L’Aquila e la Spada
Titolo: L’Aquila e la Spada Autore: Alvaro Gradella
© 2013 Runa Editrice via Misurina 4, 35035 Mestrino (PD) www.runaeditrice.it - [email protected]
ISBN 978-88-97674-25-2 PROPRIETÀ LETTERARIA RISERVATA Copyright 2013 Runa Editrice
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Stampato per conto di Runa Editrice nel mese di dicembre 2013 da Projectimage, Mestrino (PD) su carta ecologica certificata FSC
Alvaro Gradella
L’AQUILA E LA SPADA
RUNA EDITRICE
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Tra Storia e Leggenda…
Il viaggio di Alvaro Gradella
La Leggenda, sia che riguardi avvenimenti o personaggi, non nasce
mai da fatti del tutto immaginari, ma ha in sé sempre una parte di verità
storica, che viene trasformata grazie alla fantasia di un popolo che la ri-
tiene fondamentale per il proprio patrimonio culturale. Ed è questo che la
distingue dal Mito, il quale non ha bisogno di fondare su dati reali, per-
ché pone le sue radici su verità religiose e di pensiero, che rivelano
l’anima d’una comunità.
Ne L’Aquila e la Spada, il primo romanzo di Alvaro Gradella, l’au-
tore, infatti, nel suo avvincente racconto, riprendendo la leggendaria fi-
gura di Macsen Wledig, mitico eroe dei bardi, ci chiarisce, con ricchezza
di dettagli storici, come questa, in realtà, rispondesse a quella di Magno
Clemente Massimo, ultimo Governatore romano delle Britannie.
Da sempre appassionato di storia romana, Gradella ci offre un affre-
sco vivido ed intenso dell’Impero Romano del IV secolo dopo Cristo: un
periodo storico drammatico, caratterizzato da cruente lacerazioni interne
e continui spostamenti d’intere popolazioni barbariche all’interno dei
confini romani. Di frequente, l’autore ci conduce su campi di battaglia,
dove le manovre e le tecniche belliche sono ricostruite con grande preci-
sione, studiate nei minimi particolari tattici.
Il romanzo inizia, tra l’altro, con la descrizione della tragica sconfitta
dei Romani ad Adrianopoli, in Tracia, nel 378, dove trovò la morte lo
stesso imperatore d’Oriente Valente. Magno Massimo, uno dei pochi so-
pravvissuti alla battaglia, secondo il racconto di Gradella, dopo aver ri-
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portato all’Imperatore d’Occidente, Graziano, l’anello d’oro di Valente,
verrà nominato Comes Britanniarum.
Ed è da questo momento che avrà inizio la sua grande avventura: in
questa terra, pervasa d’un magismo mistico, le sue gesta, volte a riporta-
re la pax romana, rimarranno incancellabili nella memoria dei Celti della
Britannia.
Magno Massimo, unico tra i non nativi, diverrà uno dei protagonisti
del Mabinogion (libro costituito da un gruppo di testi in prosa, prove-
nienti da antichi manoscritti gallesi, contenenti storie dell’Alto medioevo
e miti remoti) nel racconto Breuddwyd Macsen Wleding.
Per la storiografia ufficiale, tuttavia, la sua figura è rimasta condanna-
ta alla damnatio memoriae, come quella d’un usurpatore. Ma si sa che la
storia spesso è un insieme di menzogne, di imbrogli: un insieme di vitto-
rie risibili e sconfitte immeritate.
Le pagine del libro si susseguono vivide ed incisive, lo sguardo
dell’autore si posa con l’attenzione, propria di un consumato regista, su
ogni più piccolo dettaglio ed ogni ambientazione è studiata nei minimi
particolari. Lo stile chiaro e limpido segue il ritmo della narrazione, ren-
dendola estremamente efficace. Alvaro Gradella s’immerge in un mondo
storico-leggendario con la consapevolezza di chi conosce a fondo non
solo le vicende storiche, ma l’animo e la spiritualità stesse di due popoli
così diversi: quello romano e quello dei britanni, destinati a fondersi. Al-
la concretezza, infatti, dello spirito romano, si contrappone la cultura dei
celti, popolata di riti magici, di druidi e di fate, dove ha un’anima anche
il più piccolo fiore.
Elain, la Principessa che nel romanzo sposerà il nostro eroe, afferma
in uno dei momenti più delicati e lirici del racconto: “Sai, noi Celti cre-
diamo che ogni creatura vivente abbia dentro di sé una scintilla di forza
in grado di influire su chi sa riconoscerla e avvertirla. Gli esseri umani
hanno l’anima, splendente e sonora. Negli animali s’agita uno spirito ro-
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vente e vitale che riecheggia caratteristiche e inclinazioni umane. I vege-
tali hanno una propria essenza, trasparente e vibratile.” La vicenda
d’amore, che legherà per sempre Magno Massimo alla terra dei Celti, si
può dire rappresenti la conciliazione tra Apollo e Dioniso: la bellezza di
un nuovo sentire.
Con grande perizia l’autore si sofferma a descrivere luoghi, costumi,
paesaggi, dettagli d’ambientazione geografica e scenari fantastici. La na-
tura ha un ruolo importante in questo scenario; molto suggestive sono le
immagini che Gradella ci regala della fatata Britannia: “Le api s’affan-
navano nuovamente fra corolle dai tanti colori; il caprifoglio e il bianco-
spino, dai piccoli fiori, spuntavano fra le macchie, e il profumo dell’erica
e della ginestra sembrava permeare ogni cosa, mentre le grandi foreste di
querce e di faggi, di aceri e di frassini - di nuovo percorse senza tregua
da scoiattoli , donnole e martore - s’ammantavano rigogliose di verde
brillante, e dal mare la brezza spirava fertile”.
L’Aquila e la Spada è un romanzo che a buon diritto si può definire
storico, perché molti dei personaggi, che si muovono attorno al protago-
nista, sono realmente esistiti e con grande esattezza geografica e crono-
logica l’autore ci descrive gli avvenimenti che caratterizzarono l’Impero
romano del IV secolo, destinato ormai ad un inevitabile declino. Un
aspetto di grande importanza, che viene puntualmente ricordato da Alva-
ro Gradella, è inoltre quello relativo alla questione religiosa. Prima Gra-
ziano, infatti, e successivamente, in modo ancora più deciso, Teodosio
avevano imposto il Cristianesimo come unica religione, bandendo dai
confini dell’Impero ogni altro culto. Questa svolta, nella politica religio-
sa, costituì uno dei motivi di forte tensione tra i legionari di Magno Mas-
simo, perlopiù ancora legati al culto di Mitra, e li spinse a proclamarlo
Imperatore. Il libro, inoltre, come già precisato, è ricco di suggestioni e
di fantasia: dall’invincibile Spada di Macsen - forgiata da un misterioso
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fabbro (lo stesso che aveva realizzato le saette di Giove, la corazza
d’Ercole, l’armatura e lo scudo di Marte) - nascerà la leggenda di Re Artù.
Realtà e finzione, dunque, in un abile gioco, s’intersecano e s’alter-
nano lungo le pagine di questo romanzo, che ci restituisce la grandezza
di due straordinarie culture, all’apparenza inconciliabili, e recupera, co-
me scrive Biagio Cacciola, un periodo storico decisivo per la Civiltà Eu-
ropea.
Raffaella Bettiol
Raffaella Bettiol, operatrice culturale da diversi anni, è autrice di vari saggi su poeti
italiani contemporanei. Nel 2002 per l’Archinto ha curato l’antologia Il mio bicchiere da
viaggio-Otto poeti italiani d’oggi, che è stata presentata alla mostra del libro di Torino.
Tra le sue raccolte poetiche si segnalano: L’Anima Segreta (Panda, Padova, 1997); Ipo-
tesi d’amore (Marsilio Venezia 2006); Una sprovveduta quotidianità (Pequod,,Pesaro,
2008). Ha curato, assieme a Bruno Pellegrino, la biografia: Giuseppe Bettiol-Una vita
tra diritto e politica (Cleup, Padova, 2009) Collabora alla rivista online Pelagos lettera-
tura diretta da Umberto Piersanti. Attualmente ricopre la carica di presidente della Socie-
tà Dante Alighieri, Comitato di Padova.
A mia madre,
amorevole quercia sempreverde…
Avvertenza per il lettore
Per favorire la comprensione del contesto in cui si svolgono i fatti narrati
nel romanzo, il lettore troverà alle pagine 12 e 13 la mappa dell’Impero
Romano com’era all’epoca e a pagina 89 la contemporanea cartina della
Britannia.
Utili ragguagli si trovano anche nell’APPENDIX a pagina 366.
Qui, oltre a una interessante Cronistoria di Roma d.C., sono presenti le
Fonti bibliografiche, la Toponomastica antica e moderna dei luoghi citati
e una tabella di comparazione fra alcune Unità di Misura romane e attuali.
Per ulteriori riferimenti sono attivi
il sito ufficiale www.laquilaelaspada.com
e la pagina Facebook.
Sequebantur furore ex oculis lucente barbari nostros nec enim saepe renitentibus cedebatur, aut parcebat cedentibus quisquam.
I barbari, gli occhi foschi di furore, si avventavano sui nostri...
Nessuna tregua per chi resisteva, né misericordia per chi si arrendesse.
AMMIANO MARCELLINO, Historiae, XXXI, 12-13
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I
Haemimontus, Thracia
Piana di Hadrianopolis
9 agosto 378 a.d.
I tuoni galoppavano fra grevi nuvole grigie e le grida dei feriti sembra-
vano invocare la pioggia, affinché scendesse a lavare tutto quel sangue.
L’aria immota scuriva, al calar della sera, e la pioggia - sorda e avara
- seguiva i tuoni a oriente, verso il Pontus Euxinus, non lasciando neppu-
re una goccia a bagnare la piana della città d’Adriano; né agosto promet-
teva frescura, nemmeno con le prime ombre, gravando ogni cosa di un
umore color del metallo.
Chi aveva creduto in un Dio lo bestemmiava, e chi non aveva Dei cui
imprecare malediceva chi l’aveva partorito.
Alcuni cavalieri vagavano, isolati, stringendo con forza fra le ginoc-
chia la groppa del cavallo che incespicava fra i corpi a terra, troppo nu-
merosi per lasciar spazio agli zoccoli: con vago interesse, scrutavano al
suolo qualche raro barlume di vita e, con un distratto colpo di picca, vi
ponevano fine.
Un grido disperato, più acuto degli altri, vagò fra i corpi, quasi cercan-
do chi ancora vivesse. E, con un gran respiro, come da una polla d’acqua
scura, qualcuno che credeva d’essere già morto riemerse dolorante alla
coscienza.
Quale battaglia era - fu la prima cosa che si chiese - quella che aveva
combattuto? L’opprimeva la feroce afa africana, alleata dei Mori, o la
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molle calura delle paludi batave, alle foci del Rhenus?
Avrebbe voluto aprire gli occhi ma, come nei suoi incubi di bambino,
per quanto si sforzasse, non ci riusciva; eppure, stranamente, nulla che
assomigliasse al panico di allora sopraggiungeva.
Era qualcos’altro che continuava a tormentarlo: contro chi aveva
combattuto, e dove?
Per quanto si lambiccasse il cervello, non riusciva a ricordarlo. Sape-
va solo che questa era stata per lui l’ennesima battaglia. Sapeva che, in
qualche modo, era stato ferito, ma che doveva fingersi morto, se non vo-
leva che qualche vincitore vagabondo lo finisse. Perché, anche questo
sapeva, quest’ultima battaglia era stata perduta, e la sconfitta gli alitava
negli orecchi.
Altro non poteva fare che giacere, sfinito e dolorante, fra il groviglio
inestricabile di tutti quei corpi.
Delle voci. Aspre come l’idioma dei barbari cui esso apparteneva.
Eppure, benché avesse l’inspiegabile certezza di non essere anch’egli un
barbaro, capiva benissimo quel che essi latravano.
Ma, allora, se non era un barbaro, che cos’era?
«Fritigerno!» urlò qualcuno, poco distante.
Lo sbuffo di un cavallo accompagnò un grugnito di riposta. Erano vi-
cinissimi. Se si fossero accorti che era ancora vivo non avrebbe avuto
scampo. Immobile, continuava a ripetersi quel nome straniero, ma, non-
dimeno oscuramente familiare, cercando di afferrare le piume svolazzan-
ti di un ricordo.
«Fritigerno, alcuni dei nostri sono tornati da Hadrianopolis. Dicono
che, più che una città, è una fortezza. Mai visto mura così massicce! Ab-
batterle sarà un’impresa.»
«Abbatterle?! Non sono in guerra con le pietre, io! Ce ne andremo da
qui. Cercheremo bottino altrove.»
«A Costantinopolis?»
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«Idiota! E tu credi che Costantinopolis, la capitale dell’Impero
d’Oriente, abbia mura meno spesse?! Andremo dalla parte opposta, a oc-
cidente, verso la Dacia, la Pannonia… e anche l’Italia, certo!»
«Come vuoi, Fritigerno. Andrò a dirlo ai capi guerrieri.»
«E poi, quante volte devo dirti di chiamarmi Giudice?! Io sono Friti-
gerno, il Giudice Supremo dei Goti!»
«Certo, certo… Anche tuo fratello Alavivo dice la stessa cosa, anche
lui è il Giudice dei Goti! E, assieme a voi, altri sei o sette…»
«Già…» ruggì l’altro «Ma sono io, Fritigerno, che ho fatto a pezzi i
Romani!»
Il brusco tintinnio dei finimenti rivelò, a lui che giaceva, lo scatto in
avanti dei cavalli, incitati dalle urla dei barbari. Le stesse urla che aveva
sentito in battaglia, quel giorno. Altrettanto laceranti e improvvisi come
lampi, s’affacciarono i ricordi: i volti stanchi dei legionari romani - da
ore schierati sotto l’afa agostana - che a fatica sostenevano i grandi scudi
rotondi… le orde dei Goti, sterminate e frementi… le trattative estenuan-
ti e il rincorrersi degli ambasciatori lungo la terra di nessuno… lo sguar-
do ansioso del Duca Vittore… la smorfia ostinata del Conte Sebas-
tiano… e Flavio Valente Augusto, Imperatore Romano d’Oriente, sul
suo cavallo, con il gracile corpo, rattrappito dalla gobba per cui i soldati
lo schernivano, proteso a cercare la cavalleria romana, così lontana -
troppo! - dalle schiere dei pèdites. E poi, improvvise, le frecce, inopina-
tamente scagliate dalle truppe del centurione Bacuro… l’imprecazione di
Vittore e la costernazione del suo pari Arinteo… il devastante contrattac-
co dei barbari… la rotta disperata dei Romani a cercar rifugio fra i cam-
pi…
Ora ricordava: rivide se stesso affrontare con gli altri la carica arrem-
bante dei Goti; risentì il grido metallico della propria spada spezzata dal
colpo di un martello barbaro, e il cavallo, dilaniato ai garretti, che di
schianto crollava sotto di lui, trascinandolo.
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Sarebbe stato meglio non ricordare.
Supino, sentiva scorrere le lacrime lungo le tempie. Con un grugnito,
lottando contro mille fitte di dolore - cautamente, lentamente - si alzò su
di un gomito, sfregandosi, d’istinto, gli occhi con l’altro braccio.
E tornò a vedere: semplicemente, il sangue rappreso aveva ceduto alle
lacrime, e aveva potuto riaprire le palpebre.
Non s’aspettava, però, quello che vide.
Come rovi, irti di picche, lance e spade, i corpi dei caduti s’intrec-
ciavano inestricabilmente, coprendo tutta la vasta piana, in uno stermina-
to e dolente tappeto di cadaveri.
Perchè mai quella vista lo straziava così? Era un veterano che cono-
sceva la morte e lo sterminio, l’abitudine al sangue e al dolore gli era
compagna da anni, ormai! Eppure, tanto ne soffriva vedendoli, che tutti
quei morti sembrava gli fossero fratelli… Fratelli…
E, finalmente, senza più ostacoli, anche la sorgente del suo dolore
emerse alla coscienza: quei morti, tutti quegli innumerevoli morti sulla
piana di Hadrianopolis erano soldati romani. Come lui.
Ma, lui era vivo. E gli mancava ancora una tessera per ricomporre il
mosaico di se stesso. La sua mano salì alla spallina della corazza, cercò
fra le trecce e strinse la tabella.
Respirò a fondo, prima di guardare.
C’era scritto: Magnus Clemens Maximus - Dux Moesiae Secundae.
Magno Clemente Massimo, Comandante Generale della Moesia Infe-
riore: questi erano il suo nome e il suo grado.
La caligine nella sua mente si dissolse, finalmente, e riprese a vivere.
Guardandosi cautamente intorno, vide solo poche, lontane figure a
cavallo. Era il momento d’andarsene da lì.
Lentamente, prese a strisciare, come un fantasma, fuori da quell’im-
menso cimitero d’insepolti, quasi attendendosi che una mano spuntasse
dal mucchio ad afferrarlo, per chiedergli conto della sua vita e della pro-
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pria morte.
Poi, finalmente, la boscaglia attorno alla piana lo accolse nell’ombra;
si rese conto che il metallo della corazza e degli schinieri - l’elmo giace-
va da qualche parte, sul campo di battaglia - gli pesava tanto da sembrare
rovente: quindi, li tolse, con movimenti incerti, e li nascose sotto un ce-
spuglio; mantenne solo il giaco di cuoio, sopra la veste e le brache, e si
appese al collo la tabella. Poi, aggrappandosi a un albero, si alzò in pie-
di, come fosse la prima volta.
Malfermo, levò lo sguardo verso la grande chioma scura che sembra-
va offrirgli riparo; le sue braccia stringevano spasmodicamente il tronco
massiccio che lo sosteneva con forza indicibile; le sue dita livide scorre-
vano le innumerevoli increspature della corteccia, pregna dello sferzante
odore di una vita secolare. Chiuse gli occhi, e immaginò la linfa scorrere
dalle radici profondamente ancorate alla Madre Terra fino al fusto, e poi
su fino alle miriadi di foglie che stormivano verso il cielo; si vide fon-
dersi con quel tronco possente, intrecciando le proprie vene con i vasi
vegetali… «Donami» pregò «una sola stilla della tua potenza antica, e io
sopravviverò.» Pianse, questa volta singhiozzando, e le sue lacrime scor-
sero lungo la corteccia.
Ma, c’era quell’odore nelle sue narici, e quelle ruvide crespe sotto le
sue dita, e quel tronco che gli rimandava potente il battito del suo cuo-
re… Era come se quel gigante fronzuto lo stimolasse, incessantemente,
impedendogli di abbandonarsi.
Scosse la testa con forza, e sentì la sua anima di soldato risalire la
china del dolore e dello scoramento, e i sensi - se non le forze - vibraro-
no nuovamente. Aveva bisogno, però, di un rifugio, di acqua, di riposo…
Guardandosi intorno, aguzzò lo sguardo, e ciò che gli era dapprincipio
sembrato uno scherzo dei propri occhi velati si rivelò, invece, davvero
una capanna di contadini in una piccola radura, a un centinaio di passi
dentro la boscaglia. Doveva raggiungerla.
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Lentamente, abbandonò il sostegno dell’albero e saggiò il proprio
equilibrio e la propria forza: si sentiva meglio… Sì, ce l’avrebbe fatta!
Prima di muoversi, guardò per qualche attimo l’essere cui - fino a
qualche attimo prima - si era aggrappato preda dell’avvilimento: unico
ed estremo soccorso per non soccombere. Eppure, sembrava un semplice
albero…
Si avviò lungo una pista appena accennata, dapprima camminando
incerto, poi sempre più rinfrancato dalla vista di un riparo come quello,
troppo umile - pensava - per sollecitare l’attenzione dei barbari, affamati
di ben altre prede.
Si sbagliava, invece. Stava per entrare nella radura per raggiungere la
casupola di legno e paglia, quando il suono di molti zoccoli, grida e risa-
te, montò, improvviso, alle sue spalle.
Istintivamente, abbandonò la pista e si gettò di lato, grato al fitto sot-
tobosco di rovi e al crepuscolo che lo rendevano invisibile al gruppo di
cavalieri che, sfiorandolo, entrò sfrenato nello spiazzo.
Erano Goti, vestiti di tessuto grezzo e di cuoio, armati di spadoni e
mazze: i lunghi capelli inanellati da monili preziosi e gli elmi cornuti o
alati rivelavano che si trattava di capi, non di semplici guerrieri.
Tutti i barbari del nord erano fisicamente imponenti, e così anche
questi; ma, soprattutto uno di loro attirò l’attenzione di Magno Massimo,
e non solo perché sembrava il più poderoso: gli altri cavalieri - alcuni
brandendo una torcia - gli facevano ala, e i suoi occhi da lupo, scurissi-
mi, ma luminosi della viva intelligenza di un capo, saettavano sicuri
dall’uno all’altro. Da dietro il suo nascondiglio di rovi, il Duca romano
lo riconobbe immediatamente, ancor prima di risentire la sua voce: ecco
Fritigerno, il vincitore della battaglia di Hadrianopolis, colui che li aveva
sgominati in quella terribile giornata.
Il condottiero goto era l’unico a portare qualcosa sulla groppa del ca-
vallo. Con una manata scaraventò a terra ciò che a prima vista sembrava
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un fagotto di ricche vesti; ma, quando questo cadde al suolo, ne uscì un
lamento e si mosse. Le vesti, pur strappate e sporche di sangue, erano
raffinate e di chiara foggia romana, simbolo di alto lignaggio. Con una
stretta al cuore, Magno Massimo pensò a cosa i barbari avrebbero inflitto
a quel dignitario prima di trucidarlo.
Fritigerno scese da cavallo e si chinò verso il povero corpo, sollevan-
dolo da terra con facilità. Fu così che il Duca fuggiasco poté vederne con
chiarezza il viso.
Per qualche attimo, sperò che la vista lo ingannasse e il sangue e la
stanchezza offuscassero ancora la sua capacità di vedere; ma a nulla val-
se scuotere con forza la testa e tergersi ripetutamente gli occhi: con orro-
re, dovette infine ammettere a se stesso che colui che Fritigerno
mostrava ghignando agli altri compagni, maneggiandolo come un sacco
di stracci, era Flavio Giulio Valente, Imperatore Romano d’Oriente.
Tenuto sollevato da terra, l’Imperatore - ancor più piccolo di fronte al
massiccio goto - sembrava una grottesca bambola di pezza. I suoi occhi -
uno dei quali fortemente strabico - erano gonfi per le percosse; la pelle
del volto pendeva a brani, dove la barba era stata strappata con violenza.
Fritigerno sollevò senza sforzo il suo inerte trofeo, così da poterlo fis-
sare in volto.
«Valente, Imperatore Romano… Il nostro protettore!»
La parodia di una riverenza scatenò le grasse risate degli altri barbari.
«Non avresti dovuto accoglierci nel tuo bell’Impero se volevi trattarci
come schiavi! Ti abbiamo offerto le nostre spade e, invece di dignità e
protezione, in cambio tu ci hai imposto miseria e angherie. Già! Per te,
noi valiamo meno di quelle carogne di cane che i tuoi ufficiali ci davano
come cibo.»
Valente, il mento abbandonato sul petto, non mostrava la minima rea-
zione, mentre Fritigerno lo scuoteva rabbiosamente.
«Guai trattare un barbaro come fosse un barbaro, protettore dei Goti!»
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gli urlò in faccia il gigantesco condottiero.
Poi, quasi si fosse stancato di giocare con quel triste burattino, gettò
con fastidio Valente verso gli altri, che lo presero al volo, sghignazzan-
do. Magno Massimo vide il capo goto fissare per un attimo la capanna di
paglia, e poi, indicandola, far cenno verso i suoi. Con grida di giubilo fe-
roce, quelli trascinarono l’Imperatore verso di essa, spalancarono la porta
usandolo come un ariete e ve lo gettarono dentro.
Solo quando vide i barbari sbarrare con dei legni la porta e l’unica fi-
nestra, Magno Massimo capì come sarebbe morto Valente, Imperatore di
Roma. Fritigerno strappò di mano una torcia a uno dei suoi e, avvicina-
tosi alla capanna, iniziò a darle fuoco; come fosse un gioco, gli altri suoi
commilitoni fecero lo stesso, disputandosi le torce, fra risate e spintoni.
In pochi attimi, la vampa s’impadronì avidamente del legno e della
paglia della catapecchia, mentre le grida disperate di Valente e i suoi de-
boli colpi alla porta ottenevano come unico risultato lo scherno e i lazzi
dei Goti.
Solo Fritigerno taceva, fissando la capanna, il gelido volto da lupo il-
luminato dalle fiamme.
Poi si voltò bruscamente, dirigendosi verso la propria cavalcatura e,
con un gesto del braccio, ordinò ai suoi di montare a cavallo.
Una volta in arcione, il condottiero goto volse un’ultima volta lo
sguardo verso il falò, dove ormai ogni voce era spenta.
«Guai trattare un barbaro come fosse un barbaro!» ripeté con una
smorfia amara.
Un grido, un violento strattone alle briglie, e Fritigerno, il distruttore
dei Romani, tornò al galoppo verso la piana seguito da tutti gli altri.
Appena l’ultimo cavaliere sparì oltre gli alberi, Magno Massimo
s’affrettò zoppicando verso la capanna in fiamme e, come invasato, si
diede a rimuovere i legni dalla finestra, incurante dell’immenso calore.
D’improvviso, con uno schianto, le imposte si spalancarono per lasciarne
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uscire un avambraccio annerito e ustionato. Il Duca vi si avvinghiò di-
speratamente, cercando di trascinare fuori Valente attraverso la finestra,
ma il fuoco, ruggendo, sembrava non voler cedere la preda. Ormai esau-
sto, Magno Massimo diede un ultimo, violento strattone: la pelle del
braccio di Valente cedette come una guaina, rimanendogli fra le mani, ed
egli stramazzò all’indietro.
Rannicchiato a terra, dov’era strisciato poco distante, non poté fare
altro che guardare la capanna crollare sotto i morsi del fuoco, fra milioni
di scintille.
Sgomento, cercò di alzarsi, puntellandosi su di un gomito, e solo allo-
ra si rese conto che, oltre a brani di pelle annerita, fra le mani gli era ri-
masto qualcos’altro: l’anello imperiale.
Come sembrava inutile e vuoto, adesso, sul suo palmo, il massimo
simbolo di Imperium nella gloriosa e potente Roma! Stringerlo convul-
samente fra le dita annerite non serviva ad aiutarlo. E come avrebbe po-
tuto?! Ora, era completamente solo.
Gli anni d’addestramento, la consapevolezza del comando, il senso
d’appartenenza all’Impero più grande del mondo, l’affetto dei suoi
commilitoni: tutto questo, tutto ciò che gli aveva dato forza e sicurezza,
l’aveva abbandonato. Era indifeso e sconfitto, mentre la notte avanzava
fra gli alberi della foresta.
Nient’altro gli rimaneva che l’istinto di sopravvivenza. E solo grazie
a quello riuscì a mettersi in piedi di nuovo.
Come un animale braccato, si addentrò nel folto della vegetazione, ar-
rancando, incespicando, cadendo. Ogni ramo sembrava volerlo trattene-
re, impigliandosi alle sue vesti, ogni radice sembrava volerlo abbattere,
facendolo inciampare, ogni rovo sembrava volerlo ferire, graffiandogli le
carni; ma, ormai, Magno Massimo non si rendeva conto più di nulla.
Come un morto che cammina, continuò per ore ad arrancare penosamen-
te nel profondo della foresta, il più lontano possibile da quella sconfitta.
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Tentò solo una misera resistenza, prima di svenire, quando alcune fi-
gure indistinte uscirono silenziose dal buio, abbrancandolo e immobiliz-
zandolo. Senza una parola, venne trasportato a braccia oltre gli ultimi
anfratti della foresta, in una radura poco distante, e disteso al suolo.
Se fosse stato cosciente, Magno Massimo avrebbe riconosciuto subi-
to, alla luce delle tante torce accese in cima alle palizzate, le ordinate for-
tificazioni innalzate al centro di un grande spiazzo fra gli alberi, il
terrapieno e, oltre a esso, il fossato che le contornava; così come avrebbe
trovato familiari le cotte di maglia di ferro e i caratteristici elmi a baci-
netto indossati da coloro che ora lo scrutavano, intenti e incuriositi.
Uno di essi notò la tabella che gli pendeva sul petto e, sollevandola,
la girò verso la luce delle torce: con un’esclamazione soffocata, incredu-
lo, la mostrò agli altri.
«Per Mithra! Questo è il Duca Magno Massimo. Bisogna avvertire
immediatamente l’Imperatore!»
Alcuni si affrettarono verso l’entrata principale del castra fortificato,
segnalando a gesti alle sentinelle di aprire la grande porta di tronchi. Al-
tri sollevarono delicatamente da terra Magno Massimo e lo portarono a
braccia verso l’interno dell’unico posto dove il Duca sconfitto non si sa-
rebbe più sentito solo.