La scimmia e la sirena O dell’obbedienza ai tempi del reality
I. Presentazione; II. Testo: La scimmia e la sirena; III. Appendice: “Lo spettacolo dell’obbedienza, tutta una storia”; Nota biobibliografica.
Presentazione Si tratta di un apologo, una favola filosofica che racconta la catastrofe mentale dell’uomo contemporaneo, completamente immerso nell’universo mediatico: dalla tv a internet e ai social network, che cosa accade quando la realtà non si distingue più dal suo spettacolo? Lungi dall’essere un semplice format televisivo tra gli altri, lo “spettacolo della realtà” (reality show) definisce una nuova condizione dell’essere al mondo. I nostri modi di percepire le cose, di pensare e di agire sono radicalmente cambiati. Prendiamo le foto pubblicate su facebook o twitter: la realtà della nostra vita quotidiana si manifesta solo attraverso la sua mediatizzazione spettacolare (il logo di instagram o retrica, talvolta accompagnato dalla data, il luogo e il meteo del momento in cui la foto è stata scattata), mentre lo spettacolo non è che la presentazione della realtà stessa, per quanto banale o triviale essa sia (dei piedi allungati su una spiaggia, una torta o un piatto di spaghetti, il volto dei nostri figli). Questa ibridazione della realtà e della finzione rischia di dissolvere tutte le opposizioni sulle quali il nostro modo di pensare è fondato: il vero e il falso, il bene e il male, il giusto e l’ingiusto, il pubblico e il privato. In particolare, potremmo chiederci se, a queste condizioni, l’opposizione tra obbedire e disobbedire sia ancora operativa, e, di conseguenza, se la scelta tra queste due opzioni sia ancora possibile e abbia ancora un senso. È la domanda posta in questo testo, di cui è stato realizzato un adattamento per la performance-‐spettacolo Nage, nage petit poisson, Dés/obéir à l’époque de la téléréalité, presentata nel Festival des Libertés, Théâtre National de Bruxelles, il 18 ottobre 2014. Un uomo attraversato e trasportato da flussi di ogni tipo, s’interroga in primo luogo su quello che succede, prima di partire alla ricerca di una via d’uscita: realtà o delirio? Una catastrofe sembra aver inghiottito il mondo. Rinchiusi in vascelli sottomarini, i sopravvissuti vagano in un deserto d’acqua, combattuti tra la nostalgia del mondo perduto e l’utopia di un’isola riemersa. Il Capitano riflette: la realtà non si distingue più dal suo spettacolo e l’oceano nel quale navighiamo è il prodotto di questa confusione. Rovistando nei suoi archivi, s’imbatte in una strana scena: l’incontro tra Allen Funt, pioniere della Reality TV, e Stanley Milgram, autore di un’esperimento scientifico sull’obbedienza. Mentre cerca di comprendere, l’immagine di una creatura ibrida comincia a ossessionare i suoi sogni: dal loro incontro nascerà forse la possibilità di un altro mondo.
La scimmia e la sirena O dell’obbedienza ai tempi del reality
I
Delirio Alla ricerca di una via d’uscita
C’è nessuno? Ehi! Laggiù! C’è qualcuno? Beh, dovrò abituarmi a questo silenzio. Però sento questa voce: “C’è nessuno? C’è qualcuno?”. Vorrà dire comunque qualcosa. Non c’è nessuno per rispondermi, forse, in effetti, non ne sono del tutto sicuro… Tuttavia sento la mia voce, e questo vuol dire, sì!, vuol dire che “io” ci sono! (Fa strani gargarismi, come gli esercizi vocali degli attori ma grotteschi, e che a volte somigliano ai versi degli animali.) Ah, bella sensazione! Sì, proprio così, è importante sapere di esserci, non è vero? Sì, hai ragione: è molto importante, ascolta, te lo dico in tutta franchezza, è essenziale! Sì, sì, hai ragione: perché qui tutto è diventato vago, sfocato, avanziamo, certo, ma mi chiedo se non stiamo andando alla deriva. Bisogna assolutamente mantenere la rotta. Non ci sono più punti di riferimento, i sensi sono offuscati e ciò che somiglia a una via d’uscita non è che ingannevole apparenza: per esempio, poco fa, ho visto uno scoglio, ma dopo mi sono reso conto che era l’ombra di una nube che galleggiava sulla superficie dell’acqua. È così, non si può più credere a nulla! Devi seguire la tua voce e basta. È essenziale. Sì, ma vedi, all’improvviso ho un dubbio, scusa, torno un po’ indietro: “C’è nessuno? C’è qualcuno?”. Molto bene, hai sentito la tua voce; ma dopo, che cos’è successo? Ho riflettuto un attimo e ho detto: beh, visto che sento la mia voce, vuol dire che ci sono! Una bella scoperta, eri contento… Sì, sono molto felice di esserci… (Ripete gli strani gargarismi) Ecco. Ecco, infatti. Somiglia forse a una voce “umana”? Sono di certo rumori molto strani. Sì, in realtà, ho un dubbio, devo riflettere. Sai, la cosa mi preoccupa un po’, mi capita spesso di chiedermi se sono sveglio o se sto dormendo. Forse sto sognando: parlo, ordino alla mia ugola di fare degli esercizi di vocalizzazione, sento questi versi grotteschi uscire dalla mia bocca, e mi chiedo se, in effetti, non stia disteso sul mio letto con gli occhi chiusi. Me lo chiedo, quindi sono cosciente. Ebbene no! I sogni sono formidabili fabbriche d’illusioni. Dici bene, è tutto un film!
Sì, e le cose sembrano spesso più concrete, più intense della realtà stessa. Chi mi assicura che non stia sognando, nel momento stesso in cui mi pongo queste domande? Nessuno, solo tu puoi risolvere l’enigma. Cerca quindi di svegliarti! Sì, ma appunto, a volte decidi di svegliarti, e non fai che sprofondare nel sogno. È come se cercassi di aprire delle porte nell’acqua: pensi di uscire, di venir fuori da qualche parte, e, in realtà, nuoti, lasciandoti trascinare dalla corrente sempre più lontano, sempre più in profondità. È un problema: che fare? Beh, rifletto, continuo a pormi domande, e se anche fossi addormentato, continuando a riflettere, a pensare, prima o poi dovrò svegliarmi. Perché “io penso”, questo è certo. Ma, vedi, subito non posso fare a meno di chiedermi chi è questo “io” che dice di pensare. Bella domanda: quando si sogna, l’“io” che pensa, è lo stesso “io” che pensa quando si è svegli? In un certo senso sì, ma c’è comunque una non trascurabile differenza: cambia il modo di esserci. Esattamente! Parlo, sento la mia voce, la seguo, seguendola i miei pensieri si dispiegano, quindi ci sono, sto qui, adesso, ma in verità non so “in che modo” sono presente. Sì, e cambia tutto. Ascolta, non voglio farti preoccupare ancora di più, ma bisogna considerare la possibilità che ci sia un demone che t’inganna, o che tu sia impazzito. Infatti, sento che c’è qualcosa di strano. Il mio corpo… non lo percepisco più nello stesso modo. Non lo sento come se fosse fatto, che ne so, di fuoco o di vetro. No, non si tratta di questo. Hai sentito la mia voce? Questi rumori mostruosi che a volte escono dalla mia bocca? È una voce animalesca! E anche i miei silenzi sono mostruosi, i silenzi assurdi di una specie di bestia… Resta calmo. Non hai nulla da perdere, e nel deliro potrebbe esserci una via d’uscita: chi può dirlo? E poi, mi ricordo di un racconto di Kafka, sai, la scimmia del racconto Una relazione accademica. Catturata nella Costa d’Oro, rinchiusa nella stiva del piroscafo che la conduce in Europa, non cerca la libertà, illusione che si rifiuta di condividere con gli uomini, e si trattiene dal tentare la fuga, giudicandolo un gesto inutile, disperato. No, cerca “una semplice via d’uscita…”. “…a destra, a sinistra, in qualsiasi direzione (…). Andare avanti, andare avanti! Solo non star fermo con le braccia alzate, addossato alla parete di una cassa…” E che cos’è questa via d’uscita? Semplice, smetterà “di essere una scimmia”. Non è attirato dall’idea di imitare gli uomini; lo fa solo perché cerca una via d’uscita. Tra il giardino zoologico e il teatro di varietà, non ha dubbi: sceglie il varietà! “E imparai, signori miei. Ah, s’impara quando la necessità incalza; s’impara quando si cerca uno scampo, s’impara disperatamente. Si sorveglia se stessi con la sferza; alla minima resistenza ci si lacera le carni. La mia natura di scimmia smaniava dimenandosi, usciva da me, tanto che il mio primo maestro divenne quasi una scimmia egli stesso; dovette rinunziare ben presto all’insegnamento e fu ricoverato in una casa di salute. Fortunatamente ne uscì dopo poco.”1 Ah! Ah! Ah! Non male, non male! Bene, proviamo allora.
1 trad. di Anita Rho (raccolta di racconti intitolata Il messaggero dell’imperatore, Adelphi 2003).
Per prima cosa, è vero, ci sono delle analogie: non sono rinchiuso in una gabbia, ma sono comunque imprigionato in questa bolla tecnologica sballottata da correnti di ogni genere; sono solo, sì, questo mi rende triste, talvolta mi arrabbio, maledico la mia sorte, al tempo stesso però devo confessare che mi dà un immenso piacere essere attraversato, trascinato da questi flussi oceanici. Sbatte e gira tutto; tutto galleggia, scorre, preme e gira: tuttavia, ho imparato a riconoscere alcuni flussi che possono aiutarmi nel mio viaggio. Almeno lo spero. In ogni caso, sapere che da qualche parte ci siano degli archivisti che custodiscono le tracce del passato, e degli utopisti che tracciano le vie del futuro, mi dà un certo sollievo. Anche se a volte tutto si mescola, come in un frullatore, e non riesco più a distinguere tra la nostalgia del mondo perduto e la speranza di una terra promessa. Alla fine, mi viene solo un tremendo mal di testa. Ma forse hai ragione, delirare è l’unico modo di venirne fuori. Sì, Andare avanti, andare avanti!, come dice la scimmia. Allora, potrei cominciare con il descrivere tutto quello che vedo intorno a me, senza dubbio, a un certo punto lo farò, ma non sono sicuro che sia sufficiente. Cercherò piuttosto di “raccontare” le mie visioni. Sì, proprio così, Capitano, racconta! Da dove pensi di cominciare? Vediamo… Dopo il diluvio… “io”.
II Catastrofe
Dire di sì, dire di no Accidenti! Ho sbattuto la testa… Con questi black out, è diventata una fastidiosa abitudine. Inizierò ad andarmene in giro con un casco. Ah! Ah! Sei spiritoso, Capitano. Maledizione! Che cosa succede oggi? Si muove tutto, meglio sedersi un attimo. Ecco. Così va meglio. Lo so, lo so: le tempeste solari, l’aumento della temperatura, lo scioglimento delle calotte polari, bla, bla, bla… Sono anni, ma che dico, sono secoli che non sento parlare d’altro. Sono stufo di sentire la gente lamentarsi e piangere sulla propria sorte. Siete sopravvissuti? Ebbene, adesso datevi da fare! E poi, sì, non rinuncio a un po’ di confort: chi può rimproverarmelo? Senza accendere l’aria condizionata, con queste temperature, rischi di finire bollito come un pesce. Un pesce sì… E poi, mi direte: ma è meschino, è egoista. Ebbene, non m’importa, io non posso vivere senza computer. In fondo, che cosa mi resta? E poi, ditemi, come potrei navigare senza essere connesso? Francamente, tutti questi tagli di corrente sono un’enorme seccatura. È come se dovessi scegliere di continuo tra una cosa e l’altra: come se sapessi che, ogni volta che accendo l’aria condizionata, la connessione finirà per interrompersi. È orribile! No, questo genere di ricatti non li accetto. Aspetta, come le chiamavano una volta? Ah sì, “antinomie”. Ma, appunto, non lamentiamoci. Sono già stupito che riusciamo a galleggiare. Dovremmo essere affondati da un pezzo, invece, nonostante tutto, respiriamo ancora. Perché io respiro, questo è certo. Ma il problema è sempre lo stesso: sapere “come” respiro… Ho divagato ancora, dov’eravamo rimasti? Ah sì, ecco, il diluvio, la bolla alla deriva nell’oceano, la via d’uscita… Sai, ho riflettuto su questa storia della scimmia che diventa uomo. Aspetta, sono andato a cercare il passaggio: “Per quel che mi riguarda, dice la scimmia, non ho mai preteso la libertà, (…) gli uomini si ingannano troppo sovente a proposito della libertà. (…) Spesso nei teatri di varietà sono stato a guardare, prima del mio numero, qualche coppia di artisti che si esibiva sui trapezi lassù sotto il soffitto. Essi volteggiavano, si dondolavano, saltavano, si libravano uno nelle braccia dell’altro, l’uno reggeva l’altro per i capelli, con i denti. ‘Anche questa è libertà per gli uomini – pensavo io – movimento dominato dal proprio volere’. Oh irrisione della sacra natura! Nessun edificio reggerebbe alle risate del mondo scimmiesco davanti a questo spettacolo.” Ecco una classica antinomia: l’uomo immagina di erigere sulla sua volontà il sublime edificio della cultura, ma basta lo sguardo di una scimmia per rivelare che alle fondamenta non c’è nessuna libertà, giacché il mondo è interamente regolato dalle leggi della natura. Ho l’impressione che ti prenda un po’ in giro questa scimmietta bislacca. Sì, non mi piace che mi prendano in giro. Stamattina, mentre riflettevo, sai, rifletto sempre, mi sono trovato di fronte a uno specchio, e ho visto la sua orrenda smorfia incollarsi sul mio viso
come un fazzoletto bagnato. Ti rendi conto? Brrr, brrr… Sinceramente, mi ha fatto venire i brividi. O forse voleva solo avvisarti. Ti diceva: “Attento, mio caro! Io sono un animale che è diventato uomo, ma porrebbe succedere il contrario: che tu sia un uomo che sta diventando animale!”. La trovo terribilmente saggia questa scimmia, è sospetto. Ma, ascolta, qual è la vera domanda, concentrati. Ho capito a cosa alludi: è forse la paura di non essere libero che mi fa sentire così vicino agli animali? Un animale tra gli animali? In loro, tutto sembra determinato, prescritto dalle loro dotazioni biologiche. In più, c’è questa storia dell’addomesticamento, del dressage. Non lo sopporto. È vergognoso, tanto per gli animali quanto per gli uomini. Prendi qualsiasi cane mediamente domestico, avrai la caricatura dello schiavo buono, lo schiavo felice, così sottomesso alla voce del padrone da non riuscire più a distinguerla dai suoi latrati. Puah! Al tempo stesso, chi può assicurarci che tutti questi animali domestici – cani, cavalli, pappagalli – non facciano come la scimmia? Che non imitino gli uomini per trovare una via d’uscita? E poi, vedo che gli animali possono eventualmente dimostrarsi molto meno docili degli uomini, i quali pretendono di essere liberi in sommo grado. Nonostante tutto, in loro rimane un fondo di estraneità, qualcosa d’irriducibile. La commovente ferocia della bestia… D’accordo, mettiamo che le lancette dell’orologio abbiano cominciato a correre all’indietro: dall’Homo sapiens all’Homo habilis, dall’Australopithecus all’Ardipithecus e poi alle scimmie antropomorfe, tra cui la nostra scimmia sapiente, probabilmente, senza dubbio… Ma, vedi, al più arriviamo alla grande famiglia dei Primati, alla quale appartengono i Tarsi, i Lemuri, le Scimmie e l’Uomo. Giunto ai mammiferi, sono costretto a fermarmi. Bene, posso fare ancora uno sforzo, e retrocedere fino agli anfibi Tetrapodi, i primi animali a quattro zampe. Ma qui, davvero, basta… Sono esausto, capisci? Non posso. Sì, riposati, prendi fiato. Magari! È proprio questo il problema. Ho accettato di viaggiare a ritroso nel tempo, di percorrere controcorrente, come un salmone folle, i flutti dell’evoluzione – d’altronde, in qualche modo sono obbligato a farlo – ma è qui che l’orologio si rifiuta di andare avanti. La respirazione polmonare, il fiato che gonfia la mia cassa tracica, no! Non posso continuare. Non puoi costringermi a strapparmi l’anima dal petto… Il problema non è essere costretti. Tu respiri, è certo. Si tratta di sapere “in che modo”: ricordi? È vero. In più, vedi, se non si accetta la propria condizione, non si va da nessuna parte. Bisogna sapere che tipo di animale sei diventato, affinché l’animale trovi la via d’uscita adatta. Giochiamo a carte scoperte: sono forse diventato un pesce? Ecco la vera domanda! Ci sono tutti gli indizi: non cammino, nuoto; non afferro le cose, sono ghermito da flussi che mi trascinano ovunque; non entro qui, non esco da lì, sono sempre all’interno e avanzo. Effettivamente somiglia a una vita acquatica. Ma, vedi, è dura per un uomo, perché mi sento comunque un uomo, accettare di aver perso le gambe, di essere continuamente immersi nell’acqua, di assorbire l’ossigeno grazie a orribili branchie. Mi si lascino almeno le vertebre! Sì, pesciolino. Nuota pesciolino, nuota. M’interrogo sempre, avanzo. Poco fa, mi sono ritrovato in un bel prato. Brillava tutto e mi sono sfregato tra i suoi ciuffi. Uff, erano anemoni di mare, prude ancora. Ma insomma, aspetta, ti racconto la storia, è sorprendente.
In un primo tempo, mi sono imbattuto in un tizio che voleva convincermi che io non sono di quelli che dicono sempre di “sì”. “Vuoi lavorare domenica?” “Sì, padrone!” “Vuoi obbedire agli ordini?” “Sì, capo!” “Vuoi venire a fare shopping?” “Sì, certo, arrivo!” Ebbene no, io dico “no”. Ero tutto contento di non essere come gli altri. Anche se dopo il tizio voleva che comprassi un’automobile… Non me ne frega niente di avere un’auto, immagina, nelle mie condizioni… Allora, cambio canale, faccio un po’ zapping a destra e a sinistra, cominciavo a grattarmi dappertutto, ma insomma, continuo comunque ad avanzare. E all’improvviso capito su un’altra pubblicità. C’era un altro tizio, o forse era lo stesso che aveva cambiato posizione, non saprei, in ogni caso, comincia a parlarmi, mi dice, ascolta, ti hanno sempre detto che nella vita bisogna imparare a dire “no” – beh sì, infatti, lo avevo appena imparato – ebbene no, è sbagliato! Davvero?, dico, e perché sarebbe sbagliato? Allora, mi spiega che la cosa più difficile è dire di “sì!”. Davvero?, e… E non mi lascia il tempo di finire la domanda, vedi, era tutto eccitato, si è messo a dire che bisogna imparare a dire di sì ai compagni che ti annoiano raccontandoti le solite storie, a tua madre che ti chiama sempre per chiederti se hai mangiato, a tuo padre… In effetti, non ho capito bene a che cosa dovessi imparare a dire di sì, ma ho comunque capito che è bene dire di sì, e che è questo il vero “coraggio”… Pazzesco, no? Sì, davvero prodigioso: stento a crederci. Ah sì, dimenticavo: anche il secondo tizio voleva vendermi qualcosa, fammi ricordare, che cos’era? Ecco, sì, una birra. Beh, in teoria mi sta bene, anche se preferisco il vino, ma vedi, non so nemmeno se posso… i pesci “bevono”? Devo informarmi… In ogni caso, credimi, è stato uno shock. Subito mi sono chiesto: che valore può avere il fatto di dire di sì o di no, quando si è nella mia situazione? Ogni opposizione scompare, tutto si confonde: il sì e il no, il vero e il falso, il bene e il male, il giusto e l’ingiusto, tutto si somiglia, tutto si equivale… Difficile continuare a pensare e ad agire in simili condizioni. Vado a destra e a sinistra, come la scimmia, ma sono sempre immerso in quest’oceano mediatico. Vado avanti, nuoto, mi piace nuotare, intendiamoci, mi dà l’impressione di essere libero, seguo unicamente il mio desiderio, ma non vedo vie d’uscita. Non hai pensato che potresti essere tu ad alimentare l’oceano in cui nuoti? È forse necessario diffidare di questa libertà, e del piacere che se ne trae? Forse, proverò, anche se non capisco bene in che modo… È sufficiente nuotare perché si producano le onde? È una storia complicata… Ma aspetta, vedo una lucina, con un colpo di pinna provo a raggiungere le profondità. Sì, laggiù, forse è la fonte di questa grande confusione.
III Obbedire
La realtà e il suo spettacolo Trovato! Non è stato facile: ho dovuto spingermi molto lontano, ho smosso i fondali marini, setacciando archivi ammuffiti. Ma ne valeva la pena. È una scena molto particolare. Ascolta… All’improvviso, ho visto una moltitudine di scimmie. Che novità, dirai. Ma, in effetti, non era l’orda primitiva, non credo in ogni caso. Le scimmie entravano e uscivano da un vecchio edificio: “Yale University” c’era scritto sulla facciata. Senz’altro uno stadio successivo dell’evoluzione… Sì, e allora mi sono detto: “perché no?”, e mi sono avvicinato pian pianino. All’inizio, ho pensato: “uhm, di certo non mi lasceranno passare”. Ebbene, alla reception mi hanno salutato gentilmente e sono entrato senza problemi. Ho dedotto che avevo forse conservato le mie sembianze scimmiesche e questo mi ha dato comunque un po’ di sollievo. Quindi, ero seduto e aspettavo pazientemente il mio turno. Avrei voluto interrogare quelli che uscivano, i loro volti erano tesi, madidi di sudore, ma no, era vietato. Finalmente mi hanno fatto entrare, e un tizio con un camice bianco mi ha invitato a sedermi su una sedia. Poi mi ha spiegato: “Caro Signore – ha esordito – grazie di essere qui. Ci aiuterà a realizzare un importante esperimento, volto a studiare l’efficacia della punizione sulla capacità di memorizzare. Vede il Signore che è dall’altra parte del vetro?” “Beh sì, lo vedo”, infatti, non potevo fare a meno di guardare quel grosso topo bianco con la cravatta e un paio di cuffie sulle orecchie. Mi salutò sorridendo, poi si eclissò dietro la tendina caduta dall’altra parte del vetro. “Allora, si tratta di questo: lei leggerà un elenco di parole, e lui dovrà ripeterle nell’ordine giusto. Ogni volta che sbaglierà, lei gli somministrerà una scossa elettrica…” Davvero! Strano sistema per imparare, no? Sì, è quello che mi dicevo, ma la presenza della scimmia in camice bianco, in qualche modo, mi rassicurava: “sarà sicuramente per la buona causa”, pensavo. E così abbiamo cominciato. All’inizio, le cose procedevano abbastanza bene, l’altro rispondeva correttamente, ma poi, poveretto, beh, per essere sinceri, era abbastanza scarso in memoria, fatto sta che ha cominciato a sbagliare. Uff, e io… io ero obbligato ad aumentare le scariche! Obbligato? Sì… cioè no… In effetti, non ne ho idea! Vedi, la situazione era molto strana. E poi il mio allievo, sì, perché io ero l’insegnante, quando sono arrivate le scosse di una certa intensità, diciamo, a partire da 75 volt, ha iniziato prima a gemere, poi a lamentarsi, a urlare. Alla fine supplicava, voleva farla finita. Onestamente, il suo atteggiamento non mi aiutava. Ero preso in una morsa, perché a fianco l’orangotango in camice bianco, lo scienziato, mi assillava, invitandomi a proseguire, ad andare fino in fondo. “Continui, per favore” “Sì, ma mi sembra che ora stia soffrendo” “L’esperimento esige che lei continui” “D’accordo, capisco, ma vuole smettere: non dovremmo rispettare la sua volontà?” “È assolutamente indispensabile che lei continui” “E se mi rifiutassi?” “Non ha scelta, deve continuare!” Una cosa assurda! Mi ricordo di quella voce fredda, distante, e delle insistenti ingiunzioni che mi perforavano il cervello come aghi.
Pensa: per l’allievo, “nessuna risposta” equivaleva a “risposta sbagliata”. E per me voleva dire somministrare un’altra scarica, e avevamo già superato il livello delle “scosse pericolose”!, indicata sulla macchina sotto le cifre e le leve. Insomma, per farla breve, sono andato fino in fondo. Ho fatto partire le ultime scosse, tre volte 450 v: non diceva più nulla, per me poteva essere svenuto o semplicemente… morto. Che situazione di merda! Tutto questo è molto interessante, Capitano. Aiuta a penetrare nel segreto della libertà e delle sue illusioni, tutti i paradossi cristallizzati nello sguardo beffardo della scimmia… Sì, ma aspetta, la parte più interessante deve ancora arrivare. Ero sconvolto e sudato come gli altri che mi avevano preceduto: adesso capivo. Non riuscivo ad alzarmi, ero accasciato sulla sedia. Allora, lo scienziato si avvicina e mi poggia una mano sulla spalla. “Signore, non si preoccupi”, mi dice con una voce all’improvviso amichevole. “Come sarebbe! Sono un mostro”, protesto, mettendomi a singhiozzare. “Per niente, caro amico, lei è una persona assolutamente normale. Non c’è nulla di sadico nel suo comportamento. È la situazione in cui è stato immerso, a essere eccezionale” E qui, con mia grande sorpresa, l’allievo entra nella stanza come se nulla fosse, sorridente e in piena forma, rivelando che è un attore, anche lo scienziato lo è, e che tutto – l’esperimento sull’apprendimento, la macchina, le scosse elettriche, le grida di dolore – ebbene, era solo una finzione! Osservo la mia immagine riflessa nel vetro, e mi rendo conto che il grosso topo bianco, la cavia, ero io! In effetti, lo scopo era solo quello di testare la mia obbedienza. Che scherzo macabro, di cattivo gusto. Altro che! E come se non bastasse, ciliegina sulla torta, l’orangotango mi dice di guardare in direzione della telecamera nascosta nel muro di fronte. “Sorrida, è su Candid Camera!”, dice, e la stanza si riempie di sinceri applausi. Immaginavo milioni di scimmie, sedute dinanzi alla tv, che ridevano guardando la mia performance, degna di un boia che esegue una condanna alla sedia elettrica. E allora? Allora, non mi sentivo colpevole, no, da questo punto di vista ero tranquillo: “non è colpa tua”, mi dicevo, “hai reagito come gli altri; pur essendo libero e consapevole, i tuoi comportamenti erano dettati da questa particolare situazione; e poi non c’era nulla di vero, era solo un teatrino”. Ma, appunto, nonostante uscissi assolto da questa storia, ero molto confuso. Non sapevo più se avessi partecipato a un esperimento scientifico, mirante a comprendere la realtà di certi meccanismi psicologici, o se fossi stato protagonista di uno spettacolo, fatto per divertire il pubblico. Mi ricordo adesso delle due pubblicità che mi avevano scioccato poco fa: cancellando ogni differenza tra il sì e il no, mi hanno fatto sprofondare in un mare torbido nel quale tutto era possibile. Ero al tempo stesso libero e senza scampo. E, in effetti, la cosa sconvolgente nella scena che ho appena vissuto, è l’impossibilità di decidere: si tratta di un esperimento scientifico oppure di una trasmissione televisiva? E com’è possibile stabilire una qualsiasi differenza, quando la realtà non si distingue più dal suo spettacolo? Mica facile! Sì, complicato, improbabile, forse persino impossibile. Mi ritrovo quindi immerso nello stesso mare da cui sono partito. Ma questo viaggio nelle profondità mi ha comunque insegnato una cosa: l’oceano nel quale nuotiamo è un temibile ibrido di realtà e finzione. In realtà, quello che ho vissuto non era altro che la mia genealogia. Ho visto sorgere il diluvio che mi ha partorito.
IV
Mutazioni Fuggire verso il possibile
Mi ha trovato. Non so come sia successo, ma è successo. Credo che tutto sia cominciato con degli strani flash. Sì, mi ricordo, era molto tempo fa. All’inizio, era solo un’ombra fluttuante nel campo visivo. Ho pensato che dipendesse da me, che soffrissi di un disturbo alla vista. Allora, ho cambiato occhiali, ma no, niente, non era questo. La medusa riappariva sempre, quando meno me l’aspettavo: si presentava durante il giorno, come una macchia scura, e quando faceva scuro, aveva l’aspetto di una lucente sbavatura. Non ero proprio preoccupato, no, non era questo. È che in quel periodo lavoravo molto. Concatenavo i miei desideri nel tentativo di trovare una via d’uscita. Ero connesso con le reti utopistiche, e sulla mia tavola si accumulavano montagne di progetti: macchine complesse, deliranti, e per prima cosa bisognava riuscire a decifrarle. Spesso non sapevo come prenderle, se bisognasse leggerle da destra a sinistra o da sinistra a destra, quali fossero il sopra e il sotto, soprattutto da dove il loro funzionamento cominciasse e dove finisse. E quest’ombra che attraversava il mio sguardo, m’impediva di concentrarmi. Al tempo stesso, stranamente, sembrava annunciare qualcosa che veniva dal futuro, come l’eco lontana di un altro mondo. Talvolta mi chiedevo se fosse il granello che rischiava di far inceppare le macchine, o se fosse invece la risposta che il futuro m’inviava come un messaggio nella bottiglia. Comunque sia, la solitaria medusa era sempre lì. Mi sono detto: “forse la stanchezza, è necessario che ti riposi, che dorma di più”. Quello che ho fatto. Ho capovolto il giorno e la notte, e mi sono abbandonato a un sonno lungo e profondo. E ho iniziato a sognare. A volte ero in compagnia di un’anziana coppia, sapevo che erano mio padre e mia madre, ma, in effetti, mi accompagnavano in un mondo finito da un pezzo, quello di cui avevano forse sentito parlare dai loro padri e dalle loro madri. Tutto era semplice: andavamo al mercato, poi in un bar, dove ordinavo un gelato, per strada incontravamo delle persone, ci si salutava, ci si fermava a chiacchierare. L’aria era tiepida, ero calmo e felice. In altri casi invece, sì, ero sempre felice, ma non riuscivo a star fermo; ero eccitatissimo, fremevo come nel giorno del mio compleanno. Il mio corpo grondava, mentre avanzavo a grandi passi su una spiaggia, e sapevo che questa spiaggia era appena emersa dalle acque insieme con me. Camminavo su tappeti di alghe che si trasformavano in campi verdi e fioriti; fluttuavo nell’acqua che all’improvviso non era più acqua, ma una brezza fresca, inebriante. Avevo trovato la mia isola e correvo, il cuore colmo d’emozione, verso il sole dell’avvenire. Erano sogni ricorrenti… Maledizione! Finiva sempre nello stesso modo: con il diluvio. Incubi, quindi… Sì, nel primo caso, le onde irrompevano nel paesino, inghiottendo il mondo pacifico della mia infanzia. Mio padre era di colpo uno squalo, mia madre aveva le ignobili fattezze di una cernia gigante. Atroce! Nel secondo caso, era anche peggio: percorrevo la mia bella isola quando, arrivato su una collina, mi accorgevo che l’oceano l’aveva completamente inghiottita dall’altro lato e, con essa, il mio sogno di una vita terrestre.
Ma, vedi, quando tutto sembrava perduto, al colmo dell’angoscia, mentre sentivo spuntare di nuovo le orribili branchie, la macchia che avevo cercato di scacciare dalla mia vita cosciente, era sempre lì, a volte scura, a volte luminosa. Allora, decisi che mi sarei concentrato su di essa: “tanto vale provare”, mi dicevo, “non ho nulla da perdere”. Sì, la medusa è ritornata e io non le toglievo gli occhi di dosso. Ma aveva già cominciato a trasformarsi. In un primo tempo, aveva preso le sembianze di un grosso serpente marino, una specie di murena che danzava nell’oscurità come una saetta. Mi faceva un po’ paura, ma mi dicevo: “forse vuole attirare la tua attenzione, dirti qualcosa, mostrarti un passaggio”. Poi, si è trasformata ancora, a poco a poco il suo corpo ha preso forma: si era completamente ricoperto di squame argentate, ma percepivo comunque una silhouette – dei fianchi, un busto, forse una testa. Con i riflessi del sole, era bello. Ero pieno di meraviglia e avevo voglia di ritrovarla subito. Più la guardavo, più si tormentava. Il suo corpo fremeva, si torceva in modo orrendo. E poi ho notato che era spuntato qualcosa dal tronco, sotto i fianchi, due monconi di carne biancastra, che si allungavano di giorno in giorno. Pietà! Sembrava soffrire enormemente, allora, ho avuto il desiderio di parlarle: “Perché non piangi? Potrebbe alleviare il tuo dolore”, le dico. “Vorrei tanto, ma le sirene non hanno lacrime e per questo soffrono molto di più”, rispose teneramente. “Ma perché lo fai allora? Perché non smetti di torturarti?” “Non posso fare altro. Lo faccio per amore.” Alla fine, ho capito che l’avevo sempre sognata. Adesso ha le gambe, ma ha conservato comunque la sua superba coda di pesce e le sue eleganti pinne argentate. E anch’io ho intrapreso la mia strana mutazione, non mi fa paura, poiché avanziamo insieme. Che dire ancora? Alla fine, non so se sono stato io a cercarla, se è stata lei a incastrarsi accidentalmente in una delle mie macchine, o se ha seguito le correnti del delirio per fare in modo che un giorno la incontrassi. So solo che ci amiamo, e forse è questa la via d’uscita che può condurre a un’altra forma di vita. Viviamo sempre in un oceano nel quale la realtà e lo spettacolo si confondono alla radice, come le eliche intrecciate del DNA. Noi stessi siamo ibridi incerti, creature proteiformi, lo sappiamo fin troppo bene. Non rinunciamo a farci trascinare dalla molteplicità dei flussi, coltivando la nostalgia dell’ordine, delle frontiere, dei regni e delle gerarchie; ma non surfiamo nemmeno sulle onde di quest’oceano senza confini, confondendo allegramente libertà e godimento. No, siamo gli ibridi che corrono il rischio di tagliare i flussi, per veder zampillare le domande; siamo gli amanti che cercano le intensità elettriche, gli shock del pensiero, da togliere il fiato… Vi chiedo scusa, ma adesso devo prepararmi. Mi aspetta. Ho già tirato fuori il mio abito migliore, spero che le piaccia. Ho dovuto tagliare i pantaloni, sapete, conservo ancora le mie gambe scimmiesche e sono costretto ad andare a piedi nudi. Ma a lei piacciono i miei peli almeno quanto a me piacciono le sue squame, e i nostri corpi non smettono di mescolarsi e di trasformarsi. È stupefacente! Ah, non ho ancora detto come si chiama. Il suo nome è…
Lo spettacolo dell’obbedienza: tutta una storia In Svezia, il canale SVT2 ha recentemente proposto un nuovo reality show intitolato Diktatorn (“Il Dittatore”). Trasmesso dalla fine di ottobre 2014, il programma, suddiviso in quattro episodi, filma quattro ragazze e quattro ragazzi chiusi in un ospedale dismesso e costretti a obbedire a un dittatore virtuale. “Rispettare il coprifuoco, il lavoro è la vita, non esitare a denunciare gli altri”: questi i principi di base che dovrebbero insegnare ai partecipanti (e al pubblico) a detestare la dittatura e, di conseguenza, ad apprezzare meglio la democrazia. Ogni giorno, i candidati devono eseguire compiti ripetitivi e avvilenti (per esempio suddividere delle graffette in base al colore per cinque ore), nella speranza di guadagnare un bel gruzzolo (11.000 euro). Lo spettacolo ostenta una finalità educativa ma, se accettiamo di guardarlo da questo punto di vista, appare subito un paradosso: il vincitore non sarà il ribelle, ma chi si sarà sottomesso alle regole. Questo programma sembra riprendere, in chiave televisiva, l’esperimento condotto nel 1967 dal professore di storia Ron Jones, con un gruppo di studenti della Cubberley High School a Palo Alto (California): non riuscendo a spiegare loro come fosse stato possibile che i cittadini tedeschi, durante la seconda guerra mondiale, avessero permesso lo stermino degli ebrei da parte del regime nazista, decise di creare una situazione di dittatura simulata e fondò con i ragazzi un movimento chiamato “The Third Wave”. Si tratta di un esperimento abbastanza conosciuto, ripreso in forma di romanzo, di spettacolo teatrale e, più recentemente, di film (L’onda, 2008), a dimostrazione del grande capitale mediatico che questo tipo di esperimenti di “psicologia sociale” possiede. Uno dei più celebri è senza dubbio l’esperimento sull’obbedienza all’autorità legittima, realizzato alla Yale University da Stanley Milgram all’inizio degli anni ’60. Noto anche come “esperimento Eichmann” (dal nome del funzionario nazista incaricato della logistica della deportazione e dello sterminio degli ebrei, che nel 1961 fu processato e condannato a morte a Gerusalemme), inaugura la tendenza a utilizzare la storia del totalitarismo come una sorta di specchio per interrogare il presente: le stesse derive mostruose dell’obbedienza potrebbero verificarsi anche in un contesto liberale e democratico? A questo proposito, vale la pena ricordare l’esperimento condotto nel 1971 presso l’Università di Stanford da Philip Zimbardo, il cui obiettivo è cercare di comprendere come persone comuni, calate in particolari situazioni, possano diventare degli spietati carnefici. Anche quest’esperimento ha ispirato vari film, ed è stato recentemente ripreso, dallo stesso Zimbardo, in un libro sollecitato dalle immagini scioccanti provenienti dalla prigione di Abu Ghraib, in Iraq (The Lucifer Effect : How Good People Turn Evil, 2007). Arriviamo così a quello che costituisce probabilmente il precedente più diretto della trasmissione svedese: il documentario Le jeu de la mort, trasmesso per la prima volta il 17 marzo 2010 da France 2. Coadiuvato da un’équipe di scienziati, Christophe Nick, ha inteso trasporre nell’universo televisivo l’esperimento di Milgram, allo scopo di misurare il potere che la tv esercita sulle persone. Il problema è che, come nel caso di Diktatorn, non si riesce più a distinguere ciò che appartiene all’esperimento scientifico (e al valore pedagogico che gli si attribuisce), e ciò che appartiene invece allo spettacolo (con la sua logica specifica di captazione dell’interesse del pubblico mirante ad aumentare l’audience). Tocchiamo qui, probabilmente, una questione cruciale. Il problema, infatti, non è tanto di denunciare l’imbroglio, in nome di un ideale di purezza morale o professionale, quanto piuttosto di mostrare la potenza di un ibrido: sempre più, oggi, non solo grazie alla tv, ma anche ai social network (quindi, in definitiva, a ciascuno di noi), la realtà non si distingue più dal suo spettacolo. Quest’indistinzione comporta, evidentemente, una serie di cambiamenti – al tempo stesso ampi, diffusi e profondi – nel nostro modo di pensare, di agire e di vivere.
Si dice spesso che, con questo tipo di reality, si superano i limiti, ci si spinge “troppo lontano”; ma quello che sarebbe importante cogliere, è che queste trasmissioni riposano su un dispositivo attivo da molto tempo: sono un po’ come la coscienza filosofica secondo Hegel, vale a dire la nottola di Minerva che prende il volo solo al crepuscolo, quando la storia ha già fatto il suo corso. Abbiamo cercato di abbozzare una genealogia del “reality show” – in quanto perfetta fusione della realtà (quella, per esempio, che la scienza intende documentare) e della finzione (della mediatizzazione o della messa in spettacolo della realtà) – in un saggio pubblicato nel 2013 (Come pesci nell’acqua. Prospettive genealogiche sulla mediatizzazione del quotidiano, éd. fr. “Multitudes”, n. 51; trad. it. “aut aut”, 359/2013). In quest’articolo, ci è parso di scorgere la nascita del “reality show” in una scena svoltasi, negli Stati Uniti, dopo la fine della seconda guerra mondiale, e avente come protagonisti, da un lato, Allen Funt, uno dei pionieri della Reality TV, inventore in particolare del programma Candid Camera, e, dall’altro, Milgram e Zimbardo, entrambi esponenti della psicologia sociale. Questi ultimi consideravano la trasmissione di Funt come un contributo fondamentale alla comprensione della realtà sociale, ma, al tempo stesso, erano molto sensibili rispetto alla sua dimensione spettacolare, tanto è vero che hanno finito per reinvestirla nei loro esperimenti scientifici, al fine di renderli più accattivanti per il pubblico. In effetti, se si guarda il film Obedience, realizzato nel 1965 da Milgram come strumento pedagogico per illustrare la sua esperienza, non è – mutatis mutandis – diverso da trasmissioni come Le jeu de la mort e Diktatorn, per la semplice ragione che si presenta come una sorta di Candid Camera dagli scopi e i contenuti direttamente scientifici: in altri termini, la realtà psicologica dell’obbedienza non si distingue dallo spettacolo psicologico dell’obbedienza. Come diceva lo stesso Milgram: “È possibile che il modo di comprensione dell’uomo che cerco di realizzare, sia un amalgama di scienza e arte. Sarà senz’altro rifiutato sia dagli scienziati, sia dagli artisti, ma rimane per me significativo”. Nell’ultima edizione del Festival de Libertés (Bruxelles, ottobre 2014), dedicato al tema dell’obbedienza e della disobbedienza, con il collettivo Action30 abbiamo presentato la performance-‐spettacolo Nage, nage petit poisson. Dés/obéir à l’époque de la téléréalité: immerso nell’universo mediatico in cui tutto si confonde, il protagonista scopre improvvisamente di essersi trasformato in un pesce e comincia a interrogarsi sulla sua nuova condizione alla ricerca di una via d’uscita (nel testo La scimmia a la sirena, adattato in funzione dello spettacolo, la riflessione si nutre di una serie di riferimenti filosofici e letterari, percepibili in filigrana: il percorso del dubbio nelle Meditazioni cartesiane, e la considerazione di Foucault nella Storia della follia sull’esclusione della follia da parte del soggetto che dubita; l’antinomia kantiana tra necessità e libertà, e la linea di fuga di Deleuze; il racconto di Kafka Una relazione accademica, e il libro di Deleuze e Guattari Kafka, per una letteratura minore; il racconto di Andersen La sirenetta). Infatti, la perfetta ibridazione della realtà e del suo spettacolo rischia di dissolvere tutte le opposizioni sulle quali il nostro modo di pensare è fondato: il vero e il falso, il bene e il male, il giusto e l’ingiusto, il pubblico e il privato. In particolare, potremmo chiederci se, a queste condizioni, l’opposizione tra obbedire e disobbedire sia ancora operativa, e, di conseguenza, se la scelta tra queste due opzioni sia ancora possibile e abbia ancora un senso. Forse, oggi, il problema è “cognitivo” prima di essere “morale”. Come riuscire a pensare – ad analizzare, a riflettere, a porsi ancora delle “domande” – stando immersi nell’oceano mediatico che noi stessi, tutti i giorni, alimentiamo? Questo interrogativo tocca precisamente la questione dell’attuale crisi della democrazia o, come dicono alcuni, delle nuove forme di “fascismo” che sorgono nel cuore della libertà: l’antifascismo del terzo millennio potrebbe essere prima di tutto cognitivo.
Pierangelo Di Vittorio Filosofo e scrittore. Dottore di ricerca in filosofia delle Università di Strasburgo e di Lecce, ha partecipato di recente alla ricerca “Construction des catégories de la santé mentale” (Maison des Sciences de l’Homme d’Aquitaine, Universités de Bordeaux). È autore di numerose pubblicazioni, tra cui Foucault e Basaglia, L’incontro tra genealogie e movimenti di base (Verona, 1999) e, con Mario Colucci, Franco Basaglia (Milano, 2001). È stato tra i curatori del volume collettaneo Lessico di biopolitica (Roma, 200§). Con il collettivo Action30 ha realizzato il volume L’uniforme e l’anima. Indagine sul vecchio e nuovo fascismo (2009), e ha scritto: il cortometraggio Grande Brasserie Cyrano (2009), centrato sulla polemica tra Georges Bataille e André Breton, lo spettacolo Constellation 61, Entre histoire e magie (2011: coprodotto con l’Autre a« lieu », Bruxelles Laïque e il Théâtre National de Belgique), dedicato alla trasformazione della psichiatria nel XX secolo, e la performance-‐spettacolo Nage, nage petit poisson, Dés/obéir à l’époque de la téléréalité (Festival des Libertés, Bruxelles 2014). Sul tema dell’obbedienza e della disobbedienza nell’epoca del reality – si veda: – la conferenza multimediale Liberi di non esserlo. Perché siamo diventati così obbedienti?, presentata per la prima volta al “Botanique” su iniziativa di L’autre « lieu » (Bruxelles, 28 ottobre 2010), e i cui contenuti sono stati in parte ripresi nel saggio Au-‐delà du normal et de l’anormal, Hypothèses sur l’homme néolibéral (Essaim, 31/2013). – i saggi: Carismi del reale. L’opera d’arte nell’epoca del marketing e dello spettacolo (éd. fr. “Multitudes”, 48/2012; trad. it. “aut aut”, 353/2012) e Come pesci nell’acqua. Prospettive genealogiche sulla mediatizzazione del quotidiano (éd. fr. “Multitudes”, 51/2012 ; trad. it. “aut aut”, 359/2013). maggiori informazioni: http://pdivittorio.wordpress.com