Il divismo
Popolarità
Alla fine dell’Ottocento, la popolarità di alcuni personaggi dello
spettacolo non era un fatto nuovo, ma si trattava di una celebrità
strettamente connessa al talento (o a una posizione sociale
assolutamente preminente) e di portata piuttosto contenuta,
legata più alla distanza che alla prossimità. Già la stampa
popolare inizia a impastare le persone celebri in una sorta di
milieu dorato fatto di balli di corte, bagni termali, teatri dell’opera,
lusso e transatlantici.
Legame sociale
Ma i mezzi di comunicazione
più esplicitamente rivolti alle
masse mostrano un’inedita
capacità di costruire
immense popolarità in breve
tempo. La semplice
«apparizione mediatica» si
mostra in grado di accendere
subito un vincolo con un
numero grandissimo di
persone, rivelando un nuovo
tipo di legame sociale che
presenta aspetti funzionali e
confortanti, ma anche, per
altri versi, spaventosi.
Il cinema impiega
naturalmente un po’ di
tempo per mettere a
punto questa dinamica di
«conferimento di status».
Deve innanzitutto
superare le secche che
lo tengono nella palude
della mediocrità e poi
raffinare le modalità
espressive, come ad
esempio far uscire i
personaggi
dall’anonimato della
scena fissa e trovare il
modo di caratterizzarli.
Conferimento di status
Il sacro nel profano
Tuttavia il fenomeno del divismo non
è solo la conseguenza «tecnica» di
uno sviluppo mediatico inatteso, né
soltanto una valvola meccanica
aperta da un contesto sociale ormai
di massa gonfiato da un’insostenibile
pressione. È anche un fenomeno
culturale, che rispecchia alcune
trasformazioni mentali e culturali
dell’epoca, l’emergere di nuovi
bisogni sociali, come la riscoperta
del sacro nel mondo «disincantato».
Valori
I valori del tempo sono riflessi dal cinema alla superficie
mediante l’ansia della velocità, la ricerca del ritmo, la
celebrazione dei riti della civiltà urbana. Ma scendendo più a
fondo, il cinema che inizia ad esplorare i territori del sogno e della
fantasia si rivela in grado di interpretare le inquietudini che si
agitano nelle zone più appartate della coscienza sociale.
Turbamenti
I turbamenti che sembrano il
più credibile alimento del
fenomeno divistico sono il
disagio di fronte al
rimescolarsi dei ruoli sociali,
quello delle donne in primo
luogo, l’eccitazione per le
apparenti occasioni di
mobilità sociale verticale e,
in generale, la ricerca di
ancoraggi, di punti di
riferimento in un mondo
diventato all’improvviso
troppo veloce, esigente e
instabile.
Doris Eaton (1904–2010)
Isadora Duncan (1878-1927)Emancipazione
Nella dissoluzione degli ultimi residui del mondo aristocratico, i
languori del decadentismo enfatizzano la figura femminile, in una
miscela agrodolce di attrazione e diffidenza, mentre la spinta
verso l’emancipazione ci lascia ritratti di donne disinibite e
sensuali che sollevano tempeste di passione.
Emancipazione
Una cultura inquieta, che rifiuta la fiducia ottusa nel positivismo e
civetta con le pose decadenti e con le tentazioni proibite, si
cimenta con le turbe sessuali e con le profondità della psiche,
lasciando emergere la paura per la «rivolta» delle donne.
Theda Bara (1885-1955)
Femme fatale
La letteratura del periodo è
infatti popolata di donne
fatali, perverse e dominatrici.
John Singer Sargent,
Portrait of Madame X, 1884
Jane Burden Morris, musa dei Preraffaelliti
Salomè
Salomè di Oscar Wilde,
scritta in francese per Sarah
Bernhardt (che si rifiuta di
interpretarla) e pubblicata
nel 1893 con le illustrazioni
di Aubrey Beardsley.
La prima rappresentazione
si tiene a Parigi il 12
febbraio 1896, poiché a
Londra ne è vietato
l’allestimento e fino
al 1931 l’opera sarà proibita
nel Regno Unito.
Lulu
La Lulù di Wedekind del 1913, che unifica due
lavori precedenti - Lo spirito della terra e Il vaso
di Pandora – costati all’autore lo scandalo e un
lungo processo penale. Il personaggio, tragica e
moderna incarnazione della femme fatale, viene
consegnato al mito da Louise Brooks nel film Il
vaso di Pandora (Pabst, 1928).
Lulu, Wuppertaler Schauspielhaus, 2011
Wanda von Dunajew
Anche Wanda von Dunajew, la Venere in
pelliccia 1870) di Leopold von Sacher-
Masoch può essere un simbolo
dell’apprensione maschile verso il riscatto
delle donne.
Colette
Nel 1906 la scrittrice Colette
entra nelle grazie della
marchesa Mathilde de
Morny, di cui è nota la
passione per gli abiti
maschili. Nel 1907, durante
la pantomima Rêve d’Égypte
al Moulin Rouge, Colette, che
interpreta Cleopatra, e la
marchesa, nelle vesti
dell’archeologo innamorato,
si baciano sul palco con
passione; ne nasce un
putiferio e il Prefetto Lépine
fa chiudere lo spettacolo.
Mata Hari
Nel 1905 si spande per
Parigi il profumo di peccato
sprigionato da Mata Hari,
che con la sua danza,
solleticando torbide
fantasie su paesi
sconosciuti, offre agli
spettatori un assurdo
sincretismo fra la
saggezza buddista e i “riti
sanguinari” di fantomatiche
dee indù, il fascino proibito
dell’erotismo e la purezza
dell’ascesi.
La vampira
La prima incarnazione
cinematografica di
questa minaccia
femminile (che diventa
un trampolino importante
per il protagonismo
femminile e per
l’emergere delle prime
dive) è la donna-vampiro,
cioè la donna che
risucchia le energie
dell’uomo per
assoggettarlo al suo
potere capriccioso. Asta Nielsen in Abisso (1909)
La vampira
La figura della femmina vampiro, ispirata all’omonimo poema
di Rudyard Kipling del 1897 che inizia col verso «A fool there
was and he made his prayer» e The Vampire, il celebre
disegno di Philip Burne Jones (1897) che ritrae l’attrice Patrick
Campbell, cui il pittore era romanticamente legato, solletica la
cinematografia americana.
La vampira
Nel 1910 esce un primo
film di una dozzina di
minuti intitolato The
Vampire, prodotto
dalla Selig, con regia
non accreditata,
interpretato da Margarita
Fischer e Charles Clary.
La vampira
Poi, insieme con l’idea della
donna vacua che distrae le
risorse dell’uomo, ritorna anche
la sensualità della danza.
Sempre col titolo The Vampire,
esce nelle sale il 15 ottobre
1913 un nuovo film (stavolta 3
rulli per complessivi 38
minuti) prodotto dalla Kalem
Company, diretto da Robert G.
Vignola, interpretato da Harry
F. Millarde, Marguerite Courtot
e Alice Hollister.
Alice Hollister è la vampira Loie,
una donna fatale che attira l’uomo
nel peccato e subito se ne
stanca, con la città antro di
depravazione che facilmente
inghiotte anche il giobane più
virtuoso. Il film invita a diffidare
delle donne dedite al lusso che
mangiano in luoghi costosi, ma la
storia di astuzia femminile ha un
prudente lieto fine, in cui la
fidanzata si riprende il proprio
uomo, senza che la “vampira”
paghi il fio delle sue malefatte.
La vampira
Con questo film approda al cinema la
Danza del Vampiro di Alice Eis, creata
con il suo partner Bert French nel 1909.
The Vampire Dance
La danza, inventata da French nel 1909 ispirandosi ancora
una volta a Burne-Jones, desta scandalo poiché la Eis,
vestita in modo sommario - un incrocio fra Eva, il serpente e
una baccante - si agita frenetica attorno al suo uomo,
seducendolo e annientandolo. La danza è così nota che
Vignola, per accontentare il pubblico, la include per intero,
operando solo piccolissimi tagli.
A Fool There Was
Questa versione «estrema» della donna
fatale viene infine codificata
dall’interpretazione di una quasi
esordiente Theda Bara, nel film A Fool
There Was (1915, 67 minuti), prodotto
da William Fox e diretto da Frank Powell.
A Fool There Was
La trama narra di un padre di famiglia amoroso e
devoto che incontra una donna misteriosa e
seducente che usa abbandonare i suoi amanti
dopo aver distrutto le loro vite; l’uomo resta
incantato e, nonostante gli sforzi di tutti per
salvarlo dalle grinfie del «vampiro», abbandona
la famiglia e si rovina la carriera in una caduta
inarrestabile. Distribuito in sala nel gennaio 1915,
è uno dei pochi film di Theda Bara sopravvissuti.
Vamp
Nel 1922 ne verrà proposto un remake
(70 minuti) diretto da Emmett J. Flynn,
con Lewis Stone ed Estelle Taylor. Il
soggetto, tratto dal lavoro teatrale
di Porter Emerson Browne, racconta
ancora una volta la vicenda di un
rispettabile borghese che si perde a
causa della passione per una
«mangiauomini» fredda e calcolatrice.
Vamp
I produttori
modellano
addosso a
Theda Bara
l’immagine della
donna perversa
e tentatrice,
pubblicizzata
con una
iconografia
vivace fatta di
sguardi torbidi,
pose enfatiche
e abiti esotici.
The Soul of Buddha, 1918
Vamp
Negli anni seguenti,
una serie di
interpretazioni
“eccessive” ma di
grande effetto -
come Carmen
(1915), Cleopatra
(1917) e Salomè
(1918) -
cristallizzano la sua
immagine di femme
fatale.
Vamp
«J’ai le visage d’un vampire
mais le coeur d’une femme”
Theda Bara
Edulcorazione
La figura della donna
vampiro subisce presto delle
forme di edulcorazione. Il
cinema, alla ricerca del gusto
borghese e di patenti di
moralità, mentre continua a
porre l’enfasi sul ruolo della
donna fatale - ampliandone
diffusione e penetrazione
nell’immaginario collettivo -
cerca anche di
«annacquarlo» un po’,
rendendolo più schematico e
morbido.
Pola Negri (1894–1987)
Edulcorazione
Nel cinema americano, la vamp continua a sedurre e a
rendere schiavo l’uomo “debole”, ma senza distruggerlo
completamente, spesso limitandosi a sottrargli denaro o a
imporgli sacrifici e umiliazioni.
Edulcorazione
Soprattutto, le esigenze dell’industria tendono per loro natura a
sganciare la forza del personaggio, riconvertita in una serie di
cliché, dalla bravura dell’interprete, a sua volta ricondotta alla
sola visibilità.
Diva film
Un contributo
importante al
fenomeno del
divismo viene
dall’Italia, dove il
termine diva viene
inventato, con lo
sviluppo di un vero e
proprio filone di film
sentimentali che
esaltano i ruoli delle
protagoniste
femminili.
Francesca Bertini (1892–1985)
Edulcorazione
In quest’ambito -
nella terra del
melodramma lirico -
la mangia-uomini
ammorbidisce il
senso di perdizione e
di peccato al fuoco
del trasporto emotivo
e del culto della
bellezza,
valorizzando il
fascino magnetico
delle nuove dive.
Inquadratura
Nei film con le dive le storie sembrano spesso poco più che un
pretesto per esplorare la visualizzazione della sensualità, con
inquadrature spesso lunghe e immobili, i corpi allungati in pose
estetizzanti, secondo uno stile più contemplativo che narrativo.
Primo piano
I primi piani sono lunghi e intensi, molto lontani dalla rapidità che
elettrizza il cinema americano. Il cinema italiano quindi avanza
un modello «divistico» in linea con la vocazione di tutto il cinema
europeo, più legato a una visione descrittiva e contemplativa
dell’inquadratura che non alla velocità del montaggio narrativo.
Primo piano
Il ricorso al primo piano, qui utilizzato per valorizzare l’enfasi
espressiva delle attrici sarà infatti ripreso dal cinema americano
con lo stesso intento, mentre in quello europeo
(espressionismo tedesco e avanguardia francese) diventerà
uno strumento d’indagine emotiva e interiore.
Evoluzioni
Mentre l’evoluzione tecnica delle riprese, il miglioramento di
obiettivi e pellicole, la lunga permanenza dei personaggi sullo
schermo garantita dal lungometraggio accentuano l’importanza
degli attori, il successo delle dive introduce nel linguaggio del
cinema un registro linguistico più ampio e la capacità di
descrivere i sentimenti e di suscitare emozioni.
Da attore a divo
La valorizzazione del ruolo del protagonista, intrecciata con lo
spirito commerciale, sfocerà in una consistente promozione
economica e in un fenomeno sociale di proporzioni incredibili.
Da attore a divo
«Nascosti dal trucco pesante, ripresi da lontano e presenti in film
troppo brevi perché il pubblico si potesse affezionare, gli attori del
cinema erano di solito anonimi. I primi a diventare popolari furono
così non gli attori, ma i personaggi che essi interpretavano». I
diva-film, per la prima volta nella storia del cinema, addensano
una potente funzione simbolica direttamente sugli interpreti.
Da attore a divo
Di film in film, gli elementi che
plasmano il profilo degli attori
diventano sempre più riconoscibili,
fino a costituire il nucleo centrale
del racconto cinematografico e
quindi anche dell’interesse del
pubblico. La Borelli, ad esempio,
esibisce fin dal primo film posture,
gesti ed espressioni che diventano
ricorrenti nella sua recitazione e sui
quali la macchina da presa indugia,
spesso con piani ravvicinati che
marcano la «centralità» del
personaggio e la sua seduttività.
Da attore a divo
Attrici e attori assumono
un’aura stabile di tipo «meta-
identitario», che non appartiene
cioè a un solo determinato
personaggio né esclusivamente
alla dimensione privata
dell’interprete, ma usa il corpo e
la «personalità» del divo per
attraversare i diversi ruoli
mantenendo sempre una cifra
riconoscibile, secondo
determinati caratteri di
prestanza fisica, forza morale,
simpatia o sex appeal.
Da attore a divo
Questa «maniera» plasma
un’immagine divistica spesso
non banale, derivata dal
repertorio teatrale ma
armonizzata con le
prorompenti peculiarità del
nuovo medium, e soprattutto
conscia del capovolgimento
del rapporto fra l’attore e il
personaggio: l’interprete non
si annulla più nel
personaggio, ma è questi che
invece confluisce nella
creazione dell’immagine
pubblica dell’attore.
Avvicinandosi alle
contemporanee
sperimentazioni delle
avanguardie e del futurismo,
alle performance del teatro
espressionista e della danza di
famose ballerine come la
Duncan, il modello recitativo
delle attrici del cinema, spesso
frutto di una cosciente scelta
strategica, traduce sullo
schermo, tra l’altro, le istanze
della espressività moderna,
della liberazione del corpo e
dell’emancipazione femminile.
Divi per caso
L’impeto e la precisione con cui negli Stati Uniti il divismo
diventa un sistema ferreamente organizzato ne fanno spesso
dimenticare l’origine piuttosto casuale. «Storicamente in Italia»
dice Brunetta «il divismo non è l’esito di una progettazione di
mercato, di una operazione commerciale, quanto piuttosto una
manifestazione che compare improvvisamente e
inaspettatamente nello scenario dell’industria cinematografica,
la cui internazionalità, nondimeno, comprova il prestigio del
cinema e la sua capacità di influenzare e subordinare i
comportamenti e l’immaginario». Gian Piero Brunetta, in Fotogenia: storie e teorie del cinema, v. IV, n. 4-5, 1998, p. 27.
Una sfacciata promozione
di se stessi che approfitta di
un mezzo poco selettivo;
un complesso meccanismo
commerciale che riduce il
divo a una marionetta; una
sintesi astuta delle qualità
più gradite all’immaginario
dell’epoca. Il divismo è tutte
queste cose, ma dà luogo a
miscele diverse a seconda
dei contesti produttivi e
culturali e si evolve nel
corso del tempo.
Il divo
È evidente che il divo
diventa qualcosa di più di
un semplice attore, perché
riesce a dare al proprio
personaggio, con poco
sforzo, continuità e fama;
ma anche qualcosa di
meno poiché se un attore
può recitare molte parti
diverse, il divo è un
“prodotto” collegato alla
propria immagine, costretto
a conservare e ripetere un
modello di stampo più o
meno conformista.
La «serializzazione» dei ruoli è un
elemento chiave del divismo, ma per
capirne il funzionamento occorre
aggiungere un nuovo effetto introdotto
dal cinema: l’identificazione tra schermo
e realtà, che permette la riconoscibilità
da parte del pubblico e la sensazione di
conoscere “personalmente” l’attore,
come un vicino di casa, solo più
simpatico o attraente.
Ricciotto Canudo nel 1923, sottolinea la differenza fra una
qualsiasi celebrità del mondo politico o del teatro, conosciuta in
modo esteriore e superficiale, e il divo cinematografico, con cui
si ha un contatto più profondo, quasi intimo, perché traduce «in
movimento vitale un certo sentimento che ci ha colpito, una
certa avventura, che è stata, per la magia dell’arte, la nostra
avventura di un’intera serata».
Da attore a divo
I meccanismi di identificazione e proiezione infatti conducono lo
spettatore a una contiguità psicologica e spirituale, a una sorta
di intimità con i protagonisti, ai quali il pubblico si sente legato e
su cui può riversare affetto e/o ammirazione, al punto che
ormai si accede alle sale per il richiamo del divo di turno. Attori
e attrici, come moderne divinità pagane, diventano un mezzo di
pubblicità fondamentale e l’attrattiva principale dei film.
Il cinema diventa così una delle prime
«istituzioni sociali» che offrono la prova
dei nuovi fenomeni aggregativi che i
sociologi vanno individuando come tipici
della società contemporanea, all’insegna
dei concetti di imitazione, conformismo,
gregariato, massificazione.