responsabilità
familiari e a situazioni di disagio economico.
La ricerca di lavoro più spesso avviene con modalità informali – la richiesta a parenti e amici,
l’invio di curricula, la ricerca su internet e la consultazione di giornali – piuttosto che attraverso
canali di intermediazione. L’utilizzo di agenzie, soprattutto private, è molto più diffuso nelle regioni
settentrionali in confronto a quelle meridionali, il che segnala una minore efficienza nel
Mezzogiorno delle istituzioni pubbliche preposte a favorire l’incontro tra domanda e offerta di
lavoro, nonché una minore presenza delle agenzie private (Figura 5). Negli anni le modalità di
ricerca di lavoro rimangono abbastanza simili, a eccezione della forte crescita nell’uso di internet,
che nel 2013 riguarda quasi due terzi dei giovani; diversamente, diminuiscono le domande e le
prove di concorso (dal 16,2% del 2004, al 15,5% del 2008 e al 7,8% del 2013), conseguenza delle
ridotte possibilità offerte dal settore pubblico.
Figura 5 - Giovani disoccupati di 15-34 anni per azione di ricerca per trovare lavoro e ripartizione
geografica - Anno 2013 (valori percentuali)
0,0 10,0 20,0 30,0 40,0 50,0 60,0 70,0 80,0 90,0
prove concorso
domanda concorso
agenzia interinale
risposto/messo inserzioni su giornali
centro per l 'impiego
colloquio lavoro
consultato offerte su giornali
internet
inviato curriculum
amici e conoscenti
Nord Centro Mezzogiorno
Fonte: Elaborazioni su dati Istat, Rilevazione sulle forze di lavoro
Le difficoltà dei giovani non si esauriscono nella fase di ingresso nel mercato del lavoro. La
probabilità che nel 2012-2013 un lavoro temporaneo si trasformi in uno a tempo indeterminato è
particolarmente ridotta (Istat, 2014a). Il tutto avviene contestualmente a un incremento del lavoro a
termine, in particolare quello a tempo parziale, che diventa la forma contrattuale prevalente tra i
nuovi ingressi nell’occupazione.
Processi e forme di impoverimento sono legate quindi non solo alla disoccupazione, ma anche
agli effetti di un ingresso “fragile” nel mercato del lavoro (Plantenga, Remery, Samek Lodovici
10
2012); oltre alle difficoltà legate alla fase di transizione scuola-lavoro, una volta entrati nel mondo
del lavoro i giovani si trovano spesso a dover affrontare condizioni lavorative caratterizzate da
instabilità e sottoqualificazione associate a incertezza nelle prospettive di carriera e scarsa
protezione sociale (Di Nicola, della Ratta-Rinaldi, Ioppolo, Rosati, 2014). La crisi fa sentire i suoi
effetti non solo sui livelli di occupazione, disoccupazione e inattività ma anche sulle condizioni di
lavoro, sul potere dei lavoratori di negoziare e difendere i propri diritti, sulla facilità o meno di
conciliare i compiti di cura con il lavoro, sul senso della progettualità e sulla percezione del proprio
futuro. Il tasso di occupazione cela dunque una molteplicità di percorsi e un’eterogeneità di
condizioni lavorative tali che non tutti i lavori si possono qualificare come dignitosi.
3. Gli adulti 55-64enni tra partecipazione al mercato del lavoro e pensione
L’invecchiamento della popolazione fa emergere questioni importanti riguardo sia ai riassetti che
investono il mercato del lavoro, anche in un’ottica generazionale, sia alla sostenibilità dei sistemi
pensionistici e assistenziali. Se una delle poche note apparentemente positive del periodo di crisi
economica consiste nell’incremento della partecipazione della popolazione più adulta, soprattutto
sul versante dell’occupazione, nondimeno l’aumento della disoccupazione in uno scenario come
quello italiano caratterizzato sempre più dal contenimento del debito pubblico, che ha stimolato le
recenti riforme previdenziali e il generale riassetto del sistema di welfare, suscita forti
preoccupazioni sulle prospettive future dei disoccupati ultracinquantenni.
Più in particolare, l’aumentata partecipazione della fascia più adulta (55-64 anni) è dovuta
all’interagire di più fattori. Il primo è di natura strutturale, a seguito del progressivo invecchiamento
della popolazione, che influenza in maniera diretta la struttura dell’occupazione: la generazione dei
baby boomers (nata tra gli anni Cinquanta e gli anni Sessanta) ha superato in gran parte i 50 anni,
ingrossando così le fila delle classi di età adulte. Inoltre, il raggiungimento di livelli d’istruzione più
elevati da parte dei baby boomers ha stimolato una maggiore partecipazione, specie nella
componente femminile. Altro fattore, di certo non meno importante, riguarda le riforme
previdenziali degli ultimi anni che hanno innalzato l’età media di pensionamento, condizionando
per via normativa la partecipazione al mercato del lavoro delle classi più adulte. Questo trend
ascendente si è intensificato a partire dal 2011, sostenuto prima dalle norme previdenziali entrate in
vigore quell’anno, poi dalle regole introdotte dalla successiva riforma pensionistica (legge
214/2011, cosiddetta riforma Fornero5). Un esame puntuale sugli individui di 60 anni, età critica per
l’uscita dal lavoro specie sul versante femminile, rivela che tra il 2008 e il 2013, nonostante la crisi
economica, il tasso di occupazione è passato dal 25,8 al 42,8%, segnalando una netta accelerazione
dal 2011, con l’indicatore maschile che è arrivato a sfiorare il 52% e quello delle donne più che
raddoppiato (dal 15,8 al 34,4%).
Per le ragioni appena esposte, gli occupati 55-64enni sono cresciuti ininterrottamente, anche
negli anni della crisi, in controtendenza rispetto alle altre fasce di età. Nel periodo 2004-2013
questo gruppo ha segnalato un incremento del 51,3% (1 milione 87 mila unità in più, di cui 180
mila nell’ultimo anno), a fronte della riduzione del -30,8% dei 15-34enni (-2 milioni 366 mila
unità). Tale risultato, peraltro, può essere giustificato solo in misura parziale dalle differenti
traiettorie demografiche registrate nel periodo da questi due segmenti di popolazione (+8,2 e -
10,4%, rispettivamente).
5 Nel 2011 l’età minima per accedere alla pensione di anzianità con almeno 35 anni di versamenti contributivi è passata a 61 anni (62
anni per i lavoratori autonomi), contestualmente è stata introdotta la cosiddetta finestra mobile, che prolungava la permanenza al
lavoro degli individui che avevano maturato i requisiti anagrafici e contributivi per accedere alla pensione (12 mesi per i dipendenti,
18 mesi per gli autonomi). La riforma Fornero ha poi abolito di fatto le pensioni di anzianità e inasprito i requisiti anagrafici e
contributivi.
11
Nel 2013, tuttavia, l’Italia si colloca ancora tra i paesi europei con un più ampio bacino di
lavoratori anziani in età lavorativa non utilizzati. È soprattutto il basso tasso di occupazione delle
donne di 55-64 anni, legato principalmente alla quota di coloro che non sono mai entrate nel
mercato del lavoro, a determinare per tutto il decennio un gap di genere più elevato tra gli anziani
che tra i giovani. E’ anche vero che il peggioramento della situazione degli uomini nel mercato del
lavoro negli anni della recessione ha contribuito a ridurre parzialmente il gap: il rilevante apporto
alla tenuta dell’occupazione femminile negli anni della crisi è dovuto proprio alle donne over 50,
oltre che alle lavoratrici straniere.
Gli ancor bassi livelli di occupazione dei lavoratori più maturi e l’elevato gender gap (-19,7
punti percentuali), se da una parte sono il riflesso del ricorso massiccio in passato al pensionamento
anticipato (Leombruni e Villosio, 2006; Blondal e Scarpetta, 1998 e 1999), dall’altra evidenziano
rischi di marginalizzazione ed esclusione di alcuni segmenti di popolazione matura che non hanno
mai lavorato o hanno sperimentato percorsi frammentati.
Anche i dati longitudinali, riferiti al periodo 2008-2013, confermano l’accresciuta permanenza
nell’occupazione e la contestuale riduzione dei flussi di transizione verso l’inattività (e la pensione)
degli occupati tra 55 e 64 anni (Figura 6). L’intensità di queste dinamiche è stata più forte per la
componente femminile, che tra il 2008 e il 2013 ha risentito in misura maggiore delle modifiche
introdotte in materia previdenziale, mentre le transizioni verso la disoccupazione – seppure non
elevate – crescono soprattutto per gli uomini. A livello territoriale, invece, il Nord ha sperimentato
la riduzione più forte dei flussi in uscita verso l’inattività, dimezzatisi nel periodo considerato (dal
20,5% al 10,2%). Quest’area, infatti, si caratterizzava per l’alta concentrazione di pensioni di
anzianità (o anticipate) a motivo delle maggiori opportunità occupazionali che consentivano
ingressi anticipati nel lavoro e carriere contributive senza interruzioni. Pertanto, l’inasprimento dei
requisiti previdenziali ha inciso in misura maggiore in questa parte del paese.
Figura 6 - Permanenza e flussi in uscita degli occupati di 55-64 anni nel I trimestre – Anni 2007-2008 e
2012-2013 (composizioni percentuali)
87,0
81,3
85,9
78,4
87,7
82,9
2,1
0,5
1,2
0,3
2,6
0,6
10,9
18,2
12,8
21,2
9,7
16,5
0,0 10,0 20,0 30,0 40,0 50,0 60,0 70,0 80,0 90,0 100,0
TOTALE
TOTALE
Femmine
Femmine
Maschi
Maschi
20
12
-
20
13
20
07
-
20
08
20
12
-
20
13
20
07
-
20
08
20
12
-
20
13
20
07
-
20
08
Permanenza occupazione Disoccupati Inattivi
Fonte: Elaborazioni su dati Istat, Rilevazione sulle forze di lavoro
Con riferimento alle conseguenze nel mercato del lavoro, il modulo ad hoc europeo
“Conclusione dell’attività lavorativa e transizione verso la pensione”, inserito nel secondo trimestre
2012 all’interno della Rilevazione sulle forze di lavoro6, ha avuto l’obiettivo di ampliare il
patrimonio informativo disponibile riguardo a percorsi, tempi e modalità di ritiro dall’attività
lavorativa per monitorare la partecipazione al mercato del lavoro della popolazione più adulta (50-
69 anni). In particolare, è stato possibile analizzare due aspetti che risultano cruciali all’interno delle
6 Si veda Conclusione dell’attività lavorativa e transizione verso la pensione, Statistica Report, Istat 2013,
http://www.istat.it/it/archivio/107416
12
politiche di active ageing: la transizione graduale verso il pensionamento e il prolungamento della
vita lavorativa (Isfol, 2012; Scarpetti e Sandomenico, 2011).
Il passaggio dal lavoro alla pensione rappresenta un cambiamento importante nella vita degli
individui, perché occorre rimodulare la propria condizione esistenziale e adattarsi al nuovo ciclo di
vita. Sarebbe quindi auspicabile una transizione graduale verso il pensionamento, per quanto in
Italia lo stacco appare netto: nel 2012 tra gli occupati di 55-69 anni solamente il 3,5% (116 mila
unità) ha ridotto l’orario di lavoro in vista della pensione, una quota in diminuzione rispetto al
modulo ad hoc del 2006 e lontana dalla media europea (6,4%).
Il prolungamento dell’attività lavorativa è uno dei punti cardine delle politiche di
invecchiamento attivo anche sul piano della sostenibilità finanziaria del sistema previdenziale.
Tuttavia, in relazione alle intenzioni future degli occupati di 50-69 anni che ancora non beneficiano
di una pensione da lavoro (6 milioni e 253 mila unità), i risultati non appaiono incoraggianti:
iniziata a percepire la pensione, il 62% degli intervistati intende smettere di lavorare, quasi un
quarto non ha preso ancora una decisione e poco meno del 15% intende restare in attività, con le
donne maggiormente propense a uscire subito dal lavoro, probabilmente perché pressate dagli
impegni di cura verso due distinte generazioni, nipoti e genitori anziani. Tali risultati, del resto,
sono coerenti con il fenomeno del pensionamento anticipato che finora ha caratterizzato il nostro
paese. Dai risultati del modulo ad hoc, infatti, quasi tre quarti degli inattivi 60-69enni che
percepiscono una pensione da lavoro si è ritirata prima (pensione di anzianità) dell’età normalmente
prevista dalla norme vigenti nel tempo (pensione di vecchiaia), un primato tra i paesi europei, con la
media Ue27 che si attesta al 39%. Come già sottolineato, l’incidenza più alta si registra nelle regioni
settentrionali con il 79,4% di ritiri anticipati, a fronte di una quota del 66,3% nel Mezzogiorno, area
in cui risulta più arduo entrare nel mercato del lavoro nonché poter costruire una carriera non
discontinua.
Il prolungamento dell’attività lavorativa verificatosi nell’ultimo decennio, tuttavia, è stato
accompagnato dalla crescita della disoccupazione. Lo spostamento in avanti del traguardo
pensionistico e la scarsità di risorse e misure dedicate a questo segmento di popolazione più adulta,
sovente con carichi familiari, rischiano di trasformare questa condizione temporanea in un dramma
sociale. Oltre che sul versante giovanile, si è aperto un altro fronte critico, nonostante sia di minore
ampiezza: nel 2013 i disoccupati con almeno 55 anni superano le 200 mila unità, più che
raddoppiati rispetto al 2004. Ma le note negative emergono a livello qualitativo più che
quantitativo: l’ampia maggioranza dei disoccupati ricopre il ruolo di genitore, in sette casi su dieci
sono uomini, e circa due terzi possiede al massimo la licenza media, una quota doppia rispetto ai
giovani (Figura 7).
Figura 7 – Disoccupati per classe di età e alcune caratteristiche – Anni 2004 e 2013 (incidenze
percentuali)
0,0
10,0
20,0
30,0
40,0
50,0
60,0
70,0
80,0
15-34 anni 55 anni e
più
15-34 anni 55 anni e
più
15-34 anni 55 anni e
più
lic. media ex-occupati lunga durata
2004 2013
Fonte: Elaborazioni su dati Istat, Rilevazione sulle forze di lavoro
13
Inoltre, la quota dei disoccupati di lunga durata (in cerca di occupazione da 12 mesi o più) è
arrivata al 61,6%, contro il 53,7% dei più giovani. Lo scarso incremento di questa componente
durante il periodo, peraltro, testimonia la cronica difficoltà dei disoccupati più adulti a reinserirsi
nel mercato del lavoro, visto che tre quarti di loro sono ex-occupati. Il nuovo scenario disegnato
dalle riforme previdenziali, del lavoro (legge 92/2012) e degli ammortizzatori sociali (Aspi)7 in un
contesto di crisi perdurante, rischia di trasformarsi in un vicolo cieco per i disoccupati maturi,
sospesi per anni tra ricerca di un lavoro, indennità ridotte e miraggio della pensione. D’altra parte, il
nostro paese non sembra dotato nemmeno di un efficace sistema di formazione e qualificazione per
sostenere il ricollocamento sul mercato del lavoro di questa fascia di popolazione, poiché le misure
adottate a favore di questo target si limitano prevalentemente all’erogazione di incentivi economici8.
In sostanza, malgrado i segnali positivi degli ultimi anni, l’invecchiamento della popolazione e la
bassa partecipazione al mercato del lavoro delle persone in età matura, rischiano di minare
l’equilibrio dei conti pubblici e previdenziali. A tale riguardo le politiche di invecchiamento attivo
nel nostro paese appaiono ancora insufficienti, nonostante da anni siano al centro dell’attenzione e
delle raccomandazioni delle organizzazioni internazionali9.
4. Generazioni a confronto nel mercato del lavoro
Come descritto, la crisi economica ha prodotto effetti diversi sulla vita di giovani, adulti e
anziani. Ha accentuato l’importanza delle risorse familiari e territoriali su cui è possibile far
affidamento, modificato le condizioni economiche e le prospettive di vita, ampliato il rischio di un
peggioramento della condizione dei figli rispetto a quella dei genitori (Schizzerotto, 2013), nonché
accresciuto le probabilità di cadere in condizioni di povertà degli anziani di oggi e di domani.
La flessibilità in Italia è stata introdotta ai margini, a discapito principalmente delle coorti più
giovani in entrata nel mercato del lavoro. Nel confronto con le altre classi di età, infatti, l’incidenza
del lavoro precario per i 15-34enni è più elevata e aumenta negli anni mentre le forme contrattuali
del lavoro dipendente a tempo determinato e le collaborazioni sono poco diffuse tra i lavoratori più
adulti. Numerosi studi hanno documentato gli effetti che carriere lavorative senza un soddisfacente
orizzonte temporale possono avere, non solo sulla dimensione lavorativa e l’erosione delle identità
professionali, ma anche su altre sfere della vita privata (autonomia lavorativa e maternità) e sociale
(Scherer, 2014; Bertolini, 2012; Murgia e Poggio, 2011).
Nel complesso della popolazione durante gli anni della crisi si accentua la riduzione del lavoro
standard (dal 77,7% nel 2009 al 74,2% del 2013) a fronte della crescita di quello atipico, ma
soprattutto del lavoro part-time. Rispetto al passato si amplia l’age gap: nel 2013 il lavoro standard
interessa l’83% dei 55-64enni e solo il 60,6% dei giovani occupati; di contro la quota di lavoratori
atipici tra i giovani occupati è del 25,4% mentre tra i 55-64enni scende al 5,2%. Il dato va letto
insieme alla riduzione della probabilità che un lavoro a tempo determinato si trasformi in tempo
indeterminato e al fenomeno dell’over-qualification che cresce negli anni della crisi: nel 2013
interessa il 34,4% dei giovani (era 29,2% nel 2008), colpendo in misura più che doppia gli stranieri,
e l’11,7% dei 55-64enni (+3,3 punti rispetto al 2008).
La distanza tra i due gruppi è minore con riferimento al lavoro part-time che, sempre nel 2013,
riguarda il 14% dei giovani e l’11,7% dei lavoratori più maturi. L’incremento del part-time,
7 La legge citata ha previsto la riforma degli ammortizzatori sociali a partire dal 1° gennaio 2013, che entrerà in funzione a pieno
regime nel 2016. La nuova assicurazione sostituisce l’indennità di mobilità, gli incentivi di mobilità, l’indennità una tantum
co.co.pro., la disoccupazione ordinaria con requisiti ridotti e quella speciale edili, la cassa integrazione in deroga. L’erogazione delle
indennità, decrescente nel tempo, è di 12 mesi per i beneficiari con meno di 55 anni, 18 mesi da 55 anni e oltre. 8 La legge 92/2012 ha introdotto un incentivo consistente nella riduzione del 50% della quota contributiva a carico del datore di
lavoro in caso di assunzione di lavoratori ultra cinquantenni e disoccupati da almeno dodici mesi. A livello locale le regioni hanno la
facoltà di adottare politiche del lavoro e incentivi alle assunzioni per i lavoratori over 50, ma a inizio 2014 tali provvedimenti sono
presenti solamente in otto regioni. 9 Nel 2002 l’Onu ha varato il Piano di azione internazionale di Madrid sull’invecchiamento. L’Unione europea ha dichiarato il 2012
anno europeo dell’invecchiamento attivo e della solidarietà tra le generazioni.
14
osservato in Italia sin dal 2004, interessa soprattutto la componente femminile (dal 2008 al 2013 si
passa dal 22,1% al 25,8%). Tuttavia, l’aumento del tempo parziale di questi ultimi anni riguarda
solo quello di tipo involontario, ossia accettato per la mancanza di una proposta di lavoro a tempo
pieno, segnale che l’impiego a orario ridotto riflette più la volontà delle aziende di ridurre i costi
che una scelta personale degli occupati per conciliare tempi di lavoro e di vita privata.
Più nel dettaglio, l’analisi congiunta della struttura degli occupati di 55-64 anni e dei 15-34enni
nel periodo 2008-2013, consente di individuare le dinamiche e le differenze che caratterizzano i due
profili (Tabella 2).
Tabella 2 – Occupati per classe di età e principali caratteristiche – Anni 2008 e 2013
2008 2013 2008 2013 2008 2013 2008 2013 15-34 anni 55-64 anni
Sesso
Maschi 4.156 3.049 1.584 1.924 58,5 57,5 64,2 60,0 -26,6 21,4
Femmine 2.954 2.257 882 1.283 41,5 42,5 35,8 40,0 -23,6 45,5
Cittadinanza
Italiana 6.357 4.484 2.398 3.031 89,4 84,5 97,2 94,5 -29,5 26,4
Straniera 753 822 69 176 10,6 15,5 2,8 5,5 9,2 155,9
Ripartizione geografica
Nord 3.699 2.805 1.111 1.561 52,0 52,9 45,1 48,7 -24,2 40,5
Centro 1.422 1.095 556 697 20,0 20,6 22,6 21,7 -23,0 25,3
Mezzogiorno 1.989 1.407 799 949 28,0 26,5 32,4 29,6 -29,3 18,8
Titolo di studio
Fino licenza media 2.049 1.272 1.159 1.262 28,8 24,0 47,0 39,4 -37,9 8,9
Diploma 3.850 2.942 844 1.300 54,2 55,4 34,2 40,5 -23,6 54,0
Laurea 1.210 1.093 463 645 17,0 20,6 18,8 20,1 -9,7 39,4
Posizione
Indipendenti 1.392 1.041 864 930 19,6 19,6 35,0 29,0 -25,2 7,6
Dipendenti, di cui: 5.717 4.266 1.603 2.277 80,4 80,4 65,0 71,0 -25,4 42,1
tempo determinato 1.353 1.181 99 128 19,0 22,2 4,0 4,0 -12,7 28,7
tempo indeterminato 4.365 3.085 1.503 2.150 61,4 58,1 61,0 67,0 -29,3 43,0
Tipologia orario
Tempo pieno 5.990 4.176 2.175 2.766 84,2 78,7 88,2 86,2 -30,3 27,2
Tempo parziale 1.120 1.131 292 441 15,8 21,3 11,8 13,8 1,0 51,3
Ruolo familiare
Monocomponente 646 597 283 457 9,1 11,3 11,5 14,2 -7,6 61,3
Genitore 1.712 1.335 1.520 1.925 24,1 25,2 61,6 60,0 -22,0 26,6
Partner in coppia senza figli 1.003 711 590 713 14,1 13,4 23,9 22,2 -29,0 20,8
Figlio 3.569 2.528 31 44 50,2 47,6 1,2 1,4 -29,2 43,6
Altro ruolo 180 136 43 69 2,5 2,6 1,7 2,1 -24,6 60,3
Attività economica
Agricoltura 182 156 145 146 2,6 2,9 5,9 4,5 -14,3 0,7
Industria in s.s. 1.647 1.077 384 496 23,2 20,3 15,6 15,5 -34,6 29,1
Costruzioni 728 452 180 184 10,2 8,5 7,3 5,7 -37,9 2,2
Servizi, di cui: 4.552 3.621 1.758 2.381 64,0 68,2 71,3 74,3 -20,5 35,5
Commercio 1.254 938 331 383 17,6 17,7 13,4 11,9 -25,2 15,6
Alberghi e ristorazione 500 481 90 128 7,0 9,1 3,7 4,0 -3,7 41,7
Imm., Prof., Nole., SI 819 628 215 285 11,5 11,8 8,7 8,9 -23,2 32,2
Pubblica amministrazione 232 135 209 280 3,3 2,5 8,5 8,7 -41,8 34,0
Istruzione e Sanità 606 506 545 763 8,5 9,5 22,1 23,8 -16,6 39,9
Altri servizi coll. e pers. 474 437 150 241 6,7 8,2 6,1 7,5 -7,8 61,0
Professione
Legislatori, dirigenti,
imprenditori158 56 206 150 2,2 1,1 8,4 4,7 -64,5 -27,1
Prof. intellettuali, scientifiche 528 490 396 637 7,4 9,2 16,1 19,9 -7,2 60,8
Professioni tecniche 1.446 924 490 511 20,3 17,4 19,9 15,9 -36,1 4,1
Impiegati 882 636 218 391 12,4 12,0 8,8 12,2 -27,9 79,7
Addetti al commercio e servizi 1.443 1.308 313 463 20,3 24,6 12,7 14,4 -9,4 47,7
Artigiani, operai spec.,
agricoltori1.377 889 444 469 19,4 16,7 18,0 14,6 -35,5 5,5
Conduttori, operai semiqual. 611 400 151 207 8,6 7,5 6,1 6,5 -34,5 37,3
Professioni non qualificate 583 535 243 374 8,2 10,1 9,8 11,6 -8,1 53,9
Forze armate 83 69 5 6 1,2 1,3 0,2 0,2 -16,3 14,1
Totale 7.110 5.307 2.466 3.207 100,0 100,0 100,0 100,0 -25,4 30,0
Variazioni 2013-2008Caratteristiche
Valori assoluti Incidenze
55-64 anni 15-34 anni 55-64 anni15-34 anni
Fonte: Elaborazioni su dati Istat, Rilevazione sulle forze di lavoro
15
In primo luogo, si può rilevare che nell’intervallo 2008-2013 l’incremento dell’occupazione
femminile è stato più intenso tra le 55-64enni che tra le giovani, anche se le donne risultano
comunque sottorappresentate in entrambi i gruppi. La crescita occupazionale della fascia più adulta
è da ascrivere presumibilmente alla maggiore incisività che le recenti riforme pensionistiche hanno
avuto sulle donne, in ragione dei criteri previdenziali meno restrittivi di cui godevano rispetto a
quelli degli uomini. In relazione al ruolo familiare, tra le due fasce di lavoratori permane la
polarizzazione tra quello di genitore per i più adulti e di figlio per i giovani, mentre i
monocomponenti crescono per entrambi. Da notare, comunque, che circa un quarto dei 15-34enni
riveste un ruolo di genitore e quindi ha responsabilità familiari.
La popolazione più adulta in generale è meno istruita, nonostante nel 2013 l’incidenza di laureati
nei due gruppi si equivalga. La crescente quota di giovani laureati ha determinato un ingresso
tardivo nel mercato del lavoro, il che implica il protrarsi delle carriere lavorative per poter accedere
ai benefici previdenziali. La fascia degli occupati maturi, poi, è più concentrata nel lavoro
autonomo rispetto ai più giovani, in particolare tra i lavoratori in proprio, mentre all’interno del
lavoro dipendente è sovra rappresentata tra i dirigenti e i quadri.
L’analisi per settore di attività economica rivela che la caduta occupazionale, concentrata
nell’industria manifatturiera e nelle costruzioni, ha impresso un’accelerazione nel cambiamento
della struttura dell’occupazione a vantaggio dei servizi, più intensa per la componente giovanile.
Nell’intervallo 2008-2013 tra i lavoratori maturi l’occupazione è cresciuta in maniera significativa
in tutti i settori, compresa l’industria manifatturiera, e ha retto alla caduta anche in agricoltura e
nelle costruzioni. Differentemente, l’unico settore che si salva dall’emorragia occupazionale dei 15-
34enni è quello dei servizi domestici, grazie soprattutto al contributo dei giovani stranieri, con
l’industria manifatturiera che guida la classifica in negativo.
Più in particolare, per i lavoratori maturi la crescita del numero di occupati, oltre che
nell’industria manifatturiera, è stata consistente nei settori della sanità e assistenza sociale e nei
servizi domestici alle famiglie, con un contributo alla crescita delle donne pari rispettivamente al
62% e a quasi il 90%. Tali settori, peraltro, con il progressivo invecchiamento della popolazione
sono destinati a svilupparsi sempre più nel futuro e a creare nuove opportunità di impiego. La
continua crescita di domanda in questi comparti richiederebbe la riorganizzazione e il rafforzamento
dell’offerta di servizi pubblici, poiché il peso dei servizi di cura e assistenza grava in gran parte
ancora sulle famiglie, in maniera particolare sulle donne. In tal senso, l’innalzamento dell’età
pensionabile rischia di incrinare il già fragile equilibrio del welfare familiare, perché il
prolungamento della vita lavorativa per le donne significa dover ridurre il tempo da dedicare alle
attività di cura.
La combinazione di professione e settore di attività economica consente di tracciare un profilo
multiforme di questi due gruppi di lavoratori. Nel 2013 oltre due terzi degli occupati 55-64enni che
svolgono una professione intellettuale o scientifica lavora nell’istruzione o nella sanità (circa l’80%
dell’incremento di questo gruppo professionale si è realizzato in questi settori); è impiegato quasi la
metà di chi è occupato nei servizi generali della PA o nell’istruzione e sanità; tra gli operai
specializzati e artigiani sei su dieci sono impegnati nell’industria o nelle costruzioni, mentre le
professioni non qualificate si concentrano nei servizi, in particolare in quelli alle imprese, in quelli
collettivi e alle persone e nell’istruzione e sanità. Tra i giovani lavoratori, invece, il 40% di chi
svolge una professione intellettuale o scientifica lavora nell’istruzione o nella sanità, tre quarti degli
operai specializzati e artigiani sono occupati nell’industria o nelle costruzioni, mentre le professioni
non qualificate si distribuiscono più o meno equamente nell’industria, nel commercio e nei servizi
alle imprese, con un’incidenza maggiore nei servizi alla persona.
Descritti gli effetti della crisi sui lavoratori giovani e maturi, rimane aperta la questione se il
prolungamento dell’attività lavorativa dei più adulti costituisce un ostacolo per l’inserimento dei
giovani nel mercato del lavoro; è una domanda di estrema attualità, entrata di recente nell’agenda
politica del governo. A tale proposito, a livello territoriale la relazione tra il tasso di occupazione
delle due coorti è positiva (Figura 8), il che significa che nelle regioni con un mercato del lavoro più
16
dinamico i differenziali tra giovani e più adulti sono minimi o addirittura inesistenti. Pertanto, il
problema non sembra tanto quello che gli occupati maturi debbano lasciare il posto ai giovani,
quanto piuttosto la mancanza di lavoro per entrambe le fasce di età.
Si tratta comunque di un problema complesso che va affrontato con attenzione, per non cadere in
facili generalizzazioni. Lavoratori anziani e giovani infatti non possiedono gli stessi skills, risultato
di percorsi formativi e lavorativi estremamente diversi, quindi la sostituibilità tra i due gruppi non è
affatto automatica ma problematica perché dipende da un insieme di fattori. Le qualifiche e le
competenze necessarie per svolgere una determinata attività lavorativa, il livello di innovazione
tecnologica delle imprese e le professionalità occorrenti per sostenerlo, il grado di raccordo tra
sistema formativo e sistema produttivo e i vincoli posti dalle norme pensionistiche concorrono a
delineare una molteplicità di situazioni differenti che richiedono l’adozione di interventi mirati. In
tale quadro, pertanto, ogni tentativo di staffetta generazionale andrebbe ben ponderato, sia
nell’individuare le posizioni e le modalità di affiancamento, sia in termini di incentivi per gli
occupati maturi.
Figura 8 – Tasso di occupazione per classe di età e regione – Anno 2013 (valori percentuali)
Italia Piemonte
Valle D'Aosta
LombardiaVeneto
Friuli Venezia
Giulia
LiguriaEmilia Romagna
Toscana
Umbria
MarcheLazio
Abruzzo
Molise
CampaniaPuglia
Basilicata
Calabria
Sicil ia
Sardegna
25,0
30,0
35,0
40,0
45,0
50,0
55,0
20,0 25,0 30,0 35,0 40,0 45,0 50,0 55,0
giovani 15-34 anni
adu
lti 5
5-6
4 a
nn
i
Fonte: Elaborazioni su dati Istat, Rilevazione sulle forze di lavoro
Conclusioni
Nel complesso la contrazione della base occupazionale si accompagna, oltre che alla sempre
minore presenza di giovani tra gli occupati e all’aumento dei lavoratori maturi, alla
femminilizzazione della forza lavoro, in particolare di quella più anziana, eventi che richiamano i
55-64enni a maggiori responsabilità nel presente e nell’immediato futuro. Questi fenomeni hanno
ripercussioni sugli equilibri tra generazioni, per quanto attiene le dinamiche del lavoro, e più in
generale con riferimento alla re-distribuzione delle risorse economiche, individuali e familiari, e alla
gestione dei compiti di cura. Dall’altra parte, questo paese sembra carente dal punto di vista delle
risorse economiche e capabilities sociopolitiche al fine di incentivare forme di solidarietà e scambi
intergenerazionali non basate su legami familiari.
Difatti, seppure in affanno, è ancora la famiglia a farsi carico degli effetti disgreganti e materiali
della crisi, e sono ancora le donne a sostenere il carico del lavoro di cura, come familiari e come
lavoratrici nel sociale. Se il capitale di risorse e tempo da cui facciamo dipendere il futuro delle
nuove generazioni è quello familiare, questo è strettamente connesso alla classe sociale della
17
famiglia d’origine, alle storie e carriere lavorative dei più adulti. Ma quanto è sostenibile un assetto
familistico in affanno? Quanto i lavoratori più adulti possono aiutare i più giovani?
Tale tendenza s’intreccia e si salda con il fenomeno socio-culturale del male breadwinner che,
seppure affievolito, è ancora presente nel nostro paese. Per equidistribuire tra le famiglie un bene
scarso come il lavoro ed evitare condizioni di povertà e disagio sociale, esso si concentra(va) nella
figura del capofamiglia maschio, relegando i giovani e le donne ai margini dell’occupazione o nel
mercato del lavoro secondario. Tuttavia, le famiglie monoreddito hanno minori capacità di spesa e
sono più a rischio quando viene meno l’unica fonte di reddito, evento sempre più probabile in
questa fase di recessione, soprattutto nel Mezzogiorno (Reyneri e Pintaldi, 2013).
La storica incapacità del nostro sistema produttivo di creare una quantità di lavoro sufficiente a
soddisfare l’offerta di lavoro dipende in parte anche dal tessuto economico del nostro paese,
caratterizzato dalla presenza di imprese di piccole dimensioni, che stenta a rinnovarsi per cogliere le
opportunità offerte dalla globalizzazione e dal progresso tecnologico10
. Gli investimenti fissi lordi
nel 2013 hanno raggiunto il livello minimo dall’anno 2000 e sono calati del 23,8% rispetto al 2008,
mentre quelli in ricerca scientifica e sviluppo nel corso degli ultimi quindici anni hanno avuto
sempre un’incidenza irrisoria, oscillando tra lo 0,4 e lo 0,5% sul totale degli investimenti.
La mancata introduzione di innovazioni di prodotti e di processi ha generato molteplici
conseguenze. In primo luogo un sistema produttivo che ha difficoltà a creare ricchezza e valore
aggiunto, incentrato su settori con bassa produttività e con scarso contenuto tecnologico, è più
sottoposto al rischio della concorrenza internazionale dei paesi di nuova industrializzazione con
costi di produzione notevolmente inferiori; in secondo luogo la bassa innovazione che caratterizza il
nostro sistema produttivo si è tradotta in un mancato ingresso occupazionale di forza lavoro più
giovane e con alti livelli d’istruzione.
In un quadro caratterizzato dalla scarsa capacità di creare lavoro, il paradosso dell’Italia consiste
nel fatto che il fenomeno della sovraistruzione, in termini percentuali in linea con la media europea,
dipende dall’avere allo stesso tempo una bassa presenza di laureati e una scarsa domanda di lavoro
qualificato. Tanto più che gli istituti di welfare operanti in Italia sono tesi a proteggere il posto di
lavoro, specie degli occupati maturi, piuttosto che a fornire servizi di riqualificazione e
outplacement all’interno del mercato del lavoro o a favorire l’incontro tra domanda e offerta di
lavoro.
Aumentare l’occupabilità dei giovani anche attraverso un maggior raccordo tra sistema
formativo e produttivo, dotare le persone delle qualifiche necessarie per affrontare le sfide del
mercato del lavoro, colmare il digital divide e diffondere l’uso delle tecnologie, riqualificare e
reinserire le persone anziane espulse dal mercato del lavoro, favorire una transizione flessibile tra
lavoro e pensionamento, sono alcune delle parole d’ordine della narrativa politica con cui le autorità
europee intendono promuove l’uscita dalla crisi perseguendo, al tempo stesso, un’economia che sia
“inclusiva, intelligente e sostenibile” (European Commision, 2010).
Si tratta di questioni aperte che il nostro paese deve affrontare con determinazione. Ogni ritardo,
infatti, non farà altro che ampliare le disuguaglianze sociali ed economiche anche a discapito
dell’equità intergenerazionale.
10
La crescita economica nel nostro paese è frenata da un complesso intreccio di nodi strutturali la cui analisi esula dal presente
lavoro. Si ricordano, tra gli altri, l’elevato livello del debito pubblico, la mancanza di politiche industriali, il peso degli adempimenti
burocratici, l’alto costo dell’energia, il difficile e oneroso accesso al credito, l’eccessiva pressione fiscale.
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