ordinanza 15 dicembre 1989; Pres. ed est. Plotino; imp. CalfapietraSource: Il Foro Italiano, Vol. 113, PARTE SECONDA: GIURISPRUDENZA PENALE (1990), pp.455/456-459/460Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARLStable URL: http://www.jstor.org/stable/23183652 .
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PARTE SECONDA
tà del pubblico ministero volta a circoscrivere ovvero ampliare la sfera delle indagini, per definizione fluide e teleologicamente rivolte all'acquisi zione degli elementi necessari al fine di assumere le determinazioni ine renti all'esercizio dell'azione penale (art. 326), che costituisce l'epilogo e non l'esordio di quella fase. La prospettiva dinamica delle indagini fini sce quindi per coniugarsi coerentemente con l'informalità delle scelte di
strategia investigativa del pubblico ministero, il quale, ferme restando, come è ovvio, le regole sulla competenza replicate dal giudice (art. 51, 2° comma), avrà ampio spazio di disegnare, all'interno della «sua» fase, il segmento di indagine da devolvere alla sfera giurisdizionale. Cosi, le diverse realtà «procedimentali» potranno assistere a tante mutazioni quante sono le scelte, non prefigurabili ex ante, che il pubblico ministero effet tua nel corso delle indagini, in rapporto, ad esempio, ai relativi termini di durata, alla maggiore o minore «liquidità» di questa o quella posizio ne, all'opportunità di sezionare o, all'inverso, di cumulare, le future, even tuali regiudicande, che tali divengono solo al momento in cui si cristalliz za l'imputazione e la correlativa domanda di giudizio. Scelte sulle quali ben può venirsi a proiettare l'attività che, sempre all'interno della fase, è chiamato a svolgere il giudice per le indagini preliminari, come può accadere nel caso in cui sia solo parzialmente accolta una richiesta di
proroga del termine per le indagini, ovvero sia altrettanto parzialmente accolta una richiesta «cumulativa» di archiviazione.
I
TRIBUNALE DI ROMA; ordinanza 15 dicembre 1989; Pres. ed
est. Plotino; imp. Calfapietra.
TRIBUNALE DI ROMA;
Misure cautelari personali — Ordinanza emessa a seguito del di
battimento — Appello — Inammissibilità (Cod. proc. pen. del 1988, art. 310).
È inammissibile l'appello ai sensi dell'art. 310 c.p.p. del 1988 avverso l'ordinanza in materia di misure cautelari personali emes
sa a seguito del dibattimento. (1)
II
TRIBUNALE DI ROMA; ordinanza 27 novembre 1989; Pres.
ed est. Saraceni; imp. Samay.
Misure cautelari personali — Ordinanza che dispone la custodia
cautelare — Riesame successivo alla sentenza — Ammissibilità
(Cod. proc. pen. del 1988, art. 309).
È ammissibile la richiesta di riesame dell'ordinanza che dispone la custodia cautelare ancorché, nelle more, sia sopraggiunta sen
tenza di condanna in primo grado a pena detentiva. (2)
III
TRIBUNALE DI ROMA; ordinanza 21 novembre 1989; Pres.
Plotino; imp. Nakib Abi.
Misure cautelari personali — Ordinanza che dispone la custodia
cautelare — Riesame successivo alla sentenza — Inammissibili
tà — Fattispecie (Cod. proc. pen. del 1988, art. 309).
È inammissibile la richiesta di riesame dell'ordinanza che dispone la custodia cautelare se, nelle more, sopraggiunge sentenza di
condanna in primo grado con contestuale rigetto dell'istanza di revoca della misura coercitiva. (3)
(1-3) Le ordinanze del Tribunale di Roma del 21 e del 27 novembre 1989 hanno per oggetto provvedimenti sulla libertà personale emessi dal
giudice del dibattimento prima dell'inizio di questo, mentre l'ordinanza del 15 dicembre 1989 ha per oggetto un provvedimento adottato a seguito del dibattimento; tutte hanno in comune la circostanza di essere state
pronunciate dopo la sentenza di primo grado, con la conseguente que stione dell'impugnabilità a tal momento dei provvedimenti in materia di misure cautelari personali dinanzi al c.d. tribunale della libertà. La que stione ha senz'altro portata generale, anche se riguardo ai provvedimenti adotatti prima del dibattimento può in pratica porsi, dati i ristretti termi
II Foro Italiano — 1990.
I
Va premesso, in punto di fatto, che:
a) Calfapietra Sandro, arrestato il 29 ottobre 1989 per rapina
aggravata, veniva tratto a giudizio direttissimo davanti al Tribu
nale di Roma, sez. Vili penale, entro 48 ore dall'arresto;
b) all'udienza del 31 ottobre 1989 il tribunale, con ordinanza
dibattimentale, convalidava l'arresto, disponeva il mantenimento
della custodia cautelare in carcere dell'imputato e ordinava pro cedersi immediatamente a giudizio nei suoi confronti;
e) con sentenza del 6 novembre 1989 il tribunale, preso atto
dell'accordo intervenuto tra le parti sulla misura della pena, con
dannava il Calfapietra ad anni uno e mesi due di reclusione e
lire 200.000 di multa, non concedendo la sospensione condiziona
le e rigettando l'istanza di revoca o sostituzione della misura cau
telare della custodia inframurale;
ni per l'impugnazione previsti dagli art. 309 e 310, soltanto nel caso di
giudizio svoltosi col rito direttissimo. Le prime due ordinanze affrontano il problema dal punto di vista del
riconoscimento o meno alla sentenza (non definitiva) di effetto novativo
dell'originario provvedimento cautelare, dalla sussistenza del quale deri verebbe la necessità di indirizzare il gravame contro la stessa sentenza mediante i mezzi di impugnazione propri di questa. L'estrema sinteticità della prima ordinanza non consente, peraltro, di comprendere se essa riferisca tale effetto alla sentenza in sé considerata o al provvedimento, ivi contenuto, di rigetto dell'istanza di revoca della misura; la seconda
ordinanza, invece, lo riferisce senz'altro — per negarlo — alla sentenza. Più ampiamente motivata è la terza, in ordine temporale, ordinanza,
che — riprendendo argomenti della giurisprudenza relativa al codice di
procedura penale del 1930 (v. Cass. 20 febbraio 1987, Macrf, Foro it.,
Rep. 1987, voce Libertà personale dell'imputato, n. 189) — esclude l'am missibilità del riesame o dell'appello avverso provvedimenti in materia di misure cautelari personali pronunciati dal giudice all'esito del dibatti
mento, contestualmente alla sentenza o successivamente ad essa. Va nota to che il secondo degli argomenti che utilizza (violazione del principio della sovraordinazione del giudice dell'impugnazione) prova in realtà troppo e finisce col contraddire il primo (l'essere la finalità di garanzia della
collegialità e del contraddittorio, ritenuta propria degli indicati mezzi di
impugnazione, già assicurata dal dibattimento svoltosi), giacché impliche rebbe, a rigore, l'inammissibilità dell'impugnazione davanti al tribunale della libertà di tutti i provvedimenti del giudice della fase del giudizio, anche di quelli assunti prima dello svolgimento o della conclusione del dibattimento e quindi prima del dispiegarsi del contraddittorio.
Nel vigore del codice di procedura penale abrogato la Corte di cassa
zione, argomentando dall'art. 502, 3° comma, ammetteva la possibilità della coesistenza tra giudizio direttissimo in corso e riesame dei provvedi menti in materia di libertà personale (1° febbraio 1985, Bucci, id., Rep. 1986, voce cit., n. 227; 5 maggio 1983, Graziano, id., Rep. 1985, voce
cit., n. 213 e Riv. it. dir. e proc. pen., 1985, 277, con nota di De Rober
to), ma escludeva l'ammissibilità del secondo dopo la conclusione del
primo, essendo «inconcepibile ammettere l'incidente del riesame in rap porto ad un processo pervenuto alla fase post-dibattimentale e sul quale, ove la parte abbia proposto impugnazione (...), è chiamato a pronunciar si un giudice sovraordinato», cui «spetta ogni controllo, compreso quello inerente allo status libertatis dell'imputato» (sez. un. 21 novembre 1987, Martella, Foro it., 1989, II, 1, con nota di richiami); escludeva, altresì, l'ammissibilità del riesame dei provvedimenti restrittivi della libertà per sonale assunti dopo la chiusura della fase istruttoria (20 gennaio 1988, Vitale, id., 1988, II, 425, con nota di richiami).
Con riferimento al codice in vigore (che non contiene una norma ana
loga al vecchio art. 502, 3° comma), v. Trib. Vercelli, ord. 3 gennaio 1990, id., 1990, II, 188, con osservazioni di A. Ingroia, che, sulla base di argomenti in buona parte analoghi a quelli usati da Trib. Roma 15 dicembre 1989 e richiamando anche la pronuncia delle sezioni unite sopra citata, perviene alla dichiarazione di inammissibilità dell'appello ex art. 310 interposto dal pubblico ministero, dopo la sentenza conclusiva del
giudizio di primo grado celebrato col rito direttissimo, avverso l'ordinan za di rigetto della richiesta di applicazione della custodia cautelare emessa dal pretore in sede di convalida dell'arresto.
La prima e la terza delle ordinanze in rassegna sono sottoposte a pun tuale critica da L. Saraceni, L'impugnazione dei provvedimenti sulla li bertà personale emessi in dibattimento, in Cass, pen., 1989, II, 43. Quan to all'ord. 21 novembre 1989, l'a. rileva che nessun effetto novativo del
l'originario titolo di custodia può essere riconosciuto alla sentenza di condanna di primo grado a pena detentiva, non contenendo il nuovo codice una disposizione analoga all'art. 275 di quello abrogato (sulla base del quale tale effetto era stato affermato, sia pure con oscillazioni, dalla stessa Corte di cassazione fino alla pronuncia a sezioni unite del 21 aprile 1979, Mamone, Foro it., Rep. 1979, voce cit., n. 72 e Giust. pen., 1979, III, 417, che lo aveva escluso), e che il provvedimento di rigetto della richiesta di revoca della misura coercitiva costituisce mera conferma, e
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GIURISPRUDENZA PENALE
d) con istanza del 13 novembre 1989 la difesa del Calfapietra chiedeva al tribunale la sostituzione della misura cautelare della
custodia inframurale con quella degli arresti domiciliari;
è) con ordinanza del 20 novembre 1989 il tribunale rigettava
quest'ultima istanza;
f) avverso tale ordinanza il difensore del Calfapietra propone va appello al tribunale della libertà e ricorso per cassazione.
Osserva il collegio che l'appello al tribunale della libertà è nella
specie inammissibile. La tesi sostenuta dal difensore nel corso dell'udienza in camera
di consiglio — secondo la quale l'art. 310 c.p.p., non prevedendo
espressamente alcuna eccezione o limitazione consentirebbe di pro
porre appello al tribunale della libertà anche avverso le ordinanze
emesse in materia di misure cautelari personali contestualmente
o successivamente alla sentenza dibattimentale — è infondata.
Il complesso delle impugnazioni in materia di misure cautelari
personali previste dal codice di procedura penale dagli art. 309-311 — riesame, appello e ricorso per cassazione — va infatti inqua drato nell'ambito del sistema e va considerato alla luce della ratio
che informa l'istituzione e la competenza del c.d. tribunale della
non novazione, dell'ordinanza che ha disposto la misura stessa. Quanto all'altra ordinanza osserva in particolare: che il nuovo codice (a differen za di quello abrogato, che riservava essenzialmente alla fase istruttoria l'adozione dei provvedimenti sulla libertà personale) delinea un autono mo «sistema cautelare», comprensivo dei mezzi di gravame, che si appli ca a tutte le fasi processuali, nessuna esclusa; che ratio delle impugnazio ni dinanzi al tribunale della libertà è assicurare in materia di misure cau telari personali non già le garanzie della collegialità e del contraddittorio, ma piuttosto un secondo grado di giudizio di merito, secondo la prescri zione della direttiva n. 59 della legge-delega; che gli art. Ill Cost., 568, 2° comma, e 569, 1° comma, c.p.p. tendono a garantire in ogni caso il ricorso per cassazione avverso i provvedimenti in materia di libertà
personale, e non già a limitare ad esso i mezzi di impugnazione, mentre l'art. 586, 3° comma, prevede soltanto l'immediata impugnabilità di tali
provvedimenti senza circoscriverla a particolari rimedi; che, infine, la so
vraordinazione del giudice dell'impugnazione contrasta con il principio costituzionale della distinzione dei magistrati soltanto in base alle loro funzioni (art. 107, 3° comma, Cost, inteso come riferito anche agli orga ni giudicanti e non soltanto al singolo magistrato), mentre l'impugnabili tà dinanzi al tribunale della libertà di provvedimenti assunti da giudici «superiori» non fa che uniformarsi a tale principio.
Ammettono l'impugnabilità ex art. 309 e 310 c.p.p. dei provvedimenti in materia di misure cautelari personali assunti dal giudice del dibatti
mento di primo grado e dal giudice d'appello, anche G. Ascione-D. De
Biase, La libertà personale nel nuovo processo penale, Giuffrè, Milano,
1990, 322; F. Cordero, Codice di procedura penale, Torino, 1990, 354
e 356, il quale ipotizza che oggetto del gravame dinanzi al tribunale pos sano essere anche provvedimenti della Corte di cassazione; D. Carcano
G. Izzo, Arresto, fermo e misure coercitive nel nuovo processo penale, Cedam, Padova, 1990, 174 e P. Dubouno - T. Baglione - F. Bartolini, Il nuovo codice di procedura penale, Piacenza, 1989, 569, secondo cui è però da escludere un intervento del tribunale della libertà su provvedi menti della Corte di cassazione, essendo in fase di ricorso ogni decisione in materia cautelare riservata al giudice che ha emesso il provvedimento impugnato (soluzione espressamente adottata dall'art. 91 norme att., coord, e trans, emanate con d.leg. 28 luglio 1989 n. 271).
Il problema dei possibili contrasti fra decisioni del giudice del merito e tribunale della libertà — frequenti, in ipotesi, ove si consideri la facol
tà, riconosciuta al pubblico ministero e all'imputato dall'art. 299, 3° com
ma, di chiedere la revoca o la sostituzione delle misure disposte al giudice che procede, il quale può a tanto provvedere anche d'ufficio — viene risolto ricorrendo al principio del favor lìbertatis da Saraceni, op. cit., nota 9 (che ravvisa altresì l'opportunità di una modifica legislativa che
introduca l'alternatività delle varie richieste possibili) e Ascione - De Biase,
op. cit., 323. Inoltre il primo, adattando al nuovo contesto normativo
il principio dell'indiscutibilità in sede di riesame della valutazione di suf
ficienza degli indizi contenuta nell'ordinanza di rinvio a giudizio — ela
borato dalla giurisprudenza con riguardo al codice abrogato (v., da ulti
mo, Cass. 29 aprile 1985, Caminiti, Foro it., Rep. 1987, voce Istruzione
penale, n. 60 e Cass, pen., 1987, 369) — ritiene che dopo la sentenza
di condanna di primo grado il sindacato del tribunale della libertà non
possa comprendere la valutazione del fondamento probatorio dei provve dimenti restrittivi. Per Ascione - De Biase, op. cit., 324, invece, il princi
pio del favor libertatis trova applicazione soltanto nel contrasto tra ordi
nanze, giacché «la valutazione del giudice di merito in ordine all'applica zione delle misure, allorché sia consacrata nella sentenza che definisce
il grado di giudizio» deve «prevalere sulla contestuale decisione del tribu
nale in sede di riesame o d'appello» e, tutte le volte che la pronuncia del giudice di merito intervenga nelle more del procedimento di riesame, si impone una declaratoria di inammissibilità di questo, essendo venuta
meno la finalità per la quale è previsto. [C. De Chiara]
Il Foro Italiano — 1990.
libertà. Quest'ultimo risponde all'esigenza di assicurare la garan zia della collegialità e, soprattutto, del contraddittorio in ordine
ai provvedimenti di coercizione che, pur dopo la giuris dizionalizzazione dei medesimi sanciti dal nuovo codice, conti nuano ad essere emessi da organi monocratici (i g.i.p.) e, neces
sariamente, data la loro natura di provvedimenti «a sorpresa», senza previo esame dell'interessato.
Orbene, un provvedimento sulla libertà personale adottato dal
tribunale all'esito del dibattimento, contestualmente alla sentenza
o dopo l'emissione della stessa, assicura nel modo più pieno en
trambe le garanzie della collegialità e del contraddittorio.
Non avrebbe perciò senso che sullo stesso argomento si pro nunciasse anche il tribunale della libertà, con una competenza che apparirebbe come un inutile doppione di quella del tribunale
che ha emesso il provvedimento. L'interpretazione sostenuta dal
l'appellante si pone, inoltre, in contrasto con un principio gene rale dell'ordinamento processuale e giudiziario, secondo il quale la rivalutazione critica e la censura dei provvedimenti di un orga no giudicante sono riservate ad organi sovraordinari, secondo le
norme ordinamentali. Una deroga tanto vistosa a tale principio
generale avrebbe dovuto essere esplicitamente disposta, ciò che
non è avvenuto.
L'esattezza dell'interpretazione qui sostenuta balza evidente se
solo si consideri che, diversamente opinando, dovrebbe attribuir
si alla competenza del tribunale della libertà anche il riesame e
l'appello avverso le ordinanze dibattimentali in materia di libertà
personale emesse dalla corte d'assise e, perfino, dalla corte
d'appello. L'abnormità di tale conclusione — che dilaterebbe enormemente
la competenza del tribunale della libertà, certamente oltre i limiti
voluti dal legislatore — è di per se stessa chiaro indice dell'erro
neità della tesi che qui si confuta.
Tale tesi entra, infine, in conflitto con altra regola generale:
quella risultante dagli art. Ill Cost., 568, 2° comma, 569, 1°
comma, e 586, 3° comma, c.p.p., secondo cui contro i provvedi menti sulla libertà personale, emessi in dibattimento, è immedia
tamente esperibile solo il ricorso per cassazione.
Ancora una volta va sottolineato che si porrebbe contro il si
stema e contro la logica la ripetizione, ad opera di un organo
posto dall'ordinamento sullo stesso piano o, addirittura, su un
piano inferiore, di un procedimento che si è già svolto con le
garanzie della collegialità e del contraddittorio: avverso il provve dimento in tema di libertà emesso da un collegio giudicante all'e
sito del dibattimento l'unica impugnazione che ha una valida ra
gione d'essere è il ricorso per cassazione.
II
Sulla richiesta di riesame proposta il 16 novembre 1989 da Sa
may Ezzedine avverso l'ordinanza con la quale il Pretore di Ro
ma, nel corso del giudizio direttissimo, all'udienza del 16 novem
bre 1989, disponeva nei confronti dell'imputato la misura della
custodia in carcere in relazione alla contravvenzione di cui al
l'art. 152 t.u.l.p.s. Nella predetta ordinanza, redatta su modulo a stampa, si enuncia
come unica esigenza cautelare il pericolo di fuga dell'imputato. Sotto questo profilo, l'ordinanza è illegittima perché viola il di
sposto dell'art. 292, lett. c), che prescrive l'obbligo della motiva
zione, tanto più necessaria nel caso di specie, trattandosi di appli cazione di norma eccezionale (art. 224 disp. trans.).
Né la misura potrebbe giustificarsi sotto il profilo delle altre
due esigenze previste dalle lett. a) e c) della norma citata. Non
ricorrono infatti esigenze di tutela probatoria, attesa la prova do
cumentale in atti e la già intervenuta sentenza di condanna. Né
le eventuali esigenze di cui alla citata lett. c) potrebbero giustifi care la misura, atteso che trattasi di contravvenzione, da cui non
può esimersi alcuna pericolosità. D'altra parte, sotto il profilo processuale, il richiesto riesame
deve ritenersi ammissibile nonostante l'intervenuta sentenza di con
danna. Non può infatti ritenersi che la sentenza di condanna co
stituisca novazione del titolo di custodia, in quanto essa è idonea
a costituire di per sé autonomo titolo per l'instaurazione della
misura cautelare. La misura cautelare cioè potrebbe certo essere
instaurata in occasione della sentenza, ma pur sempre con auto
nomo provvedimento (ordinanza) che costituirebbe, esso e non
la sentenza, il titolo della custodia. Ed è ovvio che un provvedi
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PARTE SECONDA
mento inidoneo a costituire titolo di custodia non può sostituirsi
ad un titolo precedente. Nella specie, pertanto, il Samay deve ritenersi detenuto non
già in base alla sentenza, bensì in base all'ordinanza impugnata
che, come s'è detto, deve essere annullata (secondo il linguaggio dell'art. 309) o revocata (secondo il linguaggio della relazione mi
nisteriale) non ricorrendone i presupposti.
Ili
Sulla richiesta di riesame di provvedimento restrittivo della li bertà personale presentata il 15 novembre 1989 pervenuta il 16
novembre 1989 e riguardante il riesame dell'ordinanza del Preto
re di Roma del 14 novembre 1989 relativa alla disposizione della custodia cautelare in regime intramurale di Nakib Abi per il reato ex art. 624-625, nn. 2 e 7, c.p. commesso in Roma il 13 novem
bre 1989. L'imputato in ordine ai fatti per cui è processo il 18 novembre 1989 è stato giudicato con rito direttissimo e condan
nato — come richiesto dalle parti ex art. 444 c.p.p. — alla pena di mesi 3 di reclusione e lire 300.000 di multa con contestuale
rigetto dell'istanza di revoca della misura coercitiva.
Ne consegue che il titolo relativo alla custodia cautelare del
prevenuto non è più l'ordinanza in esame, bensì la sentenza so
pra citata che non può essere impugnata con ricorso al tribunale
della libertà che non può di conseguenza pronunciarsi sul riesame
proposto.
PRETURA DI MATER A; decreto 3 aprile 1990; Giud. Vetrone. PRETURA DI MATER A;
Decreto penale — Richiesta — Poteri del giudice (Cod. proc.
pen. del 1988, art. 129, 459, 460, 565).
Nel procedimento per decreto il giudice, fermo restando il potere di pronunciare il proscioglimento ex art. 129 c.p.p. del 1988,
può rigettare senza necessità di motivazione, a norma dell'art.
459, 3° comma, c.p.p., la richiesta di emissione del decreto
penale formulata dal pubblico ministero e restituire allo stesso
gli atti, e ciò per avere ritenuto la pena proposta inadeguata o eccessiva o la prova non idonea o il giudizio monitorio inop
portuno o non condivisibile la qualificazione giuridica del rea to o delle circostanze; qualora, invece, accolga la richiesta di
decreto, il giudice non è libero di determinare la pena, che deve
essere irrogata nella misura fissata dal pubblico ministero (art.
460, 2° comma, c.p.p.). (1)
Vista la missiva, datata 26 marzo 1990, con la quale il p.m. in sede ha nuovamente trasmesso gli atti del controscritto incar
to, insistendo, senza avervi apposto alcuna modifica, nella mede
sima richiesta di emissione di decreto penale già rigettata ex art.
459 e 565 c.p.p. da questo giudicante; — ritenuto:
A) che anche per il procedimento per decreto, nel nuovo ordi
namento processuale penale, deve ritenersi conservata la fonda
mentale distinzione fra le funzioni di accusa e quelle di giudizio;
(1) La dottrina ritiene, conformemente alla decisione in epigrafe, che il rigetto da parte del giudice per le indagini preliminari della richiesta di decreto penale di condanna formulata dal pubblico ministero, può avere
luogo non solo quando difettano i requisiti di ammissibilità del rito, ma anche nel caso in cui siano ritenute non sufficienti le prove per la con danna o non adeguata la pena richiesta dal pubblico ministero (Conti Macchia, Il nuovo processo penale. Lineamenti della riforma, Roma, 1989, 121 s.; D'Andria, Il procedimento per decreto, in AA.VV., Con tributi allo studio del nuovo codice di procedura penale a cura di Canzio ed altri, Milano, 1989, 128 s.; Nappi, Guida al nuovo codice di procedura penale, Milano, 1989, 245). Controversa è, invece, la forma del provvedi mento di rigetto, sostenendosi ora — e non senza fondamento — che si tratti di un decreto non essendo «espressamente» richiesta la motiva zione (Cordero, Codice di procedura penale commentato, Torino, 1990,
525), ora che si tratta di un'ordinanza (Nappi, op. cit., 245).
Il Foro Italiano — 1990.
B) che, conseguentemente, pur se — attesa la formulazione del
l'art. 459.3 c.p.p. — non è dato al giudice d'accogliere la richie
sta di decreto modificando l'entità della pena proposta, ciò non
di meno quegli non è vincolato dalla richiesta stessa, essendogli
consentito, salvo provvedere ex art. 129 c.p.p., di restituire gli atti al p.m., anche senza necessità di motivazione, per aver rite
nuto la pena proposta inadeguata o eccessiva, o la prova non
idonea, o il giudizio monitorio inopportuno, o non condivisibile la qualificazione giuridica del reato e delle circostanze;
C) che opinare altrimenti — e cioè ritenere la sussistenza —
di una sorta di «diritto» del p.m. ad ottenere una pronuncia con
forme alla richiesta (e che l'attività del giudice sia limitata alla mera e formale verifica della sussistenza dei presupposti del pro cedimento per decreto di cui all'art. 459.1 e 4 c.p.p.) — signifi cherebbe avallare un'interpretazione non solo niente affatto con
clamata dal tenore letterale della normativa in discussione, ma
anche inammissibile, in quanto comportante un incostituzionale
(in relazione agli art. 25 e 101 Cost.) implicito svuotamento di contenuto e significazione della giurisdizione;
D) che, invece, il compito deputato al giudice deve ritenersi, anche in tale ipotesi ed a fronte della richiesta del p.m., la pro nuncia di un provvedimento decisorio di natura pienamente giuris
dizionale; E) che a nulla vale in contrario fare riferimento alla finalità
dell'istituto del procedimento per decreto, in quanto le esigenze di deflazione del dibattimento e di economia processuale non pos sono assolutamente ritenersi prevalenti rispetto a quelle, altret
tanto importanti, di giustizia sostanziale e di trasparenza dell'am
ministrazione della giustizia, da presidiarsi con l'attribuzione ed il riconoscimento della sussistenza, in capo al giudice per le inda
gini preliminari, di una funzione di controllo e di garanzia, in posizione di supremazia e terzietà, tale da consentirgli di imporsi sulle pretese delle parti e, segnatamente, del p.m., senza dover
necessariamente avallare, quasi «vistandole», le richieste di que
st'ultimo;
F) che dette ultime esigenze, che devono — ovviamente — tro
vare il giusto contemperamento con le prime, hanno rilevanza
significativamente generalizzata ed estesa a tutto il contesto dei
procedimenti deflattivi del dibattimento, tant'è che autorevole e
primaria dottrina, che qui si omette di citare, ha addirittura rite nuto che pure nel caso, più emblematico, del c.d. «patteggiamen to» il controllo del giudice debba svolgersi «...anche per motivi
di opportunità, sugli accordi intervenuti fra pubblico ministero
ed imputato... sull'entità della pena...»; — considerato che nulla essendo variato nella situazione già
prospettata al decidente, deve esser confermato il provvedimento,
sopra citato, adottato in data 20 febbraio 1990.
PRETURA DI MILANO; sentenza 11 gennaio 1990; Giud. Mi
cara; imp. Stendardi e altri.
PRETURA DI MILANO;
Economìa pubblica (delitti contro la) — Aggiotaggio — Manovre
speculative su beni immobili destinati ad uso abitativo — Rea
to — Esclusione (Cod. pen., art. 501 bis).
Non è configurabile il reato di cui all'art. 501 bis, 2° comma, c.p., che punisce le manovre speculative su merci o prodotti di prima necessità, nella condotta dei dirigenti di associazione di proprietari immobiliari (nella specie, associazione milanese della proprietà edilizia) che, in presenza di una situazione di rarefazione sul mercato di immobili ad uso abitativo offerti in locazione, abbiano concorso, istigando gli aderenti all'asso
ciazione stessa, a sottrarre al mercato, collettivamente e conte
stualmente, una rilevante quantità di detti immobili. (1)
(1) Il provvedimento si uniforma a Cass. 18 maggio 1979, Ciotola, Foro it., 1979, II, 225, che, sulla scorta della distinzione tra cose mobili e immobili operata dall'art. 812 c.c., ha escluso che queste ultime possa no essere qualificate come «merci». Contra, in particolare, Pret. Milano, decr. 4 luglio 1979, id., 1980, II, 20, e Pret. Roma, decr. 15 marzo 1979, id., 1979, II, 142, pure richiamate nella motivazione.
Successivamente, v., sul problema, Corte cost., ord. 21 luglio 1983,
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