sentenza 16 dicembre 1988; Pres. ed est. Pagano; imp. CiracìSource: Il Foro Italiano, Vol. 112, PARTE SECONDA: GIURISPRUDENZA PENALE (1989), pp.485/486-487/488Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARLStable URL: http://www.jstor.org/stable/23182770 .
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GIURISPRUDENZA PENALE
Trattasi di una disposizione che testualmente esclude dalla di
sciplina del d.p.r. n. 915 la regolamentazione dei liquami e dei
fanghi a base acquosa, riservata alla 1. n. 319 del 1976.
Né è di ostacolo a tale interpretazione il rilievo che la direttiva
Cee n. 75/442, alla quale con il menzionato d.p.r. n. 915 si è
data attuazione, nella nozione di rifiuto comprende quelli allo
stato liquido: infatti, correttamente è stato escluso dalla normati
va de qua questo tipo di rifiuti, poiché essi erano già stati regola ti dalla 1. n. 319.
Parimenti ritiene il collegio che non sia desumibile argomento contrario neppure dall'ultimo comma dell'art. 9, secondo il quale «ferme restando le disposizioni contenute nella 1. 10 maggio 1976
n. 319 e successive modificazioni, è fatto divieto di scaricare ri
fiuti di qualsiasi genere nelle acque pubbliche e private». Il riferimento ai «rifiuti di qualsiasi genere» non va esteso an
che ai liquami e fanghi a base acquosa per due motivi. Tutta
la materia disciplinata dalla 1. n. 319 del 1976 è testualmente esclusa
e poiché già prima del 1982 i liquami ed i fanghi erano regolati dalla suddetta legge è evidente che l'art. 9 non può riferirsi ad essi.
Non può poi essere accolta la tesi secondo la quale in virtù
dell'inserimento — nel testo dell'ultimo comma dell'art. 9 — del
l'espressione «di qualsiasi genere» i fanghi ed i liquami sono stati
disciplinati dal d.p.r. n. 915: mancando infatti analoga dizione
del 1° comma ove è stato vietato «lo scarico ... dei rifiuti in
aree pubbliche e private soggette ad uso pubblico» ne deriverebbe
che in queste aree sarebbe consentito lo scarico dei liquami stessi
(l'ultimo comma si riferisce alle acque). Va quindi affermato che l'attività del titolare di una impresa
di smaltimento di liquami (purché non tossici o nocivi) per conto
di terzi che effettui lo scarico nelle acque o sul suolo è disciplina ta dalla 1. 10 maggio 1976 n. 319 e non dal d.p.r. 10 settembre
1982 n. 915.
Già prima dell'entrata in vigore del d.p.r. n. 915 d'altronde
questa corte si era espressa in tal senso con la sentenza di questa sezione del 6 ottobre 1982, Marzaduri (Foro it., Rep. 1983, voce
Acque pubbliche, n. 105 e voce Incolumità pubblica (reati), n.
25). Non reputa il collegio di doversi discostare da quell'orienta mento che si basa sul dettato dell'art. 1 1. n. 319, il quale si
riferisce agli scarichi di qualsiasi tipo sia diretti che «indiretti»
e quindi anche agli scarichi effettuati trasportando i liquami con
autobotti.
CORTE D'ASSISE DI BRINDISI; sentenza 16 dicembre 1988;
Pres. ed est. Pagano; imp. Ciracì.
CORTE D'ASSISE DI BRINDISI;
Omicidio e infanticidio — Infanticidio in condizioni di abbando no materiale e morale — Reato — Fattispecie (Cod. pen., art.
578).
Risponde di infanticidio in condizioni di abbandono materiale
e morale la madre che, subito dopo il parto, abbandoni il neo
nato, occultato in un sacchetto di plastica, sulla pensilina del
«pronto soccorso» di un ospedale, cagionandone la morte (nel
la specie, le condizioni di abbandono materiale e morale sono
state ravvisate nello stato di isolamento, derelizione, incomuni
cabilità e sconforto in cui la donna, in zone ed ambienti ancora
legati ad una mentalità «contadina», può trovarsi in un mo
mento decisivo della sua vita, come il parto, non essendovi dub
bio che lo stato di abbandono prefigura alla madre anche la
seria difficoltà di poter provvedere alle necessità materiali pro
prie e del neonato). (1)
(1) La pronuncia si inscrive in quel filone interpretativo, incrementato
si nella giurisprudenza più recente, che privilegia la dimensione psicologi ca dello stato di abbandono rilevante ex art. 578 c.p.: nello stesso senso,
cfr. Trib. min. Bari 7 aprile 1988, citata in motivazione, Foro it., 1988,
II, 530, con nota di richiami estesi anche al primo indirizzo ermeneutico
che propende, invece, per una accezione oggettivo-materiale delle condi
zioni di abbandono.
In argomento, cfr. Spina, Considerazioni sull'infanticidio, in Giusi,
pen., 1986, I, 22.
Il Foro Italiano — 1989.
Motivi della decisione. — È pacifica la circostanza che fu la
Ciraci a partorire il bambino nel vano-ripostiglio del reparto di
ortopedia del «Di Summa» di Brindisi ed a lanciarlo dalla fine
stra sulla sottostante pensilina del «pronto soccorso» dopo averlo
messo in una doppia busta di plastica ed avendo già provveduto a strappare con le sue mani il cordono ombelicale. È altresì ac
certato che il bambino nacque vivo e che causa della sua morte
non fu l'asfissia per soffocamento, come in un primo momento
si pensò, posto che nella cavità orale dello stesso era stato intro
dotto un tampone di garza (anche tale azione va ascritta alla Ci
raci giacché si deve escludere che alcun altro abbia visto il neonato
prima del suo rinvenimento già cadavere), bensì uno squilibrio emodinamico ed idroelettrolitico post-emorragico sussidiario a
strappamento del funicolo ombelicale.
È noto, invero, che il neonato ha una limitata massa sanguigna e che per tale ragione anche modeste perdite ematiche possono
provocare il rapido decesso in conseguenza degli squilibri organi
ci che ne derivano.
Nel caso in esame, quelle perdite vi furono per la mancata le
gatura dei vasi ombelicali e di tale entità da cagionare quasi subi
to Vobitus.
Questa è la ricostruzione dell'episodio sulla base delle indiscu
tibili risultanze processuali, come il primo interrogatorio dell'im
putata, le testimonianze rese nei termini già riferiti nonché la perizia
necroscopica del prof. Vemercati.
In definitiva non si può dubitare che fu la Ciraci a provocare la morte del bambino appena partorito secondo quelle modalità
che sono state descritte nell'esposizione in fatto. (Omissis)
Resta da esaminare la questione relativa alla configurazione giu
ridica della fattispecie in esame: per stabilire se la stessa integra
l'ipotesi contestata dell'omicidio volontario oppure quella dell'in
fanticidio in condizioni di abbandono materiale e morale.
È noto il travaglio culturale e legislativo che ha portato alla
nuova formulazione dell'art. 578 c.p., sicché non sembra utile
indugiarvi essendo qui sufficiente richiamare l'attento esame svolto
sul punto dai giudici di merito e dalla Corte di cassazione (Cass.,
sez. I, 16 aprile 1985, Vicario, Foro it., Rep. 1986, voce Omici
dio e infanticidio, nn. 29-32; App. Napoli 22 marzo 1984, id., Rep. 1984, voce cit. n. 27; Assise Pavia 23 novembre 1984, id.,
Rep. 1986, voce cit., n. 31; Cass., sez. I, 3 ottobre 1986, Grame
gna, id., Rep. 1987, voce cit., n. 17; sent. 7997 del 12 settembre
1985, ud. 17 aprile 1985; 3326 del 14 marzo 1988 ud. 10 novem
bre 1987). È certo comunque che il legislatore, superando la logi
ca della causa d'onore e riscrivendo una figura autonoma di reato
per l'infanticidio commesso dalla madre in condizioni di abban
dono sia morale che materiale, ha inteso riferirsi alle situazioni
di profondo quanto generale disagio in cui ancora oggi, alle so
glie del 2000, per ragioni culturali, ambientali e o familiari talvol
ta versa la donna in procinto di partorire, piuttosto che alla
particolare condizione d'isolamento che non consente l'interven
to di persone o presidi sanitari, non determinata dalla madre stessa
per sua incuria od indifferenza. In realtà, sulla nuova formula
zione dell'art. 578 c.p. e sul riferimento alle «condizioni di ab
bandono morale e materiale connesse al parto», che
congiuntamente devono ricorrere (è questo un dato interpretativo
pacifico), al primo orientamento giurisprudenziale che richiedeva
l'esistenza oggettiva di tali condizioni (v. le cennate sentenze 16
aprile 1985 e 12 settembre 1985 della Cass., sez. I) è andato sosti
tuendosi un altro che fa leva sul concetto più ampio di abbando
no morale e materiale, identificandolo in una condizione di totale
emarginazione della madre al momento del parto, talmente con
dizionante da indurre la stessa a sopprimere il neonato oppure
il feto durante il parto (sent. 3 ottobre 1986 della Cass. già ri
chiamata e, da ultimo e pure citata, la n. 3326 del 14 marzo 1988).
La corte ritiene di dover condividere, perché più aderente alla
realtà valutata dal legislatore, il più recente orientamento giuris
prudenziale: non solo perché, come bene ha osservato il Tribuna
le per i minorenni di Bari (sent. 7 aprile 1988, id., 1988, III, 530), riesce difficile immaginare l'applicazione dell'art. 578 in una
situazione, come quella attuale, in cui per fortuna è difficile che
esistano condizioni di vita priva di assistenza materiale per una
partoriente, ma perché, alla luce appunto di quel dibattito cultu
rale che ha accompagnato l'iter legislativo della riforma e di cui
s'è fatto cenno, v'è motivo più che valido per ritenere che la
volontà del legislatore sia stata quella di considerare al massimo
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PARTE SECONDA
e tutelare la donna che venga ancora oggi a trovarsi in quelle
«condizioni», per arretratezza socio-economica dell'ambiente o
per scarsa evoluzione culturale dell'interessata. Invero, a tale de
litto, l'infanticidio, la donna è mossa più da condizioni di ordine psicologico che di ordine meramente materiale, per cui si può
fondatamente ritenere che la nuova formulazione dell'art. 578 c.p.
contempla la situazione di chi nel momento del parto si sente
lasciata sola dalle persone che più dovrebbero starle vicino e prov vedere alle sue necessità materiali e morali (in tal senso la citata
sentenza del Tribunale per minorenni di Bari). La riforma, dun
que, ha operato una modificazione concettuale e strutturale della
norma, con la sostituzione delle «condizioni di abbandono mora
le e materiale» alla causa d'onore e con il riferimento, come sog
getto agente, alla sola madre anziché a «chiunque», avendo il
legislatore ritenuto meritevoli di particolare considerazione solo
quelle situazioni.
Sono in definitiva le condizioni d'isolamento, di derelizione e
di sconforto in cui la donna, specie in zone ed in ambienti ancora
legati ad una mentalità «contadina», può trovarsi in un momento
decisivo della sua vita, come il parto, tanto da rimanerne condi
zionata fino al punto di determinarsi al delitto.
Non essendovi dubbio che lo stato di abbandono vissuto prefi
gura alla madre anche la seria difficoltà di poter provvedere alle
necessità materiali proprie e del neonato.
Le predette condizioni, oltre che ricorrere congiuntamente, de
vono essere dunque «connesse» al parto non bastando la sempli ce loro preesistenza, sicché per aversi il rapporto eziologico con
l'evento occorre la loro presenza influente quando la madre si
trova a vivere l'esperienza più traumatica della propria esistenza,
quale indubbiamente è il parto, fino a restarne condizionata nel
senso precisato. Nel caso di specie è accaduto che la Ciraci si è venuta a trovare
isolata nella propria famiglia nonché privata dell'affetto e delle
cure del giovane con il quale aveva concepito il neonato, cosi
vivendo condizioni di abbandono materiale e morale dalle quali
dipese la sua decisione di sopprimere il bambino.
Proveniente da una modesta famiglia (il padre è contadino e
la madre fa l'inserviente) e scarsamente istruita (interruppe la fre
quenza di un un istituto artistico perché ciò avrebbe comportato di «viaggare» fino a Taranto da Latiano), da poco aveva iniziato
a lavorare come inserviente a tempo determinato.
Benché sana fisicamente e mentalmente, aveva all'epoca qual che problema caratteriale perché affetta da una certa labilità emo
tiva, come osservano i periti, e non sembra che coltivasse una
vita di relazione apprezzabile, posto che della sua gravidanza a
nessuno aveva fatto cenno, né ai familiari né alle amiche. Il solo
a dividere con lei il segreto della futura maternità era il giovane
padre del bambino, Davide, dal quale si aspettava il massimo
aiuto nel momento decisivo del parto, sicché in vista di ciò ella
10 invitava a risolvere insieme il problema. La ragazza non aveva
confidenza con i genitori, ai quali non aveva parlato di quanto le accadeva per «paura» e per «vergogna», ma principalmente
perché gli stessi (il padre sommamente, forse perché più anziano
della madre) le avevano impartito un'educazione rigida, nella quale non c'era posto (forse, proprio per il concetto di educazione dif
fuso in famiglia, posto non ci doveva essere) per problemi di
sesso e tampoco per maternità incombenti fuori da una relazione
«normale». Questi particolari li riferiscono la Ciraci ed i suoi
genitori, ma emergono pure dalle poche dichiarazioni del Ruggie ro sul punto, dalle relazioni peritali e dai rapporti giudiziari. La
ragazza viveva perciò un clima familiare di solitudine in relazione
al problema della maternità, che s'ingigantiva approssimandosi la data del parto; la misura di tale stato di emarginazione fami
liare, pur involontaria, è testimoniata dal fatto ch'ella mai pensò di confidarsi (almeno) con la madre, pur essendo preoccupata
per le difficoltà di ogni genere che avrebbe dovuto affrontare:
evidentemente per lei la paura e la vergogna erano pesi ancora
più grandi. L'unica sua ancora di salvezza era dunque il padre del bambi
no, Davide, cui insistentemente si rivolse per un aiuto, una colla
borazione volta alla soluzione del problema, ma con scarsi successi
prima, quindi con l'amara sorpresa di doverne constatare il pro
gressivo disimpegno: «il mio ragazzo in un primo momento di
mostrò una certa disponibilità a discutere del problema, ma
successivamente mi disse che non era nelle condizioni di pensare al matrimonio. Io gli feci presente che non si trattava tanto di
11 Foro Italiano — 1989.
pensare al matrimonio quanto piuttosto di affrontare il problema della mia gravidanza e del bambino che doveva nascere . . . Pur
troppo dovetti constatare che il mio ragazzo non voleva saperne
perché mai volle venire a parlare con i miei e comunque dimo
strava di disinteressarsi della cosa». Cosi' la Ciraci in dibattimen
to a conferma di quanto al riguardo aveva già dichiarato al giudice istruttore: «dicevo a Davide, per farmi coraggio, che certamente
i miei genitori non mi avrebbero cacciata di casa e che con l'aiuto
loro e dei suoi genitori avremmo potuto trovare una soluzione . . .
Il mio ragazzo nicchiò per alcuni mesi alle mie preghiere finché
mostrò di nutrire fastidio ogni qualvota tornavo a parlargli della
nostra situazione. Attesa l'indifferenza mostrata da Davide, mi
sentii perdere». Il Ruggiero contesta in parte queste affermazioni dichiarando
ch'egli non era contrario alla nascita del bambino bensì al matri
monio perchè ancora in cerca di occupazione e con una famiglia
che al momento non avrebbe potuto aiutarlo. Sta di fatto ch'egli
dichiarò subito ai carabinieri che, consapevole di aver reso gravi da la ragazza, era contrario alla nascita del bambino perchè i
suoi non avrebbero approvato sapendolo ancora senza lavoro.
Successivamente il giovane ha corretto la sua versione su questo
particolare dichiarando di aver detto ch'era contrario al matri
monio e non alla nascita del bambino, ma è difficile immaginare che su tale importante circostanza i verbalizzanti abbiano potuto fare confusione. Per cui, si deve ritenere, con la Ciraci, che il
giovane ha manifestato .a costei la sua contrarietà all'evento al
lorché gli veniva richiesto di «prendersi le sue responsabilità». Non è decisiva l'argomentazione logica dello stesso Ruggiero
sulla possibilità di convincere la ragazza ad una pratica abortiva
qualora lui fosse stato contrario a far portare a termine la gravi
danza, tenuto conto delle precise risultanze contrarie di cui s'è
detto.
Ordunque, l'imputata viveva la sua esperienza tutta da sola
per l'incomunicabilità con i genitori e per l'indifferenza mostrata
dal suo ragazzo; tale stato di sostanziale derelizione l'accompa
gnò fino al giorno in cui partorì «precipitosamente», contro ogni sua previsione, nel vano-ripostiglio del «Di Summa». È certo,
stante l'impossibilità per la giovane di portare da sola il proble ma in famiglia nonché il rifiuto del Ruggiero a farsi carico di alcuna incombenza nella prospettiva dell'evento, che tale stato
di totale derelizione, dal quale per ragioni indipendenti dalla sua
volontà non potevano i familiari e non volle trarla il giovane
(le persone cioè che più avrebbero potuto o dovuto aiutarla e
confortarla), la determinò al gesto delittuoso descritto nella con
vinzione di non poter, per l'abbandono in cui versava, né provve dere all'assistenza materiale sua e del bambino né risollevarsi
moralmente e psicologicamente.
Pertanto, a parere della corte, il caso Ciraci è perfettamente riconducibile nello schema legislativo di cui all'art. 578 c.p.
Cosi modificata l'originaria imputazione di omicidio volonta rio e concesse le attenuanti generiche, ritenuta altresì' pacifica an
che la consumazione del reato di occultamento di cadavere nel
contesto di un unico disegno criminoso, può essere inflitta la pe na minima di due anni e nove mesi di reclusione in considerazio
ne della giovane età della prevenuta (pena base anni quattro -
1/3 + l'aumento ex art. 81 c.p.).
PRETURA DI ROMA; sentenza 24 febbraio 1989; Giud. Burse
se; imp. Longhi e altri. PRETURA DI ROMA;
Ingiuria e diffamazione — Diffamazione col mezzo della stampa — Reato — Esclusione — Fattispecie (Cod. pen., art. 595).
Non costituisce diffamazione col mezzo della stampa riferire, nel
corso di più telegiornali della Rai, di un'inchiesta giudiziaria circa una associazione mafiosa attribuendo ad una delle perso ne coinvolte imputazioni più gravi di quelle per le quali è effet tivamente inquisita, ove il giornalista abbia desunto le
informazioni da fonti normalmente attendibili (nella specie, le
agenzie di stampa Ansa e Italia), poiché, senza pretendere nel
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