Il racconto che stai per leggere fa parte di “Storie in città”, un progetto dell’Assessorato alla Cultura del Comune di Civitanova Marche: 5 autrici civitanovesi hanno scritto e donato 5 storie sul tema del buonismo natalizio, nell’ambito dell’iniziativa “Ti infiocchetto per le feste”. Dopo averlo letto, potrai liberare questo libricino per la città e permettere così a qualcun altro di leggerlo. Oppure potrai adottarlo e tenerlo con te. Potrai segnalare e seguire il suo viaggio sulla pagina facebook dell’evento “Storie in città”.
Con il sostegno di ATAC Civitanova Spa e GAS MARCA Spa
Disegno in copertina di Riccardo Ruggeri
Stampato in 1000 copie su carta ecologica e riciclataDicembre 2012
Le storie che troverai in giro per la città sono:
Anche i gatti mangiano il pandoro di Barbara CerquettiNonno Ernesto: invitato di lusso! di Fausta Rita SardiCaro Mauro di Federica SenigagliesiUn Natale come tanti di Natalia TessitoreIl dono più bello di Giuseppina Vallesi
Divertiti a scovarle!
Giuseppina VallesiAutrice civitanovese, lavora come insegnante e traduttrice dall’inglese. Nel 1998 pubblica per la Mondadori, Il pane del diavolo vincitore del premio letterario Donna Moderna 1998. Nel 2004 pubblica Ignazia alle Crociate (Giallo Mondadori) seconda avventura della battagliera Suor Ignazia. Dal 2004, insieme a un gruppo di amici, organizza Giallocarta, rasse-gna del giallo e del noir, all’interno del Festival Cartacanta a Civitanova Marche. Per Morganti editori ha scritto i raccon-ti The king of the amatriciana, inserito in Pastakiller (2005) e Suor Ignazia e il maialino di Sant’Antonio (2007).Per Liberilibri di Macerata ha tradotto “Verso una teologia dell’impresa” di Michael Novak (1996) con prefazione di Dario Antiseri.
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Il dono più bello
All’angolo tra via Mazzini e corso Vittorio
Emanuele esiste da sempre un piccolo negozio.
I passanti frettolosi che corrono per raggiungere
lo splendore delle luci di corso Umberto I non
se ne accorgono neppure ma…se guardate con
attenzione, in queste gelide giornate invernali,
vedrete un’angusta vetrina, una piccola porta a
battente alla quale si accede salendo due gradini
di pietra annerita dagli anni. Lì dentro, il tempo
sembra non esser mai trascorso. Il bancone di
legno di palissandro vuoto e polveroso è lì da un
secolo o forse più, il piccolo lampadario di vetro
smerigliato emette dei tenui bagliori giallastri
e proietta un’ombra ovale sul pavimento di gra-
niglia screziata di nero.
Alle pareti vecchi calendari segnano il tempo
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già andato e sulle due severe scaffalature d’ebano
i rari oggetti attendono l’arrivo di un nuovo
cliente. Invano.
Nessuno entra mai in quel luogo. Nessuno
tranne il proprietario, ovviamente. Il signor
Eugenio De Floriis.
È un vecchio negoziante, austero e silenzioso
che da anni si ostina ad alzare la traballante
saracinesca di ferro grigio e, dopo essere entrato
ed aver acceso la piccola stufa ad olio, si adagia
immobile sulla logora sedia viennese nascosta
dietro al bancone.
Suo padre e suo nonno furono tra i più apprezzati
fotografi della zona di Macerata; e così fu per lui
negli anni floridi del dopoguerra. Matrimoni,
feste, eventi pubblici e privati, tutto passava
sotto l’obiettivo della leggendaria Contaflex
Zeiss Icon della famiglia De Floriis.
Nel retrobottega c’è ancora la camera oscura, un
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luogo intriso del nero più buio della notte, dal
quale un tempo emergevano come per miracolo
le luci e le ombre della vita e del mondo. Quei
momenti solenni, quando tra i fumi degli acidi
prendeva vita la realtà di un’immagine, vivida
e più reale della vita stessa, ancora oggi pro-
vocano un fremito alle sue labbra, una sottile
increspatura tra le rughe della fronte e i folti
capelli bianchi.
Negli anni, senza che lui se ne fosse mai accorto,
la città era cambiata, il mondo trasformato,
come un bruco gli era sfuggito di mano e si era
fatto farfalla.
Altri fotografi erano giunti in città, bravi,
efficienti e veloci. Man mano che si apriva un
nuovo negozio sparivano i suoi clienti…puff…
come smaterializzati.
Quando ne incontrava qualcuno lungo corso
Dalmazia o nei pressi della ferrovia su, in alto,
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verso la salita assolata di viale Cecchetti, questi
abbassavano la testa, vergognosi o peggio finge-
vano di non vederlo.
Ai suoi occhi i nuovi arrivati apparivano come
tanti ladri, gli avevano rubato il lavoro e la
dignità, le cose per lui più preziose. Quando sua
moglie era morta si era ritrovato solo, senza uno
scopo, una speranza per poter andare avanti.
Infine, era giunta l’epoca del digitale e con essa
la fine della premiata ditta De Floriis.
Foto ritoccate al computer, falsate, filtrate, e
stampate senza che la mano dell’uomo potesse
apporvi sopra il suo soffio vitale: tutto questo ai
suoi occhi appariva come una blasfema eresia, un
crimine al quale lui non si sarebbe mai arreso.
Anche quest’anno si avvicinava il Natale e
sarebbe stato come sempre un Natale di solitu-
dine e silenzio nel suo negozio.
Nessun cliente sarebbe entrato, nessuno aveva
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più bisogno dei vecchi rullini. Come sempre
avrebbe tenuto aperto fino al giorno della vigilia
e poi se ne sarebbe tornato a casa, una piccola
abitazione tra i vicoli che si intrecciano dietro
l’ombra elegante della chiesa di Cristo Re.
La piccola radio a transistor stava riassumendo
per l’ennesima volta la vicenda che da un anno
appassionava i civitanovesi.
Di lì a poco, qualche giorno prima di Natale,
sarebbe finalmente arrivato il verdetto sull’or-
rendo omicidio di una giovane donna moldava.
Era stata strangolata e sfregiata sul volto e sul
petto e poi gettata alla foce del Chienti, dove il
suo corpo seminudo si era incagliato tra i rovi e
i detriti portati giù dalla corrente.
L’avevano tirata su a forza gli anziani che da
quelle parti coltivano piccoli spicchi d’orto;
attirati dalle loro grida, i pescatori erano corsi
in aiuto.
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Fin dall’inizio un solo unico indagato: il marito.
Tutti gli indizi raccolti conducevano a lui ed ora
la sua condanna era quasi scontata.
Il Pubblico Ministero aveva chiesto l’ergastolo
ma l’uomo dal carcere continuava a dirsi inno-
cente. Quel giorno, all’ora dell’omicidio, si
trovava di fronte al Comune per assistere alla
distribuzione dei doni natalizi ai bambini orga-
nizzata da un ente benefico.
De Floriis aveva gioito senza vergogna davanti
a questi eventi. L’assassino era infatti Sergio
Santani, un omone corpulento con una folta
barba nera, il più noto fotografo della città. E
il suo splendido negozio, ben sei vetrine di cri-
stallo scintillante blindato e antisfondamento si
ergeva sprezzante proprio dinnanzi al suo.
Stampe digitali in sei minuti, digital books,
stampe su tela e photoframe, tutti termini che il
vecchio fotografo non riusciva nemmeno a ripe-
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tere. Sapeva solo che in alcuni periodi dell’anno,
in occasione dei battesimi e dei matrimoni, c’era
la coda davanti al bancone e tre ragazze accon-
ciate a festa, sgambettavano tra file di minuscole
macchine digitali dai colori sgargianti.
E lui, Santani, lo guardava beffardo abbassare la
saracinesca e tornarsene a casa con la spesa sot-
tobraccio: un povero vecchio fotografo dimenti-
cato da tutti. Non si erano mai parlati: soltanto
una volta il giovane fotografo si era rivolto al
vecchio, in un bar, mentre prendeva il caffè e gli
aveva offerto una piccola somma per comprare il
negozio. Ne avrebbe fatto il suo magazzino visto
che non serviva più a niente…Così aveva detto,
non serve più a niente e la frase era rimasta sospesa
nel bar affrescato da angeli volanti, senza che De
Floriis riuscisse a spiegarsi se fosse rivolta a lui
o al negozio.
Santani si era sposato con la ragazza moldava,
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bellissima, e tutta la città aveva parlato di quel
matrimonio. Poi, si mormorava che si fosse
invaghito di un’altra donna e che volesse libe-
rarsi della moglie senza patire le conseguenze
economiche di un divorzio.
Il giorno della Festa di Babbo Natale in Città
mentre lei moriva tra i sassi bianchi del lungo-
mare sud, egli, asseriva, era rimasto nel tratto
transennato davanti al Comune.
Eppure, guarda il caso, nessuno tra il pubblico
era riuscito a ricordarsene. Questo era stato uno
dei punti a effetto messi a segno dall’accusa
durante il lungo e affollato processo. Erano
sfilate decine di testimoni ma nessuno aveva
riconosciuto quel volto.
La giornata volgeva al termine; De Floriis aprì il
cassetto per riporre la chiave nella cassa vuota e
vide di colpo rotolarvi dentro un vecchio rullino
da ventiquattro. Che cosa era?
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Non rammentava più quando lo aveva gettato
lì dentro, né quali foto vi fossero impresse.
Una curiosità bruciante lo colpì all’improvviso.
Lo afferrò e si diresse verso la camera oscura:
mancavano ancora due ore alla chiusura e quel
rullino lo aveva come stregato. Era certo di non
averlo mai veduto prima nel cassetto.
Alle otto di sera nella camera buia penzolavano
dieci ingrandimenti in bianco e nero. Appesi
con le mollette del bucato, fluttuavano come
tante lenzuola annerite dal traffico della città.
Ma De Floriis ne fissava soltanto una, stremato,
con una rabbia trattenuta a stento che esplodeva
in rivoli di pianto. Le foto mostravano un giorno
qualunque dell’anno precedente, poco prima di
Natale quando aveva tentato inutilmente di
vendere un servizio fotografico sulla Festa di
Babbo Natale in Città.
Si scorgeva la piazza in una nitida prospettiva
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aprirsi verso l’imponente mole di palazzo Sforza.
Sopra agli archi si stagliava la sagoma rotonda
dell’orologio comunale con i numeri romani
ben visibili.
Tra slitte di compensato, famigliole con bambini
eccitati e asini agghindati da renne, spiccava lo
sguardo beffardo di Sergio Santani. Era lui ed
era lì, inconfutabilmente, Signori della Giuria.
La vita dell’odiato rivale era ora nelle sue mani.
Nelle mani di un vecchio disperato, povero e
solo che…non serviva più a niente.
Doveva solo bruciare ogni cosa e quel viscido
presuntuoso avrebbe terminato i suoi giorni
scattando foto ai muri di una cella.
Un odio oscuro lo colse all’improvviso: la sor-
prendente consapevolezza di potersi finalmente
vendicare, non solo delle umiliazioni ricevute,
ma di tutti i torti subiti in una vita. Nascose le
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stampe sotto un tappeto, l’indomani le avrebbe
bruciate tutte insieme alla pellicola.
Se ne uscì per la strada e raggiunse via Vela col
cuore in gola, quasi correndo.
In un attimo la vita di un uomo sarebbe stata
distrutta così come avevano fatto con la sua.
Una rabbia cieca lo pervadeva e a tratti poteva
persino sentire il sangue pulsargli nelle vene.
Continuò a camminare fino a giungere là dove
via Vela si apre nella splendida piazza XX set-
tembre.
D’improvviso qualcosa lo sfiorò sul volto, come
una mano leggiadra, una carezza soave e pietosa.
Un brivido lo percorse tutto. Alzò gli occhi al
cielo, impaurito: era la neve.
Veniva giù in ampie volute silenziosa e lieve
e irradiava, attraverso la luce riflessa dei lam-
pioni, tutta la via di un bagliore serafico. Si
fermò incerto, come paralizzato a guardare
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quello spettacolo silenzioso che pure parlava, ne
era certo: era lì per lui, per sussurargli qualcosa.
Da anni non nevicava in città, lui stesso non se
ne ricordava più e ora? Cos’era quello spettacolo
di una bellezza indicibile che sembrava prender
forma lì soltanto per lui, in una notte fredda e
silenziosa senza neanche l’ombra di un passante
per la via?
Di colpo gli venne in mente tutto: il rullino, le
stampe, il proposito di bruciare tutto e condan-
nare per sempre un innocente.
- Ma cosa sto facendo?- scoppiò in un urlo il
vecchio, crollando in ginocchio.
La testa in alto, fissava quello spettacolo e
intanto piangeva e si scostava la neve di bocca
e poi tornava correndo e inciampando verso il
negozio.
Entrò nella camera oscura barcollando, prese la
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stampa da sotto il tappeto, la ripiegò tutta e la
ficcò dentro un bustone indirizzato alla Procura.
Ora Civitanova era quasi tutta coperta e immo-
bile, soltanto a tratti si poteva scorgere il lento
movimento del mare, le cime bianche delle
onde confondersi con i vortici di neve sotto la
luce aranciata dei lampioni.
Ognuno aveva, finalmente, ricevuto il suo
regalo.
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Il racconto nasce da un’invenzione. Ogni riferimento a persone esistenti o a fatti realmente accaduti è da ritenersi puramente casuale.
G.V.
Un ringraziamento speciale a Cristina per la preziosa consulenza [G.V]