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www.saperepopolare.com
Piccoli museiStrumento per la crescita sostenibile del territorio
Atti del Convegno
© 2016 Saperepopolare Edizioni, Torino
Ebook ISBN 9788898835034
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COMUNE DI SPOTORNOProvincia di Savona
Piccoli Musei.
Strumento per la crescita sostenibile
del territorio
ATTI DEL CONVEGNO
11 dicembre 2015Spotorno (Savona)
Sala Palace
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Indice
Premessa Editore pag. 5
Valeria Minucciani Il ruolo e la funzione dei piccoli musei nel sistema italiano pag. 7
Danilo Bruno Mazzini, beni culturali e unità d'Italia pag. 20
Alessandro Boninsegna La realtà museale di Historia pag. 26
Daniele Arobba, Andrea De Pascale, Giovanni Murialdo Il Museo Archeologico del Finale: un museo per una comunità pag. 30
Flavio Menardi NogueraNarbona di Castelmagno frazione “impossibile” pag. 38
Giancarlo OnnisIdee per un Museo diffuso del Novecento e della Resistenza a Savona pag. 52
Fiorangela Di MatteoI Piccoli Musei quale espressione del paesaggio di riferimento pag. 59
Monica Brondi Comunicare l'identità museale. Esperienze e strumenti per la promozione dei piccoli musei pag. 65
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Piccoli, amati, necessari...
Michele SantoroSaperepopolare Edizioni
Per la seconda volta – dopo
quelli inerenti al Convegno di
Noli del 13 dicembre 2013 -
Saperepopolare edizioni ha il
piacere di pubblicare gli Atti di
un'importante assise relativa ad
un tema museale di grande
interesse ed attualità, incontro –
di cui, di fianco, pubblichiamo la
locandina ufficiale - reso
possibile dalla convinta e
proficua collaborazione tra la
APM (Associazione nazionale
dei Piccoli Musei) e il Comune
di Spotorno, Ente che ha
concesso il patrocinio
all'evento. Gli interventi e le
narrazioni di relatrici e relatori
qui contenuti sono dense di
esperienze, dati, cose fatte e da
fare, riflessioni utili per il futuro.
Ma su ciò non ci spingiamo
oltre, limitandoci, nel contesto di questo nostro saluto iniziale, ad una sola considerazione.
Dei 3.847 musei italiani conteggiati nell’ultimo report ISTAT, la percentuale più alta è
rappresentata dai cosiddetti musei etno-antropologici (compresi quelli definiti "folclorici” o
di “cultura popolare"), non considerando, in questa cifra, quei piccoli musei che sorgono
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un po’ ovunque, a volte in modo spontaneo, ma che non sono ancora riconosciuti
ufficialmente in base alle normative delle regioni di appartenenza. Molti di questi musei
sono nati per iniziativa privata di singoli cittadini, ma molto spesso anche grazie
all’impegno degli enti locali e delle pro-loco. La crescita numerica di questi musei,
particolarmente negli ultimi due decenni del Novecento, è stata talmente rapida e diffusa
che l'Italia può essere definita come la nazione con più musei etnografici al mondo. Più
che giustificato chiedersi allora il perché.
Ebbene, azzardiamo una possibile interpretazione: forse perché si tratta di siti che
riproducono ambienti abitati e vissuti, nel corso del tempo, da persone perfettamente
comuni. Visitando questi musei, può capitare infatti di riflettere l’immagine di noi stessi
nello specchio dell'evoluzione, ri-incontrando oggetti di vita quotidiana, attrezzi di lavoro,
prodotti tipici dei luoghi, stampe e fotografie relative a fatti storici, a feste, riti e tradizioni
popolari locali e recuperare in tal modo una parte, che credevamo perduta, della nostra
identità culturale.
La "narrazione" di questo patrimonio della quotidiana umanità in cammino si
configura, per questi motivi, di immenso valore culturale, perché esso, in aggiunta al suo
valore documentario e identitario, in alcuni casi produce un altro importante effetto: quello
di dare vita ad un impegno collaborativo in seno alle comunità, laddove le raccolte e la
documentazione sono frutto della partecipazione collettiva che rende il museo una
proprietà di ciascuno e di tutti, ma anche luogo di accoglienza e di reciproco scambio di
valori.
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Il ruolo e la funzione dei piccoli musei nel sistema italiano
Valeria MinuccianiProfessore Aggregato Architettura degli Interni, Allestimento e MuseografiaPolitecnico di Torino – Dipartimento di Architettura e Design
Il vasto panorama dei piccoli musei costituisce una straordinaria risorsa nello
scenario culturale del nostro Paese. Ciononostante si tratta di un settore sul quale non è
ancora stata dedicata sufficiente attenzione nella sua specificità e che richiede oggi un
ulteriore sforzo di riflessione.
Se l’aggettivo piccolo implica dimensioni e quantità ridotte, ciò non significa che
questi musei non debbano essere al passo con i tempi: infatti – come quelli grandi – essi
sono e debbono essere, innanzitutto, musei del terzo millennio.
Inutile dilungarsi su che cosa questo significhi, però è importante ricordare che si
tratta del frutto e dell’espressione di una società completamente trasformata, in cui il
fattore web (specialmente il 2.0) ha un impatto impressionante; che un museo del terzo
millennio deve saper far fronte a una domanda culturale estremamente diversificata e
qualitativamente innalzata; che sottende partecipazione e condivisione, anche nella
produzione dei contenuti; che è un luogo di interpretazione e di esperienza attiva. E
potremmo continuare ancora a lungo.
Naturalmente, piccolo può anche evocare caratteri quale minore o secondario: non
sempre questo è vero. Nel quadro generale dei musei contemporanei, il piccolo museo ha
anche e soprattutto alcune specificità molto significative. Nel sistema italiano esiste, con
particolare evidenza, una frattura fra “grandi musei” e “piccoli musei”: i primi, di calibro
internazionale e con bacini d’utenza a scala globale, sono tutt’altro che pochi ma
rappresentano, secondo l’ultimo censimento ISTAT1, meno dell’uno per cento del totale:
eppure, da sempre, qualsiasi considerazione a carattere museale – quanto meno a livello
istituzionale e legislativo – è tarata su di loro. Vittime spesso di un’inerzia che solo in parte
la loro massa può giustificare, rappresentano comunque un modello del tutto fuori portata
per la grande maggioranza dei musei italiani.
L’apparato legislativo sembra dedicare scarsa attenzione all’altra fetta, molto più
consistente e molto rappresentativa, del tessuto museale nazionale e spesso, in passato, 1 Cfr.: I musei, le aree archeologiche e i monumenti in Italia, Rilevamento ISTAT relativo al 2011
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ha espresso nei suoi confronti la volontà di sanzionare piuttosto che di promuovere.
In Italia c’è infatti un numero straordinariamente alto di piccoli musei, ed è giusto e
naturale che sia così. Un Paese che vanta un patrimonio culturale d’eccellenza a scala
mondiale non può non avere alle spalle una ricchezza molto cospicua e diffusa,
riconoscibile in ogni dove. I piccoli musei ne sono l’espressione, ma soltanto in questi
ultimi anni la consapevolezza che si tratta effettivamente di una categoria a sé ha
acquistato lucidità e spirito di iniziativa, nel desiderio comune di coordinamento: un
riferimento d’obbligo è l’APM (Associazione nazionale dei Piccoli Musei), che si fa
portatrice e interprete del sentire comune dei piccoli musei e dei temi che specificamente li
interessano, offrendo un terreno di confronto molto fervido e attivo.
L’APM si propone anche di promuovere la conoscenza di questo patrimonio, di
stimolare Stato e Regioni a prevedere norme adeguate ai piccoli musei, di rinsaldare
relazioni internazionali, di proporre eventi e di riflettere su forme specifiche di marketing. Il
suo convegno annuale è l’unico nel suo genere in Italia, e appunto favorisce lo scambio e
la divulgazione.
Fra le altre cose, l’APM cerca da tempo di dare una configurazione quantitativa la
più realistica possibile dei piccoli musei italiani (ma il problema è molto simile anche a
livello internazionale). Non si può dire che non ci siano dati “ufficiali”, naturalmente, ma la
realtà li oltrepassa di molto, come dimostra l’esempio della Regione Piemonte. Se
consultiamo il suo sito ufficiale ne contiamo - per poco più di milletrecento Comuni -
all’incirca quattrocentoottanta.
Da parte nostra stiamo invece procedendo a una ricerca condotta sistematicamente
in rete2 e, non sistematicamente, tramite altre fonti (conoscenza diretta, pubblicazioni,
recensioni e simili), da cui emerge che potrebbero essere più di due volte tanto. Se
adottiamo lo stesso criterio per tutte le altre Regioni Italiane, arriviamo a un ordine di
grandezza che potrebbe oltrepassare la decina di migliaia.
Come già si è accennato, nel corso dei secoli si è andata costituendo e stratificando
una ricchissima e capillare diffusione di beni culturali sul territorio italiano, e la ricchezza di
piccoli musei ne è il legittimo frutto: infatti non troviamo solamente musei di arte, o di
2 La ricerca parte dal sito ufficiale della Regione Piemonte - Cfr: www.piemonteitalia.eu/it/gestoredati/elencohome/1/musei.html - dopodiché indaga i musei riportati in ognuno dei circa milletrecento siti ufficiali dei comuni piemontesi. In secondo luogo confronta, ed eventualmente implementa, tali dati con quelli rinvenibili nei siti: http://www.musei.it/, www.viaggiart.com, w ww. tripadvisor .it/ , http://www.coldiretti.it/aree/rubriche/cultura/musei/piemonte.htm, http://www.patrimoniosos.it/, e, infine, procede a una ricerca a testo libero (che permette di intercettare recensioni o eventi correlati a musei appena aperti o non rinvenibili tramite altra via).
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storia, ma anche (e soprattutto) musei dedicati alla vita quotidiana, musei di oggetti d’uso,
di artigianato, di antropologia, delle industrie e delle aziende; e ancora: musei botanici,
musei dedicati al mare alla montagna al paesaggio, ai temi più impensabili e originali.
Spaziamo dal Museo del Sale vicino a Trapani, al Museo della Bambola nei pressi
di Varese al Museo del Sughero in Gallura. E abbiamo lo straordinario Museo del Bottone
a Santarcangelo di Romagna, l’eccezionale Museo del Precinema a Padova, l’incredibile
Museo della Bora di Trieste…
Per tornare all’esempio del Piemonte, che mi è più noto, a parte le centinaia di
musei riconducibili alla tipologia ecomuseale e a quella etnografica, registriamo i giardini,
gli orti botanici e le decine di musei genericamente definibili come “naturalistici”; le
numerose case natali di personaggi storici; i musei dedicati ai minerali e alle miniere; i
molti musei dedicati al vino, le decine di musei di arte sacra, (parrocchiali, o diocesani);
ebbene, oltre a tutto questo annoveriamo, per il momento, ben sei musei dedicati all’Oro,
due dedicati al cappello, tre dedicati all’emigrazione, quattro musei ferroviari. E poi il
Museo dell’Ombrello e del Parasole, il Museo del Rubinetto, il Museo dello Spazzacamino,
il Museo del Contrabbandiere, il Museo dei Raccoglitori di Capelli!
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Immagine n. 1: Museo del Bottone a Santarcangelo di Romagna (fonte: www.facebook.com/MuseoDelBottone)
Dunque una ricchezza davvero enorme, capace di intercettare gli interessi più
diversi e il pubblico più variegato. Possiamo valutare che i piccoli musei (esclusi quindi
quelli di medie dimensioni) rappresentino il novanta per cento circa del sistema museale
italiano.
Il loro ruolo è senza dubbio di memoria, salvaguardia e conservazione di
preziosissimi patrimoni molto circoscritti, o specifici, a grande rischio di cancellazione. Ma
è anche quello di vivificare la società che li ha istituiti, poiché i musei appartengono a una
specifica collettività (cosa che difficilmente viene percepita a proposito dei grandi musei).
E’ giunto allora il momento di rispondere alla domanda su come possiamo definire
precisamente un “piccolo museo”.
Alcuni anni fa, l’Associazione nazionale dei Piccoli Musei partiva dal presupposto
che molte delle cose che si teorizzano o si normano, a proposito di musei in generale,
siano tarate NON sui piccoli e piccolissimi musei, mentre il presidente Giancarlo Dall’Ara
constatava che per le istituzioni sembrava esistere un solo tipo di museo (non certo
piccolo). Occorreva dunque riscoprire una specifica identità non semplicemente fondata
sul non essere qualche cosa (grandi). La definizione che l’APM sinora propone, infatti, non
rappresenta certo il piccolo museo come una copia ridotta di un museo “normale”, ma
come il frutto di una particolare forma di gestione che offre esperienze originali in un
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Immagine n. 2: Il Museo dei Caviè, dei Raccoglitori di capelli, Elva (CN)(fonte: www.saluzzoturistica.it)
contesto accogliente e che manifesta un forte legame con il territorio e la comunità locale.
L’Associazione propone dunque un particolare tipo di museo: più radicato nel territorio, più
accogliente, più relazionale. Inoltre cerca di delineare una specifica cultura dei piccoli
musei.
Per meglio identificare l’oggetto del discorso, l’APM indica tre classi di principi
irrinunciabili per l’essere piccolo museo:
1) i principi tradizionali, da definizione ICOM;
2) i principi legati alla specificità della piccola dimensione: che implica non soltanto
caratteri quantitativi, ma anche la definizione di un contesto accogliente e una narrazione
che abbia un forte legame con la comunità locale;
3) i principi legati alla rivoluzione digitale, per cui il museo è attivo sul web, stimola il
confronto, la partecipazione attiva dei visitatori, crea comunità.
Vorrei sottolineare ulteriormente ciò che tali affermazioni implicano.
Il piccolo museo è (deve essere) accogliente3. Non è vincolato alla burocrazia ma
all’affezione, al volontariato, alla dedizione delle persone. La gratuità è un concetto
ricorrente, così come la condivisione, la salvaguardia della memoria, la diffusione della
conoscenza ma soprattutto una grande passione. L’accoglienza di un piccolo museo sta
nell’essere aperto, e va progettata nei particolari, anche fisici. E’ uno stile, non una
sommatoria di servizi. Sfrutta le risorse umane e punta a un rapporto relazionale con i
visitatori, che sono considerati ospiti e non numeri. Quasi sempre dietro un piccolo museo
ci sono grandi persone, grandi passioni, grandi impegni.
Come ama ricordare il prof. Dall’Ara, sono i valori che generano la qualità dei
servizi. Eppure, al di là di questa ideale e idealistica visione, i piccoli musei non navigano,
spesso, in buone acque. Le Pubbliche Amministrazioni non li mettono precisamente fra le
loro priorità e dei finanziamenti pubblici non resta ormai che un simulacro sfocato.
E’ d’obbligo quindi aggiungere che i piccoli musei sono quelli che possono non
riuscire a osservare un orario “normale” di apertura (fisso, sei giorni su sette). Che hanno
dotazioni di personale decisamente scarse - in cui il direttore è magari anche il factotum -
quando non addirittura nulle (e sono quindi fondati sul volontariato). Che non possono
permettersi allestimenti all’altezza delle tendenze contemporanee ma nemmeno della
normale manutenzione, spesso. Che quindi non possono permettersi le dotazioni e i
servizi considerati ai minimi standard di qualità, e che non hanno facoltà di emettere
3 Si tratta di un principio molto in voga anche presso i grandi musei: da molti anni, periodicamente, le più note istituzioni al mondo si adeguano e ampliano i cosiddetti “spazi per l’accoglienza”, salvo poi sfruttarli per razionalizzare le code alle casse o per installare i controlli con il metal detector…certamente immagini poco accoglienti.
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biglietti a pagamento. Altre volte la loro situazione è migliore, ma sono comunque in
perenne sottodimensionamento di risorse e di organico.
E in effetti il piccolo museo quanto può essere piccolo? Molto, moltissimo.
Nella ricerca che stiamo conducendo in Piemonte e di cui parlavo poc’anzi siamo
proprio partiti, prendendola alla lettera, dalla celebre definizione dell’ICOM: ovunque c’è
una collezione, intesa anche in senso molto ampio, e ovunque questa sia studiata, visibile
e visitabile con l’intento di comunicarla, allora lì c’è un museo (fosse anche piccolissimo).
Abbiamo pertanto incluso collezioni pubbliche e private, musei visitabili con regolarità e
musei visitabili soltanto previo appuntamento.
Appare dunque chiaro che se non si definisce una cultura gestionale specifica per i
piccoli musei, forzatamente questi si vedranno costretti a tentare di imitare i grandi: e
chiaramente si tratta di modelli diseconomici e improponibili. Ci vuole dunque uno sforzo di
ripensamento, fondato sui loro punti di forza e capace di superare i loro punti di debolezza.
I piccoli musei dal canto loro non possono esimersi dal rinnovarsi, integrando nuove
funzioni, rinforzando il dialogo e implementando le sinergie con il territorio (con i decisori
pubblici, con le associazioni, con gli imprenditori e gli artigiani), per favorire lo sviluppo
economico e turistico locale. Vediamo ogni anno, ai convegni dell’APM, quanto essi siano
creativi e quali risultati riescano a ottenere anche i musei molto piccoli. Ma sappiamo
anche che alcuni hanno la tendenza a chiudersi su se stessi, mentre la loro possibilità di
funzionamento e di crescita sta proprio nell’essere relazionali.
Non è che i piccoli musei non vengano riconosciuti dal legislatore, almeno in teoria:
ma, come dicevamo, quello che non viene riconosciuto è la loro specificità. Inoltre, come
ben sappiamo, la normativa nazionale è abbastanza generica, mentre sono le Regioni e le
Amministrazioni locali che gestiscono questo specifico settore. Non sempre investire su un
piccolo museo può essere politicamente remunerativo, almeno in tempi stretti, per cui
sono comprensibili scelte maggiormente strategiche.
Nel TU 29 ottobre 1999, n. 490 e poi nell’art. 184 del Codice dei beni culturali e
dell'ambiente, DLs 22.01.2004 n° 42, oltre a sottolineare la potestà legislativa delle
Regioni, si ribadisce che “museo” è una struttura permanente che acquisisce, conserva,
ordina ed espone beni culturali per finalità di educazione e di studio. Quindi sembrerebbe
che i caratteri dimensionali non siano affatto una discriminante. Viceversa, il fatto che non
venga rivolta, a livello normativo, specifica sensibilità ai piccoli musei è dimostrato dall’Atto
d’Indirizzo Ministeriale sui criteri tecnico scientifici e sugli standard di funzionamento e
sviluppo dei musei, nel 2001.
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Vi si definisce chiaramente, con le modalità che le singole Regioni hanno in seguito
voluto adottare, che al di sotto di determinati livelli di qualità un museo non può essere
accreditato come tale. Ma molti dei requisiti richiesti per questa soglia minima sono in
realtà legati a dimensioni e a quantità, anche relativamente alle risorse. Facendo
l’esempio del Piemonte4, un livello qualitativo minimo accettabile richiederebbe uno spazio
apposito per carico-scarico merci: ma quale piccolo museo non solo ne può disporre, ma
anche ne ha realmente bisogno? E quanti possono permettersi uno specifico “Ufficio
Mostre”? Per non parlare del personale dipendente: il livello minimo di qualità
richiederebbe, per esempio, che il museo svolgesse attività di ricerca sul territorio in modo
continuativo, con personale proprio e anche attraverso contratti di ricerca... ma sappiamo
bene che molti piccoli musei, che pure svolgono tali attività, lo fanno soltanto grazie a
volontari e che il personale dipendente sarebbe un lusso, per molti di essi.
Chiaramente i contenuti degli standard sono ineccepibili e condivisibili, essendo
riferiti a un livello di qualità ideale che di per sé non può che essere un valore. Ma il
piccolo museo, spesso, è un’altra cosa. E’ proprio un’altra cosa.
Nell’ultimo convegno nazionale dell’APM5, il duplice volto degli standard museali è
apparso chiaramente: da un lato essi possono apparire come vere e proprie trappole e
barriere, dall’altro possono essere visti come incentivi motivanti. Una felice intuizione è
infatti stata quella che li vede come livelli di qualità raggiungibili, se non da un singolo
museo, da un coordinamento: possono cioè essere visti come standard di rete. Le lacune
della gestione del patrimonio culturale sarebbero, in altre parole, colmate da un sistema di
musei che fanno sinergia, e non da una singola istituzione.
Inoltre alcune Regioni, come per esempio il Piemonte, pur negando - da un lato -
l’accesso a determinati finanziamenti a strutture al di sotto degli standard minimi, dall’altro
emanano appositi bandi riservati proprio a questi musei, per favorirne l’azione di
adeguamento. Tipico esempio è il caso dell’accessibilità, che si intende promuovere in
modo pervasivo: i bandi in questo caso riguardano servizi di accoglienza, di prenotazione
integrata, di trasporto collettivo, di visite guidate, di segnaletiche - e quindi dedicano molta
attenzione all’integrazione con progetti infrastrutturali di mobilità dolce, piste ciclopedonali
e altri itinerari. Per questi motivi si tratta di bandi dedicati esclusivamente a Reti o Sistemi
museali: un chiaro incentivo per i piccoli musei a unire le forze e a coordinarsi.
L’idea di “fare sistema” non è nuova in verità: si riferisce alla cosiddetta
4 D.G.R. 29 Maggio 2012, n. 24-3914 – B.U. 28/06/2012 n. 26 Standard di qualità nei musei piemontesi - Approvazione modalità e procedura di accreditamento e linee guida per la prosecuzione e lo sviluppo del progetto5 Il convegno si è svolto Massa Marittima, nei giorni 2-3 ottobre 2015
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“valorizzazione integrata del patrimonio culturale” le cui radici sono da tempo state gettate
nel dibattito teorico.
A partire dagli anni Cinquanta, infatti, con una nuova concezione di “cultura” e
“bene culturale” si è perfezionato progressivamente anche il concetto di patrimonio,
materiale e immateriale.
Già negli anni Settanta, Andrea Emiliani diffondeva la sua politica per i beni
culturali, dedicata alla conservazione globale. Con “Dal museo al territorio”6 invitava i
musei locali a farsi garanti della salvaguardia e della valorizzazione dei beni storico-
artistici e dei luoghi di interesse naturalistico ad essi pertinenti. I musei dunque andavano
connessi anche ad altri beni e altre emergenze culturali per loro natura non organizzati o
organizzabili in musei. Dopo Adrea Emiliani, Fredi Drugman ha perfezionato il concetto di
museo diffuso, a partire dal territorio inteso come vasto archivio di fatti e di memoria. Ben
più che un semplice “museo a cielo aperto”, esso è un progetto culturale alquanto
complesso. Nel 1982 Fredi Drugman parlava di “museo diffuso”7 come organizzazione
diffusa, a rete, ramificata, con capisaldi sul territorio: essa esce dalla proprie mura,
ancorandosi e attestandosi su punti nevralgici del territorio, già riconosciuti magari anche
per altri motivi - per esempio enogastronomici.
Deve quindi essere studiato e messo in campo un sistema di rimandi efficaci tra
museo e territorio.
Inoltre un museo, grande o piccolo, non deve disdegnare rapporti stretti con il
settore più generale del turismo – anch’esso oggetto di una notevole evoluzione negli
ultimi decenni e anch’esso aperto a ibridazioni, nuove tecnologie, metodi innovativi ma
anche molto più sensibile di un tempo alla sostenibilità e alla consapevolezza.
Ancora una volta, dunque, occorre essere creativi. Occorre non limitarsi a ricalcare
modelli già sperimentati bensì studiare nuove forme in cui il museo, più che un oggetto, sia
un concetto.
Non è affatto scontato che il cuore di un museo diffuso sia un “museo” in senso
tradizionale. Può esserlo, ma possiamo anche pensare a una sorta di “metamuseo”, a
maggior ragione con l’ausilio delle tecnologie contemporanee: un’anima pulsante capace,
nella versione 2.0, di movimenti uguali e contrari di informazioni che vi convergono e che
ne dipartono.
Da questo punto di vista il piccolo museo è più importante e significativo di un
6 Emiliani A. (1972), Dal museo al territorio, Edizioni ALFA, Bologna7 Ma Drugman stesso aveva coniato l’espressione due anni prima, nel corso di un seminario al Politecnico di Milano
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museo grande: che cosa non può fare un museo grande? penetrare negli interstizi,
intrufolarsi negli spazi ai margini, essere lievito diffuso. Il piccolo museo può farlo molto
bene, invece.
Ma torniamo agli aspetti problematici della piccolezza. Poiché spesso un evidente
handicap del museo piccolo è la bassa competitività nei confronti di altri attrattori sul
territorio, l’ottica della concorrenza e stata da tempo sostituita con quella della
collaborazione e della sinergia: il museo dunque contribuisce a creare interesse e a
richiamare pubblico insieme con (e non in alternativa a) altri attrattori sul territorio. Nasce
cosi un vero e proprio polo di interesse e di attrazione. Sia l’ecomuseo sia il museo diffuso
hanno da sempre fatto proprie queste posizioni, pur trovando resistenze nei modelli
gestionali tradizionali. Infatti, come si accennava, gli standard di qualità possono essere
raggiunti dalla rete nella sua globalità.
Come dunque possono organizzarsi fra loro i piccoli musei?
Per rete museale si intende un insieme di musei che, attraverso relazioni di varia
natura (inerenti la gestione, la collaborazione scientifica o altri ambiti) cerca di migliorare le
proprie prestazioni: certamente i partecipanti sono impegnati in politiche coordinate e
programmazioni concordate, ma non sono previste specifiche strutture o infrastrutture
centrali per il coordinamento e la gestione comune.
Viceversa l’espressione sistema museale è più restrittiva: infatti richiede una
struttura, regole ben definite e obiettivi stabili. Sono dunque necessarie strutture e
infrastrutture centrali amministrative e/o gestionali, e soprattutto un’autonomia anche
statutaria.
Infine, il distretto museale individua una porzione di territorio sul quale insiste un
numero particolarmente elevato di musei, tipologicamente affini o meno, ma in questa
sede non ce ne occuperemo.
I sistemi museali rappresentano dunque una sempre più ricorrente modalità
organizzativa da parte degli attori dell’offerta museale, con lo scopo di aumentare
l’efficacia e l’efficienza a fronte di una richiesta culturale sempre più esigente e complessa.
Un vero e proprio mercato concorrenziale interpella drasticamente soprattutto le realtà di
minori dimensioni.
Il sistema museale, che costituisce come si è detto un particolare tipo di rete
museale, è un fenomeno emerso nel corso degli anni Novanta e sta assumendo sempre
maggiore rilevanza all’interno del nostro Paese: pertanto richiede un momento di
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particolare riflessione8.
Diversi possono essere i criteri con i quali si organizza un sistema: per la maggior
parte dei casi abbiamo sistemi di natura territoriale – ossia network fra musei che
appartengono allo stesso territorio –, e poi sistemi di natura tematica – composti da musei
incentrati sullo stesso tema (si vedano i Musei d’Impresa o i Musei Diocesani). Appare
chiaro che i sistemi territoriali in particolare possono contribuire allo sviluppo socio-
economico del territorio di riferimento.
Le ragioni che spingono alla costituzione delle reti e dei sistemi in campo museale
sono ascrivibili a tre categorie: la prima è senza dubbio l’efficienza economica, sia
aumentando i ricavi sia – soprattutto - riducendo i costi.
Il secondo genere di motivazioni è legato alla possibilità di aumentare visibilità e
prestigio, nonché legittimazione.
Infine, è molto importante la complementarità delle risorse: e si lega in modo
evidente a quanto si diceva sopra circa il raggiungimento di “standard di rete”. Soprattutto i
musei di ridotte dimensioni se ne possono avvantaggiare per fronteggiare difficili sfide
gestionali.
Non tutte le collaborazioni istituite nell’ambito dei sistemi museali sono uguali:
possono infatti riferirsi a una serie di attività piuttosto che a specifiche risorse. Le attività
che più delle altre vengono messe in condivisione nei sistemi museali risultano essere
quelle relative alla comunicazione esterna e alla raccolta dei fondi pubblici, seguite dalle
attività di pianificazione e sviluppo e dai servizi didattici. Per quanto riguarda le risorse che
vengono condivise, invece, possono essere materiali (di natura finanziaria o fisica; relative
al patrimonio artistico o a quello promozionale/pubblicitario), immateriali (come per
esempio le informazioni) e umane (anche se condividere il personale museale risulta
difficile).
Un altro importante carattere dei sistemi museali è la loro struttura. Sostanzialmente
due sono le forme giuridiche ricorrenti: la convenzione e la fondazione. Nel primo caso, i
musei aderiscono ad una convenzione e affidano la gestione del sistema a un ente
capofila. Il caso della convenzione regionale prevede una libera adesione dei musei e il
referente istituzionale del sistema diviene l'Assessorato alla Cultura della Regione.
Nel secondo caso, invece, si dà vita ad un vero e proprio soggetto economico.
Questo strumento consente di offrire al sistema una maggiore autonomia, sia dal punto di
8 In particolare si fa qui riferimento alla Ricerca I sistemi museali, a cura di Libera Università di Lingue e Comunicazione IULM per Aspen Institute Italia (settembre 2013)
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vista della programmazione, sia per ciò che concerne l’indipendenza dalle linee di politica
culturale, sia infine per ciò che attiene alle modalità gestionali e ai rapporti con altre realtà
pubbliche o private.
Occorre evidenziare come le fondazioni riescano ad integrare in maniera più
efficace tutto ciò che concerne i rapporti con i privati, in virtù dei minori vincoli burocratici
cui sono sottoposte.
Allo stesso modo, il fund raising appare prerogativa pressoché unica delle
fondazioni, anche se negli ultimi anni si è assistito ad un incremento della partecipazione
ai bandi europei, non soltanto da parte delle fondazioni, attive da sempre su questo fronte,
ma anche da parte dei sistemi basati su convenzioni. Tale partecipazione è però da
circoscrivere alle realtà maggiormente organizzate poiché le risorse necessarie per la
compilazione dei bandi stessi sono tutt’altro che indifferenti.
Quanto dunque sono efficaci i sistemi museali nella valorizzazione del patrimonio
culturale? I risultati di queste operazioni possono essere misurati, naturalmente, da diversi
punti di vista. Prima di tutto, dal punto di vista dei singoli musei si sono effettivamente
registrati un migliore funzionamento, l’aumento dei visitatori e la loro soddisfazione,
l’aumento dei servizi offerti (mostre, eventi, attività didattica).
In secondo luogo, dal punto di vista degli Enti pubblici locali si è apprezzato un
miglioramento delle relazioni con il sistema museale, e quindi anche un aumento del
valore pubblico.
Inoltre, da una prospettiva economica i responsabili dei sistemi registrano che, pur
non riuscendo ad aumentare particolarmente i ricavi (se non per il fatto che vengono
favoriti i contributi pubblici), si contengono invece i costi (soprattutto quelli relativi al
marketing, alla didattica, agli eventi e all’offerta di servizi).
Infine, da una prospettiva esterna, si possono valutare le ricadute sullo sviluppo del
territorio su cui un sistema insiste. Si è registrato in generale un impatto economico
positivo, con l’aumento dei flussi turistici e in generale un impulso allo sviluppo del
territorio di riferimento (sia pure modesto).
In conclusione, sembra di poter affermare che i maggiori risultati sono quelli vanno
a vantaggio dell’utenza: maggiori servizi, maggiore coordinamento. Quindi maggiore
attrattività.
Un ulteriore punto nodale da valutare è costituito dai fattori che possono favorire o
viceversa ostacolare il funzionamento e quindi il successo dei sistemi museali.
Appare ovvio che le basi di un sistema museale sono tanto più solide quanto più i
17
suoi obiettivi di fondo sono stati chiaramente identificati. Il successo inoltre dipende anche
dal consenso che si crea sulle iniziative congiunte, dalla più o meno buona comunicazione
interna, dal fatto che i ruoli e la leadership siano ben definiti. E’ anche importante che ci
sia una minima disponibilità finanziaria per consentire il funzionamento del sistema.
Oltre a questi requisiti per così dire “di forma”, ve ne sono altri “di merito”: la
sponsorship politica, la disponibilità di risorse umane competenti e la qualità delle relazioni
fra i partecipanti, in un clima di reciproca fiducia.
Il fattore che sembra risultare fra i più critici, prevedibilmente, riguarda il
reperimento di risorse finanziarie adeguate: le spese per la cultura sono in contrazione, e
le stesse attività di fund raising presso i privati, spesso, non sono coronate da successo.
Ma altrettanto critica è la difficoltà nel formare professionisti museali, che bisogna risolvere
poiché le nuove disposizioni non permettono agli enti pubblici di affidare incarichi a esterni
in cambio di servizi continuativi di qualità. Diventa sempre più difficile assumere referenti
scientifici che accettino la responsabilità di operare in un contesto lavorativo saltuario e
non sempre sufficientemente competente; senza contare il fatto che sono ormai
necessarie nuove figure professionali, come il web communicator e l’esperto di marketing
territoriale.
Infine, alcune considerazioni si impongono circa l’attitudine di questi musei verso la
propria mission.
Il museo piccolo, tanto più se organizzato in rete o in sistema, è parte del grande
panorama del turismo culturale: una forma di turismo che ormai prevale su tutte le altre, e
che coinvolge tutte le classi sociali e tutte le fasce di età, compresi naturalmente i nuclei
familiari. Il turismo culturale è un fenomeno all’apparenza semplice ma, se davvero
vogliamo che ruoti non soltanto intorno a grandi e rinomate destinazioni ma si sviluppi
come un lievito in tutti i territori, debbono trovare soddisfazione alcune esigenze
fondamentali: tra queste la sinergia tra tutti gli elementi del territorio, materiali e
immateriali, permanenti e temporanei. Non può darsi il fatto che, per esempio, in
concomitanza con una fiera enogastronomica un museo locale sia chiuso (pur se la fiera
avviene nel suo giorno di chiusura). Non può accettarsi lo scollamento fra musei e
produzione artigianale o altri beni culturali sia pure molto diversi da quelli di cui il museo si
occupa: il turista, nelle destinazioni cosiddette “minori”, ha bisogno che le sue motivazioni
siano reciprocamente rinsaldate. Magari non si fanno cento chilometri per visitare soltanto
un piccolo museo, ma li si faranno se con l’occasione si potranno acquistare prodotti tipici,
assistere a manifestazioni folkloristiche, o spettacoli, o altri eventi…I sistemi museali
18
devono a tutti gli effetti essere sistemi culturali. Essi cioè devono essere luoghi non solo di
conservazione ma anche di continua produzione della cultura. I piccoli musei e dunque
anche i sistemi museali debbono essere realtà dinamiche, in continua evoluzione e
attività.
Per concludere, un altro concetto va ribadito: la dinamicità, l’attività continua.
Spesso il web ne è uno specchio fedele e importante cassa di risonanza: qui, virtualmente,
il visitatore si sente accolto perché ascoltato e coinvolto, spesso, nella produzione stessa
dei contenuti: e anche questa è accoglienza.
Questa resta, forse, la più grande ricchezza e la più grande lezione dei musei
piccoli: poiché la conservazione delle cose è nulla senza il primato delle persone, e i l
visitatore deve essere davvero al centro, come ospite benvoluto e atteso perché il museo
e la conservazione stessa sono per lui.
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Mazzini, beni culturali e unità d'Italia
Danilo BrunoStorico, curatore Musei Civici Spotorno
Bisogna dire che non è semplice dare un quadro definito del pensiero di Mazzini
anche in tema di cultura, ruolo dell'intelettuale e valore dei beni culturali nel processo di
costruzione dell'identità della nuova nazione italiana.
Egli infatti scrisse moltissimo, intuendo in modo particolare il valore della parola
scritta e dei giornali come strumento di diffusione delle idee, ma spesso gli scritti sono
sparsi e rivolti a diverse persone per cui può cambiare sia il linguaggio che gli elementi di
maggiore interesse su cui porre l'accento (su tale punto ha svolto precise valutazioni la
prof.ssa Laura Fournier Finocchiaro nel suo “Mazzini: un intellettuale europeo”, edito nel
2013).
Bisogna porre l'accento su alcuni temi di particolare interesse per definire un
quadro preciso sul valore dei beni culturali o in genere delle "belle arti" e della storia nel
processo di formazione del pensiero mazziniano.
Egli nel suo testo fondamentale "I Doveri dell'uomo" sostiene che, per puntare alla
nascita di un nuovo stato, occorre in primo luogo che le persone prendano coscienza del
proprio dovere,assumendosi liberamente le proprie responsabilità verso se, gli altri e le
altre, Dio, la Patria...
Questo dato educativo, che viene posto alla base della società della nuova nazione,
doveva crescere su due livelli paralleli:
a) da un lato l'assunzione della rivoluzione popolare come moto cosciente, che nasce dal
basso per liberare l'Italia;
b) dall'altro la necessità di un grande movimento educativo, che porti alla crescita delle
singole coscienze e all'assunzione di quel dovere, che diviene la base per definire gli
abitanti della nuova nazione.
In questo quadro, come si inserisce il discorso della cultura? Mazzini visualizza in
primo luogo la funzione e il rapporto diretto fra Dio e popolo poichè, come fugacemente
accenna nella sua "Lettera ai giovani", ad ogni popolo Dio assegna una missione di
progresso.
20
Per l'Italia essa si estrinseca nel divenire uno stato unitario ed eccellere, come è
stato per secoli, nel campo dell'arte e della cultura.
Bisogna poi precisare che l'idea di "progresso" deve essere vista come
miglioramento delle proprie condizioni economiche e sociali, rifuggendo da ogni idea di
crescita illimitata, che era ben lontana dal pensiero mazziniano.
Il progresso collegato al miglioramento delle condizioni di vita delle persone rende
ancora piu'interessante il progetto poichè esso si aggancia direttamente agli esseri umani
e non alla mera circolazione delle merci, come sosteneva la dottrina liberale del periodo.
Mazzini nel contempo vedeva come obiettivo finale la realizzazione della Terza
Roma ovvero la necessità di una Capitale d'Italia, che dopo l'affermazione dei Cesari e dei
Papi, divenisse quella del popolo, quale modello di civiltà di riferimento.
Roma infatti con la sua storia millenaria e i suoi monumenti poteva divenire da un
lato la base per il riscatto popolare e dall'altro l'obiettivo su cui fondare la nuova nazione
repubblicana.
Roma con tutta la sua cultura e la sua storia poteva quindi divenire il motore per la
formazione della coscienza nazionale e dell'impegno di tutte e di tutti per la costruzione di
una repubblica democratica e unitaria.
Questi elementi meritano ulteriori riflessioni. Mazzini polemizzò in particolare con il
cosiddetto Grand Tour e con la visione neoclassica dell'arte e della cultura come si vedrà
infra. Egli infatti sosteneva che chi veniva in Italia con l'idea di visitarla compiendo il
viaggio di educazione per i giovani dell'aristocrazia e borghesia europea,denominato
Grand Tour, avrebbe visto solo un paese profondamente diviso con scarsa attenzione ai
monumenti, che erano spesso posti in un quadro di abbandono e desolazione.
Qui emerge di nuovo il ruolo e la funzione dela Terza Roma poichè, come chi
veniva a Roma e vedeva i resti di grandi civiltà ormai ridotte a nulla in presenza di un
popolo inerte e in assenza di una nazione unitaria, la Roma del popolo avrebbe potuto
riprendere per la forza della sua storia e dei suoi monumenti la propria missione
civilizzatrice nel mondo.
La Roma del popolo doveva infatti parlare in primo luogo alla nazione italiana
affinchè l'Italia unita e repubblicana potesse assumere il suo ruolo storico nel mondo fra le
nazioni e la sua continua missione di diffusione di arte e cultura.
Il pensiero mazziniano apriva quindi scenari nuovi soprattutto sotto il profilo del
ruolo della storia della nazione ma anche di quello degli intellettuali per finire alla necessità
di condividere il concetto di una nazione in cui uomini e donne sono parte integrante di
21
una società democratica e condivisa.
La storia infatti non costituisce una mera elencazione di fatti accaduti nel tempo ma
una serie di fenomeni complessi e collegati da vari e diversi legami, che si possono
affermare in maniera varia nel tempo.
Roma infatti si è affermata nel suo ruolo grazie anche ad una missione civilizzatrice,
che ha mutato nel tempo il proprio ruolo da città dell'antica civiltà a sede della Cristianità.
Questi elementi convergono con la storia della città, con i monumenti eretti e rimasti
in un processo di lunga durata, che ha portato progressivamente alla definizione della
mentalità cittadina anche nel periodo di decadenza in cui si viene a trovare nel XIX secolo.
La Terza Roma avrebbe riportato la città e la storia del popolo alla ribalta del
mondo. L'idea avebbe quindi fatto propria la storia della città, valorizzato i monumenti,
dato nuova luce alla storia delle classi popolari in una ottica innovativa verso la giustizia
sociale e la libertà ma anche in una diversa visione, da quella che aveva portato nel 1833
per volere di re Carlo Alberto alla nascita della Società Subalpina di Storia Patria allo
scopo di raccogliere documenti e materiale per esaltare il ruolo di governo di Casa Savoia
nei secoli.
La storia nell'ottica mazziniana viene invece finalizzata anche al processo educativo
di formazione della coscienza del popolo.
Bisogna qui considerare la differenza fra istruzione, intesa come acquisizione di
nozioni successive, e educazione, che porta alla progressiva elaborazione delle predette
nozioni per affermare la coscienza etica secondo cui ognuna e ognuno sono parti di una
nazione.
La storia quindi intesa come elemento fondante della terza Roma del popolo e
come concreta attuazione della missione assegnata da Dio all'Italia fra le nazioni e quindi
anche alla sua capitale.
A ben vedere non si tratta dell'illusione di un intellettuale romantico bensì del
pensiero di un grande uomo, che ha compreso il ruolo esercitato nei secoli dall'Italia nel
mondo pur divisa in stati diversi.
Mazzini attribuì pure uno specifico ruolo agli intellettuali. Egli, pur nell'intima
convinzione della libertà di espressione artistica, scrisse numerosi saggi sulle arti,
ammirando in particolare Dante (Dell'amor patrio di Dante, 1826) o analizzando in
particolare l'arte del proprio periodo (La peinture moderne en Italie, 1841).
In Dante egli vide uno dei primi campioni dell'unità nazionale quando in esilio
sostenne con convinzione le proprie idee, credendo sempre nella possibilità di riunificare
22
una Italia divisa sotto una unica guida.
In particolare poi in Dante, in cui forse riconosceva il proprio medesimo destino di
esiliato, egli riconobbe il primo autore, che intuì uno dei pilastri dell'unificazione nazionale:
l'uso della lingua italiana e la conseguente necessità dell'unità culturale della nazione.
Egli poi riconobbe in Dante la volontà di creare una coscienza etica nazionale, che
allo stesso modo egli riteneva necessaria in Italia. Si può dire che egli riconobbe tratti
simili in Foscolo e nei suoi personaggi tanto che negli anni sessanta del XIX secolo
riconobbe anche carattere quasi profetico all'esperienza foscoliana.
Nella pittura e nella scultura, Mazzini non amava il Neoclassicismo ed in particolare
Canova poichè tutto l'opera artistica dello scultore si riduceva alla purezza della forma
mentre egli considerava con grande interesse i contemporanei Hayez e Induno, ad
esempio, che ritraevano fatti del proprio periodo storico ma soprattutto erano anche
impegnati nel dibattito politco e sociale della propria epoca.
Mazzini arrivò a parlare di Hayez come del "genio democratico" poichè con le
proprie opere contribuì alla formazione della coscienza democratica della nazione.
Tutto questo processo doveva portare gli intellettuali a divenire una sorta di
coscienza critica e di stimolo attraverso la loro opera per compiere la missione di
progresso a cui l'Italia era chiamata.
Hayez e Induno, ad esempio, attraverso la loro attenzione a fatti della storia d'Italia
o comunque contemporanei potevano portare alla creazione di un modello di storia
diverso da quello voluto dai Savoia nel 1833 con la creazione della Società Subalpina di
Storia Patria e basata sull'esaltazione dell'azione monarchica.
Mazzini invece voleva una storia d'Italia come azione di un popolo cosciente della
propria missione storica individuata da Dio per realizzare la libertà e la giustizia sociale.
Egli, come già visto, aveva già ben presente il nesso fra storia e cultura e i doveri
dei cittadini e delle cittadine tanto che l'art. 35 della Costituzione della Repubblica Romana
del 1849 individuava un ministero, che aveva tra i propri compiti "educazione e le belle
arti".
Praticamente nella costituzione si coglie il nesso fra l'educazione, intesa come
costruzione di una coscienza dei propri doveri, e le cosiddette "belle arti" come
componente essenziale del processo educativo senza il quale non si sarebbe potuta
realizzare la missione assegnata da Dio all'Italia.
Come già visto, Mazzini pone al centro delle proprie riflessioni il Dovere, inteso
come libera assunzione delle proprie responsabilità verso dio, la famiglia, se stessi...
23
Mazzini sostiene che il diritto nasce in determinate condizioni come dovere di tutta
la società di farsi carico di problema di ognuno (principio ispiratore del welfare) sulla base
di un modello, che parte dal basso in un ottica di sussidiarietà orizzontale.
Egli sostiene che il sistema autogestito tramite forma di associazionismo operaio,
quale base della crezione di una società civile organizzata e fondata sull'estensione del
modello cooperativo per superare la divisione del capitale e del lavoro e quella che
Mazzini definiva "la schiavitù del lavoro salariato".
Su questa base quindi Mazzini riteneva che vi fossero due processi paralleli da
condurre ed ambedue basati sull'azione delle masse popolari:
• uno, più personale, volto a garantire l'acquisizione individuale da parte di ognuno
della consapevolezza dei propri doveri;
• un altro, più ampio volto a garantire il processo di unificazione nazionale.
Esso doveva nascere dal basso e da una profonda e convinta lotta popolare di
massa. Su tutto ciò agiva il valore unificante della cultura unitaria nazionale.
Il processo educativo nasceva ovviamente dall'acquisizione di nozioni di base e
dalla creazione di scuole popolari, come quella fondata da Mazzini a Londra negli anni
Quaranta del secolo XIX, ove alle normali nozioni di lingua, calcolo, ecc., si tenevano
conferenze su arte, storia...in modo da garantire a tutte e a tutti una conoscenza della
cultura nazionale tale da poter giungere alla libera assunzione delle proprie responsabilità
in una società dove il dovere deve divenire una libera determinazione delle persone.
Nel contempo, se la determinazione del dovere è una libera scelta delle persone,
evidentemente pure l'insegnamento e quanto viene fornito nelle scuole autogestite
costituisce materiale da condividere e che ognuno potrà utilizzare, come meglio ritiene, nel
suo percorso per la formazione di una coscienza etica.
Qui sta uno dei nodi del pensiero mazziniano ovvero la condivisione finale e comune dei
valori di cui la storia e l'arte della nazione sono parte essenziale della coscienza di ognuno
come se fossero la componente essenziale della vita delle persone.
Mazzini aveva sicuramente visitato musei e collezioni private ma era anche
cosciente della difficoltà dove al momento dell'Unità pochi erano i musei esistenti e molte
opere si trovavano all'interno di strutture religiose o di collezioni private.
Fu per la necessità di catalogare l'entità del patrimonio artistico che un "volontario
del 1849" come G.B. Cavalcaselle fu chiamato a censire i beni culturali dell'Italia Centrale
allo scopo di non disperdere questo importante patrimonio.
Egli completò il lavoro ma soprattutto teorizzò l'autonomia del fenomeno artistico, la
24
necessità di formare scuole idonee per gli artisti, l'esigenza di una autonoma definizione
dell'arte del restauro per giungere alla considerazione del valore di tutta l'arte italiana fin
dai cosiddetti "primitivi", osteggiati nel XIX secolo dagli ambienti culturali più tradizionali e
alla nascita del libro degli ospiti nei musei allo scopo di favorire l'integrazione fra il mondo
culturale e i visitatori allo scopo di rendere le strutture culturali più importanti e visitabili.
In conclusione, se arte e storia sono parte integrante della missione affidata da Dio
all'Italia, ne consegue non solo la loro importanza nella definizione del ruolo nazionale ma
anche il valore fondamentale nella formazione della coscienza individuale di ognuna e
ognuno.
Questo dato dovrebbe portare in prospettiva a far divenire i beni culturali come i
valori fondanti della democrazia italiana e soprattutto dell'essere cittadina o cittadino di
quell'Italia, che doveva essere una, libera, indipendente e repubblicana, retta su patto fra
Dio e popolo, che doveva agire su un rapporto diretto fra Pensiero e Azione.
25
La realtà museale di Historia
Alessandro BoninsegnaAmministratore di Historia Snc.
Sono Alessandro Boninsegna, Amministratore di Historia Snc. Per anni ho
partecipato a diversi scavi archeologici (“ho fatto l'archeologo”, come amavo dire anni fa)
un poco in tutta Italia.
Una cosa che mi colpiva era il modo in cui venivano trattati i pochi “coraggiosi” che
osavano affacciarsi ai confini dei cantieri dove operavano archeologi e muratori. Nella
migliore delle ipotesi qualcuno urlava al fine di far desistere l'avventurosa invasione di
campo del curioso di turno.
Urlo (ripeto: nel migliore dei casi!) nato
dal pericolo insito nella vita di cantiere, ma
certo non condivisibile come mezzo. Anzi, dal
mio punto di vista, con un poco di
organizzazione al fine di salvaguardare il
pubblico, si sarebbero dovuto addirittura
incentivare la curiosità della gente e far
diventare le visite in cantiere dei veri e propri
servizi aggiuntivi alla nomrale vita di cantiere.
In fondo l'archeologia deve raccontare la vita
dei secoli scorsi a tutti, non solo ai cosidetti
addetti ai lavori. Proprio con questo fine, nel
1999, nacque a Ferrara la società Historia
S.n.c., Valorizzazione Beni Culturali.
Tralasciamo vita e vicessitudini della società:
basti dire che dal primo Museo in cui
operavamo, ed in cui lavoriamo tutt'ora, il
Museo Civico di Belriguardo, arrivammo a
lavorare, a vario titolo, in diversi Musei.
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Immagine n. 1: Castello di Belriguardo (Voghera, Fe)
Immagine n. 2: Fondazione Carlo Gajani (BO), ritratto di Pier Paolo Pasolini
Volevamo trovare un modo per farli
conoscere ad un pubblico sempre più vasto:
questo fine, spesso, esulava dai nostri compiti
specifici, visite guidate, didattica o altro che
fosse, ma lo sentivamo come il fine ultimo della
società. Stavamo studiando la possibilità di
creare un blog che parlasse dei Musei dove
lavoravamo e, quasi per caso, nacque l'idea di
creare una Rete, unendo in questo modo tutti i
musei, dall'Emilia alla Puglia, dove Historia Snc
era presente.
Da lì alla creazione e messa in rete dl primo
blog il passo fu veramente brevissimo. Poco
dopo eravamo anche sui social network
principali, facebook e twitter.
L'idea era quella di giungere a progettare
eventi che accomunassero uno o più dei musei della rete, in modo da giungere a creare
una sorta di comunità che, da virtuale, il blog ed i social network, si evolvesse verso la
realtà. La crisi del 2007 bloccò, momentaneamente, l'idea, costringedoci, anche per
motivi logistici (per lo più i musei erano molto lontani gli uni dagli altri), a limitarci alla mera
divulgazione virtuale.
Il 2014 - 2015 rappresenta, al contrario, un periodo di svolta positiva: allargandosi il
numero di Musei dove opera Historia, per la prima volta alcuni piccoli Musei sono
relativamente vicini gli uni agli altri. Il Museo Civico di Belriguardo1, a Voghiera (in
provincia di Ferrara), il Museo Parrocchiale di Massa Fiscaglia2 (sempre in provincia di
Ferrara), la Collezione Mario Piva3, a Ferrara, la Casa Museo Carlo Gajani4, a Bologna, i
Musei di Massa Lombarda5, in provincia di Ravenna e la Fortezza di Castrocaro Terme6, in
provincia di Forlì Cesena.
Si tratta, come detto poco sopra, di piccoli Musei, ma con una grande voglia di far
conoscere quanto esposto al loro interno (spesso reperti ed opere d'arte che nulla hanno
1 Museo Civico di Belriguardo (Voghiera, FE): historia-vbc.com/museo-civico-di-belriguardo-di-voghiera/2 Museo Parrocchiale di Massa Fiscaglia (FE): historia-vbc.com/museo-parrocchiale-di-massa-fiscaglia-fe/3 Collezione Mario Piva (FE): historia-vbc.com/la-collezione-mario-piva-ferrara/4 Fondazione Carlo Gajani (BO): historia-vbc.com/casa-museo-carlo-gajani/5 Centro Culturale di Massa Lombarda (RA): historia-vbc.com/museo-e-pinacoteca-di-massa-lombarda/; Museo della Frutticoltura di Massa Lombarda (RA): historia-vbc.com/museo-della-frutticoltura-adolfo-bonvicini-di-massa-lombarda/6 Fortezza di Castrocaro Terme (FC): historia-vbc.com/fortezza-di-castrocaro-terme-fc/
27
Immagine n. 3: Collezione Mario Piva (FE)
da invidiare a quanto esposto in Musei ben più grandi e conosciuti).
Sensibilità simili vengono quindi a contatto, dando origine ad alchimie tali che,
improvvisamente, a dispetto della persistente crisi, vecchi progetti che sembravano ormai
irrealizzabili diventono ora realizzabili.
In particolare, Historia Snc inizia a
partecipare ad alcuni eventi di rilievo
nazionale ed internazionale quali, ad
esempio, la Festa Internazionale della Storia,
organizzata dal Professore Dondarini
dell'Università di Bologna. Dapprima vi
partecipa il solo Museo Civico di Belriguardo
mentre, nell'anno 2015, vi partecipano i tre
musei “ferraresi” della rete: sempre
Belriguardo, la Collezione Mario Piva ed il
Museo Parrocchiale di Massa Fiscaglia.
L'articolo scritto sul sito della società Historia
Snc, nella sezione news, l'11/08/2015,
specificava: “Ed anche quest’anno si
partecipa alla Festa Internazionale della
Storia. Anzi, ci siamo fatti in tre: Belriguardo,
Museo Parrocchiale di Massa Fiscaglia e
Collezione Mario Piva a Ferrara. Ferrara e la
sua provincia nella Storia. La proposta prevede l’organizzazione di alcuni eventi miranti a
far riscoprire lo svolgersi della cultura nel corsi dei secoli nella provincia di Ferrara,
collegando tra di loro tre istituzioni di alto profilo e di rilevante valore culturale quali
testimoni di periodi diversi. Dagli Etruschi al Rinascimento, Castello di Belrguardo,
Voghiera. Dal Tardo Rinascimento al Novecento, Museo Parrocchiale di Massa Fiscaglia
L’Arte del Novecento: Mario Piva, Collezione Mario Piva, Ferrara.(...)”.
Non è solo una mossa vincente, con articoli e visite anche importanti presso i musei
della Rete coinvolti, ma una vera e propria scossa che riporta alla vita vecchie idee di
collaborazioni e di scambi che sembravano accantonate per sempre.
In aprile, a Belriguardo, inaugureremo una mostra con le opere d'arte di Carlo
Gajani a cui seguirà, subito dopo, una seconda mostra con le opere di Mario Piva.
Contemporaneamene sono allo studio forme di collaborazioni quali uno sconto sul costo
28
Immagine n. 4: Museo Parrocchiale di Massa Fiscaglia (FE)
del biglietto a chi si presenta con il biglietto di uno degli altri Musei della Rete (quindi, in
questo caso, si potrebbero convolgere tutti i musei della Rete che fanno pagare un
bliglietto).
Un'altra iniziativa riguarda la presenza di
materiale informativo: ci stiamo organizzando in
modo che, chi visiterà uno dei Musei della Rete
presenti in Emilia Romagna, possa trovare
materiale informativo relativo anche gli altri
Musei emiliano romagnoli della Rete.
Contemporaneamente la società Historia
S.n.c. ha iniziato a collaborare con una
Fondazione statunitense organizzando, in alcuni
dei Musei della Rete, corsi dedicati a vari aspetti
della Cultura italiana, dall'affresco alla cucina.
In tempi relativamentre brevi potrebbero esserci altre novità anche in Trentino, dove
Historia già organizza i laboratori didattici presso Castel Pietra: potrebbe nascere un
rapporto di collaborazione anche con un altro castello e, di conseguenza, anche in
Trentino potrebbe nascere una collaborazione più stretta tra due strutture prossime,
sempre nell'ambito della Rete.
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Immagine n. 5: Castel Pietra (Calliano, TN), Sala del Giudizio
Il Museo Archeologico del Finale: un museo per una comunità
Daniele Arobba Direttore Museo Archeologico del Finale Andrea De PascaleConservatore Museo Archeologico del Finale Giovanni MurialdoPresidente della Sezione Finalese dell'Istituto Internazionale di Studi Liguri
Il Museo Archeologico del Finale (MAF), nella sua prestigiosa sede presso il
complesso monumentale di Santa Caterina in Finalborgo (Finale Ligure - Savona),
custodisce tutte quelle testimonianze che scandiscono un’ininterrotta frequentazione
umana - dalla Preistoria più antica fino ad oggi - del Finalese, area costiera ligure dalle
grandi e peculiari valenze naturalistiche, ambientali, storiche e archeologiche. Il MAF è
un’istituzione di proprietà del Comune di Finale Ligure, gestito dalla sua creazione dalla
sezione Finalese dell’Istituto Internazionale di Studi Liguri, ente di ricerca Onlus che cura
diverse strutture museali nella Liguria di Ponente.
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Immagine n. 1: Il secondo chiostro del Complesso Monumentale di Santa Caterina in Finalborgo sede del Museo Archeologico del Finale (foto D. Arobba)
Il MAF non costituisce solo la sede dove nel tempo si sono depositate le
testimonianze della presenza umana nel territorio, ma è un’istituzione viva, che mantiene
uno stretto contatto con la realtà che lo circonda e con la quale continuamente si
compenetra attraverso lo studio e la ricerca di sempre nuovi aspetti della storia e delle
vicende umane che la hanno caratterizzata.
L’odierno museo nasce da quel “Civico Museo del Finale”, allestito dal 1931 in
alcuni locali di Palazzo Ghiglieri a Finalmarina, da un cultore della storia locale - il maestro
Giovanni Andrea Silla – dove confluirono nel tempo un primo nucleo di raccolte
archeologiche di eterogenea provenienza e reperti della vita marinara finalese, in una
sistemazione ancora permeata da un accentuato spirito collezionistico ed erudito,
d’impostazione ottocentesca. Dimostrando un’antica e radicata tradizione culturale propria
dell’ambiente finalese, nell’antico palazzo nobiliare furono successivamente ospitate
raccolte zoologiche, appartenenti alle collezioni didattiche di diversi istituti scolastici,
esemplari storici di armi da taglio e da fuoco, ma soprattutto quei fondamentali reperti sulla
Preistoria e sull’Età romana, che venivano restituiti dalle pionieristiche indagini
archeologiche condotte tra gli anni Trenta e Cinquanta del secolo scorso nel Finale.
Tra il 1976 ed il 1977 il museo trovò ospitalità nelle prime aree recuperate e
restaurate nel Complesso monumentale di Santa Caterina, in un ambiente che ancora
recava pesanti tracce delle precedenti improprie destinazioni d’uso a penitenziario.
Nei nuovi e più ampi spazi aperti al pubblico nel novembre del 1986, gradualmente
recuperati, si passò ad un museo che voleva illustrare, attraverso le evidenze
archeologiche, le vicende dell’occupazione umana, in un nuovo percorso che si sviluppava
senza cesure dalla nascita del territorio ai momenti che videro la comparsa dell’Uomo,
dalla Preistoria più antica fino alle fasi storiche più recenti.
È l’Uomo preistorico il vero e principale protagonista dei lunghi millenni compresi tra
il Paleolitico inferiore e il Neolitico. Poche aree italiane hanno fornito, come il Finalese,
tante testimonianze delle diverse specie umane succedutesi in Europa tra il Paleolitico
inferiore e quello superiore. Nelle vetrine del Museo è possibile percorrere per intero la
lenta evoluzione della tecnica di scheggiatura della pietra per la realizzazione di una
strumentazione sempre più articolata, indispensabile per le quotidiane attività e la
sopravvivenza di questi uomini, che basavano la loro sopravvivenza esclusivamente su
caccia e raccolta. I bifacciali provenienti da siti all’aperto dell’Altopiano delle Mànie e dalla
Caverna delle Fate, costituiscono eccezionali reperti dell’Homo heidelbergensis del
Paleolitico inferiore (350mila-120mila anni fa).
31
Immagine n. 2: La sala II del Museo Archeologico del Finale dedicata al Paleolitico inferiore e alle testimonianze di Homo heidelbergensis (foto D. Arobba)
Successivamente, un ulteriore importante evento registrato nella Preistoria finalese
è costituito dalla comparsa dell’Uomo di Neandertal con la sua cultura musteriana, nel
corso del Paleolitico medio (120mila-38mila anni fa). Preziose testimonianze di questo
nostro antenato sono state restituite dall’Arma delle Mànie e dalla caverna delle Fate, da
dove provengono anche i resti ossei di almeno cinque individui, sia bambini sia adulti.
Sono esempi finora unici nel panorama archeologico dell’Italia settentrionale, espressione
di quell’ambiente dove accanto all’altro grande dominatore di questo periodo preistorico,
l’orso delle caverne, troviamo ulteriori esempi della fauna che popolava il territorio: il
leopardo, il rinoceronte di Merck, l’elefante antico, il cervo megacero, l’alce e lo
stambecco.
Durante l’ultima grande glaciazione, che segnò l’estinzione dell’Uomo di
Neandertal, compare infine col Paleolitico superiore l’Uomo moderno (38mila anni fa), il
nostro più immediato progenitore. Oltre che nella sempre più raffinata industria litica,
questo nostro diretto antenato lo possiamo conoscere attraverso le sue sepolture e i suoi
rituali funebri. Dalle Arene Candide provengono, infatti, eccezionali esempi di inumazioni
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che costituiscono fondamentali punti di riferimento per la Preistoria europea. Prima fra
tutte quella del “Giovane Principe” (28mila anni fa), così chiamato per il ricco corredo che
lo accompagnò nella morte: il casco di conchiglie, i bastoni forati ricavati da palchi d’alce,
la grande lama di selce che stringe in una mano, gli elementi decorativi in avorio di
mammut, le conchiglie simbolo della fertilità.
Immagine n. 3: La sala III del Museo Archeologico del Finale dedicata al Paleolitico superiore e alla sepoltura del Giovane Principe della Caverna delle Arene Candide (foto D. Arobba)
In livelli più recenti (12mila-10mila anni fa) sono presenti i resti di almeno sedici
scheletri umani, un vero e proprio cimitero. La sepoltura di un bambino, che al momento
della morte venne inumato su un letto di ocra rossa e forse coperto da un mantello
costituito da code di scoiattolo, ci restituisce una suggestiva immagine della ritualità di
questi frequentatori della caverna, ubicata in uno dei luoghi più suggestivi della zona e
direttamente affacciata sul mare.
Un’ampia sala del Museo è dedicata al Neolitico (dal VII al IV millennio a.C.),
ovvero alla grande “rivoluzione neolitica” che vide l’avvento delle prime pratiche agro-silvo-
pastorali. Questo passaggio è segnato dalla comparsa della ceramica, con le sue diverse
forme e destinazioni funzionali: liscia o decorata con impressioni ottenute mediante
conchiglie, con suppellettili destinate, sia per la cottura di alimenti, sia per la
conservazione di liquidi e cereali.
Le prime pratiche di un’agricoltura primitiva sono testimoniate oltre che da macine e
macinelli per ricavare farine e da lame in selce per falcetti, anche da chicchi di cereali e
33
semi di leguminose carbonizzate di chiara importazione da aree del Mediterraneo
orientale. Anche la pastorizia ha lasciato tracce significative, attraverso ossa macellate di
caprovini, livelli di stabulazione e resti di foraggio.
Particolarmente significativa la presenza di oggetti pertinenti al Neolitico medio,
quando si affermò la cosiddetta cultura del “Vaso a Bocca Quadrata”, per la particolare
conformazione dell’orlo di questi fittili rinvenuti in numerose caverne finalesi.
Alle occasionali e disperse presenze riconducibili alla Preistoria più antica, col
Neolitico si assiste ad una capillare occupazione del territorio con siti all’aperto ed in
grotta, legati ad un più intensivo sfruttamento delle risorse naturali. Oltre agli aspetti
connessi all’agricoltura ed alla pastorizia, numerosi altri oggetti ci consentono di capire la
cesura costituita dal Neolitico nell’evoluzione umana: sono gli oggetti in pietra di
decorazione personale, le “pintaderas” usate per dipingere il corpo, le accette in pietra
levigata, l’industria su osso, gli utensili impiegati per la tessitura, cui si associano nuovi
rituali funerari in cui prevale la posizione rannicchiata dell’inumato, spesso protetto da
lastre di pietra. Altri eccezionali ritrovamenti sono costituiti dalle statuette femminili in
ceramica appartenenti alle complesse simbologie spirituali del periodo , rinvenute nelle
caverne della Pollera e delle Arene Candide.
Il materiale scheletrico umano fornisce poi un’ampia e articolata casistica
paleopatologica, che comprende lesioni per traumi, trapanazioni del cranio, rachitismo,
anemie e drammatici casi di deformazione della colonna vertebrale, dovuti alla tubercolosi
ossea.
Immagine n. 4: La sala VI del Museo Archeologico del Finale dedicata al Neolitico medio, con la sezione espositiva sulle sepolture e le paleopatologie (foto D. Arobba)
34
Un’ulteriore evoluzione fu segnata dall’acquisizione di tecniche di fusione dei metalli
con le Età del Rame (3600-2200 a.C.), del Bronzo (2200-900 a.C.) e del Ferro (X-II secolo
a.C.).
In questi periodi, oltre al contrarsi dell’uso delle caverne, si assiste alla costituzione
di abitati in altura, come quelli recentemente rinvenuti a Bric Reseghe, presso Calvisio e a
Sant'Antonino nella Valle di Perti. Nuove dinamiche di controllo territoriale si verificano tra
la fine dell’Età del Bronzo e la prima Età del Ferro, segnata dalla nascita dei Castellari, siti
difesi arroccati in punti strategici della zona.
La romanizzazione del territorio, esordita alla fine del II secolo a.C., trova
soprattutto espressione nei corredi delle necropoli rurali di Isasco e di Perti, esposti nel
Museo. Ai grandi resti monumentali costituiti dai ponti della Val Ponci, attraversata dalla
via Iulia Augusta, nel Finale non corrispondono finora significativi contesti abitativi, con
l’eccezione dell’area insediativa contigua alla Pieve, a Finalmarina.
Sicura traccia di una precoce cristianizzazione è costituita dall’epigrafe sepolcrale di
Lucius, datata al 362, proveniente da Perti ed inserita in un quadro che vide la graduale
formazione di un sistema di chiese rurali incentrato sulla sede battesimale della Pieve.
Recenti indagini archeologiche hanno inoltre dimostrato la rilevanza rivestita dal Finale nel
quadro della Liguria bizantina nel VI e VII secolo, quando il territorio era controllato dalla
potente fortezza di Sant'Antonino e la rada di Varigotti costituiva il naturale tramite col
mondo mediterraneo.
Dalla chiesa di San Lorenzo di Varigotti proviene il sarcofago romano in marmo
bianco rilavorato nella seconda metà dell’VIII secolo, quale significativo esempio delle
tecniche artistiche altomedievali.
La sezione dedicata al Medioevo e all’Età Moderna conclude questo lungo percorso
storico, presentando una selezione della grande messe di reperti provenienti dai più
recenti scavi condotti a Finalborgo, che hanno confermato gli intensi rapporti col mondo
islamico e con altre aree nevralgiche del Mediterraneo intessuti dal Marchesato
carrettesco del Finale.
Infine, una sala è dedicata alla monetazione e alle collezioni numismatiche del
Museo, recentemente arricchitesi grazie alla donazione dell’originaria raccolta antiquaria di
Giovanni Andrea Silla.
Il percorso espositivo offre, in tutte le sale, ambientazioni tridimensionali in scala
reale di uomini delle diverse fasi storiche, con fedeli riproduzioni di reperti - i cui originali
sono esposti nelle vetrine - oltre a disegni con ricostruzioni ambientali, postazioni tattili e
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schermi touch-screen che consentono al visitatore di apprezzare i contenuti scientifici, in
modo piacevole e coinvolgente.
Numerose attività sono rivolte alle scuole e al pubblico più giovane per fare
apprendere manualità e tecniche in uso nella preistoria e nell’antichità. Attraverso
laboratori ed itinerari didattici, approfondimenti tematici e giochi, si possono sperimentare
diverse esperienze ed acquisire conoscenze, tra cui la pittura sulle pareti delle caverne,
l’arte della tessitura, la produzione ceramica, la macinazione dei cereali e la preparazione
di alimenti, la realizzazione di un affresco, il lavoro dell’archeologo e dell’archeobotanico.
Immagini n. 5/6: Momenti di attività presso i Laboratori Didattici di Archeologia Sperimentale del Museo Archeologico del Finale (foto A. De Pascale e E. Provenzani)
L’ideazione e la gestione di una serie di percorsi guidati sul territorio a siti e
monumenti, in collaborazione con il Comune di Finale Ligure e la Soprintendenza
Archeologia della Liguria, consente d’integrare la visita al Museo con una diretta
conoscenza dei contesti paesaggistici, nei quali si svilupparono le vicende storico-
archeologiche del Finale.
Infine, ma di fondamentale importanza per una struttura espositiva viva e
aggiornata, il Museo Archeologico del Finale è costantemente impegnato nella ricerca
scientifica sul campo e in laboratorio (Archeologia, Archeobotanica, Restauro), attraverso
la collaborazione con Università, Soprintendenze e altri enti. I risultati di tali attività di
studio sono divulgati tramite convegni, conferenze, seminari e corsi, rivolti sia a specialisti
sia al vasto pubblico, oltre a trovare spazio nella pubblicazione di atti, monografie, guide
didattiche e nei Quaderni del Museo Archeologico del Finale.
Le pubblicazioni scientifiche prodotte dai ricercatori afferenti al Museo Archeologico
del Finale ed appartenenti alla sezione finalese dell’Istituto Internazionale di Studi Liguri
36
possono essere reperite sul sito www.museoarcheofinale.it, dove compaiono anche le
pubblicazioni edite dal museo stesso.
Bibliografia di riferimento
• AROBBA D. - DE PASCALE A., 2013, “Il riallestimento della Sala delle età Romana, Bizantina e Altomedievale del Museo Archeologico del Finale”, in N. Campana - A. Del Lucchese - A. Gardini (a cura di), “Archeologia in Liguria, nuova serie - volume 4, 2010-2011”, Soprintendenza per i Beni Archeologici della Liguria, De Ferrari Editore, Genova, pp. 246-247
• AROBBA D. - DE PASCALE A. (a cura di), 2014, “Gioco, scopro, imparo con l’archeologia. Viaggio nel passato attraverso le attività didattiche del Museo Archeologico del Finale”, Istituto Internazionale di Studi Liguri - sezione Finalese, Finale Ligure
• AROBBA D. - DEL LUCCHESE A. - DE PASCALE A., 2015, “Il Progetto ACCESSIT al Museo Archeologico del Finale”, in M. Conventi - A. Del Lucchese - A. Gardini (a cura di), “Archeologia in Liguria, nuova serie - volume V, 2012-2013”, Soprintendenza per i Beni Archeologici della Liguria, Sagep Editori, Genova, pp. 264-265
• AROBBA D. - DE PASCALE A. - DEL LUCCHESE A. (a cura di), 2013, “Le Guide del Museo Archeologico del Finale - Le Età dei Metalli”, Istituto Internazionale di Studi Liguri - sezione Finalese, Finale Ligure
• AROBBA D. - DE PASCALE A. - MURIALDO G., 2011, “Guida al Museo. Un racconto iniziato 350mila anni fa…Le Guide del Museo Archeologico del Finale”, Istituto Internazionale di Studi Liguri, Sezione Finalese, Finale Ligure
• AROBBA D. - DE PASCALE A. - VICINO G. (a cura di), 2013, “Le Guide del Museo Archeologico del Finale - Il Paleolitico”, Istituto Internazionale di Studi Liguri - sezione Finalese, Finale Ligure
• AROBBA D. - DE PASCALE A. - DEL LUCCHESE A. - MANAGLIA R. - MURIALDO G. - STARNINI E., 2010, “Il Neolitico al Museo Archeologico del Finale: riallestimento delle sale espositive”, in F. Bulgarelli - A. Del Lucchese - L. Gervasini (a cura di), “Archeologia in Liguria, nuova serie - volume 2, 2006-2007”, Soprintendenza per i Beni Archeologici della Liguria, De Ferrari Editore, Genova, pp. 391-392
• DE PASCALE A., 2008, “L’archeologia tra ricerca, valorizzazione e didattica: progetti ed esperienze nel Museo Archeologico del Finale”, in Atti del Colloque “Archéologies transfrontalières. Alpes du Sud, Cote d’Azur, Piémont et Ligurie. Bilan et perspectives de recherche”, Bulletin du Musée d'Anthropologie préhistorique de Monaco (suppl. n° 1, 2008), Monaco, pp. 291-296
• DE PASCALE A., 2015, “Divulgazione e didattica della Preistoria al Museo Archeologico del Finale”, in Mundus - Rivista di didattica della Storia, 7-8 (2011-2014), G.B. Palumbo Editore, Palermo 2015, pp. 100-105
• DE PASCALE A. - AROBBA D. (a cura di), 2008, “Le Guide del Museo Archeologico del Finale - Il Neolitico”, Istituto Internazionale di Studi Liguri - sezione Finalese, Finale Ligure
• DE PASCALE A. - STARNINI E., 2013, “La nuova sala delle Età dei Metalli al Museo Archeologico del Finale. Il percorso espositivo”, in A. Del Lucchese - L. Gambaro - A. Gardini (a cura di), “Archeologia in Liguria, nuova serie - volume 3, 2008-2009”, Soprintendenza per i Beni Archeologici della Liguria, De Ferrari Editore, Genova, pp. 209-211
• MURIALDO G. - BONORA E. - FOSSATI A. - DE PASCALE A. - AROBBA D., 2011, “La collezione di monete di Giovanni Andrea Silla e la nuova sala numismatica del Museo Archeologico del Finale”, in Ligures 9, Istituto Internazionale di Studi Liguri, Bordighera 2013, pp. 177-184
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Narbona di Castelmagno frazione “impossibile”
Flavio Menardi Noguera Storico, Associazione "Una casa per Narbona"
Non esiste un censimento delle frazioni disabitate della montagna cuneese.
Disabitate e molto spesso in rovina. Chissà quante sono! Sicuramente molte anche
considerando unicamente la Valle Grana. L’elenco completo sarebbe lungo e doloroso ma
basta citarne una - Narbona (“Arbouno”) - per fotografare una situazione drammatica e, in
molti casi, irreversibile. Basta Narbona perché questa frazione di Castelmagno, dal
momento in cui è stata abbandonata dall’ultimo abitante nel 1960, ha visto crescere la sua
fama, - paradossalmente perché ciò è avvenuto in parallelo con la sua rovina - divenendo
un simbolo (con tanto di alone mitico o leggendario) della civiltà della montagna e del suo
spopolamento.
Nonostante i crolli e la vergognosa spoliazione che ha subito ad opera di vandali e
ladri, la frazione continua a “parlare” a chi la visita, a manifestare la sua “anima” se è vero,
come è vero, che anche i luoghi hanno un’anima1. Molti restano vivamente colpiti dal
contrasto stridente tra la bellezza delle case in puro stile alpino e i ruderi, tra i segni residui
della vita di un tempo (mobili, arredi e oggetti d’uso comune che sono rimasti) e il degrado
crescente, la devastazione.
In questi decenni, oltre mezzo secolo, più
d’una volta si sono levate voci per
auspicarne il recupero e si sono imbastiti
progetti, ma la collocazione “impossibile”
di Narbona, in fondo ad un vallone laterale
- bellissimo per natura e conformazione -
che si diparte dall’abitato di Campomolino
(mt. 1155) e prosegue sempre salendo fino
alla cima del Monte Tibert (mt. 2.647), sul
versante orografico sinistro, in fortissima
pendenza, raggiungibile solo
attraverso due sentieri difficilmente
1 James Hillman, L'anima dei luoghi. Conversazione con Carlo Truppi, Milano, Rizzoli, 2004.
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Immagini n. 1/2: Narbona prima dell'abbandono e nel 1977
percorribili per molti mesi all’anno a causa delle valanghe, ha impedito che si arrivasse a
qualcosa di concreto. La pista che partendo da Colletto e toccando Valliera e Batuira
giunge fino al nucleo di Counbertrand e lì si ferma, a meno di un chilometro di metri dalla
frazione, è l’ultimo tentativo di fare qualcosa, “disperato” però e in parte contraddittorio
(perché se veramente raggiungesse la borgata potrebbe rappresentare più un pericolo per
ciò che rimane che una salvezza, vista la difficoltà di trovare fondi sufficienti al suo
recupero e la tenacia dei saccheggiatori) e, in fondo, rischierebbe di spezzare il secolare
“isolamento” di Narbona che ne è forse la caratteristica principale.
Il mistero delle origini di Narbona ha sollecitato varie ipotesi, non tutte suffragate da
prove, come quella che sia stata fondata nel XIII secolo dai Catari che fuggendo le
persecuzioni, cercavano un rifugio sicuro. Gli “indizi” sono suggestivi: il nome della
frazione, i toponimi locali, alcune leggende, l’unico cognome dei suoi abitanti (“Arneodo”),
la loro particolare parlata e il fatto che fossero detti “La brava genteta dl’Arbouneta” come i
Catari erano detti “Bon hommes”. Pù semplicemnete verrebbe da pensare che la sua
posizione audace rappresenti una sfida dell’uomo alla montagna ma, in realtà, nessun
vero montanaro ha mai pensato di “sfidarla”. Si tratta di uno splendido esempio
d’insediamento abitativo in un contesto “estremo” che ha condizionato in modo originale le
tecniche costruttive, l’organizzazione del lavoro, le condizioni di vita, la cultura. Ai nostri
occhi “moderni” sembra davvero incredibile che in un posto simile per secoli abbia vissuto
un'intera comunità e che, all’inizio del Novecento, risiedessero a Narbona ancora 26
famiglie per 120 persone, con un centinaio di mucche (e altri animali domestici): insomma
un’intera comunità, con tanto di chiesa e, per alcuni decenni, anche di scuola elementare
(dal 1925 al 1960).
Oggi Narbona si sta trasformando in una grande pietraia. Il contrasto tra i segni
della vita d’un tempo e il degrado generale è molto forte e suscita un’emozione particolare
nei visitatori attenti. Il progetto “Una casa per Narbona”, avviato tra il 2010 e il 2011 per
iniziativa del sottoscritto e di Angelo Artuffo (entrambi ex obiettori di coscienza in servizio
civile a Castelmagno negli anni Settanta del Novecento), nell’ambito delle attività del
Centro Occitano di Cultura “Detto Dalmastro” di Castelmagno, rappresenta il tentativo di
fare qualcosa per Narbona e salvarne almeno la memoria2.
2 Notizie aggiornate sul progetto e materiali vari (articoli, fotografie, video) si trovano all'indirizzo: unacasapernarbona.tumblr.com
39
Il progetto
La prima azione è stata quella di costituire un gruppo di ricerca aperto al contributo
di tutti coloro che hanno a cuore questa frazione che può essere legittimamente eletta a
simbolo non solo di Castelmagno ma della Valle e della civiltà della montagna più in
generale. Il gruppo ha iniziato un lavoro di ricerca seguendo diversi filoni d’indagine:
raccogliendo le preziose testimonianze dei Narbonesi, le fotografie specialmente le più
“antiche”, studiando l’ambiente e l’architettura, la lingua e le sue particolarità, indagando le
fonti storiche (documenti di archivio, comunali e parrocchiali, ecc...). Questo lavoro, svolto
su base assolutamente volontaria, ha permesso di realizzare:
• il recupero e il salvataggio di ciò che era ancora presente a Narbona, previo
consenso dei proprietari e apposita segnalazione;
• la progettazione di alcune pubblicazioni dedicate a Narbona basate sui materiali
reperiti dal gruppo di lavoro e ricerca rielaborati grazie alle specifiche competenze dei
partecipanti;
• l’allestimento del polo museo “Una Casa per Narbona” a Campomolino con la
ricostruzione di alcuni interni originali delle abitazioni e della scuola elementare della
borgata.
Ciò è stato possibile grazie alla fattiva collaborazione instaurata nel corso del 2012 tra
l’Associazione Culturale La Cevitou di Monterosso Grana e il Centro Occitano di Cultura
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Immagine n. 3: L'interno di una casa di Narbona
“Detto Dalmastro”. Tale collaborazione si è concretizzata, con il recupero nel 2012 degli
arredi della scuola di Narbona e con l’accordo nel 2013 per l’allestimento e la gestione
della casa Museo di Campomolino, all’interno dell’Ecomuseo Terra del Castelmagno.
Il progetto, sostenuto dell’Amministrazione Comunale di Castelmagno, non si è esaurito
nell’allestimento della parte museale ma è proseguito grazie al lavoro di ricerca già avviato
da diversi studiosi, ricercatori e appassionati di storia locale. I Castelmagnesi si sono
subito sentiti coinvolti e hanno arricchito la parte espositiva con materiali propri
appartenenti alla stessa cultura materiale di Narbona.
Una spedizione con l'elicottero
Un momento decisivo e spettacolare del progetto è stato quello dei giorni tra il 31
maggio e l’11 giugno 2014 allorché si è realizzato il recupero con l’elicottero dei mobili,
degli oggetti e dei manufatti ancora presenti nella borgata destinati a ricostruire
fedelmente un’intera abitazione della frazione nel polo museale di Campomolino. La
spedizione sembrava un sogno, per le difficoltà di ogni tipo, che, invece, si è concretizzato
grazie all’impegno e al sostegno di diverse realtà (dal Comune di Castelmagno al Centro
di Cultura Occitana Detto Dalmastro, dall’Associazione Culturale La Cevitou alla Comunità
Montana Valli Grana e Maira, al periodico “Il Caragliese”) e di molti singoli che hanno
aderito e si sono aggregati strada facendo. Ad ogni tappa del percorso che ha portato alla
spedizione con l’elicottero, nell’arco di oltre un anno, hanno dato il loro contributo di idee,
41
Immagine n. 4: 11 giugno 2014. Si recuperano alcuni mobili con l'elicottero dalle case di Narbona
energie, risorse economiche, tanti amici, vecchi e nuovi, cosicché ad ogni appello in vista
di spedizioni esplorative od operative a Narbona, si sono formati gruppi nuovi ed
eterogenei attorno ai “fedelissimi”. Molti poi hanno seguito questa “piccola grande
impresa”, standoci semplicemente vicino con le parole, le e-mail, le telefonate, gli
incoraggiamenti, condividendo insomma lo spirito che ha animato il progetto “Una casa
per Narbona” sin dall’inizio.
Dopo due sopralluoghi nella frazione in compagnia di un tecnico della Ditta Heliwest
che ha fornito l’elicottero per il trasporto e deciso le modalità operative, due squadre di
volontari di una decina di persone hanno lavorato duramente nell’ultimo fine settimana di
maggio per preparare le piazzole destinate ad ospitare i mobili, estrarli dalle case (impresa
questa non facile per il fatto che alcuni furono costruiti all’interno e non uscivano dalle
porte troppo strette e quindi è stato necessario smontarli con molta attenzione, per la
pesantezza di alcuni manufatti e per la difficoltà di muoversi in ambienti ristretti e in mezzo
alle rovine), predisporli al trasporto, incastrarli tra loro in modo da formare quattro carichi
compatti, ben legati, depositati, protetti dai teli, e ancorarli al sul ripido prato a monte della
frazione.
I carichi sono rimasti sul luogo, incustoditi, per dieci giorni e dopo un po’ di
preoccupazione per la situazione meteorologica è arrivato, infine, il gran giorno: mercoledì
11 giugno una squadra si è portata a Narbona per attendere l’arrivo dell’elicottero nel
pomeriggio e un’altra a Colletto, con i mezzi di trasporto, per assisterlo nel momento dello
scarico dei mobili. Le squadre hanno comunicato con i walkie talkie e tutto si è svolto nel
migliore dei modi con quattro viaggi da Narbona a Colletto. Gli oggetti prelevati con il
consenso dei proprietari (un madia, un cofu3, un armadio, due credenze, due letti, una
rastrelliera, un supporto per la stagionatura dei formaggi, e diversi altri arredi in legno), ora
sono nella loro "casa". Il giorno dopo, il TG3 regionale del Piemonte ha trasmesso un bel
servizio sulla spedizione in seguito al quale, come da una scatola magica, molti ci hanno
contattato e sono scaturiti nuovi contatti con Narbonesi lontani e persone che desiderano
portare la loro testimonianza su Narbona, collaborare, e fornire ulteriori materiali e antiche
fotografie.
L'elicottero che con il suo rombo rompeva il secolare silenzio della comba e con la
sua potenza sollevava facilmente i carichi che noi, con grande fatica, avevamo estratto
dalle povere abitazioni della borgata ci ha riempito il cuore di emozione e gioia. La riuscita
della spedizione, vissuta da tutti i simpatizzanti e seguaci del progetto e dalla comunità
3 Così è chiamato un grande cassone rettangolare a più scomparti utilizzato per conservare i cereali.
42
castelmagnese ha creato molto entusiasmo e ha permesso di allestire la “Casa di
Narbona”. Non solo un polo museale ma anche il nucleo centrale di un progetto culturale
in progress di ampio respiro dedicato alla civiltà alpina attorno al quale verranno create e
proposte iniziative di vario genere: conferenze, proiezioni, seminari, convegni e periodiche
mostre tematiche.
La struttura costituisce anche il punto di partenza di un circuito di escursionismo
culturale attraverso le frazioni del territorio che tocca anche l’abitato di Narbona nel tratto
in sicurezza. Anche chi non può o non è in grado di affrontare l’intera escursione può
“visitare virtualmente” la frazione attraverso i video e i materiali multimediali della “Casa”:
un luogo in cui la comunità di Castelmagno e della Valle Grana si presenta ai suoi ospiti
per farsi meglio comprendere, nel rispetto del suo lavoro, dei suoi comportamenti, delle
sue tradizioni e dei suoi saperi, in una parola della sua identità.
Campomolino – Il polo museale “Una Casa per Narbona”
Il polo museale ricostruisce una casa della famosa frazione: una camera da letto,
una cucina, una stalla e una cantina. Un locale è dedicato poi alla scuola elementare
originale della frazione di cui nel 2013 sono stati recuperati a forza di braccia e gambe tutti
gli arredi, arricchita di sussidiari, quaderni dell’epoca con elaborati di bambini
castelmagnesi, fotografie e testimonianze audio e video dei maestri (Caterina Goffredo e
Giacomo Parola) e degli allievi della pluriclasse degli anni Cinquanta e Sessanta del
Novecento.
Nel locale “ingresso” si trova la zona di accoglienza in cui è presentato il materiale
che racconta il progetto: un video di presentazione dell’intero lavoro, le interviste, le video
interviste, le fotografie e i documenti. All’occorrenza questo spazio è utilizzato - oltre che
per ricevere i visitatori – anche per conferenze, seminari, mostre e attività culturali. Ogni
sala è dotata di pannello retroilluminato che “racconterà” l’ambiente, inoltre, la particolarità
di questa “Casa per Narbona” sta nel fatto che gli oggetti e gli ambientazioni originali non
sono illustrati solo da didascalie e pannelli come in un normale museo ma anche da
fotografie d’epoca e moderne, video, videointerviste realizzate con Narbonesi o persone
che hanno conosciuto e operato in Narbona prima dello spopolamento.
Il Museo si propone dunque come spazio espositivo di tipo innovativo per tipologia
dell’insieme e per l’adozione di supporti, tecniche e strumentazioni moderne che
permettano il massimo coinvolgimento dei visitatori. Un Museo multimediale che
43
rappresenta la memoria di Narbona come frazione esemplare della civiltà della montagna,
con il coinvolgimento dei Castelmagnesi e degli abitanti della valle, rivolta oltre che ai
turisti, anche a studiosi e ricercatori.
L’architettura
Narbona è stata edificata su di un ripido pendio tra due canaloni al di sotto di una for-
mazione di roccia, Rocha d’la Garita, che la difende dalle valanghe. La borgata ha forma
triangolare e si sviluppa verticalmente. Le case sono appoggiate le une alle altre e disposte
in dieci file con orientamento dei colmi variabile.
Il dislivello tra la prima e l’ultima fila è notevolissimo e l’insieme suggerisce un’idea di arroc-
camento. I crolli rendono difficile cogliere, oggi, la reale struttura costruttiva di Narbona ma si
intuisce che era una delle borgate più ardite delle nostre montagne. Qui “il vuoto è sempre
vicino alle case, alle strade, ai pascoli ed ai campi coltivati” (Luigi Massimo)4.
Nonostante la rovina Narbona presenta elementi architettonici di grande interesse in cui si
fondono funzionalità, estetica e perfetto inserimento nell’ambiente. I materiali utilizzati sono
quasi solo la pietra e il legno. I muri a secco raggiungono altezze notevoli dando la sensa-
zione di trovarsi di fronte a piccole fortezze piuttosto che a delle case. Il legno è utilizzato
per balconi, porte, soppalchi, soffitte e scale, travature dei tetti, e per creare alcune “stanzet-
te” nei fienili.
Le case della prima fila erano talmente “solidali” da disegnare un bastione simile a
una base d’appoggio sul quale la borgata si sviluppa fino al limite del canalone superiore. La
presenza di segni sacri sulle case più esposte testimonia della sfida alle valanghe, non sem-
pre vinta. A valle, fino al limite dell’altro canalone, si trovano dei fienili aperti con esempi inte-
ressanti di colmi e travature a incastro a sostegno delle “lauzes” (le lastre di pietra dei tetti).
Se guardiamo poi alle “fondamenta”, anche economiche, della frazione troviamo alcune del-
le più belle stalle della valle con volte eleganti anche di grande gittata.
Per la ripidezza del terreno i tetti di alcune case si trovano quasi in corrispondenza
delle fondamenta di quelle costruite superiormente e il sistema di sentieri che attraversa
Narbona disegna gradinate e “tornanti”. Gli interni sprigionano un grande fascino, nonostan-
te il degrado, per la forma rastremata delle finestre che lasciano filtrare poca luce. Monu-
mentali camini si trovano in ogni casa e quelli integri culminano in comignoli decorati nelle
4 Luigi Massimo, L’architettura della Valle Grana, testi e disegni di Luigi Massimo, in “Cuneo Provincia Granda”, XLVII n. 4, Dicembre 1998, pp. 53-57.
44
aperture con pietre disposte a tempietto, a triangolo, a raggiera.
Tra gli elementi più suggestivi di Narbona ricordiamo ancora i vicoli coperti (simili a
gallerie, che consentivano, anche in caso di forti nevicate, un agevole passaggio tra abita-
zioni, fienili e cantine) e le scale interne che collegano i diversi livelli delle case e dei sentieri.
La cucina
Don Bernardino Galaverna, nel libro dedicato a Castelmagno edito nel 1894, segna-
lava che i prodotti del terreno non coprivano il fabbisogno della popolazione e che “Moltissi-
me cose d’uso quotidiano nel vitto dei contadini delle pianure qui non si conoscono neppure
di nome”.
L’alimentazione a Narbona non poteva essere varia in relazione all’altitudine, al
clima e alle condizioni economiche. I territori attorno alla borgata, mostrano ancora i
tracciati di centinaia di “couànhes”, terrazzamenti lunghi e stretti, sostenuti da muretti in
pietra o ricavati sagomando il terreno con la zappa e portandolo in piano. Con un duro
lavoro manuale, grandi superfici furono così predisposte alla
coltivazione della segale (“bià”), dell’orzo (“urge”) e di un po’ di avena (“biavo”), unici
cereali che maturano sopra i 1500 metri.
45
Immagine n. 5: Una rappresentazione del polo museale "Una casa per Narbona" di Campomolino
Per la concimazione con il letame i più “benestanti” utilizzavano il mulo, gli altri lo
trasportavano a spalle, con la gerla. Le sementi erano conservate con cura in appositi
cassoni di legno; la segale era seminata in autunno e l’orzo in primavera, non appena i
terreni erano liberi dalla neve. La mietitura, si faceva a mano, con il falcetto (“mesouiro”),
tra settembre e ottobre. I covoni (“gerbes”), accumulati nei portici, venivano battuti con le
“cavalhies” (correggiati). Solo verso il 1930 arrivarono nella frazione alcune macchine per
trebbiare. L’orzo era venduto perché di ottima qualità e molto richiesto, mentre la segale
era utilizzata in loco per fare il pane. Per ottenere la farina era necessario però trasportarla
fino al mulino di Pradleves, con i muli o a spalle, e poi riportare la farina fino a casa…
Anticamente il pane si faceva una volta all’anno (in seguito più di frequente) per
economizzare la legna. Il forno comunitario (capace di 50 chili) restava acceso, giorno e
notte, dal 9 dicembre fino a Natale e le famiglie si alternavano alla cottura del pane che poi
veniva conservato appeso al soffitto su apposite rastrelliere. Presto diventava così duro
che per tagliarlo bisognava usare un apposito attrezzo: il “taiapan”. Quando il forno era
caldo si cuocevano anche torte con patate, riso e cipolle e, il giorno prima di Natale, i
“chichou”, da regalare ai bambini come “streno” (strenna) a Capodanno. Un po’ di pane
fresco veniva cotto all’inizio dell’estate ed era riservato ai “sitour”, i falciatori, che muniti di
ramponi per non scivolare lungo i ripidi prati del vallone erano impegnati nella fienagione.
Altri terrazzamenti sono visibili ancor oggi sotto “Costa Chalancha”, sul versante opposto
alla frazione. In queste “couànhes” si trovavano gli orti che producevano patate e un po’ di
verdura, cavoli, cipolle, porri, insalata. La dieta si completava con le castagne racimolate -
a fine raccolta - ripassando nei boschi di Pradleves, e con alcuni alimenti acquistati
(l’immancabile polenta, un po’ di riso e poco altro). I Narbonesi consumavano raramente
carne ma potevano contare su latte, burro e formaggio Castelmagno, anche se le forme
migliori erano destinate alla vendita.
La stanza da letto
La tipologia di casa più diffusa a Narbona è di tipo unitario con, alla base, la stalla,
al piano mezzano la cucina e, a volte ma non sempre, la stanza da letto e, infine, al terzo
piano il fienile, collocato sotto il tetto. Generalmente le stanze da letto sono locali di
piccole dimensioni e i letti (almeno quelli rimasti dopo i ripetuti saccheggi) sono sempre
singoli o, al massimo da una piazza e mezzo. Si sono rinvenute ancora alcune culle
(“cuno”) e lettini per bambini più grandicelli (“cunoun”), ed un “girello” (un pezzo molto
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curioso) per custodire quelli piccolissimi. I materassi, grandi e piccoli (“paiases” e
“paiasetes”), erano imbottiti di paglia o di foglie secche.
Il riscaldamento della casa era problematico perché i “fournél” (camini), presenti in
ogni cucina e che spesso hanno dimensioni monumentali, come si può vedere ancor oggi,
disperdevano la maggior parte del calore prodotto dalla combustione della legna e quindi
venivano usati per lo più per cucinare. L’unica soluzione per scaldare almeno il letto era
quella di ricorrere al “preire”, uno speciale attrezzo in legno che permetteva di mettere
della brace sotto le coperte senza pericolo.
Qualcuno dormiva anche nelle soffitte (“soulìer”) e magari al risveglio si ritrovava
“infarinato” dalla neve che filtrava attraverso le fessure, ma la soluzione migliore, quando
le giornate erano particolarmente fredde era quella di dormire nella stalla dove, oltre al
calore animale, si poteva usufruire anche di quello prodotto da piccole stufe in ghisa (en
bot la voouta era da estimar couma fouse caza’: “una volta la stalla era da considerare
come fosse casa”).
In alcune abitazioni di Narbona si possono ancora osservare delle piccole stanze da
letto realizzate con tramezze di legno, a mo’ di grandi scatole, collocate nei fienili, subito
sotto il tetto. Per ottenere un maggior isolamento erano foderate internamente con carta
(incollata con una pastetta di farina) e protette superiormente con uno strato di paglia di
segale. Sono locali minimali dove trovano posto appena un letto, un piccolo armadio e una
sedia, ma sono assai caratteristici per l’ingegnosa costruttiva che attestano.
La stalla
A Narbona la risorsa economica primaria (ma non sufficiente come dimostra il
fenomeno secolare dell’emigrazione stagionale) fu sempre l’allevamento bovino, anche se
non mancavano muli e asini (usati per i trasporti), pecore e capre. Il numero di questi
animali – rilevabile dai documenti dell’archivio storico relativi alla tassa sul bestiame –
varia secondo il periodo storico. Nel 1937, per esempio, a fronte di un centinaio di abitanti
troviamo 50 mucche 4 asini 6 muli 3 pecore una capra, ma possiamo immaginare che gli
animali domestici fossero di più quando la frazione era più abitata, come nel 1848 allorché
ospitava 154 abitanti. Spesso e curiosamente la proprietà degli animali era frazionata e
altri erano affittati stagionalmente.
Le mucche fornivano latte (utilizzato per fare il Castelmagno, altra risorsa
economica importante) e vitelli che erano venduti una volta raggiunto un peso di circa 150
47
chili, misurato con una ingegnosa bilancia agganciata ad una struttura in legno arcuata
ancora visibile in un vicolo.
Per la ripidezza del terreno le mucche non potevano pascolare, come le pecore e le
capre, ma erano tenute tutto l’anno nella stalla. I pochi pascoli che sarebbero stati
utilizzabili a questo scopo, in cima alla comba, erano oggetto di una secolare contesa,
sfociata a volte in scontri violenti, con i pastori di Celle (la sentenza arbitrale più antica
data 1280).
Tutto ciò comportava un grande lavoro per fornire alle mucche di Narbona fieno ed
erba. I “sitour” (falciatori) tagliavano erba per tutta l’estate, quasi sempre con la “mesouiro”
(il falcetto) non potendo usare la falce, muniti spesso di ramponi (“grapes”) alle scarpe per
non scivolare. Così si spingevano a falciare fin sull’orlo dei burroni. Alcuni casotti al riparo
delle rocce, custodivano il fieno fino all’inverno, quando era portato alla frazione facendo
scivolare i “linsoulas” (i fagotti) sulla neve dura. Altro fieno veniva trasportato usando un
ingegnoso sistema di teleferiche, i cui cavi, con più tratte, giungevano fin dentro i fienili,
aprendo un varco nei tetti delle case. In alcune abitazioni era poi possibile far passare il
fieno direttamente dal fienile alle mangiatoie grazie a un cunicolo verticale detto “pertus
dal fén”.
La cantina
Un locale che non poteva mancare nelle case di Narbona era la cantina, anche se,
in alcuni casi, si tratta di un ambiente molto ristretto, ricavato accanto alla stalla con una
parete costituita quasi sempre da affioramenti di roccia della montagna sulla quale
poggiano gli edifici. Qui si mettevano a stagionare i formaggi, su apposite scaffalature che
non si appoggiano a terra ma sono sospese ai soffitti. Si ovviava in questo modo al
pericolo rappresentato dai topi (“jari”), contro i quali era ingaggiata una lotta continua con
trappole (“ratouires”) molto ingegnose e di tutti i tipi (a schiacciamento, strangolamento o
semplice cattura), perché essi rappresentavano una tremenda minaccia per ogni genere di
scorta alimentare (granaglie e patate oltre ai formaggi).
La cagliata dalla quale si ricavava la toma, riposta nella “rizola” (una tela rada), era
appesa al muro della stalla a scolare ben bene. Dopo due o tre giorni poteva essere
consumata o utilizzata, insieme ad altre tome, per fare il Castelmagno. Sminuzzando le
tome con le mani e salandole si otteneva un impasto che, raccolto nuovamente in una
tela, era poi riposto nella “fisela” di legno (la fascera) che quindi veniva chiusa con un
coperchio circolare (sempre di legno) sul quale era posta una grossa pietra per farne
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fuoriuscire tutto il siero. A questo punto le forme (piccole e grandi, dai due ai cinque chili)
potevano essere messe a stagionare per alcuni mesi nella cantina, sulle assi di legno,
girandole di tanto in tanto e cospargendole in superficie con sale grosso. Si dice però che
il Castelmagno venisse più buono se si faceva maturare nelle stalle, per via della
temperatura più mite. Le forme destinate alla vendita erano fatte con il latte intero di
mucca, spesso unito al latte di pecora, quelle da consumare in proprio con latte scremato.
Ai lati delle cantine erano disposti sui ripiani a muro altre provviste in contenitori sicuri e
quel tanto di vino in bottiglia o in piccole damigiane che, ovviamente, era acquistato a valle
e trasportato a dorso di mulo.
In alcune di queste cantine abbiamo ancora rinvenuto attrezzi di lavoro e piccoli
arredi di legno che abbiamo recuperato per questo museo. Il “pezzo” più bello è
sicuramente la scaffalatura sospesa che potete osservare al centro del locale e che
proviene direttamente da una delle più belle cantine di Narbona.
Un museo di tutti e un progetto condiviso
Il polo museale è stato visitato da moltissime persone nel corso del suo primo anno
di vita, il 2015. Gli stessi abitanti di Campomolino lo hanno aperto ai visitatori e lo hanno
“adotatto” come cosa loro, introducendo i turisti e collaborando all'allestimento dei
particolari.
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Immagine n. 6: Visione aerea di Narbona. Ai lati si notano i canaloni, nei quali d'inverno scendono le valanghe
Il gruppo che si raccoglie attorno al progetto ha realizzato alla fine del 2014 un'altra
bella impresa, quella del salvataggio della Cappella della Beata Vergine della Neve di
Narbona, piccola affascinante chiesetta collocata all'inizio della frazione, il cui tetto
minacciava di crollare.
Scriveva Don Bernardino Galaverna, per quarant'anni prevosto della parrocchia di
Sant'Ambrogio di Colletto cui faceva riferimento anche la chiesetta di Narbona: “La
cappella è dedicata, non senza motivo, alla Beata Vergine della Neve, essendo Narbona il
luogo più soggetto alle valanghe. Non potei ancora trovare la data della sua erezione.
Leggesi nel registro dei rendiconti all’anno 1757, che si comperò una chiave o sbarra di
ferro per riparare la cappella, che minacciava di rovinare. Parimenti nel 1763 si pagarono
L. 105 per mano d’opera, al mastro Bernardo Peraldo, che restaurò la cappella
minacciante rovina. Nell’anno 1893 fu ricostruito fin dalle fondamenta il coro, rialzata la
volta, che prima era assi bassa e demolito il muro, che separava come dalla cappella di
Campomolino s’è detto, l’altare dal coro. E’ bene adorna di quadri, tra cui primeggia
l’ancona della B. Vergine della Neve, e qualche altro più piccolo in tela di autore ignoto.
L’anno scorso [1893]fu pienamente restaurata e decorata, e furono provvisti gli arredi
necessari per la benedizione del Santissimo Sacramento. Questa, che risulta fatta in tre
epoche distinte, è la più antica cappella della parrocchia”5.
Dopo il 1960, anno in cui la frazione si è totalmente spopolata, la Cappella è stata
saccheggiata e, nel giro di pochi anni svuotata di tutte le suppellettili, degli oggetti, delle
tele e degli ex-voto. Sono rimasti solo alcuni banchi e il minuscolo altare in legno. Negli
ultimi anni il tetto in lose si era imbarcato e non proteggeva più l'interno dall'acqua
piovana. Il colmo aveva cominciato a marcire. Alla fine del 2014 - tra settembre e
novembre - il gruppo ha deciso di intervenire. Acquistati i materiali per realizzare una
copertura provvisoria in lamiera (170 lastre) con tanto di nuova intelaiatura di sostegno in
legno (40 listelloni da 6 metri) grazie a una raccolta di fondi e una donazione importante
da parte del Dott. Renato Lombardo che ha devoluto all'impresa una parte significativa del
ricavato del suo ultimo libro dedicato alle leggende di Pradleves, sono iniziati i lavori.
Alcuni volontari si sono impegnati per diversi week end a liberare la chiesetta dai detriti dei
crolli dal lato a monte e a trasportare a braccia tutti i materiali da Counbertrand a Narbona
(quasi un chilometro), utilizzando poi una teleferica con materiali messi a disposizione dal
CAI di Finale Ligure per concludere il tragitto dalla parte alla della frazione alla Cappella.
5 Galaverna D. Bernardino, Cenni storico-tradizionali intorno a S. Magno Martire tebeo ed al paese e santuario di Castelmagno, Cuneo, Tip. fratelli Isoardi, 1894.
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Una settimana dopo è entrato in azione un gruppo di dodici volontari che facendo “catena
umana”, nell'arco di una giornata, hanno completamente scaricato le lose dal tetto dal lato
a monte della chiesa, accatastandole verticalmente sui muretti in pietra precedentemente
costruiti utilizzando i detriti. Infine è stata la volta della ricostruzione del tetto durata due
giornate di intenso lavoro, guidati da Cecco De Matteis - grande esperto di tetti e di
costruzioni in pietra - che generosamente ha messo a disposizione la sua straordinaria
competenza. L'11 novembre la Cappella della Madonna della Neve aveva un tetto nuovo,
che dell'inverno è stato “collaudato” con successo dalle nevicate.
Quest'ultima impresa è stata, ancora una volta, una bella avventura, vissuta nello
spirito del volontariato genuino e della totale gratuità. Ha rafforzato legami di amicizia e si
può dire che l'entusiasmo e la soddisfazione siano stati proporzionali alle fatiche
sopportate.
Il progetto “Una casa per Narbona” continua con altre iniziative: partecipazione a
convegni, conferenze, proiezioni, pubblicazioni. La “Casa” di Campomolino è sempre più
accogliente e ricca di oggetti e documenti; il gruppo lavora e pensa a nuove imprese.
Attorno al museo oggi opera una comunità di persone che in parte risiedono in Valle
Grana, in parte vengono da molto lontano, tutti uniti però dalla stessa passione e dalla
voglia di salvare ciò che è possibile di una civiltà che merita di essere studiata e ricordata.
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Immagini n. 7/8: Il tetto della Cappella della Madonna della Neve prima e dopo l'intervento
Idee per un Museo diffuso del Novecento e della Resistenza a Savona
Giancarlo OnnisRicercatore Istituto Storico della Resistenza e dell'Età contemporanea Savona
Buongiorno a tutti, sono un dipendente del Comune di Savona prestato all'ISREC
nell'ambito di un convenzione che lega il mio Ente e l'Istituto storico di Savona. Ringrazio
gli organizzatori per l'occasione offertami di presentare le idee per un Museo diffuso del
Novecento e della Resistenza a Savona. L'Istituto condivide i termini della riflessione ed è
impegnato nella predisposizione di un progetto per il programma europeo Alcotra in
rapporto con le Università di Genova e Nizza, con l'Istituto storico di Imperia e il CISEI dal
seguente titolo provvisorio:
“SAPERE LA STRADA. MIGRAZIONI TRANSFRONTALIERE E TURISMO CULTURALE: LUOGHI, PERCORSI, EVENTI, PROTAGONISTI”
Il primo aspetto della presente riflessione è una definizione di Museo Diffuso: “La
definizione viene coniata da Fredi Drugman, architetto e professore di Composizione
architettonica e Museografia, il quale sosteneva la necessità di recuperare, valorizzare e
"far parlare" gli oggetti, i luoghi che sono stati teatro di vicende storiche e fatti intimamente
legati al territorio. Talvolta il passare del tempo, il sovrapporsi di avvenimenti successivi,
l'aver trasformato o convertito un luogo ad altre funzioni ne "ricopre" la memoria e la storia.
Oppure, semplicemente, i luoghi vengono talvolta vissuti senza la consapevolezza o la
conoscenza di ciò che è accaduto prima del nostro passaggio. Riscoprire questi luoghi
significa anche ritrovare il senso profondo della storia di cui sono portatori”1.
La città di Savona, medio-piccolo capoluogo di provincia italiana, si è inserita nella
dinamica internazionale delle città globali, ben affrontato da Saskia Sassen con il suo testo
“Le città nell'economia globale”, già alla fine degli anni ottanta del XX secolo in
coincidenza dell'apice della sua crisi industriale. Il suo tentativo di adottare l'immagine
della città dei papi rappresenta una operazione di marketing politico territoriale, un segno
1 http://www.forumpa.it/cultura-e-turismo/il-museo-diffuso-di-torino-tra-memoria-e-futuro
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di come una città provinciale cerchi di porsi in sintonia con un dibattito che è lontano anni
luce dalla sua realtà quotidiana e una operazione di rimozione della memoria del suo
passato degli ultimi due secoli molto legato al mondo del lavoro e alla storia del
movimento operaio italiano. Il 30 novembre 2003, a 500 anni dall'ascesa al soglio
pontificio del cardinale Giuliano (questo il suo vero nome) la città ha rievocato la storia
dell'autunno del 1503. Un evento ricco di arte e di cultura che la "città dei Papi" (prima di
Giulio II, anche lo zio paterno Francesco Maria I, divenne Papa Sisto IV) ha voluto
celebrare con l'inaugurazione della mostra di Michelangelo "La Sistina e Michelangelo,
Storia e fortuna di un capolavoro". La città delle ristrutturazioni e della prevalenza dell'uso
del cemento nel Piano Urbanistico Comunale pare dimentica del suo passato,
caratterizzato tra il XIX e il XX secolo, da una serie di eventi importanti per la storia
dell'intero paese.
La città di Savona, ancora appartenente al Regno di Sardegna, “ospitò” tra il
novembre 1830 e il gennaio 1831, nelle carceri della Fortezza del Priamar, Giuseppe
Mazzini che durante la detenzione ideò e formulò il programma di un nuovo movimento
politico chiamato “Giovane Italia”.
Siamo nel 1850 – spiega lo storico Giuseppe Milazzo - quando a Savona nasce la
prima sezione del Partito Operaio Italiano, in via Pia, caratterizzato da una bandiera rossa
e nera2. Appena entrata nel Regno d'Italia, ospita la “Tardy & Benech”, attiva sin dal 1861
nel porto di Savona, fondata da imprenditori stranieri che trasferiscono saperi e
tecnologie in un ambito più arretrato ma dalle ottime potenzialità logistiche, diventando
nel giro di pochi anni una delle realtà siderurgiche più importanti del paese. Società
anonima con 7milioni di lire di capitale, centrata inizialmente sulla laminazione del
ferro pacchetto, raggiunge sin dalla fine degli anni settanta una produzione di 30.000 t. di
prodotti in ferro su una produzione nazionale complessiva tra le 120 e le 140 mila
tonnellate3. Qualche anno più avanti arriva un parte della linea ferroviaria ligure con il tratto
Voltri-Savona nel 1868.
La città della Torretta oramai città operaia è quasi una culla del «cosiddetto
proletariato industriale – dice la docente di Storia Contemporanea Augusta Molinari – e nel
1911 il censimento ci dice che, su circa 10 mila famiglie residenti, più di 6.500 sono
composte da operai. Ma non mancano le connotazioni negative. Cresce, infatti, il numero
di incidenti sul lavoro, tanto che nel primo numero del Novecento del giornale socialista Il
2 http://www.ilsecoloxix.it/p/savona/2013/05/16/APXY4oXF-savona_dell_leggenda.shtml
3 http://www.academia.edu/5803120/La_siderurgia_in_Liguria
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Diritto verrà istituita una rubrica dal titolo “La galera dell’Ilva” con denunce sulle condizioni
di vita e di sicurezza degli operai»4. Vede la nascita al ridotto del Teatro Chiabrera, del
PCI a Savona: il 20 marzo 1921 Antonio Gramsci presiede a Savona il Congresso del PCI
ligure. L'Amministrazione comunale era diretta negli stessi anni da una Giunta
“monocolore” socialista e poi comunista dall'ottobre del 1921. Il primo sindaco comunista
della città fu infatti Mario Accomasso.
La città del processo a Sandro Pertini del 1927 per la fuga di Turati in Francia, la
città medaglia d'oro al valor militare per la Resistenza non può rinunciare al suo passato a
favore del marketing politico territoriale. Il progetto di Museo Diffuso rappresenta una
possibilità concreta di recuperare la memoria rimossa e aprirla al futuro, di creare una rete
di connessioni tra i luoghi del territorio urbano e gli eventi del passato capace di arrestare
la rimozione della memoria e per rinnovare il ricordo. La nostra proposta vuol far parlare i
luoghi, vuole “far raccontare” dalla città il proprio passato per ri-scoprirne la memoria, allo
scopo di superare l'esempio di ribaltamento del significato della storia della città
rappresentato dal centro commerciale “Le officine”, luogo che insiste su un vecchio sito
industriale ma non è più “luogo del fare” ma “nonluogo del consumo fine a se stesso”.
Grazie all'uso delle TIC i luoghi possono ritornare a parlare, a mettere in grado il cittadino
di passaggio di leggere le stratificazioni della storia sul territorio e aiutare a rinnovare la
memoria troppo spesso rimossa. I cosiddetti applicativi per gli smartphone ci aiuteranno a
far riemergere la storia della città di Savona tra il XIX e il XX secolo.
Qualche esempio di luogo può essere utile ad approfondire meglio:
Il processo di Savona
Il processo di Savona si concluse il 14 settembre 1927 con una sentenza di
condanna a 10 mesi di reclusione per Ferruccio Parri, Carlo Rosselli, Da Bove e Boyancé, 4 http://www.ilsecoloxix.it/p/savona/2013/05/16/APXY4oXF-savona_dell_leggenda.shtml
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Immagini n. 1/2: Palazzo della Rovere-Santa Chiara sede del processo di Savona
nonché di Turati e Pertini, in contumacia. Anche Oxilia, in quanto capo della spedizione,
subì una dura condanna; fu anche una delle ultime manifestazioni collettive contro il
fascismo.
Il porto di Savona
La città subì nel corso del periodo bellico cinque bombardamenti nell'ambito
portuale e nel quartiere antistante l'area entro e ante portuale e un episodio su di un'area
collinare:
• bombardamento navale francese del 13-14 giugno 1940• bombardamento aereo inglese del 23-24 ottobre 1942• bombardamento anglo americano del 30 ottobre 1943-117 vittime• bombardamento anglo americano del 16 gennaio 1944 26 vittime• bombardamento anglo americano 4 luglio 1944 47 vittime• bombardamento anglo americano 12 agosto 1944 51 vittime via alla Strà
I luoghi del potere
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Immagini n. 3/4: Il porto di Savona
Immagini n. 5/6: Piazza Saffi, sede della casa del fascio e attuale sede della Prefettura
I luoghi del lavoro
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Immagine n. 7: L'acciaieria Fondata nel 1861 come Servettaz&Basevi, poi Terni, Ilva e Italsider
Immagine n. 8: Il segretario generale della CGIL. on.le Giuseppe Di Vittorio entra nel Teatro G. Chiabrera di Savona nel corso delle lotte operaie contro il ridimensionamento dell'Ilva di Savona
I luoghi della comunità, del conflitto e della libertà
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Immagine n. 9: 25 luglio 1943: la caduta di Mussolini. A Savona la milizia portuale spara su un corteo. Muoiono due donne. Comizio degli antifascisti in piazza Mameli
Immagine n. 10: Folla festante in Corso Principe Amedeo angolo via Paleocapa
I luoghi del martirio
I luoghi della vita: i rifugi antiaerei
1. Ex Fortezza del Priamatr
1. Via Paleocapa-via Roma
2. Villetta
3. San Lorenzo
4. Via Firenze-via Schiantapetto
5. Via Roma-piazza Diaz
6. Alta Villetta
7. Via Addis Abeba
8. Ferriere Legino
9. Lottero-Zinola
10. Bricchetti-Zinola
11. S.Lorenzo-via Barrili
12. Suore della Misericordia
13. Istituto della Purificazione
14. Collegio Scuole Pie
15. Via dello Sperone
Lo strumento più utile per andare nella direzione del Museo diffuso sono le
“Tecnologie Informatiche per la Comunicazione”. Le applicazioni per gli smartphone, i
codici Qrc sono strumenti utili a coinvolgere i cittadini, i visitatori della città e, soprattutto, i
giovani sotto i trent'anni, principali “vittime” della rimozione della memoria.
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Immagini n. 11/12: 26 Dicembre 1943, Forte della Madonna degli Angeli. Fucilazione per rappresaglia di 7 antifascisti. Una foto di alcuni martiri e “Muro” della fucilazione
I Piccoli Musei quale espressione del paesaggio di riferimento
Fiorangela Di MatteoCoordinatrice ICOM Regione Liguria
In un suo intervento nel maggio del 2003, l’allora Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi ebbe a dire:
“È nel nostro patrimonio artistico, nella nostra lingua, nella capacità creativa degli italiani che risiede il cuore della nostra identità, di quella Nazione che è nata ben prima dello Stato e ne rappresenta la più alta legittimazione”
Mi piace ricordare anche l’art. 9 della Costituzione Italiana:
“La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione”.
E il 118:
“Le funzioni amministrative sono attribuite ai Comuni salvo che, per assicurarne l'esercizio unitario, siano conferite a Province, Città metropolitane, Regioni e Stato, sulla base dei princìpi di sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza.
I Comuni, le Province e le Città metropolitane sono titolari di funzioni amministrative proprie e di quelle conferite con legge statale o regionale, secondo le rispettive competenze.
La legge statale disciplina forme di coordinamento fra Stato e Regioni nelle materie di cui alle lettere b) e h) del secondo comma dell'articolo 117, e disciplina inoltre forme di intesa e coordinamento nella materia della tutela dei beni culturali.
Stato, Regioni, Città metropolitane, Province e Comuni favoriscono l'autonoma iniziativa dei cittadini, singoli e associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale, sulla base del principio di sussidiarietà.”
Questo è l’assetto alla base della penetrazione che il bene culturale ha nel
paesaggio di riferimento. Il bene culturale (Monumento, Collezione, Museo, edificio etc…)
è, nella grande maggioranza dei casi, espressione del territorio che lo produce e lo
conserva e dal territorio raccoglie le forze per la sua stessa valorizzazione e
sopravvivenza.
A questo punto esaminiamo il significato di “PAESAGGIO”: Nel nostro caso è una
cosa immateriale, valore esclusivo dei cittadini, autentica testimonianza del modus del
luogo con le sue relazioni e connessioni, con le manifestazioni di attività, credenze, fedi e
costumi; si potrebbe continuare ma credo sia sufficiente.
In questo panorama il museo si inserisce nella vita del cittadino e ne esplicita la
caratteristica o la peculiarità. Il museo, che esprime il suo linguaggio parlando di cose di
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memoria, da ricordare, di un mondo terminato in somma. Il museo piccolo, soprattutto,
assume in sé questa volontà di narrazione, di centralità di interesse, di fulcro dello svago
paesano e/o rionale, ha la funzione di raccolta della memoria tipica, che, con fatica
conserva, espone, valorizza e tutela.
Trovo interessante portare pochi esempi, proprio per chiarire il concetto di
centralità, di interesse, di inserimento nel paesaggio, e di trasmissione di cultura. Per fare
questo non ho scelto solo realtà “piccole”: ho preferito considerare i processi che hanno
portato al museo e che ne determinano il successo, piuttosto che limitarmi agli aspetti
dimensionali, che a parer mio, sono solo un aspetto del piccolo museo.
Il “M.A.R.T.” – Rovereto (TN)
Quando si è pensato di realizzare un museo per l’arte contemporanea, ed è stato
decisa la sede in Rovereto, raccontava la direttrice anni fa, per molti anni aveva raccolto
materiale e documenti per comporre la raccolta, l’archivio e la biblioteca del Museo; il tutto
mentre il museo cresceva.
Il luogo scelto per il museo era posto in centro città e lentamente, ma
inesorabilmente, la centralità è passata da “posizione geografica” a “luogo di incontro”,
“agorà”. Il suo atrio ampio, accogliente, coperto dall’eventuale maltempo, favorisce
l’incontrarsi e lo spicchio mancante ne agevola l’aereazione e la freschezza.
Al centro c’è una fontana e le pareti sono ricoperte di pietra di Vicenza dando al sito
una contestualizzazione perfetta. Nella mente dell’architetto Botta, infatti, l’atrio è stato
pensato come una piazza per incontrarsi e ritrovarsi. Così, giorno dopo giorno la struttura
ha preso forma e la permeabilità è cresciuta e si offre ai cittadini come una piazza di
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Immagini n. 1/2: Rovereto – Mart “Atrio di entrata” e "Veduta panoramica"
aggregazione dando, nel contempo, un gran senso di accoglienza ai visitatori. La Direttrice
raccontava di come, nei 10 anni che hanno preceduto l’apertura, ha registrato
l’appropriazione dei cittadini del luogo comune. Ricordo la sua soddisfazione quando, in
occasione di Inaugurazioni, lei stessa accoglieva i convenuti nell’atrio e con questi iniziava
la visita alla nuova sala o all’allestimento o ancora alla mostra. Dalle foto si rimarca la
centralità che ha l’edificio del Museo. In questo modo la memoria storica diventa oggetto di
apprendimento, di studio, di indagine. In una comunità limitata (per confini ma non per
valori) l’azione aggregante del museo può essere fondamentale proprio come ci dimostra
l’esempio del M.A.R.T.
Forte di Bard – AO
“Il complesso del Forte e del Borgo di Bard è il nuovo polo culturale delle Alpi Occidentali. Grazie al recupero dell'imponente fortezza sabauda e di alcune aree ad essa connesse, è stato realizzato un progetto che fonde all'interno di un'unica struttura, spazi e servizi innovativi per la cultura e strutture ricettive di alta qualità. Gli spazi museali sono stati progettati per integrare la tradizione storica del museo con la finalità educativa che ne contraddistingue la missione, la vocazione innovativa del centro d'interpretazione, luogo di comunicazione e di decodificazione del territorio che rappresenta e la forza comunicativa del parco tematico, con la sua capacità di proporre un'esperienza coinvolgente”
Ho riportato quanto scritto sulla cartella stampa all’epoca dell’inaugurazione (2006)
del complesso maestoso e di grande importanza storica: valore e onore della vita sofferta
delle montagne esposte ai traffici di tutti i tipi.
Ho avuto modo di visitare il museo della montagna nel forte. Signori, si tratta di una
cosa immensa; “tanto di cappello”, si diceva una volta, racconta il paesaggio montano, le
escursioni, le scoperte, la vita delle alpi, le tradizioni, gli alpeggi, le scalate e i fuori pista, la
fauna e la flora, il cielo e la terra, malgrado ciò è un museo isolato. Promuove una
montagna di grandi e piccole cose: mostre, didattica museale ad alto livello, vita
quotidiana e ancora concerti, serate benefiche, intrattenimenti, sposalizi, cene aziendali;
non si fa mancare nulla: multimedialità, coinvolgimento diretto ed emotivo del visitatore, è
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Immagini n. 3/4: Aosta – Forte di Bard “veduta dalla strada” e "veduta del complesso"
presente in ogni manifestazione della Val d’Aosta. Nonostante questo non è un museo
partecipato.
I visitatori che si dirigono a Bard sono attratti, oltre che dal museo, dalla
costruzione: una imponente fortezza posta a guardia della porta d’accesso alla Val d’Aosta
il cui recupero architettonico è stato arduo e minuzioso. Il complesso è spettacolare, gli
edifici imponenti, i camminamenti sono stupefacenti; le opere ingegneristiche, che
permettono di arrivare in quota grazie a dei vagonetti con percorrenza quasi verticale,
appagano l’occhio del visitatore forse più della spettacolarità e la cura del museo stesso.
Al termine della visita il visitatore ricorda del museo più le suggestioni che il suo
carattere esplorativo, conoscitivo e divulgativo della vita della montagna.
Le foto, le stesse della cartellonistica turistica, evidenziano la sostanza
architettonica e il senso di solitudine già proprio del complesso.
Museo Stibbert – FI
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Immagine n. 5: Firenze – Museo Stibbert “Esterno”
Immagini n. 6/7: Firenze – Museo Stibbert “Una Sala espositiva” e "Ingresso al parco"
Voglio ora ragionare di un museo che offre sensazioni: il Museo Stibbert di Firenze.
Mi è molto caro, un ecomuseo in piena regola. La collezione consta di armi e narra la
storia delle armi da quelle da parata a quelle ludiche passando attraverso la vestizione del
guerriero, la tenuta degli armigeri nonché la conservazione dei cimeli. Mai un accenno alla
pace, ma non si sente aria di guerra, anzi il fascino del mondo cavalleresco percorre le
sale rendendole quasi pulsanti. E’ a Firenze, quasi in pieno centro, nella villa già dei
Davanzati che Frederick Stibbert comperò ampliò, rese pubblica donandola al comune di
Firenze e dove è conservata, appunto, questa eclettica collezione di tipico gusto
ottocentesco. Tutt’intorno alla villa c’è un parco dove, come succede ovunque, si recano i
cittadini per riposare al fresco o accompagnare i bimbi al gioco. Ebbene, in questo parco il
suono degli aggeggi elettronici stona, da quasi fastidio sembra fuori luogo. La
penetrazione che l’aria del castello ha con il territorio circostante supera l’idea di territorio
(geografico) e raggiunge, appunto, quella di paesaggio (culturale).
La contaminazione è forte ed evidente. A chi di voi ha un’oretta di tempo lo esorto a
visitarne museo e parco: entrerà in questo modo in un mondo irreale e magico che sembra
continuare a vivere dentro una emisfera di vetro.
Spero che le foto illustrino chiaramente quanto ho enunciato.
Museo Diffuso della Cultura Contadina – Ecomuseo dell'Alta Val Petronio – GE
Ho riservato a questo museo il ruolo di
“diffusore di cultura”: è, per i più,
conosciuto come Museo di Velva, una
frazione di Castiglione Chiavarese,
(entroterra ligure a pochi kilometri da Sestri
Levante) sul giogo che porta verso le valli
del parmense. In un paese pressoché
abbandonato dagli abitanti attratti dal
boom della ripresa economica post bellica,
poche persone hanno cristallizzato alcune
abitazioni restaurandole, mantenendo
intatte le caratteristiche tipiche dei siti.
Si ha così la casa del prete, quella del maniscalco, quella del medico, la scuola.
Solo nella chiesa, oramai sconsacrata, si raccolgono i reperti e si è dato vita
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Immagine n. 8: Castiglione Chiavarese (GE) Museo di Velva
all’esposizione.
Nei giorni di vendemmia, come in quelli della raccolta delle castagne si fa festa.
Ecco quindi rientrare nel paese la gente che lo ha lasciato anni prima, i loro figli e nipoti.
Insieme si svolgono le funzioni della vita contadina che un tempo segnavano i mesi e le
stagioni. Le donne cucinano (o portano già cucinato) gli uomini lavorano, i bambini
giocano e lavorano insieme e alla fine, tutti a tavola si canta e si balla come nei tempi
andati.
Ecco, questa è la funzione del tramandare o di diffusore di cultura. Un mondo
oramai andato che rivive nelle emozioni di chi lo anima e lo vuole tramandare. Le foto si
riferiscono a singoli edifici e a momenti di vita comune.
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Comunicare l'identità museale. Esperienze e strumenti per la promozione dei piccoli musei
Monica BrondiStorica dell'arte e consulente di comunicazione - Dir. Creativo Punto a capo srl
Le cose rappresentano nodi di relazioni con la vita degli altri,anelli di continuità tra le generazioni,
ponti che collegano storie individuali e collettive, raccordi tra civiltà e natura.
Ci spingono a dare ascolto alla realtà,a farla entrare in noi così da ossigenare un’interiorità altrimenti asfittica.
Mostrano inoltre il soggetto nel suo rovescio, nel suo lato più nascosto,quello del mondo che affluisce a lui in quel viaggio a sorpresa che è la vita.
Remo Bodei, filosofo da La vita delle cose
La citazione di Remo Bodei e il piccolo rimando al celebre Ceci n'est pas une pipe
di René Magritte, vogliono porre l'accento su un tema, quello dell'oggetto, che è centrale
nella funzione stessa del museo perché rappresenta, in una semplificatoria
estremizzazione, il contenuto del contenitore museo, e “dna” costituente dell'identità
museale.
Nel suo ruolo, di volta in volta trasfigurato, di capolavoro, reperto, opera, manufatto,
prodotto o documento, l'esemplare esposto in un allestimento museale tavolta perde la
sua connotazione di oggetto, per entrare nella dimensione di elemento seriale (se
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appartenente a una collezione) o di simbolo o exemplum di categorie altre.
Apro questo intervento con una considerazione che può apparire scontata, ma che
si fonda su una concreta esperienza come operatore della comunicazione: ovvero la
necessità di affrontare il tema dell'identità museale a partire da un potenziale che è
intrinseco all'oggetto museale in sé, a prescindere dalla tipologia e dall'universo a cui
appartiene: ovvero la sua fisicità e la sua fruibilità sensoriale.
Una fisicità e sensorialità che possono apparire difficili da esprimere e comunicare,
considerando anche i vincoli espositivi e di sicurezza a cui è sottoposto un museo, ma
che costituiscono davvero aspetti sui cui, in particolare i piccoli musei, possono costruire
una propria identità, incrementando il potere attrattivo e seduttivo del proprio patrimonio e
della propria realtà.
La fruizione sensoriale diretta dell'oggetto museale, oppure laddove la prima non è
possibile, una fruizione indiretta attraverso un simulazione, dove il visitatore può entrare in
contatto tattile con una superficie, percepire odori, suoni, colori e/o sapori strettamente
connessi a quell'oggetto e al suo contesto originario, è fondamentale per costruire una
comunicazione e una promozione museale efficace, ma soprattutto nel caratterizzare
l'unicità e l'identità di ogni realtà museale.
Nihil est in intellectu quod prius non fuerit in sensu, sosteneva Aristotele,
affermazione confermata dai più recenti studi nell'ambito delle neuroscienze. È solo
attraverso la percezione che si può arrivare a fare proprie conoscenze più concettuali e più
astratte. E, analogamente, è proprio a partire dalla fruizione polisensoriale diretta o più
spesso indiretta o simulata dell'oggetto museale, che si può arrivare ad una fruizione più
intellettuale e simbolica, che è quella che può arrivare a stimolare una conoscenza e un
approfondimento sui diversi saperi e linguaggi attinenti quell'oggetto e il suo universo di
riferimento.
Questo approccio, ormai largamente
impiegato dalle strutture museali più evolute e
in uso nelle grandi mostre, non è ancora stato
del tutto recepito o attuato dalle realtà museali
più piccole o più periferiche, ovviamente in
primis per aspetti legati alle esigue risorse
economiche a disposizione, oppure talvolta
per una insufficiente informazione o
formazione sui nuovi strumenti del marketing e
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Immagine n. 1: Odorare un naso profumato: performance-concerto sul tema della percezione
olfattiva realizzata da “Punto a capo” per l'evento “I sensi della Musica”, con presentazione di opere
dell'artista Dario Ghibaudo
della comunicazione culturale.
Nella prassi di lavoro relativa all'ideazione e realizzazione di mostre, eventi culturali
e allestimenti museali, ho sempre riscontrato che questa metodologia risulta vincente
soprattutto in caso di piccoli budget, dove è solo il valore aggiunto dell'idea innovativa
nell'allestimento o nella promozione che può compensare una eventuale mancanza di
finanziamenti o investimenti media.
Negli ultimi decenni la comunicazione si è orientata su un nuovo media, il web,
utilizzando strumenti quali siti, portali, App e genericamente DEM (strumenti di direct e-
mail marketing), trovando utilizzi particolarmente efficaci nel mondo museale o degli
eventi, arricchendo quindi la comunicazione classica di uno "spazio virtuale"
particolarmente utile nella veicolazione di informazioni sempre aggiornate e quindi di
servizio nei confronti dei fruitori/visitatori.
A distanza di tempo dalla nascita del boom del web, possiamo affermare, sia sulla
base dei riscontri raccolti in ambito professionale da committenti, programmatori operatori
della comunicazione e utenti web, sia dagli studi emersi in ambito sociologico,
all'esplosione del "internet" ha corrisposto successivamente un effetto rimbalzo
caratterizzato da una necessità di supporti comunicativi che avessero caratteri di solidità e
concretezza, a compensazione di tutto questo "virtuale".
Di fatto, il supporto cartaceo, che sembrava dover essere in larga parte surclassato
dal web, dopo una iniziale significativa flessione, ha difeso le sue posizioni soprattutto
assumendo funzione di integrazione (complementare del web) in quanto fondamentale ad
esempio nelle attività di presentazione, trattativa e relazione commerciale con un
interlocutore diretto.
Quella di poter toccare con mano è un' esigenza psicologica di "controllo" che si è
intensificata dopo l'avvento del web e che ha iniziato a canalizzarsi, più che sulla carta, su
un settore di nicchia, ma di grande interesse per il mondo museale: l'oggetto promozionale
che spesso, con un termine limitativo, viene definito gadget, protagonista sempre più
importante dei bookshop.
Sulla base di queste considerazioni nel 2012 ho scelto di dedicare parte della mia
attività di comunicazione proprio a questa mission: la creazione di oggetti comunicativi,
ovvero di oggetti tridimensionali pensati ex novo per essere veicolo non di un semplice
marchio, ma di un messaggio: non gadget, ma concetti in forma di oggetti, creati ad hoc
nella forma e nella funzione, per diventare veri e propri "oggetti identitari".
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Oltre che nel mondo del marketing aziendale, dove l'identità diventa fattore
distintivo e strutturale del posizionamento d'immagine e strategico, la creazione di "oggetti
unici", su design esclusivo ha trovato uno spazio d'interesse proprio da parte dei piccoli
musei. Poiché i gadget esposti nei bookshop dei musei di Milano, Venezia o Roma sono
spesso uguali, senza una specifica caratteristica che li leghi al museo in cui vengono
venduti, né in grado di evocare la magia e il ricordo di quel singolo museo, la proposta di
"oggetti identitari museali " realizzati ad hoc, a prezzi sostenibili e con volumi d'ordine
contenuti ha intercettato una necessità sentita da parte di realtà di medie o piccole
dimensioni, interessate a fare dell'articolo da bookshop, non una mera merce di vendita,
ma un investimento, in quanto veicolo di comunicazione che rimanda e riconduce
unicamente al museo che l'ha realizzato.
Una case history
rappresentativa di una
collezione di oggetti museali a
design esclusivo è quella da
noi realizzata per il Museo
della Ceramica di Savona, in
cui sono stati studiati prodotti e
articoli differenti, tutti riportanti
stilemi, forme o motivi
decorativi desunti dalle opere
custodite nello stesso museo,
ma riconducibili allo stesso
format di linea.
Talvolta è la scelta di una
tipologia di articolo meno
convenzionale e più
inconsueto a offrire la
possibilità di presentare una
ricchezza di immagini o motivi
distintivi del patrimonio di opere del museo: uno studio particolare è stato effettuato sulle
carte da gioco e sui tarocchi, con citazioni dei differenti stili decorativi della ceramica di
Savona.
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Immagini da 2 a 6: Shopper, panno per occhiali, tracolla, taccuini e penne realizzati per il bookshop del Museo della Ceramica di Savona
Fattore determinante nella costruzione e nella
comunicazione dell'identità di un museo è il
coordinamento strategico e d'immagine che
tutti gli elementi, dal format dell'allestimento,
allo stile di accoglienza e di interazione con il
fruitore, dalla campagna di comunicazione al
sito, dalla segnaletica all'apparato informativo,
devono rispettare per trasmettere quell'idea di
uniformità di stile che è l'impronta distintiva
unica e inconfondibile di un museo.
Oggi non esiste più il Museo, ma esistono i musei. Ognuno di essi è, in potenza, un
unicum, una sorta di metaluogo, ovvero uno spazio fisico e virtuale che rimanda a
universi, a categorie mentali e concettuali altre. Ma perché questa unicità possa emergere
occorre ricercarla, definirla, metterla in luce e valorizzarla.
In quest'opera di scavo e ridefinizione, la comunicazione è un fattore importante:
soprattutto per realtà come quelle museali, deve mostrare coerenza sulle lunghe distanze:
perché il ciclo di vita di un museo non è quello di una mostra. Ecco che la coerenza, o per
usare una terminologia più precisa, la congruenza comunicativa, è e resta uno degli
aspetti fondamentali. Ogni aspetto nella progettazione, nel lancio o nel rilancio di un
museo dovrebbe poter essere inserito in una visione d'insieme generale in cui ogni
elemento diventa non solo armonizzato esteticamente ma concettualmente
consequenziale agli altri. Un percorso museale è sempre una narrazione, e segue un filo
argomentativo metodologicamente rigoroso, per quanto aperto e libero possa risultare agli
occhi del visitatore. Una volta individuato questo filo, anche la comunicazione deve
contribuire a suggerirlo, a riproporlo, a rilanciarlo attraverso tutti i mezzi e i messaggi.
La vera sfida consiste proprio nel rinnovare costantemente quell'identità museale
che è espressione di uno stile e di un preciso carattere: e questo senza tradirla o
stravolgerla. Un equilibrio, come ben si comprende, non certo facile, considerando
soprattutto che le priorità soprattutto per i piccoli musei e per le collezioni private, sono
solitamente di carattere gestionale e amministrativo .
Un'esperienza particolarmente interessante in questo senso è stata quella che
abbiamo condotto per l'allestimento e il lancio dell'About Apple Museum, una collezione di
computer ed esemplari storici prodotti da Apple, tra le più fornite al mondo con oltre 9000
pezzi, con sede nella Darsena di Savona e gestita dall'associazione All About Apple Onlus.
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Immagine n. 7: Immagine del desing delle carte da gioco realizzate per il Museo della Ceramica di Savona
In questo caso il supporto da noi fornito a
questa realtà è stato precedente e
propedeutico all'apertura del museo
nell'attuale sede. In una prima fase, tra 2011 e
2012, l'agenzia ha curato la realizzazione di
mostre ed eventi, interamente sostenuti
attraverso attività di sponsoring, effettuando
un'opera di informazione e sensibilizzazione
sulla collezione stessa e sulle sue potenzialità
attrattive.
Nella seconda fase, quella
dell'individuazione della nuova sede e della
messa in opera dell'allestimento, tra 2013 e
2015, il ruolo del marketing, delle p.r. e della
comunicazione è stato altrettanto strutturale,
perché ha consentito di sostenere ed
effettuare la campagna di lancio e la
realizzazione del catalogo e di tutti i materiali
di comunicazione attraverso l'attività di p.r.
svolta per reclutamento fondi e sponsoring. Un
periodo in cui si è consolidata quella che più
che una collaborazione è diventata una vera e
propria partnership strategica tra Punto a capo e All About Apple Museum.
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Immagine n. 8: Un'immagine dell'allestimento dell'All About Apple Museum
Immagine n. 9: La collezione di AAA attraverso la presentazione di alcuni progetti innovativi di
comunicazione e interazione con il pubblico, ha partecipato al “Festival della Scienza” nel 2012 e nel
2013. Nella foto, l'evento “Tecnologia Antropomorfa” realizzato da “Punto a capo” in collaborazione con
l'Istituto Italiano di Tecnologia, ab Medica e l'Università di Genova.
Immagine n. 10: Campagna di comunicazione teaser di anticipazione e sensibilizzazione precedente l'apertura di AAAMuseum
Nella campagna di anticipazione dell’apertura del museo, il tema della
comunicazione era incentrato sul claim “R-Evolutionary space” nel senso di spazio
innovativo e in costante evoluzione (una reinterpretazione e rielaborazione grafica del
celebre film di Kubrick 2001 Odissea nello spazio) dove la storia della tecnologia Apple è
vista in una prospettiva storica, anzi antropologica. Tale concetto, è stato poi ripreso e
rilanciato nella campagna di inaugurazione dell'AAA, in cui l'evoluzione della specie è
rappresentata in una sorta di progressione darwiniana simboleggiata dai diversi
prodotti/esemplari della specie Apple.
Nell'umile e meraviglioso
compito che può svolgere la
comunicazione nell'essere a
concreto supporto dei piccoli
musei e delle collezioni private,
ho provato a sintetizzare in sei
punti quegli elementi che ritengo
possano essere di utilità dal
punto di vista della
valorizzazione dell'identità
museale nel tempo:
1. Costruire un'identità
museale distintiva e
inconfondibile, attraverso
una coerenza tra
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Immagine n. 11: La campagna di lancio per l’apertura dell’All About Apple Museum
Immagini da 12 a 17: Il catalogo realizzato in occasione dell’apertura dell’All About Apple Museum, alcuni esempi di gadget realizzati
(spillette, magneti e t-shirt)
posizionamento strategico, allestimento, stile di accoglienza, logo e comunicazione;
2. Comunicare, incuriosire, sedurre con tutti i media, con tutti i sensi, con particolare
riferimento allo strumento "video emozionale";
3. Potenziare il bookshop con oggetti identitari esclusivi, altrove introvabili, ma a
prezzi appetibili;
4. Attivare partnership e attività in comarketing con aziende e soggetti privati e
sviluppare progetti finanziabili attraverso bandi;
5. Rinnovare costantemente la proposta museale con eventi, iniziative a tema e
dislocazioni strategiche presso altri musei o eventi espositivi;
6. Fare sistema attraverso associazioni, network o reti museali secondo criteri tematici
o geografici, per favorire percorsi e itinerari turistici integrati.
È proprio sull'esigenza fondamentale di fare sistema che credo si giochi il futuro dei
musei, che sono parte integrante di un sistema più ampio, che è il sistema del turismo
culturale: è questa la nuova frontiera della valorizzazione e della promozione dei piccoli
musei, che grazie all'impiego delle dinamiche di marketing, e alla creazione di reti e
network per l'aggregazione geografica o tematica delle singole realtà, può aprire nuove
opportunità di crescita e di sviluppo.
Bibliografia di riferimento
• BODEI R., 2009, La vita delle cose, Laterza, [Bari - Roma] • BIANCHI A. - VASSALLO N. (a cura di), 2005, Filosofia della comunicazione, Laterza, [Bari - Roma] • CANESTRINI D., 2001, Trofei di viaggio. per un'antropologia dei souvenir, Bollati Boringhieri, Torino• DE KERCKHOVE D., 2001, L’architettura dell’intelligenza, Universale di architettura, Testo & immagine,
Milano• FERRARA C., 2007, La comunicazione dei beni culturali, Lupetti, Bologna• VOLLI U., 2003, Semiotica della pubblicità, Laterza, [Bari - Roma] • La carta d'identità del Museo (a cura di), Silvana Balbi De Caro, Antonella Fusco, Maria Antonietta
Fugazzola, Maria Vittoria Marini Clarelli, Mariella Utili, Pierpaolo Forte, Girolamo Sciullo, Velia Rizza, Adelaide Maresca Compagna, Elisa Bucci, Ministero per i Beni e le Attività Culturali, 2009, Gangemi Editore, Roma
• Il Museo e la Rete: nuovi modi di comunicare (a cura di; Alessandro Bollo, Luisella Carnelli, Luca Dal Pozzolo, Simone Seregni, Francesca Vittori, Fondazione Fitzcarraldo Regione Veneto, 2014, http://www.fitzcarraldo.it/ricerca/pdf/museorete_lineeguida_ricerca.pdf
• Riferimenti Web per Congruenza comunicativa e Relevance Theory: www.dan.sperber.com
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