ORNELLA NALON
OLTRE I CONFINI DEL MONDO
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Serie BIG‐C Grandi Caratteri, lettura facilitata
OLTRE I CONFINI DEL MONDO Copyright © 2013 Zerounoundici Edizioni
ISBN: 978‐88‐6307‐654‐7
Copertina: immagine Shutterstock.com
Prima edizione Gennaio 2014 Stampato da
Logo srl Borgoricco - Padova
OLTRE I CONFINI DEL MONDO
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«Scrivi mama, ti prego, scrivi di quanto sono felice! Tu
che sei una mzungu1 e sei sempre in viaggio, puoi farlo sa‐pere al mondo della felicità che oggi porto nel cuore.» «Va bene Assireni, lo faccio volentieri. Ma che ne diresti di
cominciare dall’inizio e di parlarmi un po’ di te?»
«Io non so parlare di me. Non ho mai pensato a me stessa
come a una persona. Nessuno mi ha insegnato a farlo.»
«Ma tu sei una persona, e da come ti conosco sei anche
molto speciale! Ti aiuterò a farlo io, se vuoi. Cominciamo
dall’inizio; dimmi quando sei nata.»
«Non conosco la data esatta in cui sono nata. So solo che
era il mese in cui nascono gli agnelli di circa quarant’anni
fa. Ero la prima femmina dopo tre maschi. Mio padre non
dimostrò particolare gioia all’evento e lasciò totale libertà
1 mzungu: donna bianca
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della scelta del mio nome a mia madre, che invece fu mol‐
to felice di avere un componente del suo stesso sesso in
famiglia. Decise di chiamarmi Assireni che significa “lei è
bella”. Come puoi vedere, non sempre i significati dei
nomi corrispondono alle persone che li portano.»
La donna fece una breve pausa nella quale smise di guar‐
dare la sua interlocutrice e abbassò lo sguardo per osser‐
vare le sue mani ossute e callose.
«Perché dici così? Sei una donna ancora giovane, forte e
bella!»
«Oh no, non lo sono. Quando mi guardo, vedo solo
l’ombra della piacevole ragazza che sono stata. I miei oc‐
chi hanno perso la luce di chi si aspetta qualcosa di bello
dalla vita. Tu sei bella, mama Nora!»
«Oh Assireni! Non puoi dire questo! Io sono vecchia e cre‐
do che anche i miei occhi non posseggano più quella luce
di cui parli. Ma continua il tuo racconto.»
«Mi dissero che ci fu una grande festa quando mi venne
dato il nome, a cui partecipò tutto il villaggio. Furono uc‐
cise due pecore che furono cotte alla brace e poi c’erano
frutta, verdura e dolci in grande quantità. I miei parenti
lavorarono tre giorni per preparare tutto il cibo necessa‐
rio. Le danze e i canti durarono un giorno intero. Peccato
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che fossi troppo piccola per ricordarmi tutto questo, per‐
ché non ebbi altre occasioni da festeggiare.»
La donna si interruppe, sembrava non avesse altro da rac‐
contare. Nell’attesa che l’altra finisse di prendere appunti
e le facesse un’ulteriore domanda, cominciò a stropiccia‐
re, con le dita della mano destra, un lembo della sua gon‐
na colorata e lunga fino ai piedi.
“Chissà qual è il significato del mio nome” pensò Eleonora
in quel breve momento di silenzio, ripromettendosi di ef‐
fettuare in futuro qualche ricerca per scoprirlo. Subito
dopo continuò a intervistare Assireni.
«Ora parlami un po’ della tua infanzia.»
«Credo sia stata normale, come quella di tanti altri bambi‐
ni. Il mattino dovevo fare molta strada a piedi per andare
a scuola, ma era divertente perché andavo in compagnia
di altre bambine e ci raccontavamo un sacco di cose o
cantavamo. Non ricordo di avere giocato con i miei fratel‐
li. In quanto maschi, avevano dei passatempi completa‐
mente diversi dai miei e dalle mie amiche. Loro passavano
intere ore a fare a gara per costruire l’auto più bella; sco‐
vavano delle scatolette di metallo, vi attaccavano dei tap‐
pi di bottiglia per ruote e non so che altro per volante.
Oppure improvvisavano delle lunghe partite di pallone
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dopo aver costruito la palla con degli stracci arrotolati e
legati con dello spago. Non ci invitavano mai ai loro diver‐
timenti, e comunque noi non vi avremmo nemmeno par‐
tecipato perché ci piaceva fare dell’altro. Per esempio
cercavamo dei pezzi di cocci da usare come piatti, e le‐
gando con del filo alcuni piccoli fasci di paglia cercavamo
di dar loro la forma di una bambola. Intrecciavamo dei
gambi di fiori a dei fili d’erba e realizzavamo dei gioielli da
metterci in capo o al collo, e così diventavamo delle picco‐
le donnine eleganti che preparavano da mangiare e accu‐
divano la propria famiglia. Faceva parte del gioco anche
andare a prendere l’acqua dal pozzo, fino a dieci volte al
giorno, e comunque ogni volta che la mamma ce lo chie‐
deva. Non so ancora come facevamo a portare il peso di
quel vaso sulla testa; era grande quasi quanto noi! Molte
volte aiutavo mia madre a sistemare la nostra casa oppu‐
re nei lavori in cucina: sbucciavo le patate o impastavo
l’ugali2 che avrebbero costituito la nostra cena. E quando
c’era da battere le spighe del riso o da grattugiare la ma‐
nioca3 per ricavarne la tapioca io non mancavo mai. La se‐
ra ero talmente stanca che mi addormentavo improvvi‐
2 ugali: una specie di polenta fatta con farina di mais o di tapioca. 3 manioca: bulbo simile alla patata molto utilizzata nella cucina africana, da cui si può ricavare una specie di fecola chiamata tapioca.
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samente ovunque mi trovassi, ma il mattino dopo mi sve‐
gliavo presto ed ero contenta di cominciare una nuova
giornata perché, anche se faticosa, non avrei conosciuto
la noia e ogni compito avrebbe finito con il divertirmi.»
«Com’erano i tuoi genitori?»
«Papà lo vedevo molto poco. Per me era quasi uno scono‐
sciuto. Lui portava gli animali al pascolo e tornava a casa
di rado, oppure rientrava la sera, quando già ero addor‐
mentata. Quelle volte che avevo la possibilità di incontrar‐
lo lo salutavo appena, senza guardarlo in volto, perché mi
metteva soggezione. Anche lui, d’altra parte, non ha mai
fatto il minimo sforzo per farci avvicinare. Ma è così che
doveva andare. Quando i miei fratelli sono stati abbastan‐
za grandi, lo hanno seguito per imparare il suo mestiere,
mentre io sono sempre rimasta a casa con mia madre.
Mama Malaika è stata una brava maestra, per me. Mi ha
insegnato tutto quello che dovevo sapere per diventare
una buona moglie e mamma.
Un’unica cosa non ha saputo trasmettermi: la sua sereni‐
tà.
Sembrava sempre felice. Anche sotto il sole cocente,
mentre zappava o raccoglieva la mchicha4 che avrebbe in‐
4 mchicha: verdura da consumare cotta, simile ai nostri spinaci.
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zuppato con il sudore della fronte, la sentivo cantare. E
cantava anche quando portava i panni a lavare sulla riva
del fiume e vi rimaneva china per ore, li sbatteva sulla pie‐
tra, li ritorceva, li strofinava e continuava così, finché la
schiena le si sarebbe quasi spezzata. Non era mai triste.
Non l’ho vista piangere neanche quando Mosi e Akil ripor‐
tarono a casa, sulle spalle, il corpo martoriato di mio pa‐
dre. Le spiegarono che aveva cercato di salvare una muc‐
ca dall’attacco di un leone, ma che la lancia aveva ferito
l’animale solo di striscio e questi gli si era avventato con‐
tro e l’aveva ucciso. Poggiarono mio padre a terra, din‐
nanzi all’ingresso di casa e il sangue che colava dalle sue
ferite si confondeva con il rosso della terra. Vidi mia ma‐
dre prendere un catino con dell’acqua, inginocchiarsi vici‐
no a lui e la sentii pronunciare la frase:
“È stata la volontà di Enkai Nanyokie5 ora sarai nel luogo
dai grandi pascoli.”
Poi cominciò a lavargli con tocchi leggeri, come se temes‐
se di fargli male, prima il viso e poi tutto il resto. Rimase lì,
chinata sopra di lui, per molto tempo, anche dopo che
ebbe finito. Si alzò solo quando arrivarono i miei fratelli
5 Enkai Nanyokie: Enkay e il Dio della religione dei Masai, che è monoteista. Si rivela con colori diversi a seconda dell’umore: è nero quando è bonario (na-rok) e rosso quando è irritato (nanyokie).
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che erano andati a chiamare l’Oloibon6 per portare le spo‐
glie di suo marito nel luogo destinato ad accoglierle.»
«Tu come hai vissuto la morte di tuo padre? Quanti anni
avevi?»
«Ero piccola, avevo appena iniziato la scuola. Era la prima
volta che avevo a che fare con la morte e non sapevo an‐
cora bene di cosa si trattasse. Solo più tardi ho capito che
non avrei più rivisto mio padre, ma la cosa non mi scon‐
volse. Il suo lavoro venne portato avanti dai miei fratelli.
Come ti ho già detto, non avendo un grande legame con
lui, la mia vita continuò quasi senza accorgermi della sua
assenza e senza che per me ci fossero radicali cambia‐
menti.»
Eleonora aveva appena terminato di scrivere l’ultima frase
e stava per porre un’altra domanda, quando nella stanza,
irruppe Akil che gridò trafelato:
«Mama Nora, vieni presto. C’è bisogno di te. È arrivato un
uomo con una brutta ferita al braccio. Forse c’è bisogno
di amputare!»
Lei fece un balzo dalla sedia. Prima di seguire l’uomo che
stava uscendo in tutta fretta, invitò Assireni a presentarsi
6 Oloibon: essere spirituale in grado di funzionare da medium verso Dio Enkai per portare il suo messaggio alla gente.
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l’indomani alla stessa ora per continuare ciò che aveva i‐
niziato.
Quando ebbe finito di intervenire sul braccio martoriato
del nuovo paziente che, grazie al cielo e all’abilità
dell’equipe medica di cui faceva parte, riuscirono a salva‐
re, faceva già buio. Il caldo torrido aveva finalmente la‐
sciato spazio a una lieve brezza, pur sempre calda e umida
ma meno soffocante. Eleonora non vedeva l’ora di rien‐
trare nella sua stanza e di lavare dal suo corpo quella
sgradevole patina di sudore e polvere che vi si formava a
ogni fine giornata. Prima però volle passare nella stanzet‐
ta adiacente al refettorio per recuperare il block‐notes su
cui aveva preso gli appunti del racconto di Assireni. Spe‐
rava, una volta fatto il bagno, di non essere sopraffatta
dalla stanchezza e dal sonno e di avere ancora un po’ di
energia per riscrivere meglio quanto aveva frettolosa‐
mente buttato giù, sotto dettatura, qualche ora prima.
Non sapeva ancora cosa ne avrebbe fatto di quella testi‐
monianza, ma si sentiva in dovere di raccoglierla e di e‐
splicarla nel migliore dei modi che fosse stato in suo pote‐
re. Aveva come la sensazione di doverglielo, a quella gio‐
vane ma già vecchia donna, e si ripromise che in una ma‐
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niera o nell’altra avrebbe fatto in modo di esaudire il suo
semplice desiderio.
Ogni spugnatura fresca sulla sua pelle era come se por‐
tasse via un po’ della spossatezza che provava quando fe‐
ce ingresso nella sua austera camera da letto. Dopo avere
indossato un leggerissima camicia da notte in lino, sboc‐
concellato qualche biscotto e bevuto un bicchiere di latte,
era pronta a effettuare il lavoro che si era ripromessa po‐
co prima. Si sedette al tavolino affiancato alla parete, sot‐
to alla finestra aperta da cui penzolava la zanzariera nuo‐
va che si era appena fatta installare, e in breve tempo bat‐
té a macchina tutto ciò che aveva scritto a penna, correg‐
gendo alcuni errori e rendendo il testo più discorsivo, ma
cercando di non modificare i contenuti della conversazio‐
ne. Rilesse le due paginette appena composte, le ripose
all’interno di una cartellina e finalmente si stese a letto.
Il sonno, che solitamente sarebbe arrivato nel giro di un
paio di minuti, quella notte sembrava tardare; non poteva
fare a meno di paragonare l’infanzia di Assireni alla sua, e
tutta una serie di ricordi che da tempo non riaffioravano
nella sua mente apparvero di colpo, impedendole di dor‐
mire.
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Pensò a sua madre, sempre impeccabilmente elegante e
mai con un capello fuori posto, che aveva riposto nel cas‐
setto la sua laurea in legge per dedicarsi alla famiglia, ed
era così finita col diventare l’ombra del famoso e afferma‐
to chirurgo che aveva sposato. Forse fu proprio l’esigenza
di crearsi un proprio ruolo, la causa per la quale delegò ad
altre persone la mansione di accudire quella stessa fami‐
glia che le aveva fatto rinunciare a tanto e il motivo per
cui dedicò tutta se stessa a opere di carità. Ecco dunque
che doveva organizzare un ricevimento di beneficenza
proprio in occasione del primo concerto di musica della
figlia o che risultava impegnata, anche nelle più astruse
delle attività filantropiche, tutte le volte che ne richiedeva
la presenza. Avrebbe potuto essere ironico, se non avesse
tanto pesato sulla sua carenza affettiva, il fatto che qual‐
siasi bisogno umano avrebbe potuto ottenere
l’attenzione di sua madre, tranne quello che aveva lei, che
era semplicemente la necessità di sentirsi amata! L’unico
stratagemma, che ormai aveva imparato ad adottare, per
intrattenere sua madre con sé, era quello di farsi accom‐
pagnare a fare acquisti. Accampava la scusa di avere la
necessità di qualche oggetto e magicamente la donna si
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liberava da ogni impegno ed era pronta ad accompagnar‐
la. Chissà se lo faceva per amore smodato dello shopping
o perché era l’unico modo che conosceva per ripagarla
del suo scarso interesse. Comunque fosse, erano le uni‐
che occasioni in cui si informava dei suoi progressi scola‐
stici, di come procedevano le sua attività artistiche, o co‐
munque in cui dimostrava di interessarsi un po’ della sua
vita.
Pensò a suo padre, bello, distinto, ricco e famoso ma, per
lei, figura quasi sconosciuta. Solitamente usciva da casa
prima del suo risveglio e rientrava quando già era a letto.
Poteva vederlo soltanto per qualche ora nel suo giorno di
riposo, a meno che dalla clinica non arrivasse una telefo‐
nata che annunciava un’urgenza, nel quel caso il suo rien‐
tro al lavoro era immediato. Poteva contare sulle dita di
una mano le volte che aveva condiviso con lui qualche e‐
sperienza o che fosse a conoscenza di un suo diretto in‐
tervento su qualsiasi iniziativa che la riguardasse. Da parte
sua non aveva ricevuto mai un diniego o una punizione
ma, per contro, nemmeno un’approvazione o un consen‐
so. Si trattava di disinteresse nei suoi confronti o di totale
abnegazione alla sua professione? Se l’era chiesto tutte le
volte che lo avrebbe voluto presente ai compleanni, ai
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saggi di danza oppure, almeno ogni tanto, seduto sul suo
letto, intento a dargli il bacio della buonanotte. Nei mo‐
menti più tristi la risposta era chiara: non l’amava, molto
semplicemente! In quelli più sereni comparava la conside‐
razione che aveva suo padre nei suoi confronti con quella
che aveva per sua moglie e, sebbene i ruoli fossero com‐
pletamente diversi, molto simile era il trattamento da o‐
gnuna ricevuto. Allora, come faceva sua madre, si convin‐
ceva che probabilmente quello fosse necessariamente il
prezzo da pagare per godere dell’agiatezza in cui viveva,
e barattava la necessità di un abbraccio o di un conforto
con la futilità di un regalo o di un capriccio.
Pensò a lei da ragazzina, nel suo ovattato mondo di be‐
nessere, in cui il valore delle cose, elargite in quantità, do‐
veva sopperire a quello degli affetti, concessi con minore
generosità. Era il tempo in cui tutto le veniva doverosa‐
mente consentito e ogni ora della sua giornata era scandi‐
ta dalle molteplici attività che l’avrebbero preparata a es‐
sere un degno componente del suo ceto borghese.
Così, dopo le lezioni mattutine tenute in un rinomato isti‐
tuto privato, a pomeriggi alterni veniva accompagnata al
corso di pianoforte, a quello di danza classica e di perfe‐
zionamento alla lingua inglese, costringendola a ritmi in‐
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calzanti che le toglievano ogni energia per compiere e‐
ventuali altre attività ricreative che lei avrebbe di gran
lunga preferito, come trovarsi a chiacchierare con le ami‐
che o starsene comodamente sprofondata in divano a
leggere qualche fumetto.
Al tempo si riteneva una ragazzina molto fortunata. Riu‐
scire a ottenere tutto ciò che desiderava le dava
un’appagante sensazione di onnipotenza che andava ine‐
sorabilmente a incidere sul suo atteggiamento verso gli
altri. Esigente e capricciosa, finiva con il tiranneggiare i
genitori, le compagne di scuola e le varie tate che si erano
alternate nel corso degli anni, rendendo difficoltoso qual‐
siasi legame affettivo e aggravando ulteriormente il suo
latente senso di solitudine. Solo con il passare di qualche
anno e con il mutare naturale delle proprie esigenze, co‐
minciò a realizzare che ciò di cui aveva bisogno non si po‐
teva né acquistare né pretendere da altri, e che il vuoto
dell’animo non si poteva riempire con il danaro o il potere
che da esso ne derivava.
Immaginava che la maggior parte della gente potesse
provare nostalgia pensando alla propria fanciullezza,
mentre a lei provocava un leggero senso di tristezza.
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A un certo punto le palpebre cominciarono a farsi pesanti
e i ricordi diventarono meno vividi, finché finalmente il
sonno sopravvenne. Il mattino successivo si svegliò
all’alba, ancora con un leggero sentore di malinconia. Ap‐
pena uscita dalla porta, si soffermò qualche secondo ad
ammirare il paesaggio che le si prospettava. Dopo anni
che lo vedeva, non se ne era ancora abituata e riusciva
sempre a sorprenderla. Quella mattina c’era
un’abbondante foschia che si alzava fino a un metro da
terra ad annunciare la temperatura opprimente che a‐
vrebbe caratterizzato la giornata. Il sorgere del sole e il
rosso della terra le trasmettevano un’intensa sfumatura
rosea che, in lontananza, si mescolava al blu cobalto del
cielo in cui si stagliava la sagoma di un’enorme acacia.
Sforzando un po’ la vista, le sembrava di distinguere le
sagome delle capanne del villaggio masai da cui Assireni
proveniva.
La giornata nell’infermeria fu talmente convulsa da non
riuscire a concederle nemmeno il tempo per valutare il
suo stato d’animo, e quando si trovò all’appuntamento
con la sua amica le sembrava di averla lasciata soltanto
qualche minuto prima.
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«Mama Nora, ti ho portato dei dolcetti allo zenzero e coc‐
co per ringraziarti di quello che stai facendo per me.»
«Grazie, sei molto gentile, ma non dovevi! In fondo, cosa
sto facendo?»
«Tu mi ascolti e mi dai voce, mama. Nessuno lo ha mai fat‐
to prima d’ora.»
«Ora continuiamo con la tua storia. Eravamo rimasti alla
tragica scomparsa di tuo padre. Tua madre come reagì?»
«I miei fratelli ereditarono la mandria e se la divisero tra
loro. Poi si sposarono e si fecero una loro famiglia. L’unico
sostentamento di mia madre derivava dal latte di una ca‐
pra e da quello che trovava in natura. All’inizio avevamo
ben poco da mangiare; se non ci avessero dato un po’ di
aiutato gli abitanti del villaggio avremmo conosciuto
momenti davvero difficili! Dopo qualche mese il fratello
maggiore di mio padre chiese a mia madre di sposarlo e
lei accettò di buon grado. Era un gran lavoratore, posse‐
deva parecchio di bestiame, e aveva una prima moglie,
due figli maschi e due femmine. La convivenza con tutte
queste persone non era un problema perché ognuno pos‐
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sedeva la propria nyumba7, semmai rappresentava un
vantaggio, perché tutti avrebbero dato il loro contributo
per mantenere la famiglia.
“Più braccia lavorano e più si mangia” disse convinta ma‐
ma Malaika.
I miei nuovi fratelli maschi non li vedevo quasi mai, come
è naturale che sia. Il più grande era già sposato, quello più
giovane era un moran8 e viveva con il gruppo degli iniziati
per seguire la preparazione all’età successiva. Io abitavo
con le mie nuove sorelle. La più grande era promessa
sposa e presto sarebbe andata via da casa. La più piccola
aveva circa la mia età, e finalmente avevo qualcuno con
cui parlare. Con lei andavo d’accordo anche se non ave‐
vamo lo stesso carattere. Assomigliava più lei a mia ma‐
dre che io stessa. La differenza diventò più evidente
quando crescemmo un po’ ed entrammo nella pubertà.
Nasieku non vedeva l’ora di entrare nella comunità delle
donne adulte, di sposarsi e di avere figli, io invece temevo
7 nyumba: casa fatta di rami e paglia intonacati con sterco di vacca. Solitamen-te il capo famiglia, la prima moglie, la seconda moglie, i figli maschi e le figlie femmine vivono in case separate. L’insieme delle nyumba di tutte le famiglie del villaggio formano l’Enkang (villaggio) circondato da un recinto spinoso, per proteggersi dagli animali selvatici. 8 moran: è uno dei quattro passaggi d’età dei maschi: iniziato - moran - giovane anziano - anziano
21
quel momento. Se pensavo di diventare come mia madre
e le altre donne sposate, mi prendeva un crampo allo
stomaco, più forte di quando avevo fame e non c’era cibo
che me lo facesse andare via. A volte mi sentivo davvero
diversa dalle altre e pensavo di avere qualcosa che non
andasse. In verità, ancora adesso lo penso.»
La donna si interruppe, spostando il suo sguardo dal viso
dell’altra a un punto fisso nel vuoto. Probabilmente stava
riflettendo su ciò che aveva appena detto, cercando le
parole adatte per spiegare al meglio il suo disagio. Ma
non era facile far comprendere agli altri ciò che provava,
quando lei per prima non sapeva interpretare i suoi sen‐
timenti.
«Sai invece io cosa credo?» intervenne Eleonora, attirando
nuovamente l’attenzione di Assireni. Poi si alzò per versa‐
re dell’acqua in due bicchieri, uno dei quali lo porse alla
donna che aveva seguito in silenzio ogni suo movimento,
e continuò:
«Credo che tu non abbia niente che non vada, anzi, che tu
sia in diritto di non condividere per forza le scelte delle
donne della tua tribù. Sei una persona intelligente la cui
naturale indole è stata imprigionata da una cultura che
non consente il libero arbitrio ma impone il prosieguo di
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tradizioni che indubbiamente ti stanno strette. Vedi, nella
società da cui provengo io la donna non è costretta al ma‐
trimonio per sentirsi tale. Il più delle volte si sposa ed ha
figli, ma generalmente succede per sua scelta e solo dopo
che si è realizzata con la sua professione.»
Assireni si grattò la nuca completamente rasata e chiese:
«Ma allora voi mzungo, siete sempre felici?»
Eleonora la guardò e le rivolse un sorriso, con il suo modo
particolare che le faceva piegare leggermente le labbra
verso destra solo quando esso non derivava da una gioia,
ma, piuttosto, dalla circostanza.
«Magari fosse così! No, Assireni. Nemmeno la nostra è la
ricetta per la felicità. Abbiamo più possibilità di scelta,
senza dubbio, ma nessuno ha la certezza di fare quella
giusta. Inoltre, sono convinta che più complessa diventa
una struttura sociale, più si complica anche la vita delle
persone che ne fanno parte, aumentandone le esigenze e
le aspettative. Se poi teniamo conto che la natura umana
è naturalmente orientata verso l’insoddisfazione, anche
se questa è una mia considerazione del tutto personale,
va da sé che il raggiungimento, non della felicità, ma an‐
che solo della serenità, sia un obbiettivo davvero difficile
da raggiungere.»
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«Da mesi era annunciata la mia infibulazione e quella di
mia sorella Nasieku» riprese a narrare Assireni «è
un’occasione molto importante per le donne della mia
tribù. È il passaggio dall’infanzia all’età adulta e ogni ra‐
gazza lo aspetta con impazienza. Ma io lo temevo forte‐
mente. Quando arrivò quel momento, io ebbi voglia di
scappare e di gridare a tutte le donne che mi circondava‐
no che io non mi sentivo pronta per essere adulta e che
volevo ancora avere il tempo per giocare. Tutte ridevano
intorno a me e c’era aria di festa, ma quando due donne
anziane mi aprirono le gambe tenendole con forza e una
terza mi tagliò, io gridai a squarciagola e continuai a pian‐
gere per tanto tempo. Non era solo per il dolore che sen‐
tivo, mama Nora. No, quello era intenso ma sopportabile.
Era la testa che piangeva e con essa tutto il mio corpo.
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