Sofia Coppola,“Non sono piùuna figlia di papà”
L’incontro
MARIO SERENELLINI
Ingegner Vian,le canzonimai cantate
Spettacoli
ANAIS GINORI e BORIS VIAN
MOSCA
Il tempo l’ha ingiallita. Rischia di sfaldarsi come una perga-mena. Gli angoli sono consumati; soprattutto quello destro,in basso, levigato da migliaia di dita che durante i concerti se-guivano gli accordi sul pentagramma. Boris sfiora quel pez-
zo di carta. La musica invade la stanza mentre l’indice affusolato del-l’archivista scorre le note. Si ferma sul margine e indica una parolascritta a mano, in stampatello. Un tratto di matita, il commento la-pidario dell’autrice: «1923, vediamo solo orrore».
Al secondo piano di un palazzo color ocra, dietro piazza Teatral-naya, nel cuore di Mosca, c’è l’archivio storico di quello che è consi-derato il tempio del balletto e della musica classica. Il Bolshoi, “gran-de” in russo, dopo sette anni di restauri il 28 ottobre riaprirà i battenti.Ma è in questo immobile separato, l’Operetta, che si nasconde unsegreto conservato da quasi due secoli.
(segue nelle pagine successive)
MOSCA
Su una panchina che dà le spalle alla statua di Karl Marx,nel centro di piazza Teatralnaya, Alesja Shuzhiraskaja,splendida pensionata di quarantasette anni, guarda glioperai che danno gli ultimi ritocchi al Bolshoi. Il raccon-
to viene fuori da solo. Senza pause, e con gli occhi un po’ lucidi. «Più che gli applausi, ricordo i funghi e le patate che ci portavamo ingiro per il mondo negli anni Settanta e Ottanta. Eravamo proprio del-le strane star io e le altre ballerine di prima fila. Gli americani, i fran-cesi, tutti, impazzivano per noi. I nostri politici erano fieri del nostromito esportato in Occidente. Eravamo la vetrina della macchina in-vincibile dell’Unione Sovietica. Sorridevamo con quell’aria di leg-gera supponenza che copiavamo dalle foto dei divi di Hollywood.Poi trasformavamo le nostre suite in un campeggio e tiravamo fuo-ri dalle valigie in similpelle quello che ci eravamo portate».
(segue nelle pagine successive)
LA DOMENICADIREPUBBLICA DOMENICA 16OTTOBRE 2011
NUMERO 348
CULT
La copertina
BIZIO, CERCAS E TOBAGI
L’artista scendein campoEcco le stardell’impegno
Il libro
DARIA GALATERIA
Moto e amiciziecosì Grossinarra l’incantodella giovinezza
All’interno
L’intervista
RAFFAELLA DE SANTIS
Terry Eagleton“Il mio saggiosulla nostra felicitàda jazz band”
La mostra
ACHILLE BONITO OLIVA
Arrivanogli indiani,l’arte glocaldi una nazione
Il teatro
ANNA BANDETTINI
La Biennaledove si mettein scenala realtà
del
Bolshoi
Viaggionegli
archividel teatroa pochigiornidalla
riapertura
I fantasmi
DANIELE MASTROGIACOMO NICOLA LOMBARDOZZI
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Frasi,disegni,
caricature Gli spartitiritrovati
raccontanola storiadell’Urss
Repubblica Nazionale
(segue dalla copertina)
Èun diario, raccoltoin trentamila fa-scicoli, dove com-positori, direttori,orchestrali, adat-tatori e scenografi
raccontano lo spirito del tempo,gli avvenimenti che hanno scan-
dito la storia di tutte le Russie. Pa-role, frasi, poesie, disegni, caricatu-
re, bozzetti. A volte semplici schizzi;altre interi affreschi.
La scoperta è avvenuta per caso. Perprocedere alla digitalizzazione deiventiduemila spartiti conservati al Bol-shoi, una squadra di archivisti ha dovu-to sfogliare ogni singolo foglio, fotogra-farlo e immetterlo su file elettronici.Boris Mukosey, Aleshia Bobrik e SergeiKonayev, tutti sulla trentina, accettano
di incontrarci e ci spiegano la loro av-ventura. Mentre ordinavano con deli-catezza questi reperti ammassati su al-te pile e sommersi dalla polvere, hannocominciato a notare degli appunti amargine degli spartiti. «Sulle prime», ri-corda Boris, «abbiamo pensato a dellecorrezioni. Molte delle scritte, infatti,riportano annotazioni tecniche. Poi cisiamo resi conto che c’era molto dipiù». Sulle opere di Boito, Masetti, Ros-sini, Verdi, Chopin appaiono brevicommenti, battute, riflessioni filosofi-che, giudizi politici; anche semplici sa-luti ai colleghi che in altri teatri di altrecittà prima o poi si sarebbero ritrovatitra le mani gli stessi spartiti. «Sono te-stimonianze uniche», si appassionaSergei, «piccoli frammenti di storia. Al-cune parole sono in latino, altre in ciril-lico, altre ancora in francese, in tede-sco. Ma la maggioranza sono in italia-
no». «Gli spartiti», aggiunge Aleshia,«venivano fotocopiati dal direttore edistribuiti a tutti gli orchestrali. Questistavano la maggior parte del loro tem-po chiusi nella fossa a provare e ripro-vare i pezzi per decine di volte». «Pro-babilmente si annoiavano», suggerisceBoris, «restare seduti per ore, aspettan-do il proprio turno, concedendosi ognitanto delle pause, tutto ciò li spingeva ascarabocchiare sullo spartito che ave-vano davanti. Ma c’era anche chi suquei fogli lanciava messaggi, descrive-va quello che stava avvenendo. Confer-mava o smentiva gli effetti di certi scon-volgimenti politici che hanno segnatola storia del nostro Paese». L “orrore”scritto in stampatello è un commentodi Anastasia Abramova, famosissimaballerina degli anni Venti. «Si riferiva»,spiega Boris, «a quanto stava accaden-do dopo la rivoluzione bolscevica».
Non è stato facile legare le frasi e i di-segni ai singoli musicisti o ballerini.Ma lo studio comparativo consente didescrivere anche le caratteristiche de-gli orchestrali. Gli addetti agli archierano più razionali e pragmatici. «I lo-ro spartiti sono pieni di numeri», rac-conta Aleshia. «Forse avevano menotempo: i violinisti devono intervenirepiù spesso nel concerto e questo li ob-bligava a scrivere cose semplici. Lamaggior parte calcolava quantoavrebbe dovuto percepire a fine setti-mana. Molti si perdevano nei conti».Gli addetti agli ottoni, agli strumenti afiato, avevano molto più tempo e lar-gheggiavano in disegni. In alcunispartiti ci sono quasi degli affreschicolorati. In altri interi sonetti. In altriancora caricature di colleghi colti inposizioni strane mentre si concentra-no durante le prove. «È un vero diario
La copertinaFantasmi di carta
DANIELE MASTROGIACOMO
CONTI
Da sinistra, i conti
sui giorni mancanti
alla consegna
della busta paga
accanto a un ritratto
femminile; appunti
del 1892 sulle prove
“1923, solo orrore” scriveva in stampatellosu un pentagramma
l’étoile Anastasia AbramovaDagli archivi del celebre teatro,a pochi giorni dalla riapertura,spuntano i vecchi spartitisu cui artisti noti e meno notiappuntavano i grandie i piccoli fatti della storia
Sulle note ritrovatela vita ai tempi dell’Urss
BolshoiCARICATURE
A sinistra la caricatura di un suonatore di corno
inglese e alcuni appunti su personaggi legati al Kgb;
qui sopra la disperata voglia di una sigaretta durante
le prove esorcizzata con un disegno e una scritta: “Fumare!”
LA DOMENICA■ 28
DOMENICA 16 OTTOBRE 2011
SCHERZI
A destra, la presa in giro
di un suonatore di fagotto:
“A diciott’anni era così,
oggi è così”. In basso,
ballerine del Bolshoi
dietro le quinte
Repubblica Nazionale
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DOMENICA 16 OTTOBRE 2011
STALIN
Tra le scritte e gli scarabocchi
su un pentagramma compare
la frase: “5/III/1953. Il grande Stalin
è morto”. Qualcuno ha cancellato
la parola “grande”. Nella foto accanto,
il dittatore al Bolshoi in occasione
del suo settantesimo compleanno
AMERICANO
A destra, una delle stelle del teatro
moscovita: Mikhail Baryshnikov
Qui la sua interpretazione
nel Lago dei cigni, al Bolshoi,
nel 1983. Tre anni più tardi
il celebre ballerino sceglierà
di diventare cittadino americano
FIDEL
Fidel Castro, Nikita Krusceve Emilio Aragones Navarro a un ballettodel Bolshoi il 1° maggio del 1963
PACE
Ballerina prima dello spettacolo
Sotto, caricature su pentagramma
e una scritta in italiano: “pace pace”
“Il mondo ci applaudiva,noi sognavamo le Barbie”
NICOLA LOMBARDOZZI
(segue dalla copertina)
«Cetrioli e salsicce sfuggiti ai controlli con lacomplicità degli equipaggi dell’Aeroflot.L’importante era non spendere un centesi-
mo dei 15 dollari giornalieri di diaria per ogni tournée.E investire tutto nell’unica cosa che contava: regali pergli amici, jeans, profumi, qualche disco proibito deiBeatles, cioccolato. All’inizio era un gioco. Poi comin-ciai a organizzarmi. Un po’ di risparmi nascosti nellabiancheria. Un capitale per comprare merce da riven-dere o regalare a Mosca in cambio di piccoli favori indi-spensabili: l’inserimento nella cooperativa che co-struiva nuove case, una fornitura di elettrodomesticirarissimi, un salto in avanti nella lista d’attesa per unaZhigulì. Ma non crediate che ci sentissimo inferiori anessuno. Io, ero orgogliosa di essere una protagonistanel corpo di ballo più famoso del mondo. Non una stel-la di prima grandezza come Ekaterina Maksimova, perintenderci, ma neanche l’ultima arrivata. I giornali so-vietici dicevano che chiunque di noi avrebbe potuto es-sere la prima donna in qualsiasi teatro occidentale. Eforse avevano ragione. Ero fiera della qualità della no-stra danza. E, lasciatemelo dire, grata al sistema per es-sere diventata quello che ero. Nei primi anni Settantanon era come adesso che danza chi vuole danzare. Per-ché ha i soldi o perché lo vogliono i genitori. C’era unaricerca scientifica dei talenti come del resto avvenivaper gli atleti. A otto anni fui obbligata come tutte le bam-bine a fare delle prove a scuola. Poi mi ordinarono di fa-re un altro test davanti a Jurij Grigorovich, il più grandecoreografo di tutti i tempi. Ma figuratevi, mia madre eraingegnere, niente di più lontano dall’arte. Io stessa ese-guivo gli esercizi per puro dovere, come facevo quelli dimatematica o di grammatica. Ma la selezione era im-placabile. Fui assegnata alla scuola del Bolshoi. E nonci fu discussione. Arrivarono richieste anche da altri ce-lebri teatri, dallo Stanislavskij per esempio, ma ero sta-ta giudicata da Bolshoi e fu detto loro di non insistere.Avevo un talento, anche se non lo sapevo, e dovevometterlo al servizio della Patria.
In cambio ho imparato un’arte che adesso non si in-segna più. Alla corte di Marina Timofeevna Semiono-va, un mito per chi conosce un po’ di storia della danza.Niente super allenamenti, niente ossessione perfezio-nistica, non fidatevi dei luoghi comuni. Studiavamodanza ma anche recitazione e pianoforte. E sapete incosa consisteva la nostra superiorità? Nell’anima.Adesso vince il modello occidentale, spettacolare, po-tente. Si strappa l’ovazione con il salto più in alto, con lepiroette più difficili. L’arte però è un’altra cosa. Nonpuoi ballare Ciaikovskij come fosse Ravel e viceversa.Devi entrare nel ruolo, sentire la musica, metterci ilcuore. E non era solo arte. Il prestigio sociale era im-menso. Ricchi no, guadagnavamo anche meno deglioperai. Ma quanti privilegi. Vi dico solo una cosa. Mi da-vano due biglietti omaggio per ogni rappresentazione.Il prezzo era alto ma soprattutto le code infinite. Queitagliandi erano oro puro. Con soli quattro biglietti re-galati a ginecologo e ostetrica ho rimediato un tratta-mento da regina per il mio primo parto. Con meno diuna decina, ho ricevuto per mesi forniture alimentariintrovabili al bancone dei negozi.
Certo, c’era anche il rovescio della medaglia. A co-minciare dall’indottrinamento politico. Penso a quellelezioni alle otto di mattina, quando avevamo finito unospettacolo la sera prima a mezzanotte. Tutti assonnati,docente compreso, fingevamo di occuparci del socia-lismo e dei suoi obiettivi. Una farsa, ma si doveva fare.E prima di ogni tournée, quanti interrogatori e racco-mandazioni. Erano terrorizzati dalle fughe. Un ominodel Kgb ci seguiva ovunque. Implorava, poveretto: nonfuggite, non stavolta che ci sono io, sarei rovinato. Maper fuggire ci voleva coraggio, motivazione politica. Iostavo bene. Non ho mai visto l’Occidente come il Para-diso in terra. Piuttosto un sogno che mi capitava di vi-vere spesso. Ricordo il mio primo viaggio, a New York,da allieva, nel ’74. Avevo dodici anni. Impazzii per leBarbie. Mai visto bambole così. Ne comprai tre. E nonvedevo l’ora di tornare dalle mie amiche a Mosca. Io, lapiccola ballerina del Bolshoi. Quella con le Barbie».
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di quanto accadeva sulla scena e nellavita di tutti i giorni. Tenuto spesso congrande umorismo e con un vero talen-to artistico». Su alcuni spartiti ci sonoanche disegni all’epoca piuttosto ri-schiosi, come le ballerine nude in po-sizioni erotiche disegnate su un Rigo-letto. L’archivio originale era molto piùvasto di quello attuale. I tre incendi chenell’Ottocento aggredirono il teatrohanno distrutto la metà degli spartiti.Si sono salvati, per fortuna, i più famo-si, spesso donati al teatro dagli stessicompositori e per questo ancora piùpregiati. Nascosti tra gli scaffali di que-sta piccola stanza rimasta a lungochiusa e isolata, hanno resistito ai mo-menti più difficili, la campagna di Na-poleone, la caduta degli zar, la rivolu-zione d’Ottobre, due guerre mondiali,gli assedi delle truppe di Hitler. Oggiquegli spartiti restano i testimoni di
una lunga storia. «Il grande Stalin èmorto», annuncia nel 1953 una manoanonima in fondo a un pentagramma.Mentre un’altra cancella, con un graf-fio nervoso, quel «grande». «Suoniamocon 5 gradi», ricorda uno spartito delcompositore Carl Maria Von Webernel 1940. «Alcune persone hanno il na-so congelato». Fino a commenti più al-larmati che rievocano il terrore dellapolizia segreta, l’allora Kgb: «Sembrache siano venuti per Tatiana», appun-ta nel 1968 un violinista durante le pro-ve dell’Eugenio Onegin, romanzo inversi di Puskin arrangiato dal grandeCiaikovskij. I tre archivisti sorridono.«L’autore voleva dire un’altra cosa»,suggeriscono. «Tatiana era una pessi-ma cantante. Non vedevano l’ora chese ne andasse e speravano che qualcu-no la portasse via».
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RITRATTI
Sopra, altri disegni dei musicisti
del Bolshoi: una voluttuosa ballerina
e due caricature su un pentagramma
La ballerina
Repubblica Nazionale
LA DOMENICA■ 30
DOMENICA 16 OTTOBRE 2011
Si chiamano Woodland, Spirit Land, Tinkers Bubble. Sono microscopichecomunità di persone che hanno deciso di vivere lontanedal consumismo e di costruire le proprie case di tronchi
e foglie nelle foreste inglesidel Devon, del Pembrokeshire,del Somerset. E che da qui difendono il loro diritto a un’esistenza fuori dal comune
L’attualitàInto the Wild
LONDRA
C’era una volta una strada nel bosco. O me-glio, un’autostrada. Potrebbe essere l’ini-zio di una favola postmoderna. Precisia-mo, però: il bosco c’era, l’autostrada che ci
passava in mezzo ancora no. Volevano costruirla nel Devon,per portare il traffico nel countryside inglese e così alleggeri-re gli ingorghi di una tangenziale vicina. Forse sarebbe pia-ciuta agli automobilisti, ma certo non al bosco, ai suoi ani-mali, alle sue piante secolari. Così nove anni fa un gruppo diambientalisti decise di piantare le tende tra gli alberi di quel-la foresta, con l’obiettivo di bloccare l’avanzata di ruspe, ca-mion, asfalto, insomma per fermare l’autostrada. L’iniziati-va riuscì. Con il sostegno della potente lobby dei campagno-li, ossia degli amanti della vita di campagna, che è una dellesacre icone dell’Inghilterra: una singolare alleanza di verdi etradizionalisti, di ecologisti e conservatori ha fatto cambia-re idea alle autorità e salvato il bosco dall’autostrada.
Sembra la versione moderna de Il segreto del bosco vec-chio, indimenticabile apologo di Dino Buzzati in cui unospeculatore è pronto a tutto pur di abbattere un bosco. Soloche nella realtà la fiaba non è finita con lo stop alla costru-
zione dell’autostrada. Gli ambientalisti si sono trovati cosìbene nella foresta che ci sono rimasti. Le tende sono diven-tate capanne, poi casupole, poi case, naturalmente eco-so-stenibili, fatte in proprio, non inquinanti e appoggiate, av-vinghiate, arrampicate agli alberi, o addirittura sopra di es-si. È nato così poco per volta uno strano movimento, dap-prima in Inghilterra, poi anche altrove (Italia compresa).People of the Trees, si autodefiniscono: “Il popolo degli albe-ri”. «Albericoli», li chiamano talvolta quelli che stanno fuoridal bosco, evocando il termine «cavernicoli». Ed è a una vitapiù semplice, primitiva, elementare, che loro effettivamen-te ambiscono, perciò non lo prendono come un insulto.
La prima è stata la Steward Community Woodland nel De-von. Si è autoproclamata comunità nel 2004, qualche annodopo la campagna per fermare l’autostrada. «Tra gli alberi esugli alberi si vive bene, certamente meglio che tra le auto, losmog e tutte le follie del consumismo urbano», dice JohnAsher, circondato da Sonya, Daisy, Marley e dal cane, consi-derato il capo di questa speciale tribù. La pensano come luiEmma e Bill del Tir Ysbrydol (Spirit Land, “La terra dello spi-rito”), una comunità analoga nel Pembrokeshire, e i resi-denti del Tinkers Bubble (“Bolla dei pensatori”) nel Somer-set, e tutti gli altri seguaci del ritorno alla natura. La vita degli“albericoli” non è facile. Intanto, bisogna saper costruireuna casetta con materiali naturali, facendo tutto da soli, so-pravvivendo senza elettricità, gas, acqua. Poi, quando le ca-sette sono almeno mezza dozzina, bisogna combattere con-tro le leggi e la burocrazia che si rifiutano di considerarle unvillaggio: le stesse leggi e la stessa burocrazia che sarebberopronte ad abbattere un bosco per farci passare un’autostra-da, ma che giudicano incivile la presenza di qualche decinadi esseri umani rispettosi dell’ambiente. Quindi servono av-vocati, lobbisti, soldi, per difendere il proprio diritto a un’e-sistenza fuori dalla norma. «Ma questa è gente che crede inquello che fa e non arretra davanti a nulla», ci dice David Spe-ro, il fotografo inglese che per un decennio ha documentato
Popoloalberi
Ildegli
MARY & JOE. Vivono in questa casa nella foresta del Somerset e fanno parte della comunità Tinkers Bubble EMMA & JOHN. Sono membri della comunità Brithdir Mawr,
BRIGYN. La sua casa si trova nel bosco della comunità Brithdir Mawr, nel Pembrokeshire, in Galles CUCINA. Pentole e stoviglie a disposizione dei membri
ENRICO FRANCESCHINI
Repubblica Nazionale
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DOMENICA 16 OTTOBRE 2011
IL FESTIVAL
La decima edizione del Festival internazionale FOTOGRAFIA (al Macro Testaccio
di Roma, in piazza Giustiniani, fino al 23 ottobre) diretto da Marco Delogu,
è dedicata al tema “Motherland” e affronta il rapporto tra fotografia e territorio
Sotto il titolo Settlements sono esposte anche le immagini di David Spero,
alcune delle quali pubblicate in queste pagine. Le sue e quelle degli altri fotografi
che partecipano alle collettiva sono inoltre pubblicate nel catalogo
Motherland edito da Quodlibet (264 pagine, 25 euro)
LONGHOUSE. Tipica casa nel bosco abitata dai membri della Steward Community Woodland, nel Devon
Non ricordo più il nome, ma la faccia ce l’ho stampatadavanti. Avrà avuto quarant’anni e pareva uscita daun altro tempo. Abbronzata come un tagliaboschi,
portava capelli a caschetto, tagliati alla buona. C’era qualco-sa di francescano e medievale in lei. Si era fermata a una fon-te, in un paesino sloveno di dieci abitanti. Sulle spalle avevauno zaino e a tracolla una bisaccia da cui sbucava un quadroa tempera. Io passavo di lì, in gita col mio compagno preferi-to, Virgilio, e la donna — accortasi che parlavamo italiano co-me lei — ci chiese la strada per andare a un altro villaggio. Cimostrò la sua carta e vedemmo con sbigottimento che erascala uno al duecentomila, buona per automobilisti e nonper camminatori. Un tipo speciale.
Viveva di ciò che dava il bosco. «D’autunno — disse — è im-possibile aver fame. Trovo uva, castagne, bacche di ogni tipo.E poi mi regalano zucche, patate». Spiegò che veniva dalle val-li del Friuli Orientale e andava a piedi da sola a un santuario inlocalità Strugnano, alto sul mare dell’Istria. Pregava spesso,disse, ma non era cattolica e nemmeno cristiana. Le sua divi-nità stavano effigiate in piccole icone indiane raccolte nella bi-saccia. Il santuario lo cercava solo per sondarne l’energia. Rac-contò che dormiva sotto gli alberi con una coperta e un telo ela pioggia non era un problema. Poi raccontò la sua storia.
Viveva in una grotta, e si preparava all’inverno racco-
gliendo la legna del bosco. Le chiedemmo come si procura-va il cibo. Spiegò che ogni tanto scendeva a valle per presta-re lavoro e avere cibo in cambio. Niente danaro, l’aveva ban-dito dalla sua vita. Il resto era eremitaggio puro, senza truc-chi. Roba vera, per vivere: non per suicidarsi nella wildernesso scrivere libri alla moda millantando prestazioni inesisten-ti. Era piemontese, figlia di ricchi industriali, e aveva molla-to il suo mondo da vent’anni. Della vecchia pelle aveva rin-negato tutto, persino il cognome. Rifiutava di avere docu-menti e la polizia, comprensiva, le ristampava ogni tanto unfoglio di smarrimento della carta d’identità.
La fuggitiva parlava senza reticenze, quasi meravigliatache non la deridessimo. Non sfuggiva al mondo, lo attraver-sava e basta. A piedi era stata fino all’ultima Ucraina, quat-tromila chilometri dormendo «dentro i covoni» nei mesifreddi. Poi l’avevano trovata senza passaporto dalle parti delDon e l’avevano messa in galera. «Lì ho imparato a cantare.C’era una prostituta dolcissima che mi insegnava ballatestupende. Sono stati i giorni più belli della mia vita». Le rega-lai un block notes, le dissi che non poteva non scrivere quel-le cose. In cambio, lei ci offrì due mazzetti di fiori gialli mi-nuziosamente annodati con fili d’erba, poi se ne andò, so-letta, verso la notte.
L’eremitaggio senza trucchidella donna che rinnegò soldi e cognome
PAOLO RUMIZ
nel Pembrokeshire, in Galles
ROTONDA. La casa funge da spazio comune per i membri della Tinkers Bubble, nella foresta inglese del Somerset
l’epopea del Popolo degli Alberi. «Per fotografare le caseho dovuto prima guadagnare la fiducia di quelli che ci abita-vano. È stato come entrare a contatto con una specie scono-sciuta, perché in un certo senso anche queste persone, conla loro scelta radicale, sono diventate parte della fauna delbosco, parte del bosco, e guardano giustamente con una cer-ta diffidenza chi viene da fuori».
In Inghilterra, come altrove, ce l’hanno fatta, almeno fi-nora. Qui hanno persino ricevuto un aiuto del tutto inatte-so: una campagna stampa del quotidiano conservatoreDaily Telegraphcontro le nuove regole di pianificazione ap-provate dal governo (conservatore anche quello) di DavidCameron. Il premier voleva sostituire 1300 pagine di rego-lamenti con un libretto di appena 52. Il messaggio era chia-ro: tutto è permesso. «Un assegno in bianco agli speculato-ri per distruggere il nostro patrimonio forestale e allargare adismisura le città», accusa John Rhodes, inizialmente unodegli autori della riforma, che ora ha ritrattato passando dal-la parte degli “albericoli”. Gli inglesi adorano la campagna,anche quelli che non ne posseggono neppure un pezzetto,sicché nel nome di sentimenti a metà strada tra tradizionivecchio stile e ecologismo militante sperano che il proget-to sarà bloccato – come anni fa l’autostrada che doveva sra-dicare gli alberi del Devon.
Fanno venire in mente gli gnomi, gli elfi, i folletti del bosco,questi uomini e donne (e anche qualche bambino) che han-no scelto di abitare tra gli alberi. Alcuni di loro hanno l’autoparcheggiata non troppo lontano e ogni giorno vanno al la-voro in città. Le loro originali costruzioni hanno attirato an-che l’interesse di agenzie immobiliari: c’è chi le acquistereb-be a suon di milioni di sterline come seconda casa. Ma gli “al-bericoli”, come Robin Hood, stanno bene nella foresta. E co-me il Barone Rampante di Italo Calvino rispondono alle of-ferte di denaro allo stesso modo in cui rispondevano alle mi-nacce delle ruspe: fermate il mondo, da quassù non si scende.
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della comunità Tinkers Bubble, nel Somerset
Repubblica Nazionale
LA DOMENICA■ 36
DOMENICA 16 OTTOBRE 2011
“Addetto all’ufficio informazioni delle ferrovie salva bambinoda un incendio”. La notizia appare sul giornale e per qualche giornola vita di Earl Parish cambia. Poi il tempo passa, tutti dimenticano,tranne lui. La storia di un’ossessione in un raccontototalmente inedito del creatore di Sam Spade
Rimase distesopensando che molta gente,in tutta la città, aveva lettociò che aveva fattoAdesso sapevanoche era un uomocoraggioso
La letturaNoir
leva salire quei gradini e portare giù il bambino, orestare con lui finché il fuoco non fosse statospento. Ma farlo poteva sembrare una mancan-za di fiducia negli uomini che erano tornati perstrada. Se avesse detto loro che voleva continua-re nell’impresa, lo avrebbero accompagnato. Es-sendo rimasto silenziosamente indietro, se orafosse uscito con il bambino o se si fosse fatto tro-vare di sopra con lui dopo lo spegnimento del fuo-co, avrebbero pensato che li aveva imbrogliatiper mostrarsi come uno che, da solo, aveva fattociò di cui loro avevano avuto paura.
Fece un passo verso la strada e si fermò. Usciresenza il bambino, a questo punto, non sarebbestato meglio. Gli uomini in strada, che senza dub-bio si erano ormai accorti della sua assenza,avrebbero pensato che, dopo aver tradito la lorofiducia, gli era mancato il coraggio.
Earl Parish salì i gradini con le aste d’ottone. Viavia che saliva, il fumo diventava più spesso, mamai così denso da impedirgli di continuare adavanzare. Non vide nessuna fiamma. Al terzo pia-no, una porta sgangherata gli impediva l’accessoalla facciata dell’edificio, ma poi si ricordò chequesta era un’occasione insolita, un’emergenza,
per essere precisi e aprì la porta conuna spallata.
Nella stanza dove sitrovava il bambino c’era poco fumo, ma unalieve nebbiolina entrò insieme a lui. Il bambinogli andò incontro.
«’umo» disse con tono serio.«È tutto a posto, figliolo» disse Earl Parish pren-
dendolo in braccio. «Adesso ti porto subito fuorida qui».
Avvolse con leggerezza una tovaglia rossa everde intorno alla testa del bambino, lasciando-ne libero un lembo se per caso ne avesse avuto bi-sogno. Fece uno sforzo per non mostrarsi alla fi-nestra e poi scese da dove era salito.
Per strada, qualcuno prese il bambino. Gli gi-rava un po’ la testa per il fumo, per lo sforzo nelloscendere giù con il bambino e per l’emozione cheera cresciuta in lui mentre scendeva... quel ner-vosismo che accompagna anche la più tranquil-la delle ritirate. Tenne la schiena dritta ed evitò glisguardi curiosi.[...]
***
Il mattino dopo, seduto alla sua scrivania, EarlParish cercò sui quotidiani. Sul Morning Post,
trovò una notizia di due righe: un incendio di ori-gini sconosciute era stato domato con lievi dannidopo che un bambino era stato tratto in salvo daEarl Parish. Piegò il trafiletto in mezzo al giornale elo mise via. Tra la partenza del 131, diretto a sud, el’arrivo del 22, un impiegato delle ferrovie si avvi-cinò allo sportello di Earl Parish e gli rivolse un sor-riso da sopra il cartello “Informazioni”.
«Dov’è la medaglia?» chiese l’impiegato delleferrovie.
Earl Parish gli restituì il sorriso con aria ebete. Ilsangue gli salì alla testa, cominciò a sudare. Allastazione, la notizia si diffuse in un baleno: Earl Pa-
DASHIELL HAMMETT
DashiellHammett
Due righe in cronacaper l’impiegatoche si immaginò eroe
«Forse quelladonna ha ragione» disse. «Quelbambino rischia di avere una crisi di panico. Ave-vo un nipote a cui veniva il ballo di San Vito per lapaura, se un gatto gli saltava addosso».
«Ma davvero?» chiese l’araldo dei vigili del fuo-co con straordinario interesse.
«Forse sarebbe meglio se noi...» suggerì EarlParish.
«Forse sarebbe meglio». Il gruppo oscillava senza prendere una deci-
sione. Poi, otto uomini attraversarono la strada,affrettando il passo via via che si avvicinavano al-l’ingresso fumante. Nel salire i quattro gradini dilegno, si urtarono l’un l’altro, perché ognuno vo-leva arrivare per primo. Stavano entrando inquella casa e avrebbero corso tutti lo stesso ri-schio. Ma chi entrava per primo avrebbe portatogiù il bambino, mentre gli altri sarebbero stati so-lo un coro di poca importanza. Varcata la soglia,li avvolse una folata di fumo che offuscò la lucebruciandogli gli occhi e la gola. Per strada, si sen-tirono risuonare le campane e le sirene.
«Ecco i pompieri!» gridò il profeta. «Porteran-no giù quel bambino in un attimo!».
Sette uomini tornarono in strada e nulla nel lo-ro atteggiamento rivelava che intendessero scu-sarsi. Earl Parish rimase nella casa. [...]Esitò. Vo-
Dalla porta aperta e da una finestraal secondo piano uscivano sottilispirali di fumo senza propulsioneche svanivano nell’aria. Più in al-to, il viso di un bambino — appe-so al davanzale come se fosse in
punta di piedi — era schiacciato contro il vetro diuna finestra del terzo piano. Sembrava perples-so, ma non impaurito. L’uomo a sinistra di EarlParish fu il primo a vederlo.
«Guardate!» esclamò, indicandolo con la ma-no. «C’è un bambino, lassù!»
Gli altri guardarono in alto e ripeterono: «C’èun bambino, lassù!».
«Qualcuno ha già dato l’allarme?» chiese unuomo appena arrivato.
«Sì» gli assicurarono diverse voci. E una ag-giunse: «I pompieri dovrebbero arrivare da unmomento all’altro».
«Il bambino sta bene». L’uomo che aveva vistoper primo il bambino elogiava la sua scoperta.«Non piange nemmeno».
«Probabilmente non sa nemmeno che cosastia succedendo».
«I pompieri arriveranno tra un attimo. È inuti-le che proviamo a fare qualcosa. Lo tireranno fuo-ri con la scala molto più in fretta di quanto po-tremmo fare noi». [...]
Da una casa dietro agli uomini, giunse la vocedi una donna. «Qualcuno dovrebbe andare a tirarfuori quel bambino! Anche se non si brucia, po-trebbero venirgli le convulsioni dallo spavento oqualcosa del genere». [...]
L’uomo che aveva scoperto il viso alla finestrasi schiarì la gola, gli occhi fissi in modo un po’ ri-gido alla finestra.
Repubblica Nazionale
timana, Earl Parish cominciò a saltare delle scato-le, quelle più lontane. [...] Lo licenziarono alla finedella terza settimana. [...]
***
Trascorse molto tempo in una piazza poco lon-tano dalla zona degli uffici. Seduto su una panchi-na o sdraiato sull’erba, classificava i passanti comeera sua abitudine. Sempre meno erano quelli a cuila civiltà industriale non avesse distillato dalle ve-ne il coraggio ancestrale. Ogni tanto, mandava unalettera alla rubrica dei lettori del Post, con amaricommenti sulla decadenza della razza.
A volte andava al porto, fingendo di partire peruna terra virile dove ancora prosperavano i corag-giosi e le pecore si mangiavano. Non metteva maipiede sul ponte di una nave, non faceva mai unadomanda che potesse portarlo a bordo. I periodi incui cercava svogliatamente lavoro si allungarono.Le parentesi di lavoro si fecero più brevi. Certi gior-ni, ebbe fame.
In uno di quei giorni, andò in quella casa da cuiaveva tratto in salvo il bambino. La famiglia delbambino se n’era andata dal quartiere e nessunosapeva dove fosse. Una mattina in cui la fame si erafatta un groppo duro nello stomaco, camminavaper la strada studiando i volti delle persone che in-crociava, classificandole, ma non nel suo modoabituale. Ora cercava di distinguere tra chi proba-bilmente era di idee liberali e chi probabilmentenon lo era.
Per tre volte si avvicinò a dei volti che rivelavanogenerosità. Per tre volte, all’ultimo momento, la ti-midezza e l’eccessiva vicinanza di altre personenella strada gli impedirono di parlare, facendogliaffrettare il passo come se un urgente impegno loaspettasse alla fine della strada. Il quarto volto chelo attrasse era molto anziano e gli anni avevano di-lavato ogni colore, ogni espressione, a parte unamite cordialità. Il proprietario di quel volto cam-minava solo, a passo lento, con l’aiuto di un basto-ne dall’impugnatura d’argento. Le sue scarpe era-no specchi neri.
Earl Parish si girò e seguì il vecchio. Passaronoe ripassarono altri passanti. Earl Parish si mante-neva a mezzo isolato di distanza da quell’uomo ementre camminava tirò fuori dalla loro busta i ri-tagli di giornale che aveva sempre sottomano e seli mise in tasca sciolti, pronti per essere mostratise la sua richiesta di «qualche soldo» avesse avu-to bisogno di essere corroborata da qualche do-cumento.
A quel punto, il vecchio svoltò in una strada do-ve c’era poca gente. Earl Parish affrettò il passo ela distanza fra di loro diminuì. Affrettandosi inquel modo, arrivò in un angolo dove un uomo acapo scoperto stava rompendo il vetro di un al-larme antincendio con un fazzoletto avvolto at-torno al pugno. Earl Parish dimenticò la sua pre-da dal viso gentile.
«Dov’è?» chiese all’uomo a capo scoperto in untono secco e professionale.
«Nella strada qui dietro». Earl Parish corse dietro l’angolo. Tre uomini si
stavano dirigendo verso l’imbocco di un vicolo chedivideva un caseggiato. Si affrettò a seguirli. Da unacasa bianca e rossa, a metà del caseggiato, si leva-va un fumo spugnoso che ingrigiva la strada. Da-vanti alla casa, un uomo cercò di afferrare Earl Pa-rish per un braccio, ma lui spinse via quella manoche si intrometteva e salì rapidamente i gradiniesterni.
«Ehi! Esca da lì!» gli urlò l’uomo.Earl Parish aprì con una spinta la porta d’ingres-
so e si slanciò nell’interno fumoso. Un colpo al pet-to lo fermò, risospingendolo indietro, svuotando-gli i polmoni dell’aria pulita che avevano portatodalla strada. Il fumo gli bruciava la gola, il petto. Lesue mani trovarono la cosa che lo aveva colpito, ilmontante della scala. Vi si afferrò, poi chiuse gli oc-chi per il fumo bruciante e tossì. [...]
Earl Parish urlò — una protesta soffocata dal fu-mo contro quell’inganno, quel tradimento. Nel-l’altra casa non c’era stato un fuoco visibile. C’erastato solo del fumo e un bambino da portare fuori,null’altro. Qui c’era un fuoco vivo — che scemo erastato! — e forse nessuno da portar fuori. Come po-
teva sapere se c’era qualcuno alpiano di so-
p r a ?Era possibile? [...]
Fissò il foglio con una strana concentrazio-ne. Gli risultava familiare, quel piccolo rettango-lo di polpa di legno arrotolata, così totalmenteprivo di importanza, una cosa così banale, lì, inuna casa in fiamme. E quando riconobbe il fo-glietto, continuò a guardarlo, vedendo ora per laprima volta nella sua vera misura il suo amato ri-taglio del Morning Post dell’anno prima: la noti-zia di due righe di un incendio di origini scono-sciute domato con lievi danni dopo che un bam-
bino era stato tratto in salvo da Earl Parish.Vedendo quel ritaglio per quello che era, ne vi-
de il suo significato e vide anche altre cose: vide sestesso con una chiarezza che screziava il suo vol-to più di quanto potessero fare il fumo e il fuoco.Si rialzò sul pianerottolo e guardò verso il pianosuperiore con un pezzo di giornale accartocciatonel pugno.
«Finora ho avuto il mio divertimento, brutto...»disse rivolto al ritaglio di giornale. E dopo averlocoperto di pesanti invettive quasi fosse una per-sona, lo gettò nel fuoco. «Ma adesso me lo vado aguadagnare!»
C’era un turbine di fumo per le scale, una lucerossa che crepitava e vivide lingue di fuoco chelambivano il soffitto. Earl Parish le attraversò persalire al secondo piano. Ma non le attraversò tut-to intero. Un po’ di capelli, un lembo di pelle diuna mano, alcuni brandelli dei suoi abiti ridottiscomparvero, ridotti in cenere. Il resto di Earl Pa-rish giunse al secondo piano, sbatté la porta tra luie le scale e soffocò con le mani le numerose bru-ciacchiature sui suoi vestiti. [...]
In un angolo, sentì un piccolo starnuto. L’uomo si mise a quattro zampe e guardò sotto
la sedia. Un micino color cannella smise di fregar-si il naso con le zampine per starnutire di nuovo.Earl Parish rise rocamente. Prese il gattino dal suonascondiglio e lo infilò nella tasca del cappotto.
Faticò a rimettersi in piedi, ma alla fine ci riuscì.La finestra si sollevò facilmente, creando una cor-rente che spalancò la porta e risucchiò nella stan-za una palla di fuoco che non assomigliava più a la-me di spada. Earl Parish si arrampicò sulla finestrae vide le facce per strada che guardavano in su.
Un poliziotto agitò il braccio.«Resisti, fratello» gridò. «Stanno arrivando i
pompieri!»«Attenti!» rispose urlando Earl Parish. E saltò.Ci fu un impatto, ma non quello del duro mar-
ciapiede che si aspettava. Si trovava su una spe-cie di cuscino blu: il poliziotto era corso a metter-si sotto di lui. Alcuni uomini li trascinarono viaper far posto ai pompieri in arrivo e li aiutarono arialzarsi. Il poliziotto aveva il volto sanguinante.
«Tu sei matto!» disse.Earl Parish era alle prese con la tasca del suo
cappotto per districare il gattino color cannelladalla fodera strappata. Qualcuno prese il gattino.Si udirono delle voci, delle domande. Una di que-ste riguardava il nome e l’indirizzo di Earl Parish.
«Earl...» tossì violentemente per coprire la pau-sa e ripeté: «Earl... John W. Earl» e aggiunse il no-me di una strada e un numero, sperando che nonappartenessero a nessuno dei presenti.
Ripeté che si sentiva bene, che non aveva biso-gno di un medico. Sgattaiolò via tra la folla. Si al-lontanò frettolosamente dal fuoco lungo un vi-colo. Girò tre angoli prima di fermarsi. Dalla ta-sca, tirò fuori due ritagli... uno, della rivista degliimpiegati delle ferrovie e l’altro di un giornale.
Li strappò in minuscoli pezzetti e poi li lanciòper aria come un turbine di neve artificiale.
* * *
A Howard Street, tra un negozio di abiti usati euna tavola calda, c’è un ufficio con un ampio in-gresso non ammobiliato a eccezione di unasquallida scrivania, una sedia e un tavolo dietro aun logoro bancone sul retro e una lavagna che oc-cupa una parete laterale.
Su questa lavagna c’è una lista di cose tipo:«operai, azienda, campagna, $3,75; taglialegna,campagna, 4 piedi e legna da ardere, $2,50-4,50 acatasta; bracciante, campagna, $45-65; saldatorepiombo, azienda, $8». Sotto alcune di queste vo-ci, c’era scritto «rimborso spese di trasferimento».
Un pomeriggio, si presentò in questo ufficio unuomo basso e robusto sui trent’anni, con gli abitilogori e la faccia sporca. Non portava il cappello euna parte dei suoi capelli sembrava smangiuc-chiata. Al posto di un sopracciglio vi era unosbaffo. Camminava in modo malfermo. Gli occhirossi avevano l’ilarità interiore del filosofo ubria-co, ma non puzzava d’alcol. Aveva piuttosto unodore di fumo, di legna bruciata da poco. Si ap-poggiò al bancone e sorrise giovialmente al titola-re dell’ufficio.
«Voglio un lavoro» disse. «Un lavoro qualsiasi.Basta che mi permetta di lasciare la città pri-
ma che escano i gior-
nalidel mattino».
Traduzione di Luis E. Moriones(An Inch and a Half of Glory © 2011
The Dashiell Hammett Literary Property TrustPublished by Arrangement
with Roberto Santachiara Literary Agency)Ha collaborato Gabriele Pantucci
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to racconto della sua impresa.Poi, fu come se l’incendio non ci fosse mai stato.Nessuno ne parlò più. Un paio di volte lo citò ca-
sualmente nella conversazione, ma nessuno mo-strò il minimo interesse. Dapprima, pensò chequesta freddezza nascesse dalla noia. Poi, pensòche fosse colpa dell’invidia.
Cominciò a chiudersi in se stesso. Dopotutto,che cosa aveva in comune con la gente che lo cir-condava? Era gente poco interessante: abitanti mi-nori del mondo, rotelle irrilevanti in macchinarinon particolarmente importanti. Lui stesso erauna rotella, questo è vero, ma con la differenza chein certe occasioni poteva avere un’identità. L’ulti-ma goccia dello spirito d’avventura ancestrale nonera stata ancora distillata dal suo sangue. Giocòcon questo pensiero inventando una frase che glipiaceva: «L’industrialismo ha distillato dalle lorovene tutto il loro coraggio ancestrale». Guardava ilmondo da sopra il cartello con la scritta “Informa-zioni” e si ripeteva da solo la frase.
Chiunque passasse davanti al suo sportello o glichiedesse qualcosa veniva catalogato. Possedevaancora un po’ di coraggio ancestrale? Oppure no?Il primo gruppo era piccolo.
Agli uffici della direzione generale, che si tro-vavano in centro, giunsero delle lamentele:
l’uomo allo sportello delle “Informazioni”era stato poco disponibile, era stato male-
ducato, aveva detto delle cose offensi-ve. Earl Parish ricevette una lettera
ufficiale che richiamava la sua at-tenzione sulla quantità di lamen-tele e sullo slogan viola che pro-muoveva la compagnia: «La cor-tesia ovunque». Dipartimenti im-
portanti come l’ufficio informa-zioni, insisteva la lettera, avevano
una grande influenza sull’atteggia-mento del pubblico nei confronti della com-
pagnia e da quell’atteggiamento dipendevanonon solo i ricavi della compagnia, ma anche il suosuccesso nell’ottenere una legislazione favorevo-le.
A Earl Parish la lettera non piacque. Con una ma-tita e un blocco di carta cominciò a buttar giù unarisposta, ma non la risposta che ci si potrebbeaspettare da una rotella. Al suo sportello si pre-sentò un vecchio irritabile con una domanda sen-za risposta. L’Earl Parish di qualche tempo primaavrebbe portato il vecchio a un punto in cui la ri-sposta a una domanda completamente diversa loavrebbe soddisfatto. L’Earl Parish alle prese con labozza di risposta agli uffici della direzione genera-le disse al vecchio a bruciapelo che la sua doman-da era sciocca. Il vecchio era una persona a suo mo-do importante. Il giorno seguente, Earl Parish rice-vette due settimane di preavviso. Se ne andò dopodieci minuti.[...]
***
Earl Parish stava lavorando temporaneamentein una fabbrica di saponi quando un giorno lessesul giornale che il corpo dei vigili del fuoco pativauna grave carenza di personale. Lasciò immedia-tamente la fabbrica di saponi, stupito di aver avu-to bisogno che il giornale gli indicasse la strada: eraovvio, il corpo dei vigili del fuoco era il posto piùadatto per lui!
Presentò la sua domanda di lavoro e fu visitatoda un medico. Trascorsero alcuni giorni e final-mente gli dissero che non aveva superato la visitamedica — per una questione di reni. Lo stesso gior-no, nell’ufficio del comandante dei vigili del fuoco,Earl Parish diede spettacolo. Davanti agli occhi delcomandante, venne brandito un trafiletto di gior-nale. Il comandante fu chiamato vecchio pazzo.Earl Parish fu preso e sbattuto fuori.
Si recò nell’ufficio del Morning Post, dove trovòqualcuno disposto ad ascoltare la sua storia. Inquel momento, il Morning Postera un giornale del-l’opposizione e dedicò mezza colonna alla storia diun uomo che un giorno «si lanciò in un edificio infiamme per salvare un bambino» e a cui ora, non
riuscendo a trovare un altro impiego, venivaimpedito di entrare nel
corpo dei vigili del fuoco da «quellastessa burocrazia a cui si deve la loro incapacità ditrovare e mantenere un’adeguata quantità di per-sonale».
Da questa pubblicità, Earl Parish ottenne — ol-tre che un nuovo articoletto — un impiego comeguardia notturna in un conservificio. Lo pagavanoquattro dollari a notte e presto venne a sapere chedue uomini che si dividevano quel lavoro eranostati licenziati per far posto a lui. Compito del guar-diano notturno era fare il giro di tutti gli edifici ogniora lasciando prova del suo passaggio in quindicipiccole scatole appese al muro. Dopo la prima set-
rish aveva salvato un bambino da un edificio infiamme... due bambini! Gli impiegati della stazio-ne con cui era più in confidenza lo presero in giroper la sua impresa. Quelli più importanti — il re-sponsabile dell’ufficio bagagli, il capostazione, ildirigente centrale — si congratularono solenne-mente con lui, quasi a nome della compagnia. Amezzogiorno, il direttore generale dell’ufficio pas-seggeri in persona, mentre andava a un congressoa St. Louis, si fermò a lodare il coraggio di Earl Pari-sh. Earl Parish lo ascoltò, rispose alle sue doman-de, mantenne lo sguardo fisso sulla catenella del-l’orologio del direttore generale dell’ufficio pas-seggeri e sudò. Finalmente, venne annunciato iltreno del direttore generale dell’ufficio passegge-ri, che strinse la mano a Earl Parish e se ne andò. [...]
Era piacevole rimanere disteso sul letto sapen-do che molta gente, in tutta la città, aveva letto ciòche aveva fatto, che i suoi conoscenti lo considera-vano un uomo coraggioso e che forse si vantavanoun po’ di conoscere Earl Parish.[...]
***
Il mattino dopo, andò al lavoro con il volto sere-no. Uscì di casa di nascosto per evitare la padrona
di casa, diventata improvvisamen-te troppo af-
fettuo-sa. Fu una giornata menoimbarazzante della precedente. Da una parte, sistava abituando al suo nuovo status tra i colleghi,dall’altra, le cose stavano tornando come la setti-mana prima. I bigliettai davanti al suo sportello fa-cevano ancora delle battute parlando attraverso lagrata: «La prossima volta che salvi delle donne e deibambini, salvami una bionda!». Ma ora riusciva arestituirgli il sorriso senza sudare.
A volte, incontrava delle persone conosciute cheavevano letto la notizia sul Poste gliene parlavano.In queste occasioni, arrossiva e si sentiva a disagio,ma poi si godeva il ricordo. Certo, non usciva maisperando di fare uno di questi incontri per strada.Sull’ultimo numero dell’Employee’s Magazinedelle ferrovie c’era la sua fotografia e un dettaglia-
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Su una pila di fogli la versione censurata della sua canzonepiù celebre, “Il Disertore”, e accanto la chitarra con cui la suonòE poi disegni, invenzioni, appunti per romanzi, brani ineditiNella casa di Montmartre il mondo segretodel più eclettico tra gli artisti di Francia. Ora celebratocon una grande mostra e un raffinatissimo libro
SpettacoliBricoleurs
ni, disegni, spettacoli, oggi celebrati in una grande mostra alla Bi-bliothéque Nationale e da un raffinato libro, Post-Scriptum (edizioniCherche-Midi). Onnivoro, ecclettico, visionario. La musica è una pas-sione iscritta nel nome, scelto dai genitori in omaggio all’opera BorisGodunov di Modest Mussorgsky. La madre è pianista, il padre ascoltaCarlos Gardel. Lui s’innamora del jazz, il ritmo proibito, è il primo deisuoi tanti gesti di contestazione. Nella prefazione a L’Écume des Jours,scrive: «Sono solo due le cose che contano: l’amore, in tutte le sue for-me, con belle ragazze, e la musica di New Orleans e di Duke Ellington.Tutto il resto è da buttar via, perché è brutto».
Un’altra parete è coperta dai 33 giri, i cofanetti rilegati di CharlieParker, Louis Armstrong, Coleman Hawkins. «Ha incominciato a col-lezionarli da adolescente, li usava per fare i surprises-parties nella casadi famiglia di Ville d’Avray». Suona con i fratelli, creano il gruppo Ac-cord Jazz. Nell’aprile 1939 vede finalmente il suo dio, Ellington, che siesibisce al palazzo di Chaillot. Miscela esplosiva di regole e improvvi-sazione: il suo stile. Con la «trompinette» va a suonare per gli america-ni nelle caves di Saint-Germain, insieme alla prima moglie Michelle eall’amica Juliette Gréco. Oggi la trombetta di Vian non esiste più, è ri-masta solo la custodia che si era fabbricato, in legno e cartone con fo-dera di velluto arancione. «Vian costruiva quasi tutto con le sue mani.In questa casa — racconta Bertolt — non solo ha fatto alcuni mobili e li-brerie ma anche il sistema elettrico e di riscaldamento». C’è ancora losgabuzzino con i suoi attrezzi di lavoro. Un bricoleur di oggetti e paro-le, come quel «pianocktail» che s’ispira al pianoforte nell’appartamen-
ANAIS GINORI
L’incontro
Accanto a me il tuo corpo si allungaLe nostre due mani s’incontrano
Da una sigarettaTrarremo il medesimo sogno
Tutto acqua fresca e baciLa musica tenera
Ci avvolgeEcco, è ora di sognare
In ogni occasione io gioco col cuore
Io perdo, tu vinci, si piangeParte una nuova manoCarte truccate, misdeal
Non ho niente… mi lasci, il giro riparteTocca a te, cuor mio,
Tu perdi, io vinco, si piangeChe gioco idiota, cambiamo disco
Smettiamola, corriamo il rischio (...)
Cha cha cha
Fu mentre andavo a comprare il torroneAi grandi magazzini Printemps
Che sentii per la prima voltaQuesto cha cha cha ossessivoParlava di tenerezza e d'amore
Con ritmo pulsanteNon compresi che un verso solo
Ma definitivo
La canzone del vento
Ti diceChe il mio amore ti attende
Non ho che te sulla terraA cui aggrapparmi
MaiAnche nei sogni più belliHo sperato nel tuo ritorno
Ma il giorno che sorgeRisveglia il mio amore
Sei molto distanteEppure
Vorrei rivedertiE ho urlato al vento il mio dolore
E la mia speranza
BorisVianLe poesie mai cantatedel musicista-ingegnere
INEDITI
In queste pagine,appunti dell’artistacon svariati disegnie cinque testidi canzoni ineditescritte a manoSotto ognitesto originalela corrispondentetraduzionea cura di Marzia Porta
LE CANZONI
PARIGI
Al muro è appesa la chitarra con doppie corde sulla qua-le è stata composta Il Disertore. Boris Vian aveva acqui-stato questo strano strumento ispirato all’antica liragreca nel negozio del fratello Alain, in Saint-Germain-
des-Prés, quando le difficoltà respiratorie non gli permettevano più disoffiare nella sua amata tromba tascabile, che lui teneva sempre sottoal braccio e chiamava «trompinette». Tra una pila di fogli, il manoscrit-to della prima versione della canzone che si concludeva con: «E dica pu-re ai suoi/se vengono a cercarmi/che tengo un’arma/e so anche usar-la». Era il 1954, guerra d’Indocina. Nessuna casa discografica accettò diincidere la canzone. Alla fine, Vian cambiò l’ultima strofa in un mani-festo pacifista senza più ambiguità: «E dica pure ai suoi/se vengono acercarmi/che possono spararmi/io armi non ne ho».
«Molti pensano che Il Disertoresia stata scritta durante la battaglia diDien Bien Phu, invece risale a qualche tempo prima» racconta NicoleBertolt, direttrice della fondazione Boris Vian che ci guida nella casadell’artista a cité Veron, dietro al Moulin Rouge, accanto a quella del-l’amico Jacques Prévert. Sulla porta di vernice verde, la targhetta dicesolo: “Ingegnere, musicista”. Ma qualsiasi categoria va stretta a BorisVian, troppi talenti per quarant’anni di vita appena. Ha lasciato dietrodi lui una scia luminosa di romanzi, poesie, racconti, articoli, traduzio-
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to parigino e rimanda all’ebbrezza tra jazz e alcol.Il chansonnier Vian firma oltre seicento canzoni, molte inedite, al-
cune mai messe in musica e rimaste orfane. Nella casa di Montmartre,sono state tutte conservate dalla seconda moglie Ursula, morta l’annoscorso, e ora da Nicole Bertolt, che rappresenta gli eredi. Vian scrive unacanzone in poche ore, è un paroliere nato, abituato a pensare in rime.Usa quasi sempre una penna Bic blu, a volte rossa. Accanto ai testi,compaiono fiorellini, strane geometrie o i «miam», testoline sorriden-ti che sembrano anticipare gli attuali smiley. Con la musica ha un rap-porto d’amore subito ricambiato, mentre i suoi romanzi non vendonoabbastanza, lo fanno litigare con gli editori e lo costringono ad affron-tare tormentate vicende giudiziarie. Il vero successo letterario sarà po-stumo. Scrive critiche musicali sui giornali, diventa direttore di case di-scografiche, scopre giovani talenti come Georges Brassens, SergeGainsbourg. Lavora spesso in coppia con il compositore Alain Gora-guer, tenta anche di cantare i suoi brani ma dura poco. «Soffriva trop-po della tensione davanti al pubblico» ricorda Bertolt che mostra unafoto di Vian prima di andare in scena.
Con l’amico Michel Legrand fa scoprire ai francesi con ironia cos’è ilrock. «I suoi interpreti preferiti sono Henri Salvador e Magali Noël, per-ché sapevano divertirsi e avere la leggerezza necessaria». L’artista im-pegnato, sovversivo, era anche un raffinato burlone. C’è una vecchiaregistrazione di Fais-moi mal Johnny in cui Noël e Vian alla fine scop-piano a ridere. Nella musica, Boris Vian ha fatto tutto: compositore, pa-roliere, musicista, interprete, critico, discografico. «Solo, non amava
danzare» aggiunge Bertolt. Era un uomo alto emassiccio. Prendeva Ursula, che era una bellis-sima ballerina, e la faceva salire in punta dei pie-di sulle sue scarpe. «Facciamo il ballo del Bisonte e dell’Or-so», scherzava cercando di camminare con lei abbracciata in equili-brio. Prima di morire, nel 1957 aveva incominciato a scrivere un’ope-ra. Titolo: Il Mercenario. L’ultimo appello a Monsieur le Président.
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Ah, che amanti
Ah! quant'è triste star di vedettaSul cammino di ronda,
Con le dita serrate attorno a un moschetto,
Mentre potrebbero, sì, sì,Stringer delle belle bionde
Ah! quant'è triste star di vedettaIn cima a una garitta
CHITARRA E GATTO
Nella foto grande,Parigi 1953: Boris Vian,in compagniadel suo gattoWolfgang Busivon Drachenfels,suona la chitarra-lirasu cui ha compostoIl DisertoreLa acquistò nel negoziodel fratello Alain,in Saint-Germain-des-Prés,quando le difficoltàrespiratorie non gli permiseropiù di suonare la sua amata«trompinette»Qui sopra un collageraffigura Vian nudoche passeggia nella neveA lato scarponciniin cartone, risultatodi una delle sue attivitàpreferite: il découpage
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Destinata ad aprire nuove stradenella lotta contro il cancroe altre malattie, la scoperta è stata fattanei laboratori dell’università di Harvarddiretti dall’italiano Pier Paolo PandolfiChe qui spiegacosa racconteràla nostra “materia oscura”
DnaLa lingua
segretadei geni
Le 64 parole corrispondonoai 20 aminoacidi che compongonole proteine e ad alcuni ordiniper la loro produzione
AminoacidiCodoneAnche detto triplettaSono le tre lettereche definiscono l’aminoacidoAd esempio: A, C, T = Tirosina
È il linguaggio del DnaHa un alfabeto di solo 4 letteree parole sempre di 3 lettereLe parole possibili sono 64
Codice geneticoO genoma. Lungo filamentoche contiene le istruzioni per la vitaStruttura e funzionamento sonosimili in tutti gli organismi viventi
Dna
GLOSSARIO
Si apreper trascrivere
le sue informazioniin molecole di Rna.Se la parte copiataè un gene, si tratta
di un Rna-messaggero
Se viene trascrittouno pseudo-gene,
si formanoRna diversi,
detti Micro-Rna
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l’uomo si stimava ce ne fossero centomila, numero com-patibile con la sua complessità che lo posiziona al verticedella scala evolutiva. Tuttavia, si scopre che i geni umaniche producono proteine sono appena ventimila. Inoltrequesti geni occupano solo il 2% della lunghezza del Dna.Che c’è nel restante 98%?
È ancora la biologia, con le sue ricerche, a svelare un ul-teriore paradosso che, contemporaneamente, indica lastrada da battere. La scoperta che lo scimpanzé ha solo lo0,2% di geni codificanti per proteine in meno dell’uomo la-scia perplessi. Scendendo nella scala evolutiva aumenta losgomento quando si scopre che nelle cellule del lievito dibirra o di un vermetto il Dna contenente i geni che fannoproteine è lungo poco meno di quello umano. La parte diDna “muta” è invece di ben trenta volte più corta. «La spe-cie umana quindi ha il record di dotazione di Dna “oscuro”— osserva Pandolfi — Non fa proteine, non si sa che fa, ep-pure è qui che devono risiedere le informazioni genetiche
“relitti evolutivi” dei geni “veri”, che fanno proteine, infor-mazioni ereditarie obsolete dimenticate nel codice dellavita. Ma come mai decine di migliaia di geni vengono ri-sparmiati dalla dura legge di selezione naturale che elimi-na tutto ciò che non serve più? Perché questo 98 per centodi Dna “inutile” continua a essere trasmesso di generazio-ne in generazione? Il fatto è che, come i geni, anche glipseudogeni producono “messaggi”, molecole di Rna. Maquesti Rna non raggiungono le catene di montaggio delleproteine e rimangono a fluttuare nella cellula. Lungi dal-l’essere inutile, ognuno di questi Rna reca dei messaggiprecisi, basati su un nuovo linguaggio, un nuovo codice.Messaggi che significano “accendere”, “spegnere”, “acce-lerare” e “rallentare”. Questi messaggi sono indirettamen-te destinati a tutti gli altri Rna presenti nella cellula, sia quel-li prodotti dai geni che poi fanno le proteine, che quelli pro-dotti dagli pseudogeni. È questo l’aspetto più sconvolgen-te della scoperta: questa nuova lingua è parlata da ogni Rna,cioè non solo dagli Rna degli pseudogeni, ma da tutti gli Rnacellulari. Per capire la dimensione del fenomeno basti pen-sare che nel nostro Dna ci sono moltissime unità geniche,forse decine di migliaia, che come gli pseudogeni fanno so-lo Rna. Ebbene, la nuova lingua è condivisa da tutti questinuovi protagonisti».
A fare da “portavoce” di questi messaggi sono un’altracategoria di molecole di Rna più piccole e che non fannoproteine: i microRna. Questo nuovo linguaggio basato su-gli Rna espande enormemente la percentuale del Dna fun-zionale. Obsoleti diventano i concetti “relitto genetico evo-lutivo” e “Genoma oscuro”.
La lingua«A rendere più complesso il sistema informativo sono
poi le caratteristiche del linguaggio usato dagli Rna per co-municare — aggiunge Pandolfi — Questo linguaggio èscritto nella molecola di Rna, si può leggere informatica-mente ed è sempre basato sulle quattro lettere del Dna, male “parole” e le frasi hanno lunghezza non fissa bensì varia-bile, come avviene nel linguaggio parlato. I significati pos-sibili quindi sono molti più di 64. Sono già state individua-te 500 parole diverse, ognuna delle quali viene riconosciu-ta da un microRna diverso. Insomma si delinea finalmen-te un linguaggio con una ricchezza di significati compati-bile con la complessità delle informazioni necessarie a gui-dare lo sviluppo e la gestione della struttura del corpoumano, delle sue funzioni, anche quelle mentali. E dellemalattie, prima di tutto il cancro, quando la comunicazio-ne tra molecole di Rna viene danneggiata da mutazioni, siadei geni che degli pseudogeni. La completa decodificazio-ne di questo nuovo linguaggio non solo aumenterà le no-stre conoscenze sull’eziologia del cancro e delle malattie ingenerale, ma offrirà nuove strategie per la loro cura».
Pandolfi ha descritto la nuova teoria “Rna-centrica” adagosto su Cell, la rivista scientifica più prestigiosa nel cam-po della genetica. E sempre su Cell, venerdì scorso, Pan-dolfi ha svelato il ruolo determinate nei tumori di prostata,colon e cervello umani di 150 Rna che usano il nuovo lin-guaggio.
Il Dna ha una seconda lingua, finora rimasta segre-ta, per parlare alle cellule e al corpo. Comunica istru-zioni per la vita molto più complesse ed è più usatadi quella conosciuta. Quando sarà completamentesvelata ci farà comprendere anche il linguaggio delcancro e, si spera, gli ordini giusti per riportarlo alla
normalità. Ma la scoperta finalmente dipana anche moltialtri misteri in cui si sono impantanate la medicina e la bio-logia e contribuisce a spiegare il perché delle tante e dram-matiche mancate promesse.
La decodificazione della lingua segreta dei geni è inizia-ta alla Harvard University, in uno dei laboratori di ricercabiomedica più grandi e dotati di risorse al mondo. È diret-to dall’italiano Pier Paolo Pandolfi. Da lì è partita la rivolu-zione che il New York Timesha definito «il Big Bang della vi-ta» perché avrà sulla medicina lo stesso impatto che sull’a-stronomia ebbe la teoria sull’origine dell’universo.
Le promesse«Negli anni Novanta sembrava tutto chiaro», ricorda
Pandolfi. «Il Dna porta le istruzioni per la vita depositatesotto forma di lunghe frasi. Le parole del suo vocabolariosono appena 64, risultanti da tutte le possibili combinazio-ni ternarie di un alfabeto di sole quattro lettere: A, C, G, T.Le 64 parole si traducono in 20 aminoacidi che a loro voltasi attaccano in sequenza a formare le proteine. Sono que-ste l’impalcatura (proteine di struttura delle cellule, deimuscoli, eccetera) e il motore (gli enzimi che gestiscono lereazioni chimiche) degli organismi viventi. Le lettere, le pa-role e i significati del codice genetico sono universali, val-gono per tutti gli organismi. “Errori” in queste parole sonostati considerati finora l’unica causa di molte malattie,compreso il cancro». “Vado al potere. Vado al podere”. Loscambio di una sola lettera, la “t” con la “d”, fa assumerenon solo alla parola ma anche alla frase un significato di-verso. Così basta una sola mutazione (la sostituzione di unadelle quattro lettere dell’alfabeto del Dna) perché la “paro-la genetica” corrisponda a un altro aminoacido, che cam-bia la funzione della proteina. E, se la proteina mutata re-gola la moltiplicazione della cellula, è il cancro.
“Scoperto il gene del tumore al...”. Sono questi i titoli chenegli anni ’90 rimbalzano sui quotidiani dalle riviste scien-tifiche e promettono una cura per ogni tipo di cancro. «Simettono a punto i primi farmaci “intelligenti” che colpi-scono solo la mutazione, e si ottengono alcune clamorosevittorie — ricorda Pandolfi — tuttavia le cure si rivelano ef-ficaci per pochi pazienti, quelli col sottotipo di tumore conla mutazione. La maggioranza dei malati sembra avere unDna codificante proteine “sano”. E allora, da dove viene lamalattia? Non può che arrivare dal Dna. Ma da dove parte?E in che lingua è scritto? Il codice genetico a 64 parole nonha le risposte».
I misteriLe scoperte della biologia aggiungono altri misteri. Alla
fine degli anni ’90 si sequenzia il genoma umano e quellodi numerose specie viventi e si iniziano a contare i geni. Nel-
che fanno dell’uomo l’organismo vivente più complesso.E più vulnerabile alle malattie. In quel 98% c’è la differenzatra noi e le altre specie che popolano il pianeta».
La comprensione del ruolo di questo “genoma oscuro”arriva dalle ricerche sul cancro di Pandolfi. La chiave stanella nuova prospettiva in cui si guarda un prodotto delDna sinora considerato un semplice esecutore, l’Rna. Que-sta molecola è da tempo nota per essere il messaggero delDna. Su di esso il gene trasferisce l’informazione necessa-ria a costruire la proteina. L’Rna poi raggiunge le strutturedi produzione della cellula dove materialmente le protei-ne sono assemblate a partire dagli aminoacidi quello chePandolfi ha scoperto è che l’Rna porta altre informazioniindipendenti da quelle che “fanno le proteine”.
La scoperta«Una parte di Dna “oscuro” contiene gli “pseudogeni”
— continua il professore — Sinora sono stati considerati
ARNALDO D’AMICO
‘‘L’opportunitàQuando sapremo parlare
la nuova linguaavremo un’opportunità
senza precedenti per la terapiae la prevenzione delle malattie
Pier Paolo PandolfiHarvard University, Boston
LO SCIENZIATO
Pier Paolo Pandolfi,48 anni, romanoDirige il laboratoriodi geneticadel cancrodella HarvardUniversity
È la sequenza di “parole”corrispondenti alla sequenzadi aminoacidi di una proteinada cui dipende la sua funzione vitale
GeneParte del Dna composta dai geniche danno origine alle proteineOccupa appena il 2 per centodella lunghezza del Dna umano
Dna codificanteÈ la molecola in cui il genetrasferisce l’informazioneper fare la proteina e la portaal sistema di assemblaggio
Rna messaggeroÈ il 98 per cento del Dna. Gli Rnadei suoi geni non fanno proteine,fluttuano intorno al Dnaapparentemente senza scopo
Dna oscuroGli Rna della parte oscura,con una lingua diversa, regolanoil Dna codificante in modopiù sofisticato di quello conosciuto
Il nuovo codice
INF
OG
RA
FIC
A P
AU
LA
SIM
ON
ET
TI
I micro-Rnainteragisconotra di loroper precisareil comando
Così regolanoprecisamentela funzionedei geni
Repubblica Nazionale
LA DOMENICA■ 42
DOMENICA 16 OTTOBRE 2011
I saporiRitrovati
TortinoDalla base lessata si cucina
in versione dolce (amalgamato
con cioccolato e uvetta),
o salata (legato con uova,
formaggio grattugiato
ricotta e noce moscata)
ZuppaDopo l’ammollo, si insaporisce
in un soffritto di verdure
miste e poi si copre d’acqua
A piacere, funghi, fagioli,
pancetta, olio
e crosta di Parmigiano
PaneProfumato, saporito,
ricco di fibre, si impasta
con la farina forte (tipo Manitoba)
per irrobustire la modesta
quota di glutine
necessaria alla lievitazione
FarrottoQuaranta minuti di cottura
per il risotto di farro, cucinato
per contrasto (con acciughe
o frutti di mare) o assecondando
la tendenza dolce (con funghi,
zucca, carote, topinambur)
Il cereale anticocome il mondo
LICIA GRANELLO
In nomeomen, sostenevano i Romani. Un destino nel nome, ma an-che un biglietto da visita prezioso. Farro come farina, da fero, ver-bo latino per portare, sostenere e quindi nutrire. Duemila anni fa,la gente del Mediterraneo aveva come base della dieta quotidianale antesignane di focaccia (libum) e polenta (puls), impastate conla farina di triticum monococcum, dicoccum e spelta. Allora come
oggi, seminati tra fine ottobre e inizio novembre. Quando arrivò sulle ta-vole dei popoli latini, il farro aveva fatto già moltissima strada e vissuto piùa lungo di qualsiasi altro cereale, se è vero che le prime coltivazioni risal-gono al Neolitico (8000 a. C), tra Mesopotamia, Egitto e Palestina. A Roma,da semplice alimento diventò simbolo di fecondità grazie alla pratica del-la Confarreatio, in uso tra le famiglie patrizie: l’offerta della focaccia nu-ziale richiamava sugli sposi la protezione di Cerere, dea delle messi, por-tatrice di potenza e fertilità.
Le fortune del farro originario sono durate per il tempo dell’agricolturadi sussistenza. Fin dal Medioevo, l’adozione di nuove varietà, figlie di in-croci più produttivi (da cui sono nati grano tenero e grano duro) ha cau-sato una riduzione delle coltivazioni, confinate nelle zone agricole mar-ginali, dove la produzione intensiva è impossibile. Il farro si è adattato, im-parando a non soffrire il freddo e amare i terreni in pendenza, meglio secalcarei, crescendo anche oltre i mille metri. Oltre alle rese basse, la rac-colta faticosa — i chicchi maturi non restano sulla spiga, ma cadono sulterreno — e la perdita di sapienza culinaria lo hanno condotto sul bilico
dell’oblio alimentare. Ma per fortuna, il tempo del cibo è galantuomo. Lanuova attenzione agli equilibri dietetici ha spinto a riscoprire i cereali ne-gletti, primo fra tutti il farro, straordinario a partire dalla pianta, che pro-tegge i chicchi con un guscio robusto, ostico a insetti e parassiti: un atoutfondamentale per la riuscita della produzione biologica e biodinamica.
Tra i cereali, è il meno calorico — 335 calorie per cento grammi — e quel-lo a più alto indice di sazietà, grazie allo smisurato assorbimento d’acquain cottura (quasi tre volte il suo peso). Nei suoi chicchi, abitano generosequantità di nutrienti essenziali: sali minerali (calcio, fosforo, magnesio),vitamine del gruppo B e tante fibre, a patto di sceglierlo nella versione de-corticata, che preserva la glumettaesterna, mentre quello perlato è del tut-to svestito. Grazie al contenuto di proteine — abbondante e ad alto tassodi digeribilità — è il compagno ideale dei legumi, che contribuiscono conl’aminoacido Lisina a equilibrare il più salubre dei piatti unici. Se vi stuz-zica l’archeogastronomia, regalatevi una gita in Franciacorta e din-torni, andando a visitare la cooperativa sociale Antica Terra, a Ci-gole, Brescia, che ha recuperato la coltura del monococco. Iconsigli su come cucinare il cereale più vecchio del mon-do, invece, chiedeteli a Vittorio Fusari, che pochi chi-lometri più in là dirige le cucina de La Dispensa(Torbiato). La sua zuppetta di monococco al ne-ro di seppia con tartare di gamberi e crema dimozzarella vi illuminerà il cammino.
Farro© RIPRODUZIONE RISERVATA
Le prime coltivazioni risalgono addirittura al Neolitico, i Romanilo offrivano a Cerere chiedendo la fecondità per i giovani sposiDimenticato nel Medioevo, è stato riscoperto per l’abbondantecontenuto di proteine e l’alta digeribilità. Che ne fannoil compagno ideale dei legumi nei piatti d’autunno
GrandeDall’incrocio tra
Dicocco e Aegilops
squarrosa —
battezzato col nome
tedesco spelz,
l’involucro del seme
— si ha la farina
del Panpepato
MedioIl Dicocco è il più
coltivato in Italia,
soprattutto al Centro
In Garfagnana,
dove viene ancora
macinato a pietra,
è protetto dall’Igp
europea
PiccoloVecchio di diecimila
anni, il Triticum
Monococcum
è il primo seme
di frumento piantato
dall’uomo. Ha poco
glutine, rese basse,
sapore intenso
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LA RICETTARombo al vaporecon farro in più consistenze
Ingredienti per 4 persone
La cialda:
setacciare e frullare100 gr. di farro bollito condito con sale e pepe
Stendere il composto tra due fogli di carta da forno unti
con extravergine, tirarlo sottile con il mattarello e infornare
a 140 ° fino a che non risulta croccante
Il gelato:
frullare 150 gr. di farro con burro e timo, setacciare
e mettere in gelatiera
Il purè:
frullare il restante farro, setacciare, condire con extravergine, sale,
pepe e tenere in caldo. Saltare gli spinaci in padella con un filo d’olio,
uno spicchio d’aglio e tenere in caldo
La salsa di salicornia:
tritare lo scalogno, insaporire con poco olio, aggiungere la salicornia
tagliata a pezzi, coprire con il fumetto di rombo e cuocere un quarto
d’ora Frullare, setacciare e tenere in caldo.Cuocere il rombo a vapore
Presentazione:
Velare con la salsa di salicornia il fondo del piatto, su cui appoggiare
il purè di farro e poi il rombo. Guarnire con gli spinaci,
la cialda e il gelato
✃
InsalataCottura lunga, sapore
e consistenza originali
per il cereale bollito che sostituisce
il riso come base per potpourri golosi:
dadini di verdure, uova, formaggi
(la foto è tratta dal libro
Cucina Mediterranea,
Edizioni White Star, a cura
di Academia Barilla)
600 gr. di rombo chiodato
600 gr. di farro della Garfagnana
bollito in un fumetto di rombo
50 gr. di spinaci puliti
1 scalogno
1 rametto di timo
50 gr. di burro
1 spicchio d’aglio
2 dl di fumetto di rombo
Olio extravergine di oliva
sale pepe q. b.
Igles Corelli
è uno dei più bravi
e “didattici” cuochi
italiani. Dopo una lunga
esperienza a Ostellato,
sul delta del Po,
da pochi mesi dirige
le cucine di “Atman”,
a Pescia, confine
tra Lucchesia
e campagna pistoiese,
dove interpreta
con sapienza
e creatività i migliori
prodotti dell’Appennino
toscano. Ha preparato
questa ricetta
per i lettori
di Repubblica
MAURIZIO MAGGIANI
Sulla strada
Garfagnana a passo d’uomo,un viaggio nell’altrove
S
Gli indirizzi
DOVE DORMIREPALAZZO TUCCIVia Battisti 13
LuccaTel. 0583-464279
Doppia 150 euro con colazione
HOTEL IL CIOCCOVia del Ciocco 2
Castelvecchio Pascoli-BargaTel. 0583-766365
Doppia 115 euro con colazione
ALBERGO LA LANTERNA Località Le Monache 300
Castelnuovo GarfagnanaTel. 0583-639364
Doppia 90 euro con colazione
DOVE MANGIAREIL VECCHIO MULINO Via Vittorio Emanuele 12
Castelnuovo GarfagnanaTel. 0583-62192
Chiuso lunedì, menù 20 euro
L’ALTANAVia di Mezzo 1
BargaTel. 0583-723192
Chiuso merc., menù 25 euro
IL MECENATEVia della Chiesa 707
LuccaTel. 0583-512617
Chiuso lunedì, menù 30 euro
DOVE COMPRAREANTICA BOTTEGA
DI PROSPEROVia Santa Lucia 13
LuccaTel. 0583-496234
ANTICO PANIFICIO
DELL’ANGELAVia Garibaldi 12
Castenuovo GarfagnanaTel. 0583-62656
AGRITURISMO PALLUNGA (con camere)
Località Pallunga di Sopra
San Romano in Garfagnana Tel. 328-9264045
e davverovolete andarci in Garfagnana, se avete l’inten-zione di un viaggio e non di una gita, arrivateci per le stra-de alte, quelle tracciate dai romani e dai longobardi,quelle che seguono l’andamento dell’Appennino e del-l’Apua Alpe con il passo degli uomini. Volete arrivare aun antipodo della contemporaneità, fatelo dandovi unosguardo adatto. Passo del Vestito e passo del Cipollaio,dalla Versilia, dalla Via del console Aurelio. Passo deiCarpinelli, passo della Pradarena, salendo dalle vie pa-dane che si dipartono da quella del console Emilio. Fa-
telo con l’accortezza di una moderata velo-cità di pensiero, perché le gole che vi si para-no davanti sono precipizi in cui sono rovi-nati molti sguardi stranieri. Se è nelle vostre
disponibilità, andateci a bordo di un elefante:lo fece Annibale e si procurò, unico tra i passanti
in armi, l’amicizia e l’alleanza dei garfagnini.E considerate la morbida complessità della valle del
Serchio nel giro d’orizzonte di San Pellegrino in Alpe, dadove il santo barbaro credette di indovinare Gerusa-
lemme e fu preso a schiaffi dal diavolo; considerate l’ir-suta Garfagnana dal balcone della fortezza delle Verru-cole, da dove il governatore Ariosto smaniava nella de-primente digestione del suo castigo di cortigiano, e in-tanto andava cercando tra i banditi che depredavano isuoi vitalizi chi gli leggesse qualche paginetta dell’Or-lando. Ascendete al sacro pastorale di Campo Catino,buttatevi su un masso candido di marmo, strizzate gliocchi e fatevi confondere dal sole che stride dalle lamedella Roccandagia, prendete atto che siete nell’altrove.E allora imparate un po’ della lingua di lì e chiedete allaLuciana di Treppignana se per favore vi da una tazza dizuppa, o all’Olinto della Gragnanella se potesse per ca-so favorirvi di un piatto di ossetti di maiale con la polen-ta di neccio. Se siete fortunati, e di metabolismo adatta-bile, potete allora capire l’intimità delirante di un poetae la misterica veggenza di un santo che si sono nutriti diquell’universo e di quel farro e di quel suino e lì si sonopersi per sempre.
© RIPRODUZIONE RISERVATA
ILLU
ST
RA
ZIO
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DI C
AR
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AN
GA
Repubblica Nazionale
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Ci sono voluti quarant’anni, quattrofilm di successo, due maternitàe altrettanti matrimoni per usciredall’ombra paterna e diventaresemplicemente se stessa: “È vero,
ho vissuto buona partedella mia vitain una prigione dorata”risponde la regista“Ma oggi sono fieradi far parte di una grande
famiglia circense. Nella qualefaccio un numero che tuttiriconoscono come solo mio”
PARIGI
L’ha fatta esordire neo-nata nel battesimo delPadrino. L’ha portatacon sé, a sedici anni, a
Cuba da Fidel Castro. Le ha finanziatoi suoi film, quattro in dodici anni e tut-ti di successo. Quanto può essere lun-ga per una figlia l’ombra di un padrecome Francis Ford Coppola? Forse so-lo adesso che ne è uscita Sofia Coppo-la lo può dire. A quarant’anni compiu-ti a maggio, reduce dal matrimonio aBernalda, nella Basilicata del bisnon-no, con il leader dei Phoenix ThomasMars — padre delle sue due figlieRomy e Cosima — si è finalmente re-galata quella libertà cui ha brindato lostesso padre battezzando “Sofia” unapartita del suo champagne california-no con queste parole: «Giovane in ri-volta giunta a maturità».
E dunque cìn cìn, Sofia. Lei ascoltal’impietoso riassunto sorseggiandoCoca Cola, l’espressione concentratadi sfinge intellettuale, nella suite rega-le di uno dei tanti hotel esclusivi dellasua vita e del suo cinema, con la sicu-rezza semplice di chi è cresciuta nellabambagia di Hollywood: «È vero, lamia infanzia l’ho trascorsa con mio pa-dre tra i privilegi del jet-set e sotto i ri-flettori del cinema. Come la mia amicae attrice Kirsten Dunst. I set sono stati inostri primi e unici giocattoli: ma an-che i nostri prematuri richiami al futu-ro. Nell’89 lei, a sette anni, esordiva sulgrande schermo in New York Stories,nell’episodio di Woody Allen, Edipo
relitto; io, che di anni ne avevo diciot-to, proprio per New York Stories insie-me a mio padre scrissi la sceneggiatu-ra del suo episodio, La vita senza Zoe.Destini di star bambine: due vite dora-te ma già prigioniere. Io mi ci ero abi-tuata, dai tempi delle riprese di Apo-calypse Now, quando a sei anni avevoseguito la famiglia nelle Filippine, fre-quentando lì il primo anno di scuola».
Da bambina ha assorbito il cinema,ma l’ha anche “suggerito”: «Sì, le miegiornate allo Sherry Netherland, al-bergo tra i più lussuosi di New York, do-ve ho abitato a lungo, furono poi rein-ventate da mio padre in quel suo epi-sodio di New York Stories: la Midtownvi è osservata con gli occhi d’una bam-bina immersa in un mondo incantatograzie al padre famoso». Pare già il sog-getto di Somewhere, il suo Leone d’orodell’anno scorso a Venezia: il genitore,colosso annoiato dello star system, e labambina che lo risveglia con l’impa-zienza di vivere: «È un film che non acaso ho girato dopo esser diventatamamma. Le figlie mi hanno mutato ilmodo di percepire l’esistenza: mi han-no ribaltato le prospettive, le priorità,influenzato i punti di vista. Un figlio ticambia davvero la vita. Rallenta di col-po la corsa quotidiana: cammini in unparco con quell’esserino che trotterel-la sotto di te e ti ci vuole mezz’ora perraccogliere una foglia. Mai, prima,avevi trascorso tanto tempo a osserva-re una foglia, farla tua. È un riappro-priarsi della vita, la riconquista dellosguardo, di cui i bambini ci sono mae-stri». Somewhere è il ritratto d’una starinternazionale, lost in business, di col-po a tu per tu con la paternità: lei e suopadre o lei e le sue figlie? «I rapporti conmio padre e mia madre sono assai di-versi da quelli del protagonista con lasua bambina. Ma mettiamola così: gi-rare quel film mi ha portato a guardarein modo nuovo i miei genitori, il miocompagno e anche le mie figlie».
Le protagoniste del suo cinema vi-vono tutte in un tempo sospeso, traun’infanzia non ancora o non del tut-to alle spalle e, dietro l’angolo, l’inco-gnita adulta, che in Marie-Antoinetteenello splendido Giardino delle verginisuicide verrà appena assaporata. Finoa non troppe stagioni fa, quel limbo fa-tato è stato il suo universo esistenziale,vero? La regista increspa in un sorrisole labbra tumide da eterna collegiale:«Dal pressbook di Marie-Antoinette,cinque anni fa, ho fatto togliere una
domanda che mi rivolse mia madre:“Non trovi una correlazione tra il sog-getto del film e la tua vita privata, il pri-vilegio d’aver vissuto come una princi-pessa sotto l’ala di tuo padre?”. Ri-spondevo di non aver voluto tracciareespliciti paralleli con la vita di Marie-Antoinette, enfant gâtéenella quale miriconoscevo anche in quanto, fin dabambina, stava subendo quella stessaforma d’apprensione sorda, quellapressione palpabile nello sguardo del-l’entourage familiare, nell’aspettativad’una affermazione senza appello».
Va bene, riproviamoci. Detrattorimaligni e cinefili devoti concordanonel ricondurre il suo cinema a una for-mula fissa. Ecco la ricetta: prendereuna ragazza, preferibilmente bella,bionda, solitaria, tagliarla a fettine sot-tili dentro una famiglia inadeguata(Vergini suicide) o oppressiva (Marie-Antoinette) o assente (Lost in Transla-tion) o arresa (Somewhere), introdurreuna figura paterna in jet-lag esisten-ziale, cuocere a fuoco lento in ambien-
te chiuso, popolato di estranei, megliose ostili, far croccare con una spalma-ta di rock Doc e servire riscaldato. Ra-diografia troppo tagliente? «Sonod’accordo sull’“ingrediente” colonnasonora. Chi ha da ridire sul duo elet-tronico Air dei miei primi tre film o suMy Bloody Valentine e Death in Vegasin Lost in Translation? Si dirà che iPhoenix sono un po’ ovunque, ma èdalle Vergini suicide che frequento illoro cantante, ora diventato mio mari-to...».
Il milieu rock/cinema indipenden-te (ribadito dal primo matrimonio conSpike Jonze, finito nel 2003, e dal suc-cessivo flirt con Quentin Tarantino) hafatto della Coppola un’icona della cul-tura pop e dell’eclettismo musicalespinto fino alla recente regia della Ma-non Lescaut con Roberto Alagna al-l’Opéra di Montpellier: «La voglia didarmi al cinema m’è venuta abbando-nandomi al sogno di personaggi ro-mantici e fiammeggianti mentreascoltavo Purple Rain di Prince. Nonimmaginavo ancora che un giorno misarei trovata davanti a una delle cine-prese che mio padre aveva regalato ame e ai miei fratelli ancora bambini.Poi, una volta su questa strada, ho pre-muto a fondo, con determinazione,seguendo puntigliosamente desiderie sogni di grandezza». Ad esempio ot-tenendo di girare Marie-Antoinetteneisaloni di Versailles: «Volevo aprire ognimattina gli occhi sulle fughe di stanzesontuose che si offrivano due secoli faalla giovane regina. Ma il Settecentol’ho rifatto di mio gusto, con fruscii dimodelle, pettinature punk, broccatida favola, in sintonia perfetta con la co-stumista Milena Canonero. Per inten-derci sui colori, evocavamo sughi perla pasta o nostri sorbetti preferiti: ci sicapiva al volo».
Sofia Coppola è pop non solo nellamusica ma anche nella moda, dove siesprime forse ancor più liberamenteche nel cinema: «Mi sono formata alCalifornia Institute of the Arts e ho fat-to la gavetta per due anni a Parigi daKarl Lagerfeld, dedicandomi nellostesso tempo a foto per Vogue, Inter-view, Allure, con mostre in Giappone,dove ora si vende in esclusiva la mia li-nea d’abbigliamento Milk Fed. I mieiprimi passi sono nella moda: creata,interpretata e ritratta. Sono stata testi-monial del profumo di Marc Jacobs, hofirmato una nuova linea con Kim Gor-don e girato spot per Miss Dior Chérie.
La scorsa primavera ho infranto la li-nea classica Louis Vuitton, per lancia-re una borsa con le mie iniziali. È statocome l’avverarsi d’un sogno d’infan-zia, la miaborsa come l’ho sempre im-maginata». Ed ecco di nuovo la bambi-na viziata da un papà onnipotente.Qual è l’insegnamento più importan-te ricevuto da suo padre? «L’entusia-smo per il proprio mestiere: anche per-ché mi ha fatto crescere con l’idea cheil cinema non è solo un mestiere ma unmodo di esprimere se stessi. Per que-sto ho fatta mia la sua regola d’oro: me-glio un piccolo budget che ti lascia li-bera di realizzare quel che senti piut-tosto che una pioggia milionaria che tiseppellisce sotto mille condiziona-menti e compromessi e ti toglie l’ulti-ma parola». Si chiude così una staffet-ta circolare, con passaggio di testimo-ne. Una volta si diceva: Sofia Coppola,la figlia del regista del Padrino. Oggi,sempre più: Francis Ford Coppola, ilpadre di Sofia. «Non esageriamo! Tral’altro, non sono l’unica della dinastia.C’è mio fratello Roman, lui pure regi-sta. Mia zia è l’attrice Talia Shire. E hotre cugini attori, Jason Schwartzman,Robert Carmine e Nicolas Cage, chetrovo formidabile: vorrei girare il mioprossimo film con lui. Più che figli e cu-gini d’arte, ci sentiamo una carovanadi circo, ognuno con le sue specialità, isuoi numeri. Tutti in azione sulla stes-sa pista, a tramandare l’arte di padri eantenati. Sono fiera, oggi, di farne par-te: con le mie iniziali su una borsa, ilmio nome per esteso nei titoli di testa eun numero che tutti possono ricono-scere come mio».
© RIPRODUZIONE RISERVATA
L’incontroFiglie di papà
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Fin da bambinaho subìtoun’oppressione sordama palpabile:era l’aspettativadel successosenza appello
Sofia Coppola
MARIO SERENELLINI
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Repubblica Nazionale