COME ALLA CORTE DI FEDERICO II OVVERO
PARLANDO E RIPARLANDO DI SCIENZA
MESSAGGERIE ORIENTALI. IL BUDDHISMO TRA IMMAGINAZIONE E REALTÀ 9 di Francesco Sferra IL RISVEGLIO DEL BUDDHA E LA PRATICA MEDITATIVA 11 di Salvatore Giammusso IL PARADISO PUÒ ATTENDERE, IL TIBET NO 13 di Mara Matta IL BUDDHISMO IN OCCIDENTE 15 di Florinda De Simini IL REVIVAL BUDDHISTA IN CINA 17 di Chiara Luna Ghidini
Dalla sua nascita, tra il V e il IV sec. a.C., il buddhismo si è diffuso gradualmente in Asia. Dalla fine dell'Ottocento si è propagato anche in
America e, più recentemente, in Europa. Complesso e variegato sin dalle origini indiane, entrando in contatto con culture diverse si è ulteriormente
modificato e arricchito, in un processo di reciproca influenza che è di straordinario interesse per la storia delle esperienze religiose,
per la cultura in generale, per l'arte e per la filosofia.
Francesco Sferra
Allievo di Raniero Gnoli, Corrado Pensa e Raffaele Torella,
Francesco Sferra (n. 1965) è professore associato di Lingua e
letteratura sanscrita presso l’Università degli Studi di Napoli
“L’Orientale” dal 2002. Attualmente dirige il Dipartimento di
Studi Asiatici della stessa Università. Membro di diverse
associazioni scientifiche, tra cui l’Istituto Italiano per l’Africa e
l’Oriente (Roma), la Pali Text Society (Oxford), la Société
Asiatique (Paris) e il Bhandarkar Oriental Research Institute
(Pune), fa parte del comitato scientifico della Rivista di Studi Sudasiatici (Roma) e del Journal
of Tantric Studies (Hamburg). Docente di sanscrito all’Orientale dall’a.a. 1998-99, nel 2007 è
stato visiting professor (Numata-Professor für Buddhismuskunde) presso l’Asien-Afrika-Institut
(Universität Hamburg). Dal 2006 dirige un progetto di ricerca internazionale per l’edizione
critica e lo studio di opere inedite buddhiste in sanscrito, patrocinato dall’IsIAO e dall’Orientale.
I primi risultati della ricerca sono apparsi nel 2008 nel vol. 1 della serie “Manuscripta
Buddhica” con il titolo Sanskrit Texts from Giuseppe Tucci’s Collection. Part I (Roma). Tra le
sue pubblicazioni principali ricordiamo l’edizione del testo sanscrito e la traduzione inglese del
più celebre testo buddhista sullo Yoga a sei fattori, lo a a gayoga di Anupamarak ita con il
commento di Ravi r jñ na (Roma 2000), e l’edizione critica del testo sanscrito del
Param rthasa graha di N rop (Roma 2006). Traduttore dal p li e dal sanscrito per la serie “I
Meridiani” di A. Mondadori Editore (La rivelazione del Buddha, a c. di R. Gnoli, Milano 2001,
2004), ha curato per la stessa collana il volume sull’induismo antico (Hinduismo antico. Dalle
origini vediche ai Pur a, 2010). È autore di saggi sulle speculazioni linguistiche di alcune
scuole filosofico-religiose induiste, pubblicati negli anni 1991, 1994, 2007 e 2010, e si è
occupato con continuità delle tradizioni tantriche, tra le quali lo ivaismo Ka m ro, la scuola
vi uita del P ñcar tra e quella buddhista del K lacakra. Tra le opere di prossima pubblicazione
sono degni di nota l’edizione e lo studio di un testo inedito del primissimo K lacakra, che
verranno pubblicati a Pechino in collaborazione con Luo Hong, e una raccolta di testi brevi del
celebre maestro ivaita Abhinavagupta, che uscirà a New Delhi con Mrinal Kaul. Il vol. 2 della
serie “Manuscripta Buddhica”, scritto insieme a Harunaga Isaacson, è in corso di stampa con il
titolo The Sekanirde a of Maitreyan tha (Advayavajra) With the Sekanirde apañjik of
R map la. Critical Edition of the Sanskrit and Tibetan Texts, English Translation and
Facsimiles. With an Appendix by Klaus-Dieter Mathes.
COME ALLA CORTE DI FEDERICO II Messaggerie orientali. Il buddhismo tra immaginazione e realtà
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MESSAGGERIE ORIENTALI. IL BUDDHISMO TRA IMMAGINAZIONE E REALTÀ Francesco Sferra Professore di Lingua e letteratura sanscrita Università degli Studi di Napoli L’Orientale
Dalla sua nascita, tra il V e il IV sec.
a.C., a oggi, il buddhismo si è diffuso
gradualmente in tutta l’Asia. A partire dalla fine
dell’Ottocento ha iniziato a propagarsi anche in
America e, più recentemente, in Europa.
Complesso e variegato sin dalle origini indiane,
entrando in contatto con culture diverse si è
ulteriormente modificato e arricchito, in un
processo di reciproca influenza che è di
straordinario interesse per la storia delle
esperienze religiose, per la cultura in generale,
per l’arte e per la filosofia. Il buddhismo, infatti,
presenta una notevole capacità di adattamento
che si riscontra raramente in altre esperienze
umane e, in particolare, religiose.
Il nucleo comune a tutte le tradizioni
buddhiste è rappresentato da alcuni
insegnamenti, variamente declinati nel corso dei
secoli e nelle varie culture buddhiste. Tra questi
vi sono anzitutto le Quattro Nobili Verità: la
verità del dolore, dell’origine del dolore, della
fine del dolore e della via che la realizza. Come
risulta dalla narrazione agiografica della vita
stessa del Buddha, si tratta, in realtà, di quattro
campi di pratica, più che di dottrine filosofiche o
affermazioni categoriche sulla condizione
umana. In altre parole, il praticante buddhista
dovrà realizzare nella propria esperienza una
comprensione autentica, vale a dire non mediata
da idee, preferenze e giudizi, dell’essenza stessa
del “condizionato”: dolore è tutto ciò che, nella
propria esperienza, è transeunte, che esiste solo
in relazione con altre cose, che, in quanto tale,
non può dare in sé e per sé una gioia
permanente. L’esperienza non giudicante e priva
di paura del condizionato apre le porte
all’Incondizionato e alla gioia permanente di cui
esso è fatto. Ovviamente una comprensione
intellettuale e raziocinante non è esclusa. In
proposito è il caso di ricordare che il buddhismo
ha contribuito notevolmente in India e poi in
Asia proprio allo sviluppo della logica e
dell’epistemologia. La realizzazione del nirvana
o, in altre parole, della liberazione, però, è
dovuta essenzialmente a un modo di vedere la
realtà diverso da quello usuale, attraverso il
superamento delle categorie ordinarie – seppur
necessarie a un tempo – di soggetto e oggetto,
di Sé e non-Sé, di io e altro, di spazio e tempo,
di materia e non-materia ecc., visione che è resa
possibile dalla pratica delle virtù (generosità,
pazienza ecc.) e della meditazione.
Tradizionalmente autodefinitosi come
“cammino di mezzo”, il buddhismo cerca di
operare sia sul piano della pratica religiosa sia
su quello dottrinario la via intermedia tra
ascetismo ed edonismo, eternalismo e
nichilismo. Altro insegnamento importante e
comune a tutte le tradizioni è quello relativo alla
fusione di saggezza e compassione. Come tutte
le grandi tradizioni sapienziali, anche il
buddhismo punta alla trasformazione della
mente umana, a decondizionarla dalle normali
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tendenze “mi piace/non mi piace”. La liberazione
è descritta spesso come una mente pura e
luminosa, capace di abbracciare il mondo intero,
ma il liberato non è nulla di straordinario, è una
persona apparentemente qualsiasi, di buon
senso – diremmo noi. Ciò che egli doveva
realizzare, in effetti, era già a disposizione in lui,
come il sole in cielo dietro le nuvole avventizie.
Ci sembra di saperlo da sempre: i neri
hanno la musica nel sangue, gli ebrei sono
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IL RISVEGLIO DEL BUDDHA E LA PRATICA MEDITATIVA Salvatore Giammusso Professore di Storia della filosofia Università degli Studi di Napoli Federico II
Il termine “Buddha” è un titolo onorifico
che significa “il risvegliato”. A cosa si risvegliò
dunque Siddharta Gautama? Siddharta era un
principe, figlio del re degli Shakya, una tribù che
si estendeva nell’estremo Nord dell’India. Il
padre lo volle proteggere dalle miserie del
mondo e così gli impose di trascorrere la vita
all’interno del palazzo. Quando Siddharta, ormai
adulto, venne infine a contatto con il mondo
esterno, rimase terribilmente scosso dalle
innumerevoli forme di miseria fisica e morale
che vide. Decise allora di abbandonare la sua
condizione privilegiata, la moglie e il figlio. Dopo
numerose prove di ascesi estrema, Siddharta
maturò nel silenzio della meditazione seduta una
profonda consapevolezza riguardo alla
sofferenza: egli si “risvegliò”, comprendendo che
la realtà è dukkha, ossia sofferenza (o come
anche traducono alcuni “insoddisfazione” e
“disagio”) perché è anicca e anatt , ossia
impermanente e insostanziale. Il termine dukkha
si riferisce al fatto che le passioni della vita non
producono agio e soddisfazione durevole perché
non possono poggiare su qualcosa di
sostanziale. Non c’è un “soggetto” che rimanga
permanente nel tempo. La condizione non
illuminata di sofferenza è quella di un Io “avido”,
che non “vede” l’impermanenza e insostanzialità
delle passioni e passa accecato da un godimento
insoddisfacente a un altro altrettanto
insoddisfacente. Senonché per il Buddha è
possibile guardare in profondità e liberarsi dalle
illusioni egocentriche. Per maturare questa
consapevolezza non serve porsi in un “punto
archimedico” immoto ed esterno alle passioni
della vita: occorre invece entrare pienamente
nelle relazioni vitali e vederle per quello che
sono, vedere che ogni essere è anatt , che non
ha un sé sostanziale ed è costituito da
un’insondabile trama di relazioni.
Il Buddha prese a insegnare le verità che
aveva conseguito in meditazione. Più che a un
religioso tradizionale, il suo metodo fa pensare a
un terapeuta che indichi una cura radicale per i
veleni che intossicano l’essere umano. Nel
canone buddhista si trovano indicazioni morali,
ma si limitano a tracciare uno stile di vita giusto:
evitare azioni e parole capaci di recare offesa e
rispettare ogni altro essere. Più che altro queste
indicazioni sono propedeutiche alla purificazione
della mente che si attua nel processo
meditativo. Se la sofferenza si origina dalla
mente che si attacca agli oggetti, facendone
qualcosa di permanente e sostanziale, la
meditazione è la cura che fa “vedere”
l’impermanenza e l’interdipendenza dei
fenomeni. Da questa visione sgorga la saggezza
autentica, che consiste nel “lasciar andare” gli
oggetti della mente e provare apertura e
interesse per ogni essere che vive. Nei suoi
discorsi sulla meditazione il Buddha invita a
sperimentare in prima persona di che si tratta.
Egli consiglia di assumere una postura stabile in
un luogo tranquillo e portare l’attenzione sul
ritmo del respiro, e poi sulle sensazioni
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corporee, sui sentimenti e sugli oggetti mentali.
Dove approda questo lavoro di attenzione? Con
un’attenta consapevolezza “si doma il pensiero”
e si raggiunge quella saggezza intuitiva che dis-
chiude la pace interiore e la compassione. È si-
gnificativo che il Buddha non abbia mai nomi-
nato un successore e si sia limitato a suggerire
ai discepoli di fare della pratica dell’attenzione la
loro vera guida.
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IL PARADISO PUÒ ATTENDERE, IL TIBET NO Mara Matta Professore di Lingua e letteratura tibetana Università degli Studi di Napoli L’Orientale
Nel 2009 è uscito un altro libro sul Tibet
dal titolo Il lato invisibile del paradiso.
Pellegrinaggi ai confini del Tibet: “un viaggio
attraverso le contraddizioni che accompagnano
l'invenzione di un luogo ideale e i residui di una
memoria collettiva ormai quasi cancellata”. Un
altro viaggio alla ricerca di Shangri-la, la mistica
valle incantata che il film di Capra del 1937,
Orizzonte Perduto contribuì a immortalare per
sempre nell’immaginario collettivo dell’occidente.
Si sa, le leggende viaggiano su percorsi
privilegiati, veloci e leggere come i cavalli del
vento che, in Tibet, portano le preghiere dei
devoti su fino in cielo. E così il mito di Shangri-
la, dopo aver ispirato le spedizioni di zelanti
missionari cristiani e il fervore di imprese
“scientifiche” naziste, oggi sostiene una lucrosa
attività turistica che porta a Shangri-la i turisti
che desiderano scoprire questo angolo di
“paradiso”. Parte della popolazione cinese,
infatti, comincia a guardare al Tibet come al
deposito di una spiritualità perduta nella Cina del
grande boom economico. Che avvertano o no “il
male sostanziale dell’occupazione nel profondo
delle loro coscienze” (Fosco Maraini), fatto sta
che molti partono alla volta del Tibet alla ricerca
del paradiso perduto. Il governo cinese
comprende che, come in tutte le grandi
transizioni storiche, c’è un rischio da correre, ma
anche un immaginario in fieri su cui
capitalizzare. La Cina scopre Shangri-la. E la
identifica davvero in una valle remota al confine
tra la Cina e la Birmania, nella contea di
Zhongdian (o contea di Shangri-la). I turisti
cinesi si riversano nella località alla ricerca di
antichi monasteri e misteriosi rituali, compiendo
pellegrinaggi in luoghi mistici che gli stessi
tibetani dicono abitati da streghe e altri
personaggi inquietanti. Nell’era dei social
network, il Tibet rischia di trasformarsi sempre
di più in un mondo magico e virtuale che omette
di raccontarne le problematiche attuali. Dall’altro
lato, però, i giovani tibetani hanno scoperto il
potere di internet. I blogger scrivono, discutono,
raccontano, denunciano. Spesso sono le donne
tibetane a utilizzare con coraggio e intelligenza
le risorse offerte dalla rete. Come le due scrittrici
e attiviste sociali, Tsering Woeser e Jamyang
Kyi, entrambe agli arresti domiciliari per aver
rivendicato la tutela del patrimonio culturale
tibetano e aver sollevato la questione della
donna tibetana. C’è da chiedersi perché il
governo cinese le abbia fatte arrestare: forse
alle autorità cinesi, oggi, fanno più paura i
tibetani ‘moderni e progressisti’ che chiedono
riforme concrete nella loro terra? Forse perché,
dopo decenni di disprezzo nei confronti della
religiosità tibetana, ora Pechino scopre che “i
lama, con le loro sceneggiate per i turisti, che si
divertono a filmare e fotografare” (Tashi Dawa),
sono meno pericolosi di una donna tibetana che
mette in discussione le ingiustizie sociali al di là
dell’appartenenza etnica del perpetratore?
Queste sono alcune delle domande su cui ci si
dovrebbe interrogare oggi. Attraverso
l’insegnamento di Lingua e letteratura tibetana
nell’Università di Napoli ‘L’Orientale’ si cerca di
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fare proprio questo: studiare la storia, la civiltà e
le letterature del Tibet, antico e moderno,
attraverso le attività didattiche e di ricerca,
promosse anche dal Centro Studi sul Buddhismo.
È un impegno che l’Orientale porta avanti da
sempre. Come continua l’impegno dei tibetani
per affermarsi nella loro autonomia e nella
rivendicazione di un progresso e una modernità
che sia rispettosa della loro cultura e della loro
spiritualità. Perché, se il paradiso può attendere,
il Tibet NO.
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IL BUDDHISMO IN OCCIDENTE Florinda De Simini Dottoranda in Studi Indologici e Tibetologici Università degli Studi di Napoli L'Orientale
Il progressivo affiatamento tra il
buddhismo e le terre d’Occidente è un fenomeno
che non sfugge nemmeno agli occhi di
osservatori poco esperti: basti pensare al
crescente successo editoriale di cui esso gode,
incarnato da figure quali ad esempio il XIV Dalai
Lama e il monaco vietnamita Thich Naht Hahn, o
alla popolarizzazione di immagini e suggestioni
positive ad esso legate, penetrate anche nel
linguaggio mediatico e pubblicitario. Eppure, il
dato statistico relativo al numero di aderenti alle
tradizioni buddhiste in Occidente sembrerebbe
additare un fenomeno poco più che irrilevante:
la percentuale di buddhisti in Europa è
attualmente pari a circa lo 0,2% del totale della
popolazione, giungendo solo negli Stati Uniti a
superare, di poco, la soglia dell'un percento. Di
questa già esigua presenza, oltre la metà è
costituita da comunità di origine asiatica, che
hanno «importato» il buddhismo negli Stati Uniti
dall'Estremo Oriente già nella seconda metà del
XIX secolo. L'immigrazione di popolazioni
buddhiste in Europa si data invece agli anni
Sessanta e Settanta del XX secolo, con l'arrivo di
rifugiati dall'Indocina diretti per lo più in Francia.
Quest'ultima è oggi la nazione europea che
conta il più alto numero di buddhisti; l'Italia, con
circa 110.000 aderenti, è quarta. I soli dati
sull'aderenza sono però inadeguati a spiegare
l'effettivo impatto del buddhismo in Occidente:
esso, infatti, da un lato conta su un'ampia
categoria di «simpatizzanti» occidentali, che
svolgono un ruolo centrale nel decretarne il
successo d'immagine; dall'altro, si afferma nel
panorama religioso occidentale in forme tali da
rendere difficile una quantificazione numerica. A
partire dal secondo dopoguerra il buddhismo,
traghettato in Occidente sia dall'arrivo di più
numerosi maestri asiatici, sia da quegli
occidentali recatisi in Asia negli anni Sessanta e
Settanta alla ricerca di nuove forme di
spiritualità, inizia a essere abbracciato come
religione da gruppi di laici occidentali: fino ad
allora, salvo rare eccezioni, l'avvicinamento al
buddhismo era avvenuto o per via puramente
intellettuale, o tramite il filtro delle dottrine
occultistico-esoteriche.
Inserendosi nel rinnovato panorama
spirituale del mondo contemporaneo, la pratica
occidentale del buddhismo sviluppa
caratteristiche che la avvicinano ai cosiddetti
«nuovi movimenti religiosi», distanziandola non
poco dalle forme praticate dalla comunità
asiatiche e rendendo quindi complessa la
valutazione della sua presenza. Si pensi alla
«detradizionalizzazione» della pratica religiosa,
in cui l'aspetto esperienziale (ad esempio, la
meditazione) prevale su quello liturgico e
ritualistico; o anche all'approccio eclettico, per
cui la pratica della meditazione buddhista non
comporta necessariamente l'abbandono della
religione di partenza, ma sovente viene anzi
integrata con essa. Questi ed altri rinnovamenti
fanno avanzare l'ipotesi che dall'incontro con
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l'Occidente possa addirittura emergere una
forma di buddhismo specificamente «occidenta-
le», fenomeno favorito da un tipo di spiritualità
pragmatica e meno legata ai contesti storici e
politici in cui il buddhismo asiatico si è evoluto.
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IL REVIVAL BUDDHISTA IN CINA Chiara Luna Ghidini Ricercatore di lingua e letteratura giapponese Università degli Studi di Napoli L'Orientale di Napoli
Il documento n. 19 (1982), espressione
della politica religiosa della Cina di Deng
Xiaoping e tuttora in vigore, è in parte conforme
all'ortodossia marxista, che auspicava la futura
scomparsa della religione, ma prevede una
graduale riabilitazione delle tradizioni religiose
riconosciute, tra cui il Buddhismo. Sebbene non
privo di contraddizioni, esso ha posto le basi per
il revival religioso in Cina, oggi oggetto di studio
a livello internazionale (Luo Zhufeng, Daniel
Overmyer, Yoshiko Ashiwa, David Wank e Adam
Yuet Chau, per citare solo alcuni studiosi).
L'obiettivo principale delle politiche cinesi in
materia religiosa resta ancora oggi quello di
preservare il controllo statale delle attività
religiose sul territorio nazionale. Tuttavia, alla
politica di controllo è affiancata una strategia di
tolleranza, finalizzata, tra l'altro, a proiettare
l'immagine di una Cina moderna e, come dice Hu
Jintao dal 2005, “socialmente armoniosa”. Anche
il Buddhismo, che vanta in Cina una tradizione
plurisecolare, è soggetto all'Amministrazione di
Stato per gli Affari Religiosi (Guojia zongjiao
shiwuju), nonché alle sue emanazioni locali, e ha
un proprio organo ufficiale di supervisione,
l'Associazione Buddhista Cinese (Zhongguo
fojiao xiehui), fondata nel 1953, cioè negli anni
della riforma agraria, che aveva sancito la
confisca di molti monasteri da convertire in
scuole, musei, uffici amministrativi e caserme.
Nel processo di rivitalizzazione dell'attività
buddhista, il primo passo è stata la ricostruzione
delle risorse materiali (i monasteri e i sistemi di
finanziamento) e umane (il clero buddhista). Un
esempio concreto di tale processo è il tempio di
Nanputuo a Xiamen, nel Fujian, legato al
monaco riformista Taixu (1890-1947),
promotore del Buddhismo Umano (renjian
fojiao) e fondatore dell'Accademia buddhista del
Fujian meridionale (Minnan foxue yuan), ora
riaperta e fucina di giovani uomini e donne
istruiti anche in discipline non dottrinali. A causa
della sua collocazione nella città di Xiamen, una
delle zone economiche speciali e per altro
particolarmente apprezzata da businessmen
cinesi d'oltremare, molti dei quali buddhisti, il
Nanputuo è stato oggetto di attenzione politica e
considerato una preziosa risorsa economica, in
grado di incrementare l'industria del turismo
locale. Il contributo materiale dei Cinesi
d'oltremare alla restaurazione del tempio nell'era
di Deng è stato rilevante: basti pensare che,
negli anni '80, il monaco Miaozhan (1910-1995)
era riuscito a ottenere il loro sostegno
finanziario, soprattutto attraverso le donazioni di
monaci e fedeli dell'Asia sud-orientale,
raccogliendo fondi superiori a quelli stanziati
dallo Stato cinese. Da allora, il Nanputuo è stato
teatro di numerosi conflitti di potere tra autorità
centrale e agenti locali, ma resta attivo sia dal
punto di vista dei servizi religiosi che offre, sia
da quello più strettamente produttivo (famoso è
il suo ristorante vegetariano). Il revival del
Buddhismo han (ovvero, cinese) e le forme da
esso assunte sono dunque necessariamente
legati alle politiche economiche del Paese. Tale
dipendenza, per un verso proficua, rischia però
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di generare un senso di insoddisfazione
spirituale nei monaci e nei fedeli. Non a caso, si
assiste a un flusso di monaci e laici han verso
siti importanti per i Buddhisti tibetani. Il feno-
meno, ancora esiguo ma stabile, che si inseri-
sce nel quadro intricato delle relazioni sino-
tibetane, sembra suggerire una crescente
fascinazione han verso gli insegnamenti e le
pratiche del Buddhismo tibetano.
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