CENTRO ALTI STUDI
PER LA DIFESA
CENTRO MILITARE
DI STUDI STRATEGICI
Dr. Giulio Montalbano
Politiche, prassi e culture della
sicurezza a confronto: uno studio
comparato in ambito europeo e
occidentale in genere
(Codice AL-R-02)
Il Centro Militare di Studi Strategici (CeMiSS) è un organismo istituito nel 1987 che gestisce,
nell’ambito e per conto della Difesa, la ricerca su temi di carattere strategico. Tale attività permette
di accedere, valorizzandoli, a strumenti di conoscenza ed a metodologie di analisi indispensabili
per dominare la complessità degli attuali scenari e necessari per il raggiungimento degli obiettivi
che le Forze Armate, e più in generale la collettività nazionale, si pongono in tema di sicurezza e
difesa.
La mission del Centro, infatti, nasce dalla ineludibile necessità del Ministero della Difesa di
svolgere un ruolo di soggetto attivo all’interno del mondo della cultura e della conoscenza
scientifica interagendo efficacemente con tale realtà, contribuendo quindi a plasmare un contesto
culturale favorevole, agevolando la conoscenza e la comprensione delle problematiche di difesa e
sicurezza, sia presso il vasto pubblico che verso opinion leader di riferimento.
Più in dettaglio, il Centro:
● effettua studi e ricerche di carattere strategico politico-militare;
● sviluppa la collaborazione tra le Forze Armate e le Università, centri di ricerca italiani, stranieri
ed Amministrazioni Pubbliche;
● forma ricercatori scientifici militari;
● promuove la specializzazione dei giovani nel settore della ricerca;
● pubblica e diffonde gli studi di maggiore interesse.
Le attività di studio e di ricerca sono prioritariamente orientate al soddisfacimento delle esigenze
conoscitive e decisionali dei Vertici istituzionali della Difesa, riferendosi principalmente a situazioni
il cui sviluppo può determinare significative conseguenze anche nella sfera della sicurezza e
difesa.
Il CeMiSS svolge la propria opera avvalendosi di esperti civili e militari, italiani e stranieri, che sono
lasciati liberi di esprimere il proprio pensiero sugli argomenti trattati.
(Codice Al-R-02)
CENTRO ALTI STUDI
PER LA DIFESA CENTRO MILITARE
DI STUDI STRATEGICI
Dr. Giulio Montalbano
Politiche, prassi e culture della
sicurezza a confronto: uno studio
comparato in ambito europeo e
occidentale in genere
Politiche, prassi e culture della sicurezza a confronto:
uno studio comparato in ambito europeo e occidentale in genere
NOTA DI SALVAGUARDIA
Quanto contenuto in questo volume riflette esclusivamente il pensiero dell’autore, e non
quello del Ministero della Difesa né delle eventuali Istituzioni militari e/o civili alle quali
l’autore stesso appartiene.
NOTE
Le analisi sono sviluppate utilizzando informazioni disponibili su fonti aperte.
Questo volume è stato curato dal Centro Militare di Studi Strategici
Direttore
Amm. Div. Mario Caruso
Vice Direttore - Capo Dipartimento Relazioni Internazionali
Col. A.A.r.n.n. Pil. (AM) Marco Francesco D’Asta
Progetto grafico
Massimo Bilotta - Roberto Bagnato
Autore
Giulio Montalbano
Stampato dalla tipografia del Centro Alti Studi per la Difesa
Centro Militare di Studi Strategici
Dipartimento Relazioni Internazionali
Palazzo Salviati
Piazza della Rovere, 83 - 00165 – Roma
tel. 06 4691 3205 - fax 06 6879779
e-mail [email protected]
Chiusa a dicembre 2016
ISBN 978-88-99468-49-1
5
INDICE
Premessa ............................................................................................................................. 6
1. L'Occidente allo specchio: cultura, valori, ordinamenti, tra storia e geopolitica ............... 9
1.1 Ideali e valori ......................................................................................................... 13
1.2 Cambiamenti delle politiche di sicurezza europee nella storia .............................. 17
1.3 Esempi di politiche e discorsi sulla sicurezza ........................................................ 18
1.4 La Germania come caso di studio e modello per una cultura strategica e di
sicurezza dell'UE ................................................................................................... 24
2. Difesa e sicurezza tra sovranismi e integrazione ........................................................... 30
2.1 Legittimità multilaterale ......................................................................................... 32
2.2 Dinamiche della sicurezza europea: i nuovi interessi nazionali ............................. 35
2.3 2.3 Il "Two Level Game": Francia, Regno Unito, Italia e Germania ....................... 37
2.4 2.4 Sviluppi istituzionali europei in materia di difesa ............................................. 43
3. Difesa e sicurezza di fronte alle sfide globali del terzo millennio ................................... 47
3.1 Relazioni tra la politica estera dell'Unione e la Politica di Sicurezza e Difesa
Comune ................................................................................................................ 48
3.2 Verso una maggiore integrazione europea della sicurezza ................................... 52
4. Affinità e difformità lungo lo spazio euroatlantico ........................................................... 65
4.1 Culture della sicurezza transatlantica nell'era post-guerra fredda ......................... 66
4.2 Le sfide emergenti alle culture di sicurezza europee e americana ........................ 68
5. Conclusioni .................................................................................................................... 70
6. Bibliografia ..................................................................................................................... 72
7. NOTA SUL Ce.Mi.S.S. e NOTA SULL’AUTORE ........................................................... 77
6
Premessa
La sicurezza è una componente essenziale dell'esistenza umana. Nelle arene politiche
degli stati, dei governi e delle organizzazioni, o nei contesti accademici, la sicurezza è un
concetto inestricabilmente intrecciato con il potere, di conseguenza profondamente
politicizzato e fonte di grandi disaccordi. Nei contesti politici espliciti, l'idea di sicurezza
implica un obbiettivo - ciò che dovrebbe essere reso sicuro – le minacce potenziali o
correnti ad esso e le strategie per mitigare il rischio o per annullare le minacce. Le diverse
scelte per risolvere le suddette questioni, in situazioni particolari, implicano decisioni
politiche che derivano dalle nostre scelte politiche fondamentali e dalle nostre teorie.
Queste idee e queste teorie, implicitamente o esplicitamente, andranno a formare le
priorità, le minacce ed i rischi da essere bilanciati e, infine, le strategie da perseguire.
La nozione di sicurezza ingloba anche il concetto nemici/avversari, che sono la fonte di
emanazione delle minacce/rischi, così come definiti in un determinato tempo storico.
Nell’idea di sicurezza esiste un vago stato d‘indeterminatezza tra realtà e percezioni, che
ne rende arduo il discernimento e spesso è causa di decisioni politico-strategiche
profondamente errate.
La fortissima spinta a ridefinire in modo più consono alla realtà ed alle sfide attuali quel
modello "Westfaliano", giunto ormai quasi al termine del suo percorso durato più di
trecento anni, sembra essere una condizione ineluttabile che investe ogni ambito, dai
soggetti alle regole, che rimodella e ridefinisce gli Stati e gli uomini. In seguito alle sbornie
utopistiche successive alla caduta del muro di Berlino e alla "Fine della Storia", il concetto
di avversario/nemico e rischio/minaccia si sono rigenerati, dominando la scena
pressappoco in uguale misura. Finita la guerra fredda, la sicurezza diveniva
completamente asimmetrica, poiché asimmetrico è il rischio e asimmetrico è il nemico, che
solo raramente assume la forma rassicurante dello Stato.
Se vi è un'inedita insicurezza allora, anche la ricerca sulla sicurezza non può che seguire
direzioni inesplorate; seguendo paradigmi e strumenti datati, operando al contempo per
una loro radicale trasformazione. Al giorno d'oggi gli strumenti maggiormente efficaci in
Europa, ma per questo non ulteriormente perfettibili, sono due organizzazioni
internazionali, l'Unione Europea e la Nato che comunque, in quanto a risposta e
formazione del consenso, sembrano essere meno efficaci del passato.
7
In seguito all'11settembre, posti di fronte alla necessità di dover scegliere fra una gamma
di possibili reazioni, gli USA scartarono a priori il ricorso alla Nato per una serie di remore
e paure relative alle lungaggini delle decisioni adottate per "comitati", come già era
avvenuto durante il conflitto in Kosovo. Sul piano militare si configurava una tendenza che
avrebbe ridotto il sodalizio a una mera fonte di strumenti, uomini e know-how, solo ogni
qualvolta apparisse necessario. Lo "Strategic Concept" del 1999, indicava all'art. 24 come
"gli interessi della sicurezza dell'Alleanza possano essere interessati da altri rischi di più
ampia natura, compresi gli atti di terrorismo e sabotaggio, il crimine organizzato e
l'interruzione dei flussi di rifornimento di risorse vitali". La mancata identificazione di un
avversario determinato - in base al paragrafo 23 – e la definizione però degli oggetti della
difesa, ovvero gli "interessi euroatlantici" ovunque essi fossero sotto minaccia, non poneva
limiti geografici all'azione dell'Alleanza. L'ampio ventaglio di minacce avrebbe compreso,
come già episodi tristemente noti hanno confermato, singoli individui (pronti ad attaccare
col terrorismo la società stessa nella quale risiedono), sette, reti o gruppi fanatizzati,
organizzazioni terroristiche nazionali e internazionali (che implicavano nette scelte
politiche, che avrebbero potuto creare spaccature e divergenze in seno all'Alleanza) e,
infine, Stati falliti o semifalliti. Le nuove paventate tipologie di offesa eliminavano in un sol
colpo la distinzione tra obiettivi non militari e militari, fra combattenti e civili, vanificando
buona parte delle regole dello ius in bello. In tempi più recenti la Nato ha tenuto in
considerazione questi punti, ma il più delle volte è stato asserito il primato della politica;
nel momento in cui vi fu la decisione americana di attaccare l'Iraq, emersero ostacoli e
resistenze insuperabili da parte francese e tedesca che indussero Donald Rumsfeld a
parlare di vecchia e nuova Europa, ma che, nonostante tutto, non tranciarono il legame
transatlantico, né fecero sì che l'organizzazione si paralizzasse dal punto di vista
operativo. Appunto, mentre la Francia venne esclusa dal processo decisionale con un
escamotage, altri stati membri come la Polonia, poterono intervenire in modo integrato in
virtù di accordi presi ufficiosamente a Bruxelles e ricevere in concessione assets e
capabilities di cui da soli non avrebbero potuto disporre.
Nei primi anni duemila, l'alleanza, libera da impegni rilevanti ad est, poteva impegnarsi
nell'arco di crisi a Sud, trascurato fino ad allora. Chiave di volta delle azioni dell'Alleanza
Atlantica verso il sud rimaneva il "Dialogo Mediterraneo", iniziativa vacua e foriera di
ulteriore risentimento da parte di alcuni paesi arabi.
Nel ventunesimo secolo, una sempre più stretta e integrata cooperazione in materia di
sicurezza e difesa, appare essere indispensabile, specie tra le varie capitali del continente
europeo.
8
L'Unione Europea da parte sua, specie in tempi di crisi più o meno gravi, è accusata di
agire come un mastodontico gigante burocratico e, sebbene il pericolo e l'urgenza
richiedano celerità di decisione, essa ostinatamente agisce con una lentezza che, prima di
tutto, è strutturale. Quando si trattano problematiche come quelle relative alla sicurezza,
che investono allo stesso tempo ambiti nazionali, sovranazionali ed internazionali, al di là
di ogni riferimento spaziale netto e ben definito, la difficoltà sta proprio nell'accettare e
assimilare le limitazioni di sovranità che possono derivare dalla necessità di
coordinamento delle linee di azione nazionale, da integrare e armonizzare per darvi un
senso d'azione comune.
La velocità di cambiamento e le tensioni interne alle strutture euroatlantiche spesso
portano ad un elevato dispendio di risorse nella ricerca di soluzioni di compromesso.
L'allineamento su una linea totalmente condivisa sarebbe la visione e la soluzione ideale e
utopica al problema, ma sino a quando per alcuni Paesi, di fronte a problemi asimmetrici,
quella militare sarà tra le migliori soluzioni possibili, mentre per altri sarà necessaria
soltanto una più decisa e coordinata politica di sicurezza, trovare una linea di condotta
uniforme è pura chimera. Si tratterà ad ogni modo di percezioni più che di realtà ma le
percezioni hanno spesso fatto la storia molto più della realtà stessa.
9
1. L'Occidente allo specchio: cultura, valori, ordinamenti, tra storia e
geopolitica
All'indomani della fine della seconda guerra mondiale e del lancio delle bombe atomiche
sul Giappone, la percezione dell'offensività delle 175 divisioni dell'Armata Rossa in Europa
e il pericolo di un revanscismo tedesco si aggiravano come uno spettro per il continente,
mentre sia la Francia e sia il Regno Unito si avviavano ad un lungo e doloroso ritiro verso i
propri confini, invitando gli Stati Uniti a riempire il vuoto lasciato. Dopo la guerra di Corea,
dove il confronto era stato realmente caldo e feroce, in Europa si assisteva a interminabili
dibattiti sugli sforzi americani di riarmare la Germania, appena dieci anni dopo che la
Wehrmacht aveva marciato su Parigi. La questione tedesca conduceva così ad un nuovo
esperimento d'integrazione europea, la CED (Comunità europea di difesa); la soluzione da
adottare era drastica: per assumere le forze tedesche in un esercito europeo composto da
gruppi multinazionali, bisognava inglobare le forze nazionali a livello continentale.
Poichè Parigi non avrebbe mai accettato, seppur avesse proposto l'idea tramite il primo
ministro Pleven; l'Assemblea Generale, tramite un espediente procedurale, rigettò il
trattato il 30 agosto 1954, considerando quel tipo di soluzione peggiore del problema
stesso che voleva affrontare. Nell'ottobre '54, venne quindi presentata una nuova
architettura di sicurezza; non solo la Germania occidentale veniva inclusa nella NATO, ma
il trattato di Bruxelles del 1948, emendato per includere Bonn e Roma, diveniva Unione
Europea Occidentale (UEO)1.
Argomentare sulle credenze e i valori sottostanti le realtà nazionali che si trovano inserite
nel contesto regionale europeo e transatlantico, significa addentrarsi nel regno della
cultura, spesso collidente con una interpretazione realistica e strutturale degli interessi
nazionali. Credi contrastanti circa la natura delle minacce o la moralità della guerra hanno
creato culture divergenti della sicurezza lungo lo spazio euratlantico.
1 Cfr. Julian Lindley-French, A Chronology of European security & defence. 1945-2007. Oxford University Press, 2007. Lentamente ma intensamente Francia e Germania si muovevano verso la definitiva riconciliazione del 22 gennaio del '63 col Trattato di cooperazione e riconciliazione, che avrebbe dato avvio ad un altalenante processo europeo di integrazione politica ed economica.
10
Le minacce sono definite in base al contesto culturale nel quale sorgono, in altre parole,
esse sono socialmente costruite; la cultura della sicurezza in tal senso estende l'idea di
Benedict Anderson delle “imagined community”, illuminandoci su come le società
immaginino il loro benessere nel mondo2. Qualche anno fa, Alexander Wendt3
argomentava che gli Stati Uniti e l'Europa vivono in un sistema internazionale kantiano, ma
solo nelle relazioni reciproche. Nelle loro relazioni con regimi e società illiberali, gli Usa
sono maggiormente manichei, il bene ed il male sono scelte lampanti e le guerre possono
spesso essere percepite come necessarie. La sicurezza americana ci informa molto sulla
sua cultura strategica.
Gli americani sono stati e continuano ad essere pronti a combattere per difendere la loro
"American way of life”, specialmente contro mali percepiti come tali nel mondo esterno e
che potrebbero minacciarli. Questo amplifica la necessità di una elevata prontezza e
sicurezza militare per colpire all'estero ciò che viene considerata una minaccia alla propria
sicurezza nazionale, presuntuosamente asserendo il sostegno della benedizione divina.
Le minacce esistenziali alla nazione sono imbevute dal concetto di male e rivelano le
intenzioni malefiche delle forze oscure ("Asse del male") o di barbari selvaggi – retorica
che discende dallo sterminio degli indiani - che minacciano i valori cari agli americani:
libertà, democrazia e "American way of life”4. Da gran parte degli europei, questa
inclinazione a creare dicotomie bene/male è interpretata come base fallace e irrazionale
per una democrazia matura.
L'assunto che la minaccia sia sempre esterna e che le guerre saranno combattute
potenzialmente ovunque è suffragato dal fatto che gli Stati Uniti non hanno mai avuto
un'agenzia di sicurezza nazionale, almeno fino agli attacchi dell'11 settembre. Le guerre
non sono mai state combattute sul suolo americano; la cosiddetta "American way of war"5
richiede un numero imponenente di forze armate, che frantuma gli avversari su campi di
battaglia all'estero. L'inclinazione della strategia nazionale americana ad includere tra gli
obiettivi perseguibili anche il "regime change" può essere riscontrata in abbondanza
attraverso le logiche strategiche di Washington nella storia.
2 Benedict Anderson, Imagined Communities: Reflecting on The Spread of Nationalism, 2nd ed. (London: Verso, 2006). Tr.it., Comunità immaginate, Manifestolibri, Roma, 2009.
3 Alexander Wendt, Social Theory of International Politics, Cambridge: Cambridge University Press, 1999.
4 Seymour Martin Lipset osserva: “To endorse a war and call on people to kill others and die for the country, Americans must define their role in a conflict as being on God’s side against Satan—for morality, against evil.” In Seymour Martin Lipset, American Exceptionalism: A Double-Edged Sword , New York: W. W. Norton, 1997, p. 20.
5 Russell Weigley, The American Way of War: A History of United States Military Strategy and Policy, Bloomington, Indiana University Press, 1973, p. XXII.
11
È l'eccezionalismo americano, la spiegazione alla radice. Molti osservatori europei e critici
ritengono che la religiosità americana sia negativa, minacciosa e spesso irrazionale e
renda i comportamenti statunitensi potenzialmente imprevedibili6. L'America rimane uno
stato moderno ma non secolare, il rapporto con il sacro e i richiami alla provvidenza
seguono un filo rosso ininterrotto, da Jefferson ad Obama7. Laddove gli europei rigettano
sonoramente la connessione tra credo in Dio, azione morale e giudizio, la maggior parte
degli americani ha sempre creduto che la vera azione morale possa essere intrapresa ed
informata dal credo in Dio.
L'Europa rimane ancora una collezione di stati, profondamente imbevuti della propria
cultura strategica e securitaria, ma i contorni di una generale cultura europea della
sicurezza sono diventati più chiari e delineati solo dopo lo scoppio delle guerre balcaniche,
negli anni '90.
I valori fondanti la sicurezza europea contrastano con quelli degli Stati Uniti per tre ordini di
ragioni ed influenze: le esperienze profondamente differenti con la guerra, l'impulso
integrazionistico, a livello d'elite, successivo alla Seconda guerra mondiale - che pur gli
Stati Uniti hanno incentivato e finanziato – che ha scoraggiato le narrative nazionali in
favore di un'identità post-nazionale, ed infine il collasso della religiosità in Europa
successiva agli anni '60. Molti europei percepiscono negativamente questa religiosità
sussunta al livello della politica; lanciano anatemi contro la pena di morte e la libertà di
portare armi facilmente. L'Europa è stata radicalmente influenzata dalle idee che Kant
aveva esposto nella sua Pace Perpetua, ovvero che nessuno stato avrebbe cercato il
dominio sugli altri; gli eserciti permanenti sarebbero stati aboliti; gli stati repubblicani
avrebbero dovuto creare una sorta di alleanza, una federazione di liberi stati. Da questa
tipologia di relazioni interstatali, sarebbe sorto il diritto delle nazioni, la promozione
dell'ospitalità tra popoli e stati del mondo, dove agli stranieri sarebbe stato accordato il
rispetto e dove l'incoraggiamento alla creazione di una società cosmopolita sarebbe
divenuto una priorità. Il concetto kantiano di "diritto cosmopolita" suggeriva che gli individui
avessero diritti non soltanto come cittadini degli stati-nazione, ma per prima cosa come
cittadini della terra. La sua concezione di cosmopolitismo è stata fondativa dei valori
europei e di moltissime discipline concernenti l'emergenza di una "democrazia
cosmopolita" e "repubblica cosmopolita"8.
6 Cfr. Ulrich Beck, World at Risk , Cambridge, UK, Polity Press, 2007. 7 Cfr. con James W. Ceaser, “The Origins and Character of American Exceptionalism,” American
Political Thought 1, no. 1 (Spring 2012): 3–28. “American political thought has never fully separated religion and politics.”
8 H. S. Reiss, Kant’s Political Writing , Cambridge: Cambridge University Press, 1991.
12
Le istituzioni europee hanno provato negli ultimi tempi a ridefinire il posto dell'Unione nel
mondo, le minacce da fronteggiare e i rimedi possibili a queste. Anche se – come si
evincerà nel corso di questo lavoro – non vi è una omogenea cultura strategica europea. si
fonda sul concetto di "security governance" dove i rischi sono valutati secondo una varietà
di metodi, come potrebbe evincersi dai tasks di Petersburg: “In contrast to the massive
visible threat in the cold war, none of the new threats is purely military; nor can any be
tackled with purely military means”9. Le truppe europee sono dispiegabili in situazioni che
includono assistenza umanitaria, Peace-keeping operations, gestione e prevenzione delle
crisi e operazioni di rafforzamento della pace.
I tasks sostengono, inoltre, che lo strumento militare deve essere perseguito soltanto
come ultima risorsa e solo come uno dei pezzi componenti il più ampio e ragionevole
approccio alla sicurezza, che ingloba mezzi economici e politici. Perfino il ruolo delle forze
armate, nei pronunciamenti strategici e governativi rimane poco definito, salvo che per le
missioni di tipo umanitario.
Il cosmopolitismo organico a questa concezione implica preoccupazioni per la sicurezza
umana, per i cittadini del mondo, ed è caratterizzato da una focalizzazione delle politiche
europee sull'assistenza umanitaria. Dalla fine degli anni '90, l'Europa ha contribuito
approssimativamente alla metà dell'assistenza umanitaria nel mondo; la questione
divenne caratterizzante della cultura strategica europea, dove la "security governance"
avrebbe rimpiazzato i tradizionali paradigmi orientati alla difesa, in un mondo dove si
ricercassero amici, non nemici da smantellare10.
Rispetto all'alleato d'oltreoceano, il secolarismo rimane uno dei pilastri della cultura di
sicurezza europea che è a sua volta una sorta di eccezionalismo, un oasi secolare, specie
in un mondo dove la religiosità e la sua influenza sembrano incrementarsi11.
9 European Council, A Secure Europe in a Better World: European Security Strategy (Brussels: European Union, 2003), p. 7, h ttp://www.consilium. europa.eu/uedocs/cmsUpload/78367.pdf. La strategia riaffermava il modello di "security governance" come il distinto approccio europeo alla politica estera e di sicurezza: " Over the last decade, the European Security and Defense Policy, as an integral part of our Common Foreign and Security Policy, has grown in experience and capability, with over 20 missions deployed in response to crises, ranging from post-tsunami peace building in Aceh to protecting refugees in Chad".
Report on the Implementation of the European Security Strategy-Providing Security in a Changing World, (Brussels, 2008), p.2, http://www.consilium. europa.eu/ueDocs/cms_Data/docs/pressdata/EN/reports/104630.pdf.
10 U.Beck, Un mondo a rischio, Einaudi, Torino, 2003, pp. 65-67. 11 Peter Berger, The Desecularization of the World: Resurgent Religion and World Politics,
Washington, DC: Ethics and Public Policy Center; Grand Rapids, MI: W. B. Eerdmans Publishing, 1999, pp. 1–18.
13
1.1 Ideali e valori
L'importanza delle percezioni nella formazione delle politiche di sicurezza richiede una
"rivalutazione" delle cosiddette variabili "soft": La questione centrale è: perché attori
differenti spesso percepiscano lo stesso problema in modi radicalmente diversi e allo
stesso modo alcune minacce assumano un determinato rilievo rispetto ad altre.
La sicurezza e le percezioni sono guidate dalla teoria: i decisori politici tendono a vedere
quello che si aspettano già di vedere e queste aspettative sono spesso guidate da lezioni
storiche stereotipate, analogie, vecchi e logori copioni che forniscono scorciatoie nel fare
valutazioni sotto lo spettro delle incertezze12. La sicurezza, intesa come sistema o come
struttura coerente ed organizzata, può essere vista come il prodotto di una particolare
ideologia: una forma di cognizione sociale che provvede a creare delle forme che facciano
da filtri, allo scopo di raccogliere informazioni e redigere classificazioni attorno a costrutti di
verità, normalità e conoscenza. La costruzione del significato di sicurezza, come il
comportamento e il linguaggio, risiede sulle fondamenta degli elementi culturali e
ideologici: l'identificazione dei valori da essere resi sicuri e, ceteris paribus, i mezzi da
usare per la difesa, sono direttamente dipendenti dalla loro relativa posizione su una scala
assiologica di priorità che provengono, a loro volta, dalla cultura e dall'identità. L'esistenza
di una determinata cultura politica influenzerà la percezione della sicurezza e la
determinazione degli scopi, dei mezzi, dei modi, in una grande strategia. Il comportamento
delle èlites sarà sempre costituito in parte dalla cultura e le percezioni deriveranno sempre
dalla concreta esperienza storica nazionale. Tuttavia, si dovrebbe rimarcare che gli assunti
culturali – politici o strategici – non determinano in modo assoluto il comportamento e non
c'è alcuna relazione univoca e deterministica tra cultura e strategia; piuttosto la funzione
culturale potrebbe influenzare l'ordine gerarchico di preferenze, se, ad esempio, le
sanzioni economiche potranno essere considerate più efficaci rispetto alle misure militari.
Gli Stati che condividono alti livelli di identificazione di gruppo tenderanno a condividere
culture strategiche che esibiscono caratteristiche di "hard realpolitik". Viceversa, gli Stati
con debole identificazione di gruppo o gli Stati che percepiscono altri Stati con valori
abbastanza omogenei, è più probabile che saranno influenzati culture strategiche
incentrate sull'"idealpolitik"13.
12 R.Jervis, Perception and Misperception in International Politics, Princeton nJ: Princeton University Press, 1976.
13 A. I. Johnston, (1995) Thinking about Strategic Culture. International Security. 19 (4). pp. 32–64.
14
In questi tempi di "guerre opzionali", ovvero interventi militari decisi nei consessi di
organizzazioni regionali o internazionali e in cui si può prestare il consenso o meno di
partecipazione, vi è una considerevole pressione da parte di attori domestici e
dell'opinione pubblica. Le politiche di sicurezza subiscono quella che è stata chiamata "de-
securizzazione"14. La sicurezza diventa un'area di policy soggetta alle più disparate
pressioni, anche se rimane di certo il fatto che la sicurezza sia un'area speciale.
La principale dinamica nelle politiche di sicurezza nell'Unione Europea è direttamente
legata alla situazione post-nazionale europea: più opzionale diviene la guerra, più debole
supporto viene raggiunto e di conseguenza il bisogno di negoziare tra livelli domestici e
multilaterali. Più pericolosa è la missione, più contestata sarà. Presi insieme questi due
fattori implicheranno che una guerra opzionale che è pericolosa significherà un supporto
pubblico debolissimo o vacillante. Gli Europei, o perlomeno la maggior parte dell'opinione
pubblica, sembrano aver espunto la guerra come mezzo ottimale di risoluzione delle
controversie internazionali.
L'abbandono dei conflitti territoriali è stato cruciale nel fare dell'UE la prima forma politica
realmente postmoderna: riconfigurando l'identità attraverso il processo di reintegrazione,
gli stati membri hanno via via cominciato ad interiorizzare l'esistenza degli altri membri e
immaginare un'esistenza collettiva europea. Diffondendo le sue norme, l'Unione Europea
ha delineato l'obiettivo di europeizzare le periferie attraverso un attivo processo di
socializzazione delle elites politiche degli stati candidati e attraverso incentivi economici;
da quel momento sembra che la strategia di diffusione sia divenuta l'àncora per riempire di
senso le relazioni europee con il vicinato.
Cionostante, svariati fattori in gioco hanno lavorato e continuano a lavorare contro una
comune difesa europea. Primo, considerati i permanenti e preponderanti contributi
statunitensi alla sicurezza europea generati dalla Nato, la creazione di una difesa europea
potrebbe solo essere meno efficiente ed effettiva se non corrispondente ad ulteriori
investimenti - non semplici da ottenere di fronte alla crisi economica strutturale e alle
politiche di rescaling in tema di difesa. Secondo, una politica comune in tema di sicurezza
e difesa non fa che accentuare le divergenze strategiche e così autoindebolire la stessa
immagine unitaria dell'Europa, specie nelle relazioni con la Russia. La creazione di una
comune politica estera e di sicurezza ha risposto piuttosto alla volontà di creare coesione
e rafforzare l'identità comune e l'autoconsapevolezza collettiva. Lo sviluppo di una politica
di sicurezza comune dovrebbe essere vista in relazione al tentativo europeo di affermare
14 B. Buzan and O.Wæver, Regions and power: The structure of international security. Cambridge: Cambridge University Press, 2003.
15
la propria identità, inizialmente come attore internazionale e poi attore di sicurezza
globale; ciò dovrebbe essere visto come un riflesso dell'auto-percezione come membri
della medesima comunità di sicurezza15. In una comunità di sicurezza saldamente
combinata e plurale, è probabile che le identità condivise ed un alto grado di fiducia
conducano ad un alto livello di sicurezza collettiva e integrazione militare16. Speranza e
fiducia mal riposta?
Tre esperienze risalenti al periodo della Guerra fredda sono state cruciali nel formare la
cultura della sicurezza in Europa e le sue pratiche17. L'esperienza delle trattative sul
controllo delle armi ha convinto gli europei della necessità e dell'importanza delle
negoziazioni sulla sicurezza: effettivamente ciò ha ridotto il rischio di violenza.
In aggiunta, la creazione di comunità di controllo delle armi ha creato accordi su alcuni
blocchi basici ed essenziali per la costruzione della sicurezza, tanto che, alla fine, il
dialogo è valso tanto quanto il risultato prodotto. Ancora, l'esperienza del processo di
Helsinki e lo sviluppo delle misure di confidence-building hanno rimosso la segretezza
degli stati sugli affari militari, affermando l'effettività e la preferenza per un approccio
cooperativo e mutuo relativo alla sicurezza.
È stata introdotta la sicurezza completa, onnicomprensiva; la dimensione politica ed
umana della sicurezza ha acquisito nuova rilevanza. Last but not least, nutrita
dall'esperienza della guerra in Bosnia e dall'instabilità ai confini europei, l'Europa diede
una nuova lettura della sicurezza "obiettiva", legata a fatti incontestabili, empirici, provabili,
a fonti di minaccia e insicurezza reali e non percepiti, come invece aveva insegnato la
Guerra fredda lungo quei quarantacinque anni.
Ridefinire l'Unione Europea come potenza globale significa riconoscere l'esistenza di un
coacervo di sfide interconnesse e minacce alla sicurezza dell'Unione come spazio
economico, politico e territoriale unificato. Ergersi a potenza e così assumere la credibilità
internazionale come valore, ma anche come interesse, si è tradotto nella combinazione di
un più vasto attivismo nella promozione del multilateralismo e l'identificazione nell'ONU di
un punto di riferimento istituzionale. È stato inoltre creato a Bruxelles un più ampio
apparato istituzionale, capace di fronteggiare le sfide geopolitiche, e nuove istituzioni abili
a trasformare l'Europa in forza di proiezione, tra i quali, HR, EUMS, la Policy Unit (PU), il
15 E. Adler e M. Barnett, Security Communities. Cambridge: Cambridge University Press, 1998, pp. 29–65.
16 Ibidem. 17 K. Krause, Culture and Security. Multilateralism, Arms Control and Security Building. London
and Portland: Frank Cass Publishers, 1999, pp. 23–54.
16
Joint Situation Centre (JSC), lo Special Representatives (SR), il General Secretariat of the
Council (GSC), e la Committee for Civilian Aspects of Crisis Management (CCACM).
Fu stabilita l'idea che potessero essere adoperati gli strumenti militari, sebbene con
rilevanti caveat ; le operazioni di pace dell'UE cominciarono ad introdurre una componente
militare che vari documenti chiave e il Trattato di Lisbona confermarono. I tasks di
Petersberg rimasero come punto di riferimento essenziale, ma i "Military Headline Goals",
formulati nel corso del tempo, dettero il compito di ricoprire l'intero ciclo dei conflitti dalla
prevenzione al consolidamento della pace, con la possibilità di usare risorse militari.
Sebbene non siano mai stati dispiegati, sono stati creati i Battlegroups dell'Ue che hanno
raggiunto una piena capacità operativa sin dal 2007. In aggiunta, le culture strategiche
nazionali degli stati membri dell'UE, hanno lentamente cominciato a convergere riguardo
alle norme strategiche prevalenti sotto l'influenza di mutevoli percezioni di minacce; la
socializzazione istituzionale; esperienze condivise da missioni congiunte; valutazioni
condivise delle minacce, da parte di alcune comunità epistemiche; socializzazione delle
elites all'interno delle istituzioni comuni; apprendimento dalle crisi altrui ed aumento delle
domande di operazioni esterne all'Unione18. Le divergenze esistenti riflettono l'assunto che
la cultura strategica può essere eterogenea e contestata, poiché essa è sempre sottoposta
a forze interne ed esterne di contestazione e cambiamento. Gli stessi effetti della
socializzazione sono stati trovati nelle culture militari e perfino nell'ethos militare degli stati
membri19. Una delle pietre angolari dell'emergente ethos militare è "Pretend to be warlike
but don’t fight", riflettendo però l'ambigua attitudine e le differenze riguardanti l'uso della
forza tra i paesi europei. Tra di loro vi erano pure divergenze nelle culture strategiche
rispetto alle necessità o meno dell'esistenza di limiti geografici all'impegno della Politica di
Sicurezza e Difesa Comune (PSDC), un'opportunità che l'intervento dell'UE copra o meno
l'intero arco temporale della crisi o, infine, alla prevalenza di una tipologia di intervento
civile o militare. In positivo vi sono alcuni elementi di convergenza che caratterizzano
l'incipiente cultura strategica europea, ovvero il principio di proiezione delle forze entro un
contesto multilaterale; il principio della legittimazione internazionale e l'implementazione
della titolarità delle forze locali; l'affidamento su approcci flessibili, onnicomprensivi,
dinamici, di lungo periodo e basati su un utilizzo di strumenti multidimensionali integrati
(civili/militari) e per ultimo un ristretto uso dei mezzi militari, dispiegati in base a mandati
limitati nel tempo e nello spazio, con la previsione di una strategia d'uscita.
18 C. O. Meyer, E.Strickmann, Solidifying Constructivism: How Material and Ideational Factors Interact in European Defence. Journal of Common Market Studies. 49 (1), 2011, pp. 61–81.
19 T. Koivula, Towards an EU Military Ethos. European Foreign Affairs Review. 14 (2). 2009, pp. 171–90.
17
L'Unione Europea ha elaborato delle linee guida strategiche, ha identificato le sue
minacce e sviluppato una capacità di azione e norme condivise sulla legittimità delle
operazioni.
Secondo Kornprobst20, gli stati membri dell'Unione Europea però non concordavano
pienamente sul reale significato di "multilateralismo", soppesando il loro status
internazionale differentemente, avendo un'idea diversa delle "special relations" differenti,
ma anche interpretando in maniera difforme l'adeguatezza dell'uso della forza. Pertanto,
sebbene vi fossero fondate ambizioni verso il contrario, l'Europa aveva fallito la sua
trasformazione da attore regionale ad attore pienamente globale.
1.2 Cambiamenti delle politiche di sicurezza europee nella storia
Lord Ismay, primo segretario generale della NATO, descrisse icasticamente il fine ultimo
dell'alleanza nella celebre asserzione: i russi fuori, gli americani dentro e i tedeschi sotto.
L'Alleanza avrebbe agito da deterrente per un'ipotetica aggressione sovietica - poi
rivelatasi storicamente infondata – impegnava gli Stati Uniti alla difesa dell'Europa e
provvedeva alla rassicurazione, specie dei francesi, che la Germania non sarebbe stata
più una minaccia. In seguito alle lunghe traversie della Guerra Fredda, ove si alternarono
periodi di cooperazione autonoma Est-Ovest (v. CSCE, poi OSCE) a tensioni di varia
natura, si giunse al contesto geopolitico del post-guerra fredda, definito da una più
smaccata unipolarità occidentale; mentre gli Stati Uniti godevano del monopolio strategico
e militare mondiale, Washington ha continuato ad appellarsi ad un più ampio referente
politico-ideologico occidentale. Gli Usa si comportavano come l'"egemone benevolo" in un
tentativo evidente di creare un ordine globale che riflettesse i suoi valori e interessi.
Attraverso gli anni '90, Washington e la NATO hanno continuato a giocare un ruolo
primario nella geopolitica europea.
Il ruolo conduttore nei più significativi sviluppi era palese: dalla riunificazione della
Germania, all'allargamento della NATO all'Europa centrale ed orientale e, anche se in
termini poco soddisfacenti per l'Europa, alla pacificazione dei Balcani occidentali. Gli Stati
Uniti miravano, attraverso i loro sforzi diplomatici e militari, a ricreare un milieu regionale
proprio adesso che non vi era più il contrappeso di Mosca, dopo aver pressato per
decenni per ottenere sviluppi in tal senso.
20 M. Kornprobst. Building Agreements Upon Agreements: The European Union and Grand Strategy. European Journal of International Relations.27 giugno 2014 pp. 1–26.
18
Infatti, fu la prospettiva di un incontrollato potere americano ad animare largamente un
ulteriore sviluppo chiave del dopo guerra fredda: l'emergere di alcuni paradigmi
revisionistici all'interno dell'Occidente stesso.
I cambiamenti nell'ambito securitario europeo hanno elevato la rilevanza e la significatività
delle questioni non militari e di "soft security", dal crimine organizzato al terrorismo,
all'immigrazione e all'instabilità sociale; su queste problematiche le istituzioni europee, le
concertazioni ed i meccanismi di cooperazione sono diventati crescenti.
La divergenza tra Stati Uniti ed Europa su punti focali della sicurezza è sintomatica di
divari più ampi, d'interessi e di valori. Il divario sta alimentando i tentativi di rafforzare la
collaborazione europea in tema di sicurezza. Una volta acceleratosi lo sviluppo
istituzionale in tema di sicurezza, l'Unione Europea ha messo in atto una serie di azioni
concrete su questioni securitarie, inclusi gli impegni con i Paesi vicini ed il dispiegamento
di missioni militari oltre i confini degli stati membri. La cooperazione sulla sicurezza intra-
europea e attraverso l'Atlantico è sempre più connotata dalla formazione di una coalizione
di stati operanti sotto la bandiera della NATO o sotto quella dell'Unione Europea.
Dopo decenni d‘integrazione tra i paesi europei, l'area di mercato comune,
l'interdipendenza economica, l'interpenetrazione sociale e le interazioni strategiche hanno
forgiato un'unica comunità di sicurezza – un gruppo di stati la cui sicurezza è talmente
interconnessa che le sicurezze nazionali non possono essere realisticamente considerate
come monadi isolate. L'Unione si è dotata di un esplicito articolo di difesa collettiva, (art.
42 Trattato di Lisbona) che chiaramente offre ai suoi membri sicurezza collettiva, a
prescindere dagli impegni contratti con la NATO.
1.3 Esempi di politiche e discorsi sulla sicurezza
Nella grande strategia degli Stati Uniti, basata sul "National Security Strategy" (NSS), del
200221, obiettivi e missioni sono distinti sulla base di interessi e valori vitali: nonostante il
focus sull'uso della forza, l'agenda è vasta e non include soltanto la difesa e la protezione
del territorio nazionale, ma anche indefiniti interessi economici, democratici ed energetici,
che spingono il Paese ad agire ed intervenire su tutto il globo per valori, da essi
considerati universali.
21http://www.state.gov/documents/organization/63562.pdf
19
Il Canada è uno dei maggiori stati promotori del concetto di sicurezza umana. Già nel
White Paper del 199422, si aggiungevano – oltre ai tradizionali concetti di difesa - compiti
quali il supporto alla rule of law e l'ordine, la protezione dell'industria ittica, l'interdizione
delle droghe, la protezione ambientale, il sostegno umanitario, il controterrorismo, il
supporto alla sicurezza multilaterale, il peacekeeping e alla costruzione di fiducia nei paesi
post-conflitto e le evacuazioni di emergenza. Il Canada è ancora oggi particolarmente
attivo nelle operazioni di peacekeeping, dai Balcani al Ruanda, all'Afghanistan.
Il Regno Unito, nel 1998 pubblicava la Strategic Defense review (SDR)23 indicando la
sicurezza, la prosperità e la qualità della vita come interessi nazionali, mentre nuove o
tradizionali minacce venivano menzionate: proliferazioni di armi, danni ambientali,
terrorismo e traffici internazionali di armi e droga, attacchi tecnologici, tensioni etniche,
collasso delle strutture statuali. I compiti per le forze armate, potevano includere la
sicurezza in tempi di pace anche dei territori d'oltremare, diplomazia, supporto ad interessi
più ampi del regno, supporto alla pace nei contesti di operazioni umanitarie, conflitti
regionali fuori e dentro l'area Nato e difesa della Nato stessa. Le capacità e competenze
convenzionali e nucleari, sono esplicitamente conteggiate; da evidenziare che tra i 28
tasks in lista, 21 sono non bellici.
La nuova Strategic Security Defense Review (SDSR 2015)24 offre un'ampia sintesi tra
strategia, sicurezza e difesa. Essa sembra il tentativo di risanare le finanze pubbliche,
pareggiando il bilancio possibilmente nel giro di un quinquennio. I cambiamenti strategici
non sono novità: terrorismo, migrazione, urbanizzazione, aumenti potenziale dei disordini
sociali, cambiamento climatico ed impatto delle tecnologie sull'occupazione.
Questa strategia tuttavia non riesce ad inquadrare degli obiettivi chiaramente delineati sui
quali impegnare le pur sempre limitate risorse. Il futuro del dispositivo militare britannico
dovrebbe essere quello di una forza dalle caratteristiche altamente qualitative, intorno alla
quale combinare rapidamente una forza in grado d'intervenire in piena autonomia sullo
spettro intero delle operazioni. Le sue forze armate non potranno che essere, in tempi
d'austerità, una mera deterrenza strategica numericamente limitata, che si specializza in
settori quali l'antiterrorismo di alto livello e dove la marina solo formalmente e
limitatamente, potrebbe proiettare la sua potenza verso le principali vie di comunicazioni
marittime.
22 http://www.civcap.info/fileadmin/user_upload/Canada/White_Paper_on_Defence_01. 23 http://fas.org/nuke/guide/uk/doctrine/sdr98/. 24 https://www.gov.uk/government/uploads/system/uploads/attachment_data/file/478933/ 52309_Cm_9161_NSS_SD_Review_web_only.pdf
20
Per ciò che concerne le operazioni, gli inglesi contribuiscono pesantemente ad operazioni
di peacekeeping o operazioni umanitarie condotte autonomamente in Sierra Leone, in
aggiunta alle più note partecipazioni nella guerra in Iraq ed Afghanistan.
Come verrà visto più in dettaglio nel paragrafo successivo, la Germania ritiene che sia
possibile avere stabilità solo dove esistono democrazia e rispetto per i diritti umani, welfare
e giustizia sociale e dove infine gli stati vicini cooperino in pace reciprocamente.
Nonostante la constatazione della necessità di affidarsi a mezzi civili, è stato più volte
riconosciuto che non è possibile rinunciare totalmente alla forza militare. La Germania è
stata difatti coinvolta in operazioni di peace-enforcement e peace-keeping in Bosnia,
Kosovo ed Afghanistan.
Il primo fine della strategia securitaria francese è quello di preservare gli interessi vitali
della Francia contro ogni forma di aggressione, inclusa la garanzia dell'integrità del
territorio nazionale, la libertà dei cittadini, la sovranità, mantenendo la credibilità della
deterrenza attraverso un utilizzo combinato di mezzi convenzionali e nucleari. Le minacce
sono viste come diversificate e il terrorismo è specificamente menzionato. Il secondo
scopo è quello di cooperare per la sicurezza dello spazio europeo e mediterraneo in una
prospettiva di una politica di difesa e sicurezza comune, per prevenire l'emergenza di
minacce alla stabilità del continente, del Medio Oriente e del Mediterraneo, contribuendo
alla prevenzione dei conflitti e la loro eventuale risoluzione in particolare attraverso azioni
militari (v. Libia 2011).
Da ultimo, il terzo obiettivo è contribuire al rispetto del diritto internazionale, assicurando la
partecipazione della Francia negli interventi umanitari e nelle operazioni di peacekeeping.
Fondamentali vengono rilevati il rispetto della sovranità, la protezione dei cittadini, degli
interessi e delle risorse e il servizio di rafforzamento della protezione pubblica del territorio
francese. È interessante notare come questo discorso sia particolarmente tradizionalista e
considerevolmente conservatore rispetto a quello britannico o americano. La Francia ha
condotto la missione europea in Congo e fino al 2007, quella della Nazioni Unite in Libano
(UNIFIL), che è stata guidata dal generale italiano Luciano Portolano dal 24 luglio 2014 al
19 luglio 2016 ed ora è sotto il comando del Generale Irlandese Michael Beary.
Il Libro bianco italiano della difesa, del 2002, discuteva il ruolo delle forze armate nel
perseguimento di finalità e responsabilità internazionali per il conseguimento globale della
libertà, del rispetto del diritto e della giustizia in un mondo profondamente trasformato
dopo l'11 settembre. I rischi e le minacce richiedono una speciale attenzione e l'utilizzo
delle forze armate non soltanto per la difesa nazionale e l'integrità politica, ma pure per
valori di civilizzazione, welfare e sviluppo economico e sociale.
21
Vi è un esplicito riferimento ad un concetto più ampio di sicurezza che non è limitato alla
solita difesa della sovranità nazionale, ma un qualcosa che contiene anche l'aspirazione al
mantenimento della stabilità internazionale, la prevenzione di vecchi e nuovi rischi, così
come l'opposizione alle violazioni della pace e del diritto internazionale.
La Spagna nella revisione strategica del 200325, espressamente rinunciava all'uso della
forza come mezzo per la risoluzione delle controversie politiche internazionali, dando
priorità alla diplomazia rispetto alle soluzioni militari ed esprimeva la sua ferma volontà di
difendere i suoi interessi legittimi ovunque essi risiedessero. La prevenzione dei conflitti ed
un contributo attivo al mantenimento della pace attraverso la capacità di gestione delle
crisi sono viste come priorità e finalità ultime delle forze armate. La diplomazia è
individuata come lo strumento precipuo per incoraggiare e stimolare la fiducia reciproca tra
le nazioni, insieme al dialogo e alla mutua conoscenza, alle misure di controllo delle armi e
alla mutua trasparenza delle attività militari.
Con riguardo ai livelli di ambizione nella sicurezza internazionale, lo status di neutralità o
non allineamento, nel senso di non essere membro di alleanze militari, quali la NATO, non
implica assoluta indifferenza. Alcuni Paesi, formalmente neutrali come l'Irlanda e la Svezia,
hanno mostrato livelli rimarchevoli di attività internazionali.
Non tutte le nazioni europee hanno rimodellato i contesti legali interni alle realtà
contemporanee e alle crescenti domande in termini di sicurezza, che includono un certo
grado di flessibilità e potenzialmente, rapida reazione.
La distinzione tra atlantisti ed europeisti, che tradizionalmente relegava il Regno Unito e la
Francia agli opposti estremi dello spettro ha inficiato l'unità, ma ha stimolato un ampio
dibattito nel contesto della incipiente Common Security and Defence Policy dell'UE26.
Focalizzarsi sulla strategia e quindi sulle culture strategiche e le questioni relative al
dispiegarsi delle politiche di sicurezza e difesa, incluso il mantenimento, l'utilizzo ed il
controllo delle proprie forze armate, conduce ad una distinzione tra tre tipologie di Paesi:
quelli la cui sicurezza è guidata dal tentativo di asserire la propria presenza nel sistema
internazionale; nazioni le cui culture strategiche conducono ad ampi sforzi per mostrare
l'attitudine verso la formazione di un ambiente di sicurezza multilaterale, attraverso
negoziazioni internazionali, e da ultimo Paesi che sfruttano la loro politica di sicurezza e
difesa per proiettare la propria potenza statuale.
25 http://www.defensa.gob.es/Galerias/defensadocs/revision-estrategica. 26 V.anche B.Giegerich: European Security and Strategic Culture. National Responses to the
EU’s Security and Defence Policy. Baden-Baden: Nomos, 2006.
22
Più in dettaglio, nel primo caso, un numero di paesi s'impegnano nelle organizzazioni
internazionali e partecipano alle missioni militari internazionali, sfruttando questo impegno
per mettere in mostra così facendo la propria statualità. Spesso si tratta di piccoli stati con
risorse limitate, in termini di territorio, popolazione e mezzi finanziari.
Il loro fine primario è quello di dimostrare che possono assumersi delle responsabilità
internazionali ed essere riconosciuti come membri della comunità internazionale,
meritevoli di una parità, che vada al di là del riconoscimento giuridico. Il ruolo chiave delle
forze armate di queste nazioni è quello di supportare queste manifestazioni di statualità; le
élites percepiscono il bisogno di mettere in risalto il fatto che la loro nazione è capace di
giocare un ruolo di sicurezza e difesa costruttiva. In pratica, alcune nazioni sono riluttanti
all'uso della forza militare e mostrano una spiccata preferenza per i mezzi civili di gestione
delle crisi e prevenzione dei conflitti, che sembra essere un riflesso della loro inabilità
strutturale a provvedere alla propria difesa autonomamente. Questi Paesi tendono a
canalizzare il loro impegno sempre attraverso l'UE e la NATO, in parte poiché quest'ultima,
sebbene la formale eguaglianza, è percepita come un'alleanza dominata dall'influenza e
dalle risorse degli Stati Uniti, unico primus inter pares, nell'organizzazione.
La seconda tipologia di Paesi, conduce le politiche di sicurezza e difesa nelle forme
propriamente multilaterali attraverso alleanze ed organizzazioni. Essi sono molto meno
preoccupati circa gli effetti diretti e primari dei loro impegni, come eventuali schieramenti,
ma mirano ad influenzare maggiormente politiche multilaterali al fine di generare un senso
condiviso di obbligo e solidarietà. Spesso ciò potrebbe portare a scelte politiche
all'apparenza ciniche, come ad esempio quando la partecipazione alle operazioni in
Afghanistan è usata per giustificare il non impegno operativo in Iraq. Due sottocategorie
potrebbero ancora essere rintracciate: svariate nazioni, inclusi i paesi baltici ed altre
nazioni centro-orientali europee sono maggiormente interessate alla difesa collettiva; il
loro impegno nella NATO è orientato dal desiderio di generare delle garanzie di sicurezza
affidabili, per se stessi. Ciò va di pari passo con gli intensi sforzi per mantenere buone
relazioni bilaterali con gli Stati Uniti. Questo serve da fondamento logico per giustificare
eventuali dispiegamenti militari in teatri come l'Afghanistan e l'Iraq in assenza di altri
rilevanti interessi nazionali. Il loro zelante impegno mira a costruire crediti nelle aspettative
che i partner dovrano poi contraccambiare. Una residuale, ma profondamente sentita
preoccupazione delle minacce militari convenzionali – spesso legata alla Russia – li
conduce ad agitare e a porre enfasi sulle funzioni classiche delle alleanze, piuttosto che
orientarsi verso nuove e più concrete sfide alla sicurezza.
23
Le azioni di altri paesi come Germania, Spagna ed Italia mirano anche a generare effetti
secondari, ma di tipo differente. Essi sono interessati ad essere percepiti come partner
affidabili nella NATO e nell'UE, su cui si possa fare affidamento anche quando impegni
presi dall'organizzazione, non riguardino distinti interessi nazionali, nel contesto di
particolari operazioni.
In compenso, questi paesi si aspettano di essere capaci d'influenzare le politiche di questi
consessi multinazionali e il loro impegno è un prezzo volontariamente pagato per un posto
al tavolo principale. Molti di loro continuano ad essere nel mezzo di tentativi protratti di
riforma della sicurezza e della difesa, cominciati all'indomani della fine della Guerra fredda.
Molte riforme sono state inconcludenti, poiché è spesso mancata una convincente ragione
nazionale all'integrazione, che servisse ad esempio a giustificare particolari ruoli per le
forze armate. A quale scopo servano in ultima istanza le forze armate è spesso vago sia
per gli elettori che per le élites, proprio perché è mutevole il concetto che passa dal
tradizionale strumento di difesa territoriale ad una mentalità di spedizione, senza che però
ci si leghi fermamente a nessuna delle due.
Un terzo gruppo di paesi fa delle valutazioni sulle politiche di sicurezza e difesa,
relativamente alla proiezione della potenza statale all'estero e alla protezione del proprio
territorio. Queste nazioni sono convinte dell'utilità delle forze armate nel perseguimento di
questi obiettivi onnicomprensivi. Coloro i quali sono concentrati sulla protezione sono
guidati da una percezione delle minacce che si focalizza sulla vulnerabilità del territorio
nazionale. Il senso di vulnerabilità è culturalmente radicato, come nel caso della Grecia, e
non è il prodotto di una mera analisi obiettiva e fattuale. La politica di difesa e sicurezza è
vista come la creatrice di ordine internazionale e stabilità. Si concepisce una
responsabilità d'impegno che vada oltre l'Europa, possibilmente proiettata globalmente,
per risolvere e gestire crisi, conflitti, appropriarsi delle risorse e adoperare le forze armate
per sorreggere tali ambizioni. Danimarca, Francia e Regno Unito sono molto vicine a
questa descrizione, ma pure Svezia ed i Paesi Bassi si avvicinano a questa variante di
cultura strategica. Le organizzazioni internazionali sono facilitatrici di queste ambizioni fino
a quando potranno dimostrare le loro capacità d'azione. Se le organizzazioni in questione
non dimostrassero effettivamente questa capacità, i suddetti paesi parteciperebbero
comunque alle "coalizioni dei volenterosi", come dimostrato chiaramente in Iraq e
nuovamente in Libia nel 2011. Spesso queste classificazioni possono essere imprecise,
troppo rigide e dogmatiche e la realtà strategica di ogni singola nazione può apparire
sfuggente, ambigua, evanescente.
24
Tuttavia questa categorizzazione mira a divenire un buono strumento di analisi per
semplificare la realtà ed evitare di trattare individualmente più di trenta Paesi presi in
esame.
Tabella 1: Culture strategiche europee.27
Politica di sicurezza come
manifestazione di statualità
Politica di sicurezza come negoziazione
internazionale
Protezione e proiezione del potere
statuale
Dimensione 1: livello di ambizione nelle politiche di sicurezza internazionale
Relativamente alto Medio-basso Alto
Dimensione 2: Scopo dell'azione dell'esecutivo nel decision-making .
Ampi diritti dell'Assemblea
legislativa
Ampi diritti dell'Assemblea
legislativa
Alta flessibilità per l'esecutivo in molti casi, forti legami informali tra esecutivo e legislativo
in altri
Dimensione 3: Orientamento di politica estera
Tendenza verso l'UE Funzionale: NATO per
la difesa collettiva, altrimenti UE
Forte sostegno per UE e per NATO
Dimensione 4: Volontà di impiego della forza militare
Bassa Alta per scopi di difesa,
bassa per gestioni delle crisi
Alta
Paesi
Austria, Cipro, Finlandia, Ungheria,
Irlanda, Lussemburgo, Malta,
Portogallo
Belgio, Bulgaria, Repubblica Ceca,
Estonia, Germania, Italia, Lettonia,
Lituania, Romania, Slovacchia, Slovenia,
Spagna
Danimarca, Francia, Grecia, Paesi Bassi,
Polonia, Svezia, Turchia, Regno Unito
1.4 La Germania come caso di studio e modello per una cultura strategica e di
sicurezza dell'UE
A causa della sua singolare esperienza come grande potenza militare, della sconfitta e
della vergogna morale, la Germania occidentale sviluppò una cultura della sicurezza
unica.
La Germania post-bellica continuava ad essere una nazione profondamente religiosa, ma
le élites, Adenauer in primis, rigettarono l'idea che quel paese fosse stato scelto o
benedetto da alcuna Provvidenza.
27 Tabella riadattata da: H. Biehl, B. Giegerich, A. Jonas, Strategic Cultures in Europe. Security and Defence Policies Across the Continent, Schriftenreihe des Zentrums für Militärgeschichte und Sozialwissenschaften der Bundeswehr Volume 13, Springer Vs, New York, 2013.
25
I cambiamenti politici postbellici e quelli relativi alla cultura della sicurezza, assicurarono
alla Germania una forte ricettività verso i processi integrativi. Katzenstein osservava che
mentre la Germania ad un certo punto della sua storia cercò di "germanizzare" l'Europa, il
percorso di sviluppo perseguito dopo la Seconda guerra mondiale le ha permesso di
recepire convincentemente l'"europeizzazione" della Germania28.
I leader politici tedeschi hanno esercitato il loro potere solo in contesti multilaterali mediati
istituzionalmente; in questo modo la Germania ha forgiato in Europa l'istituzionalizzazione
del potere, dove tutti i membri rinuncerebbero ad una quota di sovranità, partecipando
nella cultura equilibratrice e di moderazione. L'approccio alla proiezione di potenza e
l'interventismo militare sviluppò quella che venne chiamata "cultura della reticenza".
Il termine "never again" per i tedeschi venne ramificato in due assi: "never again" di una
guerra sul suolo tedesco, e "never again" ad un sostegno verso demagoghi non
democratici, alla Hitler. L'identità tedesca ha sviluppato concetti che presentavano la
Germania come "potenza civile", come primo stato "post-nazionale", cosmopolitico e
assertore della non-aggressione. L'ex cancelliere Gerhard Schröeder, riflettendo in modo
conciso su quest'approccio ebbe a dichiarare nel 2001 che le capacità militari e la forza
sono caratteristiche sempre meno prominenti nei programmi di sicurezza del ventunesimo
secolo e che le questioni relative alla sicurezza non possono essere lasciate agli eserciti29.
Nel 1999, durante l'intervento in Kosovo e soprattutto nella seguente missione di peace-
keeping, essa conteneva gran parte degli elementi che validavano l'approccio tedesco alla
proiezione di potenza internazionale: gli obiettivi di sicurezza collettiva si focalizzavano
sugli aspetti umanitari. Era una prova positiva al mondo che la Germania volesse prendere
parte tra le democrazie responsabili che avrebbero fermato la pulizia etnica e avrebbero
punito i perpetratori; era stata condotta internamente ad un'organizzazione internazionale
e da ultimo, si trattava dell'Europa.
La rilevanza dei tasks di Petersburg era chiaramente in evidenza. Nonostante ciò, la
partecipazione tedesca alle forze alleate appare in retrospettiva un'eccezione alla
partecipazione tedesca ad una guerra. I tedeschi impararono delle lezioni significative
dall'intervento del '99, specie sull'assenza di un mandato delle Nazioni Unite, una
rinnovata resistenza dell'opinione pubblica verso guerre combattute all'estero; resistenza
28 Peter Katzenstein, Tamed Power: Germany in Europe , Ithaca, NY, Cornell University Press, 1997.
29 Cit. in Mary N. Hampton, A thorn in Transatlantic relations. American and European Perceptions of Threat and Security, Palgrave MacMillan, Basingstoke, Uk, 2013, p. 73.
26
che successivamente emerse durante la guerra in Iraq, dove i bombardamenti furono
percepiti come abominevoli30. Nel caso dell'ISAF in Afghanistan, specie per i tedeschi,
l'area di operazioni continuava ad espandersi, deteriorando l'ambiente di sicurezza e
spingendo la stessa missione verso operazioni militari tradizionali che furono avversate dai
cittadini.
Il rifiuto tedesco a partecipare alle operazioni Nato in Libia nel 2011, rifletteva
lucentemente la suddetta "cultura della reticenza" e il credo che le guerre e i
bombardamenti non fossero mai giustificati.
In comparazione ad altre nazioni europee come il Regno Unito, l'opinione pubblica
tedesca rigetta vasti interventi militari come strumento legittimo per il coinvolgimento nelle
crisi esterne – solo il 14 % li sostiene. Per converso, il 50 % si fa fautore di misure
economiche come le sanzioni e l'83% preferisce la diplomazia. Si rileva finanche una non
indifferente tendenza verso l'isolazionismo.
La costruzione securitaria della Germania, guidata dalle èlites sin dalla fine degli anni '40,
fu accolta e interiorizzata bene dalla società, che si dimostrò fortemente recettiva in tal
senso; il diffuso pacifismo degli anni '50 ("Ohne mich", senza me) contrario alla Nato,
dimostrava una forte propensione della società tedesca alla democratizzazione e ai
processi di integrazione, politico-civili. La "cultura della reticenza" tedesca fornì i
fondamenti per l'evoluzione del modello di "security governance" e la fondazione di un
blocco di cultura strategica europea.
In questo paradigma, la comprensione tradizionale di un mondo di stati-nazione che
fronteggiano minacce mortali è rigettato. Emerge via via un modello cosmopolitico delle
relazioni internazionali dove gli stranieri sono potenziali vicini, non nemici; dove i concetti
manichei di bene e male che separano nemici da amici sono respinti e dove le guerre
devono essere soppresse ed espunte dai processi di civilizzazione.
In confronto ai più vicini alleati NATO, il budget per la difesa tedesco tende ad essere
relativamente piccolo: nel 2015, la Germania ha diretto solo l'1,2% della spesa militare, a
fronte di un 2% nel Regno Unito, 2,1% in Francia, 1,3% l'Italia in discesa, per non
menzionare il 4,7 % degli Stati Uniti nel 2011, in netta diminuzione fino al 3,3% del 201531.
Le missioni all'estero sono state finanziate con il budget della difesa esistente, che limita
considerevolmente la capacità finanziaria di partecipazione negli interventi militari.
30 Wolfgang-Uwe Friedrich, The Legacy of Kosovo: German Politics and Policies in the Balkans, German Issues 22, Washington, DC, American Institute for Contemporary German Studies, 2000, pp. 27–50.
31 SIPRI (2015): Military Expenditure Database. http://www.sipri.org/databases/milex/ %3E.
27
Il desiderio di sviluppare una politica estera e di sicurezza basata su principi morali ed
umanitari, stava insieme ad un orientamento devotamente transatlantico e faceva della
Germania un "egemone riluttante" nel bel mezzo dell'Europa32.
La Germania ha continuato a battersi per un seggio permanente al Consiglio di Sicurezza,
sin dai tempi del cancellierato di Schröder, ritenendo l'Onu il più grande consesso
internazionale dove esercitare realmente il potere sulle questioni globali.
Le frizioni atlantiche sono apparse nella gestione della crisi ucraina e quindi nei rapporti
della NATO con la Russia, nelle sanzioni che hanno fortemente danneggiato le relazioni
bilaterali con Mosca e nella grande esercitazione "Anakonda" in Polonia, quando il
ministro agli affari esteri Steinmeier non ha esitato a esprimere la sua stizza nel constatare
la divergenza di interessi tra Berlino e l'organizzazione militare di cui fa parte33.
Storicamente, le controversie degli orientamenti intra-occidentali in Germania (NATO vs
UE) rimangono tenui rispetto ai dibattiti sull'orientamento Est-Ovest dopo la Seconda
Guerra Mondiale – a titolo esemplificativo, l'"Ostpolitik" di Willy Brandt o le pubbliche e
cordiali relazioni con la Russia, durante il cancellierato di Helmut Kohl e Gerhard Schröder.
I vicini orientali della Germania hanno osservato con occhio vigile questi riavvicinamenti,
come nel caso del progetto "North Stream Pipeline". Ciononostante, il governo tedesco
non ha mai messo in questione il suo orientamento occidentale e più recentemente, le
relazioni più distanti tra Angela Merkel e Vladimir Putin sembrano aver convinto perfino i
critici più accaniti. In generale, la relazione bilaterale più importante quando si tratta di
politiche di sicurezza è ancora proprio quella con gli Usa, seguita da quella con la Francia.
Le relazioni con la Polonia sono cresciute altrettanto celermente negli ultimi anni, mentre
l'ambizione complessiva è ancora diretta verso la ricerca di un accordo sulle questioni di
sicurezza internazionale entro i contesti UE e NATO. In ogni caso appare indiscussa la
dedizione verso il multilateralismo. Sebbene alcuni commentatori vedono le decisioni nel
contesto della Libia nel 2011 o l'Iraq nel 2003, le asserzioni riguardo alla richiesta di ritiro
delle armi nucleari americane dal territorio tedesco nel 2010 e la disapprovazione di una
larga parte dell'opinione pubblica tedesca nei confronti degli Stati Uniti e del loro
unilateralismo, come un'altra forma di unilateralismo tedesco, l'orientamento di politica
estera e securitaria tedesca resta profondamente multilaterale – anche se talvolta si tratti
di multilateralismo "strategico"34 o multilateralismo "selettivo".
32 William E.Paterson : The Reluctant Hegemon? In: Journal of Common Market Studies, 49: 1, 2011, pp. 57–75.
33 http://www.lookoutnews.it/nato-europa-russia-germania/. 34 Hans Kundnani: Germany as a Geo-economic Power. In: Washington Quarterly, 34: 3, 2011,
pp. 31–45.
28
L'articolazione di interessi nazionali entro il contesto delle Nazioni Unite, è un modello
comune a quello adottato da Francia e Regno Unito.
In Germania quantunque il termine di "interesse nazionale" permane, il concetto è
radicalmente controverso poiché implicherebbe che gli interessi tedeschi potrebbero
deviare rispetto agli interessi europei o addirittura globali, contraddicendo la stessa visione
del multilateralismo. Uno dei termini chiave nella sicurezza tedesca è la nozione di
“networked security” (“Vernetzte Sicherheit”) tra i vari attori del governo federale tedesco.
Quando si valutano poi le altre istituzioni di polizia e di sicurezza, il report – il cosiddetto
“Werthebach Report”- , la fondazione di un "joint center" per combattere il terrorismo
(Gemeinsames Terrorabwehrzentrum – GTAZ), e la creazione di un centro nazionale per
la cyber security (Nationales Cyber-Abwehrzentrum – NCAZ), sono segni profondi di una
svolta nell'architettura di sicurezza tedesca.
Il decision-making intra-organizzativo è stato parzialmente migliorato, come mostrato dalla
creazione del Joint Operations Staff nel 2008, che ha creato un comando centralizzato ed
una struttura di controllo per le missioni militari all'estero; pur tuttavia, le strutture
interorganizzative rimangono in larga parte trascurate35.
In aggiunta, c'è un'ovvia divergenza tra il livello strategico e politico da una parte e il livello
tattico ed operativo dall'altra; le forze armate tedesche non hanno una grande resilienza
alle continue sfide militari che pongono le campagne, come quella in Afghanistan, a causa
di una mentalità strategica che vede l'uso della forza in termini di difesa territoriale e di
deterrenza ad un livello politico-strategico. Queste strutture organizzative delle forze
armate sono state approntate in base ai dettami della Guerra fredda e teorie dei tempi di
pace: modificarle potrebbe essere un lento e travagliato processo36. Le politiche della
sicurezza tedesche sono pure connottate da una consistente ambivalenza verso l'utilizzo
della forza militare. Sia la società civile che larga parte delle èlites politiche guardano allo
strumento militare soltanto in "ultima ratio"; il mero supporto per azioni civili rimane
indiscusso. Questa ambivalenza può essere riconosciuta altrettanto nella Bundeswehr, le
cui regole d'ingaggio tendono ad essere formulate restrittivamente per consentire una
cooperazione armoniosa con gli alleati. Questa visione, strettamente connessa a quella di
potenza civile", rimangono pietre angolari della cultura strategica tedesca.
Questa forma mentis è strettamente correlata alla sensibilità, che è prevalsa sin dalla
fondazione della Bundeswehr, dalla quale sono originati tutti gli sforzi tedeschi per evitare
35Timo Noetzel: Germany’s Small War in Afghanistan: Military Learning amid Politico-strategic Inertia. In: Contemporary Security Policy, 31: 3, 2011, pp. 486–508.
36Benjamin Schreer: Political Constraints: Germany and Counterinsurgency. In: Security Challenges, 6: 1, 2010, pp. 97–108.
29
qualsiasi sospetto circa il ritorno alla classica politica di grande potenza, facendo
affidamento sul proprio potere geo-economico nel cuore dell'Europa.
30
2. Difesa e sicurezza tra sovranismi e integrazione
Nell'attuale fase di transizione europea sta emergendo una politica post-nazionale di
difesa e sicurezza e ciò rappresenta uno spostamento di paradigma.
La politica di sicurezza evidentemente non concerne in maniera esclusiva questioni militari
e può pertanto essere utilmente definita come la politica rivolta a qualsivoglia situazione
che ponga una minaccia; ma la minaccia non deve essere esistenziale. Come aveva
puntualizzato uno studioso37 qualche anno addietro, si vive adesso in società di rischio
piuttosto che in società minacciate e di conseguenza le politiche di sicurezza riguardano la
gestione dei rischi piuttosto che la difesa. La sicurezza, ancora, può riferirsi alla
promozione degli interessi statali – quelli propri della politica estera. Le connotazioni che si
hanno generalmente intorno al concetto di difesa vincola la comprensione della nuova
situazione dove lo strumento militare è adoperato attivamente, ma in maniera limitata, per
fini politici. Possiamo discernere il paradigma napoleonico, che è durato fino in tempi
recentissimi in Europa; quest'ultimo era caratterizzato dalla coscrizione obbligatoria, difesa
del territorio nazionale, lealtà alla nazione e una "raison d’être" fondata sulla
sopravvivenza esistenziale dello Stato e della nazione. Questa tipologia di politica di
sicurezza mirava alla sopravvivenza e/o alla prevaricazione e proiezione esterna della
nazione: lo Stato poteva così chiedere lealtà fino alla morte dai suoi cittadini-soldato
poiché le minacce erano spesso esistenziali. Come scrisse qualche tempo fa il generale
Rupert Smith38: "War as battle in the field between men and machinery, war as a massive
deciding event in a dispute in international affairs, such a war no longer exists". Si tratta di
"guerre contro il popolo", spesso combattute contro attori non statali, contro ribelli, e non
mirano alla vittoria nel senso classico del termine, ma a mantenere un territorio o una pace
nel senso che sia possibile per gli attori politici continuare ad agire e governare. In questa
era di "neo-medievalismo", lo stato-nazione non ha più il monopolio dell'uso della forza –
anche se è ancora di gran lunga il più importante attore - e non è più il solo attore nel
campo della sicurezza, ove spesso i soldati sono reclutati sul mercato privato; per queste
ragioni la forza militare non può più trovare legittimità nel solo riduttivo concetto di nazione,
37 M. Vedby-Rasmussen. The risk society at war. Terror, technology, and strategy in the 21st Century. Cambridge: Cambridge University Press, 2006.
38 R. Smith. The utility of force: The art of war in the modern world. London: Allen Lane, 2005.
31
ma deve essere legato in qualche modo all'etica ed al diritto internazionale e alle sue
norme internazionalmente riconosciute, non certo agli interessi dello stato westfaliano.
Tra l'altro, le minacce diffuse affliggono sia la dimensione interna che esterna dello Stato,
riducendo al minimo la rilevanza del concetto di monopolio della forza39, spingendo a
deterritorializzare e denazionalizzare le politiche di sicurezza. La linea di ragionamento
che si vorrebbe seguire è che sia sempre meno rilevante la nozione di nazione per
l'organizzazione, la definizione e l'uso attuale della forza militare. Proteggere i propri
confini e i propri connazionali naturalmente rimane un compito chiave per qualsiasi stato
europeo, ma "gli stranieri" diventano alquanto rilevanti per il dispiegamento della forza. In
Bosnia, Kosovo e Repubblica democratica del Congo vi sono stati interventi per "salvare
vite" di altri cittadini, di altri Paesi.
Salvare e proteggere i propri connazionali è più probabile che sia un obiettivo delle
campagne antiterroristiche e di gestione della crisi, dopo un attacco terroristico.
Organizzazioni come la NATO, ma anche la stessa ONU, sono state spesso ostacolate nei
loro adattamenti da interessi politici nazionali e sovranismi diffusi di ogni sorta, tanto da
arrivare al paradosso che più grande è un'organizzazione più vantaggi avrà politicamente
ed in termini di legittimità, ma meno ne avrà militarmente. La relazione tra integrazione
politica e integrazione militare è spesso disfunzionale, seguendo ogni sfera una propria
logica. L'esperienza dell'ISAF in Afghanistan evidenzia che più caldo diventa il teatro degli
scontri, più i cosiddetti caveat nazionali vengono alla luce. Sembra chiaro che nessuno
Stato vorrà perdere il controllo nazionale sul proprio contributo militare, specialmente nel
campo delle decisioni e laddove i rischi aumentano. È inoltre vitale per uno Stato
"mostrare la bandiera", che sembra l'antitesi dell'integrazione politica. Chiaramente non c'è
nessun processo politico voluto fino in fondo verso le strutture militari sovranazionali, né
nella NATO, né nell'UE, né nelle Nazioni Unite. Proprio i britannici, tra i principali assertori
del mantenimento della sovranità nazionale, pensano che ci debba essere un controllo
nazionale quando le vite dei propri connazionali sono a rischio, per una questione
quantomeno di accountability democratica. Ancora, ci sono vari fattori chiave strutturali
verso l'internazionalizzazione e verso l'integrazione: ciò include budget stagnanti o in forte
riduzione nella maggioranza degli stati, la necessità di condividere i costi e le capabilities,
e "condividere" i rischi in operazioni su larga scala e di lungo termine, specie in guerre non
esistenziali, e da ultimo, l'incremento dell'efficacia e dell'efficienza delle organizzazioni
internazionali tramite il loro rafforzamento. Tutti questi fattori chiave premono verso la
39 D. Kennedy. Of law and war. Princeton, NJ: Princeton University Press, 2006.
32
condivisione delle forze armate, perfino verso l'integrazione, ma i meccanismi politici e
decisionali rimangono largamente intergovernativi, almeno formalmente.
2.1 Legittimità multilaterale
Si è già visto come la legittimità all'uso della forza nel mondo occidentale sia divenuta di
preminente importanza dopo la guerra fredda. La politica di sicurezza e difesa post-
nazionale è stata basata su un fondamento abbastanza differente rispetto alla guerra tra
Stati. L'uso della forza militare è aumentato considerevolmente dopo la guerra fredda,
precisamente perché ciò non implica una guerra totale o una totale distruzione. I mandati
emessi dal Consiglio di sicurezza sono stati allargati nel senso che non solo le tragedie
umanitarie ed i disastri possono essere qualificati come "minaccia alla pace e alla
sicurezza internazionale", ma anche i "regime change", nella forma della
democratizzazione, hanno ricevuto tale qualifica. La legittimazione, particolarmente quella
delle Nazioni Unite, è necessaria ma di per sé non è una condizione sufficiente per l'uso
della forza tra gli Stati occidentali40.
La pratica dell'intervento non ha condotto verso nessuna nuova regola nel diritto
internazionale, sull'uso della forza – né per interventi umanitari, né per attacchi preventivi
contro altre nazioni sovrane per colpire i terroristi. Piuttosto, la situazione appare poco
chiara riguardo alle regole sull'uso della forza; con l'avvento del terrorismo globale la
strategia del "regime change" è prima di tutto collegata ad esigenze ed interessi di
sicurezza e le violazioni di norme, internazionali e non, sono aumentate notevolmente:
pochi sono stati gli interventi militari degli ultimi anni che avevano davvero a cuore l'aiuto
umanitario ed i diritti umani. Quando il terrorismo è presentato come una questione
militare, molti stati europei rifiutano di accettarlo come tale. La ragione per "rischiare" le
vite di propri cittadini deve riguardare minacce serie e gravi allo Stato, ma se i governi non
vedono la battaglia al terrore in questi termini, questa ragione per l'uso della forza
scompare. Inoltre, politicamente la prima divisione riguardante l'ISAF è stata la carenza di
una comune percezione della minaccia lungo lo spazio euro-atlantico. Alla conferenza
sulla sicurezza di Monaco del 2008, sia il segretario alla difesa americano che il segretario
generale della NATO, equipararono la minaccia del terrorismo alla minaccia presente
durante il periodo della Guerra fredda, ma pochi governi europei concordavano su quei
termini pubblicamente.
40 J. Welsch, Humanitarian intervention and international relations. Oxford: Oxford University Press.2004, pp. 163–75.
33
Soltanto la Gran Bretagna ha avallato apertamente il link tra stati falliti e terrorismo, ma
essa nondimeno conta ancora sul possesso del mandato ONU nella maggior parte delle
questioni militari. Nel caso dell'Iraq, nonostante gli inglesi fossero strenui sostenitori della
politica interventista di Bush, è degno di nota il fatto che Londra insisteva sulla necessità di
un esplicito mandato delle Nazioni Unite (ma fallì nell'ottenerlo). Così la questione della
legittimità in qualche forma di sostegno multilaterale è la chiave per tutti gli Stati europei.
Anche le operazioni in Libia furono autorizzate dalle risoluzioni 1970 e 1973 del CDS, ma
l'azione europea non si caratterizzò secondo il modello politico-diplomatico onusiano
(mediazione imparziale tra le parti in controversia fino alla cessazione della violenza e
all'inizio dei negoziati), ma si è indirizzata verso un attivo sostegno politico, economico e
militare a favore di una delle due parti, anche quando ciò comportasse l'uso della forza e il
rifiuto di soluzioni negoziali41. L'attivismo europeo ha cercato legittimazione in almeno due
principi fondamentali: il primo, l'universalità dei valori fondamentali proclamati nei Trattati
istitutivi (diritti inviolabili e inalienabili della persona, libertà, democrazia, uguaglianza, stato
di diritto) e l'esigenza assoluta e inderogabile di diffusione degli stessi - che spesso non
coincide con la sicurezza internazionale - a partire dalle macroaree confinanti; il secondo,
costituito dal concetto politico di sicurezza umana (e complementare dottrina della
responsibility to protect) che eleva ad oggetto della cooperazione interstatale in tema di
sicurezza non più lo Stato, ma l'individuo nelle sue molteplici accezioni, secondo una
logica economica neoliberista e individualistico-democratica a livello politico. Sebbene
nella forma sia cambiata, la trama conserva una sostanza imperitura della storia europea,
ovvero l'autopercezione di culla depositaria di valori universali, da diffondere nel mondo.
La questione chiave adesso non è che lo strumento militare debba essere dispiegato dallo
Stato, ma piuttosto che sia dispiegato con una legittimità, anche ma non esclusivamente
normativa. La visione degli Stati Uniti è che il mandato sia importante ma non vitale,
laddove gli europei sostengono che il mandato sia la chiave per legittimare l'uso della
forza.
In stati come la Germania o i paesi nordici, un mandato Onu è visto quasi come una
necessità indispensabile; ciò implica che la legittimità politica in Europa – ma non solo
quella, pensiamo alla legittimità data dall'opinione pubblica - è legata al mandato ONU -
41 P. Bargiacchi, L'Unione Europea dinanzi alla crisi libica del 2011: azione umanitaria e neutrale o, piuttosto, democratica e interventistica?, in G. Finizio e U. Morelli (a cura di), L'Unione Europea nelle relazioni internazionali, Carocci, Roma, 2015.
34
vista ancora come un'organizzazione importante - o comunque da un'organizzazione
internazionale come la NATO, ma certamente non da costruite coalizioni di "volenterosi"42.
La legittimità è divenuta proporzionalmente più importante, nell'era post-guerra fredda,
poiché il Consiglio di Sicurezza stesso è diventato l'arena che conferisce legittimità ora
che le guerre interstatali sono diventate significativamente meno numerose. L'avvento del
diritto (ma non dovere) di intervento umanitario negli anni '90, ha messo in risalto la
sicurezza umana rispetto a quella classica statale. Questo sviluppo sta continuando con
l'emergere di "missioni integrate" nel contesto delle Nazioni Unite e risulta evidente, nelle
gestioni delle crisi da parte dell'UE, che l'uso di strumenti militari massicci è escluso in
questi contesti.
Negli anni '90 gli Stati occidentali intervennero in Somalia, Bosnia e Kosovo ed inviarono
missioni militari in Macedonia e in una serie di stati africani. Tuttavia, la carenza di precisi
e mirati interessi di sicurezza resero questi interventi speciali. Sembrava che i paesi
occidentali volessero usare la forza per contrastare "gross violations" di diritti umani e
fermare i genocidi, ma nei casi più eclatanti, del Ruanda e del Darfur in Sudan, l'Occidente
si astenne dall'intervenire, mostrando che non sempre i suddetti requisiti, ovvero le estese,
gravi e ripetute violazioni dei diritti umani o peggio ancora i genocidi, fossero sufficienti per
predisporre un pronto intervento. Inoltre l'intervento aereo sulla Bosnia, arrivò dopo i
massacri di Sreberenica da parte dei serbi, o di quelli perpetrati dai croati. Nel caso del
Kosovo, Srebrenica fu la lezione che spinse i governi a prevenire il ripetersi.
Essere un attore chiave nella sicurezza, in questa era implica così due cose: la prima è la
"giusta autorità", ovvero legittima, per potere usare la forza militare – basata su norme
internazionali; la seconda è l'abilità militare, che sia però strettamente collegata ad una
serie di altri strumenti, da quelli politici, diplomatici ed economici.
Se non si tratta più di stati e della loro sopravvivenza, si tratta allora di esseri umani e della
loro sopravvivenza. Gli abusi e le violazioni dei diritti umani calzano perfettamente con la
gamma post-moderna di diritti e valori dell'Unione ed il suo ruolo tradizionale di
organizzazione di "soft power".
42 J. Matlary, Values and weapons: From humanitarian intervention to regime change? Basingstoke: Palgrave-Macmillan, 2006.
35
2.2 Dinamiche della sicurezza europea: i nuovi interessi nazionali
Al giorno d'oggi gli analisti situano l'Unione Europea fermamente nel contesto della teoria
e della politica internazionale. Ma con riguardo alla politica di sicurezza e difesa, sembra
esservi una tendenza che porta o alla sottovalutazione o alla sovrastima del ruolo dell'UE.
È chiaro che solo pochi stati nell'UE sono capaci militarmente ed hanno interesse in
questo campo e che molti rimarranno fuori da questa cooperazione; nel caso di lancio di
un'operazione, le forze d'intervento iniziali e gli elementi civili spesso sono dispiegati solo
dagli attori con rilevante capacità. Non c'è alternativa ad un qualche tipo di "cooperazione
rafforzata" o "coalizioni di volenterosi e capaci" all'interno dell'Unione, specie dopo i
turbolenti eventi recenti, legati al Brexit. La NATO così come l'UE soffrono di un "deficit
politico": né l'una né l'altra delle due organizzazioni può considerarsi preferita quale
organizzazione di sicurezza per l'Europa. La Francia e qualche altro stato preferiscono
l'UE, mentre la Gran Bretagna era tra i fautori della politica "NATO first", assicurandosi che
l'integrazione europea non andasse troppo oltre nell'assumere un ruolo autonomo. Predire
il futuro della politica di sicurezza dell'UE, richiede previsioni allo stesso modo sul ruolo
della NATO in Europa.
La forza trainante dell'integrazione militare europea sta divenendo un fattore visibile.
L'EDA (European Defense Agency) potrebbe giocare un ruolo chiave poiché anche grazie
alla riduzione delle risorse, gli stati sono costretti a rendersi conto che hanno un reale
bisogno di una qualche tipologia di direzione top-down per la ricerca militare,
l'approvvigionamento, l'addestramento e la manutenzione. Si intravedono diversi schemi di
cooperazione bi/multilaterale, ma pochi sono propriamente sovranazionali. La necessità
per una direzione razionale e funzionale del processo di integrazione militare sta
diventando più evidente sia nel contesto europeo che in quello NATO. Le necessità
economiche per un'integrazione razionale diventeranno il traino per una politica di
sicurezza europea comune, semplicemente perché l'UE è un sistema politico maturo
nonostante le difficoltà e le ambiguità, che padroneggia una serie di elementi civili che
sono e saranno centrali nel supporto delle operazioni di pace. Nella NATO, le differenze
transatlantiche sono piuttosto grandi e non pare che possano scomparire rapidamente,
anzi l'opposto. L'Unione Europea arranca a divenire un attore strategico, questo
nonostante il fatto che i governi avranno incentivi a integrarsi nella logica del gioco a due
livelli – "l'Europa ce lo chiede" – per contenere l'opinione pubblica eccessivamente
attivista. Ancora permane un ostacolo affinché l'UE diventi un attore strategico - che
significa propriamente un attore unitario capace di diplomazia coercitiva – ovvero la
36
capacità di saper utilizzare la forza militare come strumento politico; in Europa non vi è
corrispondenza di intenti, di ragioni, nelle più sensibili aree di politica estera, tra cui la
sicurezza. Lungi dal dare alcun giudizio di valore sul tema, si riscontra in tutta evidenza
che l'Unione, quale complesso unitario nel suo insieme, non ha quasi nessuna "etica-
guerriera", che di solito alimenta e forgia il nascere di una cultura strategica.
Tuttora esiste solamente nelle maggiori tradizioni militari, in Francia e nel Regno Unito.
Stati piccoli e deboli necessitano delle organizzazioni multilaterali, molto di più delle grandi
potenze: questo è quasi un assioma. Essi non sono militarmente capaci di fare alcunché
da soli, specie se i budget per la difesa decrescono. L'integrazione militare, o quantomeno
la cooperazione militare è l'unica via. Francia e Gran Bretagna non sono tuttavia in questa
categoria. I bisogni d'integrazione così, non possono spiegare i cambiamenti nelle loro
politiche sulla sicurezza, come lo si può fare per i piccoli Stati. In aggiunta al "great game",
gli Stati giocano uno "small game" nei contesti multilaterali in base ai bisogni della loro
politica interna e la capacità d'influenza interna. Spesso le organizzazioni internazionali in
questione fungono da capro espiatorio se qualcosa andasse storto, argomentando in tal
caso di essere legati, di dover essere più accomodanti a livello internazionale, potendosi
nascondere ogni qualvolta vi sia la possibilità, dietro il processo decisionale multilaterale,
quando e nel caso essi fossero criticati da altri stati o avversari politici.
Poiché le èlites di governo solitamente godono di privilegi in entrambi i livelli – perché
pochi giornalisti, osservatori o liberi cittadini hanno accesso ai lavori interni delle
organizzazioni internazionali – esse possono massimizzare il potere modificando gli ordini
del giorno nelle sfide domestiche, fuggendo dalle critiche e dall' "accountability" sia
internamente che nelle organizzazioni internazionali.
Qua si argomenta che tutti gli Stati – incluse le grandi potenze – hanno nuovi interessi di
sicurezza dopo la guerra fredda. Ciò include principalmente in un'impostazione
multilaterale, il bisogno di acquisire legittimità per l'uso della forza, il bisogno condividere i
rischi e le colpe ed il bisogno di compartire i costi. Questi "nuovi" interessi relativi alla
sicurezza non sono egualmente distribuiti tra gli Stati, evidentemente. Per la Francia,
l'opinione pubblica domestica gioca un ruolo minimo riguardo al dispiegamento di truppe,
e il presidente ancora gode del privilegio della politica estera tradizionale. Nel caso della
Gran Bretagna, con la partecipazione nella guerra in Iraq, l'opinione pubblica è divenuta
più ferrata sui problemi di sicurezza e si è sviluppata una più ampia opposizione alla
guerra, rendendo le politiche di difesa e sicurezza sempre più politicizzate, a partire dal
dibattito sul mandato delle truppe in Afghanistan.
37
Nel caso tedesco, come visto precedentemente, c'è anche un interesse nazionale
nell'agire da "grande potenza", ma solo in funzione dell'UE e della NATO. Per dispiegare
truppe all'estero, le élites tedesche hanno bisogno, di gran lunga, di maggiore sostegno
internazionale per assicurarsi la necessaria legittimità e gli elementi pacifisti interni
possono essere acquietati solo nel caso in cui la Germania debba onorare impegni
internazionali.
L'opinione pubblica francese e britannica (anche precedentemente al Brexit) è molto più
scettica nei confronti dell'UE, rispetto alla tedesca. Questo opera in direzione di un minor
supporto a ciò che in generale i governi fanno a Bruxelles. Ma il governo tedesco è
pesantemente circoscritto nelle politiche di sicurezza a prescindere dalla propria
legittimazione pubblica, laddove i governi di Londra e Parigi dispongono di uno status
indipendente, rispetto a Berlino. La strategia politica francese è stata basata sulla visione
europea di De Gaulle, che non includeva la Gran Bretagna tradizionalmente; egli
declamava un'Europa unita che poteva rivestire una parte chiave nel mondo, e nella quale
la Francia avrebbe giocato un ruolo costituivo. La Francia poteva essere la Francia solo
nel ruolo di grande potenza: la Francia non può essere se stessa senza la sua grandezza.
Perfino Chirac continuava su questa base, provando a creare un'Europa dove gli stati
avrebbero svolto un ruolo primario: una "federazione di stati-nazione".
Nel Regno Unito, la linea storica è stata atlantica, marittima, pluricontinentale, piuttosto
che europea. Churchill definiva la sua isola: "With Europe, but not of Europe", e la
Thatcher attaccava l'Europa perchè le creava solo problemi in patria: "nella mia vita tutti i
nostri problemi sono venuti dall'Europa continentale e tutte le soluzioni sono venute dalle
nazioni anglofone in tutto il globo"43.
2.3 2.3 Il "Two Level Game": Francia, Regno Unito, Italia e Germania
E' vantaggioso essere vincolato dai consessi internazionali se a livello domestico il
disaccordo è forte o politicamente volatile. Gli Stati che non possono compiere i
cambiamenti desiderati, solitamente usano gli obblighi internazionali, vincolandosi a fare in
quel modo.
43 K.M. Haugevik. Britain and the ESDP. 1998–2004. MA thesis. Department of Political Science, University of Oslo, 2005.
38
Gli stati forti – nel nostro caso nel campo della sicurezza e della difesa - possono
influenzare le negoziazioni ed usare le organizzazioni internazionali come moltiplicatore
per i propri interessi. Dall'altra parte lo stato debole può far uso della sua debolezza per
argomentare che una volta raggiunto l'accordo, ci si deve adattare, poiché solo gli stati forti
possono agire liberamente44. Durante la Guerra Fredda il governo italiano era abbastanza
felice di cedere la propria sovranità alle organizzazioni internazionali, se ciò avesse
significato la rimozione della "difesa" dal dibattito pubblico; stesso discorso valeva per la
Germania occidentale45.
I nuovi interessi nazionali sono ampiamente differenti dagli interessi geopolitici statici della
politica di sicurezza realista tradizionale. Essi sono al contrario, modificabili e opzionali,
ma non più opzionali del fatto che un governo che desidererà influenzare la decisione
nella NATO e/o nell'UE deve essere capace di contribuire con rilevanti capacità militari ed
assumersi dei rischi.
Gli Stati con un ruolo debole nella politica di sicurezza (senza prerogative di politica
estera) adotteranno forti posizioni politiche in seno all'UE: Germania e Italia, entrambi
strenui sostenitori della politica estera comune dell'Unione e di una politica di sicurezza e
difesa europea. La Francia e la Gran Bretagna invece sono gli unici due stati che
ritengono una prerogativa la gestione della propria politica estera, il che significa che il
presidente francese e il primo ministro britannico decideranno, in ultima istanza, sul
dispiegamento di truppe.
Il controllo parlamentare risulta debole. Ecco che in questi due casi il modello
intergovernativo soddisfa di gran lunga i paesi più sovranisti.
I "battlegroup" dell'UE illustrano la discrepanza tra l'impegno nell'integrazione militare e la
natura intergovernativa del decision-making politico, poiché uno stato che partecipa in un
battlegroup non può chiamarsi fuori (opt out) da una decisione di schieramento; se lo
facesse dovrà lasciare il battlegroup, che sarà ricostruito (probabilmente non schierato
come già pianificato), e si potrebbe anche assumere, che lo stato in questione non sarà
più invitato a partecipare in nessun battlegroup. Se aggiungessimo una forte dimensione
domestica a ciò, diverrebbe chiaro che i governi possono ritrovarsi politicamente impotenti,
schiacciati tra un'opinione pubblica negativa ed impegni militari concreti nelle
organizzazioni internazionali.
44 R. Putnam. The logic of two-level games. International Organisation, 1988, 42(3), 427: 60. 45 M.Koenig-Archibugi. International governance as a new raison d’etat? The Case of the EU
CFSP. European Journal of International Relations, 10(2), 2004 .
39
Prenderemo adesso in considerazione i quattro maggiori Paesi europei nel "two-level
game": due con esecutivo debole, due con esecutivo forte. Con un breve sguardo sul caso
italiano, si nota che il parlamento detiene un controllo più rigido sulla politica di difesa,
rispetto ai casi, francese e britannico. Esso deve approvare il dispiegamento delle truppe,
prima del loro invio all'estero; esso deve approvare inoltre il mandato della missione, il
budget, la durata, e detiene pure il diritto di fare visite di ispezioni sul campo. Per ciò che
riguarda la politica estera e di sicurezza comune, il parlamento italiano ha una
commissione affari esteri, che è informata solo su discrezione del governo. Nell'area di
sicurezza e di difesa i parlamenti francese e britannico sono molto deboli e l'italiano più
forte, mentre l'esito opposto si ottiene nel caso delle politiche dell'Unione. Il governo
italiano ha spesso sfruttato i suoi impegni internazionali per legittimare internamente le
attività in materia di difesa, mentre ha giustificato i suoi minimi impegni, verso i corpi
internazionali, in virtù proprio della sua debolezza interna. È abbondantemente evidente
che i poteri formali non esauriscono la comprensione del vero decision-making. Gli affari di
sicurezza e di difesa sono complessi, spesso coperti dal segreto, distanti dagli interessi
generali della popolazione e non apportano grandi quantità di voti. È concepibile perciò
desumere che tali questioni sono anche di poco interesse per i parlamentari stessi che non
otterrebbero un ritorno in termini di voto o di pubblicità nel prenderne parte con interesse.
Lo stesso "gioco a due livelli" è giocato non solo dai governi ma persino dai parlamenti;
questi si impegnano solitamente in programmi e tematiche con un forte riscontro e una
vasta sensibilità nell'opinione pubblica e così, spesso, gli affari esteri generalmente non
rientrano in questa categoria.
L'opinione pubblica italiana è generalmente favorevole alle operazioni internazionali
purché esse siano multinazionali ed abbiano scopi umanitari, ma rispetto all'opinione
pubblica degli altri paesi europei spesso vi è una minore tolleranza sulle perdite di vite
umane, siano proprie o nemiche. L'uso della forza dovrà così essere legale, umanitario e
non dovrà causare perdite; il pubblico post-moderno non accetta più l'utilizzo dello
strumento militare e ciò presenta di fronte ai governi grossi ostacoli, promuovendo l'azione
a due livelli. Il governo italiano spesso debole per gestire le opposizioni interne, deve
"importare" decisioni dalle organizzazioni per fare in modo di partecipare ad esse.
Nel caso italiano il "multilateralismo esecutivo" ha avuto successo senza troppo conflitto,
nonostante l'opinione pubblica continui ad essere fortemente pacifista nella maggior parte
dei casi. Ci si chiede come l'esecutivo sia riuscito a bilanciare le due posizioni inconciliabili
per così tanto tempo, ma ancora una volta la sopravvivenza politica interna ha surclassato
una seria politica di sicurezza.
40
Nel caso tedesco vediamo una matura e ben organizzata democrazia, dove il controllo
democratico del dispiegamento militare è davvero pregnante. In Germania c'è una forte
enfasi sul controllo democratico dello strumento militare ed un forte e generale scetticismo
verso di esso. C'è anche più pacifismo nelle attitudini dell'opinione pubblica nei land della
ex Germania orientale, correlate ad un orientamento politico di sinistra. Con l'unificazione
nel 1990, si potrebbe assumere che in generale la cultura politica pacifista della Germania
è stata rafforzata. I parlamentari hanno il diritto ad approvare preventivamente l'invio di
truppe all'estero e il mandato della missione. Il parlamento tedesco (insieme a quello
danese e olandese) ha perfino diritto a un'approvazione preventiva delle regole d'ingaggio,
del comando e del controllo, nonché a una valutazione dei rischi e l‘eventuale
sospensione di una missione. 46
Per la Legge Fondamentale tedesca la Bundeswehr (Difesa Federale) può essere
impiegata solo per autodifesa (art 87a) o, in via eccezionale, per attività di sostegno alle
autorità civili in caso di catastrofi naturali o disastri (art. 35 co. 3) e per i doveri legati alla
partecipazione a sistemi di sicurezza collettivi (art. 24 co. 2). A queste previsioni si
aggiungono quelle della Corte Costituzionale47 che stabiliscono la necessità costituzionale
di un’autorizzazione da parte del Bundenstag, prima Camera del Parlamento. Come negli
altri paesi è prevista una procedura d’urgenza o emergenza e, in caso di minaccia
imminente, il Governo può decidere di schierare le truppe all'estero ed ottenere
l’approvazione del parlamento a posteriori48.
Il caso tedesco è speciale nel senso che poggia su una cultura politica post-bellica
realmente antimilitarista, ma è d'interesse generale che il controllo parlamentare sulla
difesa sia davvero ben sviluppato anche se, occorre rilevare, che oggi si può parlare di un
„controllo parlamentare indebolito“, con il caso particolare della „guerra lampo“, in cui il
Governo può agire da solo nell’organizzare e portare avanti un dispiegamento di forze
all’estero quando il dispiegamento ha termine prima del voto parlamentare49.
La politica di sicurezza e difesa è, in linea generale, altamente impopolare presso
l'opinione pubblica e la società civile e pertanto la classe politica farà sempre in modo di
evitare tali questioni.
46 W. Wagner. The democratic legitimacy of ESDP. ISS Occasional Paper no. 57, 2005 Paris: EU Institute of Security Studies. Cfr. anche con W. Wagner. The democratic control of military power Europe. Journal of European Public Policy, 13(2), 2006, pp. 200–216.
47 Giudizio della Corte Costituzionale BVerfGE 90, 286 del 12/7/1994 e BVerfGE 121, 135 del 7 maggio 2008.
48 Paragrafo 5 dello “Statuto sulla partecipazione del Parlamento” 49 Giudizio della Corte Costituzionale tedesca sulla operazione di salvataggio “Pegasus” in Libia
del 23 settembre 2015.
41
Questo è un dato di fatto ed un fenomeno pervasivo, crescente nella politica europea.
Nel 2008 gli Stati Uniti avevano garantito in Afghanistan 3.200 soldati in più, provenienti
dall'Iraq per un'emergenza di ulteriori sette mesi nel sud del Paese dove le forze canadesi,
britanniche, danesi ed olandesi avevano già sofferto numerose perdite ed erano pronte ad
essere sollevate. Il contributo di truppe era già non uniforme nella distribuzione: la
Germania con la sua popolazione di 80 milioni di abitanti contribuiva con soli 3200 soldati,
dispiegati nel relativamente pacifico nord e con regole d'ingaggio vincolate; non potevano
impegnarsi in combattimenti o in qualsiasi altra attività ad alto rischio. Questi doppi
"caveat" erano tra i più vincolanti dei paesi NATO; il governo era obbligato a concordare
ogni dettaglio sul mandato con il Parlamento e l'opinione pubblica rimaneva estremamente
ostile (a prescindere) a qualsiasi tentativo di utilizzo della forza militare. Il caso tedesco è
all'estremo dei sistemi della politica di sicurezza e difesa, dominati dalla politica interna; la
Francia è all'altro estremo.
In Germania vi è un dominio totale dei fattori interni, inquadrati nella combinazione di forti
poteri parlamentari e opinione pubblica ostile. L’osservazione che i fattori interni
surclassino completamente la pressione internazionale va di pari passo con quella che,
mentre un governo debole gioca su due livelli, utilizzando la sponda internazionale per
legittimare la sua attività di difesa, il governo forte non ha bisogno di farlo.
Quali esempi di governi forti e Paesi storicamente sovranisti, vedremo il funzionamento dei
sistemi politico-legali di Francia e Gran Bretagna, in tema di sicurezza e difesa50.
In quest'area il parlamento britannico detiene pochi poteri formali; esso non approva l'invio
delle truppe, il mandato della missione, le regole d'ingaggio, la durata delle missioni ed il
budget, prima del lancio delle operazioni. Nel confronto con gli altri paesi europei il
controllo parlamentare britannico è il più debole d'Europa. La Francia segue subito dopo,
anche se il Parlamento francese deve approvare il budget prima del dispiegamento della
missione.
Il governo britannico era debole nell'area delle politiche generali dell'UE poiché
l'opposizione domestica ed i media sono sempre stati storicamente duri oppositori
dell'integrazione europea, cosa che dovrebbe farci sorprendere di meno, dell'uscita di
Londra dall'Unione; ma il campo della difesa e della sicurezza è uno dei capisaldi che
rende il governo britannico uno dei più forti in Europa.
Il dispiegamento all'estero è, dopo tutto, la normalità nel caso britannico – dove parte delle
truppe sono sempre all'estero, e lo scopo globale è uno scopo normale.
50G. Bono, National parliaments and EU external military operations: Is there any parliamentary control? European Security, 14(2), 2005,pp. 203–229.
42
Così, ciò che è considerata un'aberrazione nella maggior parte dei paesi europei è
semplicemente la norma nel Regno Unito. Questo spiega perché non esista pubblico
dibattito su certe operazioni e perché il parlamento accetti le prerogative di politica estera
del governo. Solo nel caso dell'Iraq vi fu una pronunciata e pubblica insoddisfazione dei
fallimenti militari della guerra. L'opinione pubblica britannica è generalmente favorevole
all'uso del proprio esercito e fiera dei suoi conseguimenti; esiste nel paese una cultura
militare che rispetta e supporta il lavoro del soldato. La sola ragione perché il governo
britannico ha giocato e gioca su due livelli è stata per fronteggiare il problema
dell'euroscetticismo, ma ciò non ne ha compromesso la solidità e la presa sulla politica di
sicurezza e difesa.
Il potere esecutivo francese è il più forte tra quelli degli stati analizzati in questa sede; non
vi è il bisogno di un'approvazione parlamentare su alcuno degli aspetti riguardanti l'invio
all'estero delle proprie truppe. La Costituzione francese del 1958 concede interamente
nelle mani del presidente il potere sulla politica di sicurezza e difesa. Il Parlamento
francese non è coinvolto nella ratifica dei trattati internazionali, sulla difesa, sugli accordi di
cooperazione militare, o di altri trattati relativi a questioni di sicurezza. Si tratta di una
posizione molto confortevole per il Presidente che può decidere da sé, con il supporto dei
suoi soli consiglieri. Il ruolo dell'opinione pubblica è ugualmente poco problematico, poiché
essa non è capace di agire in modo significativo su quelle che sono strettamente, decisioni
presidenziali. In Francia l'opinione pubblica, spesso approva in larga maggioranza quasi
tutti i tipi di uso della forza51.
Tirando le somme, vi è una chiara evidenza che le èlites degli stati più deboli ottengono
vantaggi dalle possibilità offerte dal "two-level game"; anche i governi tedeschi hanno
usato gli obblighi internazionali e le aspettative internazionali come argomenti fondanti dei
cambiamenti interni. Le pressioni della NATO e le aspettative suggerirono la necessità di
modificare la reticenza tedesca verso l'invio di truppe all'estero, laddove la partecipazione
nell' European Security and Defence Policy (ESDP) era parte imperativa della politica
estera generale della Germania. Combinate, queste due organizzazioni internazionali
hanno esercitato un'influenza decisiva sulle politiche di sicurezza e difesa della Germania:
l'Europa ha rappresentato un utile mezzo per aggirare la forte pressione interna contraria.
Se l'opposizione interna all'uso della forza aumentasse, ci si potrebbe aspettare che i
governi cerchino "strategie di limitazione", condividendo sempre più il fardello con le
51 R. Balme and C. Voll. France: Between integration and national sovereignty. In S. Bulmer and C. Lequesne, The member states and the EU. Oxford: Oxford University Press, 2005. Fino all'80 % approva i dispiegamenti, inclusi gli interventi umanitari.
43
organizzazioni internazionali e possibilmente cercando una possibile maggiore
integrazione.
Come già visto, i governi più vincolati, più deboli, probabilmente si impegneranno in forme
d'integrazione auto-vincolanti. Anche per paesi come Francia e Gran Bretagna, possono
esservi vantaggi nella condivisione di sovranità negli organismi internazionali. Per i governi
che sono più resistenti alle pressioni interne, per cultura politica o per norme istituzionali,
potrebbe essere utile aver accesso all'integrazione e condivisione, come risorsa ulteriore
in termini di competenze, ed una sede per la condivisione di rischi militari e politici. Come
visto nel caso francese, c'è piuttosto un uso sistematico dell'ESDP, come motivazione per
un cambiamento delle pressioni interne. Nel caso britannico - proprio nel momento in cui
scriviamo - ciò ha meno rilevanza, poiché la visione generale sull'Europa è fortemente
negativa, ma non è del tutto originale, anzi storicamente comprovata in più di
un’occasione.
L'aumentato grado di un'integrazione militare delle forze armate europee, condurrà ad un
ruolo più forte a livello internazionale del "two-level game": non soltanto occorrerà
un'integrazione auto-vincolante, ma anche un'integrazione vera, "realmente vincolante":
come correttamente sottolineato da Wagner, il trend generale di privilegiare l'esecutivo nel
processo di europeizzazione è ancor più esacerbato nelle politiche di sicurezza e difesa52.
I battlegroup dell'UE illustrano la discrepanza tra gli impegni d'integrazione militare e la
natura intergovernativa del decision-making politico. Se aggiungessimo una forte
dimensione interna a questo, sarebbe tangibile che i governi si trovino schiacciati e
politicamente impotenti, tra opinioni pubbliche pressanti ed impegni reali derivanti dalle
organizzazioni internazionali.
2.4 2.4 Sviluppi istituzionali europei in materia di difesa
Il sentiero della Politica estera e di sicurezza comune aveva preso avvio con il Trattato di
Maastricht. Mentre si riscontrava un grande consenso a sostegno delle integrazioni
economiche e sociali che poi avrebbero portato alla nascita dell'Unione Europea, le
questioni riguardanti la politica estera non ebbero la stessa fortuna ed i sovranismi
continuarono a guidare il dibattito per tutti gli anni '90. - . Maastricht aveva comunque
portato al secondo pilastro della Politica Estera e di Sicurezza Comune (PESC),
52 W.Wagner. The democratic legitimacy of ESDP. ISS Occasional Paper no. 57. Paris: EU Institute of Security Studies, 2005, p.5.
44
affidandola al Consiglio Europeo; l'organismo sovranazionale per eccellenza, la
Commissione, era ridotta ad un ruolo marginale, avendo solo un ridotto ruolo d'iniziativa.
La pervicacia con la quale gli Stati difendevano le prerogative sovrane non lasciava spazio
ad ulteriori margini di movimento: il quadro che usciva era fortemente intergovernativo, ma
non comunitario o ancor meno sovranazionale53.
Le frizioni e le inefficienze, specie durante le crisi balcaniche, avrebbero indotto i governi a
introdurre alcune modifiche dal Trattato di Amsterdam in poi, in vigore dal 1999.
L'istituzione dell'Alto rappresentante dell'UE avrebbe garantito continuità, visibilità ed
efficacia all'Unione e alle sue relazioni esterne54. I paesi più refrattari ad una compiuta
politica estera e di difesa comune, capeggiati dalla Gran Bretagna non volevano
abbandonare l'esclusiva sovranità in tale ambito, né correre il rischio di infastidire l'alleato
d'oltreatlantico.
Il vero atto fondatore della Politica Europea di Sicurezza e di Difesa (PESD) va fatto
risalire al novembre 1998 a Saint Malô, quando Blair e Chirac si accordarono sull'obiettivo
di dotare l'UE della capacità di agire in propria autonomia, appoggiandosi su forze militari
credibili55.
La difesa europea consentiva alla Gran Bretagna, storicamente in condizione di relativa
marginalità nel processo d'integrazione europea, di assurgere in seno all'UE ad un ruolo di
leadership in una sfera così importante e significativa. Ciò le avrebbe consentito in
qualche modo di controllare dall'interno il progetto, salvaguardando la NATO, i rapporti
transatlantici, la special relationship con gli Usa e l'approccio intergovernativo. Una PESD
autonoma ed in parte sovranazionale avrebbe potuto creare problemi alla potenza
americana, allora in un'epoca unilaterale. Se era vero per la Francia che essa aveva visto
nell'Europa unita un modo per poter contare di più a livello internazionale, era altrettanto
vero che in quel dominio, della difesa e della sicurezza, vedere le istituzioni comuni
ottenere qualche diritto era pressoché inaccettabile. Però in Francia si era andati verso
uno spostamento più marcatamente federalista, anche perché in un contesto europeo a
25, poi 27-28, si riduceva il margine di manovra ed influenza, specie con la natura
intergovernativa del decision-making56.
53 Il voto all'unanimità era l'ostacolo primario, in quanto offriva il diritto di veto ad ogni Stato, in ogni decisione su ogni materia.
54 Finalmente, con qualche anno di ritardo gli europei avrebbero dato il numero di telefono dell'Europa, come era stato provocatoriamente richiesto da Henry Kissinger qualche anno addietro.
55 La dichiarazione finale del summit di Saint-Malô è consultabile nel sito dell'Iss-Eu (www.iss-eu.org).
56 A tal proposito va sottolineato quello che ebbe a dire Zbigniew Brzeznski, uno dei più fini ed
45
Va ancora rimarcato il livello di autonomia e sovranità che francesi e inglesi rivendicavano
per la difesa europea, per comprendere appieno le linee di faglia che attraversano i Paesi
europei; mentre gli inglesi privilegiavano l'obiettivo dell'efficacia militare nelle gestioni delle
crisi e la complementarietà con l'Alleanza Atlantica, a Parigi si dava risalto alla credibilità
dell'Europa politica ed al consolidamento dell'Unione come potenza globale, in un mondo
in trasformazione57. Anche dopo Saint Malô erano presenti due visioni, non del tutto
componibili, d'Europa. Una, promossa dagli inglesi, voleva che l'UE fosse credibile
militarmente, ma all'interno del quadro atlantico. L'altra, quella francese, di ispirazione che
potremmo definire post-gollista, desiderava un ruolo globale e di grande potenza per
l'Europa, autonoma da Washington. Gli Usa, per bocca dell'allora segretario di Stato
Madeleine Albright, mostravano la consueta ambivalenza nei confronti delle costruzioni ed
integrazioni europee; se da una parte accoglievano con favore che i Paesi europei
volessero migliorare la loro efficacia e la loro capacità militare, che rispondeva agli
interessi strategici di "divisione del lavoro", dall'altra temevano, nonostante le
rassicurazioni della Gran Bretagna, che a lungo andare l'autonomia richiesta dagli europei
avrebbe disimpegnato il continente dalla NATO. L'Albright ammoniva gli europei nel non
cadere nei rischi delle cosiddette tre "D", ovvero di non disgiungere la sicurezza europea
da quella americana, di duplicare le strutture alleate già esistenti (NATO) e di non
discriminare i membri NATO che non facevano parte dell'UE, come la Turchia. Gli Usa
avrebbero accettato qualunque accordo sulla sicurezza e difesa europea a patto e
condizione che non si mettesse in discussione il principio della "NATO first"58.
Qualche anno dopo al vertice di Helsinki furono definiti gli organi politici e militari
dell'Unione:
1) Un Comitato politico e di sicurezza (COPS), formato da rappresentanti nazionali e alti
funzionari, le cui funzioni sarebbero state quelle di monitorare la situazione
influenti strateghi americani alla fine degli anni '90: " Una Ue più grande assieme ad una NATO allargata saranno utili per gli interessi della politica americana tanto nel breve quanto nel lungo termine. Una Ue più estesa accrescerà il raggio d'influenza americana senza che al tempo stesso si formi una Ue integrata dal punto di vista politico al punto da costituire un serio rivale per gli Stati Uniti in questioni di importanza strategica, specialmente per quel che rigurda il Medio Oriente". Inoltre : "Finché le nazioni europee alleate restano strettamente dipendenti dalla protezione americana, ogni espansione del raggio d'azione politico dell'Europa è automaticamente anche un'espansione dell'influenza statunitense". In Z. Brzeznski, "A geostrategy for Eurasia", in D.L. Boren, E.J. Perkins jr. (a cura di), Preparing America's Foreign Policy for the 21st Century, University of Oklahoma Press, Norman, Oklahoma, 1999, pp. 311 e ss.
57 N.Gnesotto, La politica di sicurezza e difesa dell'UE. I primi cinque anni (1999-2004), Istituto di studi per la sicurezza, Parigi, 2004, p.15.
58 Cfr. con M. Clementi, L'Europa e la politica mondiale, Il Mulino, Bologna, 2004, pp. 159-165.
46
internazionale e contribuire a definire le politiche in ambito PESC e PESD, formulando
avvisi e consigli al Consiglio Europeo; nel caso fosse stato decretato un intervento
militare dell'UE, in risposta a delle crisi, al COPS erano demandati sia un controllo
politico che la direzione strategica;
2) Un Comitato militare (CMUE), composto dai Capi di Stato Maggiore della Difesa dei
paesi membri, che avrebbe offerto consulenze tecniche e raccomandazioni, esercitando
la direzione militare in caso di intervento UE in crisi internazionali;
3) Stato maggiore (SMUE) che avrebbe avuto la funzione di fornire consulenza tecnica e
sostegno in campo militare alla PESD59.
In quella sede gli inglesi avevano ottenuto il riconoscimento che i membri della NATO non
facenti parte del'UE, avrebbero potuto partecipare alle operazioni dell'Unione, con gli
stessi diritti e doveri dei suoi membri: era una chiara vittoria per gli anglo-americani che
non avrebbero visto "duplicazioni di strutture alleate" ed inutili sovrapposizioni. Nei primi
anni duemila il quadro normativo permaneva sostanzialmente intergovernativo: la regola
era quella del consenso, ovvero dell'unanimità. Il Trattato costituzionale firmato a Roma il
29 ottobre 2004, poi bocciato dai referendum in Francia e Olanda, teneva conto delle
novità in ambito PESD, fra cui la fondazione dell'European Defense Agency, istituita per
ottimizzare la capacità degli Stati membri nel settore della difesa e della sicurezza, in
quattro ambiti: sviluppo delle capacità difensive, promozione della tecnologia e della
ricerca tecnologica per la difesa, promozione della cooperazione nel settore degli
armamenti, creazione di un mercato europeo di attrezzature per la difesa e rinvigorimento
della base tecnologica ed industriale della difesa europea, con a capo l'Alto
Rappresentante per la politica estera e di sicurezza comune. Come vedremo nel prossimo
capitolo il Trattato di Lisbona imprimerà una svolta verso quella che diventerà Politica di
Sicurezza e Difesa Comune (PSDC), non più PESD o secondo l'acronimo inglese ESDP,
ma Common Security and Defense Policy.
59 J. Howorth “The Political and Security Committee: A Case Study in ‘Supranational Inter-Governmentalism" . ”Les Cahiers Européens, Sciences Po 1, 2010, pp. 1–24.
47
3. Difesa e sicurezza di fronte alle sfide globali del terzo millennio
La fine della guerra fredda ed i due decenni che seguirono portarono, nell'agenda
internazionale, nuove prospettive in termini di sfide e opportunità che assunsero presto
una chiara dinamica intrastatuale e una dimensione transnazionale. Il terrorismo
internazionale, i traffici illeciti di droga, armi, esseri umani e il crimine organizzato pongono
nuove sfide all'autorità statuale e sono esempi, così come guerre civili e violenze intra-
statuali, della natura multidimensionale delle minacce alla sicurezza internazionale e alla
stabilità. L'allargamento dell'UE, tra il 1995 e il 2014, che è equivalso al duplicarsi della
sua grandezza, è stato un fattore d'impedimento per la formalizzazione di regole comuni a
tutti gli stati membri riguardo al decision-making e ai processi di costruzione e
dispiegamento delle operazioni di pace. Il declino acuto della spesa militare strettamente
collegato alla crisi economico-finanziaria del 2008 ha avuto un profondo impatto
nell'Unione ma, ciononostante, la discussione circa la necessità di una componente
difensiva più forte ed efficiente entro la Politica di Sicurezza e Difesa Comune (PSDC) ha
guadagnato un certo rilievo, particolarmente dopo gli eventi ucraini. Addizionalmente, le
diversità tra gli Stati membri, con riguardo a quanto ambiziosa e intraprendente dovrebbe
essere la promozione della pace attraverso mezzi civili e militari, ha contribuito ad acuire la
carenza di consenso. Infatti, vari paesi europei continuano ad avere differenti framework
normativi per le missioni civili ed un unico livello di partecipazione con le missioni europee,
altrettanto differente volontà e capacità per il dispiegamento di forze in conflitti complessi.
Tuttavia la sostituzione del termine "europea" con il termine "comune", dopo il Trattato di
Lisbona, è un esempio di come le nuove dinamiche istituzionali concernenti la PSDC
possibilmente rifletteranno un cambio effettivo nei processi di decision-making. Come già
precedentemente accennato, minori progressi sono stati fatti per rimuovere gli ostacoli
politici e culturali e principalmente, l'assenza di una comune percezione tra gli stati membri
delle minacce o degli obiettivi delle politiche o ancora i mezzi richiesti per raggiungerli. La
diversità di visioni sull'uso della forza, le diverse tradizioni di difesa e i divergenti interessi
geopolitici tra gli stati membri, specie tra i più significativi, pongono un'evidente e
insormontabile sfida alla costruzione di una comune cultura strategica, requisito
necessario per una strategia europea tout court.
48
3.1 Relazioni tra la politica estera dell'Unione e la Politica di Sicurezza e Difesa
Comune
La PSDC non è un'autonoma politica europea, ma piuttosto una nuova serie di procedure
e capabilities per il miglioramento e il completamento della politica estera dell'Unione.
Soggetta alla volontà politica dei governi, la PSDC consente all'Unione di incrementare i
suoi contributi alla sicurezza globale. Prima della creazione della PSDC, l'UE aveva già
sviluppato un'ampia serie di azioni in politica estera. A titolo esemplificativo, l'UE: riduceva
o eliminava del tutto le tariffe sulle importazioni dei Paesi in guerra (Afghanistan, Iraq),
paesi minacciati dalla guerra (Sudan) o vittime di disastri naturali (Pakistan); negoziava
accordi di cooperazione e commercio con Seul; accordi di non proliferazione di armi di
distruzione di massa (Iran e Siria); provvedeva agli aiuti verso circa 160 Paesi; forniva
assistenza umanitaria (Somalia, Haiti) per rispondere a disastri naturali, sottosviluppo,
carestie, malattie e ai bisogni dei rifugiati o degli sfollati interni. L'ECHO spende
annualmente più di 700 milioni di euro negli aiuti a 85 Paesi, subappaltando la
distribuzione ad agenzie ONU ed ONG; l'Unione ha imposto sanzioni diplomatiche,
commerciali (embargo, divieto d'ingresso nel proprio territorio, congelamento dei beni) a
leader, persone influenti o organizzazioni di quei Paesi che si supponga violino norme
globali (Bielorussia, Fiji, Hamas, Iran, Libia, Myanmar, Corea del Nord, Sri Lanka,
Uzbekistan, Zimbabwe) ed infine ha disposto delle missioni di monitoraggio elettorale in
quasi tutti i continenti.
La politica estera dell'Unione Europa non è che una proiezione esterna di quei valori e
norme condivise lungo lo spazio europeo. Esempi di posizioni ed azioni di politica estera
value-based includono opposizioni attive alla pena capitale, supporto per il funzionamento
e l'efficacia della Corte Penale Internazionale, sostegno per la protezione da abusi dei dati
raccolti dalle compagnie aeree nella lotta contro il terrorismo ed i crimini transnazionali;
partecipazione e leadership del processo di Kimberley per porre fine al commercio illegale
dei diamanti. In definitiva la logica ed i principi dietro la PSDC sono quelli di espandere gli
strumenti a disposizione dell'UE per offrire una sempre crescente e differenziata gamma di
opzioni in contesti globali sempre più complessi ed asimmetrici.
I governi e i primari organi dell'UE stessi sono le fonti più importanti di decisioni
concernenti la politica estera e la PSDC - a loro volta influenzati da un insieme di pressioni
nazionali ed internazionali affinché si rinunci o ci si adoperi per un'azione collettiva. Due
esempi che si potrebbero rammentare sono il caso della Georgia e quello della Repubblica
Democratica del Congo.
49
Il presidente francese in quanto presidente temporaneo del Consiglio Europeo offrì i suoi
"good offices", a nome dell'UE, per mediare il conflitto russo-georgiano ed aiutare al
raggiungimento di un cessate il fuoco.
Nel 2006 invece la Germania, assumendo la responsabilità della pianificazione e gestione
della missione militare in Congo a cui contribuì con 1/3 del contingente ed 1/5 del costo
della missione, non realizzava un suo interesse strategico ma quello della Francia e del
Belgio; il suo ruolo di leadership era quindi solo il risultato della forte pressione diplomatica
ed informale esercitata dai partners.
I governi nazionali non sono gli unici input nel sistema europeo di politica estera. Gruppi
d'interesse, lobby, Ong e partiti politici interni all'Unione che possiedono speciali interessi
esterni che sono perseguiti a livello europeo (p.es. Il partito dei Verdi tedesco esercitò
pressioni sull'Unione per una presa di posizione energica alle negoziazioni sul protocollo
di Kyoto nel dicembre 2009, alla conferenza Onu sul cambiamento climatico a
Copenaghen). Le organizzazioni internazionali esterne all'Unione spesso spingono l'UE ad
agire e prendere parte attiva in azioni di politica estera e di sicurezza, come quando le
stesse Nazioni Unite chiedono all'Europa di dispiegare operazioni di PSDC in Africa. Altri
governi stranieri influenzano altrettanto il processo decisionale dell'UE, come quando la
Cina pressò l'Unione affinché ponesse fine all'embargo di beni militari nei confronti di
Pechino (imposto dopo l'inasprimento delle proteste studentesche del 1999) e gli Stati
Uniti, dal lato opposto, pressavano l'Unione affinché lo mantenesse. Il governo russo
bloccò i pattugliamenti della missione di monitoraggio europeo in Georgia, negando
l'accesso all'Ossezia del Sud e all'Abkhazia, in violazione degli accordi che avevano
condotto alla cessazione delle ostilità nella regione. Da parte loro le organizzazioni non
governative cercano d'influenzare il processo decisionale esterno dell'Unione (Amnesty
International e Human Rights Watch) e spesso operano in subappalto per implementare i
programmi umanitari europei (Oxfam, International Rescue Committee, Medici senza
frontiere). Un ulteriore input al processo decisionale PSDC viene dal "Committee of
Contributors" (CoC), un gruppo ad hoc di contributori europei ed extra-europei che
prestano dipendenti alle operazioni di gestioni di crisi e che vengono assunti come
consulenti per delineare ed imbastire le operazioni.
I contributori non europei, specie Stati Uniti e Turchia, vorrebbero che il comitato abbia un
ruolo più influente, argomentando che il CoC è marginalizzato, con un ruolo minimo nella
struttura decisionale del PSDC.
Come precedentemente accennato, la governance sulla sicurezza globale si riferisce ai
processi di cooperazione, negoziazioni ed interazioni tra attori statuali, organizzazioni
50
internazionali, ONG, per rafforzare la stabilità e la sicurezza per gli Stati, i gruppi sociali e
gli individui. Nel contesto della governance sulla sicurezza globale, nuovi approcci e
concetti stanno creando ed hanno creato neologismi, come sicurezza umana, sicurezza
comprensiva e "responsibility to protect".
L'UE ha tutto il potenziale per intraprendere politiche e dislocare una serie di operazioni
indirizzate alle nuove minacce alla sicurezza. C'è un grande interesse fuori dall'Unione su
come essa potrebbe contribuire alla governance della sicurezza. In aggiunta all'ONU e alla
NATO, l'UE, l'Unione Africana ed una serie di attori appaiono indispensabili per rinvigorire
la sicurezza nelle aree di conflitto. In svariate regioni del mondo si guarda all'UE come un
contributore imprescindibile alla sicurezza internazionale. Ci sarebbero una pletora di
azioni da intraprendere per rendere sicuro il mondo, con così pochi attori trasparenti,
disponibili e capaci d'aiutare alla prevenzione e alla fine dei conflitti, delle disuguaglianze
che poi stanno alla base di questi, ed ingaggiare percorsi di stabilizzazione post-conflitto,
nonché rispondere nelle maniere più adeguate alle minacce asimmetriche. L'Unione sta
guadagnando terreno e riconoscimento come fornitore sui generis di sicurezza globale,
perché rispettosa dei principi legali del diritto internazionale che regolano l'uso della forza.
Lo schieramento di operazioni di PSDC per la gestione di crisi militari solitamente rispetta
le richieste e i mandati degli organi delle Nazioni Unite e rientra organicamente nella
concezione di "multilateralismo effettivo" dell'Unione. Nonostante vi sia la consapevolezza
che alcuni stati releghino l'azione comune a mero uso parziale e strumentale, frenando o
spingendo soltanto sulla base dei propri stringenti e contingenti interessi interni, l'Unione
Europea, quale attore primario di sicurezza globale, e il suo impegno nel supporto delle
corti o dei tribunali ad hoc per l'efficacia della giustizia criminale internazionale dimostrano
quanto essa sia catalizzatrice di un concetto di sicurezza inglobante l'intera società
internazionale, la comunità delle nazioni e dei popoli, delle minoranze e delle società civili.
Gli scontri e le divergenze tra Stati piccoli e grandi, tra il personale civile e militare, tra il
personale nelle strutture di gestione crisi della PSDC e nella Commissione e i funzionari
del nuovo Servizio Europeo per l'Azione Esterna, sono soltanto la punta dell'iceberg di più
estese divergenze sulle priorità interne degli Stati membri, di dinamiche personali
individuali, sulle politiche burocratiche, di distanze che si accentuano quando occorre
adottare procedure organizzative standard o, ancora, quando devono essere regolati gli
accessi alle risorse e alle capabilities. La competizione sulle idee e le risorse è insita nella
natura della politica, così come in ogni processo decisionale si perseguono più fini settari e
di parte, rispetto a quelli collettivi ed istituzionali. L'UE non è uno Stato con una politica
estera statale, questo dovrà essere costantemente messo in chiaro, ma è una comunità
51
politica disordinata, ancor più all'indomani del Brexit, ed in costante pressione centrifuga
da parte di alcuni Paesi o partiti politici interni. Per ogni processo decisionale occorre
conciliare una miriade di interessi prima di giungere ad un compromesso che possa
lanciare un'operazione di PSDC.
Giacché l'Unione implementa la sua politica estera e le operazioni di PSDC nella corrente
rapida degli affari globali, essa ha difficoltà, in quanto coacervo di Stati, ad agire
strategicamente ed agilmente. Spesso la stessa inazione può essere vista con occhi più o
meno critici; non sempre significa debolezza, indecisione o inettitudine ma semplicemente
la decisione conclusiva di mantenere atteggiamenti prudenti in determinati crisi anche se
questo potrebbe attirare le critiche di chi vede in ciò l'utilizzo di due pesi e due misure,
specie quando non sono in gioco interessi europei generali.
Ciò detto, i funzionari della PSDC e della Commissione spesso sviluppano relazioni
lavorative efficaci e produttive trovando modi pragmatici di cooperazione anche in assenza
della guida, ambigua talvolta, di Bruxelles. Gli Stati membri concordano sul fatto che vi sia
un gap visibile nelle capacità dell'Unione di impegnarsi in pianificazioni della difesa e della
sicurezza strategica. Nella fase di implementazione del Trattato di Lisbona, l'UE e i
funzionari dei Paesi membri hanno stipulato che vi sarà necessità di ridurre il numero di
operazioni PSDC e di ottimizzare gli sforzi europei per focalizzarsi in un numero minore di
operazioni60. Questo cambio significherà il lancio di operazioni in Paesi dalla grande
importanza strategica per tutta l'UE o per la maggior parte dei paesi membri o dei suoi
membri più influenti, nonché dove gli interessi europei siano evidentemente in gioco e
dove ci sia un gap di sicurezza rilevante. I Paesi membri hanno raggiunto queste
conclusioni in seguito al vaglio dei primi dieci anni e più di operazioni di PSDC. C'è ancora
una questione aperta circa il grado di moltiplicazione degli effetti positivi sulla politica
estera europea che avrà il Trattato di Lisbona, spostando l'Unione dal ruolo di assistente
alla sicurezza di nicchia ad un più strategico ruolo d'attore globale. Nel breve termine, è
improbabile che il nuovo Servizio Europeo d'Azione Esterna sarà capace di prevalere sugli
scontri tra gli interessi statuali in modo tale da dare una coerenza alla politica di sicurezza
ed estera europea. Nel medio-lungo termine, il raggiungimento di una politica estera e di
difesa comune e strategicamente condivisa non solo è auspicabile, ma anche possibile.
La politica estera europea, come diversi altri settori sovranazionali, sono tutti dei cantieri
aperti, processi in fieri, influenzati e inficiati da forze endogene ed esogene, sia previste
che inaspettate.
60 Cfr. con Roy H. Ginsberg , Susan E. Penksa, The European Union in Global Security. The Politics of Impact, Palgrave MacMillan, Basingtoke, 2012.
52
Quantunque l'UE non abbia sviluppato una cultura strategica, ha operato e continuerà ad
operare in un mondo di attori strategici, considerando che le istituzioni esterne all'Unione e
gli Stati trattano l'Europa come un interlocutore cruciale nella sicurezza globale e di
conseguenza come un attore strategico. Allo stesso tempo, poiché l'Unione non parla con
un'unica voce, essa non agisce strategicamente con una serie di politiche e principi
unificati. Questo vincola la sua efficacia nella governance della sicurezza globale.
Altri attori pongono in rilievo la consistenza dell'Unione e l'agilità a sostenere interessi ed
implementare politiche verso le più disparate regioni del mondo. Sebbene l'Unione fosse il
leader durante i colloqui internazionali sugli aspetti militari del programma di arricchimento
nucleare iraniano, essa non parla ancora con un'unica voce con la Russia, a torto o a
ragione, su molte questioni chiave, specialmente sulla sicurezza energetica o, ancora,
sulla visione delle relazioni con il Pakistan. Le sue relazioni con la Cina sono ancora poco
sviluppate e solo da poco sta emergendo un dialogo strategico-commerciale relativo alla
"New Silk Road Economic Belt", uno dei programmi che interesserebbero pienamente
l'Europa e i suoi commerci, inseriti nel più vasto progetto globale cinese, "One belt, one
road". Con Washington vi sono elementi di partnership e competizione, come a fasi alterne
vi sono sempre stati dagli anni'40 ad oggi. Per concludere, l'UE è ingabbiata nel dilemma
tra l'ambizione di essere un attore securitario globale, così come riconosciuto dagli altri
attori, e le limitazioni politico-istituzionali che abbiamo summenzionato, che frenano e
vincolano un effettività più ampia ed incisiva a livello interno.
3.2 Verso una maggiore integrazione europea della sicurezza
All’alba del ventunesimo secolo il rinquadramento della minaccia transnazionale del
terrorismo come fenomeno di rete ha reso necessaria una maggiore cooperazione
internazionale ed ha fornito un pretesto per l'accelerazione di processi legislativi61. Dopo
l'11 settembre, proprio mentre aumentava la condivisione delle informazioni attraverso
l'atlantico, emerse palesemente l'ampio divario che separava la visione del mondo degli
europei e degli americani.
61 M. Den Boer, 9/11 and the Europeanisation of Anti-Terrorism Policy: A Critical Assessment. Policy Paper 6, Paris: Notre Europe, 2003.
53
L'opportunità per l'Unione di definirsi autonoma e contraria a quanto si decideva a
Washington diede un'ulteriore spinta agli sforzi europei di guadagnare autonomia nella
protezione di se stessa e divenire un attore decisivo al di fuori della propria sfera
geografica62. Questa atmosfera innescò una serie di iniziative, inclusa la "Declaration on
Combating Terrorism", l'"European Security Strategy" (ESS, anche conosciuta come
"Solana document"), e la "Clausola di Solidarietà", la quale prometteva che nel caso uno
Stato membro fosse stato vittima di un attacco terroristico o altri disastri umani e naturali,
gli altri sarebbero accorsi in aiuto.
Ma le esigenze di breve periodo non erano abbastanza per costruire un non collaudato
ordine sovranazionale perché la sicurezza è elemento fondamentale della sovranità
nazionale63. La divisione della dimensione interna/esterna ha in larga parte perso la sua
importanza come concetto analitico e come linea-guida politica per le azioni di sicurezza
europea64.
L'UE può essere un attore della sicurezza con significativo potere militare, perfino in
mancanza di un proprio esercito europeo. I governi degli Stati membri possono
regolarmente parlare con una sola voce in politica estera senza formalmente rinunciare
alla sovranità nazionale in quest'area. Perfino nei settori di sicurezza maggiormente
intergovernativi, le decisioni non sono prese nelle sole capitali, e i processi alle spalle di
esse abbracciano sia l'hard che la soft integration. In questa contingenza storica il
raggiungimento di qualche livello di cooperazione sulla sicurezza può apparire
significativo.
Come più volte evidenziato già nel corso di questo lavoro, i Paesi membri hanno una
storia differente, tradizioni, visioni del mondo e delle minacce profondamente differenti
quando si tratta di difendere i propri cittadini o vedersela con il bisogno di bilanciare la
sicurezza con le libertà civili. Perfino più decisive appaiono le differenze nelle culture legali
nazionali – tra civil law e common law – che conducono verso una serie di ulteriori
distinzioni in termini di sistema delle corti e procedure penali. Gli Stati membri sono pure
dissimili quando si giunge a dover scegliere sugli impegni nelle azioni esterne e il tipo
d'azione da intraprendere. Alcune nazioni enfatizzano l'aspetto militare delle proprie
capacità, mentre altri con orgoglio mostrano i loro maggiori contributi civili. Singolarmente
62 J. Howorth,J.T. S. Keeler, eds. Defending Europe: The EU, NATO, and the Question for European Autonomy. New York: Palgrave Macmillan, 2003.
63 V. Mitsilegas, J. Monar, W. Rees. The European Union and Internal Security: Guardian of the People? (One Europe or Several?). Basingstoke: Palgrave Macmillan, 2003.
64 Cfr. con M. Ekengren,“Terrorism and the EU: The Internal-External Dimension of Security.” In The European Union and Terrorism, ed. David Spence. London: Harper, 2007, 30-53.
54
la Germania, la Polonia, la Francia, il Regno Unito, la Spagna e l'Italia hanno più personale
militare a loro disposizione di quanto non ne abbiano, complessivamente, Malta, Cipro,
Lussemburgo, Lettonia, Slovenia ed Estonia. Alcuni Stati come Svezia, Finlandia, Francia,
Germania, Slovenia, Ungheria e Belgio, pongono l'accento sull'importanza della PSDC
come strumento d'influenza, mentre altri – come visto nel summit di Varsavia dell'8 luglio –
auspicano e pressano per un ruolo sempre più ampio della NATO e sullo schieramento di
battaglioni nell'Europa Orientale.
Ma continuiamo a ripetere che nonostante queste spinte centrifughe, gli Stati membri
dell'UE continuano ad agognare al raggiungimento di nuovi e sempre più avanzati livelli di
cooperazione ed integrazione.
Proviamo ad inquadrare adesso le aree della sicurezza dove gli europei sembrano
cooperare al meglio.
Nel caso del terrorismo e del crimine organizzato la polizia e le autorità giudiziarie
lavorano in cooperazione in modi diversi e stanno provando ad allineare i rispettivi sistemi
penali e di giustizia nazionali. Il Mandato di cattura europeo, ad esempio, consente alla
polizia di emettere mandati validi attraverso l'Unione per individui sospettati di terrorismo o
altri gravi crimini, anche se le violazioni sono definite differentemente. La polizia in
qualsiasi altro Stato membro, potrebbe arrestare e detenere sospettati, a prescindere dalla
sua nazione d'origine. Effettivamente, questo principio va ben oltre il principio di mutuo
riconoscimento degli ordinamenti per un'armonizzazione legislativa attraverso i Paesi
membri65. L'European Evidence Warrant, sulle prove, concede alle corti statali il potere di
richiedere che altri Stati membri forniscano prove relativamente a taluni casi. In quest'area
il mutuo riconoscimento degli ordini giudiziari, consente alle autorità di congelare e/o
confiscare beni. Infine, le politiche come il congelamento dei beni dei terroristi o presunti
tali e la prevenzione del riciclaggio di denaro, sono interessi primari. Queste aree, come
altre, rappresentano l'hard integration. Una delle aree chiave di soft integration rapida, è il
regno delle attività della polizia. Europol agisce come attore di primo piano, a livello
sovranazionale, indirizzandosi a tutti i crimini più gravi concernenti più di uno Stato
membro così come qualsiasi questione relativa al controterrorismo. Europol ha uno staff di
più di 500 dipendenti ed un budget di oltre 90 milioni66. Mentre Europol non conduce
investigazioni in proprio, prepara però analisi strategiche e valutazione delle minacce,
facilitando lo scambio di informazioni con gli Stati Uniti, mantenendo diversi ed estensivi
65 W.Rees, “Inside Out: The External Face of EU Internal Security Policy.” European Integration 30:2008,pp. 97–111.
66 https://www.europol.europa.eu/content/budget-and-staff-establishment-plan-2015.
55
database. Esso inoltre semplifica il coordinamento tra le varie autorità giudiziarie e di
polizia, nazionali. All'interno dell'Europol opera il Police Chiefs Operational Task Force,
che discute le migliori strategie, i trend criminali, la pianificazione delle operazioni e il
coordinamento dei joint investigation teams, composti da autorità di polizia e giudiziarie
degli stati membri che si occupano del medesimo crimine.
Lo European Police College dell'UE raccoglie insieme ufficiali di polizia da tutta Europa,
per meglio sviluppare le reti, organizzare iniziative di training e condurre ricerche.
In aggiunta al sistema Europol, la polizia può anche condividere informazioni su crimini e
criminali con altri network; uno è lo Schengen Information System, effettivamente uno
strumento legale comune di rafforzamento, che permette ai Paesi membri di integrare i
loro sforzi e porre fine ai crimini transfrontalieri. Esso dispone di un database con più di 14
milioni di dati sui movimenti di individui ricercati per vari crimini, registrazione di dati relativi
a veicoli e permessi di soggiorno. Un'altra rete è il Counterterrorist Group, che riunisce
insieme i capi delle intelligence nazionali.
Gli stati membri hanno adottato il principio di disponibilità, che significa un accordo per
rafforzare la condivisione di informazioni tra le agenzie attraverso l'Europa, in accordo agli
stessi standard che sono applicati entro i singoli stati membri. Molte altre misure specifiche
si indirizzano verso la condivisione di informazioni su sospette transazioni finanziarie,
passaporti rubati o persi, richiedenti asilo, impronte digitali, fotografie o immigrati illegali.
Tuttavia quello che preme rammentare, è il fatto che non tutte le aree stanno mostrando
segni di armonizzazione o integrazione. Europol non ha l'autorità di fermare, ricercare o
arrestare e i capi delle intelligence nazionali preferiscono ancora condividere informazioni
direttamente con i propri corrispettivi attraverso il Counterterrorist Group, piuttosto che
attraverso Europol67. Sia Europol che Eurojust, dispongono di unità dedicate al
controterrorismo ed il Consiglio ha un coordinatore del contro terrorismo (CTC), che
supervisiona tutti gli aspetti delle politiche di contro terrorismo, specialmente quelle che
ricadono sul Action Plan on Combating Terrorism e la Strategia di controterrorismo dell'UE.
Il CTC si affida agli ambasciatori del Comitato dei Rappresentati permanenti per
monitorare i progressi nella strategia, fornire aggiornamenti e implementare le strategie di
follow up.
La Commissione, il Parlamento ed il Consiglio si riuniscono ogni sei mesi per assicurare
una certa coerenza attraverso le istituzioni.
67 Cfr. con M. Anderson,“Internal and External Security in the EU: Is There Any Longer a Distinction?” In The Changing Politics of European Security, ed. Stefan Gänzle and Allen G. Sens, 31–46. Basingstoke: Palgrave Macmillan, 2011. V. anche W.Rees. Transatlantic Counter-Terrorism Cooperation: A New Imperative. London: Routledge, 2006.
56
La Strategia per combattere la radicalizzazione ed il reclutamento, è la componente
principale dell'Action Plan on Combating Terrorism ed include un numero di iniziative in
risposta ai consigli degli esperti sulla convivenza e l'integrazione delle comunità islamiche
in Europa.
Queste istituzioni a livello comunitario, come le unità antiterrorismo o il CTC, operano
grazie al fatto che gli stati membri hanno condiviso le stesse definizioni di reati terroristici.
Queste pratiche includono una lista di individui o gruppi considerati terroristici ed un
minimo di sentenze emesse per certi atti di terrorismo. Nell'accordarsi su una definizione
di terrorismo onnicomprensiva è abbastanza significativo che solo la Spagna, il Portogallo,
la Francia ed il Regno Unito avessere definito in modo soddisfacente da alcuni anni il
terrorismo.
Diverse nazioni, incluse il Belgio e i Paesi Bassi, non avevano neppure una legislazione
antiterrorismo. Oggigiorno gli Stati membri continuamente condividono informazioni sulle
proprie opinioni o convincimenti relativi al terrorismo, attenendosi spesso agli stessi
standard e concordando che quelle specifiche attività siano dei crimini. Le definizioni
comuni e la punizione per le attività terroristiche incarnano di già un percorso verso l'hard
integration e sono prerequisiti determinanti per lo sviluppo di uno spazio di sicurezza
europeo.
L'Unione dispone di diversi uffici istituzionali creati per affrontare le conseguenze di
attacchi terroristici e stabilire una cornice per una risposta integrata adeguata. Questi uffici
includono il Civil Protection Working Party del Consiglio, la Civil Protection Unit all'interno
del Direttorato generale dell'ambiente; il Monitoring and Information Centre della
Commissione, il Common Emergency and Communication and Information System, ed
infine l'Health Security Committee.
Particolare attenzione è stata data agli scenari riguardanti gli attacchi con armi non-
convenzionali. Il Community Mechanism for Civil Protection dell'UE, un'istituzione che è
pronta a rispondere nei casi di emergenza, mantiene un database di esperti in armi
chimiche, batteriologiche e nucleari e di esperti team di gestione delle emergenze. Il cuore
di questo Community Mechanism è il Centro informazioni e monitoraggio che è disponibile
ogni qualvolta si verifichi un disastro. Gli Stati membri dell'Unione sono abbastanza ben
integrati quando si giunge a regolamentazioni sulla sicurezza internazionale. Così gli
aeroporti seguono gli stessi standard di sicurezza (controllo passeggeri, training degli staff
e procedure di ispezione degli aerei).
57
Il Parlamento Europeo ha approvato recentissimamente una direttiva68 relativa all'utilizzo
dei dati relativi ai codici di prenotazione (PNR Passenger Name Record) delle compagnie
aeree ai fini della prevenzione, accertamento, indagine ed azione penale nei confronti die
passeggeri sospetti di terrorismo o altri gravi reati. In generale i progressi ai vari livelli
nazionali non sono rapidissimi ma costanti ed ininterrotti.
Dalla fine della Guerra fredda, le forze armate in Europa hanno subito un graduale
processo di riforma. Invece di essere adoperate precipuamente per proteggere il suolo
europeo, gli eserciti sono stati trasformati in forze dinamiche e slanciate, capaci di
intraprendere missioni all'estero in aree di crisi riguardanti sostanzialmente l'intero globo.
Inoltre, gli eserciti europei sono stati recentemente dispiegati dai Balcani, al Medio
Oriente, all'Asia. Il fatto che i Paesi membri dell'UE siano 28 e che quest'area di policy
fosse in partenza la meno integrata, rende il processo di riforma davvero arduo.
I policymaker devono concepire strategie di risposta alle minacce, tenendo conto che le
minacce sono oggi diverse, non tradizionali – comprendenti campi di battaglia sconosciuti,
contro nemici difficilmente individuabili e attori non statali – e che vi sarà necessità di forze
interoperative. L'incertezza di conseguenza sorge proprio su come riformare le forze
armate e quanta integrazione o cooperazione siano possibili o perfino auspicabili. Ogni
Stato membro ha la propria agenda militare e definirà la sua minaccia e le sue priorità di
difesa, differentemente. Regno Unito e Francia rimarranno ancora entità politiche che
avranno la volontà e l'abilità politica di intervenire in operazioni in paesi terzi.
La PSDC sembra essere un contesto unico e possibile sotto la quale i Paesi membri
possano riconoscere i loro obiettivi comuni riguardo alle risposte unite alle crisi globali, a
prescindere dal livello di ambizione e di capacità. La convergenza politica e la coerenza
delle policies nazionali rimangono condizioni inevitabili per generare un efficace azione
comune a livello europeo69. È su questo principio che l'Europa non può derogare.
Gli Stati membri devono continuare verso sentieri di riforme militari e integrazione, poiché
gli studi sulle minacce, negli ultimi dieci anni, hanno indicato che l'utilizzo della forza
potrebbe crescere in misura sempre maggiore rispetto ad oggi. I Paesi europei non
possono permettersi di ridurre gli investimenti militari adesso che la natura delle minacce
alla sicurezza si allontana dal novero delle guerre convenzionali.
68 http://www.europarl.europa.eu/news/it/news-room/20160407IPR21775/PNR-il-PE-approva-la-direttiva-UE-sull'uso-dei-dati-del-codice-di-prenotazione
69G.Grevi. “ESDP Institutions.” In European Security and Defence Policy: The First Ten Years (1999–2009), ed. G.Grevi, D. Helly e D. Keohane, 19–68. Paris: EU Institute for Security Studies, 2009.
58
Quasi tutti i Paesi europei hanno fatto della partecipazione militare alle missioni
internazionali un modo per incrementare la loro abilità, addestrando le proprie forze in
modo da operare in modo flessibile e battendosi per incrementarne le capacità.
Quantunque la responsabilità e la titolarità permanga nelle mani dei singoli Paesi, la
capacità europea di hard power non può essere la semplice somma delle sue parti. Se
ogni Paese schierasse un proprio contingente dell'esercito, esisterebbe un elevato livello
di duplicazione a meno che le forze armate non siano considerate come un tutt’uno.
Ancora, non tutte le capacità potrebbero essere disponibili per l'UE in ogni dato momento;
se, ad esempio, uno Stato membro avesse già impegnato un elicottero per una missione
NATO, esso non sarebbe più disponibile per eventuali azioni europee. Alla fine, ci vorrà
comunque l'ambizione e la volontà politica di contribuire ad un'operazione.
Sul versante dell'approvvigionamento della tecnologia militare, gli Stati perseguono una
soft integration. Tradizionalmente, ogni business sulla difesa ha come clienti solo i governi
nazionali. Poiché la tecnologia e il relativo equipaggiamento per la difesa sono
fondamentali per la strategia di sicurezza nazionale statuale, le nazioni europee sono state
spesso refrattarie all'idea di guardare alle nazioni terze per le proprie forniture. Oltre al
bisogno di influenzare la scelta dei fornitori della difesa, i governi devono fare in modo che
le spese dei contribuenti in qualche modo creino posti di lavoro, che servano al pubblico
interesse e proteggano le capacità nazionali in particolari aree di ricerca. Ancora, l'art. 296
del Trattato sull'Unione Europea, esenta il mercato per gli equipaggiamenti della difesa
dalle regole del mercato comune, consentendo ai governi di mantenere alti livelli di
protezionismo, rispetto alle proprie industrie della difesa.
I budget decrescenti per la difesa, attraverso l'Europa e la differente natura delle minacce
esterne, hanno condotto ad un graduale ripensamento del sistema tradizionale anche in
questo settore. Nonostante il processo sia cominciato diversi decenni fa, il tasso del
consolidamento industriale transfrontaliero è aumentato solo negli ultimi anni.
La tecnologia informativa ed aerospaziale sono aree che sono avanzate più rapidamente
rispetto ad altre. Il settore aereospaziale in particolare è uno dei settori maggiormente
integrati tra tutte le industrie europee. È un area di ricerca e di sviluppo di capabilities,
estremamente dispendiosa ed altamente politicizzata. Nondimeno, gli Stati membri hanno
concordato di integrare i loro sforzi per produrre Galileo, l'equivalente europeo del sistema
di posizionamento statunitense, prevedendone il suo completamento entro la fine del
2019. I Paesi membri diedero alla Commissione Europea l'autorità di gestire il programma,
che avrebbe richiesto il lancio di 32 satelliti e anni di ricerca e sviluppo.
59
Questa nuova tecnologia avrà chiaramente sia applicazioni civili che militari, e beneficerà
sia la sicurezza interna, che quella esterna. A causa dei costi e dei rischi, l'UE sta
lavorando fianco a fianco con l'Agenzia Spaziale Europea ed altri paesi70 per accelerarne i
tempi e la messa in funzione. Mentre certe sfide rimangono e alcuni ritardi
nell'implementazione sono già avvenuti, Galileo rappresenta un livello significativo di
volontà d'integrazione nel settore aerospaziale europeo. Più in generale l'Agenzia europea
di Difesa ha incoraggiato contratti congiunti, acquisizioni transnazionali e collaborazioni
attraverso il suo Codice di Condotta. Allo stesso modo, la Commissione europea ha
incoraggiato un'integrazione soft in quest'area, proponendo l'armonizzazione delle licenze
attraverso gli Stati membri in modo tale che le transazioni attraverso i confini siano
armoniose. La Commissione ha anche enfatizzato che il ricorso all'articolo 296 dovrà
essere dimostrato dagli Stati membri ogni qual volta lo si vorrebbe invocare. Le singole
nazioni hanno l'onere di provare che i contratti di acquisizione rientrino nei loro interessi
essenziali, piuttosto che assumere che i contratti relativi alla difesa siano esenti dalle
regole del mercato comune71. Queste misure, specialmente quelle portate avanti
dall'Agenzia di Difesa Europea, sono volontarie e non vincolanti. Nondimeno il
consolidamento d’industrie per la difesa di eccellente livello così come i programmi
collaborativi transnazionali si sono verificati sempre più nell'area della ricerca, dello
sviluppo e delle acquisizioni. A titolo esemplificativo compagnie aereospaziali europee
italiane, spagnole, francesi e tedesche, hanno collaborato nella produzione del Eurofighter
Typhoon.
Questi sviluppi non solo creano economie di scala ma consentono la futura interoperabilità
delle operazioni multinazionali e stendono i lavori preparatori per norme comuni sulla
sicurezza e l'eventuale emergere di una comune cultura strategica. Tutti questi
avanzamenti forniscono delle prove per un processo ininterrotto d’integrazione soft
nell'area degli approvvigionamenti.
Analogamente, vi sono numerose vie attraverso le quali la cooperazione è decollata sotto
l'etichetta della PSDC consentendo all'UE di potersi qualificare come una classica
alleanza di sicurezza72.
70 In merito al Programma Galileo l’UE ha firmato accordi con Cina (2003), USA (2004), Israele (2004), Corea del Sud (2006), Ucraina (2006), Marocco (2006), Norvegia (2010), Tunisia (2012) e Svizzera (2013) e ne sta discutendo altri con Russia, Brasile, Cile e Argentina.
71 Cfr. con European Military Capabilities: Building Armed Forces for Modern Operations. London: International Institute for Strategic Studies, 2008.
72T. Salmon. “The European Union: Just an Alliance or a Military Alliance?” Journal of Strategic Studies 29 (2006): pp. 814–42.
60
Ma ciò che è importante riconoscere è che queste aree e livelli di cooperazione si
estendono ulteriormente, perfino con il raggiungimento di qualche grado di
sovranazionalismo. Prima di tutto, nelle aree di gestione di crisi civili e militari, commissioni
e gruppi di lavoro nel Consiglio determinano l'appropriata armonizzazione dei due
strumenti e li integrano nella maniera più ampia nella fase di pianificazione: ad esempio
nell'area di focus della PSDC uno degli obiettivi è la riforma del settore di sicurezza in
nazioni terze – ricostruendo le strutture statuali in modo che si conformino alla buona
governance e agli standard internazionali sui diritti umani. Alcune riforme richiedono
spesso l'intervento preventivo dei militari, seguito poi dal coinvolgimento civile e di
expertise. Le commissioni o i comitati e i working group coinvolti nel bilanciamento e
nell'integrazione delle dimensioni civili e militari sono formalmente intergovernativi, anche
se talvolta includono forti comunità epistemiche che esercitano indipendentemente dagli
Stati. In secondo luogo, l'UE formalmente coopera nella produzione degli armamenti,
capacity building, e nella ricerca di fortificare le proprie capacità difensive. In pratica, in
quest'area esiste la soft integration.
Nel corso del tempo tutte le parti hanno accettato l'obiettivo dell'interoperabilità attraverso
un processo convincente portato avanti dai rappresentanti militari degli Stati membri.
L'avvento dell’Agenzia Europea di Difesa e la sua conseguente abilità a incoraggiare la
ricerca multistatale e l'approvigionamento è prova lampante della crescente prassi in
favore dell'interoperabilità. Da ultimo, i collegamenti tra la sicurezza esterna e la sicurezza
interna danno un elemento di sovranazionalismo per difetto consentendo ineluttabilmente
processi di armonizzazione e integrazione. La dimensione esterna del controterrorismo ad
esempio, include la lotta contro le cause che ne stanno alla radice sia internamente sia
all'estero. Come stipulato nell'European Security Strategy, l'UE adesso si sforza d'agire,
non senza difficoltà, come attore unico in entrambe le arene. Esternamente queste arene
includono il commercio, l'aiuto umanitario, la diplomazia e il capacity building in Paesi terzi.
Mentre le missioni civili e militari in seno alla PSDC sono basate sulla cooperazione
intergovernativa, esse contrastano le cause radicali attraverso il peacekeeping, il
peacemaking, e la stabilizzazione. Pertanto, c'è una commistione ancora indefinita tra
approccio integrato e intergovernativo.
La relazione tra diritti umani e PSDC è un esempio di hard integration. Gli Stati membri si
attengono e obbediscono alle medesime linee guida quando si tratta di proteggere le
donne e i bambini nei conflitti armati o quando in misura minore si tratta di affrontare
questioni di genere a livello generale. Ogni missione di PSDC ha consiglieri giuridici sui
diritti umani, i quali dovrebbero assicurare che ogni piano operativo tenga in conto quei
61
diritti e quegli interessi. Infine, la soft integration si sta verificando rispetto alle relazioni
dell'UE con Paesi terzi. È dato per garantito, come norma crescente, che l'Unione
dovrebbe sempre sforzarsi di parlare con un'unica voce, ma in tempi duri di populismo, di
euroscetticismo, l'impresa sembra complessa e in regressione.
Vi sono svariati e palesi motivi – ad esempio, la dimensione dei fenomeni - perché sia
indispensabile raggiungere soluzioni di livello europeo e perché possa risultare
controproducente, addirittura contro i propri interessi, ripiegare su politiche o decisioni
prettamente nazionali. Il tema delle migrazioni, appare emblematico. Spesso si teme per la
“sicurezza economica” delle collettività, in primo luogo, ma anche per la “sicurezza fisica”,
per l'inestricabile legame che potrebbe costruirsi fra un afflusso incontrollato di persone
che provengono dalle aree di conflitto e il rischio terrorismo, sebbene i dati empirici
sembrino dimostrare il contrario. Tutto ciò è frutto essenzialmente di una miopia, cioè
dell’incapacità di guardare il problema dalla giusta distanza. I Paesi europei, oggi
sembrano capaci di vedere limitatamente al proprio giardino di casa, o tutt'al più nel
giardino del vicino; manca la capacità di osservare e comprendere le dimensioni e la
portata dei fenomeni. Nella sola Africa ci sono verosimilmente decine di milioni di possibili
migranti; decine di milioni di giovani che desidererebbero migliorare le loro opportunità di
vita – o più realisticamente, che desidererebbero poter avere una vita – e che per questo
sono più che pronti a partire. Queste sono le dimensioni reali del fenomeno, e quando si
discute, in Europa, di riallocare soltanto alcune decine di migliaia di rifugiati, in tutta
evidenza non siamo capaci di comprendere la realtà che abbiamo di fronte. Se questi
sono i numeri in gioco, non possono in alcun modo esistere singole risposte nazionali al
problema della migrazione, quale che sia la lunghezza dei muri che alcuni vorrebbero o
hanno costruito. Serve, al contrario, un’azione decisa e coerente dell’Europa nel suo
insieme. Serve una volontà comune che si esprima attraverso scelte comuni, e che metta
in moto attività comuni.
Non ci si stancherà mai di ripeterlo. Se nel Mediterraneo centrale il flusso dei migranti
sembra quanto meno sorvegliato e gestito, anche e soprattutto in termini di doverosa
salvaguardia della vita umana, lo si deve in maniera particolare alla decisione di
impegnarsi in un’azione politica e “operativa” comune. La Missione EUNAVFOR-MED
“Sophia” rappresenta, al momento, uno dei più prolifici esempi di più intensa
cooperazione, con 22 Paesi dell’Unione che contribuiscono a uno sforzo comune: e come
detto solo un’azione comune da parte di tutti i Paesi europei potrebbe affrontare questo
genere di problema.
62
Da anni si assiste a una progressiva ma costante diminuzione d’investimenti nel settore
della difesa, in pratica in tutti i Paesi europei. Ci sono oscillazioni, ovviamente, ma il trend
storico è lampante. Oggi le singole forze armate europee sono sempre più piccole e con
sempre minori capacità; in alcuni casi, hanno mantenuto la disponibilità di una pluralità di
capacità operative, ma solo in sparute quantità. Vi sono tanti “eserciti-bonsai”, che magari
soddisfano le aspettative dei pianificatori e, soprattutto, dei Ministri delle Finanze dei
singoli Paesi, ma che difficilmente sarebbero in grado di condurre operazioni complesse e
prolungate nel tempo. Alzando lo sguardo sul mondo la tendenza segue una direzione
opposta. Questo è lo scenario globale con cui ci si confronterà, ed anche qui, quali
possibilità avrebbero i singoli Stati europei di perseguire scelte eminentemente nazionali,
per adeguare nel tempo i loro apparati di difesa? Pare evidente che, al contrario si debba
rilanciare con nuovo slancio la collaborazione europea in questo settore; che si debba
tornare a lavorare insieme, su progetti concreti e del giusto respiro, innanzitutto globale, in
modo da rafforzare la base industriale e tecnologica e, poi di recuperare alcune capacità
complesse che sono andate perdute. Nei decenni passati gli europei hanno saputo
stringere accordi strategici di collaborazione che hanno consentito lo sviluppo di tecnologie
critiche e l'acquisizione di capabilities fondamentali per gli strumenti di difesa. In campo
aeronautico, navale, missilistico, nel settore spaziale, le più importanti capacità oggi a
disposizione sono il frutto di quell’intensa collaborazione, ricercata a portata avanti con
risolutezza per anni, dai Governi nazionali. Per fare ciò, si pone un’alternativa: si potrebbe
optare per il proseguimento con programmi di cooperazione fra Governi ovvero si
potrebbe optare per la decisione di aumentare lo spazio per attività propriamente comuni,
a livello europeo. Sul primo fronte l'approccio deve essere “inclusivo” e non “esclusivo”: i
Paesi effettivamente e contemporaneamente “willing and able” debbono poter partecipare,
pena il rischio di eccessive competizioni intraeuropee e mancanza di comunalità negli
equipaggiamenti delle forze armate. Sul secondo fronte bisognerebbe assicurare un nuovo
apporto comune di finanziamenti che vadano di pari passo all’auspicato aumento di quelli
interni nazionali.
Ma solo mobilitando ulteriori risorse europee sarà possibile invertire l’attuale tendenza al
depauperamento tecnologico militare europeo.
Entrambi gli approcci possono essere efficaci; non si può prendere una posizione troppo
rigida su questa scelta, perché in questi tempi di rigurgiti nazionalistici non sarebbe
proficuo. Al contrario, bisognerebbe pragmaticamente adottare la scelta più conveniente
ed efficace perché senza una forte collaborazione interna europea, nessuno dei singoli
Paesi rimarrà competitivo sul mercato globale.
63
Per questo, è ormai matura la necessità di contemplare che anche i Ministri della difesa
europei abbiano pienamente voce in capitolo sulle grandi scelte che riguardano l’Unione; è
matura inoltre l’esigenza di un Consiglio dei Ministri della difesa, sia per far crescere
ulteriormente l’intesa fra i Paesi membri e sia per rinvigorire la rilevanza del tema della
sicurezza internazionale e delle politiche tecnologiche e industriali connesse con le
esigenze della difesa collettiva. Ancora, esiste l’esigenza di un’ulteriore spinta per
ricercare una più forte coesione europea, ed è rappresentata dall’opportunità di fare di più
e meglio in cooperazione con la NATO. Esiste una naturale sinergia fra Unione europea e
NATO, ma senza timore si dovrebbe riconoscere con chiarezza che i cromosomi di queste
due Organizzazioni sono differenti. La si può considerare in forma di complementarietà
ideale o in forma di divergenza siderale tra le due organizzazioni. L’Unione europea ha
ovviamente le capacità di attivare misure economiche o sanzioni efficaci per modellare lo
scenario della sicurezza, prevenendo il rischio di conflitti o mitigandone gli effetti. Mostrare
all'unisono la credibilità militare dell’Alleanza Atlantica con il potenziale politico ed
economico dell’Unione consente di ampliare e rafforzare in maniera determinante una
strategia di sicurezza continentale. Ma non mancano certo le opportunità di una maggiore
sinergia anche in termini di coordinamento delle rispettive operazioni militari.
Il Mediterraneo si presta perfettamente a questo genere di cooperazione ove si consideri
la presenza di missioni, concettualmente ispirate dalla stessa necessità, a guida europea
nel Mediterraneo centrale e a guida NATO in Egeo. Per di più, sarebbe utile coinvolgere
ulteriormente la NATO nella sicurezza complessiva della regione mediterranea, ad
esempio attraverso una nuova ridefinizione dei compiti di “Active Endeavour73”.
La cooperazione per la gestione delle crisi è fondamentale anche con altre Organizzazioni
regionali, a cominciare dall’Unione africana. Pensiamo, ad esempio, alle attività che
l’Unione europea e l’Unione Africana stanno conducendo in Somalia. In questo settore, si
conferma che i motivi di convergenza dei singoli Paesi europei su politiche comuni sono
più forti dei possibili vantaggi derivanti dal perseguimento di politiche nazionali.
L’Europa è un partner fondamentale delle altre Organizzazioni solo se parla e agisce
unitariamente; se ciò non avvenisse, gli Europei si condannerebbero a svolgere un ruolo
marginale per il raggiungimento di obiettivi definiti da altri.
73 LaTask Force Endeavour fu creata dalla NATO dopo l’11 settembre 2011 e impiegata nel Mediterraneo Orientale come mezzo per dimostrare la determinazione dell’Alleanza a combattere il terrorismo internazionale anche facendo valere, ove necessario, l’Art. 5 del Trattato. Il 16 marzo 2004 l’attività navale fu estesa a tutto il mediterraneo con l’Operazione “Active Endeavour”.
64
A essere preservato deve essere l’ideale di un’Europa unita, di un'Europa diversa ma
coesa, nell’interesse di ciascun Paese e di ciascun popolo d’Europa. Da questo punto di
vista, una delle cose da migliorare rapidamente è anche quella della “narrazione”, ovvero il
saper spiegare all'opinione pubblica le ragioni, i motivi razionali che devono indurre a
proseguire con decisione sulla strada della cooperazione. Oggi – lo si può dire con
franchezza – la narrazione di un’Europa “perdente” di fronte alle sfide poste dallo scenario
economico e politico internazionale è prevalente in molti Paesi europei. Il realismo e il
pragmatismo, ovvero il saper razionalmente ricercare i vantaggi che può assicurare una
forte coesione, non possono consolidarsi con trasparenza senza una certa dose di
“idealismo”, senza un’idea pregnante di Europa, che sia culla di valori ed anche punto di
riferimento per chi, da fuori dell’Europa, guarda alla strada che gli europei hanno saputo
percorrere in questi decenni.
65
4. Affinità e difformità lungo lo spazio euroatlantico
La questione dei rapporti diretti tra NATO e UE è un problema, vecchio quanto la stessa
Alleanza Atlantica, che s’inserisce all'interno dell'equilibrio delle relazioni tra gli Stati Uniti e
gli alleati europei. Già durante la Guerra Fredda le esortazioni di Washington al burden
sharing invitavano gli europei a fare di più per la propria difesa. Con l'incalzare dello
scontro Usa-Urss, l'Europa accettava suo malgrado la protezione statunitense oscillando
ciclicamente tra due paure: che essa potesse mostrarsi come un bluff, o che Washington
ingigantisse i suoi timori antisovietici. Gli europei spesso agivano da mediatori, o si
estraniavano dallo scontro, salvo le preoccupazioni se i dialoghi passavano sopra le loro
teste. Gli Stati Uniti spingevano gli europei a unirsi, ma s'irritavano a ogni accenno di
posizioni autonome. Essi inducevano gli europei a fare di più per la difesa, ma purché
l'egemonia non ne uscisse ridimensionata.
La maggior parte dei resoconti neorealisti sulla cooperazione europea sulla sicurezza,
hanno concentrato gran parte della loro attenzione sulla questione del declino geopolitico
europeo, cosa che ha condotto spesso, a trattare l'Europa come un attore geopolitico
coerente74. Ma all'alba del XXIº secolo gli Stati Uniti non incoraggiavano un legame
militare tra la NATO e l'UE, temendo un eventuale coinvolgimento dell'Alleanza nel caso in
cui gli europei avessero deciso di impegnarsi in modo autonomo. L'Europa maggiormente
adatta agli interventi umanitari, di tipo economico-civile, alle ricostruzioni post-belliche o
alla prevenzione dei conflitti, si sarebbe occupata delle radici dei conflitti e delle tensioni,
lasciando il campo all'intervento successivo della NATO, solo in caso di aggravamento
delle tensioni di natura militare.
Se è vero che americani ed europei, se pur in modi differenti, vorrebbero impegnarsi nel
mondo, che gradiscono ancora trattarsi come partner ed anche percepire in modo simile le
minacce lungo le due sponde dell'Atlantico, ci si deve chiedere come e perché negli anni
recenti ci siano state tante divergenze nei dibattiti e nell'opinione pubblica sulle guerre in
Iraq e in Afghanistan, nonché sul conflitto arabo-israeliano o sul nucleare iraniano. Perché
l'opinione pubblica europea era ed è rimasta nella maggior parte dei Paesi europei
continentali, così fortemente contraria alla guerra in Iraq e altri interventi recenti, rispetto a
74 Cfr. con B.Posen, ESDP and the Structure of World Power. The International Spectator. 39 (1),2004, pp. 5–17. B.Posen, European Union Security and Defence Policy: response to unipolarity? Security Studies. 15 (2).2006, pp. 149–86. S.Jones, The Rise of European Security Cooperation. Cambridge: Cambridge University Press, 2007.
66
quella americana? Perché alcuni leader dell'Alleanza hanno e continuano ad avere una
considerevole libertà d'azione di fronte alla propria opinione pubblica mentre altri devono
fronteggiare vincoli straordinari?
4.1 Culture della sicurezza transatlantica nell'era post-guerra fredda
L'ininterrotto spostamento dalla primazia alla partnership ha radici profonde che hanno
poco a che fare con l'antiamericanismo o l'anti europeismo, o ancora con qualsiasi
differenza fondamentale nelle percezioni delle minacce. Tutto sembra essere collegato con
la fine della Guerra Fredda e l'erosione dell'unità d’intenti che i sovietici avevano fornito a
europei e americani. I legami vincolanti adesso sono molto più deboli e questo, combinato
con la trasformazione della sovranità così come con le esperienze condivise nel Kosovo,
in Iraq e nel doppio allargamento, segnarono la fine dell'era post-guerra fredda. Ciò non
significa che stiamo assistendo alla fine dell'Occidente transatlantico con le sue unioni
sovrapposte, ma è vero che vanno emergendo distinti sistemi di valori, di credenze con
interessi talvolta coincidenti, altre volte contrastanti. I partner transatlantici continuano e
continueranno a condividere solo alcuni interessi basici e sistemi di credenze fino a
quando si confronteranno con attori che non li condividono affatto, ma nelle loro relazioni
bilaterali le divergenze affioreranno ogni qualvolta gli interessi americani e le loro azioni
internazionali non corrisponderanno a quelli europei. L'UE continuerà ad affidarsi sulla
direzione americana della NATO mentre la PSDC e la PESD resteranno organismi
necessari (se non indispensabili) nell'architettura della sicurezza europea.
Nel primo decennio dopo la fine della Guerra fredda, la cultura della sicurezza ha
continuato a evidenziare continuità e resilienza. Gli americani hanno continuato a essere
tra i popoli più religiosi nell'Occidente sviluppato e la percepita connettività tra religiosità e
leadership etica non è stata scalfita. Che l'America si credesse una nazione speciale per la
provvidenza era stato già dimostrato nel momento del trionfo occidentale contro il
comunismo. Nei primi momenti dopo gli attacchi dell'11/9, si è rivelata un'unità negli Stati
Uniti molto simile ai primi tempi della Guerra fredda.
Ancora una volta gli americani furono chiamati a dichiarar guerra contro i "malvagi".
La missione speciale e il ruolo provvidenziale dell'America illuminano i discorsi patriottici.
Queste credenze ancora una volta ci informano in modo diretto in che maniera gli Stati
Uniti definiscono e scelgono di contrastare la minaccia del terrorismo.
67
Per l'Unione Europea, il progetto guidato dalle élites, di costruzione coscienziosa di una
nuova identità securitaria europea ha continuato a produrre un'unica e larga base di
credenze circa la natura della minaccia e il valore o la necessità delle guerre come mezzo
di risoluzione delle controversie. La cultura della sicurezza europea, che include - come
già più volte evidenziato - il cosmopolitismo, la civilizzazione e il secolarismo, ha
proseguito nella sua evoluzione verso il sorgere di un periodo post-guerra fredda
relativamente stabile, nonostante le guerre balcaniche abbiano necessitato di un
riequilibrio del pensiero europeo sulla sicurezza, evidenziando la vetustà del concetto di
minaccia esistenziale. Progressivamente nella concettualizzazione del cosmopolitismo
europeo, questo è stato spesso contrapposto alla religiosità, al militarismo e al
nazionalismo americano. Il sociologo tedesco Ulrich Beck ha raffigurato la dissociazione
delle due posizioni: “La replica più facile alla iper-complessità e alla contingenza della
società del rischio globale è quella di dire che ciò è il lavoro del male". Probabilmente
alludendo alla guerra al terrorismo di Bush dopo l'11/9, Beck postulò che la categoria del
male, tacitamente diventa una carta bianca per un auto-rafforzamento. Il male deve essere
eliminato, non solo dalla società, ma in ultima istanza dalla razza umana75. L'Europa reagì
alla guerra al terrorismo guidata dagli Usa, prima di tutto con empatia e poi con ampio
scetticismo, specialmente nel contesto della guerra in Iraq. Molti europei s’interessarono
all'influenza della religiosità, all'interno dell'amministrazione Bush, nella definizione del
conflitto in termini manichei.
Chiaramente, gli effetti a breve termine della guerra al terrorismo includevano il
deterioramento dell'armonia transatlantica mentre, da un lato e dall'altro, si rafforzavano le
culture e i valori contrastanti sulla sicurezza. Si è riconosciuto troppo lentamente che
Obama non era che il giusto successore di generazioni di leader americani, quando
anch'egli pronunciava e promuoveva le idee della grazia americana, l'importanza della
religiosità e la necessità del contrasto al male. La pacata discordia transatlantica, evidente
specialmente in Germania, è emersa nuovamente quando l'amministrazione Obama
ordinò e riuscì nell'uccisione di Osama bin Laden. Obama giustificò l'azione militare per
l'uccisione di Bin Laden esponendo il chiaro convincimento che gli Stati Uniti avessero il
diritto di punire i "malvagi" e contrapporsi con la forza al male.
Questo episodio fu uno dei più narrati, in termini di differenziazione tra gli orientamenti
tedeschi e americani, relativamente alla percezione delle minacce e all'uso della forza.
75 Cfr. con U. Beck, World at Risk, op.cit., p. 228.
68
Mentre la cancelliera tedesca Angela Merkel lodò l'uccisione pubblicamente - come
altrettanto fecero i capi di Stato in giro per l'Europa – il suo governo fu messo sulla
difensiva sul piano interno, essendo pressato da un coro di scettici e diffidenti. Mentre
approssimativamente metà dell'opinione pubblica tedesca supportò l'azione, l'altra metà
restava critica. Per questo segmento della stampa e dell'opinione pubblica l'evento
manifestava la nota leggerezza americana nel trattare le uccisioni e la morte degli
avversari, seguite da danze in strada dopo eventi così funerei, quand‘anche in violazione
del diritto internazionale: il protrarsi sotto ogni forma del dualismo bene-male.
Le Nazioni Unite, richiedevano i tedeschi, siano chiamate ora più che mai, in contesti
asimmetrici, a creare regole vincolanti: deve essere cristallino cosa può e non può essere
fatto76.
4.2 Le sfide emergenti alle culture di sicurezza europee e americana
La cultura è dinamica. Laddove la continuità è stata maggiormente raggiunta nella cultura
di sicurezza americana e il progresso è stato un segno caratterizzante dell'emergente
modello culturale sulla sicurezza europea dalla fine della guerra fredda in poi, i
cambiamenti tuttavia si sono succeduti in entrambi i contesti. Gli spostamenti nella cultura
della sicurezza americana appaiano minimi nel breve periodo, mentre alcuni sentori nel
contesto europeo, fanno presagire potenziali crisi del modello stesso.
Un‘ovvia spiegazione per la minore inquietudine statunitense è la continua sofferenza
dell'economia. Un'altra spiegazione per lo scarso cambiamento nella cultura della
sicurezza americana è che la guerra al terrore è rimasta irrisolta, anzi sta subendo
progressivamente un'inaudita recrudescenza del fenomeno pur non raggiungendo più
l'epica narrativa originariamente costruita dopo l'11/9. La mobilitazione della società
americana a contrastare i "malvagi" terroristi ha raggiunto alcuni successi, specialmente
con l'uccisione di Bin Laden, ma la guerra stessa permane in uno stato indefinito,
aleatorio, senza alcuna prospettiva di porvi fine a breve, men che meno con una vittoria
che rafforzerebbe la cultura securitaria stessa. Gli americani però hanno saldamente
creduto che l'uso della forza fosse necessario sotto certe condizioni, e che l‘esperienza
della vittoria americana attraverso una lotta epica debba essere ripetuta anche con la
guerra al "terrore", una guerra che sempre più è percepita come una guerra di frontiera.
76 Siegfried Kauder, cit. in “Merkel Comments on Bin Laden Killing Draw Criticism” Spiegel Online, May 4, 2011, h ttp://www.spiegel.de/international/ germany/0,1518,760580,00.html.
69
L'esperienza dei combattimenti nell'ultimo decennio, invece, mina seriamente alla base
alcune radicate credenze d'oltreoceano circa il destino provvidenziale del loro ruolo guida
nel mondo.
La cultura della sicurezza europea che progressivamente andava emergendo nel corso
dell'ultimo mezzo secolo si è identificata come cosmopolita, secolare e civilizzata.
La costruzione della cultura di sicurezza europea post-bellica, guidata dalle élites, è
dipesa dalla sospensione delle percezioni tradizionali delle minacce e delle credenze e dei
valori associati ai nazionalismi e alle guerre. L'identità cosmopolitica europea, per com’è
stata ricreata da alcuni intellettuali europei, riprende la kantiana "idea d'Europa" dove gli
stranieri non sono più caratterizzati come altro, come una potenziale minaccia
esistenziale.
Piuttosto, il modello europeo modifica i "nemici" in "vicini", offrendo ospitalità attraverso la
creazione di spazi ospitali. Il fatto che il titolo di un recente libro di Habermas, riguardante
il progetto d'integrazione europea è titolato: "Europe: The Faltering Project", (Europa, il
progetto vacillante), suggerisce che innegabilmente vi è un processo difficoltoso77.
La cultura europea della sicurezza è quotidianamente indebolita da una rinnovata
narrativa culturale, che ruota attorno alle tensioni insite alla cultura europea stessa,
giustapposta a quella "altra", non europea. I cambiamenti demografici e il malcontento
generale crescente all'interno dei confini europei per quel che riguarda l'immigrazione,
presentano un'alternativa, nonché una sfida al modello di sicurezza esistente, proponendo
una visione chiusa, conservatrice, escludente l'"altro". Il protratto malessere economico e
finanziario nell'Unione funge da combustibile per il risentimento, la sfiducia e il rigetto degli
immigrati. Un possibile futuro sta via via emergendo dall'incremento del "nativismo",
dell'etnocentrismo, comportamenti che erano stati esclusi come anatemi, dal modello
securitario europeo. Una serie di eventi, pubblicazioni e raccolte di dati, suggeriscono che
l'afflusso di non-europei, specialmente quelli provenienti da aree islamiche nordafricane o
mediorientali, fanno emergere una crescente paura degli stranieri in tutta l'Europa, e il
ricorso a sentimenti escludenti o il rinnovamento di alcune vetuste narrazioni unitarie, che
enfatizzano l'idea di Europa come regno della cristianità (o culla dell'Occidente) dove l'altro
è chiaramente marcato dall'etichetta dello straniero o dell'"orientale". È significativo notare
che lo stesso Papa Benedetto XVI scelse il nome di Papa Benedetto che un secolo prima
aveva provato, invano, a unificare l'Europa come regno della cristianità, progetto ripreso e
adottato dallo stesso Ratzinger. L'Europa oggi è molto di più di tutto ciò.
77 J. Habermas, Europe: The Faltering Project , New York, Polity, 2009.
70
5. Conclusioni
Le nazioni europee hanno molto in comune. Geograficamente vicine, tutte fronteggiano le
stesse problematiche di relativa debolezza nei confronti dei grandi attori sulla scena
internazionale. Le loro similarità spesso le portano a cooperare, ma ancora le differenze e
le specificità possono far confliggere le priorità e le modalità di come intraprendere la
cooperazione. Le politiche di sicurezza europea sono delineate da una contraddizione
ineluttabile tra cooperazione e conflitto. Gli interessi delle maggiori potenze europee,
costantemente in evoluzione, definiscono questa mutevole e dinamica contraddizione.
Tuttavia, nonostante siano state create in periodi recenti alcune nuove istituzioni, o nuovi
impegni e nuove capabilities siano state adottate, o ancora diverse missioni siano state
lanciate, tutto ciò ci dice molto poco sul reale livello di cooperazione esistente sulla
sicurezza in Europa, oppure sulla natura della CSDP o della NATO. Priorità nazionali
confliggenti hanno limitato il raggiungimento e l'efficacia di ogni singola iniziativa.
La questione chiave di cui si dovrà trattare, adesso e negli anni a venire, sarà quella di
vedere come gli europei si adatteranno e risponderanno alle trasformazioni geopolitiche
sistemiche in corso. Gli Stati riconoscono che non è la sola territorialità o la sicurezza dei
cittadini che deve essere protetta, ma anche, e forse soprattutto, gli interessi non-
territoriali.
La sicurezza va comunque costruita a partire dall'interno, con profonde riforme socio-
economiche che possano evitare alla radice profonde spaccature (di per sé già evidenti)
all'interno della società, che possono diventare focolaio di rancore, di rabbia e frustrazione
facilmente infiammabili dalle sirene del terrorismo. Rendere sicura, ovvero meno incerta e
aleatoria la vita delle persone che in Europa vi abitano, sarebbe un primo grande passo
per curare dall'interno il cancro delle disparità, foriero soltanto di violenza e ingiustizia.
La sicurezza si costruisce dall'interno e l'unità europea potrebbe funzionare solamente con
politiche virtuose: non c'è unità in condizioni di disequilibrio. L'austerity e la burocrazia
distante e cinica di Bruxelles hanno creato un solco profondissimo tra cittadini e istituzioni
e tra i cittadini stessi; la legittimità democratica di queste è messa in discussione, le
divergenze e le ineguaglianze tra gli Stati membri sono così palesi che chiamarla Unione
ad alcuni sembra un'amara ironia. Avere politiche comuni in un continente frammentato in
più di trenta nazioni e altrettante lingue e tradizioni statuali diverse non è per nulla
semplice, se poi anche l'Unione diventa un fine in sé, autoreferenziale (ovvero va bene
tutto purché si resti uniti) come ci si aspetta che vi siano convergenze d'intenti tra la
71
Germania e l'Ungheria o tra la Slovacchia e la Francia? Bisogna riconoscere la pluralità di
approcci alla visione del mondo, del proprio Paese, della propria sicurezza e riconoscere
che una così stretta cooperazione, anche in materia militare, potrà essere realizzata
soltanto attraverso fini e obiettivi condivisi. Trovarli non è semplice, ma non è poi neanche
un concetto così fuori dall'ordine delle cose, considerando che siamo un continente
storicamente frammentato e fratricida: magari sessanta anni d'integrazione, a mio parere
troppo accelerata, sono pochi nel lungo corso della storia, per creare un attore unitario,
forte, coerente e armonioso. Il rischio è l'implosione, ma allora la nostra fine sarà già stata
decretata poiché il mondo extra-europeo, in repentino cambiamento, ci considera già un
attore unico (forse riponendo nell‘Europa più fiducia di quanta ne abbiano gli europei
stessi) e il ritrovarsi ancora una volta singolarmente nel flusso della marea geopolitica,
potrebbe consegnarci celermente al dimenticatoio.
72
6. Bibliografia
Monografie-Saggi
Adler Emanuel, Barnett Michael, Security Communities. Cambridge: Cambridge University Press, 1998. Anderson Benedict, Imagined Communities: Reflecting on The Spread of Nationalism, 2nd ed. (London: Verso, 2006). Tr.it., Comunità immaginate, Manifestolibri, Roma, 2009. Bargiacchi Paolo, L'Unione Europea dinanzi alla crisi libica del 2011: azione umanitaria e neutrale o, piuttosto, democratica e interventistica?, in G. Finizio e U. Morelli (a cura di), L'Unione Europea nelle relazioni internazionali, Carocci, Roma, 2015. Beck Ulrich, World at Risk , Cambridge, UK, Polity Press, 2007. Tr.it. Un mondo a rischio, Einaudi, Torino, 2003. Berger Peter, The Desecularization of the World: Resurgent Religion and World Politics, Washington, DC: Ethics and Public Policy Center; Grand Rapids, MI: W. B. Eerdmans Publishing, 1999. Biehl Heiko, Giegerich Bastian, Jonas Alexandra, Strategic Cultures in Europe. Security and Defence Policies Across the Continent, Schriftenreihe des Zentrums für Militärgeschichte und Sozialwissenschaften der Bundeswehr Volume 13, Springer Vs, New York, 2013. Brzeznski Zbigniew, "A geostrategy for Eurasia", in D.L. Boren, E.J. Perkins jr. (a cura di), Preparing America's Foreign Policy for the 21st Century, University of Oklahoma Press, Norman, Oklahoma, 1999. Bulmer Simon, Lequesne Christian, The member states and the EU. Oxford: Oxford University Press, 2005. Buzan Barry, Wæver Ole, Regions and power: The structure of international security. Cambridge: Cambridge University Press, 2003. Chappell Laura, Mawdsley Jocelyn, Petrov Petar, The EU, strategy and security policy: regional and strategic challenges. Routledge, London, 2016. Clementi Marco, L'Europa e la politica mondiale, Il Mulino, Bologna, 2004. Ekengren Magnus,“Terrorism and the EU: The Internal-External Dimension of Security.” In The European Union and Terrorism, ed. David Spence. London: Harper, 2007 Gänzle Stefan, Allen G. Sens, The Changing Politics of European Security. Basingstoke: Palgrave Macmillan, 2011. Giegerich Bastian: European Security and Strategic Culture. National Responses to the EU’s Security and Defence Policy. Baden-Baden: Nomos, 2006.
73
Ginsberg Roy H. , Penksa Susan E., The European Union in Global Security. The Politics of Impact, Palgrave MacMillan, Basingtoke, 2012. Habermas Jurgen, Europe: The Faltering Project , New York, Polity, 2009. Haugevik K.M., Britain and the ESDP. 1998–2004. MA thesis. Department of Political Science, University of Oslo, 2005. Hampton Mary N., A thorn in Transatlantic relations. American and European Perceptions of Threat and Security, Palgrave MacMillan, Basingstoke, Uk, 2013. Howorth Jeremy, Keeler John T. S., eds. Defending Europe: The EU, NATO, and the Question for European Autonomy. New York: Palgrave Macmillan, 2003. Jervis Robert, Perception and Misperception in International Politics, Princeton nJ: Princeton University Press, 1976. Jones Seth, The Rise of European Security Cooperation. Cambridge: Cambridge University Press, 2007. Katzenstein Peter , Tamed Power: Germany in Europe , Ithaca, NY, Cornell University Press, 1997. Kennedy David. Of law and war. Princeton, NJ: Princeton University Press, 2006. Krause Keith R., Culture and Security. Multilateralism, Arms Control and Security Building. London and Portland: Frank Cass Publishers, 1999. Larivè Maxime H.A., Debating European Security and Defense Policy: understanding the complexity. Routledge, London, 2016. Libel Tamir, European military culture and security governance: soldiers and National Defence Universities, Routledge, London, 2016. Lindley-French Julian, A Chronology of European security & defence. 1945-2007. Oxford University Press, 2007. Lipset Seymour Martin, American Exceptionalism: A Double-Edged Sword, New York: W. W. Norton, 1997. Matlary Jan, Values and weapons: From humanitarian intervention to regime change? Basingstoke: PalgraveMacmillan, 2006. Mitsilegas Valsamis, Monar Jorg, Rees Wyn. The European Union and Internal Security: Guardian of the People? (One Europe or Several?). Basingstoke: Palgrave Macmillan, 2003. Norheim-Martinsen Per M., The European Union and military force,Cambridge, Cambridge University Press, 2012. Rees Wyn. Transatlantic Counter-Terrorism Cooperation: A New Imperative. London: Routledge, 2006.
74
Reiss Hans , Kant’s Political Writing , Cambridge: Cambridge University Press, 1991. Smith R. The utility of force: The art of war in the modern world. London: Allen Lane, 2005. Vedby-Rasmussen Mikkel. The risk society at war. Terror, technology, and strategy in the 21st Century. Cambridge: Cambridge University Press, 2006. Weigley Russell, The American Way of War: A History of United States Military Strategy and Policy, Bloomington, Indiana University Press, 1973. Welsch Jennifer M., Humanitarian intervention and international relations. Oxford: Oxford University Press, 2004. Wendt Alexander, Social Theory of International Politics, Cambridge: Cambridge University Press, 1999.
Articoli- Paper
Bono Giovanna, National parliaments and EU external military operations: Is there any parliamentary control? European Security, 14(2), 2005. Den Boer Monica, 9/11 and the Europeanisation of Anti-Terrorism Policy: A Critical Assessment. Policy Paper 6, Paris: Notre Europe, 2003. European Military Capabilities: Building Armed Forces for Modern Operations. London: International Institute for Strategic Studies, 2008. Friedrich Wolfgang-Uwe, The Legacy of Kosovo: German Politics and Policies in the Balkans, German Issues 22, Washington DC, American Institute for Contemporary German Studies, 2000. Gnesotto Nicole, La politica di sicurezza e difesa dell'UE. I primi cinque anni (1999-2004), Istituto di studi per la sicurezza, Parigi, 2004. Grevi Giovanni, D. Helly e D. Keohane, “ESDP Institutions.” In European Security and Defence Policy: The First Ten Years (1999–2009), ed., 19–68. Paris: EU Institute for Security Studies, 2009. Howorth Jolyon, “The Political and Security Committee: A Case Study in ‘Supranational Inter-Governmentalism" . ”Les Cahiers Européens", Sciences Po 1, 2010. James W. Ceaser, “The Origins and Character of American Exceptionalism”, American Political Thought 1, no. 1 (Spring 2012): 3–28. Johnston A.I., Thinking about Strategic Culture. International Security. 19 (4),1995.
Koenig-Archibugi Mathias, International governance as a new raison d’etat? The Case of
the EU CFSP. European Journal of International Relations, 10(2), 2004 .
Koivula T., Towards an EU Military Ethos. European Foreign Affairs Review. 14 (2). 2009.
75
Kornprobst M., Building Agreements Upon Agreements: The European Union and Grand Strategy. European Journal of International Relations. 27 giugno 2014.
Kundnani Hans : Germany as a Geo-economic Power. In: Washington Quarterly, 34: 3, 2011.
Meyer C.O., Strickmann E., Solidifying Constructivism: How Material and Ideational Factors Interact in European Defence. Journal of Common Market Studies. 49 (1),2011. Noetzel Timo: Germany’s Small War in Afghanistan: Military Learning amid Politico-strategic Inertia. In: Contemporary Security Policy, 31: 3, 2011. Paterson William E.: The Reluctant Hegemon? In: Journal of Common Market Studies, 49: 1, 2011. Posen Barry, ESDP and the Structure of World Power. The International Spectator. 39 (1),2004. Posen Barry, European Union Security and Defence Policy: response to unipolarity? Security Studies. 15 (2).2006. Putnam Robert. The logic of two-level games. International Organisation, 1988, 42(3), 427: 60. Rees Wyn, “Inside Out: The External Face of EU Internal Security Policy.” European Integration 30:2008. Salmon Trevor. “The European Union: Just an Alliance or a Military Alliance?” Journal of Strategic Studies 29 (2006). Schreer Benjamin: Political Constraints: Germany and Counterinsurgency. In: Security Challenges, 6: 1, 2010, pp. 97–108. Wagner. Wolfgang The democratic control of military power Europe. Journal of European Public Policy, 13(2), 2006. Wagner Wolfgang. The democratic legitimacy of ESDP. ISS Occasional Paper no. 57, 2005, Paris: EU Institute of Security Studies.
Sitografia- Documenti ufficiali
Report on the Implementation of the European Security Strategy-Providing Security in a Changing World, (Brussels, 2008), p.2, http://www.consilium. europa.eu/ueDocs/cms_Data/docs/pressdata/EN/reports/104630.pdf. http://www.state.gov/documents/organization/63562.pdf http://www.civcap.info/fileadmin/user_upload/Canada/White_Paper_on_Defence_01.
76
http://fas.org/nuke/guide/uk/doctrine/sdr98/. https://www.gov.uk/government/uploads/system/uploads/attachment_data/file/478933/52309_Cm_9161_NSS_SD_ Review_web_only.pdf. http://www.defensa.gob.es/Galerias/defensadocs/revision-estrategica. SIPRI (2015): Military Expenditure Database. http://www.sipri.org/databases/milex/ %3E. http://www.lookoutnews.it/nato-europa-russia-germania/. https://www.europol.europa.eu/content/budget-and-staff-establishment-plan-2015. http://www.europarl.europa.eu/news/it/news-room/20160407IPR21775/PNR-il-PE-approva-la-direttiva-UE-sull'usodei-dati-del-codice-di-prenotazione. Siegfried Kauder, cit. in “Merkel Comments on Bin Laden Killing Draw Criticism” Spiegel
Online,May 4, 2011, h ttp://www.spiegel.de/international/ germany/0,1518,760580,00.html.
77
7. NOTA SUL Ce.Mi.S.S. e NOTA SULL’AUTORE
Ce.Mi.S.S.
Il Centro Militare di Studi Strategici (Ce.Mi.S.S.) è l'Organismo che gestisce, nell'ambito e
per conto del Ministero della Difesa, la ricerca su temi di carattere strategico.
Costituito nel 1987 con Decreto del Ministro della Difesa, il Ce.Mi.S.S. svolge la propria
opera valendosi di esperti civili e militari, italiani ed esteri, in piena libertà di espressione di
pensiero.
Quanto contenuto negli studi pubblicati riflette quindi esclusivamente l'opinione del
Ricercatore e non quella del Ministero della Difesa.
Giulio Montalbano
Montalbano Giulio, nato a Erice (TP) il 28/07/1990. Ha studiato
prima Scienze Politiche e Relazioni Internazionali presso
l'Università degli Studi di Palermo e poi Scienze Internazionali
e diplomatiche presso l'Università degli Studi di Siena.
Successivamente ha seguito un Master di alta formazione in
Cooperazione internazionale intergovernativa e non
governativa presso la SIOI (Roma). Dopo svariate esperienze
di stage curriculari e post-laurea, attualmente sta svolgendo un anno di Servizio civile
all'estero in Tanzania, per conto di una Ong di Roma (Cesc Project).
foto
Stampato dalla Tipografia delCentro Alti Studi per la Difesa