La mente ipocondriaca ed i suoi paradossi. Francesco Mancini.
Sistemi Intelligenti, vol X, 85-98, 1998.
Premessa.
In questo articolo intendo affrontare la spiegazione della permanenza nel tempo dei timori
ipocondriaci. Più in particolare, cercherò di rispondere a tre interrogativi:
- per quale motivo l’ipocondriaco continua a credere di essere malato o a rischio di malattia
nonostante abbia a disposizione le informazioni e le capacità cognitive che giustificherebbero una
credenza diversa ?
- Per quale motivo non accetta la malattia o il rischio di malattia che ritiene di avere, dato che i suoi
tentativi di rassicurarsi falliscono sistematicamente ?
- Per quale motivo è inefficace la critica che spesso l’ipocondriaco esprime a riguardo delle sue
preoccupazioni?
Le tre domande articolano il ben noto problema del paradosso nevrotico. Del paradosso nevrotico
sono state date diverse formulazioni:
- “Perché alcune persone, che soffrono di ansia, non beneficiano della ripetuta esperienza di essere
passati indenni attraverso le situazioni che temevano?”. (Salkovskis, 1996),
- “Dal punto di vista comportamentale, il paradosso nevrotico è concettualizzato come la mancata
estinzione della reazione fobica nonostante lo stimolo condizionato sia stato presentato senza il
rinforzo. (Eysenk, 1979)”. (id.).
- “Per il cognitivista il problema ruota intorno al perché alcuni continuano a temere una catastrofe
nonostante le loro previsioni si siano ripetutamente dimostrate false. (Seligman, 1988)”. (id.).
- Perché si mantengono linee d’azione e di pensiero che procurano sofferenza ? (Liotti e Guidano,
1984).
Tuttavia preferisco una formulazione diversa: come e perché non avviene un cambiamento
- che appare opportuno e possibile;
- che, a volte, è riconosciuto opportuno e possibile dal soggetto stesso il quale, per giunta, se lo
prescrive pure;
- e che in alcuni casi è prevedibile sulla base di una legge psicologica che regola il comportamento
degli esseri umani e che, dunque, di norma avviene.
Preferisco questa formulazione perché mi sembra sufficientemente astratta da poter includere tutti i
casi ed è tale da poter essere condivisa anche da coloro che hanno prospettive teoriche differenti. Vi
rientrano anche gli atteggiamenti depressivi e non solo quelli ansiosi, non considera solo la
prospettiva comportamentale, e nemmeno suggerisce che l’unica motivazione in gioco sia la
riduzione della sofferenza. Soprattutto considera anche il cambiamento verso l’accettazione delle
minacce e delle perdite e non solo quello strettamente cognitivo.
1
Un esempio di paradosso nevrotico è il caso del lutto non risolto dove l’accettazione della perdita
non avviene nonostante sia opportuna e possibile, sia prevedibile sulla base di una legge naturale
(dopo un anno dall’evento luttuoso di solito si raggiunge l’accettazione, Parkes, 1972) e, in alcuni
casi, il soggetto stesso si stupisca di soffrire ancora (‘è assurdo che continui a soffrirci come se
fosse successo ieri’) e si prescriva di accettare (‘devo farci i conti, non posso continuare a starci
male in questo modo. Non pretendo da me stesso di essere indifferente ma almeno che lo accetti,
che mi ci rassegni!’).
L’ipocondria.
Il DSM IV (1994) indica sei criteri per definire l’ipocondria e aggiunge una specifica riguardante la
consapevolezza critica:
“A. La preoccupazione legata alla paura di avere, oppure alla convinzione di avere, una
malattia grave basate sulla erronea interpretazione di sintomi somatici da parte del soggetto.
B. La preoccupazione persiste nonostante la valutazione e la rassicurazione medica
appropriate.
C. La convinzione di cui al Criterio A non risulta di intensità delirante (come nel Disturbo
Delirante, Tipo Somatico) e non è limitata a una preoccupazione circoscritta all’aspetto fisico
(come nel Disturbo di Dismorfismo Corporeo).
D. La preoccupazione causa disagio clinicamente significativo oppure menomazione nel
funzionamento sociale, lavorativo, o in altre aree importanti.
E. La durata dell’alterazione è di almeno 6 mesi.
F. La preoccupazione non è meglio attribuibile a Disturbo d’Ansia Generalizzato, Disturbo
Ossessivo-Compulsivo, Disturbo di Panico, Episodio Depressivo Maggiore, Ansia di Separazione,
o un altro Disturbo Somatoforme.
Specificare se:
Con scarso insight: se, per la maggior parte del tempo durante l’episodio in atto, la persona non è in
grado di riconoscere che la preoccupazione di avere una malattia grave è eccessiva o irragionevole.
Quest’ultima specifica e tre dei criteri diagnostici (A, B, E) rimandano chiaramente alle tre
questioni sollevate più sopra nella premessa.
Alcune caratteristiche cognitive degli ipocondriaci.
E’ osservazione comune (Guidano e Liotti, 1983; Reda, 1986; Lorenzini e Sassaroli, 1987) che i
pazienti ipocondriaci abbiano un’immagine di sé caratterizzata dalla assunzione di essere delle
persone fragili, vulnerabili, deboli, facili alle malattie. Tale credenza è piuttosto generale e globale,
ma costituisce uno dei perni intorno al quale si costruisce il senso della propria identità. Essa si
forma nella prima infanzia nell’ambito delle relazioni d’attaccamento: spesso la figura
2
d’attaccamento rispecchia tale immagine di debolezza in modo sistematico, ripetitivo, sia con
messaggi espliciti che con atteggiamenti iperprotettivi. Va anche considerato che di solito le figure
affettivamente significative nella vita adulta del paziente ipocondriaco confermano questa
immagine. L’immagine di debolezza che il paziente ipocondriaco tende ad avere di se stesso ha
diverse sfumature. E’ non solo debolezza sul piano fisico, intesa come vulnerabilità alle malattie e
come facile stancabilità, ma è anche debolezza sul piano psicologico intesa come tendenza a
provare emozioni esagerate, ad avere difficoltà nel controllarle e dunque a poterne essere
sopraffatti e impazzire.
Tre scopi sono abitualmente coinvolti nei problemi ipocondriaci:
- lo scopo di non essere malati;
- lo scopo di non essere persone deboli e, connesso a questo, anche di non essere esageratamente
ansiosi;
- lo scopo di rispettare una regola di prudenza e perciò di essere all’altezza delle proprie
responsabilità. Questa caratteristica entra in gioco soprattutto nei problemi ipocondriaci degli
ossessivi che attribuiscono molta importanza all’essere persone attente, scrupolose e responsabili
(Mancini, 1997).
Molto spesso, almeno in tutti i pazienti ipocondriaci con capacità critica, la preoccupazione
ipocondriaca è considerata dai soggetti stessi una reazione esagerata che proprio perché tale
compromette lo scopo di ‘non essere deboli’ poiché facilmente suggestionabili, troppo emotivi, non
pacati. Si tratta di quello che nell’ambito della Terapia Razionale Emotiva è denominato il
‘problema secondario’ (Ellis, 1962; De Silvestri, 1981; 1989).
1. La prima questione.
Per definizione, un paziente è ipocondriaco se continua a male interpretare alcune sensazioni
corporee nonostante abbia ricevuto rassicurazioni mediche pertinenti, valide e ben fondate e
nonostante abbia le capacità intellettive per poter compiere le inferenze opportune da tali
informazioni.
La credenza ipocondriaca è un caso particolare di debolezza della giustificazione (Davidson, 1986;
Magri, 1991). Una credenza è debolmente giustificata se è intrattenuta “ (a) in modo sistematico da
parte di un soggetto (e quindi non è il risultato di fattori casuali); (b) nonostante siano disponibili a
tale soggetto le informazioni, e siano entro le sue competenze cognitive le regole, che giustificano
una credenza diversa.” (Magri, 1991, p.43).
Perché e in che modo continua dunque ad essere intrattenuta una credenza ‘debolmente
giustificata’?
Suddivido le risposte a questa domanda in due grandi gruppi e includo nel primo i fattori
strettamente cognitivi (1.1) e nel secondo quelli motivazionali (1.2).
1.1 I fattori strettamente cognitivi di resistenza al cambiamento delle credenze.
3
A loro volta possono essere suddivisi in tre sottogruppi:
- i fattori strutturali, (1.1.1);
- i fattori funzionali, (1.1.2);
- i fattori interattivi ovvero i circoli viziosi confermatori, (1.1.3).
1.1.1 I fattori strutturali.
Miceli e Castelfranchi (1995) suggeriscono vari principi di resistenza al cambiamento delle
credenze e due di essi fanno riferimento esclusivamente ad aspetti cognitivi.
Il primo sostiene che "l'agente cognitivo avrà più resistenza a rigettare credenze più credibili" (id.)
e il secondo che "l'agente cognitivo avrà resistenza a rigettare le credenze più importanti" (id.).
La credibilità di una credenza è determinata dalla affidabilità della fonte sociale (altri e se stessi),
dal numero di fonti ed evidenze diverse e, nel caso di credenze inferenziali che sono derivate da
altre credenze, essa dipende dalla credibilità delle premesse e da quanto è robusta la regola di
inferenza. Da notare che le regole di inferenza possono essere più o meno robuste a seconda che
siano conservative o non conservative: le prime generano credenze certe da premesse certe e
premesse dubbie da premesse dubbie, le seconde traggono conclusioni non certe anche da premesse
certe. (Castelfranchi, Parisi, 1980; Miceli, Castelfranchi, 1995).
L'importanza epistemica delle credenze dipende dal numero e dalla importanza delle credenze da
cui è supportata e dal numero delle credenze che supporta.
Il secondo principio di resistenza si giustifica se si accettano due criteri peraltro piuttosto intuitivi:
quello del `minimo cambiamento' e del `mantenimento della coerenza'; per il secondo, il
cambiamento di una credenza impone la revisione di tutta la rete in cui tale credenza è inserita, il
primo criterio ci dice che la dinamica del sistema è tale per cui sono privilegiati i cambiamenti
minori ovvero che il sistema tende a conservare la sua propria specifica organizzazione.
La credenza concernente la propria debolezza e fragilità è molto credibile ed epistemicamente
importante, dunque è particolarmente resistente al cambiamento. Se ora si considera che tale
credenza generale su se stessi sostiene e rafforza la credenza riguardo il proprio stato di salute
attuale, allora si può legittimamente supporre che la resistenza al cambiamento di quest’ultima
dipende anche dalla resistenza al cambiamento della prima. Cambiare idea riguardo al proprio stato
di salute attuale può essere frenato dalla presenza di un’idea generale su se stessi che a sua volta è
molto resistente in quanto molto credibile e importante.
1.1.2 I fattori funzionali.
E’ ben noto dagli studi di psicologia cognitiva che la mente umana può elaborare le informazioni
con diversi tipi di euristiche. Alcune di queste sono molto poco razionali ma vengono utilizzate
normalmente da tutti gli esseri umani nella vita quotidiana ed anche in compiti altamente
professionali come, ad esempio, prendere decisioni in un’azienda o diagnosticare malattie.
4
Anche il pensiero ipocondriaco si sviluppa utilizzando euristiche di questo genere con il risultato
che la credenza ipocondriaca ne esce consolidata. Dall’osservazione di pazienti ipocondriaci
emerge che le euristiche più coinvolte nel pensiero ipocondriaco sono il pregiudizio confirmatorio,
l’ancoraggio, la rappresentabilità, la manipolabilità delle credenze attraverso i copioni.
1.1.2.1 Il pregiudizio confirmatorio.
Consiste ‘nella tendenza da parte degli individui di selezionare le informazioni che sono o
sembrano coerenti con la decisione iniziale, e di ignorare quelle che le contraddicono. Questo
atteggiamento è indotto dalla naturale tendenza a confermare un’ipotesi piuttosto che a falsificarla.
Questa tendenza, nota come confirmation bias, orienta gli individui a cercare l’evidenza che
conferma l’ipotesi iniziale tralasciando le informazioni falsificanti, le uniche che consentono di
controllare logicamente un’ipotesi (Wason, 1960).’ (Rumiati e Bonini, 1992). Questa tendenza
porta i pazienti ipocondriaci a focalizzare l’attenzione sulle sensazioni fisiche, a selezionare le
informazioni che possono ricevere riguardo alle malattie e a imboccare cammini inferenziali in
modo tale da arrivare a confermare il loro sospetto iniziale (Salkovskis, 1996).
1.1.2.2 L’ancoraggio.
Secondo il quale “la revisione di un giudizio intuitivo, impulsivo, non sarà mai tale da annullarlo
completamente. Consciamente o inconsciamente resteremo sempre ancorati al giudizio iniziale e
faremo correzioni solo a partire da questo.” (Piattelli Palmarini, 1993, p. 134-5). “Gli apparati di
propaganda ben conoscono questo effetto, sfruttato abilmente anche dall’amministrazione Bush
durante la guerra del Golfo. I bollettini tipici riportavano, a seguito dei bombardamenti alleati, due,
tre, dodici vittime tra la popolazione civile irachena. Per quanto uno potesse essere scettico (e io
ero uno dei tanti) sulla verosomiglianza di queste cifre, l’aggiustamento mentale ‘in alto’ restava
pur sempre ‘ancorato’ a quelle cifre. Si moltiplicava in cuor nostro, magari per dieci, o perfino per
cento, ma non per diecimila, come poi è risultato doversi fare. Solo molti mesi dopo la fine del
conflitto si è sentito parlare di decine e decine di migliaia di vittime.” (id.). Nel caso degli
ipocondriaci, più è grave la malattia ipotizzata più la revisione critica sarà frenata dall’effetto
ancoraggio e, dunque, le rassicurazioni mediche saranno rielaborate conservando l’idea che
comunque c’è qualcosa che non va nella salute, magari non così grave o così imminente come si
pensava ma un pericolo in agguato ci deve essere.
1.1.2.3 La facile rappresentabilità.
“Il verificarsi di un tipo di evento, o di situazione, è da noi giudicato tanto più frequente quanto più
ci è facile immaginarlo mentalmente, e quanto più ci impressiona emotivamente” (id. p. 136). E’
questo il pregiudizio per il quale tendiamo a rallentare l’auto dopo aver visto un incidente stradale,
o ci attribuiamo maggiori possibilità di avere una malattia se veniamo a sapere che un nostro caro
amico ne è affetto. Siccome l’effetto ‘facile rappresentabilità’ dipende anche dall’impressione
5
emotiva allora questo effetto è più potente quanto più la possibilità di essere malati è valutata
drammaticamente, come appunto capita negli ipocondriaci.
1.1.2.4 La manipolabilità delle credenze attraverso i copioni.
“Il nostro giudizio in materia di probabilità si lascia influenzare dalle narrazioni, comprese certe
narrazioni che sappiamo essere il frutto di pura invenzione. ... Tracciare una sequela ‘plausibile’ di
eventi tra di loro conseguenti ci fa di colpo rivalutare ‘in alto’ una stima probabilistica. Basta che
gli anelli intermedi della catena tengano bene tra di loro, per vedersi avvicinare con l’occhio della
mente l’anello terminale. E, come abbiamo visto, ciò che ci riesce più facile immaginare diventa
ipso facto più probabile. Anche una bassissima probabilità del primo anello della catena viene
presto dimenticata. ‘Supponiamo che ...’ e poi si parte da lì per sciorinare una sequela di
conseguenze, magari assai ‘plausibili’. ... L’ultimo anello diventa più rappresentabile alla nostra
mente, e la nostra accresciuta facilità di rappresentazione mentale ce lo fa sembrare più probabile”
(id. p.143 e seguenti).
Anche nel caso di questo pregiudizio, la gravità della posta in gioco tende ad incrementarne
l’effetto. Quanto più drammaticamente è valutata la possibilità di essere malati tanto più ci si pensa,
e tanto più si elaborano e si articolano diversi scenari di malattia vedendo di conseguenza
aumentata la probabilità di essere malati che ci si attribuisce.
1.1.2.5 Due difficoltà di spiegazione.
Tutti gli esseri umani utilizzano euristiche di questo genere, ma non tutti sono ipocondriaci e
certamente questi ultimi non sono i soli a formulare come ipotesi iniziale quella di essere malati o
ad avere esperienze drammatiche di amici coetanei o di parenti malati. Molti individui normali
hanno preoccupazioni che si reggono su queste particolari euristiche, ma ciò nonostante riescono a
revisionare le proprie ipotesi di malattia.
Cosa interviene nel determinare un maggior effetto di queste euristiche negli ipocondriaci?
L’efficacia di queste euristiche nel rafforzare credenze dipende, come abbiamo già visto, anche
dalla gravità soggettivamente attribuita alla posta in palio e dunque alla minaccia di malattia.
Dobbiamo pertanto supporre che la minaccia di malattia o la malattia siano per l’ipocondriaco più
gravi che per altre persone. E la gravità dipende, come vedremo in un paragrafo successivo, dal
coefficiente di valore degli scopi minacciati o compromessi, dal numero di scopi coinvolti, dalle
aspettative del soggetto, da ‘quanto’ si assume che gli scopi coinvolti siano minacciati o
compromessi.
1.1.3 I fattori interattivi.
La preoccupazione ipocondriaca determina, si accompagna, o comunque implica, dei fenomeni che
possono essere per il soggetto conferme della sua ipotesi ipocondriaca.
6
E’ possibile distinguere circoli viziosi che si chiudono su sensazioni fisiche da quelli che si
chiudono su fatti esterni. I primi possono essere a loro volta distinti nei due che seguono:
- “Aumentata attivazione fisiologica. Questa deriva dalla percezione di minaccia e porta
all’aumento delle sensazioni mediate da meccanismi autonomici; queste sensazioni sono spesso
interpretate dai pazienti come ulteriori prove di malattia. Ad esempio, un paziente notò un aumento
della sudorazione e pensò che ciò fosse il sintomo di un grave squilibrio ormonale; quando pensava
a questa possibilità la sudorazione aumentava e così si confermava i suoi timori. (Salkovskis, 1996.
p.67).
- “Alcuni comportamenti hanno un effetto fisico più immediato sui sintomi del paziente. Un
paziente con un dolore testicolare si tastava frequentemente per controllare se il dolore fosse ancora
lì; ripeteva il controllo per periodi lunghi più di quindici minuti, a volte con intervalli di soli due-tre
minuti. Non c’è da sorprendersi se il suo dolore aumentava e con esso la sua preoccupazione
ipocondriaca.” (id. p.68-69).
Un esempio di circolo vizioso che si chiude su fatti esterni si configura, invece, in questo modo:
immaginiamo un paziente ipocondriaco che angosciosamente e ripetutamente chiede rassicurazioni
sul proprio stato di salute al proprio medico. E’ facile immaginare che il medico di fronte alla
incapacità di rassicurare il paziente gli dica : ‘per me lei non ha nulla, ma per sua tranquillità è
meglio fare delle analisi’; altrettanto facile è immaginare che la prescrizione di analisi da parte del
medico venga vista dall’ipocondriaco come una conferma della fondatezza dei suoi originari
sospetti.
1.2 I fattori motivazionali.
Le motivazioni che intervengono a determinare la resistenza al cambiamento delle credenze
ipocondriache, come si è già detto, sono:
- lo scopo di non essere malati;
- lo scopo di non essere persone deboli e, connesso a questo, anche di non essere esageratamente
ansiosi;
- e lo scopo di rispettare una regola di prudenza e perciò di essere all’altezza delle proprie
responsabilità.
Queste motivazioni intervengono sui processi cognitivi almeno in due modi:
- in automatico. Alcune euristiche usate dagli ipocondriaci per elaborare le loro preoccupazioni
sono, come si è detto poc’anzi, fortemente conservative poiché tendono a far aumentare le
probabilità attribuite alla possibilità di avere una malattia. L’efficacia delle euristiche nel
conservare o aumentare le probabilità attribuite all’esito temuto dipende anche da quanto il
soggetto valuta grave la malattia, ed il valore attribuito alla malattia dipende dal numero degli scopi
minacciati o compromessi, dal loro coefficiente di valore, da ‘quanto’ il soggetto ritiene che i suoi
scopi siano minacciati o compromessi e dalle sue aspettative;
7
- attraverso il pensiero magico. Alla base del pensiero magico vi è “la credenza secondo cui si
possono ottenere degli effetti nel mondo fisico attraverso delle operazioni puramente simboliche
non causalmente legate a tali effetti (per es. tirare un dado in modo leggero per far uscire un
numero basso e in modo più deciso per far uscire un numero alto, cfr. Henslin, 1967).” (Girotto,
1993). Come dire che il pensiero magico è un pensiero che si svolge dando per scontata quella che
appare all’osservatore una confusione fra il dominio dei simboli e delle rappresentazioni e quello
dei fatti.
Il pensiero magico è alla base di una regola prudenziale per la quale ‘prevedere’ non solo implica la
possibilità di prevenire ma ‘è’ di per sé una prevenzione. Stare all’erta, tener ben presenti alla
mente i pericoli e le possibilità più negative è un modo per prevenirle. Distrarsi, considerare i fatti
da una prospettiva più favorevole o mettere seriamente in discussione la propria percezione del
pericolo implica abbassare la guardia e, anche in un senso magico, aumentare il rischio. Dunque la
revisione critica dei propri timori ipocondriaci è frenata dal timore di abbassare la guardia rispetto
ad essi.
E’ generalmente riconosciuto che la tendenza a pensare magicamente dipenda, in buona misura, dal
livello di coinvolgimento emotivo e dunque dalla gravità della posta in gioco. “La psicoanalisi
riconduceva l’origine della magia a fattori motivazionali, secondo Freud <l’onnipotenza del
pensiero> deriva dal narcisismo. [...] Secondo Piaget gli uomini si comportano in modo
partecipativo, noi diremmo quasi-magico, [...] perché in particolari condizioni di tensione possono
ricadere nel realismo, come, appunto, i bambini piccoli.” (Girotto, 1994, pp. 177-178). Pertanto si
può legittimamente presumere che quanto maggiore è la gravità attribuita al rischio di malattia
tanto maggiore è la tendenza a pensare magicamente e di conseguenza aumenta anche la resistenza
a revisionare le credenze ipocondriache.
2. La seconda questione.
L’orientamento cognitivo che rende ragione della permanenza sistematica di credenze ‘debolmente
giustificate’, rientra in una strategia iperprudenziale tesa ad azzerare i rischi per la salute. E qui si
ripropone con forza l’interrogativo già anticipato: perché l’ipocondriaco non accetta l’esistenza di
rischi, soprattutto se questi, ai suoi occhi, si rinnovano sistematicamente vanificando gli sforzi volti
ad azzerarli? E? importante tenere presente che per definizione tali sforzi debbono protrarsi oltre i 6
mesi (cfr. criterio E del DSM IV, 1994).
Perché l’ipocondriaco non ha nei confronti della malattia o del rischio di malattia lo stesso
atteggiamento che hanno normalmente le persone realmente malate? La domanda è legittima visto
che tanto l’ipocondriaco quanto il malato vero condividono l’interpretazione del proprio stato di
salute e, dal punto di vista dell’accettazione, è del tutto secondario che tale interpretazione sia nel
primo caso fasulla e nel secondo giustificata. Ciò che conta è che in entrambi i casi i soggetti
abbiano la convinzione di essere malati.
8
Il problema, dunque, è spiegare perché l’ipocondriaco non accetta il rischio di essere malato ed
insiste nel tentativo di azzerare il rischio per un tempo più lungo di quello che di solito sarebbe
necessario per accettarlo.
2.1. Il problema dell’accettazione.
Il problema che sto sollevando è al contempo particolarmente rilevante per una piena comprensione
dell’ipocondria e molto poco, direi per nulla, considerato nella letteratura cognitivista
sull’argomento (Beck, 1976; Clark, 1988; Salkovskis, 1988, 1989; Warwick & Salkovskis, 1990;
Salkovskis & Clark, 1993).
Per meglio comprendere la questione si consideri il caso di un paziente operato per un carcinoma e
al corrente delle sue reali condizioni di salute, ivi compresa la probabilità di sviluppare delle
metastasi. Un paziente di questo tipo può avere un atteggiamento molto diverso da quello di un
ipocondriaco che, si noti bene, è soggettivamente convinto di essere in una situazione analoga dal
punto di vista del rischio per la sua salute. Ciò che contraddistingue l’atteggiamento ipocondriaco,
a parità di stima soggettiva del rischio, è la non accettazione della minaccia. L’ipocondriaco è
completamente concentrato sul proprio stato di salute, tende a perdere di vista altri interessi, la sua
intera giornata ruota intorno al problema della salute, i tentativi di annullamento della minaccia
assorbono pressocché tutte le sue risorse. Al contrario il malato vero che ha accettato il suo stato di
malattia e di rischio riesce a dedicarsi anche ad altri interessi e quanto più il tempo passa tanto più
riesce ad impegnarsi in altre attività, conserva la capacità di apprezzare ciò di cui comunque
dispone, elabora nuovi piani, si adatta a perseguire mete diverse anche se più modeste. A volte può
anche scoprire lati positivi nel suo stato. Spesso si rende conto che le cose sarebbero potute andare
anche peggio. Riesce a farsi una ragione della sua malattia considerandola un fatto accaduto e non
un torto subito.
Un vero malato cardiologico che accetta il rischio dell’infarto ha un’attitudine nei confronti della
possibilità di morire per un attacco di cuore molto diversa da quella di un paziente ipocondriaco. Il
primo è prudente ma corre dei rischi calcolati, è preoccupato ma non terrorizzato, gestisce il suo
problema tenendo conto dei costi, dei benefici e delle rinunce, persegue altri progetti oltre la
salvaguardia della sua salute. A volte può anche dimenticarsi della sua malattia e far finta di non
averla.
Niente di tutto ciò è presente nell’ipocondriaco che teme un attacco cardiaco.
La differenza tra il malato ‘vero’ e l’ipocondriaco non sta, dunque, nella probabilità del rischio
soggettivamente percepita ma piuttosto nell’accettazione o meno del rischio. Il cammino verso
l’accettazione non solo del rischio, ma anche delle minacce, dei dubbi, delle incertezze e delle
spade di Damocle è un cammino aperto a tutti e che lo stesso ipocondriaco, in altri domini, ha
percorso. Dunque l’accettazione è possibile ed è anche un destino naturale soprattutto in caso di
danni o minacce che si protraggono a lungo senza che si riesca a sottrarvisi. Ma perché
nell’ipocondriaco ciò non avviene?
9
2.2. L’accettazione delle minacce.
Si può sostenere che la differenza tra l’ipocondriaco ed il malato vero dipende dal fatto che i due si
trovano di fronte a due problemi diversi: il primo deve accettare una minaccia, il secondo un dato
di fatto acclarato. E siccome accettare una minaccia è più difficile che accettare un fatto, allora
l’ipocondriaco tende a persistere di più nei suoi tentativi di rassicurarsi.
Accettare una minaccia è più difficile che accettare un dato di fatto negativo per diverse ragioni.
La prima è che presuppone un ragionamento controfattuale, il che implica l’elaborazione
contemporanea di ipotesi reciprocamente escludentesi. Secondo un’interpretazione di Legrenzi et
al. dei processi mentali, basata sulla teoria dei modelli mentali (Johsnson-Laird, 1983), la quale
attribuisce gran parte degli errori di ragionamento a difficoltà rappresentazionali, è possibile
ricondurre gli effetti disgiunzione, scoperti da Shafir e Tversky (1992), alle note difficoltà
incontrate dai soggetti nel ragionare sui due modelli delle premesse che una disgiunzione richiede
di costruire e la buona riuscita di ciò, a sua volta, può dipendere almeno in parte dai noti limiti della
memoria di lavoro. (Girotto e Legrenzi, 1993).
La seconda ragione è che il confronto con un danno vero costringe un individuo a sperimentare un
mondo senza il bene perduto e questo può aiutarlo a costruire progressivamente l’accettazione. Ad
esempio la frequentazione di un ospedale può indurlo ad entrare in contatto con persone che stanno
peggio e ciò può essergli utile a ridimensionare le sue aspettative; la sua malattia può fargli scoprire
disponibilità altruistiche fino ad allora insospettate o fargli mettere a fuoco valori esistenziali più
profondi e consistenti aiutandolo a vedere il bene nel male.
In ultimo, il raggiungimento della certezza ha un’attrazione particolare per cui si è disposti ad
investire molte risorse se in cambio si ritiene di poter mettere un punto fermo. E’ ben noto dagli
studi di psicologia cognitiva la cecità per le probabilità “secondo la quale gli esseri umani sono
particolarmente incapaci di tenere conto delle probabilità del verificarsi di un evento per cui, ad
esempio, o il rischio c’è o non c’è affatto essendo scotomizzate tutte le probabilità intermedie. Non
si è disposti a spendere granché perché il rischio di un evento negativo scenda dal 30% al 3%,
eppure si tratta di una riduzione di dieci volte. Si è, invece, disposti a fare di tutto affinché passi
dall’1% a zero seppure si tratta di una riduzione ben più modesta.” (Lorenzini, 1997).
Il fatto che accettare una minaccia sia più difficile che accettare una realtà non spiega però del tutto
perché gli ipocondriaci abbiano più difficoltà dei malati veri ad accettare lo stato in cui ritengono di
trovarsi. Spesso, infatti, anche i malati veri accettano non solo una malattia accertata ma anche la
minaccia di peggioramenti, complicanze, inefficacia delle cure.
Dobbiamo, perciò, ritenere che entrino in gioco altri fattori che sono i fattori motivazionali.
2.3. I fattori motivazionali della non-accettazione.
In ogni istante, per ciascuno di noi, rispetto a qualunque scopo, desiderio, auspicio, speranza è
possibile persistere o, al contrario, accettare la frustrazione o la minaccia di frustrazione.
10
Quanto più si è ottimisti riguardo l’esito e quanto più l’esito è importante, tanto più si tende a
perseverare e, viceversa, maggiore il pessimismo e meno importante è l’esito, maggiore diventa la
tendenza a rinunciare e ad accettare la frustrazione o la minaccia di frustrazione.
Dunque nel determinare l’accettazione non interviene soltanto la valutazione delle probabilità
dell’esito ma anche l’entità della posta in gioco la quale dipende a sua volta:
- da come è rappresentata la valutazione, da come cioé il soggetto si prospetta la valutazione. In
particolare dipende da dove il soggetto colloca la discriminazione tra perdite e guadagni: Insomma,
la persistenza piuttosto che l’accettazione dipende anche dal livello di aspettativa. (2.3.1.);
- dall’entrata in gioco del grado di definizione degli scopi rappresentati e coinvolti nella
valutazione. (2.3.2.);
- dal coefficiente di valore degli scopi coinvolti (2.3.3.), e da ‘quanto’ gravemente il soggetto
assume che gli scopi coinvolti siano minacciati o compromessi (2.3.4.).
2.3.1. La prospettiva della valutazione.
E’ ben nota la prospect theory di Tversky e Kahneman (1981) dalla quale risulta che:
- gli esseri umani valutano gli eventi distinguendo guadagni e perdite rispetto ad una linea di base
da loro stessi definita;
- sono disposti ad investire molte più risorse per evitare una perdita che per procurarsi un
guadagno.
Si investirà, dunque, diversamente al fine di scongiurare un’eventuale malattia a seconda che
questa sia collocata nel dominio delle possibili perdite piuttosto che in quello dei mancati guadagni.
Il peso specifico della minaccia di malattia cambia a seconda di come il soggetto sposta la linea che
per lui discrimina i costi dai benefici. Ora, possiamo facilmente supporre che l’ipocondriaco,
rispetto al malato che ha accettato il proprio stato, collochi ‘più in alto’ il punto 0 che definisce il
bilancio salute/malattia accettabile, cioé abbia un’aspettativa più elevata.
2.3.2. L’indefinitezza dello scopo.
Spesso gli scopi perseguiti dall’ipocondriaco sono formulati come l’assenza di un male senza che
venga specificato e definito che cosa egli cerca. L’ipocondriaco cerca di non essere malato, di non
essere debole, di non commettere imprudenze di cui poi dovrebbe rimproverarsi e sembra voler
essere perfettamente sano, nel pieno controllo delle proprie emozioni e senza alcun tratto di
debolezza. L’ipocondriaco sembra cercare dei beni assoluti, mentre in realtà cerca di fuggire dai
mali senza definire dove vuole arrivare ma solo da dove vuole fuggire. L’indefinitezza della meta
implica due conseguenze per il soggetto ipocondriaco che favoriscono la persistenza ed ostacolano
l’accettazione:
- manca della regola di stop: sa da dove vuole fuggire ma non se è fuggito abbastanza lontano, se è
arrivato in zona di sicurezza e dunque se si può fermare;
11
- gli è difficile tener conto dei costi della persistenza in quello stato perché gli è più difficile fare
paragoni se uno dei termini del confronto è vago. Dunque egli persevera in quello stato anche
perché non tiene conto degli svantaggi della persistenza.
2.3.3. Gli scopi coinvolti.
Abbiamo già visto in un paragrafo precedente quali sono gli scopi abitualmente coinvolti nelle
preoccupazioni ipocondriache:
- lo scopo di non essere malati,
- lo scopo di non essere persone deboli e, connesso a questo, anche di non essere esageratamente
ansiosi,
- e lo scopo di rispettare una regola di prudenza e perciò di essere all’altezza delle proprie
responsabilità.
La differenza tra ipocondriaci e malati non-ipocondriaci sta principalmente nello scopo di non
essere persone deboli e soprattutto nel fatto che per gli ipocondriaci le loro stesse ansie e
preoccupazioni sono la prova del fatto di essere persone deboli.
Dunque per l’ipocondriaco la sensazione corporea non è soltanto il segnale di una minaccia alla
salute, ma è anche l’occasione che determina ansie e preoccupazioni che compromettono il suo
scopo di non essere una persona debole. Pertanto eliminare la sensazione fisica o essere rassicurato
rispetto al suo significato è per l’ipocondriaco doppiamente importante che per il malato vero, e
rinunciarci, ovvero accettare la malattia o la minaccia di malattia, è per l’ipocondriaco più difficile
perché la gravità del danno è maggiore di quanto accada normalmente.
Nel caso di pazienti ipocondriaci ossessivi la gravità della posta in gioco è ancor maggiore perché
agli altri si aggiunge lo scopo di essere persone responsabili che per questi pazienti ha un peso
molto maggiore di quanto accada abitualmente in altri individui (Mancini, 1997).
2.3.4. Il ‘quanto’ della compromissione e della minaccia.
Alcuni scopi possono essere compromessi o minacciati in gradi diversi. Ad esempio lo scopo di
essere ricchi è, più o meno compromesso a seconda dell’entità delle perdite che si subiscono in
borsa. Non tutti gli scopi possono essere raggiunti o compromessi in modo graduato, per alcuni
scopi la compromissione è del tipo ‘sì o no’ ma, appunto, non per tutti. Ad esempio, lo scopo di
laurearsi o è raggiunto o non lo è, non può esserlo in parte. Lo scopo di non essere malati è, invece,
compromesso in grado diverso a seconda che si abbia un raffreddore piuttosto che una polmonite o
un tumore. Ed anche lo scopo di non essere persone deboli può essere compromesso in modo più o
meno grave.
E’ evidente che è molto più facile accettare una compromissione modesta piuttosto che una grave.
Ovviamente è molto più facile accettare la perdita di 1.000 lire piuttosto che di 100.000 lire. E
molto più rapidamente si accetta di essere un pò deboli piuttosto che molto deboli.
12
E’ altresì ovvio che con il ripetersi degli eventi negativi il grado di compromissione possa
aumentare. E perciò per l’ipocondriaco, il ripetersi di episodi di ansia può comportare una
compromissione via via maggiore dello scopo di non essere una persona debole.
2.4. Una difficoltà di spiegazione.
Alla domanda perché gli ipocondriaci non accettano, contrariamente a quanto accade ai malati veri,
abbiamo già dato delle risposte facendo riferimento al livello di aspettativa, cioè al posizionamento
del discrimine fra guadagni e perdite, alla maggiore indefinitezza degli scopi, al numero ed al
coefficiente di valore degli scopi coinvolti ed al loro grado di compromissione ovvero alla gravità
del danno realizzato o minacciato.
Tutto ciò spiega il diverso atteggiamento di ipocondriaci e malati veri di fronte ai problemi di
salute che entrambi ritengono o sospettano di avere. Resta però che per quanto grave sia la
minaccia o il danno comunque, con il passare del tempo ed il ripetersi di fallimenti sistematici,
anche gli ipocondriaci dovrebbero accettare lo sgradevole stato di cose in cui ritengono di trovarsi.
E’ possibile, però, che si ingranino dei meccanismi per cui ciò non accade e l’ipocondriaco persiste
nei tentativi di azzerare il rischio.
2.5. La spirale viziosa.
Immaginiamo un soggetto che gioca alla roulette e che ha puntato già un ventina di volte e ha
sempre perso. Deve decidere se insistere o accettare la serata negativa e tornarsene a casa. Nella sua
mente considererà due aspetti, le probabilità che la ruota della fortuna giri in modo diverso e la
somma di denari che deve lasciare sul tavolo se decide di andarsene. Per nostra semplicità
supponiamo che il soggetto in questione sia per nulla familiare con il calcolo delle probabilità e che
dunque non consideri il fatto che la serie dei risultati precedenti non conta rispetto alle probabilità
degli esiti futuri. Il nostro soggetto è ingenuo e ritiene, invece, che esistono le giornate fortunate e
quelle sfortunate e che quella è molto probabilmente una delle sfortunate. Queste considerazioni
pessimistiche lo spingono a rassegnarsi e ad andarsene ma la consapevolezza di dover rinunciare
alla somma già perduta lo trattiene. Punta nuovamente e perde altro denaro. Ripete la stessa
riflessione e decide di ripuntare ma riperde. E così via. Al ripetersi delle perdite diminuiscono le
probabilità attribuite al successo e perciò aumenta la tendenza a rinunciare, ma
contemporaneamente aumenta la quantità di denaro che dovrebbe lasciare sul tavolo verde e
dunque aumenta il costo della rassegnazione. Di conseguenza, invece di rassegnarsi, insiste perché
aumenta il costo della rinuncia e il giocatore è preso da una spirale viziosa che lo porta alla rovina.
Un meccanismo analogo può entrare in gioco anche nel caso dell’ipocondriaco e dunque può
rendere ragione della sua persistenza nel ricercare l’azzeramento del rischio di malattia invece della
sua accettazione.
Come può aumentare, nel caso degli ipocondriaci, il costo dell’accettazione e la posta in palio? La
risposta è piuttosto semplice. Abbiamo già visto come, per l’ipocondriaco, l’ansia conseguente alla
13
valutazione di alcune proprie sensazioni corporee è a sua volta considerata compromettente lo
scopo di non essere una persona debole. A questa osservazione ne va aggiunta un’altra: al fine di
non essere una persona debole, l’ipocondriaco cerca di ridurre l’ansia e per ottenere questo risultato
si impegna nella ricerca di rassicurazione e quindi incrementa i tentativi di azzerare il rischio di
malattia ed è meno disposto ad accettarlo. Una conseguenza rilevante di ciò è l’accentuazione dei
meccanismi cognitivi che rafforzano la credenza ipocondriaca e dunque aumenta il numero delle
circostanze ansiogene, in definitiva, della frequenza e dell’intensità dell’ansia. A seguito
dell’incremento dell’ansia il soggetto assume che il suo scopo di non essere una persona debole sia
compromesso o minacciato in modo via via più grave. Un meccanismo a circolo vizioso, o meglio a
spirale negativa, che incrementa il danno di cui il soggetto assume di essere vittima e, se la posta in
gioco aumenta, allora la persistenza aumenta e l’accettazione diventa più difficile. Non raramente
anche lo scopo di non essere malato è coinvolto nella spirale negativa e ciò avviene grazie alla
credenza che lo stress emotivo ripetuto possa portare a malattie fisiche o aggravarle.
Vorrei far notare un aspetto particolare ma che ha la sua importanza. Per l’ipocondriaco l’ansia non
è il segnale di una valutazione in termini di minaccia di un danno e nemmeno è soltanto la
manifestazione di una natura debole, in questi casi infatti non vi sarebbe ragione di tentare di
controllare e ridurre l’ansia di per sé. Piuttosto per l’ipocondriaco l’ansia causa un aggravamento
della sua debolezza costituzionale. Interviene il pensiero magico ovvero la confusione segno-causa
e la tendenza a confondere il segno con la causa aumenta man mano che cresce la posta in palio ma
considerando l’ansia causa di debolezza ne consegue che la spirale viziosa si stringe ancora di più.
2.6. Ulteriori spirali.
Lo scopo di non essere una persona debole è coinvolto anche in altre spirali negative.
Vedersi minacciati da un aggravamento della propria debolezza suscita ansia e se questa è
considerata in grado di causare debolezza è chiaro che si instaura un meccanismo vizioso che non
necessita per alimentarsi dello scopo di non essere malato e di credenze strettamente ipocondriache.
Questo meccanismo si osserva bene in quei pazienti che vanno soggetti ad attacchi di panico, ma
sono convinti che l’attacco di panico non causi nessun danno alla loro salute e piuttosto temono che
possa gravemente indebolirli.
La consapevolezza di essere ormai irreparabilmente deboli si accompagna a depressione e questa si
manifesta anche con instabilità emotiva, facilità alla commozione, irritabilità, e se queste emozioni
sono considerate in grado di causare ulteriore debolezza allora il meccanismo vizioso trova nuovo
alimento.
Si consideri ora la formula, suggerita da Beck, Emery e Greenberg (1985), che riassume i
determinanti cognitivi dell’ansia:
Ansia = Probabilità attribuita all’evento temuto x Valore attribuito all’evento / Abilità percepita
di fronteggiare il pericolo + Fattori di supporto esterno di cui si ritiene di disporre.
14
Da questa formula si evince chiaramente che il senso di minaccia, e dunque l’ansia, aumenta
quanto minori sono le abilità ed il supporto esterno che si ritiene di avere. Ritenersi deboli implica
che ci si reputa meno dotati di abilità ovvero meno capaci di affrontare eventuali pericoli (“se
continuo ad essere così emotivo come farò ad affrontare le vere prove della vita? Come farò
quando moriranno i miei genitori?”). Le richieste di rassicurazione del paziente ipocondriaco
spesso lo espongono a squalifiche (“non mi prendono sul serio”) ed indisponibilità (“non si curano
di me”) da parte degli altri, in special modo dagli altri significativi, e ciò produrrà la diminuzione
del supporto esterno che si assume disponibile. Il senso di minaccia si generalizza e si incrementa
finendo ad alimentare la spirale negativa.
3. La terza questione: perché l’insight è inefficace?
Spesso i pazienti ipocondriaci “riconoscono che la preoccupazione di avere una grave malattia è
esagerata ed irragionevole” (DSM IV, 1994) ma, come è noto, ciò non impedisce all’ipocondriaco
di continuare a preoccuparsi. Questo fatto solleva alcuni importanti problemi di spiegazione.
Innanzitutto: come è possibile che un soggetto intrattenga due credenze incompatibili e creda sia di
non avere malattie sia di averne? L’assurdità sta nella violazione del principio di incompatibilità
per il quale non vi possono essere nella stessa mente, nello stesso momento, nella stessa
rappresentazione mentale due credenze incompatibili. Due credenze sono incompatibili. se la
somma delle probabilità loro attribuite è maggiore di 1 (Miceli e Castelfranchi, 1995).
Vi sono alcune soluzioni che mostrano come le due credenze dell’ipocondriaco possano convivere
senza che sia violato il principio di incompatibilità.
3.1. L’inversione della credenza.
Il soggetto oscilla tra due punti di vista all’interno dei quali considera i fatti riguardanti la sua
malattia. I due punti di vista si differenziano perché in uno l’ipotesi iniziale è di essere malato, nel
secondo, al contrario, di essere sano. Le due credenze opposte che riguardano la propria salute non
sono presenti nello stesso momento, ma si alternano e dunque il principio di incompatibilità è
salvo. L’alternanza avviene in modo ripetuto e senza arrivare ad una conclusione e l’inversione non
appare giustificata da fatti nuovi. Infatti, più o meno, le informazioni sostanziali a disposizione del
soggetto sono le stesse sia quando prevale il punto di vista più benevolo sia quando prevale
l’opposto. Naturalmente, per la maggior parte del tempo il paziente ha in mente l’ipotesi più
sfavorevole ma, effettivamente, in tutti i pazienti ipocondriaci ci sono momenti in cui essi si
rassicurano.
L’alternanza di punti di vista ci spiega come sia possibile che l’ipocondriaco sia critico nei
confronti dei suoi timori ipocondriaci, ma ciò nonostante continui a preoccuparsi: in alcuni
momenti ritiene di essere malato in altri succede il contrario. Da qui si dipartono svariate ulteriori
questioni.
15
Quali fattori intervengono nel determinare l’inversione? E perché il paziente non integra i due punti
di vista e risolve l’alternanza?
L’inversione avviene per motivi banali ovvero per fatti il più delle volte poco eclatanti. Di solito
facilitano il passaggio dall’ipotesi iniziale sfavorevole a quella favorevole spiegazioni positive
delle sensazioni temute, ovvero spiegazioni che riconducono le sensazioni a cause precise ed
innocue. E viceversa facilitano l’alternanza in direzione opposta la comparsa di una sensazione
corporea nuova, un evento che colpisce la fantasia e l’emotività del soggetto (l’annuncio che ad un
amico è stato scoperto un melanoma), una notizia letta sui giornali riguardante la scoperta di una
nuova malattia, ad es. virale.
Nel determinare le alternanze intervengono anche fattori non strettamente connessi con le
preoccupazioni ipocondriache. Qualunque evento, indipendente dal dominio ipocondriaco, che per
il soggetto aumenta o diminuisce la propria ‘debolezza’ o, più in generale, i poteri interni ed
esterni, ha un effetto sulla sensazione globale di minaccia o sicurezza e questa, a sua volta, si
riflette sull’orientamento cognitivo, facilitando il passaggio da un’ipotesi favorevole ad una
sfavorevole e viceversa. Segnali di maggiore disposizione da parte di figure affettivamente
significative o, al contrario, segnali di disaffezione o di abbandono, un successo professionale,
variazioni nel livello di responsabilità possono determinare l’alternanza.
3.2. L’autoinganno.
Il più delle volte, però, l’ipocondriaco orienta i suoi processi cognitivi a partire dall’ipotesi più
sfavorevole e al contempo giudica le proprie preoccupazioni esagerate o irragionevoli. In questi
casi è ovvio che non si può parlare di inversione ed è altrettanto ovvio che il principio di
incompatibilità è ancor più duramente sfidato. Come è possibile che due credenze incompatibili
siano presenti nella stessa mente e allo stesso momento?
La risposta è che a ben vedere le due credenze non sono incompatibili in senso stretto. Vi sono
varie possibilità affinché questo possa accadere.
In alcuni casi la critica riguarda il proprio atteggiamento preoccupato e ansioso e non entra nel
merito delle argomentazioni che generano la preoccupazione e l’ansia. Il giudizio critico è del tipo
‘gli altri si preoccupano meno di quanto faccia io’ dove il giudizio è comparativo e concerne
l’atteggiamento, ma non entra nel merito della fondatezza della preoccupazione che genera
l’atteggiamento, tanto è vero che spesso il paziente ritiene che la sua reazione esagerata non
dipende da come valuta certe sensazioni corporee ma piuttosto da una disposizione caratteriale, da
una sorta di difetto psichico. Dunque le due credenze possono essere copresenti senza che venga
minato il principio di incompatibilità. A ben vedere, infatti, le due credenze non condividono la
stessa rete argomentativa: una riguarda le prove a favore o contro l’ipotesi di avere una malattia,
l’altra le prove a favore o contro l’ipotesi di essere deboli di carattere.
In altri casi la credenza critica è del tipo ‘è assurdo credere di avere una malattia’ dove l’oggetto
del giudizio è il fatto di pensare di avere una malattia e non gli indizi a favore o contro la malattia.
16
In questo secondo caso si tratta di una credenza critica che si pone ad un metalivello rispetto alla
credenza di avere una malattia e non è un giudizio nel merito, infatti non tiene analiticamente conto
delle prove a favore o contro l’ipotesi ipocondriaca ma è un giudizio globale rispetto a generali
criteri di ragionevolezza.
Tuttavia sia nel caso delle inversioni sia nell’altro c’è da chiedersi perché il paziente non integra i
due punti di vista e risolve l’alternanza e perché non entra nel merito delle argomentazioni pro e
contro l’ipotesi ipocondriaca.
La risposta è simile nei due casi. Invece di entrare nel merito l’ipocondriaco si prescrive di
cambiare idea, quasi lo pretende da se stesso. In entrambi i casi il paziente dovrebbe entrare nel
merito e quindi considerare e comparare le argomentazioni più robuste di cui dispone sia a favore
che contro la credenza di avere una malattia.
Per entrare nel merito, però, egli deve prima aver accettato la possibilità che prevalga l’ipotesi più
temuta. Per discutere davvero si deve prima aver accettato la possibilità di avere torto (Sartre,
1948).
L’ipocondriaco evita di mettere a confronto la credenza di avere una malattia con la credenza
critica, piuttosto cerca di imporsi la modifica della credenza ipocondriaca. Vuole imporsela al fine
di non essere una persona esageratamente ansiosa (“devo farla finita con queste idee altrimenti
finisco per impazzire”) ma non è disposto a pagare il prezzo necessario né in termini di rischio di
malattia né dal punto di vista dello scopo di non essere una persona debole. Per farla finita con le
preoccupazioni ipocondriache deve comunque accettare un certo grado di rischio ed un certo grado
di ansia mentre l’ipocondriaco vuole un azzeramento totale del rischio e dell’ansia.
L’ipocondriaco non entra nel merito perché non ha accettato la possibilità di essere malato e
nemmeno la possibilità di essere debole. Dunque pretende da se stesso di non essere preoccupato e
si prescrive di cambiare idea laddove invece dovrebbe creare un contesto mentale in cui
confrontare sia l’ipotesi di avere una malattia sia quella inversa, ma per far questo dovrebbe aver
già accettato la possibilità di essere malato e le implicazioni in termini di ansia e debolezza.
A complicare la questione intervengono anche le spirali viziose che incrementano il costo
dell’accettazione e rendono più difficile l’integrazione e meno efficace l’insight critico.
Conclusioni.
A conclusione cercherò di riunire in un quadro d’assieme i diversi meccanismi che mantengono i
timori ipocondriaci. L’esame dell’interazione dei vari meccanismi offre anche l’opportunità di
mostrarne la diversa importanza gerarchica.
Al centro del quadro va posto un dato di osservazione clinica: il paziente ipocondriaco non solo si
spaventa della possibilità di avere una malattia ma è profondamente turbato anche dal fatto di
essere così tanto preoccupato per la malattia.
Ad un primo livello vi è la preoccupazione di alcune sensazioni corporee che sono interpretate
come il sintomo di una malattia grave e che sono valutate drammaticamente. A tale valutazione
17
segue l’ansia che è a sua volta interpretata come una reazione emotiva esagerata e perciò come
segno o come causa di debolezza e fragilità personale.
Dunque, nell’ipocondriaco il problema si pone, per così dire, a due livelli: al primo vi è il problema
concernente la minaccia o la compromissione della propria salute e ad un metalivello vi è il
problema di essere così tanto, o addirittura troppo, preoccupati per la propria salute.
I due livelli interagiscono nel senso che quanto più intensamente e frequentemente il soggetto si
preoccupa della propria salute tanto maggiore e frequente è il suo turbamento emotivo e di
conseguenza egli stesso considera vieppiù compromesso il suo scopo di essere una persona
equilibrata. Al fine di raggiungere il suo scopo di essere una persona forte, equilibrata e non
stravolta dall’ansia, il paziente si impegna nel tentativo di risolvere la sua preoccupazione per la
salute escludendo l’ipotesi di malattia. E questo impegno è plausibilmente maggiore quanto
maggiore è il grado di compromissione dello scopo di non essere debole.
L’impegno si traduce nell’incremento dell’effetto stabilizzante che alcune euristiche hanno sulla
credenza ipocondriaca. Abbiamo visto come l’ancoraggio, la facile rappresentabilità e la
manipolabilità delle credenze attraverso i copioni incrementano le probabilità attribuite all’ipotesi
di malattia ed abbiamo notato come l’ampiezza di tale effetto dipenda anche dall’entità della posta
in palio.
Particolarmente interessante è l’effetto dell’impegno sul pregiudizio confirmatorio. L’effetto
consiste nel frenare l’esplorazione di ipotesi diverse e la messa in discussione dell’ipotesi iniziale.
E’ frenata la capacità di considerare le sensazioni corporee da punti di vista più favorevoli.
L’effetto è mediato dal pensiero magico ossia dalla credenza che tenere ben presenti alla mente i
pericoli sia di per sé protettivo. E la tendenza a confondere il mondo delle rappresentazioni con il
mondo dei fatti presumibilmente aumenta con l’incremento della posta. Il pregiudizio
confirmatorio, a sua volta, rafforza la rete di conoscenze che supporta la credenza ipocondriaca ed
aumenta il numero di fonti che la sostengono. Dunque, credibilità ed importanza delle credenze
ipocondriache aumentano.
Anche la ridefinizione delle aspettative è evidentemente resa più difficile se l’entità del danno è
grande. Come dire che abbassare il punto zero che discrimina guadagni da perdite ossia ridefinire
come mancati guadagni ciò che è considerato perdita è tanto più difficile quanto più grave è la
perdita da ridefinire. E siccome si investono più risorse per evitare un male che per acquisire un
bene, allora ne deriva che l’ipocondriaco più vede compromessi certi suoi scopi, più risorse investe,
più tempo dedica alla preoccupazione ipocondriaca e più ha occasione di vedersi emotivamente
debole.
Anche la definizione degli scopi risente negativamente dell’entità del danno. Qualunque
definizione di una meta implica l’accettazione di un compromesso e più drammatico è il
compromesso richiesto più difficile sarà la definizione degli scopi. Abbiamo già considerato gli
effetti che la non definizione di uno scopo ha sulla stabilità dell’atteggiamento.
18
In sintesi, l’interazione fra i due livelli problematici tende ad assumere le caratteristiche di una
spirale negativa con il risultato che vi è un progressivo aumento della posta in palio. Di
conseguenza:
- sono innescati o mantenuti o accentuati i meccanismi cognitivi che determinano il grado di
resistenza al cambiamento della credenza ipocondriaca;
- è resa più difficile la revisione della prospettiva da cui si valuta la malattia o il rischio di essa e
più improbabile una rappresentazione definita degli scopi coinvolti. Di conseguenza l’impegno
verso l’annullamento della malattia o del suo rischio permane elevato o addirittura si accentua.
Le possibilità di cambiamento dell’ipocondriaco sono in due direzioni:
- cambiamento della credenza ipocondriaca;
- accettazione della malattia o del suo rischio.
Entrambe le possibilità sono rese più difficili dalla spirale viziosa in cui viene a trovarsi
l’ipocondriaco. Ma la spirale viziosa consente anche di spiegare perché l’insight critico sia
inefficace e tale permanga. La presa di coscienza critica non è neutrale ma piuttosto valutativa: il
soggetto prende coscienza dell’esagerazione delle proprie preoccupazioni valutandole
negativamente rispetto allo scopo di essere una persona forte ed equilibrata. L’insight critico delle
proprie preoccupazioni ipocondriache non solo non aiuta il soggetto ad uscire dalla spirale viziosa
ma, addirittura, l’alimenta e ne costituisce una parte fondamentale.
19
Bibliografia.
American Psychiatric Association (1994), Diagnostic and statistical manual of mental disorders
(4th ed.), Washington, DC, Author.
Beck A.T. (1976), Cognitive Therapy and the emotional disorders, New York, N.Y., International
Universities Press.
Beck A.T., Emery, G. e Greenberg, R.L. (1985), Anxiety disorders and phobias, New York, N.Y.,
Basic Books.
Castelfranchi C. (1988), Che figura, Bologna, Il Mulino.
Clark D.M. (1988), A cognitive model of panic, in S. Rachman e J.D. Maser (a cura di), Panic:
psychological perspectives, Hillsdale, NJ, Erlbaum.
Davidson D. (1986), Deception and division, in J. Elster (a cura di) The multiple self, Cambridge,
Cambridge University Press, trad. it. Il Sé multiplo, Milano, Feltrinelli, 1990.
De Silvestri C. (1981), I fondamenti teorici e clinici della terapia razionale emotiva, Roma,
Astrolabio.
De Silvestri C. (1989), Clinical Models in RET: advanced models of the organization of emotional
and behaviior disorders, in Journal of Rational, Emotive and Cognitive Behavioral
Therapy,7, 51-58.
Ellis A. (1961), Reason and emotion in psychotherapy, New York, Lyle Stuart.
Eysenck H.J. (1979), The conditioning model of neurosis, in Behavioral and Brain Sciences, 2,
155-166.
Girotto V. (1994), Il ragionamento, Bologna, Il Mulino.
Girotto V. e Legrenzi P: (1993), Naming the parents of the THOG: mental represantation and
reasoning, Quarterly Journal of Experimental Psychology, 46A, 701-713.
Guidano V.F. e Liotti G. (1983), Cognitive processes and emotional disorders, New York, N.Y.,
Guilford.
Johnson-Laird P.N. (1983), Mental Models, Cambridge, Cambridge University Press, trad. it.,
Modelli Mentali, Bologna, Il Mulino,1988.
Henslin J.M. (1967), Craps and magic, in American Journal of Sociology, 73, 316-330.
Liotti G. e Guidano V.F. (1984), Organizzazione e stabilità della conoscenza individuale nelle
nevrosi, in G. Chiari e M.L. Nuzzo (a cura di) Crescita e cambiamento della conoscenza
individuale, Milano, Franco Angeli.
Lorenzini R. (1997), La triade nascosta, manoscritto non pubblicato.
Lorenzini R. e Sassaroli S. (1987), La paura della paura, Roma, N.I.S.
Magri T. (1991), Il dilemma delle teorie filosofiche delle emozioni, in T. Magri e F. Mancini (a
cura di) Emozione e conoscenza, Roma, Editori Riuniti.
Mancini F. (1997), Disgust and its role in obsessive-compulsive disorders, invited paper at the
symposium on ‘Meanings, cognitions and feelings’, British Psychological Society, London,
8th March 1997.
20
Miceli M. e Castelfranchi C. (1995), Le difese delle mente, Roma, N.I.S.
Parisi D. e Castelfranchi C. (1980), Linguaggio, conoscenza e scopi, Bologna, Il Mulino.
Parkes C.M. (1972), Bereavement: studies of grief in adult life, London, Tavistock, trad. it Il lutto,
Milano, Feltrinelli, 1977.
Piattelli Palmarini M. (1993), L’illusione di sapere, Milano, Mondadori.
Reda M.A. (1986), Sistemi cognitivi complessi e psicoterapia, Roma, N.I.S.
Rumiati R. e Bonini N. (1992), Psicologia della decisione e decisioni economiche, in Sistemi
Intelligenti, 3, 357-377.
Salkovskis P.M. (1996), The cognitive approach to anxiety: threat beliefs, safety-seeking behavior,
and the special case of health anxiety and obsession, in P.M. Salkovskis (a cura di),
Frontiers of cognitive therapy, New York, N.Y., Guilford, pp. 48-74.
Salkovskis P.M. (1988), Phenomenology assessment and the cognitive model of panic, in S.
Rachman e J.D. Maser (a cura di), Panic: psychological perspectives, Hillsdale, NJ,
Erlbaum.
Salkovskis P.M. (1989), Somatic problems, in K. Hawton, P.M. Salkovskis, J. Kirk e D.M. Clark (a
cura di) Cognitive behaviour therapy for psychiatric problems,: a practical guide, Oxford,
U.K., Oxford Universities Press.
Salkovskis P.M. e Clark D.M. (1993), Panic and hypocondrias, Advances in Behavior Research
and Therapy, 15, 23-48.
Sartre J.P: (1948), L’etre et le neant, Paris, Gallimard, trad. it. L’essere ed il nulla, Milano, Il
Saggiatore, 1981.
Seligman M.E.P. (1988), Competing theories of panic, in S. Rachman e J.D. Maser (a cura di),
Panic: psychological perspectives, Hillsdale, NJ, Erlbaum.
Shefir E. e Tversky A. (1992), Thinking through uncertainity: non consequential reasoning
and choice, in Cognitive Psychology, 24, 449-474.
Tversky A. e Kahneman D. (1981), The framing of decision and the rationality of choice, in
Science, 211, 453-458.
Warwick H.M.C. e Salkovskis P.M. (1990), Hypocondrias, Behaviour Research and Therapy, 28,
105-118.
Wason P.C. (1960), On the failure to eliminate hypotheses in a conceptual tasks, in Quarterly
Journal of Experimental Psychology,12,129-140.
Ringraziamenti.
Particolari ringraziamenti a Cristiano Castelfranchi, Antonio Semerari, Tito Magri e Maria Miceli
che hanno contribuito, con critiche e suggerimenti preziosi, all’elaborazione di precedenti versioni
di questo lavoro.
21
Si ringraziano, inoltre, Roberto Lorenzini, Sandra Sassaroli e gli altri colleghi della Scuola di
Psicoterapia Cognitiva di Roma, Anna Maria Benedetto, Sergio Cingolani, Lorenza Isola,
Francesca Righi per le fruttuose discussioni.
Francesco Mancini.
Medico, neuropsichiatra infantile, psicoterapeuta. Insegna psicoterapia cognitiva presso la
Università “La Sapienza” di Roma e la Universitat de Barcelona. E’ direttore della Scuola di
Formazione in Psicoterapia Cognitiva della Associazione di Psicologia Cognitiva di Roma.
22