La partecipazione nelle politiche urbanistiche: il caso della
Bolognina di Ivan Mammana
INDICE
Introduzione……………………………………………………….pag. 6
Capitolo 1
La città contemporanea nella sociologia
1.1 Introduzione……………………………..……………………....… ” 8
1.2 La città contemporanea.………………………...……………......... ” 8
1.3 La sociologia urbana.…………………....……..………….…......... ” 11
1.4 Lo spazio come costruzione sociale.…….………………………… ” 13
1.5 Conclusioni……………………….………………...………....…… ” 16
Capitolo 2
La città imposta dall’impresa:
uno sguardo all’urbanistica italiana
2.1 Introduzione…………………………………………………..….... ” 18
2.2 L’urbanistica italiana: dalla legge del 1865 fino agli ‘70…………. ” 19
2.3 Gli anni ’80 e le riforme recenti...………………………………… ” 24
2.4 L’urbanistica imposta dall’impresa.…………….………………… ” 27
2.5 I laboratori di urbanistica partecipata.……………………………. ” 28
2.6 Conclusioni……………………………………………….………. ” 31
Capitolo 3
La Bolognina: Il caso del laboratorio di urbanistica
partecipata dell’ “Exmercato”
3.1 Introduzione……………………………………………………….. ” 34
3.2 La Bolognina………………...…..………………………………… ” 34
3.3 L’area dell’Exmercato e la sua dismissione .…………………….. ” 36
3.4 Il laboratorio di urbanistica partecipata dell’Exmercato ….……… ” 39
3.5 Conclusioni ….................................................................................... ” 47
2
Conclusioni….…………………………...………………………..… ” 48
Bibliografia Essenziale………..…………………………………. ” 52
Sitografia.....……………………………………………………….... ” 53
Normativa…………………………………………………….….…..” 53
Allegato: intervista a Giovanni Ginocchini………..……..….” 55
La mia mente continua a contenere un gran numero di città che non ho visto ne vedrò, nomi che portano con sé una figura o frammento o
barbaglio di figura immaginata…(Italo Calvino)
INTRODUZIONE
Lo scopo della tesi è quello di analizzare quali sono state le dinamiche della
formazione degli spazi urbani, ovvero individuare gli attori che più hanno
influito sulla loro realizzazione e sul relativo mantenimento, cercando di
mettere in luce anche il cambiamento di significato che lo spazio ha assunto
col passare del tempo.
In questo senso il primo capitolo si occuperà di definire lo spazio urbano
attraverso una sua lettura sociologica che vuole sottolineare l’importanza di
tali spazi, in quanto essi comunque rappresentano potenziali iter di
costruzione sociale.
Il secondo capitolo vuole mettere in luce chi ha effettivamente dato forma
alla città e attraverso che tipo di rapporto: il partenariato tra pubblico e
privato nel contesto italiano, attraverso una lettura storica dell’urbanistica.
Vogliamo dimostrare qui le ragioni per cui sia stata nella maggior parte dei
casi la logica della rendita immobiliaria a declinare l’assetto urbano e
dunque anche l’organizzazione sociale dello spazio. Allo stesso tempo però,
vogliamo mettere in luce i nuovi strumenti di partecipazione dal basso per la
progettazione urbanistica, evidenzianone anche i limiti sociali, emersi in
corso d’analisi.
L’ultimo capitolo si concentrerà su un caso specifico e unico nella sua
specie: il laboratorio di urbanistica partecipata dell’Exmercato. Qui
analizzeremo nello specifico i risvolti sociali che un progetto di larga portata
può avere in un quartiere emblema della dinamicità della città: la Bolognina;
sviluppando quest’ultimo capitolo alla luce degli strumenti e delle
considerazioni che abbiamo incontrato nei due capitoli precedenti. La tesi
che vogliamo qui dimostrare è proprio il deficit storico di partecipazione,
nella costruzione della città, del punto di vista degli abitanti e quanto questo
in un certo senso si sia accompagnato ad uno sgretolamento del significato
sociale degli spazi comuni e ad un nuovo ruolo della città nel sistema
mondiale: una città mirata alla costruzione di spazi che hanno la sola
funzione di connettere i luoghi dell’esistenza privata o di una socialità
sempre più legata a interessi commerciali e di sovrapposizione delle
funzioni. Questa esigenza della mobilità è il nuovo paradigma con cui molti
leggono la città contemporanea, ma sarà proprio questo il significato sociale
del futuro spazio urbano? Noi ci interrogheremo in questa sede sulla
possibilità che vi sia o meno un alternativa, di tipo partecipativo, al
partenariato tra pubblico e privato, dove è incluso anche il punto di vista
degli abitanti. Sicuramente nella nuova città dei flussi (Castells 2002) la
perdita del significato sociale degli spazi si relaziona ad una mancanza
d’interesse da parte degli abitanti nella progettazione e formazione dei futuri
spazi. Il caso della Bolognina comunque servirà da monito in parte per
affermare l’incapacità di trovare una formula consolidata per stimolare la
partecipazione, che dovrebbe essere comunque spontanea, ma anche per
affermare il valore sociale che una pratica come il laboratorio di urbanistica
partecipata può rappresentare in alternativa al paradigma dell’urbanistica
imposta dall’impresa.
Capitolo 1
La città contemporanea nella sociologia
1.1. Introduzione
Il concetto di città non si presta ad una definizione prettamente topografica.
Ciò lo renderebbe inevitabilmente incompleto. Questo, in particolar modo
quando il campo d’indagine è rappresentato dalle città contemporanee dove,
oltre al legame con lo spazio occupato, si aggiungono anche tutte le
trasformazioni sociali e dunque tutti gli esiti dei processi economici, politici
e culturali che nei nostri tempi hanno una portata decisamente più
consistente rispetto al passato. Tuttavia, nell’ambito sociologico, non si può
prescindere dall’importanza sostanziale che ricopre la dimensione spaziale.
Essa rappresenta una chiave di lettura primaria con la quale spiegare la
configurazione dei rapporti che di volta in volta si creano all’interno del
sistema sociale. La molteplicità delle forze in campo implica comunque, che
qualsiasi teorizzazione su quest’argomento risulti parziale. Non a caso, la
sociologia urbana è una materia multidisciplinare, che propone un insieme
di approcci diversi, e dunque un corollario di direzioni attraverso i quali
vedere la città.
Lo scopo di questo capitolo, ammessa la vastità dell’argomento, sarà
dunque quello di redigere una introduzione sulla città in chiave socio
economica, restringendo il campo alle città europee. Dopodichè, passare a
una breve rassegna delle principali scuole della sociologia urbana per
introdurre, così, la discussione accademica sulla questione relativa alla città
e al suo spazio occupato.
1.2. Le dinamiche socioeconomiche dello sviluppo urbano
La città industriale
Non vogliamo in questa sede tracciare una genealogia della città. Viceversa,
vogliamo concentrarci brevemente su alcune caratteristiche socio
economiche incidenti sulla trasformazione della natura della città europea a
partire dalla rivoluzione industriale. Questa scelta discriminatoria del campo
di studio, è dovuta all’esigenza di un certo grado di sintesi. Anche perché, in
un certo senso, nella società premoderna la città rappresentava
un’eccezione, dato che la gran parte della popolazione risiedeva in zone
rurali.
Nel XVIII secolo, con l’avvento della nuova struttura del potere e
dell’economia industriale, vi fu un’intensissima crescita demografica. Le
attività extraagricole iniziarono ad espandersi, aumentando la propria
produttività e ponendo così le basi per un nuovo sistema di scambi in larga
scala, aperto sia allo scenario nazionale sia a quello internazionale. Con il
generalizzarsi di questo modello, le concentrazioni urbane assunsero sempre
più centralità. Esse diventarono la sede di produzione dei nuovi beni. La
città, oltre le abitudini, cambiò radicalmente il proprio aspetto morfologico.
Furono edificati nuovi quartieri destinati ad ospitare la nascente popolazione
operaia. Questi spaccarono la compattezza unitaria garantita un tempo dalle
cinta murarie, e s’insediarono all’esterno del vecchio nucleo cittadino. Per
far fronte ad un iniziale caos urbano, si sviluppò una nuova pianificazione
mirata in particolar modo a risolvere i problemi riguardanti la gestione
sanitaria e igienica di questi nuovi spazi. Sotto questa spinta si realizzarono
le prime grandi opere d’ingegneria civile. La città diventò un oggetto da
analizzare scientificamente, il cui mutamento sociale poteva essere pensato
a tavolino, nonchè diretto a piacimento. Dietro questo concetto di
pianificazione vi è una forte base ideologica. È chiaro come il significato
tradizionale di città venne eroso dall’ordine industriale, al punto che si
arrivò a parlare di taylorizzazione dell’architettura.
Col passare del tempo, all’evoluzione delle tipologie dello spazio urbano, si
accompagnano il diffondersi dei nuovi strumenti di comunicazione,
l’interconnessione economica sempre più estesa e l’intensificarsi dei flussi
di persone in cerca di lavoro verso la città. La stessa campagna diventa, in
una certa qual forma, parte del processo d’industrializzazione. Nella
gerarchia spaziale essa dipende in misura sempre maggiore dalla città. Gli
stili di vita dello spazio urbano diventano espressione della cultura
dominante. Già all’inizio del novecento, in Europa, più del 50% della
popolazione vive in città. Tuttavia, questo processo d’espansione
dell’urbanesimo, oggi si attenua nei contesti più ricchi. Viceversa, i ritmi
della crescita urbana nei paesi in via di sviluppo diventano sempre più alti,
lasciandoci immaginare la creazione di numerose nuove megalopoli.
La città contemporanea
Ogni città si crea una sua propria identità. Però, quello che ci preme
descrivere è che le politiche urbane subiscono alcune forti influenze da
dinamiche globali. L’azione politica locale può a sua volta rafforzare o
indebolire l’impatto di queste. Nella sfera economica almeno tre processi
hanno marcato importanti effetti sulla città. In primis, il processo
d’espansione del potere delle imprese multinazionali, per il quale si è
realizzata una riorganizzazione dell’assetto lavorativo mondiale, e
contemporaneamente una ristrutturazione dell’apparato aziendale del mondo
sviluppato. Con la dispersione delle attività produttive si è venuta a creare
una vera e propria geografia degli organi aziendali. Le funzioni di direzione
e controllo sono generalmente collocate nelle città. Di fatto l’essere città
costituisce un’opportunità per partecipare all’economia mondiale.
Secondariamente, l’ammontare sempre maggiore delle transazioni
finanziarie ha progressivamente creato una spazio virtuale nel sistema.
Ingenti quantità di denaro si muovono in una rete di centri d’informazione e
banche dati in cui si può avere accesso indipendentemente dal luogo dove ci
si trova. Dall’altra parte, per far sì che questo sistema funzioni, vi è
l’esigenza di un sistema parallelo, fisico, dove interagiscono tutte quelle
persone e realtà che rappresentano questo apparato organizzativo.
Generalmente il loro punto d’incontro sono le metropoli, o tutte quelle città
che occupano un ruolo centrale nel mercato.
In terzo luogo, nell’economia contemporanea la conoscenza diventa una
risorsa chiave. La cultura diventa una produzione economica importante e la
produzione culturale non è più solo un espressione della vita urbana, ma
diventa uno dei principali motori dell’economia della città.
1.3. Le scuole principali della sociologia urbana
La sociologia urbana si sostanzia in un vasto ventaglio di discipline
accademiche, quali la demografia, i vari rami della sociologia, la geografia,
la psicologia e tutte le scienze del campo amministrativo. In pratica, più che
una singola materia, la sociologia urbana rappresenta una rete di relazioni
interdisciplinari. Può essere presentata come un aggregato eterogeneo di
concetti e di risultati di ricerca, dove il sistema urbano viene di fatto
concepito come un’entità complessa, un teatro i cui soggetti sono fortemente
interdipendenti tra loro. Infatti, buona parte della disciplina si è sempre
posta l’arduo obiettivo di tracciare teorie generali che mostrassero la
coerenza del coacervo di fenomeni che agivano all’interno
dell’insediamento cittadino.
L’attenzione è focalizzata generalmente su alcuni blocchi tematici:
dimensione economica, politica, culturale e ecologica, per citarne alcuni.
Seguendo lo schema fornitoci da Alfredo Mela (Mela 2006) nel suo
manuale di sociologia delle città, possiamo brevemente introdurre quelle
che sono le linee e le correnti principali della disciplina.
Il filone ecologico
La matrice di pensiero di questa scuola è l’ecologia umana, ossia il
concepire l’agire sociale attraverso una prospettiva biologico
evoluzionistica. La città viene letta alla luce della teoria dell’adattamento
delle società umane all’ambiente. Il livello linguistico è generalmente
caratterizzato dall’uso di una terminologia scientifica tipica dell’ambito
biologico. Burgess, ad esempio, uno degli autori più autorevoli di questa
corrente, analizza la crescita urbana secondo uno schema a cerchi
concentrici, che vanno dal più centrale fino a quelli più periferici. Più in
generale viene introdotto il termine “aree naturali”, ovvero un sistema
spaziale la cui forma è determinata da processi selettivi. Col tempo, questa
prospettiva teorica si è sempre più avvalsa dell’apparato metodologico
statistico, distaccandosi così dall’originaria scuola ecologica classica.
L’approccio critico e conflittualista
L’impalcatura teorica di questo filone si colloca nel pensiero marxista
socialista, seguendone tutta la sua evoluzione. Vi si pone al suo interno la
questione sul significato sociale dell’urbanesimo, e sui problemi posti in
essere dal modo di produzione. Nasce da qui un’analisi critica della società,
concepita in un’ottica classista. Il punto di partenza resta dunque il
materialismo dialettico, per il quale le città sono il luogo di concentrazione
dei conflitti di classe, e contemporaneamente anche delle condizioni per il
superamento del sistema capitalistico stesso. Questo pensiero critico si è
sviluppato su più linee nel corso del tempo. Inizialmente gli sforzi sono stati
mirati ad un tentativo di documentazione delle condizioni di vita delle città
industriali (basti pensare ad alcune note ricerche di Engels). Nei primi
decenni del Novecento invece, oltre alla dimensione socioeconomica, la
città incomincia ad essere letta alla luce delle sue trasformazioni culturali e
dell’introduzione delle nuove tecnologie per la comunicazione. In seguito,
con la scomparsa nell’Europa continentale delle società industriali,
l’approccio marxista si scontra con la sociologia urbana. Siamo all’inizio
degli anni settanta, ed il dibattito, influenzato dall’ascesa dei grandi
movimenti di protesta, dà luogo ad una fervente produzione teorica. In
particolar modo in Francia, dove, sotto l’alveo del filosofo Althusser si crea
a riguardo una vera e propria scuola sociologica. Sotto questa scia anche una
branca di sociologi americani avvia un interessante filone di studi sui
meccanismi economici di sviluppo della città. Questa corrente prende il
nome di “urban political economy”, il cui intento principale è lo studio dei
rapporti che s’instaurano tra politiche pubbliche e interessi privati e i relativi
squilibri sociali che tali rapporti comportano.
Vi sono infine altre correnti che hanno assunto man mano un peso rilevante.
Qui segnaliamo la scuola regolazionista, la “New Urban Sociology” e lo
spaccato dei movimenti sociali antagonisti. La prima canalizza la sua
attenzione sulla conoscenza di tutti quei meccanismi istituzionali e quelle
pratiche che vengono messe in atto per regolare i conflitti generati dal
sistema capitalistico. La “New Urban Sociology”, d’altra parte, concentra il
suo interesse sul sistema di relazioni che s’instaurano nelle città sommando
ai fattori economici e politici dello sviluppo urbano anche quelli culturali.
Ultimi, i movimenti sociali e antagonisti al potere, il cui tratto comune è
rappresentato dalla critica ai modi di vita dominanti della città.
Notiamo infine come l’approccio critico e conflittualista rappresenti una
galassia di scuole teoriche le cui basi sono i princìpi fondamentali del
marxismo. Non si può nascondere come all’interno di questa corrente vi
siano comparti contrastanti tra loro e, a volte, un’idea del ‘sistema città’
largamente differente.
Il dibattito su città e modernità
Questa corrente, che ha le sue radici in un dibattito classico del pensiero
sociologico, affronta i concetti di città e struttura sociale attraverso
valutazioni di tipo dicotomiche. Un esempio può essere la messa in
paragone dello spazio urbano con quello rurale, il primo come emblema del
presente, il secondo come retaggio del passato. In America, questa corrente
di pensiero si concentra sull’analisi del modo di vita urbano. La città viene
letta alla luce del suo rapporto con la modernità. Per questo, man mano che
il dibattito si è sviluppato, assume grande rilevanza la discussione sulla
transizione dal moderno al postmoderno.
Prospettiva di una sociologia spazialista
Di fatto essa non rappresenta una corrente o un filone in particolare bensì,
una nuova elaborazione concettuale, il cui fine è quello di reindirizzare
l’attenzione della sociologia verso lo spazio, che, insieme al tempo, è un
fattore decisivo dell’agire sociale. La nozione di “ambiente materiale”
diventa così centrale in questo quadro teorico. Lo spazio è un fattore che
condiziona inevitabilmente i comportamenti degli attori sociali. La città è
dipinta come una dimensione frenetica e convulsa.
1.4 Lo spazio come costruzione sociale
L’aver introdotto precedentemente le dinamiche socioeconomiche che
hanno influenzato lo sviluppo della città, ci permette di avere un punto di
vista di partenza chiaro su quali sono state le traiettorie che più o meno
comunemente hanno influenzato le città europee contemporanee. Bisogna
però, fare attenzione a non cadere nel luogo comune per il quale tutte le città
tendano nel tempo ad assomigliarsi. La portata dei cambiamenti economici
va soppesata con altre dimensioni della sfera umana: ad esempio gli stili di
vita, i flussi migratori, i gusti culturali e le nuove tecnologie, che,
indipendentemente da quale sia la causa che le abbia generate, innescano a
loro volta cambiamenti sulla percezione dell’individuo nei confronti dello
spazio. Le amministrazioni pubbliche dovrebbero, con la progettazione dei
piani urbanistici, mediare tutte queste tendenze, al costo di diventare essi
stessi fattori d’influenza. Ogni indagine sui rapporti fra lo spazio e i
fenomeni sociali ricadrà dunque all’interno di una formula che non conosce
soltanto due termini, né una loro relazione causale predefinita, bensì la
complicazione più stretta di un insieme di fattori.
La variabile spaziale assume sempre maggiore centralità nel dibattito
sociologico, distaccandosi dall’abitudine della sociologia classica che
sottovalutava l’incidenza dell’entità spaziale rispetto all’agire, dirigendo la
propria indagine su processi per i quali lo spazio rappresentava
semplicemente il luogo di collocazione del fenomeno oggetto di studio.
Diversamente, il dibattito più recente si è spinto sempre più verso un’ottica
spazialista, che tende a contestualizzare tale vettore come determinante
nell’agire sociale. Basti pensare come nel filone della biopolitica lo spazio
sia una delle espressioni più evidenti dei rapporti di forza nella società. La
morfologia urbana è spesso la manifestazione fisica della struttura sociale,
con un complesso di infrastrutture, servizi, nonché condizioni di sicurezza
differentemente distribuiti tra i diversi quartieri. A questo proposito Manuel
Castells parla di cittadini di prima fila e di ultima fila.
Il divario tra sociologia, urbanistica e architettura sfuma, nella misura in cui
le tre discipline paiono sempre più interdipendenti. Qualsiasi progetto
urbanistico rappresenta un potenziale iter sociale, dove l’atuhority può
decidere se dar più risalto alle dinamiche economiche o a quelle culturali,
alle politiche securitarie o a quelle ambientali. Ogni scelta sarà comunque
connotata da una base più o meno ideologica. A riguardo, Zygmunt Bauman
(Bauman 2005) punta il dito sull’incapacità della politica urbana di
affrontare i problemi causati dalla globalizzazione, dipingendo la città
contemporanea come un “campo di battaglia su cui i poteri globali, e i
sensi e le tenacità locali s’incontrano, si scontrano, si battono, tentando di
arrivare a una risoluzione soddisfacente, o almeno
accettabile”(Bauman2005).
L’indagine sociologica dà ampio spazio al rapporto tra governance e
sviluppo urbanistico, in particolar modo sulla questione degli spazi pubblici,
o meglio, come lo stesso Bauman li definisce, quei “luoghi nei quali
l’esperienza umana si forma, si accumula e viene condivisa, e il suo senso
viene elaborato, assimilato e negoziato”. Le città di fatto dovrebbero essere
caratterizzate da una presenza significativa di questo tipo di spazi. Questi di
certo non eliminano le disuguaglianze sociali ma, in linea di principio sono
luoghi aperti a tutti, senza i quali non resterebbe altro che un agglomerato di
spazi privati.
In ogni caso, il significato di questi spazi sembrerebbe che col tempo tenda
a modificarsi. Sempre Manuel Castells (Castells 2002) vede nelle reti
innovative di comunicazione la creazione di un cyberspace opposto al
mondo della vita reale, riducendo quindi le vie e le piazze alla stregua di
semplici canali di transito: per l’autore catalano assistiamo alla sostituzione
dello ‘spazio di luoghi’ con uno ‘spazio di flussi’. In più, le espansioni
territoriali verso nuove zone suburbane (la città diffusa) hanno portato a
ridurre la reperibilità di certi luoghi all’uso di mezzi di trasporto e alla
presenza di determinate condizioni materiali, radicalizzando la gerarchia
topografica già esistente.
Un altro fenomeno da considerare che abbia cambiato il significato degli
spazi pubblici è la diffusa percezione d’insicurezza in parte della
popolazione cittadina. Questa sensazione si è tradotta in una richiesta di
maggior controllo degli spazi, al punto che alcuni sociologi parlano di
‘capsularizzazione’ della città: la struttura spaziale urbana si compone di
luoghi fortemente controllati, spesso a carattere monofunzionale, tra i quali
il cittadino o il visitatore è indotto a muoversi lungo canali
prefissati(Mela2006). In America, invece, assistiamo alla creazione di gated
communites: veri e propri baluardi con guardie armate e telecamere ad ogni
angolo, in cui si rinchiudono le cosiddette upperclass. Dietro quest’idea
degli spazi preclusi si sta sviluppando una scuola architettonica.
Dunque, chi dà forma alla città? Chi decide degli spazi pubblici?
Usando lo schema di Antida Gazzella (Martinelli 2004) distinguiamo due
tipi di politiche: da una parte abbiamo le politiche per la città, attuate dagli
organi di governo locali, dall’altra le politiche nella città, proposte ed
attivate dagli operatori privati in campo edilizio, le camere di commercio, le
associazioni di categoria. Saranno questi a interpellare i vari architetti e
urbanisti che segneranno il futuro aspetto della città. Questo schema è
essenziale riferimento per il capitolo che viene. Un’ultima breve notazione
può essere fatta sopra il ruolo dell’architettura nell’odierno contesto urbano.
Rifacendoci a quanto scritto da Della Pergola in uno dei suoi saggi,
possiamo definire l’architettura come un fatto sociale per il quale è richiesta
una profonda conoscenza della complessità dei luoghi in cui si agisce. In tal
senso non si può ridurre il ruolo dell’architetto, né tanto meno
dell’urbanista, a una mera professione tecnica, pena la stessa convivialità
dei cittadini.
1.5 Conclusione
L’obiettivo di questo capitolo era quello di presentare un’immagine della
città in chiave sociologica attraverso le principali linee di pensiero della
sociologia urbana. Abbiamo così ristretto il campo di studio alla città
contemporanea europea e analizzato le principali dinamiche socio
economiche di cui è stata oggetto a partire dalla rivoluzione industriale.
L’ultimo paragrafo è invece dedicato ad una lettura della città in ottica
spazialistica, quindi che incidenza abbia lo spazio sull’agire sociale e quali
siano i fattori principali che lo determinano. Nel prossimo capitolo si
affronterà il tema entrando maggiormente nello specifico: lo spazio urbano
in Italia. Il filo conduttore sarà la storia dell’urbanistica nazionale, e dunque
il ruolo che i vari attori sociali hanno avuto nel tempo sulla determinazione
della composizione spaziale della città odierna.
Capitolo 2
La città imposta dall'impresa: uno sguardo storico
all’urbanistica in Italia
2.1. Introduzione
Il capitolo precedente ha messo in rilievo l’importanza che ricopre lo spazio
nel tessuto urbano: l’ ‘homo socialis’ ha bisogno di soddisfare le esigenze
della propria esistenza in un insieme di luoghi che vanno ben oltre la
disponibilità di un’abitazione adeguata. Alla creazione di tali spazi è dunque
correlata la stessa convivialità dei residenti. Così, l’urbanistica è il metodo
attraverso il quale le ammnistrazioni pubbliche si dovrebbero fare carico
della qualità dello sviluppo cittadino. Il suo rapporto con gli altri operatori
del settore edile ha determinato, e determinerà, l’aspetto della città, che si
trova oggi ad affrontare sfide particolarmente complesse, quali la tutela
ambientale e la partecipazione diretta dei cittadini alla fase di progettazione
degli interventi pubblici. In questo capitolo è analizzata sommariamente la
storia dell’urbanistica italiana, il cui fine è quello di rendere un’idea parziale
delle dinamiche generali che hanno caratterizzato la composizione spaziale
degli insediamenti, suggerendo anche una lettura critica di alcuni suoi
passaggi cardine. Si vuole evidenziare come le istituzioni siano state spesso
vincolate all’interesse del privato, e di come l’ingerenza di quest’ultimi sia
stata determinante, per diverse ragioni, nella progettazione degli spazi
pubblici, e non, della città. Oggi, ancor di più, le amministrazioni non
possono prescindere dal partenariato pubblicoprivato e dalle esigenze
stabilite dal mercato fondiario e immobiliare. Il potere decisionale degli
spazi futuri passa attraverso questo rapporto squilibrato che tende a
declassare la voce degli abitanti dei quartieri, diretti fruitori di tali aree.
Inoltre, le politiche amministrative locali sembrano mirare alla
progettazione di spazi il cui destino d’uso sia la circolazione: punti di
transito e di collegamento da un luogo all’altro della nostra esistenza
privata.
2.2 L’urbanistica italiana: dalla legge del 1865 fino agli ‘70
Il fondamento del diritto urbanistico dell’Ottocento poneva una rigida
distinzione tra sfera privata e pubblica, secondo quelle che erano le logiche
liberiste dell’epoca. L’edificazione dei privati era del tutto priva di vincoli,
mentre le amministrazioni dovevano provvedere a ciò che era pertinente
all’uso pubblico: sistema stradario, fognature, parchi, piazze. Per far fronte a
queste esigenze però, era costretta a ricorrere all’acquisizione di terreni
privati. A tal proposito fu approvata la legge n.2359 del 25 giugno 1865,
intitolata “Disciplina delle espropriazioni forzate per causa di pubblica
utilità”. Questa, oltre a regolare l’esproprio, introduceva anche i primi
princìpi di disciplina urbanistica contenuti nei termini: “Piani Regolatori
Edilizi” e “Piani Regolatori di Ampliamento”. La legge non mirava tanto
alla definizione degli assetti insediativi ma, piuttosto alle questioni
procedurali di esecuzione.
Era il Consiglio comunale a deliberare sull’attuazione dei piani regolatori,
attraverso tale apparato normativo, che apriva appunto la strada alla
legislazione urbanistica in Italia, fra l’altro caratterizzata da norme in cui era
insita una buona tutela dell’interesse collettivo. La legge non prevedeva
obbligatorietà per la realizzazione dei piani regolatori ma, essa doveva
garantire la disponibilità degli spazi pubblici, incidendo così nel tempo sullo
sviluppo urbano. Nella pratica però, l’applicazione di tale legge fu limitata a
pochi casi, da una parte perché le città in espansione in Italia erano poche,
dall’altra perché l’intervento pubblico preferì concentrarsi su altri settori,
quali la rete ferroviaria e la costruzione di grandi infrastrutture fuori del
tessuto urbano. La legge del 1865 rappresentò un’importante occasione
mancata anche per altre ragioni: basti pensare che oltre alla limitata
produzione di piani e regolamenti edilizi s’instaurò la prassi di aggirare il
potere decisionale dei comuni attraverso il ricorso a leggi speciali che
assegnavano compiti di progettazione del territorio ad organismi diversi da
quelli incaricati della pianificazione urbana. Questo comportamento si
distaccò dal trend europeo che viceversa, tendeva a massimizzare il ruolo
delle autorità municipali nella gestione del territorio.
Nel 1942, fase ormai discendente del fascismo, dopo una discussione durata
un trentennio, venne approvata la “Legge Urbanistica” n. 1952/42, che può
essere considerata quasi un tentativo di conferire organicità al quadro
legislativo urbanistico, almeno rispetto alla legge del 1885. Infatti, essa si
propose come un grande esperimento di ammodernamento, in quanto tesa a
riordinare la materia relativa agli strumenti di pianificazione. Creò, tra
l’altro un sistema gerarchico secondo cui vi era un livello di progettazione
generale di tipo ministeriale, chiamato “Piano Territoriale di
Coordinamento”, che doveva semplicemente orientare la progettazione
urbanistica, poi redatta e concretizzata a livello comunale attraverso il
“Piano Regolatore Generale”, composto a sua volta da differenti “Piani
Particolareggiati”. Il PRG era considerato valido fin quando non veniva
modificato da una ‘Variante’, mentre per i Piani Particolareggiati era
stabilito un termine di dieci anni. L’attività privata venne regolamentata
attraverso l’apporto di nuovi strumenti attuativi quali le lottizzazioni, i
comparti edificatori, le licenze edilizie e le sanzioni per chi viola le norme
urbanistiche.
Nella ricostruzione del dopoguerra la pianificazione territoriale fu dettata
dall’orientamento delle forze imprenditoriali che approfittarono del
disinteresse diffuso delle amministrazioni pubbliche, occupate, in quel
momento, a creare le basi per la ripresa economica. Le prospettive
insediative, così come le questioni da essa sollevate, passarono in secondo
piano, per non dire che furono del tutto escluse dalla considerazione
dell’authority. Con un decreto del 1945 furono istituiti i “Piani di
Ricostruzione”, prorogati fino all’approvazione del Piano Regolatore dei
comuni interessati. Questi erano strumenti straordinari che prevedevano la
ricostruzione di ciò che era andato distrutto in tempi brevi, snellendo così la
macchinosa fase procedurale altrimenti prevista dai meccanismi ordinari.
Invece, la proprietà straordinaria di questo provvedimento fu sfruttata dai
comuni per aggirare la limitata operatività dei PRG e per promuovere
l’attività edilizia in maniera indiscriminata. Si perse ogni consapevolezza
della visione d’insieme, vanificando in parte il contenuto della legge del
1942. Una ragione di questo lassismo può essere rintracciata
nell’insufficiente disposizione economica dei municipi per realizzare forti
interventi pubblici di urbanistica, nonché nell’incapacità d’imporre ai privati
una partecipazione adeguata agli oneri destinati ad opere e servizi pubblici,
o comunque all’urbanizzazione in senso lato. L’attuazione del piano era in
mano al libero gioco delle iniziative private e pubbliche senza un preciso
coordinamento spaziotemporale (Monti2000).
Gli anni ’50 continuarono nella falsa riga dei primi anni del dopo guerra,
caratterizzati appunto da reiterata carenza di pianificazione: i piani
regolatori prevedevano grandi densità di edificazione a fronte di trascurabili
assegnazioni di spazi e servizi pubblici. Furono anche progettati i primi
grandi quartieri popolari, che sarebbero stati poi collocati in zone marginali
della città, producendo a volte dinamiche di ghettizzazione.
In attesa di una riforma urbanistica, intanto, nel 1962 venne varata la legge
n.167/62 sulla disciplina dei “Piani per l’Edilizia Economica e Popolare”
(Piani P.E.E.P.). Questo provvedimento si proponeva di munire i comuni di
un insieme di strumenti per disciplinare il settore della casa popolare e
contrastare la speculazione fondiaria che attanagliava le città. Nello
specifico il mezzo principale era rappresentato dai Piani di Zona, simili ai
piani particolareggiati, che stabiliva gli spazi per l’edilizia popolare e ne
disponeva l’esproprio. Il comune doveva acquisire le varie zone e dotarle
dei servizi sociali necessari, dopodichè rivendendole in terreni ad
assegnatari pubblici (IACP) o privati. Bisogna aggiungere che il
meccanismo di finanziamento del comune per l’indennizzo degli spazi
ottenuti prevedeva un iter contorto che non solo conobbe differenti fasi ma,
le stesse norme del corpus della legge 167 che trattavano i valori di
esproprio furono dichiarate incostituzionali. Di fatto, in quegli anni, la
limitazione del diritto di proprietà per fini pubblici, rappresentava uno degli
scogli più problematici per un eventuale riforma della legislazione
urbanistica.
Si dovette aspettare il 1967 per l’approvazione di una nuova riforma
urbanistica, attraverso la legge n.765/67, la quale apportò significative
modifiche al vecchio impianto normativo (legge n.1150/42). Questa fu
denominata “Legge Ponte” proprio perché doveva rappresentare un
passaggio verso una riforma organica della legislazione urbanistica, spinta
dall’esigenza di porre un freno allo sviluppo edilizio incontrollato che si
stava verificando in quegli anni.
Ci si preoccupò, in prima istanza, di rendere effettiva l’applicazione e il
rispetto dei piani e degli strumenti urbanistici. In proposito si stabilirono
delle rigide tempistiche a tutti i livelli decisionali, in particolare per
l’approvazione del PRG, la cui giurisdizione, in caso di mancato rispetto dei
termini previsti da parte del comune, sarebbe passata agli organi statali.
L’obbligatorietà della licenza edilizia, precedentemente limitata ai soli
centri urbani e alle zone di espansione, venne estesa su tutto il territorio e fu
inoltre imposto un regime di salvaguardia per quei piani approvati dai
comuni ma non ancora autorizzati dagli organi superiori. Si stabilirono
precise sanzioni per le violazioni in contrasto con il piano: gli organi statali
furono chiamati a intervenire laddove si constatassero inadempienze da
parte del comune a disciplinare tali infrazioni. Dopodichè furono stabilite
delle ferree limitazioni per quelle edificazioni prive degli strumenti
urbanistici e stabiliti i limiti inderogabili di densità edilizia, di altezza, di
distanza fra i fabbricati e gli standard per la dotazione minima di servizi da
garantire in rapporto al numero di abitanti (D.M.1444) (Monti2000). Fu
finalmente sancita la partecipazione dei privati alle spese di urbanizzazione:
questi dovevano farsi carico di tutte le opere di urbanizzazione primaria e
contribuire inoltre, per mezzo di una quota, alla realizzazione delle opere di
urbanizzazione secondaria. Iniziarono a delinearsi i tratti di una possibile e
incisiva pianificazione urbanistica, se non fosse che rimanevano irrisolti
alcuni nodi relativi al regime dei suoli, o meglio, come già accennato, la
questione dell’indennizzo. Dopo neanche un anno dall’approvazione della
legge, una sentenza della Corte Costituzionale (n.55 del 29 maggio 1968),
dichiarò illegittimi quegli articoli che non prevedevano l’indennizzo a chi,
vincolato dalla non edificabilità dei propri terreni per via dei piani, si vedeva
di fatto negato un diritto. In pratica la corte riconosceva oltre all’indennizzo
per l’esproprio un altro indennizzo relativo a questi vincoli imposti al
proprietario nell’attesa dell’esproprio. In pratica i comuni si trovarono
costretti ad annullare la validità dei piani per l’incapacità economica di
pagare i vari proprietari nell’attesa dell’acquisizione pubblica delle aree. Si
tentò di marginare il problema attraverso una serie di leggi tampone che
stabilivano termini precisi per la loro attuazione, oltre i quali il vincolo di
inedificabilità sarebbe decaduto. Successivamente, nel 1971, con la legge n.
865 fu varata una nuova normativa dell’esproprio in cui l’indennità veniva
stabilita attraverso nuovo criterio teso a considerare il valore intrinseco1 del
terreno, anziché il suo valore di mercato.
Nel 1970 con l’istituzione delle regioni a statuto ordinario furono trasferite a
queste tutti i compiti di controllo sulla gestione urbanistica che prima
spettavano agli organi statali. L’urbanistica si decentrava sempre più,
garantendo in questo senso un’operatività maggiore.
Nel 1977 con la legge n.10 torna a galla il problema del valore economico
dei terreni soggetti a esproprio e a vincolo di inedificabilità. Viene stipulato
il principio per cui, il diritto di edificazione è attribuito alle autorità
comunali anche quando non sono esse i diretti proprietari del terreno. Sono i
comuni, in base agli strumenti urbanistici da essi disposti, a concedere ai
proprietari il diritto di edificazione. La “licenza edilizia” si trasforma in
“concessione edilizia”, eliminando l’indennizzo previsto per i proprietari
vincolati a inedificabilità, come delineato dalla legge n. 865. Essa è di
norma onerosa e si divide in due tipi di contributi: uno che corrisponde ad
una quota del costo di costruzione, l’altro invece che corrisponde a un
contributo per le opere di urbanizzazione. Ovviamente vi sono casi in cui la
concessione viene data gratuitamente, ad esempio le opere pubbliche, o in
maniera agevolata com’è il caso delle “concezioni convenzionate”.
Quest’ultimo tipo di concessione fu un escamotage, che si rivelò inefficace,
per indurre l’iniziativa privata a cimentarsi nella costruzione di case a prezzi
1 Calcolato in base al valore agricolo del suolo, ovvero valutando i coefficienti moltiplicatori del valore agricolo di base incentivando il cosiddetto “accordo bonario” fra le parti, consentendo una maggiore indennità pari al 50%; si prevedeva infine la triplicazione dell’indennità per le aree agricole direttamente coltivate dal proprietario.
popolari. La legge prevede inoltre l’estensione del contributo dei privati,
previsto dalla legge “ponte”, alle opere di urbanizzazione in generale, col
fine di renderli partecipi anche alla manutenzione ed al rinnovamento dei
servizi pubblici urbani.
La legge n. 10 introdusse per la prima volta i “Piani Pluriennali di
Attuazione”, che costituivano lo strumento di programmazione
dell’attuazione dei PRG, definendo le aree, le opere di urbanizzazione, le
tempistiche e i meccanismi di finanziamento relative al programma
insediativo in questione.
2.4 Gli anni ’80 e le riforme recenti
Abbiamo fin qui tracciato un quadro legislativo generale nel quale leggere i
vari tentativi di pianificazione territoriale e di controllo degli enti pubblici.
A fronte di tutto ciò, bisogna però constatare, che i risultati furono molto
insoddisfacenti. Basti pensare che con una nuova sentenza della corte
costituzionale nel 1980, fece tornare a galla la questione dell’indennità di
esproprio, dichiarando illegittime tutte le norme a riguardo delle leggi n. 865
e n. 10. I comuni si trovarono così costretti a intervenire solo su aree di
proprietà pubblica, o ad acquisire terreni a trattativa diretta, riducendo di
netto il proprio raggio di azione.
Tutto sommato all’inizio degli anni ’80 ci si trovò di fronte ad un apparato
legislativo urbanistico con un certo grado di organicità. L’authority
disponeva di un buon numero di strumenti per contrastare il dominio
dell’iniziativa privata, restavano però i nodi problematici degli indennizzi e
della macchinosità burocratica. Quest’ultimo in special modo, congiunto
alle dinamiche inflazionistiche, creava non poche difficoltà per la stipula di
un piano di finanziamenti realistico.
In questo decennio emersero due filoni di pensiero che ebbero alcune
ricadute legislative. Da una parte vi era il pensiero liberista delle imprese
edili, le quali rivendicavano uno snellimento delle prassi procedurali del
settore che in quel momento era in declino. Dall’altra invece, emergeva la
nascente critica agli spazi urbani di un opinione pubblica che reclamava
maggiore qualità della vita. Queste due linee di pensiero per quanto in
contro tendenza, ebbero entrambe una ricaduta sul piano legislativo: la
prima con la legge n.94 del 1982, la seconda con i “Piani territoriali
paesistici” previsti nella legge n. 431 del 1985.
La legge n. 94, conversione del “decreto Nicolazzi”, attuò una forte
accelerazione delle procedure che prevedevano maggiore
responsabilizzazione delle amministrazioni. Questo però senza tenere in
considerazione la disorganizzazione degli enti pubblici impreparati sia a
livello tecnico che economico ad una riforma di tale portata. Per farci
un’idea basti pensare all’introduzione del concetto di “silenzioassenso”, la
dove, in caso di domanda di concessione su aree che dispongano di
strumenti urbanistici attuativi già approvati, si considera accolto il progetto
se a novanta giorni dalla presentazione della domanda stessa non vi sia stata
alcuna comunica di negatività da parte del municipio. I comuni si
ritrovarono così costretti ad allungare i tempi del “silenzioassenso” per
mezzo di vie alternative, non riuscendo a dare piena attuazione a questa
legge. Una breve parentesi andrebbe fatta anche sui meccanismi sanatori per
l’abusivismo, materia trattata dalla legge n. 47 del 1985, che rientra in quei
provvedimenti legislativi che tendevano a ridurre il sistema di vincoli e
controlli urbanistici in mano alle amministrazioni. L’istituzione della
sanatoria si rivelò in alcuni casi del tutto inefficiente, al punto da diffondere
ulteriormente la pratica dell’abusivismo.
La legge n. 431 del 1985, nota come “Decreto Galasso”, si contrappose a
quest’ondata di provvedimenti di stampo liberista che si andava formando.
Essa riguardava la tutela delle zone di particolare valore ambientale e
artistico. Le città furono in parte colpite da questo provvedimento, poiché
esso si riferiva nel concreto ad aree di un certo valore ambientale e
architettonico. Era compito delle regioni stabilire dei Piani Paesistici o dei
Piani Urbanistico Territoriali con specifica considerazione di tali valori. Da
qui in poi si sviluppò un apparato di norme tese a recepire la direttiva CEE
sulla “Valutazione dell’Impatto Ambientale”.
Il contesto urbano fu messo al centro dell’attenzione dalla legge n. 122 del
1989 che istituì il Programma Urbano dei Parcheggi. Questa legge, che
prevedeva la possibilità di modifica dei PRG per mezzo di strumenti
straordinari, conferma il malcostume nel nostro paese di aggirare gli
strumenti urbanistici ordinari attraverso l’uso di leggi speciali aventi un
carattere d’urgenza.
Il quadro normativo degli strumenti urbanistici risulta così all’inizio degli
anni ’90 particolarmente disorganico. A tal fine viene approvato un nuovo
“Testo unico” con la Legge n. 142 del 1990 che prevedeva un riordinamento
delle competenze all’interno degli Enti locali: passano alla provincia molte
competenze in ambito di pianificazione, vengono istituite le città
metropolitane e si introduce la possibilità di costituire società a carattere
misto pubblicoprivato per la costruzione di opere pubbliche e strutture
urbanistiche.
La Legge n. 241 dello stesso anno si preoccupò di snellire ulteriormente i
procedimenti amministrativi, in particolare con l’uso del principio
dell’autocertificazione, delegando spesso ai professionisti privati la
valutazione sulla conformità delle opere e del loro insediamento nel tessuto
urbano.
Dalle questioni procedurali il centro d’interesse si spostò sempre più verso
le città: la legge n. 179 del 1992, ad esempi si pose il problema del recupero
della qualità degli spazi cittadini istituendo i cosiddetti Programmi di
Recupero ed i Programmi Integrati di Intervento. La realizzazione di questi
avveniva e avviene attraverso un processo di concertazione tra operatori
pubblici e privati, soprattutto nell’ambito dell’edilizia pubblica.
L’ultima parentesi storica va fatta sull’istituzione di alcuni programmi nel
corso di tutto gli anni ’90, che riguardano proprio il meccanismo decisionale
della concertazione:
Programmi di recupero urbano PREU (Art. 16 L. n. 493/93)
Programmi proposti dal comune in concertazione con soggetti pubblici e
privati i cui fini sono vanno dalla rivalutazione dell’arredo urbano,
completamento di insediamenti esistenti fino al recupero di edifici.
Programmi di Riqualificazione Urbana PRIU (D.M. del 21.12.94)
Si tratta di un bando nazionale destinato ai comuni che propongono i loro
progetti.
Contratti di quartiere (delibera CER5.6.97)
E uno strumento per la rivalutazione abitativa e insediativi al quale possono
prendere atti gli enti pubblici , i privati e le associazioni senza fini di lucro.
Programmi di Riqualificazione Urbana e Sviluppo Sostenibile PRUSST
(Decr. Min. LL.PP. 8.10.98)
I comuni, su proposta di soggetti pubblici o privati, presentano dei progetti
di rivalutazione del tessuto urbano al Ministero dei Lavori Pubblici il quale
si impegna con un finanziamento parziale dell’opera alla relativa attuazione.
2.4 L’urbanistica imposta dall’impresa
Tramite la lettura storica dell’urbanistica italiana è emerso come vi sia
sempre stata una lunga reticenza da parte dei comuni a dare attuazione
all’urbanizzazione pubblica, costretti in un certo senso a fare il gioco delle
forze imprenditoriali che agivano sul territorio. Il nodo problematico, come
abbiamo sottolineato più volte, si è rivelato l’acquisizione delle aree
necessarie destinate all’intervento pubblico, poiché non fu mai scardinato il
principio per il quale l’indennità espropriativa doveva compensare anche il
maggior valore dell’area derivante dalle scelte del piano urbanistico. A tal
proposito la corte costituzionale, in diverse sentenze, si dimostrò sempre
molto sensibile alle ragioni dei proprietari fondiari anziché alle prerogative
della pubblica utilità.
L’incapacità di reperire i finanziamenti per predisporre gli interventi
pubblici portò all’approvazione delle legge ponte del 1967. Questa
imponeva ai privati un piano insediativo generale al quale riferirsi e li
obbligò inoltre a partecipare agli oneri urbanizzativi derivanti da ogni loro
intervento edificatorio. L’idea di realizzare le opere d’urbanizzazione
attraverso le quote imposte a chi percepiva la rendita immobiliaria era nata
anche alla luce dell’evidente speculazione che fino a quel momento aveva
caratterizzato lo sviluppo urbano, compromettendo irreversibilmente il
futuro aspetto delle città. Su questa linea va inquadrata la successiva stipula
dei “piani attuativi” che prevedevano, infatti, la cessione gratuita delle aree
destinate allo spazio pubblico agli stessi assegnatari delle lottizzazioni, i
quali dovevano a loro volta occuparsi della realizzazione dei servizi
d’urbanizzazione. Passaggio ulteriore, su questa linea, fu l’istituzione delle
“concessioni edilizie” che, oltre a quanto detto prima, prevedevano anche
l’obbligo di pagamento degli operatori privati di quote designate
all’urbanizzazione generale della città. Però, nonostante il tentativo della
legge 10/77(legge Bucalossi) di vincolare tali proventi all’effettiva
realizzazione delle opere di urbanizzazione e all’acquisizione delle aree da
espropriare, i comuni, sia a causa di periodi caratterizzati da congiunture
economiche sfavorevoli sia perché lo stato ha sempre avuto una politica
fiscale molto accentratrice, hanno protratto sin oggi la prassi di destinare
questi ricavi al pagamento dello loro spese correnti, svuotando così di
significato tutte le conquiste legislative in tale ambito.
Chi è dunque che decide della città? Quali sono le prospettive per
l’urbanistica? Ovviamente le dinamiche sin qui descritte corrispondono alle
linee generali che hanno in diversa forma occupato gli scenari delle città
italiane. Il caso di Bologna meriterebbe di essere trattato a parte, poiché ha
visto al suo interno attori peculiari quali le cooperative edili, influenzate
nella loro azione da un certo clima politico che non si trovava nel resto
d’Italia.
Ad oggi rimane aperta la questione di una nuova riforma urbanistica. Il
punto, principale e irrisolto, resta dunque l’emancipazione delle
amministrazioni locali dal dominio della proprietà immobiliaria e della
rendita fondiaria. Altro aspetto centrale è però la necessità di costruire
un’azione ordinaria organica per la pianificazione del territorio che ancora
avviene attraverso interventi di tipo straordinario, vanificando così i
tentativi di progettazione unitari fin qui approvati. Si aggiungono inoltre le
tematiche relative all’impatto ambientale dell’edilizia e alla partecipazione
cittadina in fase di progettazione, questioni che non hanno ancora avuto un
risvolto legislativo rilevante.
2.5 I laboratori di urbanistica partecipata
Generalmente un laboratorio di urbanistica partecipata consiste
nell’istituzione di un tavolo di confronto fra cittadini, associazioni e
amministrazioni del quartiere per la revisione o progettazione di un piano,
che può essere istituzionalizzato attraverso un atto amministrativo che ne
ponga le condizioni e i limiti. Ci sono però anche casi di laboratori che
presentano una formalizzazione più blanda, attraverso un semplice atto del
quartiere o altri che sono del tutto privi di ufficializzazione. Vi sono infine
casi in cui non vi è una partecipazione diretta dell’amministrazione ai lavori,
lasciando ad altri soggetti il compito di progettare.
Il caso che prendiamo in considerazione è quello dei Laboratori riconosciuti
con un atto amministrativo, dove le parti in gioco sono appunto, oltre gli
addetti ai lavori, anche i cittadini interessati. Questo strumento com’è chiaro
ha lo scopo di fornire un’alternativa progettuale al classico ‘partenariato’ tra
amministrazioni e operatori privati, che ha formato e organizzato le nostre
città fino ad oggi. Nei paragrafi precedenti ho descritto anche la storia di
tale rapporto, vissuto in molti casi come un’imposizione dall’alto, almeno
per quegli abitanti che vivono in prima persona gli spazi interessati da una
determinata rigenerazione, o che comunque vorrebbero per lo meno avere
diritto a prendere parola in questioni di tal fatta. Così il laboratorio dovrebbe
essere un mezzo per sopperire a questa disfunzione. Ovviamente, la buona
riuscita dipende non solo dalla partecipazione volontaria dei cittadini ma
anche dalle condizioni di premessa che vengono stabilite.
Il problema di partenza è la proprietà del terreno. È chiaro che se la
proprietà è comunale i margini decisionali del laboratorio saranno molto più
alti e l’unico fattore discriminante rimarrebbe la capacità finanziaria del
comune, anche in base all’importanza che attribuisce all’opera, per costruire
in quel determinato spazio. Se si tratta quindi di una realizzazione che
comporta prezzi contenuti, l’amministrazione può anche permettersi di
caricarsi l’onere per intero, invece di ricorrere all’intervento dei privati, nel
qual caso le scelte possibili sono generalmente due: la prima è quella di
cedere parte dello spazio in questione e relativi diritti edificatori ai privati,
vincolandoli in cambio alla costruzione degli spazi pubblici nel resto
dell’area; la seconda invece è quella di fornire concessioni ai privati in zone
diverse da quella interessata. Quando invece i proprietari del terreno sono i
privati bisogna pensare ad un indennizzo, pratica che viene sempre più
sostituita con lo strumento della ‘perequazione’, ovvero che a fronte della
gratuita cessione da parte dei privati di loro terreni per la realizzazione di
opere pubbliche vengono concessi diritti edificatori in altre aree di proprietà
pubblica. I comuni ovviano così al problema dell’esproprio ma spesso e
volentieri hanno abusato di questo strumento, moltiplicando così le aree
urbanizzate dato che, all’aumentare dell’edilizia pubblica, era previsto un
aumento equivalente di quella privata.
Altra questione è l’uso di destino che un’amministrazione locale vuole fare
di una determinata area: sempre più spesso le politiche di ‘governance’ della
città mirano ad un rifacimento dell’assetto urbano vòlto ad una
riqualificazione di facciata attraverso l’innesto d’infrastrutture per le quali in
molte circostanze non viene preso in considerazione il punto di vista del
vicinato. La nuova città vuole essere ripensata in funzione dei turisti e dei
consumatori, per i quali vengono disposti mezzi di collegamento e poli
attrattivi, in entrambi i casi difficilmente valutati anche rispetto alle esigenze
della diversità di chi abita veramente quegli spazi.
Cambia però, anche il significato degli spazi pubblici: i parchi urbani ad
esempio si associano sempre più ad un immaginario di abbandono e
degrado: la ‘mixité’ sociale spesso ha portato ad aree di segregazione
anziché a spazi diversamente compositi.
Un altro aspetto interessante della città contemporanea, come si può notare
dagli studi di Jane Jacobs (Jacobs 1969), è la percezione che gli abitanti
hanno del verde pubblico. Esso viene considerato come valore aggiunto solo
quando rientra in una sfera privata, e sicuramente il formarsi delle nuove
‘gated communities’, piccole enclavi spesso situate nel polmone verde della
città, sono una manifestazione di questo fenomeno. Qual è dunque
l’interesse o lo stimolo dei cittadini a partecipare ad un laboratorio di
urbanistica? Se non in un’ottica privatistica? In questo senso gli spazi
pubblici vengono letti come luogo degli altri, insicuri ed estranei da sé, ai
quali sono preferibili luoghi di attività commerciali agglomerate, dove poter
così soddisfare la propria esigenza, attraverso la sovrapposizione delle
funzioni, di risparmio di tempo. I luoghi pubblici perdono la loro
dimensione sociale per diventare semplici punti di transito, anche a
discapito della propria memoria storica. Quindi progettare uno spazio di
quartiere finalizzato ad uso di tutto il vicinato comporta un grado di
empatia, e non di coesione2, fra tutte le diverse comunità presenti.
Ultimo scoglio interno alla pratica dei laboratori riguarda il problema
‘terminologico’, o meglio la necessaria mediazione tra i diversi registri:
linguaggio tecnico, amministrativo, politico e i numerosi gerghi dei cittadini
vengono interpretati e mediati da una figura, generalmente definita
“Facilitatore”, che permette ai gruppi compositi di partecipare attraverso la
comprensione dei differenti strumenti d’analisi.
Le città che in Italia hanno sperimentato maggiormente i laboratori
partecipati sono state Torino e Roma, facendone una pratica consolidata. In
Europa le esperienze da segnalare sono diverse, soprattutto in Germania
dove il ministero ha avuto proprio una linea di finanziamento(Intervista a
Giovanni Ginocchini 27.02.2008).
Il caso dell’‘exmercato’, che analizzeremo nello specifico nel prossimo
capitolo, rappresenta un’esperienza unica: infatti non è mai stato istituito
nessun laboratorio di urbanistica partecipata per un intervento così
importante e così imponente, soprattutto in termini di superficie
disponibile3.
2.6 Conclusione
2 Il concetto di coesione può generare fraintendimenti: i futuri spazi non devono mirare all’integrazione, che resta comunque una questione personale, ma alla disposizione di luoghi in cui tutti possano esternare la propria diversità e con gli stessi diritti. 3 30 ettari, c.a.
Come si può intuire da quanto detto, l’urbanistica italiana ha dovuto fare i
conti fino ad oggi con un’espansione della città scarsamente monitorata. La
visione d’insieme delineata in questo capitolo era tesa ad evidenziare in
particolar modo il carattere ideale di certe normative che non furono mai
attuate per via dell’influenza esercitata dalle varie pressioni economiche.
Quali siano a questo punto le prospettive realistiche in materia non è chiaro,
è bene precisare però, che per divincolarsi dalla prassi della pianificazione
territoriale contrattata a tutto vantaggio dell’iniziativa privata e avvicinarsi
alle sfide della tutela ambientale e della riqualificazione degli spazi, c’è
bisogno di una risoluta riforma urbanistica che sblocchi definitivamente i
nodi critici storici analizzati in questo capitolo. I laboratori aprono una
nuova prospettiva tesa a recuperare la sfiducia dei cittadini nei confronti
delle amministrazioni, ma possono nascondere al loro interno un tentativo di
governance con fini di consensualità diffusa; e dall’altra lo spazio pubblico
non sempre viene percepito come un valore aggiunto e sono spesso gli stessi
cittadini a non nutrire alcun interesse nella partecipazione attiva alla sua
progettazione. Nel prossimo capitolo analizzeremo un caso particolare di
laboratorio che, contrariamente a quanto ci si aspetterebbe, è stato
caratterizzato da una forte partecipazione degli abitanti della zona.
Capitolo 3
La Bolognina: Il caso del laboratorio di urbanistica
partecipata dell’ “Exmercato”
3.1 Introduzione
Nel capitolo precedente abbiamo approfondito il rapporto che si instaura fra
le amministrazioni e gli operatori privati ai fini della progettazione della
città. Adesso faremo una ricognizione specifica sul caso del laboratorio
d’urbanistica partecipata della Bolognina. Questo rappresenta, per il
particolare contesto in cui è avvenuto, un esempio che almeno ai fini della
partecipazione può considerarsi riuscitissimo. La sua unicità risiede inoltre
nelle caratteristiche dello spazio in questione: la grande ampiezza e la
localizzione in una parte della città centrale per il futuro asseto urbano. Nel
capitolo che segue analizzeremo le varie spinte sociali che hanno portatato a
questo percorso, e come queste abbiano interagito con questo nuovo
strumento di progettazione.
3.2 La Bolognina
Così come tante altre città italiane di fine Ottocento, Bologna, a fronte della
nascente attività industriale, iniziò il suo sviluppo urbano verso l’esterno
della città, al tempo rigidamente delimitata dalla cinta muraria. Fu a nord
del nucleo storico che, con la realizzazione della stazione ferroviaria e con
la creazione di una prima filiera di attività industriali e artigianali, nacque la
prima periferia storica di Bologna, appunto col nome ‘Bolognina’. Di fatto il
quartiere assunse nel tempo una forte connotazione operaia e doveva
rispondere alle prime richieste di residenza generate dalla forte
immigrazione dalle campagne circostanti. Questo allargamento, rivolto
verso la pianura a settentrione, fu inizialmente pianificato dal piano
regolatore del 1889, che, rimarcando quella che era una delle linee
architettoniche al momento più in voga in Europa, prevedeva un
insediamento a scacchiera con maglia regolare di isolati 100x104 metri ed
un’altezza media di quattro piani per gli edifici. Inoltre, erano previste delle
corti nella parte interna degli isolati che costituissero uno spazio pubblico a
servizio dei caseggiati. I criteri dettati dal Piano furono però eseguiti
soltanto in una porzione limitata rispetto a quella stabilita in principio,
ovvero la zona compresa tra via Matteotti, via Carracci, via Bolognese e via
Fioravanti. Ad ogni modo, a partire da questo primo nucleo iniziò a
delinearsi un quartiere fortemente caratterizzato dalla costruzione di edilizia
popolare, cosa che comportò un forte sentimento d’appartenenza, sia di
classe che di vicinato, dove il ritmo della vita era scandito dal lavoro
industriale e da un’intensa socialità diffusa. Quest’ultima si manifestava
principalmente attraverso la partecipazione attiva a diverse strutture
comunitarie, quali ad esempio i circoli ricreativi e culturali, le associazioni
sportive amatoriali e le piccole sezioni del partito comunista. Negli anni
Cinquanta, con l’avvento del boom economico, il quartiere fu preso di mira
dalla nuova immigrazione del meridione, che comportò un’ulteriore innesto
di edilizia, sia pubblica che privata, pur non compromettendo l’aspetto
sociale di fondo. Fu negli anni Ottanta invece, con la dismissione delle
fabbriche della zona e l’incalzare del settore terziario nel centro storico che
il quartiere iniziò a cambiare faccia, sino a divenire quello che oggi
vediamo. Il forte “collante” sociale di un tempo si è man mano dissolto,
aprendosi, anche se non sempre volontariamente, all’arrivo di nuove
‘componenti’. Agli storici abitanti della zona si sono aggiunti altri mondi,
spesso tra loro non comunicanti: la comunità Cinese, gli altri migranti, gli
studenti fuori sede e gli italiani che usano il quartiere solamente come
“dormitorio” (PianoB2007). È anche grazie a questi gruppi che il quartiere
ha mantenuto al suo interno una discreta presenza di attività commerciali, in
particolare al dettaglio, distinguendosi così dall’anonimato tipico di altre
zone periferiche della città, progettate sull’onda dell’architettura
funzionalista degli anni Sessanta. Ciononostante lo sfaldamento della
socialità diffusa è anche legato a un cambiamento del significato spaziale
che le persone attribuiscono al quartiere: i punti aggregazionali di una volta
sono ora diventati fatiscenti e le corti interne agli isolati convertite in
parcheggi per i suoi inquilini: i luoghi di interrelazione vengono quindi
ricondotti sempre più alla sfera privata, dando alla spazio urbano una
funzione di transito o di commercio.
La Bolognina si configura oggi come un quartiere popolare che sta subendo
un forte invecchiamento della popolazione, soprattutto a causa della
tendenza di molti, che una volta raggiunta l’autonomia dal nucleo familiare
di partenza, tendono in gran numero a trasferirsi nei paesini limitrofi. Inoltre
la sua caratteristica aggiuntiva, come già detto, dell’importante presenza di
stranieri non ne fa un quartiere principalmente multietnico o comunque non
lo identifica e struttura secondo esigenze riconducibili ad un’etnia piuttosto
che un’altra, né tantomeno ha sviluppato politiche d’integrazione qualora ve
ne fosse stata l’esigenza. Di certo le profonde trasformazioni sociali che
sono avvenute al suo interno hanno portato ad un allontanamento dal mondo
operaio, senza però sradicarne il suo tratto popolare ancora visibile.
3.3 La zona dell’Exmercato e la sua dismissione
L’idea di stabilire il mercato ortofrutticolo in quella porzione di territorio
limitata da una parte dalla Bolognina storica, quella costruita secondo i
dettami del piano regolatore del 1889, e dall’altra, ad ovest, dalla linea
ferroviaria BolognaVenezia, fu presa all’inizio degli anni Trenta ma, la sua
costruzione fu conclusa solo alla fine degli anni Cinquanta, e da allora in poi
questo luogo diventò a pieno parte dell’identità del quartiere.
La storia della zona dell’ex mercato s’inquadra sempre nella logica
dell’importanza strategica che ricopriva il quartiere per la vicinanza con lo
snodo ferroviario, che sembrava rendere più agevole lo stoccaggio delle
varie derrate che dovevano essere lì smistate. In realtà, col passare del
tempo e lo sviluppo urbanistico sempre maggiore verso l’esterno della
periferia, fu proprio la sua posizione a rivelarsi svantaggiosa per gli abitanti
della zona: l’aumentare del flusso delle merci nel corso degli anni produsse
un carico di ‘traffico pesante’ tale, che la rete viaria esistente non era in
grado di incanalare. Lo spazio in questione infatti era ampissimo e la
presenza del fascio dei binari, sia ad ovest che a sud, creava una particolare
condizione di “taglio” dal resto della città, che non lasciava altra alternativa
se non quella di scaricare tutto il traffico sulla maglia ottocentesca della
Bolognina, le cui strade non erano state progettate in vista di un tale uso.
Senza contare che questa zona doveva servire anche da congiunzione per
tutti i mezzi, privati e non, provenienti da nord, con il resto della città, in
particolare il centro storico, e necessitava pertanto di uno stravolgimento del
sistema viario, attraverso la costruzione di un asse nordsud che partisse
dalla tangenziale e confluisse nei viali della circonvallazione nei pressi della
stazione. Nella parte sud del mercato e di tutta la Bolognina c’era anche da
tenere in considerazione il futuro passaggio della TAV e dunque la relativa
‘cantierizzazione’ per l’ampliamento della zona ferroviaria.
Dunque, sintetizzando, il nuovo ruolo che ricopriva il quartiere nell’assetto
generale della città, l’inutilità della presenza del mercato in quella zona, la
struttura viaria da riformare alla luce della nuova funzionalità di
congiunzione, il futuro cantiere della TAV e la rivendicazione degli abitanti
di un risarcimento per un vuoto di servizi (dato il peso causato dalla
presenza del mercato in tutti quegli anni) rappresentarono l’insieme di
concause che hanno portato alla previsione nel Piano Regolatore Generale
del 198589 della ‘delocalizzazione’ del mercato al di fuori di quest’area: si
aprì così un grande bacino di progettazione nevralgica per il futuro aspetto
della città, in particolar modo perché il 43% dell’area era già di proprietà
comunale, rendendo possibile una capacità edificatoria pubblica di grande
respiro.
Il PRG in questione si limitava a dare le linee generali, destinando l’area ad
un’importante riqualificazione e ricucitura del tessuto urbano periferico:
“…l’obiettivo principale è quello di dare una conclusione all’assetto delle grandi maglie ottocentesche, che dominano l’organizzazione urbanistica del quartiere Bolognina, prevedendo un intervento interstiziale che, a contatto del tessuto urbano ed edilizio della Bolognina verso ovest, riprenda completandola per un intera fascia di quattro moduli la maglia originale. Il collegamento nordsud dell’asse sudovest , l’asse dell’ ’89, con i viali di circonvallazione, scavalcando il fascio delle aree ferroviarie…”4
4 Piano Regolatore 198589 del comune di Bologna
L’effettiva dismissione del mercato avvenne solo a metà degli anni Novanta,
e da qui si susseguirono una sequela di piani e progetti rivolti alla
rigenerazione di un’area che per la sua ampiezza e posizione strategica si
trovava a dover soddisfare da un lato le esigenze infrastrutturali viarie in
larga scala e dall’altro la richiesta di soluzioni urbane di quartiere rivolte
agli abitanti della zona.
Come indicato dal piano regolatore del 1985, i primi progetti erano pensati
secondo lo schema ottocentesco della Bolognina storica, con l’intenzione di
riproporre una struttura a maglia ortogonale con modello edilizio a corte
(Ginocchini e Tartari 2007), ma nonostante l’approvazione nel 1999 del
“Disegno Urbano Concertato” dell’architetto catalano Ricardo Bofil, che si
conformava a tali direttive, la sua attuazione fisica non ebbe mai luogo.
Successivamente, con la nuova giunta di centro destra, si decise di ripensare
i progetti passati e di avviare un nuovo percorso progettuale: si pensò di
destinare in quell’area la nuova sede unificata degli uffici comunali e, alla
luce di una riprogettazione maggiormente ambiziosa del nodo ferroviario e
della stazione centrale in un ottica internazionale, circoscrivere nuovi assetti
di mobilità (Ginocchini2007). Fu stilato un piano di modello insediativio a
pettine, cioè aumentando la superficie utile di edificazione. L’idea era quella
di costruire un comparto autonomo rispetto al tessuto ottocentesco della
Bolognina, con spazi pubblici interni alle fascie residenziali e che dunque
privilegiassero gli abitanti di quegli edifici mentre a nord, lungo via
Gobbetti, era prevista l’edificazione di uno studentato con funzione di
edificiobarriera. In pratica vennero meno le istanze dei cittadini storici di
quella zona attraverso l’imposizione dall’alto di un progetto che strappava al
quartiere uno spazio che avrebbe potuto rappresentare una potenziale
risposta alle esigenze sociali e urbanistiche attese.
Fonte: Studio Corrado Scagliarini architetto (Bologna)
Questo progetto generò dunque un forte malcontento tra una parte della
popolazione del quartiere che, pertanto, cominciò ad attivarsi attraverso una
raccolta di firme (raggiungendo le 4000) e la formazione del comitato
“Fuori le mura”. Quest’ultimo si occupò di attivare una rete di protesta che
mirava ad una riprogettazione partecipata della zona, distribuendo, in tal
senso, un questionario agli abitanti del quartiere, cui seguirono una serie di
osservazioni depositate presso il comune. Con il cambio di governo, che
tornò in mano al centrosinistra, e il radicalizzarsi del conflitto, nel gennaio
del 2005 una delibera di Giunta istituì formalmente il laboratorio di
urbanistica partecipata dell’exmercato. L’amministrazione, dall’altra parte,
oltre al trasferimento di tutti gli uffici comunali, collocava tale area al centro
della porzione di territorio che nel futuro sarebbe stata oggetto dei
cambiamenti più profondi della città, proprio perché l’intenzione era quella
di creare qui la nuova immagine internazionale di Bologna, attraverso la
realizzazione dello snodo principale della futura mobilità pubblica, nello
specifico con la costruzione della nuova stazione ferroviaria e delle
interconnessioni tra il “people mover” e la metrotranvia.
Così se da una parte si disponeva uno strumento di partecipazione dal basso,
dall’altra veniva imposta dall’alto una riqualificazione dell’area attorno alla
zona dell’ex mercato che poneva di nuovo lo spettro di un futuro carico
urbanistico, rendendo sensibile la zona a possibili manovre di
gentrificazione da parte delle imprese immobiliari. I privati, infatti, dato
l’alto indice di edificabilità stabilito dal piano regolatore del 198589, in tale
area, nutrivano grandi interessi di profitto.
3.4 Il laboratorio di urbanistica partecipata dell’Exmercato
Come già detto in precedenza il caso dell’exmercato rappresenta
un’esperienza unica nella storia dei laboratori d’urbanistica partecipata per
via della collocazione e della vastità dell’area oggetto di riqualificazione. Il
laboratorio, istituito su delibera dell’amministrazione comunale nel gennaio
del 2005, nasce sostanzialmente da una forte richiesta dal basso, da parte del
quartiere stesso, inizialmente rappresentato da 3 realtà associative della
zona: L’XM24, il centro Katia Bertasi e il comitato Fuori le mura. Questo
laboratorio deve essere letto alla luce di un percorso partecipativo che
durava già da diversi anni: i vari progetti sull’area, succedutisi durante le
diverse Amministrazioni, sono stati sempre oggetto di attenzione da parte
del quartiere. Questo lo si deve in parte al particolare tessuto sociale che
abbiamo precedentemente descritto (paragrafo storico) ma, bisogna anche
ricondurlo al riferimento identitario che il mercato in un certo senso
rappresenta per gli abitanti storici del quartiere. Di fatto l’identità di un
luogo è spesso legata alle istituzioni, in senso lato, che in quel luogo
esistono e nel bene e nel male il mercato ortofrutticolo era un elemento
costitutivo del quartiere: da una parte in quanto ‘posto di lavoro’ di un buon
numero di abitanti della zona e dall’altra portava con sé un carico di traffico
che ha spesso messo in ginocchio la mobilità del quartiere. Non è un caso
dunque se la gran parte dei partecipanti del laboratorio avesse un’età medio
alta ed abitava nella Bolognina se non da sempre almeno da un elevato
numero di anni; la presenza di giovani o dei nuovi abitanti del quartiere è
stata infatti limitata, se non del tutto assente. Mancata partecipazione che si
potrebbe spiegare in relazione ad un mancato riconoscimento del valore
dello spazio appunto, da parte di queste due tipologie di abitanti. Infatti,
rispetto ai cittadini storici per i quali il quartiere è stato il luogo della
residenza, del lavoro e della socialità, i nuovi abitanti passano nel quartiere
solo una frazione minima della loro esistenza, quella legata alla residenza.
Estendendo il discorso si potrebbe dire che nella città di oggi infatti il luogo
della residenza non coincide molto con il luogo della vita, ma c’è una netta
distinzione tra i due. Per chi vive la città in questo senso la partecipazione al
laboratorio non rappresentava un interesse e avrebbe potuto esserlo solo
nella misura in cui lo spazio oggetto di ridisegnazione era lo stesso della
residenza, cosa che l’exmercato sicuramente non rappresentava dato che lì
non vi erano residenze.
Dunque questo laboratorio nasce dal basso e prendono parte ai lavori un
centinaio di cittadini, di cui la gran parte erano abitanti storici che
riconoscevano in quello spazio un’importanza per la zona. Bisogna notare
anche che la gran parte di loro non erano legate alle tre associazioni
proponenti, segnando così uno scarto tra quelli che in qualche modo hanno
spinto inizialmente perchè il laboratorio si facesse e quelli che poi ne hanno
effettivamente preso parte.
Le due critiche principali mosse dalla cittadinanza all’ultimo progetto erano
la divisione da parte dei tecnici del nuovo comparto dal vecchio quartiere,
creando in un certo senso una sorta di enclave, e la redisposizione del verde
pubblico a beneficio di tutti gli abitanti del quartiere. Il comune dall’altra
parte ha posto dei paletti che non potevano essere discussi: in primis, la
realizzazione in quello spazio della sede unificata del comune e poi
l’esigenza di una percentuale di superficie da dedicare ad edilizia privata.
Quest’ultimo aspetto in particolare era abbastanza contorto perchè in un
certo senso la rendita immobiliare per gli operatori privati restava comunque
immutata dal momento che il municipio garantiva comunque un’uguale
cubatura da realizzare in quello spazio. Questo implica che la superficie
utile sulla quale edificare sarebbe diminuita, ma in compenso si sarebbe
ristabilita la rendita parallelamente alla possibilità di costruire in altezza, o
meglio aumentando la densità abitativa relativa. Da qui ci potremmo
ricondurre a quanto detto nel secondo capitolo, ovvero a quanto l’operatore
pubblico legato a diverse esigenze non può facilmente contrastare il volere
del privato.
Il laboratorio a partire da queste due critiche iniziali come dalle due
invarianti doveva dunque ridisegnare il progetto attraverso l’incontro tra
cittadini e progettisti.
Il percorso dei lavori è stato stabilito durante le assemblee iniziali e
condotto dai facilitatori, professionisti interpartes che, come abbiamo
accennato, dovevano occuparsi di mediare i diversi registri linguistici e
rendere l’iter progettuale comprensibile a tutti. Vennero stabilite due macro
scansioni temporali dei lavori. La prima fase prevedeva tre momenti al suo
interno: il primo era l’approfondimento e la discussione del piano, il
secondo la ridefinizione, attraverso le proposte emerse dalle assemblee, e il
terzo infine la verifica del piano con la presentazione di un’ipotesi
definitiva. La seconda fase, invece, doveva riguardare nel dettaglio le linee
guida tracciate precedentemente, ovvero stabilire puntualmente in che
maniera attuare il nuovo piano.
Nella prima fase gli argomenti di discussione decisi dai partecipanti e i
progettisti erano quattro5:
Mercato e città. Le connessioni, il perimetro e il nodo stazione.
Mercato e quartiere. Un nuovo centro per la Bolognina.
Abitare al mercato 1°. Sostenibilità ambientale e paesaggio.
Abitare al mercato 2°. Sostenibilità sociale e attività commerciali.
La formula di questi primi incontri di discussione prevedeva una prima parte
di presentazione del tema ad opera dei progettisti e una seconda di
discussione in gruppi. Furono predisposti anche tutta una serie di strumenti
di comunicazione sussidiari rivolti sia ai partecipanti che ai cittadini. Anche
questi strumenti, come la newsletter e il sito web, prevedevano una
redazione aperta e partecipata. Questa fase di ascolto reciproco si concluse
nel giugno 2005 con la redazione di due documenti di sintesi, uno stilato dai
5 Così come riportato dai documenti del laboratorio consultabile sulla pagina internet http://www.comune.bologna.it/laboratoriomercato/
facilitatori e un altro dal coordinamento delle associazioni dei cittadini, nei
quali si evidenziavano gli obiettivi generali di revisione6:
1. la congiunzione fra il comparto e la zona nella quale si colloca;
2. la mobilità interna, ma soprattutto esterna con particolare attenzione ai
pericoli di crescita
insostenibile del traffico veicolare privato;
3. la distribuzione del verde pubblico;
4. le collocazioni di funzioni nell’area (scuola, sede AUSL, ecc…);
5. la qualità costruttiva e delle infrastrutture d’area;
6. i luoghi di sviluppo della socialità e delle forme di aggregazione.
Da questi obiettivi emerse l’esigenza di un nuovo piano piuttosto che una
semplice revisione del vecchio progetto. L’amministrazione si trovò
costretta a riavviare per intero l’iter progettuale validando in un certo senso
l’operato del laboratorio.
A questo punto, dal semplice ascolto si passò dunque ad un vero e proprio
momento di coprogettazione. I progettisti si proposero in questa sede di
elaborare un nuovo disegno che tenesse in seria considerazione le esigenze
espresse dal laboratorio. A questo si sarebbero accompagnati una serie
d’incontri bilaterali tra i progettisti stessi, le associazioni, il quartiere e i
diversi settori delle amministrazioni, cui sarebbero seguite delle simulazioni
in pubblico delle varie opzioni che si andavano via via sviluppando. Da qui,
bisognava poi stilare un nuovo piano che doveva essere discusso dai
partecipanti, anche in piccoli gruppi se non addirittura individualmente.
Durante questi incontri, molto vissuti e a volte anche conflittuali si è infine
arrivati ad una sostanziale condivisione delle richieste dei vari attori, in
particolare sulle questioni riguardanti il riposizionamento delle aree verdi, in
maniera che fossero accessibili a tutto il quartiere, sull’ampliamento degli
spazi dedicati ad usi e servizi pubblici e sull’inserimento di scelte tecniche
che dovevano conferire al nuovo insediamento caratteri sperimentali dal
6 Vengono qui riportate le sei linee guida del coordinamento delle associazioni dei cittadini così come sono scritte nel documento da loro redatto.
punto di vista della sostenibilità ambientale di alto livello. Fu così che nel
marzo del 2006 fu adottato il nuovo piano condiviso che venne nel luglio
dello stesso anno approvato dal consiglio comunale.
Finisce così la prima fase del laboratorio. Rispetto al vecchio progetto il
nuovo assetto portava il seguente cambio di bilancio (Ginocchini e Tartari
2007) :
residenza: + 18%
altri usi (uffici, commercio, altro): 41%
ricettivo: 80%
totale comparto: 6%
usi e servizi pubblici: + 43 %
Fonte: Studio Corrado Scagliarini architetto (Bologna)
Nello specifico è stato progettato un grosso parco verde a ridosso di via
Fioravanti intorno al quale sarà definita l’area urbana secondo i tracciati a
maglia della Bolognina storica. Questo spazio verde, insieme alla pensilina
già esistente che rappresenterà una piazza coperta e multifunzionale, farà da
cerniera fra il nuovo comparto e il vecchio quartiere. La rete viaria interna al
nuovo comparto alternerà così diversi tipi di gerarchie per scomporre il
traffico al fine di limitare al suo interno la presenza delle automobili e dare
maggior risalto ai tracciati ciclo pedonali. Il traffico di via Gobetti sarà in
parte interrato lasciando fuori solo il traffico lento di servizio al quartiere. Il
nuovo asse nordsud di cui abbiamo discusso precedentemente sarà previsto
all’esterno del comparto lungo la linea dove una volta vi era il fascio
ferroviario che collegava Venezia che verrà lì messo in trincea per alleviare
l’impatto visivo e acustico. Questa nuova struttura viaria indispensabile,
oltre a fungere da connessione tra il centro e la seconda periferia, scaricherà
dalle funzioni di transito pesante l’intero comparto e anche la stessa via
Fioravanti.
Fonte: Studio Corrado Scagliarini architetto (Bologna)
Lo spazio pubblico è stato tutto ripensato in funzione dello svolgimento
della vita civica attraverso l’inserimento e la dislocazione di diversi servizi
destinati al quartiere (scuola, poliambulatorio, palestra, centro sociale e
culturale, uffici di quartiere, zone commerciali). Il piano inoltre prevede la
totale assenza di recinzioni.
Il nuovo piano concentra la capacità edificatoria nella parte centrale
aumentando la densità abitativa relativa e destinando il suolo intorno a spazi
aperti e verdi. Il mix sociale delle future residenze che qui si ricaveranno
sarà garantito attraverso le diverse percentuali di edilizia libere ed edilizia
non convenzionale previste, in particolare quest’ultima è incrementata
sensibilmente rispetto al vecchio progetto. Anche questi edifici dovranno
rispecchiare il tessuto urbano della Bolognina storica. Tutto ciò, insieme
anche alle attività commerciali che qui si stabiliranno, è stato pensato oltre
che ai fini del continuum urbano richiesto dai partecipanti del laboratorio
con il quartiere preesistente anche nell’intenzione di garantire un certo
grado di ‘mixité’ urbana nel comparto per far sì che coesistessero al suo
interno opportunità per diversi stili di vita. In questo senso verrà aperto
anche un collegamento diretto dall’altra parte del comparto con il parco di
villa Angeletti, un polmone verde della città che fino ad oggi è rimasto
estraneo al quartiere.
Ultima punto del piano riguarda il tema energetico; infatti in rapporto alle
risorse pubbliche disponibili sono stati inseriti nei programmi di attuazione
determinati requisiti energetici che si configurano come progetto pilota per
tutta la città7.
L’esperienza del laboratorio si conclude poi con la seconda fase, ancora in
corso, dove sono state e saranno discusse al dettaglio, sempre seguendo il
metodo partecipato, tutte quante queste linee del piano. Il laboratorio viene
finanziato da qui in poi dal progetto europeo Grow, che ha come scopo
quello di promuovere questo tipo di esperienze su scala nazionale.
7 In generale, il piano adotta i seguenti requisiti tecnici e impiantistici: Centrale di cogenerazione, alimentata a gas metano, a servizio dell’intero insediamento e distribuzione delle reti impiantistiche in cunicoli tecnologici. La centrale sarà dimensionata sul comparto al netto del risparmio energetico ottenibile dalle prescrizioni energetiche di piano; Certificazione energetica degli edifici sulla base dei criteri Casaclima, già adottati dalla Provincia Autonoma di Bolzano. In particolare, tutti gli edifici privati dovranno essere classe C (70kWh/mqanno), tutti gli edifici pubblici classe B (50kWh/mqanno) ad eccezione della scuola che dovrà essere classe A (30kWh/mqanno); Utilizzo degli apporti solari passivi, tramite un corretto orientamento degli edifici e la definizione di “lati caldi” lungo i quali disporre le zone giorno; Coperture piani e verdi su tutti gli edifici per diminuire il reirraggiamento di calore in atmosfera; Produzione di acqua calda sanitaria tramite pannelli solari su tutti gli edifici; Predisposizione di tutti gli edifici all’impianto fotovoltaico, per incentivare il privato a dotarsi di un impianto che gli consenta di vendere energia, oltre che di consumarla; Predisposizione di una rete duale di raccolta delle acque per favorirne il recupero e il riciclo, grazie a 2 cisterne interrate di accumulo per uso irriguo e ad un bacino di laminazione, che scolma nel Canale Navile; Previsione di una superficie permeabile di terreno (sia pubblico che privato) pari a circa il 35% della superficie territoriale e di una superficie semipermeabile (30% di permeabilità) pari al 25%; Raccolta dei rifiuti solidi urbani tramite 6 isole ecologiche interrate, in sostituzione di 128 contenitori tradizionali fuori terra.
È chiaro dunque come quello dell’Exmercato rappresenti un caso
esemplare di urbanistica partecipata che ha spiazzato per certi versi anche
l’Amministrazione comunale di Bologna che a vanto di ciò ne ha fatto di
questo strumento una prassi per gran parte dei suoi nuovi progetti.
In questa sede ho già discusso di come la partecipazione accordata sia da
ritenersi in gran parte dovuta ad un tessuto sociale particolare presente nel
quartiere, principalmente tra i suoi abitanti storici. Questo stesso stimolo
alla partecipazione sarà sicuramente più difficile da trovare in altre aree
della città, o in altri contesti dove l’interesse dei residenti è minimo se non
nullo.
3.5 Conclusione
Possiamo concludere dicendo che effettivamente intorno all’area dell’ ex
mercato ortofrutticolo si sia creata molta attenzione, dovuta principalmente
al contesto sociale della Bolognina, ma anche al riferimento identitario che
tale luogo caratterizzava per molti abitanti del quartiere. Questa esperienza
mostra anche la quasi totale impossibilità di mettere freno alla rendita
immobiliaria che rimane comunque quasi sempre assicurata: le
Amministrazioni sono fortemente legate al volere di tali attori, soprattutto
per un questione di natura economica.
Sicuramente il laboratorio, là dove vi sia un interesse, rappresenta un grande
valore aggiunto, che va di volta in volta contestualizzato al tessuto sociale
sociale del luogo nel quale verrà attuata la rigenerazione.
Nella città dei flussi, dove i luoghi assumono una funzione semplicemente
connettiva, la partecipazione della popolazione è generalmente legata a
situazioni emergenziali. Trovare lo stimolo alla partecipazione vuol dire
anche riempire di significato il futuro utilizzo di quegli spazi.
CONCLUSIONI
Lo studio sin qui condotto si è posto come primo obiettivo quello di definire
la città da un punto di vista prettamente sociologico, delineando in
particolare i cambiamenti occorsi nel passaggio dalla città industriale a
quella contemporanea. La città difatti può essere letta attraverso diversi
criteri e noi ne abbiamo evidenziato quelli delle principali scuole e dei filoni
della sociologia urbana, in particolare soffermandoci sul concetto di spazio
in quanto dimensione fondamentale del processo complessivo di
trasformazione strutturale che sta avvenendo nella società (Castells 2002). Il
presupposto di partenza, come più volte ripetuto, si fonda sulla
considerazione che ogni progettazione di uno spazio comporta nel futuro dei
potenziali iter sociali. Dunque l’urbanista e l’architetto non possono
esimersi dal prendere in debita considerazione le implicazioni sociali di ogni
loro futura realizzazione.
Assumendo, secondo Castells (Castells 1974), che il processo di formazione
della città è alla base delle reti urbane e condiziona l’organizzazione sociale
dello spazio, nel secondo capitolo abbiamo tentato di dimostrare come a
causa di certe circostanze storiche questa considerazione per noi
fondamentale sia stata spesso esclusa dalle valutazioni progettuali e così
anche il punto di vista degli abitanti venuto meno, a favore dell’operato dei
privati e dunque della rendita immobiliaria. Il Piano Regolatore Generale,
che infatti doveva essere lo strumento attraverso il quale bisognava rendere
vivibili i nuovi insediamenti urbani della crescita italiana, è stato spesso
usato per altri fini. La ragione principale di questa mancata pianificazione è
la carenza di risorse finanziarie delle amministrazioni locali che le ha molte
volte costrette a subordinare i fini iniziali al volere dei privati. Nell’ultimo
paragrafo del secondo capitolo però, abbiamo mostrato come all’interno
dell’urbanistica pubblica si siano aperti spazi per la partecipazione dal basso
attraverso dei laboratori partecipati, anch’essi però, in parte alla luce del
primo capitolo, penalizzati dagli stessi attori che vorrebbero esserne
coinvolti. L’esigenza di una costruzione più vicina al volere degli abitanti
dei quartieri oggetto di rigenerazione trova la sua ragione d’essere nel
momento in cui ci si sente realmente parte dello spazio pubblico, che se
vissuto come luogo di transito, come sembra accadere nella città
contemporanea, non suscita alcun interesse d’intervento partecipativo.
Dunque uno strumento come quello del laboratorio non trova facile
legittimazione da un punto di vista sociale se non in determinati particolari
contesti. Difatti, crediamo che rispetto alla vecchia città industriale dove il
quartiere caratterizzava in maniera totalizzante la vita dei suoi abitanti
essendo il luogo della residenza, del lavoro e della socialità, la città
contemporanea rideclina il significato di tali spazi. Nella nuova città vi è
una dislocazione degli interessi che prescinde dal luogo di residenza e
rifluisce in contesti privati. Il carattere identitario del vicinato è andato via
via sgretolandosi lasciando spazio alla “città dei flussi”: spazio pubblico
inteso punto di transito e connessione e il cui valore aggiunto, invece che
opportunità di socialità diffusa (come poteva essere nel ‘vecchio quartiere’,
ad esempio), si esprime nel rapporto quantità tempo risparmiato – qualità
attività offerte.
Tuttavia per non rimanere ad un grado di astrazione troppo alto si è deciso
di analizzare il caso specifico del laboratorio di urbanistica partecipata della
Bolognina. Qui abbiamo potuto, con gli strumenti sociologici e tecnici
sviluppati nei primi due capitoli, attuare un’interessante ricerca sul campo.
Attraverso la lettura di tutti i documenti redatti durante quest’esperienza ci
siamo ritrovati di fronte ad un caso particolarissimo per la possibilità di
riprogettare una vastissima zona che si trova al centro della trasformazione
urbana di Bologna e fulcro di quella che sarà la sua rivoluzione della
mobilità pubblica e dove appunto gli amministratori si stanno giocando
l’internazionalità della città. Qui, grazie ad uno straordinario tessuto sociale,
si è attivato un percorso dal basso di contrapposizione al continuo
susseguirsi di progetti che non tenevano in considerazione le differenti
richieste che invece gli abitanti coltivavano. Qui in un certo senso si è
scardinato il consueto paradigma del partenariato tra pubblico e privato che
ha sempre caratterizzato la formazione degli spazi della città.
I laboratori potrebbero dunque aprire una nuova prospettiva all’urbanistica
ma devono fare prima di tutto i conti col significato sociale attribuito di
volta in volta agli spazi: una pratica di questo tipo deve essere infatti calata
nel contesto e in base ad esso modellata, non passibile di regolamentazioni
aprioristiche.
In un futuro in cui la maggior parte della popolazione mondiale vivrà
sempre più nella città bisognerà seguire con attenzione i processi di
formazione di questi spazi in relazione alla loro continua evoluzione
semantica. Il problema della rappresentatività si evidenzia da una parte nel
disinteresse delle amministrazioni nei confronti delle esigenze pubbliche
degli abitanti e dall’altra dal disinteresse di questi ultimi nella designazione
degli spazi pubblici. A questo proposito è interessante notare come,
parallelamente alla diminuzione dell’incidenza ‘cittadina’ in ambito
pubblico, l’architettura degli interni si sia profondamente sviluppata
riempiendo i nostri appartamenti di comfort e tante piccole teconologie,
quante possano rispondere alle più svariate esigenze quotidiane.
BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE:
Bauman Z.
2005, Fiducia e paura nella città, Milano, Bruno Mondadori
Brenna S.
2003, La città. Architettura e politica : fondamenti teoricopratici di
urbanistica ad uso di progettisti e pubblici amministratori, Milano, Hoepli
Castells M.
1974, La questione urbana, Venezia, Marsilio Editori
Castells M. 2004, La città delle reti, Venezia, Marsilio Editori
Cavalletti A.
2005, La città biopolitica, Milano, Bruno Mondadori
Della Pergola G.
1998, L’architettura come fatto sociale, Milano, Skira editore
Ginocchini G. e Tartari C.
2007, Il Mercato: una storia di rigenerazione urbana a Bologna, Ferrara,
Edisai
Jacobs J.
1969, Vita e morte delle grandi città. Saggio sulle metropoli americane,
Torino. Einaudi.
Martinelli F.
2004, Città e scienze umane, Napoli, Liguori
Mela A.
2006, Sociologia delle città, Roma, Carrocci
Monti C.
2000, Elementi di urbanistica. Problemi e strutture, Bologna, CLUEB
Piano B
2007, La Fabbrica e il dragone, Bologna
Sachs W.
1998, Dizionario dello sviluppo, Torino, Edizioni Gruppo Abele
Vicari Haddock S.
2004, La città contemporanea, Bologna, Il mulino
SITOGRAFIA:
http://www.comune.bologna.it/laboratoriomercato/
http://www.eddyburg.it
NORMATIVA:
Piano Regolatore generale 198589 del comune di bologna
Piano Strutturale Comunale con delibera del Consiglio Comunale di
Bologna n. 157 del 16/07/2007
Ringrazio il sistema bibliotecario del polo Bolognese per avermi permesso di possedere qualcosa senza averlo mai avuto e dunque di significare
qualcosa senza essere nessuno.
Un altro ringraziamento vorrei farlo a chi ha scelto di stampare in fronte retro la propria tesi e qualsiasi scritto da lui redatto, attutendo così l’impatto
ambientale causato da migliaia e migliaia di fogli sparsi per tutto il mondo accademico.
Un ringraziamento a Bologna e alle sue bici.
ALLEGATO
Intervista a Giovanni Ginocchini
27.02.2008Intervista a:Giovanni GinocchiniArchitetto, si occupa di urbanistica, partecipazione, comunicazione. Collabora con il Dipartimento Architettura e Pianificazione del Politecnico di Milano. Partecipa alla redazione della rivista internazionale “planum.net”. Dal 2005 è consulente del comune di Bologna. Ha coordinato le attività del Laboratorio Mercato.
Che significa istituire un laboratorio? Qual è il ruolo del facilitatore?
Nel caso dell’exmercato l’istituzione del laboratorio significa proprio un atto formale del comune di Bologna che, attraverso un atto di giunta e di consiglio, ha dato forma istituzionale a questo laboratorio specificando tutta una serie d’indirizzi e di compiti. Diversi sono i motivi per cui aveva senso istituirlo da un punto di vista formale. In realtà un laboratorio non sempre nasce da questi presupposti: avvolte ci sono laboratori che hanno una formalizzazione più blanda e dove magari è il quartiere che li formalizza attraverso un proprio atto, o, come mi è capitato, vi sono casi in cui non vi è nessuna formalizzazione vera e propria, dove l’atto volontario da parte dell’amministrazione, o di un gruppo tecnico, non presupponeva un atto amministrativo formale. Nel caso dell’”exmercato”, a mio modo di vedere, è un valore aggiunto che questo luogo di discussione fosse riconosciuto a tal punto d’avere una formalizzazione con un atto di giunta. Poi c’è anche tutta una tradizione di laboratori che non prevedono una partecipazione diretta dell’amministrazione, avvolte ci sono stati laboratori che nascevano su impulso dell’università piuttosto che di altri soggetti e che vedevano nell’amministratore una controparte.
Questo laboratorio come nasce?
Questo laboratorio nasce su richiesta e su spinta del quartiere ma, soprattutto da questo coordinamento di rappresentazioni. Nasce dal basso. La sua particolarità è che viene istituito anche formalmente dall’amministrazione che ne fa strumento di governo e luogo di progettualità.
Tu ricoprivi il ruolo di “Facilitatore”? Che cos’è un “Facilitatore”?
La definizione di “Facilitatore” non è esaustiva, e in realtà il nostro ruolo, oltre che di facilitazione, è stato anche di progettazione del percorso e
quindi di suggerimento dei tempi, delle modalità e degli strumenti, non escludendo di volta in volta di indicare eventuali deviazioni e possibilità per cambiare in corsa le modalità di lavoro. Di solito “Facilitatore” viene definito colui che all’interno di un gruppo di lavoro ha il ruolo di facilitare la discussione, ma qui c’è stato anche un ruolo di coprogettazione del percorso, sia con la associazionismo che con il quartiere e con l’amministrazione.
Si trattava anche di mediare i diversi linguaggi.
Sì, il “Facilitatore” doveva mediare all’interno dei gruppi di lavoro e, in particolar modo, doveva farsi carico della compresenza dei diversi registri linguisti dei soggetti: il linguaggio tecnico, il linguaggio dell’amministratore, il linguaggio politico e il linguaggio dei semplici abitanti. Questi ultimi avevano al loro interno sia partecipanti con competenze alte, sia altri che per la prima volta affrontavono questo tema. La mediazione più forte è quella fra tecnici e non tecnici, però, anche all’interno dei diversi gruppi era necessaria un’operazione di mediazione ulteriore. Questo è un modo di lavorare per far sì che in gruppi compositi tutti abbiano la possibilità di dire la propria e gli altri di ascoltarla. Questo è il senso del lavoro.
Qual’era la composizione dei partecipanti all’interno del laboratorio? Quale sono state le dinamiche interne?
La composizione era molto varia. Erano presente moltissime associazioni diverse tra loro: dai gruppi parrocchiali al collegio costruttori, dal centro sociale exmercato 24 al centro per anziani, e infine anche i sindacati. Quindi, gruppi molto differenti tra loro, ma uniti, attraverso il comitato “fuori le mura”, dall’idea di ripensare insieme il progetto per quest’area così vasta. Erano molti anche i singoli cittadini che grazie al lavoro di questo comitato si sono sensibilizzati a questa problematica e con piacere hanno aderito al laboratorio.
Il collegio costruttori edili della provincia di Bologna che ruolo a giocato all’interno del laboratorio?
Innanzitutto quello di attento osservatore, e non tanto per interessi immediati, dato che comunque l’area era in parte pubblica e in parte della cassa di risparmio, quanto piuttosto come interessato alle attuazioni seguenti, quindi al progetto. In realtà forse anche un po’ curioso di capire che tipo di dinamiche generava una discussione organizzata in quel modo. Alcuni costruttori hanno continuato a partecipare fino alle ultime fasi del laboratorio. Il loro contributo avvolte è stato quello di singoli costruttori che mettevano in luce alcune questioni a loro più care, ad esempio, uno di loro, nella parte finale del laboratorio, si interessò a capire come si potessero mantenere gli standard di sicurezza richiesti dal mercato oggi. Lo spazio pubblico, infatti, sappiamo essere una ricchezza ma che comporta sempre
più una serie di problematicità notevoli, in particolare in fase di progettazione e di fruibilità futura di questi spazi. I costruttori erano molto interessati al tema del nuovo modo di costruire, il tema dell’energia etc.Interessati anche alla forma finale che avrebbe preso questo comparto, che di fatto è uno dei più importanti e dove si costruirà di più a Bologna nei prossimi cinque anni. Infatti, prima che le operazioni previste nel piano strutturale, quelle della zona del mercato e dell’exlazaretto sono le sole due aree del vecchio piano regolatore che ancora devono essere sviluppate, e che dunque rappresenteranno il business dei privati nei prossimi anni.
La rigenerazione dell’ex mercato è inquadrabile in un progetto più ampio di allargamento del centro città oltre la cinta muraria. Questo potrebbe comportare il rischio che la riqualificazione di tale aria aumenti il valore economico della zona, stravolgendo così il tessuto sociale della Bolognina. Vi è secondo lei questo rischio? Non dobbiamo temere future manovre di “gentrificazione”?
Questo è uno dei temi più interessanti da trattare d’ora in poi. L’esperienza del laboratorio è interessante perché si sono verificate una serie di circostanze che non sempre si verificano: un tessuto sociale molto attivo e partecipativo, un interesse a sperimentare da parte delle amministrazioni e dei progettisti, un area dalle caratteristiche molto particolari, in parte libera e in parte con delle preesistenze interessanti, con una storia dietro interessante. Sulla Bolognina è utile dire due cose: Una, che la Bolognina è già stravolta nei fatti, il quartiere industriale, popolare e produttivo non esiste più. Esiste una parte di città la cui popolazione è cambiata radicalmente, e che cambia in continuazione. Io abito lì e vedo come, di fatto, la presenza delle nuove popolazioni migranti, il ricambio fortissimo della popolazione anziana che viene sostituita perlopiù da giovani in particolare studenti, siano il sintomo di un cambiamento forte e dinamico che va governato ma senza la nostalgia di un quartiere operaio che non esiste più. Il fatto che nel futuro possa arrivare una popolazione con un tenore di vita più alto, che si potrà permettere di comprare le case della parte privata del progetto, a prezzi anche piuttosto alti, io la vedo come un aspetto positivo che diversifica anche dal punto di vista sociale questo quartiere. Bisogna capire però come possa convivere con la parte di edilizia sociale che è prevista in buona parte della zona del mercato, che andrà ad aumentare così anche quella già esistente nel quartiere. Non a caso uno dei principali problemi che aveva il vecchio piano era quello di creare una zona che un po’ si proteggesse da quello che aveva intorno, per varie ragioni. Sicuro è, però, che questa è un po’ la tendenza che l’operatore privato ha in questa fase, cioè quella di costruire delle enclavi, proprio perché è questo quello che gli chiede il mercato: posti sicuri, telecamere e in casi limite anche i vigilantes. Il mercato chiede piccole zone protette, e il nuovo progetto della zona è invece sicuramente opposto a questa logica. Ciò può creare anche dei problemi, e tutti noi che abbiamo partecipato a questa esperienza siamo un po’ preoccupati di capire come tutti questi spazi
pubblici saranno gestiti e vissuti, e se ci sarà qualcuno che poi effettivamente si prenderà cura o meno. È un po’una scommessa. Questi sono i due aspetti rilevanti: uno, la Bolognina è già cambiata ed è proprio in fase di rielaborazione totale. Due, il fatto che lì ci sarà edilizia sociale e non si andrà a costruire un quartiere per ricchi come se fosse un enclave, ma piuttosto si cercherà di sperimentare la “mixité”, nella speranza di farcela. Il problema della “gentrificazione” c’è tutto, però qui a Bologna meno forte che in altre parti dell’Europa. Difatti il nostro centro storico è ancora abitatissimo sia di famiglie che di gente che va a lavorare. In altre città d’Europa il centro storico è diventato turismo, uffici e studenti, ed è per questo che lì non ci sono i conflitti che abbiamo noi in alcune zone, dove vi è ancora questa convivenza positiva tra chi abita, tra chi viene qui per studiare e chi viene qui per lavorare. Le politiche che si fanno adesso a Bologna sono attente a limitare il fenomeno della “gentrificazione”. L’idea che si vuole praticare è quella della “mixité”, vista anche come un antidoto alla “gentrificazione”. Certo è che una riqualificazione ha delle sue conseguenze. Quando in Inghilterra abbiamo presentato il nostro laboratorio, nell’ambito del progetto europeo ”Grow”, alla fine di questa presentazione un manager di una agenzia di sviluppo pubblica inglese mi ha detto che questa cosa era molto interessante, e che se un area di quel genere, così posizionata, con quel tipo di infrastrutture che si vanno a realizzare lì intorno fosse stata in Inghilterra, la domanda che un amministratore si sarebbe fatta è: investo su quell’area soldi miei affinché quell’area possa contribuire a chi ci abita intorno oppure su faccio una grande operazione immobiliare che mi permetta di far scendere le tasse a tutti i cittadini Bolognesi? La sua scelta sarebbe stata sicuramente la seconda. Effettivamente il comune aveva lì un patrimonio enorme, un ottima posizione e una superficie vastissima. Uno poteva dire: “faccio tutta edilizia privata, la sfrutto al massimo e con quei soldi calo le tasse o faccio qualsiasi altra cosa”, e in questo senso avremmo avuto un operazione di “gentrificazione” potente e che sicuramente avrebbe avuto anche un vantaggio dal punto di vista dell’immagine rispetto a tutta la città. Adesso la campagna elettorale e tutta sulla diminuzione delle tasse e con un beneficio finanziario del genere esso avrebbe potuto far tante altre cose, mentre qui si è scelta una strada diversa.
Come si pone l’esperimento del laboratorio nel quadro italiano?
Le due città che più hanno sperimentato su questo tema sono state Torino e Roma. Bisognerebbe valutare i risultati di questa stagione intorno alla metà degli anni ’90. Torino ha avuto una lunga storia che ancora continua con i “contatti di quartiere”, con il progetto “Urban”e con l’istituzione del “settore periferie” dentro il comune che si è proprio occupato di queste cose. Idem a Roma dove si abbiamo l’ “OSPEL”. Queste due sono le città che hanno fatto del laboratorio uno strumento di azione di governo abbastanza consolidato. Poi ci sono altre piccole esperienze sparse per l’Italia. Anche in Europa la tradizione è precedente a Bologna, soprattutto nel mondo anglosassone, in particolar modo in Inghilterra. Da segnalare sono le esperienze francesi e quelle tedesche. In Germania il ministero ha avuto
proprio una linea di finanziamento in merito, e Berlino ha vissuto un lungo periodo in cui ha realizzato esperienze del genere sotto il nome di “quarter management”. Possiamo tranquillamente dire che in Europa sono state diverse le esperienze in questi anni. Qui a Bologna ci avvantaggiamo anche di queste esperienze fatte dagli altri, che ci hanno permesso di evidenziare anche le debolezze di questo strumento.Però, nonostante la storia dei laboratori sia abbastanza corposa, probabilmente nessuno ha mai fatto una cosa del genere su un intervento così importante e così imponente come quello dell’”exmercato”.
Quali sono generalmente gli ostacoli alla partecipazione? Il caso dell’exmercato non rappresenta comunque un eccezione?
Noi abbiamo anche esperienze molto meno intense di quella del exmercato, sia dal punto di vista della quantità di persone partecipi sia della qualità del contributo che ne viene. Ci sono alcune difficoltà tipiche in questo tipo di strumento dove è l’amministrazione a proporti il laboratorio e non una esperienza che nasce direttamente dal basso. Di solito quest’amministrazione ha avuto l’accortezza di lanciare questi progetti in situazioni in cui c’erano già dei soggetti interessati ad interagire in questi termini. Ma c’era comunque una difficoltà di comunicazione: bisognava far passare il messaggio per cui il cittadino poteva partecipare veramente, e che la sua voce sarebbe stata presa in considerazione. Diciamo che la sfiducia di fondo nel rapporto tra cittadini e istituzioni emerge spesso.
Nonostante ciò, sotto questo aspetto, Bologna resta comunque un isola felice rispetto al resto d’Italia.
Infatti poi facciamo delle cose belle, ed io devo dire che mi diverto moltissimo a fare questo lavoro. Ho avuto l’opportunità di conoscere persone motivate, di gran generosità, che spendono un sacco di tempo della loro vita per fare attività volontaria e che sono innamorate del loro territorio e della gente che ci vive. Sicuramente a Bologna rispetto al resto d’Italia c’è un grado d’interazione molto alto, ciò non cambia che, comunque, la sfiducia di fondo resta sempre. L’altro tema, intrecciato al precedente, è quello di riuscire a dare risposte all’altezza delle domande che ti vengono poste, e questo è dovuto al fatto che i cittadini spesso vedono la macchina amministrativa come un tuttuno, mentre in realtà essa è molto settorializzata ed è quindi difficile dare risposte a 360 gradi. Puoi riuscire a dare risposte efficaci solo su questioni di cui ti occupi da vicino ma generalmente le domande hanno una portata che interessa vasti ambiti della macchina governativa. Un altro tema è quello del tempo, nel senso che i tempi delle amministrazioni non sono quelli dei cittadini. E a sua volta i tempi delle trasformazioni urbane sono proprio all’opposto rispetto ai tempi dei cittadini, ed è qui che bisogna capirsi e essere chiari sin dall’inizio. Un altro aspetto è che avvolte le richieste sono diverse, ed è molto importante far chiarezza sin dall’inizio: dire cos’è in gioco e cosa no. Il cittadino non può pensare di decidere tutto lui perché l’amministratore
spesso ha una serie di vincoli finanziari, di questioni già approvate e dunque non più negoziabili. Soprattutto all’inizio è importante accordarsi su quali sono gli spazi della discussione. E avvolte una parte di persone potenzialmente interessate le perdi proprio perché non ritengono sufficientemente ampi gli spazi di contrattazione. Una parte del lavoro è stata proprio quella di dire che tutto parco non era possibile. E lì sta anche nella disponibilità delle persone a mettersi in gioco e vedere cosa si può fare.
Quali sono i vincoli finanziari principali per un’amministrazione?
Il costo delle opere, ma anche i contratti già siglati che non possono rischiare di essere stracciati; le faccio un esempio: nella vicenda mercato una parte di persone voleva metter in discussione la presenza in quell’area della sede unica del comune, un progetto che al momento della nascita del laboratorio aveva già avuto un contratto siglato e un “project financing” già studiato, e la cui rinuncia avrebbe comportato per la amministrazione una grossa multa. L’amministrazione ha scelto in questo caso di non mettere in discussione quest’opera.
Lo strumento del laboratorio si è ormai formalizzato a Bologna?
In questa fase diciamo che ha raccolto un interesse sia dell’amministrazione, sia dei quartieri, sia dell’associazionismo. Io penso che poi, a un certo punto, potranno esserci anche strumenti e modalità diversi, e credo anche che la cosa importante e che si cominci a pensare affinché il dialogo fra amministratori, cittadini e tecnici, perché a me interessa molto anche la componente tecnicaprogettuale, sia fruttuoso e non solo di contrapposizione o di protesta. Poi, è chiaro che, se non si elimineranno tutti conflitti e che se certe posizioni rimarranno inconciliabili, questo tipo di modalità di lavoro non è una panacea per tutti i mali. Però si può fare. Del resto si fa in tutta Europa e gli stessi documenti dell’Unione Europea propongono i processi inclusivi come una delle modalità per governare la città. Non è che ci siamo inventati niente.
A che punto è il progetto?
Questo è interessante. L’attuale fase è la seguente: la parte privata è stata venduta dalla banca ad un attuatore che è il gruppo Val d’Adige. Questi ha comprato l’area e quindi anche i diritti per edificare su quest’area. La cosa particolare è appunto che si sia aggiudicata questa gara con prezzi piuttosto elevati. Questo ci riporta al problema che dicevamo all’inizio: le case della parte privata costeranno parecchio. Comunque, la Val d’Adige avrà il compito di costruire e organizzare le opere di urbanizzazione primarie e dunque della costruzione del parco e delle strade che poi rimarranno pubbliche. Per la parte pubblica il comune ha fatto un bando, che inizialmente ha avuto qualche problema, ma che infine è stato aggiudicato. Si prevede anche lì di
partire a breve. Nella parte pubblica ci sarà una piccola parte di edilizia a prezzo di mercato, una parte di edilizia a prezzo convenzionato e una parte di puro affitto. Questo fa parte delle politiche che l’amministrazione dall’inizio aveva messo in chiaro, ovvero quella di aprire una nuova stagione di edilizia sociale a Bologna perché il problema della casa è un problema reale e quindi l’amministrazione s’impegnava a promuovere nuove case a basso prezzo, assolutamente al di fuori dei prezzi del mercato destinate a giovani e a persone che non si possono permettere, in una fase della loro vita, di pagarsi un affitto a prezzi di mercato. Questo è un segnale di attenzione da parte dell’amministrazione per limitare la “gentrificazione”, attraverso l’idea che lì, accanto ad un area privata venduta a cifre astronomiche il pubblico non ha speculato ma ha promosso proprie politiche che sono quelle delle case sociali, del verde e dei servizi pubblici, lontano da una logica di puro profitto o puro bilancio. In Inghilterra avrebbero sicuramente fatto in modo diverso.Un altra cosa che sta andando avanti è tutto il tema infrastrutturale attorno all’alta velocità e la nuova strada dell’asse nordsud.
L’urbanistica può occuparsi della coesione sociale?
Secondo me se ne deve occupare, però sapendo bene quali sono i suoi limiti, poiché altrimenti è molto rischioso. Quando l’urbanista ha voluto progettare pensando di governare anche le relazioni sociali ha fatto dei disastri spaventosi, ad esempio le vele di Napoli. Si possono fare alcune cose, ma solo alcune.
Quali sono gli strumenti dell’amministrazione nel rapporto coi privati? L’urbanistica avvolte ha anche dei problemi di strumentazione e di legislazione. Adesso ci siamo inventati questa cosa della perequazione, un metodo alternativo all’espropriazione. Gli enti pubblici, avendo problemi di soldi, attuano le loro politiche costruendo dei meccanismi per cui il privato, quando fa un operazione deve cedere in cambio una serie di possibilità che non sono solo gli standard, ma che possono essere anche delle aree, oppure, altre opportunità. Il nuovo piano strutturale prevede la possibilità che le amministrazioni possano farsi cedere da un proprietario privato un area, concedendogli in cambio i diritti di edificazione da un'altra parte. Tutti dei meccanismi affinché non si imponi al privato ma, gli si diano le possibilità di fare i suoi utili acquisendo in cambio dei beni per l’ente pubblico. Lo strumento della perequazione c’è nelle leggi regionali ma non in quelle nazionali. In teoria questa è un arma un po’ spuntata.
Il tema più importante per la città del futuro è il fatto che sia una città accogliente, in grado di offrire tante possibilità diverse e quindi possibilità per stili di vita diversi, culture diverse e anche modi di lavorare diversi e quindi secondo me la sfida più importante è quella di attrezzarsi per avere dei luoghi interessanti e capaci di assolvere a delle richieste, che sono le nostre e sono molto esigenti.