Quaderni del
Liceo Orazio
N. 7
Anno Scolastico 2016/2017
Liceo ginnasio statale Orazio
ROMA
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Questa pubblicazione
è stata curata
da Mario Carini
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INDICE
Introduzione ……………………………………………………………...pag. 5
SEZIONE DOCENTI
ANNA PAOLA BOTTONI – ANNA MARIA ROBUSTELLI,
L’esperienza di un laboratorio di lettura: il cronòtopo del castello ……………………………………………….……13
MASSIMO CALDERONI – WALTER FIORENTINO,
Tragedia e conoscenza. Teatro come palestra
di valori identificativi …………………………………………………..……19
MARIO CARINI, “Per far più lieti i tristi giorni…”: il diario
della prigionia in Germania di Ugo d’Ormea …………..……………….29
MARINA CASTELLANO, Una proposta di lettura scolastica
del I canto dell’Inferno (vv.1-27) ………………………………..……95
PIERANGELO CRUCITTI, Sul concetto di fauna
e sulle sue applicazioni …….………………………………………………109
ANNA MARIA ROBUSTELLI, Le tante voci de La fanciulla
senza mani …...…...…………………………………………………………137
SEZIONE DIDATTICA
(collaborazioni degli studenti)
Prof. Stefano de Stefano, XXIV Olimpiade di Filosofia ………….……153
4
Miscellanea di matematica, a cura del prof. Maurizio
Castellan …………………………………………………………………..…161
5
INTRODUZIONE
Proseguendo una linea editoriale iniziata pochi anni or sono, che vede
il recupero di fonti memorialistiche inedite relative alla storia (sarebbe
meglio dire, alle storie) degli italiani durante la seconda guerra
mondiale, pubblichiamo in questo numero il diario di un altro giovane
militare italiano, Ugo d’Ormea, che visse dopo l’8 settembre i
drammatici mesi della prigionia in Germania.1 Le scarne pagine scritte
da Ugo d’Ormea sono pagine che oggi appartengono alla Storia e
raccontano, senza dire tutto ma molto lasciando intuire al lettore
sufficientemente informato, della fame, delle privazioni, delle angherie e
delle vessazioni che dovette patire da parte degli aguzzini tedeschi. E
noi siamo onorati di pubblicare nelle nostre pagine il memoriale di Ugo
d’Ormea, internato militare italiano che ha scelto in seguito di
raccontare pubblicamente la sua testimonianza e che è stato premiato,
per il suo sacrificio e il suo impegno civile, dal Presidente Giorgio
Napolitano con la medaglia d’oro riservata ai deportati nei campi di
concentramento tedeschi.
Abbiamo potuto esaminare il diario di Ugo d’Ormea grazie alla
cortese disponibilità di suo figlio, il Dott. Aldo d’Ormea, che è anche
genitore di una alunna che il prossimo anno frequenterà il nostro Istituto.
1 Nel quinto numero dei “Quaderni del Liceo Orazio” abbiamo pubblicato il
taccuino di Serafino Clementi, giovane militare di Fermo che trascorse i mesi dal
settembre 1943 al gennaio 1945 nei campi di Luckenwalde, Tarnopol in Ucraina,
Siedlce in Polonia e Sandbostel, presso Hannover (in questo campo pressappoco
nello stesso periodo di Clementi fu prigioniero Ugo d’Ormea). Poi venne inviato al
lavoro coatto in una fattoria della Baviera, a Rutting, ove rimase fino alla liberazione
da parte degli angloamericani. Vd. Mario Carini, Una voce dal Lager: il taccuino di
Serafino Clementi (1943-1945), in “Quaderni del Liceo Orazio”, n. 5, Liceo Classico
Orazio, Roma 2015, pp. 21-116 (testo leggibile anche sul sito del Liceo Ginnasio
Statale Orazio di Roma all’indirizzo:
www.liceo-orazio.it/documenti/public/site/materiale_didattico/Pubblicazioni)
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I “Quaderni” si confermano dunque come uno spazio di convergenza dei
contributi che provengono da tutte le componenti della nostra comunità
scolastica, dai docenti, dagli alunni e dai genitori, in uno scambio di
conoscenze, esperienze e memoria che è arricchente per tutti.
Gli altri lavori che appaiono nel presente settimo numero dei
“Quaderni” sono i seguenti. La “Sezione docenti” comprende:
L’esperienza di un laboratorio di lettura: il cronòtopo del castello, delle
Proff. Anna Paola Bottoni e Anna Maria Robustelli; Tragedia e conoscenza. Teatro come palestra di valori identificativi, dei Proff.
Massimo Calderoni e Walter Fiorentino; “Per far più lieti i tristi
giorni…”: il diario della prigionia in Germania di Ugo d’Ormea, del
sottoscritto; Una proposta di lettura scolastica del I canto dell’Inferno
(vv.1-27), della Prof.ssa Marina Castellano; Sul concetto di fauna e sulle
sue applicazioni, del Prof. Pierangelo Crucitti; Le tante voci de La
fanciulla senza mani, della Prof.ssa Anna Maria Robustelli, già docente
di lingua e letteratura inglese presso il nostro Istituto. La “Sezione
didattica (collaborazioni degli studenti)” comprende il contributo del
Prof. Stefano de Stefano, XXIV Olimpiade di Filosofia, con gli elaborati
degli studenti premiati, e la Miscellanea di matematica del Prof.
Maurizio Castellan.
Prima di congedarci dai lettori e di ringraziare i nostri collaboratori,
vorremmo svolgere alcune considerazioni sul futuro dei “Quaderni del
Liceo Orazio”, visto nell’attuale prospettiva del cambiamento delle
forme e modi di trasmissione del sapere. Dei “Quaderni” sono usciti
finora, con il presente, sette numeri nel tradizionale formato cartaceo, in
cui peraltro sono stati pubblicati tutti i volumi costituenti il progetto di
autoeditoria scolastica portato avanti dal 2003 nella nostra scuola
(ricordo i sei volumi della Miscellanea di Saggi e Ricerche e i due
volumi dell’Annuario, e aggiungo anche i dieci volumi che contengono i
cicli di conferenze sui temi di approfondimento organizzati dalla
Prof.ssa Licia Fierro). Ma i tempi corrono, anzi cambiano tumul-
tuosamente. Siamo ormai entrati nell’era della “cultura digitale” e i suoi
effetti si fanno ormai sentire dappertutto, anche nella scuola. Ciò sembra
smentire i difensori dei tradizionali e ormai obsoleti sistemi educativi,
come ad esempio Clifford Stoll, per il quale si può senz’altro
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raggiungere un eccellente grado di educazione anche senza computer.2
Non è nostra intenzione addentrarci nella complessa diatriba oggi di
moda, ossia se l’uso del computer incoraggi la passività intellettuale3 o
se il motore di ricerca, mettendo a disposizione dell’utente una quantità
sterminata di informazioni in un tempo immediato, renda più divertente
e affascinante il sapere, stimolando la curiosità e la creatività della
mente umana e al contempo rendendo assai più facile la comunicazione
tra le persone.4
Nell’ottica della “cultura digitale”, rispetto agli e-book, ai padlet e
agli altri prodotti informatici, il libro tradizionale, quello in formato
cartaceo che ha segnato la civiltà umana dopo l’invenzione di
Gutenberg, appare inesorabilmente come un oggetto antiquato,
sorpassato, una cosa da cataloghi di vintage. Ci sorge dunque il dubbio
se non sia il caso di mandare in pensione (non vogliamo usare il brutto
termine “rottamare”, tanto di moda oggi) i “Quaderni” nella attuale
forma cartacea e progettare nuovi “Quaderni del Liceo Orazio” in forma
più innovativa, digitale, come un e-book. Il cambiamento avrebbe
aspetti positivi, perché permetterebbe di risparmiare sui costi di stampa
(non sappiamo però di quanto) e renderebbe più attraente, sul piano
grafico, il prodotto. Però nella forma “dematerializzata” esso rischie-
2 Cfr. Clifford Stoll, Confessioni di un eretico high-tech (High-Tech Heretich,
1999), trad. di Andrea Antonini, Garzanti, Milano 2004 rist., p. 34. 3 Va detto che da autorevoli esperti (linguisti, pedagogisti) si sono levate
preoccupate denunce sulla qualità sia dell’apprendimento ottenuto mediante Internet
sia delle nuove modalità di lettura e scrittura, ove l’immagine prevale sulla parola,
sia delle nuove forme di acquisizione del sapere, ove il ricordare è sopravanzato dal
dimenticare. Un’allarmata denuncia dei rischi a cui la “realtà digitale” espone la
mente umana è nel saggio del linguista Raffaele Simone, Presi nella rete, Garzanti,
Milano 2012. Di “autismo digitale”, come fenomeno, vera patologia, riscontrata
soprattutto nei più giovani, conseguente alla dipendenza da Internet e dai telefonini
cellulari, parla il famoso psichiatra Vittorino Andreoli in La vita digitale, Rizzoli,
Milano 2007, pp. 205-206. Ma già alcuni anni prima il filosofo Umberto Galimberti
aveva osservato la mutazione antropologica della nuova “umanità digitale” nel
segno di una alienante e agghiacciante solitudine (cfr. Umberto Galimberti, La
solitudine di Internet, in “La Repubblica”, 21 luglio 1995). 4 In questo senso si esprimeva trionfalisticamente il capo dei manager della
Microsoft, Steve Ballmer nel discorso che tenne agli studenti della LUISS il 16
ottobre 2006, vd. Steve Ballmer, Così il mondo sarà a portata di tastiera, in
“Panorama”, 23 novembre 2016, pp. 184-188.
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rebbe di essere scarsamente o per nulla visibile: un libro cartaceo
comunque esiste, è un oggetto palpabile, una realtà concreta, un libro
digitale esiste soltanto nello spazio virtuale, in una “realtà” artificiale
che un virus informatico o un blackout di energia può istantaneamente
annientare. Inoltre nel sito del Liceo Orazio i “Quaderni”, se fossero
prodotti in forma digitale, dovrebbero avere una diversa e assai più
evidente visibilità e un aspetto grafico esteticamente migliore e ben più
accattivante della semplice versione in PDF.
I nostri “Quaderni”, che contengono testi diaristici oltre alle ricerche e
saggi di docenti e studenti, sono anche un deposito di memoria, e la
memoria serve a guardare al passato per costruire un futuro di libertà,
affinché l’uomo non ricada più negli errori e orrori della Storia. Un
futuro di libertà può costruirsi soltanto con la libertà del pensiero, con la
libertà della sua espressione e delle scelte individuali. Ma il digitale è
espressione di un pensiero davvero libero, quando l’uso improprio o
addirittura illecito di esso (nelle sue molteplici forme, che talvolta
rasentano i limiti della violenza psicologica) rischia di limitare la libera
espressione della persona?
Poniamoci anche questa domanda: ci stiamo forse avviando a un
mondo senza libri, a biblioteche costituite da computer e DVD e da
chissà quale altro ritrovato della tecnologia?5 E dell’uomo cosa resterà?
Concludiamo queste nostre riflessioni con una bellissima e suggestiva
immagine, quella di migliaia e migliaia di libri che si sollevano da terra
come uccelli e volano via nello spazio celeste, verso un luogo dove
finalmente possano essere e sentirsi amati: la ricordiamo in un profetico
racconto di uno scrittore di fantascienza, John Sladek, che leggemmo
quando eravamo ancora giovani e il nostro mondo non era ancora
digitalizzato.6
5 Questo era del resto lo scenario dell’articolo di Massimo Gaggi, E Google creò un
mondo senza libri, in “Corriere della Sera”, 6 gennaio 2006. 6 John Sladek, Rapporto sulle migrazioni di materiale didattico (A Report on the
Migration of Educational Materials, 1968), trad. di Gabriella Chandler, in Il passo
dell’ignoto. Un’antologia di racconti di fantascienza, a cura di Carlo Fruttero e
Franco Lucentini, Mondadori, Milano 1977, pp. 167-174. Sul racconto vd. l’analisi
di Vincenzo Oliva, testo leggibile sul sito Allontaniamoci da Omelas all’indirizzo:
http://olivavincenzo.blogspot.it/2012/06/i-classici-rapporto-sulle-migrazioni-di.html
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Ringraziamo tutti coloro che hanno collaborato a questo numero dei
“Quaderni” e il Dirigente Scolastico Prof. Massimo Bonciolini che ha
promosso la pubblicazione.
Roma, 3 novembre 2016
Mario Carini
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Sezione docenti
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ANNA PAOLA BOTTONI – ANNA MARIA ROBUSTELLI
L’esperienza di un laboratorio di lettura:
il cronòtopo del castello
Il presente lavoro costituisce una riflessione su una struttura narrativa
ricorrente con notevole frequenza nella narrativa ottocentesca, ossia il
cronòtopo del castello.
Il cronòtopo di per sé è una forma di interconnessione artistica,
attraverso la quale la letteratura si impadronisce dei singoli aspetti di un
tempo e di uno spazio, storico o fantastico. Il termine ha per la verità
origine dalle scienze matematiche e fisiche (ad esempio da A. Einstein)
per indicare l’interconnessione dei rapporti spaziali e temporali. È stato
adattato alla letteratura dallo studioso Michail Bachtin in un saggio del
1937-38, divenendo, a partire dagli anni Settanta, di uso corrente nella
critica letteraria. Bachtin informa che con questo termine vuole
significare «l’inscindibilità dello spazio e del tempo», vale a dire il loro
condizionamento reciproco nelle opere letterarie.
Nel cronòtopo letterario «ha luogo la fusione dei connotati spaziali e
temporali in un tutto dotato di senso e di concretezza»: infatti i
«connotati del tempo si manifestano nello spazio, al quale il tempo dà
senso e misura». Poiché il cronòtopo letterario implica il modo con cui è
trattata da un autore l’immagine dell'uomo (che è sempre cronotopica,
collocata cioè nello spazio e nel tempo), esso riguarda tanto la forma
quanto il contenuto di un’opera.
Durante l’anno scolastico 2015-2016 si sono tenuti incontri di
carattere laboratoriale finalizzati alla lettura, analisi, comparazione e
interpretazione di brani di romanzieri dell’800 e del 900. Le letture
prescelte sono state imperniate sul tema del cronòtopo del castello nella
narrativa popolare. Si è analizzata la descrizione degli ambienti esterni
con la posizione del sito del castello, e quelli interni, soprattutto quelli comprendenti camere ipogee e sotterranei labirintici. I personaggi che si
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muovono nel contesto del castello, soprattutto quando esso ha forma
labirintica, sono i vilains, per eccellenza, della narrativa popolare.
Pertanto sono stati analizzati alcuni tipi di castelli e dimore per
enucleare dalle costruzioni i tipi più caratteristici di vilains, ossia di
antagonisti rappresentanti simbolicamente il male in azione. Gli studenti
hanno potuto constatare che il castello, nella narrativa ottocentesca,
diventa così il teatro della perenne lotta fra il Bene e il Male, incarnato
nel personaggio luciferino del cattivo e negli elementi soprannaturali,
ossia forze misteriose e arcane che perseguitano gli eroi e le eroine dei
romanzi popolari.
L’obiettivo del nostro laboratorio è stato dunque quello di far leggere
e analizzare gli aspetti peculiari di vari cronòtopi di castelli presenti nei
testi letti. I testi sono stati prescelti dalla narrativa dell’Ottocento, colta e
popolare. Gli studenti hanno effettuato poi una catalogazione mediante
apposita schedatura dei vari tipi di dimore presenti nei brani letti,
identificando i siti, la posizione, l’elemento paesaggistico preminente
che funge da contesto della dimora, gli ambienti interni, i loro arredi, in
specie quegli oggetti che vengono “animati” da forze soprannaturali
(come gli specchi, i quadri e le porte). Gli studenti si sono soffermati ad
analizzare i temi del sotterraneo e del labirinto, come luoghi ad effetto
“perturbante” e sedi privilegiate di esseri che complottano contro i
protagonisti o l’umanità intera per realizzare malvagi e folli progetti. Gli
studenti hanno analizzato gli espedienti retorici utilizzati dagli autori dei
brani per creare effetti di angoscia, claustrofobia, di suspense, di
mistero, di epifania del soprannaturale.
Il primo romanzo esaminato dagli studenti è stato I promessi sposi di
Alessandro Manzoni (1842), un testo classico, che da oltre un
cinquantennio fa parte del bagaglio di letture degli studenti del ginnasio.
Tutti ricordano i due castelli ivi ricorrenti, ossia il palazzotto di don
Rodrigo, simbolo del potere del signorotto o “tirannello” del villaggio in
cui abitano Renzo e Lucia, e il castello dell’Innominato, che come una
sorta di nido d’aquila sovrasta la valle su cui si affaccia.
Il castello è un topos del romanzo gotico, e ricco di elementi gotici è
il romanzo manzoniano, soprattutto la prima edizione, il Fermo e Lucia.
Il castello (che dà peraltro il titolo al romanzo che inaugura il genere
della letteratura gotica, ossia Il castello di Otranto dell’inglese Horace
Walpole, pubblicato nel 1764) si caratterizza come cronòtopo per queste
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specifiche modalità: 1) il castello è saturo di tempo passato e di storicità;
2) esso ha un legame storico con il paesaggio e l'ambiente circostante.
Entrambi questi aspetti compaiono nel palazzotto di don Rodrigo. Gli
spazi interni del castello 'dialogano' con il proprietario (cap. VII),
mentre l'esterno ha una dimensione simbolica: si trova su un’altura e
domina tanto un borghetto di contadini che sono anche bravi e gente di
malaffare, quanto, più in basso, il paese di Renzo e Lucia. Rappresenta
dunque un potere che sta in alto e che opprime. Diverso è il
«castellaccio» dell’Innominato: non ha storicità nelle stanze, ma solo
armi. Non ha un passato dietro di sé, sembra non avere né storia né
famiglia, dal momento che Manzoni lo vuole far emergere come figura
gigantesca ed isolata. Esprime la stessa idea di grandezza e di superbia
che viene emanata dal personaggio, un'aspirazione all'onnipotenza, quasi
una sfida a Dio (cfr. anche la figura di Napoleone nelle prime due parti
del Cinque maggio). È circondato da un paesaggio rupestre, privo di
vegetazione e di vita, dove domina il senso dell'inorganico, del
selvatico. Forse per questo è più vicino all'Assoluto.
Uno scrittore americano dell’Ottocento, che conobbe l’opera del
Manzoni, tanto da riecheggiare l’episodio della peste di Milano in un
suo racconto parodistico, Re Peste, ossia Edgar Allan Poe (1809-1849),
sfrutta il motivo del castello per creare atmosfere tipicamente
orrorifiche. Per Edgar Allan Poe il castello è il luogo dell’esclusione,
funge da barriera protettiva contro il mondo esterno e isola il
personaggio dagli altri dandogli una falsa illusione di sicurezza e
intangibilità dai catastrofici eventi esterni. Così è in due racconti che
abbiamo fatto leggere agli studenti, La caduta della casa degli Usher e
La maschera della Morte Rossa. Nel primo racconto il castello che isola
Roderick Usher, con la sorella Madeleine, dal mondo, è il luogo di una
esistenza eremitica e malata, che conduce un individuo ipersensibile
reso estraneo agli altri dalla malattia e dalle personali ossessioni,
fantasmi mentali che lo imprigionano in incubi deliranti. Roderick Usher
vive una realtà di sogno e delirio, verso la quale lo attirano
irresistibilmente una particolare tonalità musicale o un particolare
colore, che esaltano la fascinazione dei suoi sensi. Da questo mondo
onirico nel quale Roderick Usher per sua stessa volontà è prigioniero,
ritorna alla realtà vera durante una notte tempestosa, quando ascoltando
la lettura di un poema cavalleresco fatta dal suo amico ospite, il solo
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ammesso alla sua tetra solitudine (l’io narrante, nel quale è da vedere lo
stesso Poe), percepisce rumori sempre più nitidi e terrificanti che
vengono dalla cripta sotterranea ove, alcuni giorni prima, ha deposto il
corpo dell’amata sorella Madeleine, morta di un morbo sconosciuto e
letale. La porta della sala con un scricchiolio fortissimo si spalanca e il
corpo della povera Madeleine, ritornata alla vita prodigiosamente per
rinfacciare al fratello le esequie premature (altro tema che ricorre
ossessivamente nella narrativa poesca), piomba addosso a Roderick,
avvolgendolo in un abbraccio mortale. Roderick muore all’istante di
spavento e contemporaneamente il vecchio castello degli Usher crolla
nella palude che lo circonda, in una spaventosa frana di macerie
cosparse di muffa. La corruzione corporea della defunta Madeleine,
arrestatasi prodigiosamente per far risorgere la donna animata da un
feroce sentimento di vendetta, ha il suo gigantesco riflesso nella
corruzione che mina la struttura del castello, vecchie crepe che si
allargano sempre di più negli ultimi istanti di vita di Roderick, e trionfa
con la distruzione completa dell’antica dimora degli Usher. In questo
racconto è il castello, spazio delle morbose ossessioni del protagonista,
che vive della vita irreale e alienata di Roderick Usher e muore quando
cessa di vivere il suo padrone.
Un altro racconto ambientato in un altro castello è La maschera della
Morte Rossa, che trae spunto dalla peste manzoniana. In un luogo
presumibilmente dell’Italia rinascimentale il principe Prospero, uomo
egoista e sordo al dolore della sua gente, si ritira nel suo castello,
assieme ai suoi cortigiani, giacché nella landa infuria la terribile “morte
rossa”, un morbo incurabile dai segni e sintomi raccapriccianti. Il
principe, che ha fatto arredare le sette sale del castello con mobili e
tessuti di un diverso colore (vi è la sala verde, quella turchese, quella
arancione, l’ultima è la sala nera ove batte le ore un cupo orologio
d’ebano), passa il suo tempo dando splendide e lussuose feste, incurante
del fatto che i suoi sudditi muoiano falcidiati dalla fame, giacché è
sopravvenuta una atroce carestia, e dal terribile morbo. In questo
racconto il castello simboleggia l’illusione di potere del malvagio
protagonista, illusione che va in frantumi quando il principe Prospero
scorge tra i cortigiani invitati ad un’ultima festa in maschera un
individuo che osa presentarsi con il costume della Morte Rossa, ossia un
bianco sudario. Il principe, mentre tutti i convitati si fermano paralizzati
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dal terrore, gli corre dietro per acciuffarlo, ma, raggiuntolo, nelle mani
non gli resta che il bianco sudario. Poi cade a terra fulminato dalla
Morte Rossa. Il misterioso individuo è proprio la Morte Rossa,
introdottasi come un ladro per ghermire il principe e i suoi cortigiani. La
scena finale che conclude il racconto è la scena della morte collettiva dei
convitati e del crollo del castello del principe, a suggellare il trionfo
della Morte Rossa. Anche in questo racconto il castello, con le sue cupe
atmosfere gotiche e le sue feste che conservano qualcosa di tetro e
lugubre, pur nell’atmosfera dello sfrenato e licenzioso divertimento, ha
la funzione di ribadire l’illusione di potere del principe Prospero e con la
sua distruzione di sottolineare l’invincibilità della Morte Rossa.
Un altro famoso romanzo dell’orrore, Dracula, dello scrittore
irlandese Bram Stoker (1897), il creatore della leggenda del conte
vampiro della Transilvania, presenta una singolare descrizione del
castello del conte. Ogni particolare del castello converge nel creare una
atmosfera di mostruosa e diabolica minaccia. È rappresentato come un
luogo singolare, con un cortile di notevoli dimensioni ad archi rotondi,
con passaggi molto oscuri. Vi è un grande portale d’accesso, i muri sono
ornati con figure in pietra, ma le sculture sono corrose dal tempo e dalle
intemperie. Le “mura accigliate” e le “buie finestre” umanizzano il
paesaggio conservando un’atmosfera cupa e tetra, il clangore di catene e
il rumore di massicci catenacci suggeriscono l’idea di una inaccessibile
prigione e l’alta, ieratica figura del conte Dracula che appare tutta vestita
di nero ispira al giovane ospite del castello una sensazione di
irrefrenabile paura.
Di un altro maestro della letteratura horror, l’americano Howard
Phillips Lovecraft (1890-1937), il “Solitario di Providence”, autore di
numerosi racconti fra cui quelli del ciclo di Chtulhu, abbiamo fatto
leggere il racconto L’estraneo, proprio per la descrizione che contiene
del castello. È la storia della terrificante scoperta che compie il
protagonista, un uomo che vive isolato dal mondo per una sua misteriosa
ragione, proprio su se stesso: quel repellente essere dall’aspetto alieno
che gli si avvicina sempre più a ghermirlo inesorabilmente in realtà è la
sua stessa immagine, riflessa “sulla levigata superficie di uno specchio”.
La terribile scoperta ha per contesto, anche questa volta, un castello dai
molteplici segni di decadimento e di morte, rappresentati come nella
migliore narrativa gotica.
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Questa è la descrizione del castello lovecraftiano che i nostri studenti
hanno analizzato. L’atmosfera gotica è creata dalle stanze buie tra
opprimenti tendaggi e vecchi volumi. All’esterno l’idea del putrido e
della decomposizione è data dai boschi con alberi grotteschi e coperti di
malerbe che agitano rami silenziosi a un’altezza irraggiungibile
(ulteriore idea del gigantesco), dal musco putrido e dai neri alberi muti.
L’idea del gigantesco è ribadita dal castello vecchio e orribile, gremito
di corridoi neri, con soffitti così alti che l’occhio doveva fermarsi alle
ombre e alle ragnatele (in questi particolari Lovecraft sfrutta l’idea del
buio associandolo ad animali ripugnanti). L’idea del disfacimento, della
rovina e della morte è suggerita al lettore dalle pietre dei camminamenti
in rovina, umide, dall’odore disgustoso emanante come da cadaveri
ammucchiati da molte generazioni. La torre che superava il fogliame, in
rovina, suggerisce l’idea della grandiosità legata alla morte. L’idea del
buio persistente è suggerita dal particolare che non c’era mai luce nel
castello e fuori (a causa dell’altezza degli alberi). L’idea della solitudine
in cui vive il protagonista del racconto, è data dal pullulare di topi, ragni
e pipistrelli, animali generalmente considerati come ripugnanti, che
coabitano con il protagonista. Infine, l’idea della morte è evocata dalle
ossa e dagli scheletri che affollano una parte delle cripte.
Molti altri testi potremmo citare a proposito del cronòtopo del
castello, ma questi ci sono sembrati i più significati per strutturare un
percorso di letture con i seguenti obiettivi:
far conoscere agli studenti alcuni testi della narrativa gotica e
del romanzo dell’Ottocento;
abituare gli studenti al concetto di cronòtopo;
far cogliere agli studenti il nesso esistente tra personaggio (in
genere negativo, il vilain) e la sua dimora, come riflesso degli
aspetti più inquietanti della sua personalità;
abituare gli studenti ad analizzare le descrizioni, intese come
identificazioni di luoghi caratteristici della narrativa, e ad
elaborare descrizioni.
Il percorso di letture sul cronòtopo del castello è stato svolto in una
classe di quarto ginnasio nell’anno scolastico 2016-2017.
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MASSIMO CALDERONI – WALTER FIORENTINO7
Tragedia e conoscenza Teatro come palestra di valori identificativi
Introduzione
Nella tragedia il drammaturgo elabora, corregge e modula dall’interno
l’orizzonte d’attesa del pubblico che partecipa allo spettacolo teatrale. Il
teatro costituisce, infatti, un luogo rappresentativo comunitario in cui ci
si riconosce e nel quale il poeta, nel reinterpretare il mito, esprime la sua
personale visione della realtà del suo tempo e del mondo: il mito è la
memoria di un passato che condensa in sé religione e norme morali,
basamento fondante dei valori collettivi. La tragedia, pertanto, ritualizza
nell’alveo delle festività religiose quel sistema di valori etici, culturali e
politici che sostengono l’impianto civile sul quale edificare nuovi
elementi costitutivi. Attraverso il pathei mathos, il poeta guida
l’emotività del pubblico indirizzandolo a vedere, ascoltare ed
immaginare ciò che ha definito all’orizzonte delle sue aspettative. La
mediazione orale favorisce il processo di ‘paideia politica’: il pubblico
assume il punto di vista proposto dall’autore e si lascia guidare ad una
nuova osservazione dell’agire umano. I temi affrontati e rappresentati
sulla scena richiamano realtà che trascendono l’occasione e
costituiscono il fondamento di una riflessione superiore su temi di stretta
attualità. Gli antichi valori trasmessi dalla mitologia vengono confrontati
con quelli che la città è impegnata a costruire e di cui il coro si fa
portavoce; il drammaturgo è il massimo educatore del popolo e lo
spettacolo tragico, organizzato dallo stato e strumentalizzato dalle forze
politiche che ne curano l'allestimento, viene a configurarsi come
rappresentazione dei valori base della comunità cittadina e come veicolo
li diffonde e li accredita, condizionando l'opinione pubblica per
elaborarne il consenso. Valori che nel momento stesso in cui vengono
7 Il Prof. Walter Fiorentino è docente di latino e greco presso il Liceo classico
Gaetano De Sanctis di Roma.
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posti all’attenzione del pubblico sono accreditati come validi,
diventando pilastro di quella stessa società. Nei drammi si devono saper
cogliere le infinite sfumature socio-politiche che derivano dal loro
contesto storico, grazie alle quali poter realizzare una comprensione più
profonda delle vicende che regolavano la società nel suo essere
comunità. L’arte drammatica ad Atene dunque è saldamente legata al
gioco delle forze politiche che appaiono sempre in grado di influenzarla.
Il teatro svolge la preziosa funzione di riaccendere il sentimento di
appartenenza tra gli spettatori e, soprattutto, di offrire loro, a livello
comunitario e socialmente accettabile, l'opportunità di esternare i
sentimenti repressi tramite la liberazione controllata dell'io. Le esigenze
emotive del pubblico sono cioè riconosciute e soddisfatte sulla scena; al
contempo, però, riassorbite com'erano in una struttura oggettiva più
ampia, vengono svuotate di ogni pericolosa forza d'urto e rese inefficaci.
È questa, infine, la pathematon katharsis aristotelica, che si articola
nelle sue due componenti, l'una psicologica, di soddisfazione e
rasserenamento, l'altra artistica, piacere della mimesi.
L’essenza della tragedia è dunque la problematizzazione dei grandi
temi politici, sociali, morali, che trovavano poi l’espressione più matura
nel campo filosofico.
Duplice è dunque la funzione a cui il dramma assolve, quella di
consolidare nella classe egemone la coscienza del suo ruolo preminente,
giustificandola in termini ideali, e quella paideutica, impedendo la
formazione di ideologie alternative e pericolose per gli equilibri sociali.
Tragedia e conoscenza. L’Edipo re sofocleo.
Il rapporto che lega l’azione drammatica con il processo di
conoscenza si innerva su un piano prevalentemente etico e politico.
Nella sua essenza tematica, la scena tragica è la struttura di recupero
cognitivo sulla quale si colma il vuoto di sapere che è posto all'inizio
dell'azione tragica: nell'evoluzione tematica si abbrevia la distanza tra
l'inconsapevolezza dei personaggi e la piena consapevolezza del
pubblico spettatore che è già a conoscenza della linea evolutiva
tematica. In questo processo gnoseologico si misurano e si confrontano
la validità metodologica e l'efficacia dei diversi metodi cognitivi
convergenti alla gnomē e al phronein. Nell’Edipo re Sofocle guida il
21
protagonista ad un’indagine di ricerca che lo porterà ad una
consapevolezza che è misura della propria rovina. Il sapere tragico e un
sapere della finitezza, ma è anche un sapere della necessita; i due pilastri
della tragedia sono il rapporto necessita-liberta, a cui si ricollega il tema
della colpa e dell’innocenza. In Sofocle la conoscenza e una forma di
eroica tlēmosynē, di sopportazione: la conoscenza, connaturata ai
desideri dell’uomo, uscira sconfitta dalla rivelazione, ma dalla sconfitta
l’eroe avra la possibilita di riscattare se stesso e il suo genos. Il poeta
tragico nello scandagliare i recessi del cuore e dell’anima dei suoi
personaggi, scopre che la percezione del destino si realizza a livello
soggettivo: nella sua performance scenica si sviluppano dei
ragionamenti che rimandano all’idea che il principio di “dikē” non può
essere calpestato (l’effetto che il tragediografo voleva suscitare nasce
dal fatto che le parole e i ragionamenti della realtà politica democratica
di Atene vengono usati per sostenere la necessità di punire la hybris, per
far valere la logica che sostiene i principi dell’etica tradizionale).
Sembra assistere ad una sorta di raccomandazione rivolta alla polis
democratica perché non venisse meno ai principi, morali e religiosi, che
sostenevano la democrazia ateniese. La vera saggezza si realizza
all’interno di un sapere etico in base al quale l’uomo determina il suo
valore non con una affermazione individuale, ma con quelle doti che
orientano l’individuo all’interno del complesso sociale. Esigenza di
giustizia, necessità di affermare i diritti della comunità, pathei mathos,
hybris e sōphrosynē, dikē, nomoi, democrazia, ansia e paura: questi sono
alcuni dei temi di fondo dell’Edipo Re sofocleo, questo il dramma
dell’uomo che con consapevolezza inconscia va incontro al proprio
destino. I personaggi protagonisti si fanno portavoce di una congerie di
sfumature di valori che attengono alla sfera religiosa, politica ed etica:
nell’essere antagonisti mettono in essere quelle dinamiche che hanno in nuce il senso del loro destino e della loro sconfitta. Gli eroi tragici sono
di solito personaggi che in una serie di prove si confrontano con la
sventura e con il dolore e conservano la loro grandezza anche quando
vengono drammaticamente sconfitti. L’uomo, come viene rappresentato
nell’idea sofoclea, non ha scelta; l’ambivalenza del reale sottintende
sempre una colpa. La libertà riflette solo il sentimento passionale,
attraverso il quale realizzare la conoscenza. Ciò che dunque limita, pur
senza determinarla, la libertà di scelta e di azione è nell’orizzonte
22
drammatico la necessità sovrannaturale che, intrecciandosi con la
causalità umana, dà vita alla colpevolezza tragica e dunque vincoli
intenzionalmente imposti da altri agenti. Al centro c’è l’eroe che soffre
vittima della conseguenza consapevole delle sue scelte, schiacciato dalla
coscienza del mancato conforto del presente e del futuro. Il suo
isolamento matura in questo vuoto abissale che gli si spalanca
all’orizzonte al prezzo di un solitudine assoluta. La decisione e la
responsabilità che l’accompagna sono implicate alla libertà d’azione
dell’eroe, che è cieco di fronte al reale: nello spazio chiuso della scena,
nella definizione drammatica incardinata sull’inganno dello spettacolo,
questa solitudine viene ‘colorata’ dalla dimensione religiosa, perché
giustifichi questa inesorabilità del destino e della cecità degli uomini.
L’eroismo tragico si matura sul campo di battaglia dell’io intimo, nella
presa di coscienza della propria condizione, nell’acquisizione della
conoscenza. L’azione di un eroe è sempre il frutto di una scelta
personale e del volere degli dei: è quella che Lesky ha definito doppia
motivazione delle azioni, ricondotta alla disposizione divina e alla
volontà umana, che contrappone i progetti degli uomini e ciò che sfugge
alla loro comprensione nella loro coscienza, senza che emerga la
responsabilità individuale ma solo la consapevolezza dell’intollerabilità
della situazione. L’eroe maturerà la propria dignità nell’affrontare e nel
subire il peso delle azioni realizzate da se stesso e governate anche dal
dio. L’esclusione che accompagna l’eroe è senza rimedio e avvia alla
morte. La regalità dei personaggi spesso li allontana dalla verità e li
lascia soli di fronte a quello che a tutti è chiaro, dagli altri protagonisti
della scena al pubblico spettatore: la propria azione sta nel risvegliare
lentamente la coscienza in modo inconsapevole, sfiorando la follia.
L’eroe è solo, ma è la presenza degli altri a marcare la sua
emarginazione e spesso si definisce nel dialogo, inefficace, alla ricerca
di conforto nel rapporto con gli altri. Rapporto che manca: nella tragedia
sofoclea i personaggi non si parlano quasi mai ma si rivolgono solo a
confidenti e al coro; Edipo isolato com’è, fa solo discorsi-monologo,
non entra quasi mai in comunicazione con gli altri personaggi. Dunque
è uno stato di isolamento quello di Edipo che ha bisogno degli altri per
essere definito. Sofocle probabilmente vuole problematizzare il tema
dell’emarginazione attraverso la drammatizzazione essenziale scenica
dell’esclusione a cui procede la città. La figura di Edipo, quasi fosse un
23
capro espiatorio, un pharmakos, si pone come medium di un percorso di
salvezza che il dio realizza nell’uomo. La tragedia è dunque
ritualizzazione nello spettacolo delle ragioni che la comunità andava
opponendo al caos della città di Atene, segnando la contraddittoria e
ambigua scelta degli uomini vittime di una cecità che li vedeva
soccombere alla peste e che li avrebbe condotti alla disfatta8.
La consapevolezza dell’insufficienza del logos di fronte alla realtà,
porta il coro a dire nell’Edipo Re ai vv 1347-1348:
Misera è la mente tua come la tua sorte;
come avrei voluto che tu non sapessi mai.
C’è una messa in crisi della conoscenza, del sapere del saggio, in
nome di un altro sapere. Insomma vengono messi in crisi la polis come
istituzione e la fiducia nel logos che la sostiene. La vera saggezza si
realizza all’interno di un sapere etico in base al quale l’uomo determina
il suo valore non con una affermazione individuale, ma con quelle doti
che orientano l’individuo all’interno del complesso sociale.
Il rifiuto della saggezza degli uomini e l’invito a seguire le norme del
popolo, l’identificazione della saggezza con l’aidōs, sono conseguenza
di una nuova concezione alla cui base c’è una presa di coscienza
dell’instabilità e della vanità delle cose umane.
In questi versi Sofocle completa la sua indagine sui principi che
regolano il processo dell’atto conoscitivo. La sofferenza e il dolore sono
la conseguenza di un’indagine che si spinge al di là della finitezza
umana, una curiosità che quasi sembra macchiarsi della colpa della
hybris, inserendosi nel solco tracciato da Odisseo.
L’eroe tragico trova unico margine per realizzare la propria libertà,
accettando il proprio destino e comprendendo che la norma della vita è il
dolore, l'unico veicolo possibile della conoscenza.
Sofocle si muove su questa linea che lo conduce ad una fondamentale
riflessione sul sapere: se il processo tragico aveva come scopo primario
la catarsi, dalla riflessione che ha mosso il nostro discorso, possiamo
8 Ipotesi accreditata per la datazione dell’Edipo Re di Sofocle è il 430 a.C.:
un’opinione prevalente vede nell’epidemia descritta in principio di tragedia un
richiamo alla peste di Atene scoppiata nel 430 a.C., legittimando questa come data
di rappresentazione del dramma.
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dire che la stessa si realizza nel momento in cui accettiamo la finitezza
delle cose umane, che cercano una propria dimensione in rapporto al
divino e al proprio ruolo nella società.
Tragedia e conoscenza. Spunti euripidei.
A proposito della poetica euripidea, dello sguardo che posa sulla polis
attraverso i suoi drammi, è interessante lo spunto offerto da Dodds nel
celebre saggio Euripide the irrationalist. Lo studioso inglese, nel
ricordarci, con Aristotele, che la tragedia deve rappresentare “uomini in
azione e non teorie in discussione”, accosta, con un volo ardito e di
grande acume, Euripide e Pirandello definiti “philosophical dramatist”,
laddove Sofocle era stato definito semplicemente “dramatist”. Sebbene
l’accostamento proposto dallo studioso inglese miri, probabilmente, a
segnalare una caratteristica esteriore dell’azione teatrale dei
drammaturghi, consistente nell’unire la prassi del poiein teatrale alla
riflessione del filosofo propriamente detto – Dodds peraltro non entra
nello specifico dell’analisi del pensiero filosofico – credo che la
suggestione possa essere seguita addentrandosi, nel breve spazio di
alcune riflessioni, nel senso di questo filosofare. In altri termini, quali
conseguenze, nell’alveo delle regole del teatro antico e della sua
ricezione da parte di un pubblico precisamente addestrato, porta con sé
l’aggettivo philosophical? Nel rispondere alla domanda si può, breve-
mente, tornare alla memoria letteraria di Dodds. Perché tra tanti
drammaturghi filosofi cui accostare Euripide, alla mente dello studioso
giunge proprio Pirandello? Può davvero la suggestione rimanere ferma
alla mera somiglianza di metodo? Euripide e Pirandello, al di là del
metodo di composizione drammaturgica, sono uomini della crisi, il cui
pensiero si fa prassi poetica e drammaturgica passando attraverso le
strettoie di un mondo in sofferenza.
Poco importa al fine di questa piccola comparazione soffermarsi sulle
evidenti ed enormi differenze - in tutti i campi, non solo quello storico
sociale - del contesto in cui si sono mossi i poeti; credo che, Dodds
parlando di philosophical dramatist, intendesse proprio il filosofare in
epoca di crisi.
Euripide, seppure di poco più giovane di Sofocle, appartiene ad
un’altra età intellettuale. Il suo teatro accoglie in sé la disillusione (ma
25
anche l’ebbrezza e la vitalità) di chi, non avendo conosciuto la felice
pienezza di cui sembra aver goduto Sofocle, si muove disorientato nel
disinganno. Nello stretto legame tra teatro e conoscenza, Euripide si
pone come portavoce di dottrine nuove ed è responsabile, se così si può
dire, di quello che si riteneva il loro effetto disgregatore. Quanto detto
sembra essere avvalorato dalla lettura di Aristofane che, pur nell’alveo
di una strategia deformatrice, porta sulla scena una lettura del
personaggio pubblico Euripide che doveva essere comune al pubblico.
Insomma, non solo Euripide, come dice Aristotele, “mette in scena gli
uomini quali sono” ma li fa muovere in un contesto nuovo che è, per
l'appunto, quello della crisi. Torniamo per un istante all’accostamento
proposto da Dodds. Quando Pirandello entra nelle maglie del dramma
borghese, ne conserva i personaggi, li rappresenta assieme alle loro
miserie e idiosincrasie, li fa muovere nei luoghi tetri della pupazzata
borghese; allo stesso tempo, però, sottrae loro aria e terra sotto i piedi
attraverso un crudele gioco di dissoluzione delle convenzioni della
forma teatrale stessa. Non li annichilisce negandone l’esistenza o
sostituendoli con nuovi personaggi figli del nuovo tempo, ma li soffoca
pian piano restringendo, anzi distruggendo, il palcoscenico nel quale
erano abituati a muoversi. E le armi di tale distruzione sono, mutatis
mutandis, i portabandiera della scepsi del novecento: Freud, Einstein,
Heisenberg.
Euripide, dal canto suo, sprigiona la veemenza delle nuove idee
all’interno della koiné del mito; lo spazio teatrale, poi, pur senza essere
modificato risulta percettibilmente diverso agli occhi dello spettatore.
Occorre quindi superare la prospettiva parziale del lettore moderno, per
cercare di cogliere gli aspetti spettacolari ed emotivi che potevano
coinvolgere e impressionare lo spettatore del tempo, e tra questi
certamente rilevante risulta essere la presentazione di personaggi
straniati. Un eccellente punto di osservazione è offerto dal modo in cui
Euripide rielabora la saga degli Atridi nell’Ifigenia in Aulide, in
particolar modo la figura di Agamennone. Questo personaggio,
complesso e problematico, è ben diverso dall’Agamennone eschileo,
sebbene si muova all’interno di un mito sostanzialmente intatto. L’Atene
democratica di Eschilo, infatti, ravvisava ancora in Agamennone il
sovrano che, pur legato al popolo da saldi impegni, si levava al di sopra
di esso. Nel dramma euripideo non è più altro se non un ambizioso
26
arrivista, cui difettano completamente le doti del condottiero e che
diviene perciò trastullo nelle mani della massa scriteriata. È mosso da
impulsi opposti, ora vuole salvare la figlia cedendo alla voce
dell’affetto, ora vuole sacrificarla per seguire la ragione di stato.
Lontano anni luce dalla statuaria disperazione del personaggio di
Eschilo che, pur schiacciato dal giogo della necessità, ottempera al
proprio dovere di sovrano giusto davanti a Zeus. Euripide, al contrario,
ci propone la tragicità del debole, in posizione esteriore di comando, ma
con la vocazione interiore del servo, perché privo di quel nerbo che
garantisce la vera libertà. A seconda dell'interlocutore si scopre ogni
volta diversamente: debole, pavido, cinico e sincero nell'amore tenero
per la figlia ma anche nel senso delle responsabilità di capo. Ogni volta
che sembra accreditarsi nella condizione del momento finisce poi per
rigettarla. Non ha il coraggio del gesto eroico seppure inutile di
personaggi che offrono la loro vita in cambio di quella dei giovani, non
sa accettare la sorte e guardare al sacrificio della figlia come una
necessità dolorosa ma nobile; non sa se respingerla e assumersi la
responsabilità del rifiuto di fronte al mondo.
Vive nel buio e non nella luce; vede della realtà solo una faccia
astratta inconsistente. Non capisce, non conosce, né, dobbiamo
immaginare, favorisce ai suoi concittadini altro tipo di conoscenza se
non una conoscenza in crisi. In che cosa riesce Agamennone? A
passività assoluta, ignoranza assoluta. Il sacrificio della figlia si compirà
dietro suo ordine e allo stesso tempo suo malgrado, e avrà solo, per
forza di cose, il colore di un bieco assassinio. Agamennone è per
Euripide il prototipo di simili figure ondeggianti. Volle che gli spettatori
conoscessero subito anche lui, nel prologo, e la sua fiacchezza interiore;
appare infatti non solo frastornato, ma addirittura incapace di controllare
il proprio linguaggio. Il «non so se dire o non dire» piuttosto che il
«cosa dirò» che si incalzano in un passaggio cruciale dell’Ifigenia in
Aulide, suonano ormai come un tic, un irresistibile automatismo del
personaggio. Euripide, insomma, scriveva invece un dramma umano, e
vedeva i suoi personaggi come uomini del suo tempo nei quali cadeva il
riflesso di una crisi gnoseologica che dominava il panorama intellettuale
del suo tempo. Un bagliore di “antica bellezza” giunge dal ricordo dei
valori etici incarnati dai giovani, come Ifigenia stessa o Meneceo nelle
Fenicie. Il sacrificio dei personaggi giovani rappresenta il malinconico
27
canto di un modo che fu e che può essere vagheggiato dai giovani e
ammirato dal pubblico, ma sempre solo dalla prospettiva nostalgica di
chi si accomiata da un mondo che non c’è più.
28
29
MARIO CARINI
“Per far più lieti i tristi giorni…”:
il diario della prigionia in Germania
di Ugo d’Ormea
Esprimo la mia profonda gratitudine al Dott. Aldo d’Ormea che, mettendomi a
disposizione il diario di Suo padre, mi ha dato la possibilità di conoscere una
esperienza di vita dall’alto valore morale e di ospitare il testo del diario, che
costituisce un documento storico di prima mano, sulle pagine dei “Quaderni del
Liceo Orazio” (M. C.).
INTRODUZIONE
Sommario:
1) I memoriali dei militari italiani nella seconda guerra mondiale.
2) L’8 settembre e gli Internati Militari Italiani. La vita nei Lager.
3) Il diario di Ugo d’Ormea.
4) I criteri di trascrizione e il commento.
1) I memoriali dei militari italiani nella seconda guerra mondiale.
Soldati di due nazioni che in un terribile conflitto sui fronti d’Europa,
d’Africa e di Russia, combattono con spirito fraterno e lealtà
cameratesca1 contro i nemici, angloamericani e russi, da ormai più di tre
anni, stretti da un apparentemente indistruttibile “patto d’acciaio”; un
improvviso e incredibile comunicato del governo che, una sera di
settembre, annuncia alle nostre truppe la cessazione delle ostilità verso i
nemici del giorno prima e ordina di reagire ad eventuali attacchi “da
qualsiasi parte provengano”, ossia da parte dell’alleato del giorno prima;
la sorpresa e il turbine di sentimenti che piombano sui soldati italiani,
1 Non sempre però lo “spirito cameratesco” (leitmotiv della propaganda fascista)
venne rispettato fra i due eserciti. Soprattutto da parte tedesca vi furono talvolta
soprusi e angherie ai danni dei nostri soldati, come, ad esempio, durante la tragica
ritirata di Russia.
30
esultanti per l’illusoria speranza della fine della guerra e
immediatamente dopo sconcertati per la fuga del re e dello stato
maggiore e la totale mancanza di ordini e disposizioni dagli alti
comandi; il caos e la dissoluzione dei reparti italiani all’insegna del
“Tutti a casa!”, nel Paese e nei territori fuori d’Italia; il precipitoso
ritorno a casa di ufficiali e soldati, camuffati alla bell’e meglio con abiti
civili; l’abbandono delle caserme e dei magazzini militari al saccheggio
delle folle; la reazione spietata dei tedeschi, gli ex alleati traditi, che
prima promettono falsamente agli italiani un rapido rientro in patria, poi
esigono il disarmo totale delle truppe rimaste e pongono ai soldati il
perentorio dilemma: “O con noi o contro di noi!”; le sparatorie e gli
scontri armati che scoppiano ovunque tra gli ex alleati, i massacri, come
quello di Cefalonia, con cui i tedeschi spengono la resistenza dei reparti
italiani; la cattura e la deportazione sui carri bestiame di ottocentomila
militari italiani, avviati ad affrontare mesi di patimenti e umiliazioni nei
campi di prigionia tedeschi. Questa fu la sorte di tanti nostri
connazionali, gettati allo sbaraglio nella tragedia di una guerra terribile
che avrebbe dovuto soddisfare le megalomani ambizioni di Mussolini,
ma che rivelò la sostanziale impreparazione dell’esercito e della nazione
mascherata dalla tronfia e vacua retorica del regime. A cui si aggiunse,
per complicare la situazione, l’inganno dell’armistizio, sfacciatamente
smentito alle autorità diplomatiche tedesche dal governo e dai suoi
ministri quando esso era già stato firmato, il 3 settembre, a Cassibile.
Catturati come una appetibile preda da sfruttare nelle fabbriche e nelle
fattorie tedesche, disprezzati e umiliati perfino da donne e bambini
indottrinati dal nazismo, additati come “traditori” e “Badoglio-truppen”
e anche con epiteti ben peggiori, sottoposti alla rigida disciplina dei
campi che prevedeva durissime punizioni per un nonnulla e si
aggiungeva alla fame, alle malattie, alle privazioni, i prigionieri italiani
vissero un inferno inenarrabile nella più totale dimenticanza di chi
avrebbe dovuto e potuto assisterli. Una somma di esperienze
drammatiche e spesso terribili il cui ricordo inevitabilmente si sarebbe
perduto nell’oblio del tempo, se non fosse stato fissato sulla carta in
centinaia lettere, memoriali, diari, taccuini: pagine e pagine che
compongono l’immenso libro, scritto con l’inchiostro delle lacrime e del
sangue, della deportazione degli internati militari italiani, IMI, in
Germania durante l’ultima guerra mondiale.
31
I diari scritti dai deportati durante la prigionia, le loro lettere e i
ricordi fissati sulla carta degli ex deportati costituiscono una parte di
peculiare importanza tra le fonti storiche per la ricostruzione di un
periodo così tragico nella storia d’Italia e d’Europa, sia perché sono
testimonianza delle dolorose esperienze vissute tra i reticolati sia perché
ci rendono consapevoli dell’enorme valore che ebbe il loro “No” ai
fascisti e nazisti come contributo di una “Resistenza senz’armi” alla
lotta di Liberazione in Italia. E se già nel 1989 si poteva scrivere nella
prefazione ad un diario di prigionia in Germania che “per gli esaltanti
risultati conseguiti, oggi vediamo quale contributo fondamentale ha
potuto dare l’umile diaristica per la ricomposizione sofferta del quadro
generale di quella tragica realtà che sta uscendo dalla fase del semplice
ricordo e del pensoso racconto, per diventare pagella di Storia ed
oggetto di seria critica storica”,2 v’è da dire che quasi trent’anni dopo
l’internamento degli italiani in Germania costituisce un campo sempre
più ampio e coltivato della ricerca storica, un settore che si arricchisce
ogni giorno di più di saggi, ricerche, scoperte e nuove testimonianze,
come il diario di Ugo d’Ormea che in questa sede abbiamo pubblicato.3
E noi affidiamo il diario di Ugo d’Ormea a queste pagine affinché sia
letto soprattutto dai giovani e meditato e discusso con i loro insegnanti.
Sono i diari che ridanno voce a chi ormai, per il naturale decorso della
vita, non può più raccontare, giacché occorre sempre ricordare, occorre,
per ripetere le parole di un illustre deportato, lo storico Vittorio
Emanuele Giuntella (1913-1996), “parlare dei Lager perché le loro porte siano chiuse per sempre, perché non vi siano più reticolati nel
2 Sono le parole dell’Avvocato Antonio Sanseverino, Presidente del Gruppo
Ufficiali Internati nello Straflager di Colonia, tratte dalla sua prefazione al diario di
Tomaso Civinelli, Perché? Per chi? Per che cosa? Diario di prigionia in Germania
di un italiano qualsiasi, Editrice Fortuna, Fano 1989, p. 6. 3 Il diario di Ugo d’Ormea è già apparso sulle pagine del quotidiano “Il Centro”,
cronaca di Pescara, 28 novembre 1999 («26 febbraio 1944: ho mangiato oggi una
coscetta di topo…». Diario del tenente d’Ormea nel campo di concentramento) e nel
lavoro di Fausto Melissano, Triste viaggio nei “paesi di sabbia” in “Quaderni del
Liceo F. Capece”, n. VIII, 2004, pp. 205-218. Nuovamente da noi trascritto dal testo
originale, in questa sede si pubblica con introduzione e commento. Articoli sulla
figura di Ugo d’Ormea sono apparsi sul quotidiano “Il Centro”, numeri del 28
novembre 1999, 27 gennaio 2001, 2 dicembre 2010. Ringraziamo il Dott. Aldo
d’Ormea per questi materiali che cortesemente ci ha fornito.
32
mondo, parlare perché i morti non possono parlare e solo i
sopravvissuti possono farlo anche per loro.”
2) L’8 settembre e gli Internati Militari Italiani. La vita nei
Lager. Il diario di Ugo d’Ormea deve essere collocato nel contesto
storico da cui fu originato, che è quello della partecipazione dell’Italia
alla seconda guerra mondiale. Vicende tragiche, che furono segnate
dall’armistizio dell’8 settembre, causa della divisione del Paese in due
tronconi, il centro-nord occupato dai tedeschi e il sud in mano alle
truppe alleate.
L’8 settembre 1943 rappresenta una delle date indelebili della storia
d’Italia: è il giorno dell’annuncio del famoso armistizio di Badoglio, che
fu accolto con entusiastica gioia dalle truppe italiane e con sdegno e
rabbia dai tedeschi che si ritennero traditi dall’alleato col quale, in nome
del Patto d’Acciaio, avevano combattuto sui fronti di Grecia, Africa e
Russia. In virtù di quell’armistizio, segretamente firmato dal generale
Castellano, emissario di Badoglio, e dagli Alleati in Sicilia, a Cassibile,
il 3 settembre e annunciato ufficialmente alla radio dallo stesso Badoglio
con un proclama il giorno 8 successivo4 (la voce era registrata su disco,
4 Sull'armistizio dell'8 settembre la pubblicistica è ormai amplissima. Ci limitiamo a
citare: Ruggero Zangrandi, 1943: 25 Luglio – 8 Settembre, Feltrinelli, Milano 1964;
a cura di Mario Cervi, L'8 settembre (collana “I documenti terribili”, n. 11),
Mondadori, Milano 1973; Ettore Musco, La verità sull'8 settembre 1943, Garzanti,
Milano 1976 (I ed. 1965); Silvio Bertoldi, Settembre 1943: il significato di una data,
in “Storia Illustrata”, n. 310, settembre 1983, pp. 24-30; Filippo Stefani, 8 Settembre
1943. Gli armistizi dell'Italia, Marzorati Editore, Milano 1991; Gaetano Afeltra, I 45
giorni che sconvolsero l'Italia, Rizzoli, Milano 1993; Renzo De Felice, Mussolini
l'alleato, vol. II La guerra civile 1943-1945, Einaudi, Torino 1997 (cap. La cata-
strofe nazionale dell'8 settembre, pp. 72-101); Silvio Bertoldi, Apocalisse italiana,
Rizzoli, Milano 1998; Elena Aga Rossi, Una nazione allo sbando, Il Mulino,
Bologna 2003, nuova ed. ampliata (I ed. 1993); Marco Patricelli, Settembre 1943. I
giorni della vergogna, Laterza, Roma-Bari 2009; Gianni Oliva, L'Italia del silenzio,
Mondadori, Milano 2013. Il famoso saggio di Ernesto Galli Della Loggia, La morte
della patria (Laterza, Roma-Bari 1996), imputa all'8 settembre la mancanza, ancor
oggi, a suo giudizio, evidente, di una salda coscienza nazionale degli italiani. Assai
interessante il saggio di Paolo Emilio Petrillo, Lacerazione / Der Riss, La Lepre Edi-
zioni, Roma 2014, che studia le reazioni psicologiche dei tedeschi all'annuncio
dell'armistizio, quali fattori di pregiudizi verso il nostro Paese che sopravvivono
ancora oggi e condizionano l'unità europea.
33
giacché il generale e maresciallo d’Italia era fuggito assieme al re
Vittorio Emanuele III e allo Stato Maggiore da Roma, diretto a Pescara
per ivi imbarcarsi e raggiungere il porto sicuro di Brindisi), le truppe
italiane dovevano cessare qualsiasi attività bellica contro i nemici del
giorno avanti, ossia gli angloamericani, ma anche difendersi dagli
attacchi venuti da qualsiasi altra parte (ossia dai tedeschi). Una caotica e
allegra faciloneria si impossessò allora di tutto l’esercito, che credette
stoltamente alla immediata fine della guerra (“Tutti a casa!” fu il motto
che imperò in quei giorni), ma non aveva tenuto conto della ovvia
reazione dei tedeschi, alle cui spalle l’armistizio era stato concluso. Gli
ufficiali, essendo i generali fuggiti o nascosti nei conventi, non ebbero
ordini da dare ai loro soldati, anzi fecero a gara con i soldati per gettare
via le armi e le divise e prendere la via di casa in abiti civili, le caserme
vennero abbandonate, i magazzini saccheggiati.
Subito si scatenò, immediata e rabbiosa, la reazione di Hitler, che
accusò gli italiani di tradimento e che aveva sempre diffidato del
governo di Badoglio, subentrato a Mussolini dopo le sue dimissioni e
l’arresto a Villa Savoia il 25 luglio 1943: le truppe tedesche, forti di 17
divisioni perfettamente equipaggiate e organizzate, fatte affluire dal
Brennero durante il governo Badoglio, ebbero buon gioco nel disarmare
l'esercito italiano, numericamente più forte ma povero di mezzi e
soprattutto privo di ordini e direttive.
Pochi e isolati furono gli episodi di resistenza degli italiani ai
tedeschi, come l’eroica difesa di Porta San Paolo a Roma. Alcuni di
questi episodi costarono agli italiani un terribile tributo di sangue, come
il massacro della divisione “Acqui” a Cefalonia. Nel frattempo i soldati
italiani, quelli che non avevano fatto in tempo a fuggire o non erano
passati nelle file dei partigiani, vennero catturati dai tedeschi e rinchiusi
in caserme o in appositi campi di raccolta.
La dissoluzione dello stato italiano per le vicende armistiziali fruttò ai
tedeschi un bottino enorme in mezzi e, soprattutto, uomini, destinati a
diventare i nuovi schiavi del Terzo Reich. A seguito del totale collasso
delle nostre strutture militari, i tedeschi (che già da tempo avevano
approntato un piano, l’operazione Alarich, per occupare l’Italia, nel caso
di una sua uscita dall’Asse) poterono mettere le mani sulle riserve di
34
viveri e armamenti accumulati nei magazzini italiani e soprattutto sulla
quasi totalità delle 80 divisioni costituenti il Regio Esercito e dislocate
dentro e fuori i confini nazionali. Ben 810.0005 militari italiani furono
catturati e deportati in Germania sui carri bestiame e in vagoni piombati
ove, al termine di lunghi viaggi in cui dovettero sopportare le peggiori
privazioni e disagi materiali, vennero rinchiusi nei campi appositamente
predestinati per soldati e ufficiali, a Sandbostel, Fallingbostel,
Dortmund, Luckenwalde, Altenburg, Wietzendorf, Dora etc. Ai soldati
catturati i tedeschi non riconobbero lo status di prigionieri di guerra,
bensì quello, appositamente istituito, di Internati Militari Italiani (in
tedesco Italienische Militär Internierten, IMI), giacché formalmente non
potevano essere considerati prigionieri soldati che appartenevano alla
stessa nazionalità della neocostituita Repubblica Sociale Italiana di
Mussolini,6 alleata di Hitler. Cosicché questi nuovi IMI erano, in virtù
del loro status speciale, sottratti alle garanzie e ai controlli assegnati alla
Croce Rossa Internazionale dalla Convenzione di Ginevra del 27 luglio
1929 e furono dimenticati da chi avrebbe potuto o dovuto far qualcosa
per loro. Torturati dalla fame, dalle privazioni e dalle terribili malattie
che mietevano vittime per le disastrose condizioni igieniche dei campi
(come le ricorrenti epidemie di tifo petecchiale, di malaria e di T.B.C.),
soggetti alle infami vessazioni degli sgherri tedeschi, i prigionieri non
poterono ricevere i pacchi-viveri della Croce Rossa Italiana né di quella
Internazionale (che avrebbe potuto mandare aiuti, ma le autorità fasciste
pretesero ad un dato momento dalla Croce Rossa Internazionale che si
togliessero tutte le etichette dai pacchi perché provenienti dai Paesi
nemici, ottenendone un rifiuto). Dalla RSI, per opera del suo ambascia-
tore a Berlino Anfuso, giunse qualche spedizione di viveri, ma si trattò
5 Di questi 810.000, 94.000 dichiararono nei giorni successivi alla cattura la loro
adesione alla Repubblica di Salò, sicché nel dicembre 1943 il numero si riduceva a
716.000 (citiamo da Claudio Sommaruga, Una storia “affossata”, Quaderno-
Dossier N. 3, 2a ed., Archivio “IMI”, 2007, pp. 28-30, testo leggibile on line
all’indirizzo:www.anrp.it/edizioni/altre-pubblicazioni-consultabili/Quad.3-
Storia%20affossata-2%20ed.pdf). 6 Il 12 settembre 1943 Mussolini era stato liberato dalla prigione di Campo
Imperatore da paracadutisti tedeschi guidati dal maggiore delle SS Otto Skorzeny.
Condotto in Germania e ristabilita l’alleanza con il Führer, aveva fondato la
Repubblica Sociale Italiana per riprendere la guerra al fianco dei tedeschi.
35
di cibarie in massima parte deteriorate; pressoché nulla giunse dal
Regno del Sud, mentre il Vaticano poté inviare nel 1944 pacchi di viveri
e medicinali grazie agli sforzi del Nunzio Apostolico in Germania,
Mons. Cesare Orsenigo.7
La massa dei memoriali e delle lettere pubblicate e gli studi recenti
hanno permesso di delineare un quadro ben chiaro e dettagliato della
vita che condussero i prigionieri nei Lager. I Lager, anzitutto, erano di
due tipi: gli Stammlager (Stalag) per i sottufficiali e i soldati semplici, e
gli Offizierslager (Oflag) per gli ufficiali. In questi ultimi campi le
condizioni di vita erano lievemente migliori. Scesi dal treno dopo lunghi
viaggi compiuti nelle peggiori condizioni possibili, i prigionieri
subivano un impatto psicologicamente devastante con l’universo
concentrazionario nazista. Non erano più persone, diventavano numeri
(quelli delle loro matricole scritte sui cartelli che dovevano tenere sul
petto mentre erano fotografati, come i criminali), e imparavano
prestissimo a conoscere l’ordine del terrore nazista.8 All’ingresso nel
campo e alla immatricolazione seguiva l’umiliante, minuziosa e ladresca
perquisizione (la “rivista al corredo”), quindi i prigionieri erano avviati
ai loro alloggiamenti nelle baracche. Queste erano costruzioni in legno
che non difendevano dal freddo (le temperature nel gelido inverno
tedesco e polacco potevano scendere anche a 20° sotto zero) e
dall’umidità: nei giorni di pioggia il soffitto faceva colare acqua, che
spandendosi sul suolo sterrato, formava pozzanghere di acqua e fango. I
letti, veri e propri loculi, erano a tre piani e molto stretti. Scarso era il
riscaldamento fornito così come l’illuminazione interna, viceversa
abbondanti erano pulci, cimici e pidocchi che infestavano gli abiti e i
corpi dei prigionieri. I servizi igienici erano ridotti a maleodoranti e
sudicie latrine, talvolta ubicate fuori delle camerate: sicché i prigionieri
dovevano uscire dalle baracche, anche nelle gelide notti d’inverno, per
soddisfare i propri bisogni. Le periodiche docce e le disinfestazioni si
tramutavano in dolorose e umilianti torture. Il vitto era assolutamente
7 Vd. al riguardo Prof. Don Luigi Pasa, Tappe di un calvario 1943-1966, Tipografia
Cafieri, Napoli 19663 (I ed. 1947), pp. 113-116. 8 Riprendiamo gli aspetti della depersonalizzazione dei prigionieri nei Lager dal
saggio di Mario Avagliano e Marco Palmieri, Gli internati militari italiani. Diari e
lettere dai lager nazisti 1943-1945, Einaudi, Torino 2009, pp. 119 e ss.
36
insufficiente per il fabbisogno calorico umano e di pessima qualità: un
miscuglio di rape, carote, patate, crauti, miglio, con l’aggiunta di
qualche fetta di pane nero, pochi grammi di margarina, talvolta
marmellata e poco altro. Per placare in qualche modo gli atroci morsi
della fame impellente e inestinguibile i prigionieri cercavano fra gli
avanzi delle cucine qualcosa da mettere sotto i denti, come le bucce di
patate, o andavano alla ricerca di erbe e radici. O, ancora, barattavano i
propri oggetti preziosi, come gli orologi e i ricordi di famiglia, con pane,
viveri e tabacco. Sulla corrispondenza che potevano tenere i prigionieri
con i loro familiari e sui pacchi di viveri che ricevevano dall’Italia
diamo ragguagli in nota. Gli estenuanti appelli, nell’apposito spiazzo del
campo, erano nel corso della giornata due, al mattino presto e alla sera, e
potevano durare ore: avvenivano con qualsiasi tempo e potevano essere
ripetuti se i conti non tornavano. La disciplina era durissima, punizioni
corporali, pugni e pedate, frustate, colpi assestati col calcio del fucile, e
di peggio fioccavano per un nonnulla. Le sentinelle appollaiate sulle
torrette, con il mitragliatore sempre puntato, avevano l’ordine di sparare
sui prigionieri se questi si avvicinavano al filo spinato che recintava il
Lager. Vi erano comunque i servizi religiosi assicurati dai cappellani nei
campi ed erano permesse alcune attività ricreative che l’ingegnosità e
l’iniziativa di alcuni intellettuali, come, ad esempio, lo scrittore
Giovannino Guareschi, il filosofo Enzo Paci, il giurista Riccardo
Orestano, il futuro deputato e rettore dell’Università Cattolica di Milano
Giuseppe Lazzati, il futuro attore Gianrico Tedeschi, seppero
trasformare in straordinari eventi culturali.9
Poche erano però le occasioni per rinfrancare lo spirito nella
quotidiana e assolutamente deprimente vita del Lager. Ai pregiudizi e
alla diffidenza già radicati nei tedeschi verso i Fremdarbeiter, i
lavoratori stranieri, in specie gli italiani (migliaia erano stati inviati in
Germania come lavoratori civili, a partire dal 1938, nel quadro
dell’alleanza tra Roma e Berlino),10 si aggiunsero dopo l’8 settembre
9 Sulla “Regia Università di Sandbostel”, organizzata dagli intellettuali prigionieri
per i loro compagni, vd. Giovannino Guareschi, Diario clandestino 1943-1945,
Rizzoli, Milano 199118, pp. 99-100. 10 A proposito delle dure condizioni dei lavoratori italiani impiegati presso gli
stabilimenti Volkswagen a Wolfsburg, vd. il saggio di Gianluca Piccinini, La storia
37
l’odio e l’ira dei tedeschi, decisi a far scontare ai militari prigionieri il
tradimento di Badoglio. Tuttavia, costretti a subire le mille vessazioni e
angherie quotidiane, pericolosamente fiaccati nel fisico e nel morale, i
prigionieri italiani nella grande maggioranza non vollero cedere alle
lusinghe dei propagandisti fascisti che visitavano i campi e
promettevano un immediato miglioramento delle condizioni, con il
rimpatrio in Italia, in cambio dell’adesione alla RSI. Quando nel luglio
del 1944 Mussolini, in visita ad Hitler, ottenne che gli IMI fossero
trasformati in lavoratori civili e costretti pertanto a lavorare
forzatamente nelle fabbriche e nelle fattorie del Reich, molti non
accettarono l’impiego forzato e preferirono subire l’internamento in
campi di punizione come quello di Wietzendorf.
Sulla situazione generale degli IMI parlano le cifre complessive
elencate da Claudio Sommaruga, che integriamo con quelle che
compaiono nel Grande Diario di Giovannino Guareschi (Rizzoli,
Milano 2011 rist., p. 57 nota 5): gli internati furono 716.000, di cui
103.000 optanti nei Lager per la RSI.11 I prigionieri resistenti nei Lager
furono 613.000, dei quali ritornarono in Italia 550.000. Le cifre dei
caduti variano da 57.000 (Sommaruga, Una storia “affossata”, cit., p.
28) a 51.000 (Guareschi, cit., p. 57 nota 5) a 20/30.000 morti secondo la
studiosa tedesca Gabriele Hammermann.12
Quale che sia la realtà delle cifre, resta intatto il valore morale del
“no” opposto dalla stragrande maggioranza dei prigionieri italiani ai
nazifascisti, in nome del giuramento prestato al re e della patria
oppressa. Questo “no” è il “no” dell’altra resistenza, della resistenza
senz’armi, idealmente combattuta per una Italia migliore. Ebbe a dire al
riguardo il generale Raffaele Cadorna, patriota e comandante del Corpo
Volontari della Libertà: “L’alta percentuale di morti e di invalidi,
superiore a quella di qualunque altra comunità militare prigioniera in
di Settimo Bosetti, IMI n. 150773, nella Città dell’Auto KDF, testo leggibile on line
all’indirizzo: www.isrecbg.it/web/wp-content/uploads/2014/04/Piccinini_-N.-73.pdf 11 Aggiungendo a questo numero i 136.000 combattenti che al momento della cattura
o nei giorni successivi scelsero di collaborare con la RSI o con i tedeschi, si ha una
cifra complessiva, tolte le diserzioni, di 236.000 italiani aderenti alla RSI e al Terzo
Reich (vd. Sommaruga, Una storia “affossata”, cit., p. 30). 12 Gabriele Hammermann, Gli internati militari italiani in Germania 1943-1945,
trad. di Enzo Morandi, il Mulino, Bologna 2004, p. 379.
38
Germania, esclusa quella sovietica, sta a dimostrare quanto questa lotta
deliberatamente e volontariamente combattuta dagli italiani nei campi
di concentramento tedeschi sia stata aspra. Le divisioni alleate che penetrarono vittoriosamente in Germania trovarono i superstiti allo
stremo delle forze, in uno spaventoso stato di denutrizione, ma
alimentati da uno spirito indomito e fieri di aver compiuto fino alla fine il loro dovere di soldati. Si deve a loro se sulla Germania vinta poté
alzarsi, accanto alle bandiere degli alleati, il tricolore della patria. L’alto valore morale di questo episodio lo inserisce, a giusto titolo, tra
le pagine più nobili e generose della Resistenza italiana.”13
3) Il diario di Ugo d’Ormea. Ugo d’Ormea, nato a Narni (provincia
di Terni) nel 1918 ma pescarese d’adozione, era un giovane militare
italiano di stanza in Grecia, a Rodi, durante la seconda guerra mondiale.
Dopo l’8 settembre fu catturato dai tedeschi e deportato, dopo un lungo
viaggio per l’Europa centrale, nel campo di Siedlce in Polonia. Qui
rimase dal 13 novembre 1943 fino al 23 marzo 1944, quando venne
trasferito in Germania a Sandbostel, vicino Amburgo. Qui ebbe come
compagni di prigionia Giovannino Guareschi, il celebre padre di
Peppone e don Camillo, e l’attore Gianrico Tedeschi. Questo il ricordo
di Ugo d’Ormea su Guareschi: “Era un uomo che infondeva l’allegria.
Ci faceva divertire con le sue battute satiriche soprattutto su Mussolini.
Si era fissato sul cavallo bianco con cui il duce voleva andare in Egitto.
Sì – diceva Giovannino – glielo do io l’Egitto…”.14 Il 21 gennaio 1945
Ugo d’Ormea cambiò luogo di prigionia, dovendo partire per il ben più
duro campo di Wietzendorf, ove rimase fino alla liberazione avvenuta il
13 aprile 1945. Il ritorno in Italia richiese ancora vari mesi di
permanenza in Germania, passati fra la speranza di un rapido rimpatrio e
la delusione per l’immotivata attesa. Finalmente Ugo d’Ormea poté
partire il 18 agosto e arrivò a Roma lunedì 27 agosto, alle ore 23 circa.
Dopo il rimpatrio Ugo d’Ormea, che in gioventù aveva trascorso otto
anni a Buenos Aires, visse per lungo tempo a Roma lavorando in banca.
Sposatosi con la signora Giulia Viola, che gli diede i tre figli Maria Pia,
13 In Paride Piasenti, Il lungo inverno dei Lager. Dai campi nazisti, trent’anni dopo,
A.N.E.I., Roma 1977, pp. 7-8. 14 In Lorenzo Colantonio, Io e Guareschi, 18 mesi in un incubo, in “Il Centro”, 28
novembre 1999.
39
Marina e Aldo, si trasferì a Pescara nel 1972. Nel 2009 Ugo d’Ormea è
stato insignito dal Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano della
medaglia d’oro riservata ai deportati nei campi di concentramento
tedeschi, come riconoscimento del suo personale sacrificio e del rifiuto
di aderire alla Repubblica di Salò.15 È scomparso nel 2010, lasciando il
ricordo di un uomo mite e generoso, un grande esempio di vita per i
familiari e per quanti ebbero modo di conoscerlo.16 Aggiungiamo che
Ugo d’Ormea a Buenos Aires aveva studiato armonia e composto alcuni
brani di musica classica.
Quello di Ugo d’Ormea non è un memoriale giornaliero, vorremmo
dire “sistematico”, del suo periodo di prigionia nel lager tedesco.
D’Ormea indica, del periodo ottobre 1943 – agosto 1945, di ogni mese i
giorni più significativi, ossia quelli che sono rimasti più impressi nella
sua memoria. Questo perché il diario è stato scritto non durante la
prigionia, ma ex post, ossia dopo l’avvenuto rimpatrio.
Rispetto alla memorialistica che ci è pervenuta dall’esperienza dei
deportati, il documento di Ugo d’Ormea è piuttosto scarno di notizie:
d’Ormea su molti avvenimenti sorvola, ma quello che scrive ci permette
di rappresentarci molto chiaramente il vissuto della sua prigionia. Le
principali esperienze dei deportati vi sono tutte riportate. Vi è
l’esperienza del viaggio da Rodi al continente. D’Ormea è fortunato,
può viaggiare in aereo, come ricorda al 25 ottobre 1943, data d’inizio
del suo diario. Molti suoi compagni perirono invece durante i trasporti
via mare, per l’affondamento dei piroscafi nelle cui stive erano rinchiusi,
da parte dei sottomarini e degli aerei alleati.17 Ad Atene il 26 ottobre ha
inizio il lungo itinerario, in vagone piombato, fino al campo di Siedlce,
attraverso i paesi dell’Europa, Grecia, Bulgaria, Albania, Jugoslavia,
15 Vd. Giuseppe Recchia, “Fame e freddo: così nei campi pagammo il nostro no a
Salò”. Ugo d’Ormea riceverà la medaglia dei reduci al Quirinale, in “Il
Messaggero”, 27 gennaio 2009. 16 Vd. Nausica Celsi, Addio a d’Ormea, raccontò la deportazione, in “Il Centro”, 2
dicembre 2010. 17 Un resoconto delle stragi sui trasporti marittimi, organizzati dai tedeschi per
portare i prigionieri italiani dalle isole dell’Egeo al continente, è nel testo di Antonio
e Giuseppe Zupo, Storia di IMI. Diario Ricettario Nostalgia e Ricordi di un
Prigioniero Internato Militare Italiano – I.M.I. – in Germania durante la Seconda
Guerra Mondiale, Herald Editore, Roma 2011, alle pp. 85-88. Oltre 13.000 italiani
furono vittime di questi affondamenti.
40
Ungheria, Austria e Germania. Possiamo ricostruire parzialmente il
possibile percorso ferroviario del convoglio di d’Ormea, confrontando le
sue annotazioni con quelle, più dettagliate, di Serafino Clementi,
giovane militare marchigiano deportato anch’egli in Ucraina, Polonia e
Germania.18 La tradotta di Serafino Clementi, partita da Atene il 20
settembre 1943, toccò le stazioni di Salonicco, Skoplje in Macedonia,
Katouicz in Serbia, Belgrado, Újvidéck in Ungheria, Kaposvar,
Szombately, Acsàd, Nagyuseck, Sopron Deli, Ágfalva, Lopersbach in
Austria, Matesburg, Vienna (arrivo alle ore 22 del 29 settembre). Quindi
il treno di Clementi si diresse verso nord ovest, toccando le città della
Germania, fino a Luckenwalde, a sud di Berlino, ove arrivò il 2 ottobre.
Il percorso di Ugo d’Ormea potrebbe essere stato il medesimo fino a
Vienna, poi il treno passò molto probabilmente per Dresda e, dirigendosi
a nord est, giunse a Varsavia e infine a Siedlce, al cui campo d’Ormea
arrivò, dopo quindici giorni di viaggio, il 13 novembre 1943.19 La
permanenza di Ugo d’Ormea a Siedlce dura fino al 23 marzo 1944: quel
giorno è trasferito in treno al campo di Sandbostel, ove giunge tre giorni
dopo. Dieci mesi dopo Ugo d’Ormea deve montare sul treno che lo
porterà al terribile campo di Wietzendorf, un autentico campo di
punizione per gli ufficiali italiani che si erano rifiutati di sottostare
all’imposizione del lavoro coatto. A Wietzendorf d’Ormea arriva il 23
gennaio 1945 e vi rimane fino al 22 aprile (i prigionieri erano stati
liberati dagli inglesi il 13 aprile), quando viene trasferito con i suoi
compagni nella cittadina di Bergen. Quindi il Nostro deve subire altre
traversie, compreso l’imprevisto ritorno a Wietzendorf, e attendere in
Germania fino al 18 agosto la sospirata partenza per l’Italia. Il 27
18 Il sottotenente Serafino Clementi (1921-1990) conobbe i campi di concentramento
di Luckenwalde in Germania, Tarnopol in Ucraina, Siedlce in Polonia (ove arrivò il
30 dicembre 1943: Ugo d’Ormea vi era giunto il 13 novembre) e Sandbostel (suo
arrivo il 20 marzo 1944: Ugo d’Ormea vi entra il 26 marzo). Quindi l’11 gennaio
1945 fu trasferito come lavoratore coatto in una fattoria della Baviera, a Rutting. Del
Clementi abbiamo pubblicato l’inedito memoriale, vd. Mario Carini, Una voce dal
Lager: il taccuino di Serafino Clementi (1943-1945), in “Quaderni del Liceo
Orazio”, n. 5, Liceo Classico Orazio, Roma 2015, pp. 21-116. 19 Cfr. la cartina dell’inserto fotografico, con le tappe del viaggio verso i Lager,
disegnata dallo stesso Ugo d’Ormea.
41
agosto, giunto di sera alla Stazione Termini, a Roma, Ugo d’Ormea può
finalmente riabbracciare i suoi cari.
Questa, per sommi capi, l’odissea che il Nostro dovette patire in
Germania. Nel suo breve memoriale non manca nessuna delle dure
esperienze della prigionia, a cominciare dalla fame e dal freddo. I morsi
della fame cominciano a farsi sentire il 5 febbraio 1944 e accompagnano
il prigioniero per tutto l’internamento. D’Ormea, come del resto tutti i
suoi compagni, per saziarsi in qualche maniera non esita a rovistare tra i
rifiuti della cucina le bucce di rape, una volta si disfa del suo orologio in
cambio di una forma di pane, un’altra volta si cucina anche un topo (ma
la cosa era consueta date le condizioni di assoluta e debilitante
denutrizione in cui versavano i prigionieri). Il freddo, con un ulteriore
razionamento dei viveri già scarsi, giunge a tormentare atrocemente il
prigioniero il 15 novembre 1944 (l’inverno del ’44-45 fu invero molto
rigido e il riscaldamento nelle baracche dei prigionieri era assai debole,
per non dire inesistente). Vi è però, nella dura prigionia, qualche
occasione di conforto: anzitutto le lettere che gli giungono da casa, sia
pur con un certo naturale ritardo, date le difficoltà delle comunicazioni
(la prima cartolina dai suoi gli arriva il 15 gennaio 1944), poi gli arrivi
dei pacchi viveri (il primo è del 18 marzo),20 essenziali per poter
resistere nel fisico e nel morale alla lontananza e alle privazioni, quindi i
rari spuntini con i compagni di prigionia, tra i quali si era instaurata una
partecipe solidarietà. D’Ormea così ricorda i “buoni piatti”,
modestissime pietanze che però in quelle circostanze dovevano apparire
come autentiche ghiottonerie, gustati da solo o assieme ai suoi
compagni: il 19 marzo 1944 mangia assieme ad altri quattro compagni
“un buon piatto di fettuccine con lardo e carne, un poco di crema e una tazzina di caffè e sigaretta” (ma subito gli sorge nell’animo un’acuta
nostalgia dei suoi), il 1° aprile successivo, giorno del suo onomastico,
decide di mangiare un po’ meglio del solito e si procura del vino caldo
acquistandolo dai prigionieri francesi in cambio di tabacco (a
20 Tra l’altro Ugo d’Ormea riferisce nel suo diario alla data del 26 giugno 1944 che
quel giorno ricevette un pacco dalla Croce Rossa di Padova. Anche l’11 ottobre
dello stesso anno d’Ormea riceve dalla Croce Rossa gallette, formaggi e latte
condensato. La Croce Rossa Italiana dunque poté in qualche misura aiutare i nostri
internati, nonostante la qualifica di IMI li escludesse dall’assistenza internazionale
dovuta ai prigionieri di guerra.
42
mezzogiorno mangia una gavetta di rape e miglio, alla sera patate e
fagioli),21 il 13 giugno mangia dopo otto mesi un po’ di riso con patate,
il 1° luglio finalmente, grazie all’arrivo di un pacco da Milano, può
gustare la pastasciutta, ma senza formaggio, il 23 settembre può gustare
il tonno inviato dal Santo Padre (Pio XII), tramite il Nunzio Apostolico
Mons. Orsenigo,22 la sera di Natale del 1944 si riunisce assieme a una
ventina di compagni in una “bella tavolata”, per mangiare una gavetta di
patate con galletta grattugiata, spezzatino e un dolcetto. Altro
fondamentale sostegno dei prigionieri fu la fede cristiana, allora sentita
da molti come un lenimento dello spirito fiaccato dalla durissima prova
della prigionia: ogni mattina al campo di Sandbostel il cappellano don
Luigi Pasa celebrava la Messa nella cappellina adornata dai prigionieri e
d’Ormea ricorda le solenni occasioni dell’anno liturgico, che
coinvolsero tutto il campo, come la celebrazione della Pasqua (9 aprile
del 1944), la Pentecoste (28 maggio), l’amministrazione della Cresima a
un gruppo di ufficiali neoconvertiti (1° ottobre), il Natale e il Te Deum
del 31 dicembre, il mercoledì delle Ceneri a Wietzendorf (14 febbraio
1945).
Si potrebbe osservare che molte cose mancano nel diario di Ugo
d’Ormea: non si fa cenno delle precarie condizioni igieniche in cui tutti
gli internati invariabilmente si trovarono nei campi, ove le baracche
erano letteralmente invase da pulci, cimici e pidocchi, delle malattie e
infezioni che egli contrasse (si fa soltanto cenno all’epidemia di tifo
petecchiale che scoppiò a Sandbostel il 5 settembre) e da cui
fortunatamente riuscì a guarire, dei maltrattamenti subiti dalle guardie
del campo (comandate dal feroce capitano Pinkel, particolarmente
21 I militari francesi nei Lager godevano di un trattamento notevolmente migliore
degli IMI, perché riconosciuti prigionieri di guerra dai tedeschi con tutte le garanzie
del diritto internazionale. Avevano disponibilità di viveri e denari e si davano a
lucrosi commerci (anche alla borsa nera) con gli internati italiani. 22 I continui invii di viveri, vestiario e medicinali organizzati dal Vaticano per mezzo
del Nunzio Apostolico in Germania, Mons. Cesare Orsenigo, costituirono
praticamente l’unico concreto aiuto che alleviò in qualche misura le sofferenze dei
nostri prigionieri. Sugli invii di Mons. Orsenigo vd. il cap. XVI a lui dedicato
(intitolato Il nostro più grande benefattore) da don Luigi Pasa nel suo memoriale
(Prof. Don Luigi Pasa, Tappe di un calvario, cit., pp. 113-115).
43
incattivito nei riguardi dei prigionieri italiani).23 I giorni trascorsi a
Siedlce, Sandbostel e Wietzendorf, per Ugo d’Ormea e per tutti coloro
che ebbero la sventura di capitarvi, furono giorni tristi, come dice il
sottotitolo del suo diario, ed eventi, appunto, tristi e luttuosi dovettero
pur verificarsi, come in effetti si verificarono (d’Ormea accenna alla
“triste serie di uccisioni da parte di sentinelle tedesche”, che ha inizio il
7 aprile 1944). Ugo d’Ormea tace di questi tristi episodi (ricorda però le
morti del capitano Thun e del tenente Romeo, che provocarono un
profondo sdegno in lui e nei compagni), ma proprio il suo silenzio, a
nostro giudizio, grida più forte la disumana crudeltà degli aguzzini che
calpestarono in mille modi la dignità dei prigionieri.
Al riguardo vogliamo fare un’osservazione. Tutti i memoriali dei
prigionieri denunciano gli atti di gratuita efferatezza dei tedeschi, che
versarono più volte il sangue dei prigionieri italiani (una impressionante
rassegna dei crimini di guerra tedeschi è nella relazione del tenente
colonnello Pietro Testa, il comandante dei prigionieri italiani di
Wietzendorf).24 Non si deve però pensare che i tedeschi, come singoli e
come popolo, avessero globalmente rinunciato ai sentimenti di umanità,
pur drogati da una ideologia ferocemente razzista, diventando tutti
aguzzini e carnefici. Certamente vi fu un fortissimo risentimento, che
giunse all’odio profondo e all’aperto disprezzo verso i prigionieri
23 Bulldog o “capitano Bau Bau” era soprannominato il comandante tedesco del
campo, Pinkel, noto per la sua beffarda crudeltà verso i prigionieri, in specie italiani.
Guareschi lo ricorda più volte nel suo Grande Diario (Rizzoli, Milano 2011 rist., pp.
381, 395, 517, 519) e ne menziona l’umiliante punizione che patì dai soldati russi (p.
519). Vd. anche Don Pasa, Tappe di un calvario, cit., p. 99, sulla disciplina che re-
gnava a Sandbostel: “La disciplina, più che ferrea, era inumana. Il cap.no Pinghel
(ossia Pinkel) verrà sempre ricordato per la sua crudeltà verso di noi.” Anche il
sottotenente Antonio Zupo, arrivato a Sandbostel, dovette subito sperimentare la
spietata durezza del capitano Pinkel (Antonio e Giuseppe Zupo, Storia di IMI, cit., p.
33): “Subito dopo (l'ingresso al campo) adunata. Si è alla fine delle forze: per cui
l'adunata, col freddo intenso e col vento che spira, completa l'opera e metà degli
ufficiali cadono svenuti a terra e debbono essere ricondotti in baracca; ma il
comandante del campo poco se ne cura e continua a tenerci all'aperto
schiamazzando, rimproverando e sbraitando perché magari non stiamo bene
sull'attenti e non siamo bene allineati.” 24 Ten. Col. Pietro Testa, Wietzendorf. Rapporto sul Campo 83, 22 giugno1945, pp.
35-37, testo leggibile on line all'indirizzo:
www.storiaxxisecolo.it/internati/Wietzendorf.pdf
44
italiani per causa dell’armistizio dell’8 settembre, da loro considerato un
autentico tradimento alla causa dell’Asse.25 Ma è dato di incontrare nei
resoconti degli IMI anche rare figure di tedeschi “buoni”, che
manifestarono sentimenti di tolleranza e perfino di solidarietà,
soccorrendo in vario modo i prigionieri. Ci viene in mente quel
maresciallo tedesco (che chiarì di essere alsaziano) il quale il 4 aprile
1945 donò un pezzo di pane al prigioniero Giorgio Pugi nel Lager di
Gross Hesepe,26 quel vecchio contadino, Peter, che la sera faceva cenare
con la sua famiglia il prigioniero Claudio Tagliasacchi a Garbenstein,27
e perfino il capitano “Armistizio” (Lohse), un vecchio asmatico militare
bonario e inoffensivo che a Wietzendorf finì impiccato dalle SS.28
Perché pubblicare oggi il diario di Ugo d’Ormea, e perché leggerlo?
Innanzitutto perché è la testimonianza di una drammatica esperienza
vissuta da un giovane che si trovò ad essere prigioniero in una terra
25 Fortissimo risentimento e odio profondo che, alla fine del conflitto, si
guadagnarono per contrappasso i tedeschi da parte dell’intera Europa, che aveva
conosciuto il terrore del dominio nazista. Emblematica ci sembra una medaglia
dell’incisore Aurelio Mistruzzi, coniata per celebrare la sconfitta della Germania,
che rappresenta nel recto il mostruoso volto anguicrinito da Gorgone della
Germania, con la legenda “GERMANIA DEVICTA MCMXLV”, e nel verso la
svastica colpita da folgori, sopra un cumulo di teschi umani, con la legenda
“MALEDICTUS ERIS SUPER TERRAM” (la medaglia è raffigurata in Silvio
Bertoldi, La Repubblica di Salò. Storia documenti immagini, vol. IV, Compagnia
Generale Editoriale, Milano 1981, p. 1353). Sulla rappresentazione che nel
dopoguerra si fece del tedesco quale demoniaca immagine del “nemico assoluto”
(immagine funzionale all’autoassoluzione dei militari italiani dalle atrocità che
anch’essi, sui fronti di guerra, avevano compiuto) vd. Filippo Focardi, Il cattivo
tedesco e il bravo italiano. La rimozione delle colpe della seconda guerra mondiale,
Laterza, Roma-Bari 2016 rist., pp. 152-163. 26 Vd. il diario di Giorgio Pugi in Saggio sul contributo delle Forze alleate e delle
Forze Armate Italiane alla Guerra di Liberazione 1943-1945, in L’8 settembre 1943
e i volti della Resistenza, a cura di Vittorio Leschi, Associazione Volontari della
Libertà di Trieste, Libreria Editrice Goriziana, Pordenone 2010, p. 358. 27 Claudio Tagliasacchi, Prigionieri dimenticati. Internati militari italiani nei campi
di Hitler, Marsilio Editori, Venezia 1999, p. 142. 28 Al capitano “Armistizio” Giovannino Guareschi dedica un intero paragrafo del
suo Diario clandestino 1943-1945, cit., pp. 210-212. Esempi di gesti di umanità dei
tedeschi durante la guerra, che valsero in qualche modo a mitigare l’immagine
tradizionale del “furor teutonicus”, sono elencati in Filippo Focardi, Il cattivo
tedesco e il bravo italiano, cit., pp. 163-178.
45
straniera e ostile, sottoposto alle privazioni e alle angherie dei Lager,
senza sua colpa; poi perché quel prigioniero, Ugo d’Ormea, non accettò
di lavorare coattivamente per il Reich e venne destinato al campo di
punizione di Wietzendorf, soffrendo privazioni e angherie ancor più
dure; inoltre, perché quella esperienza esprime il “NO” (un “NO”
condiviso con altre centinaia di migliaia di prigionieri italiani) alla
violenza del potere nazifascista e ai folli sogni di dominio dei suoi capi;
ancora, perché quei prigionieri, gli IMI, “col loro NO individuale e corale, fin dall’8 settembre, scagliarono contro gli invasori tedeschi il
primo sasso della Resistenza”, come ribadisce Claudio Sommaruga;
infine perché tutti, soprattutto i giovani, devono conoscere e
comprendere il valore di quel gesto etico che ha contribuito a rifondare
il Paese nel segno della libertà e della democrazia. E se i giovani
possono oggi godere dei beni inestimabili della libertà e della
democrazia, il merito è anche, non dimentichiamolo, dell’umile ma
nobile, forte e coraggioso “NO” degli IMI, come Ugo d’Ormea.
4) I criteri di trascrizione e il commento. Abbiamo letto il testo del
diario di Ugo d’Ormea tramite fotografie eseguite sull’originale con lo
scanner e inviateci via e-mail. Le immagini sono nitide e la grafia risulta
chiara e leggibile, sicché gli interventi testuali sono stati pochissimi e
comunque tutti indicati nelle note di commento. Quando abbiamo
dovuto correggere – per la verità in rari casi – il testo inviatoci, abbiamo
dato in nota la lezione originale, preceduta dal segno ]. Abbiamo
trascritto il testo del diario nel carattere CommercialScript BT (corpo
12) per differenziarlo dall’introduzione e dalle note di commento e per
mantenere graficamente la chiara e armoniosa scrittura corsiva di Ugo
d’Ormea.
Il commento si compone essenzialmente di citazioni e riferimenti ad
altri memoriali, al fine di rinvenire riscontri ad episodi e situazioni
riportati nel diario di Ugo d’Ormea. Lo scritto di d’Ormea è scarno di
date e di fatti, ma molto lascia intuire, se non immaginare. Ogni parola
di d’Ormea è la punta di un iceberg di un vissuto fatto di fame, freddo,
stenti, privazioni, umiliazioni, nostalgia dei cari e della patria lontana. È
l’analogo vissuto che affrontarono centinaia di migliaia di italiani
deportati dai tedeschi e di nulla colpevoli se non di appartenere alla
nazione ex alleata e ora traditrice. Le numerose citazioni che abbiamo
46
utilizzato vogliono pertanto comporre, partendo dalle parole di d’Ormea,
il quadro di quello che era la vita quotidiana degli internati militari
italiani nei Lager nazisti. Abbiamo pertanto preferito elaborare un
commento “tessellato” di citazioni, dando voce ai protagonisti della
terribile esperienza dell’internamento e limitando al massimo i nostri
giudizi, per non influenzare pregiudizialmente il pensiero del lettore. Il
quale da queste pagine sarà sollecitato a formarsi un suo personale
giudizio in merito ai fatti e alle situazioni raccontate, e ai comportamenti
dei singoli protagonisti che raccontano. Se è vero che molti decenni
sono passati dalla seconda guerra mondiale, e che è ancora aperto il
dibattito degli storici sulla responsabilità del popolo tedesco, ossia se
essa sia stata in toto o in parte, a proposito dei crimini commessi dai
nazisti (quella di Hitler e dei suoi collaboratori è ovviamente fuori
discussione), è altrettanto vero che i fatti narrati parlano da soli e nulla
hanno perso, a distanza di ormai ben oltre mezzo secolo, della loro
terribile drammaticità. Auspichiamo pertanto che il testo del diario di
d’Ormea e il commento possano interessare i lettori, soprattutto quelli
più giovani che poco o nulla sanno del periodo 1939-1945, e suscitare
curiosità, interesse, domande, desiderio di approfondire la tematica degli
IMI. A queste richieste intende rispondere, sia pur parzialmente, la
bibliografia di massima e la sitografia che seguono infra, da considerare
quali preliminari letture e strumenti di orientamento per compiere
ulteriori ricerche. Segnaliamo al riguardo che i siti on line dell’A.N.E.I.
(Associazione Nazionale Ex Internati nei Lager Nazisti) e dell’A.N.R.P.
(Associazione Nazionale Reduci dalla Prigionia, dall’Internamento,
dalla Guerra di Liberazione e loro familiari) sono ricchi di preziosa
documentazione per tutti coloro che vogliano approfondire questa
tematica.
Infine aggiungiamo che, laddove si sia reso necessario, abbiamo
inserito alcune nostre note di chiarimento delle citazioni, fra parentesi,
precedute dalla sigla N.B. (= Nota Bene).
47
Bibliografia
1) Articoli e scritti su Ugo d’Ormea
Lorenzo Colantonio, «Ci svegliammo e i nazisti non c’erano più». Sei ex internati si
incontrano a Montesilvano 55 anni dopo tra lacrime e ricordi, in “Il Centro”, 28
novembre 1999
Lorenzo Colantonio, Io e Guareschi, 18 mesi in un incubo, in “Il Centro”, 28
novembre 1999 (comprende la trascrizione del diario di Ugo d’Ormea)
Yvonne Frisaldi, «Educhiamo i giovani alla pace». L’appello di Ugo d’Ormea, ex
deportato dai nazisti, in “Il Centro”, 27 gennaio 2001
Fausto Melissano, Triste viaggio nei “paesaggi di sabbia”, in “Quaderni del Liceo
F. Capece”, n. VIII, 2004, pp. 205-218
Giuseppe Recchia, «Fame e freddo: così nei campi pagammo il nostro no a Salò».
Ugo d’Ormea riceverà la medaglia dei reduci al Quirinale, in “Il Messaggero”, 27
gennaio 2009
Nausica Celsi, Addio a d’Ormea, raccontò la deportazione, in “Il Centro”, 2
dicembre 2010
2) Bibliografia sull’Italia nella seconda guerra mondiale e sugli IMI
Elena Aga Rossi, Una nazione allo sbando, Il Mulino, Bologna 2003, nuova ed.
ampliata (I ed. 1993)
Associazione Nazionale Ex Internati, Resistenza senz’armi. Un capitolo di storia
italiana (1943-1945) dalle testimonianze di militari toscani internati nei Lager
nazisti, Le Monnier, Firenze 1984
Mario Avagliano – Marco Palmieri, Gli internati militari italiani. Diari e lettere dai
lager nazisti 1943-1945, Einaudi, Torino 2009
Bruno Bongiovanni – Roberto Chiarini – Rolf Petri – Paolo Pombeni – Antonio
Varsori, Storia d’Italia, vol. V La Repubblica 1943-1963, a cura di Giovanni
Sabbatucci e Vittorio Vidotto, Laterza, Roma-Bari 20022, pp. 3-42
Giorgio Candeloro, Storia dell’Italia moderna, vol. X La seconda guerra mondiale.
Il crollo del fascismo. La Resistenza. 1939-1945, Feltrinelli, Milano 2014 (I ed.
1984)
48
Giorgio Chiesura, In Germania la paura, in “Storia Illustrata”, n. 187, giugno 1973,
pp. 96-103
Renzo De Felice, Mussolini l’alleato (1940-1945), vol. II La guerra civile 1943-
1945, Einaudi, Torino 1998 rist.
Paolo Desana, La via del Lager. Scelta di scritti inediti sull’ “internamento” e la
“deportazione” a cura e con annotazioni di Claudio Sommaruga, Istituto per la
storia della resistenza e della società contemporanea in provincia di Alessandria,
Ugo Boccassi Editore, Alessandria 1994
Gabriele Hammermann, Gli internati militari italiani in Germania 1943-1945, trad.
di Enzo Morandi, il Mulino, Bologna 2004
Erich Kuby, Il tradimento tedesco, trad. di Lydia Magliano, Rizzoli, Milano 1996
rist.
Ricciotti Lazzero, Il sacco d’Italia. Razzie e stragi tedesche nella Repubblica di
Salò, Mondadori, Milano 1994
Ricciotti Lazzero, Gli schiavi di Hitler, Mondadori, Milano 1998 rist.
Aurelio Lepre – Claudia Petraccone, Storia d’Italia dall’Unità ad oggi, Il Mulino,
Bologna 2008
Gianni Oliva, I vinti e i liberati, Mondadori, Milano 2000 rist. (I ed. 1998), pp. 466-
474
Gustavo Ottolenghi, La mappa dell'inferno. Tutti i luoghi di detenzione nazisti 1933-
1945, SugarCo Edizioni, Milano 1993
Andrea Parodi, Gli eroi di Unterlüss, Mursia, Milano 2016
Marco Patricelli, Settembre 1943. I giorni della vergogna, Laterza, Roma-Bari 2009
Paride Piasenti, Il lungo inverno dei Lager. Dai campi nazisti, trent’anni dopo,
A.N.E.I., Roma 1977
Arrigo Petacco – Giancarlo Mazzuca, La Resistenza tricolore, Mondadori, Milano
2010, pp. 125-159
49
Ernesto Ragionieri, L’Italia nella seconda guerra mondiale, in Storia d’Italia, a cura
di Ruggiero Romano e Corrado Vivanti, vol. XII Dall’Italia fascista all’Italia
repubblicana, Einaudi, ed. spec. per Il Sole 24 Ore, pp. 2275-2392
Claudio Tagliasacchi, Prigionieri dimenticati. Internati militari italiani nei campi di
Hitler, Marsilio Editori, Venezia 1999
Pietro Vaenti (a cura di), Il ritorno dai Lager (relazioni presentate al convegno Il
ritorno. Partigiani, internati politici e razziali, tenutosi a Cesena il 20-21 ottobre
1995 e promosso dall’Istituto Storico della Resistenza di Cesena-Forlì, ANPI, FIAP
e FIVL), Società Editrice «Il Ponte Vecchio», Cesena 1996
Leo Valiani, Forze armate e resistenza, in “Nuova Antologia”, fasc. 2153, gennaio-
marzo 1985, pp. 71-77
Luciano Zani, Resistenza a oltranza. Storia e diario di Federico Ferrari, internato
militare italiano in Germania, Mondadori Università – Sapienza Università di
Roma, Milano 2009
3) Sitografia sugli IMI
Odoardo Ascari, Gli irriducibili del Lager, in “Nuova Storia Contemporanea”, n. 4,
luglio-agosto 2002, testo leggibile nel sito “Miradouro.it”, all'indirizzo:
www.miradouro.it/print/801
Lorenzo Baratter – Fabrizio Rasera, Censimento delle fonti edite e inedite sugli
Internati Militari Italiani (IMI) 1943-1945 della provincia di Trento, Museo Storico
Italiano della Guerra, Rovereto 2007, testo leggibile on line all’indirizzo:
www.museodellaguerra.it/wp-content/uploads/2015/06/Censimento-fonti-IMI.pdf
Carlo De Nitti, Ricordi di lontane sofferenze. La testimonianza inedita di un
internato militare: Giuseppe Rinaldi (1916-2010), testo leggibile on line
all’indirizzo: www.edscuola.it/archivio/antologia/recensioni/rinaldi.pdf
Alessandro Ferioli, Per una bibliografia ragionata sugli internati militari italiani,
testo leggibile on line all’indirizzo:
docplayer.it/18926864-Per-una-bibliografia-ragionata-sugli-internati-militari-
italiani.html
Sabrina Frontera, I militari italiani negli Oflag e negli Stalag del Terzo Reich, testo
leggibile on line all’indirizzo: www.alboimicaduti.it/files/storia_imi.pdf
50
Luca Gorgolini, La memoria della guerra: l'esperienza degli internati militari
italiani (Imi), testo leggibile sul sito “resistenzaitaliana.it – Il portale della guerra di
Liberazione”, all'indirizzo: www.storiaxxisecolo.it/internati/internati3.htm
Guido Levi, La deportazione politica e militare: il caso italiano, testo leggibile on
line all’indirizzo: www.scpol.unige.it/news/seminari/levi_deportazione.pdf
Erika Lorenzon, Gli Internati Militari Italiani e la memoria di una “storia
producente”, testo leggibile on line all’indirizzo:
www.centrostudiluccini.it/pubblicazioni/memoriamemorie/1/internati.pdf
Brunello Mantelli, Gli italiani in Germania 1938-1945: un universo ricco di
sfumature, in “Quaderni Istrevi”, n. 1, 2006, pp. 5-23, testo leggibile on line
all’indirizzo: www.centrostudiluccini.it/pubblicazioni/istrevi/1/mantelli.pdf
Alessandro Natta, L'altra resistenza, Einaudi, Torino 1997 (I ed. 1955), testo
leggibile on line all'indirizzo:
www.memoteca.it/upload/dl/E-Book/1%5C%27altra_resistenza.pdf
Marco Palmieri – Mario Avagliano, Breve storia dell'internamento militare italiano
in Germania, in “La parte della memoria”, n. 1, 2008, testo leggibile on line
all’indirizzo:
www.anrp.it/edizioni/porte_memoria/2008_01/pag_35_palmieri_avagliano
Arnaldo Pellizzoni, Per non dimenticare: da un diario di guerra (1940-1945), testo
leggibile sul sito dell’ANPI di Lissone – Sezione “Emilio Diligenti” all’indirizzo:
http://anpi-lissone.over-blog.com/article-35390833.html
Gianluca Piccinini, La storia di Settimio Bosetti, IMI n. 150773, nella città dell’auto
KDF, testo leggibile on line all’indirizzo:
www.isrecbg.it/web/wp-content/uploads/2014/04/Piccinini_-N.-73.pdf
Giuseppe Piccolotto, Documentario della malvagità, testo leggibile on line
all’indirizzo:
http://digilander.libero.it/scuolaacolori/intercultura/materiali/piccolotto. htm
Scuola per la pace della Provincia di Lucca, Storie e memoria degli internati militari
italiani, 27 gennaio 2012, I Quaderni della Scuola per la pace, testo leggibile on line
all’indirizzo: www.provincia.lucca.it/scuolapace/uploads/quaderni/quaderno_imi.pdf
Claudio Sommaruga, L’ “altra resistenza”, testo leggibile on line all’indirizzo:
www.pionierieni.it/wp/wp-content/uploads/Ricordi-di-prigionia-nei-lager-come-
IMI.-Di-Claudio-Sommaruga..pdf
51
Claudio Sommaruga, Una storia “affossata”, Quaderno-Dossier N. 3, 2a ed.,
Archivio “IMI”, 2007, testo leggibile on line all’indirizzo:
www.anrp.it/edizioni/altre-pubblicazioni-consultabili/Quad.3-Storia%20affossata-
2%20ed.pdf
Luciano Zani, Il vuoto della memoria: i militari italiani internati in Germania, da
La seconda guerra mondiale e la sua memoria, a cura di Piero Craveri e Gaetano
Quagliariello, Rubbettino Editore, Soveria Mannelli 2006, testo leggibile on line
all'indirizzo: www.sociologia.uniroma1.it/users/zani/VuotoDellaMemoria.doc
* * * * *
Prima della trascrizione del diario di Ugo d’Ormea pubblichiamo
volentieri uno scritto ricevuto dal Dott. Aldo d’Ormea, che ricorda la
figura paterna.
Ricordo di nostro padre di
Aldo d’Ormea
Nostro padre era una persona mite, le mie sorelle ed io lo
ringraziamo per averci dato un grande esempio di vita. Non abbiamo mai visto in lui rancore o cattiveria. Uomo di grande fede ci diceva
sempre di non odiare mai.
Nostro padre ebbe come riferimento, maestro nella fede, il cugino
della madre, il Cardinale Pietro La Fontaine, viterbese di nascita e
52
Patriarca di Venezia. A Buenos Aires nostro padre conobbe Don
Orione.
Quando nostro padre ci parlava del suo periodo di prigionia diceva
sempre che non aveva odiato il nemico, ma nello stesso tempo ci
esortava a non dimenticare, aggiungendo che i giovani dovevano essere educati anche alla pace.
Nostro padre ci diceva che egli, come tanti altri, preferirono
rimanere fedeli a un ideale, anche se sapevano che la scelta avrebbe
comportato dei risvolti drammatici. Infatti, chi come lui rifiutò di
aderire alla Repubblica Sociale, venne deportato nei campi di
concentramento.
Queste stesse cose che diceva a noi, nostro padre le diceva anche agli
studenti delle scuole, dove spesso si recava per effettuare una testimonianza.
I ricordi di quel periodo, come nostro padre ci diceva, si chiamavano freddo, fame e nostalgia.
* * * * *
53
Ugo d’Ormea
Il mio diario di prigionia
per far più lieti i tristi giorni
1943-194529
1943
Ottobre
25 – Si parte in aereo da Rodi diretti verso il continente. Sono le
ore 23 circa. Sta piovendo. Un aereo inglese è passato da poco
sull’aereoporto di Calamata ma i ricoveri non ci sono.
26 – Arriviamo ad Atene. Alla mattina si riparte per giungere,
dopo più di trenta chilometri di marcia forzata, al nostro centro di
smistamento.
28 – Partenza dalla stazione di Atene in tradotta, sotto scorta
tedesca, diretti in Germania. Sono le 17 circa. Si viaggia in carri
bestiami (una trentina per carri) ma senza essere rinchiusi.1
Novembre
13 – Dopo quindici giorni di viaggio attraverso la Grecia, la
Bulgaria, l’Albania, la Jugoslavia, l’Ungheria, l’Austria e la
Germania, si arriva alla città di Siedlce in Polonia ad E. di
Varsavia. Dopo varie ore di attesa alla stazione, sotto una bufera di
neve, c’incamminiamo verso il campo di concentramento. Alle ore 15
circa si sorpassa l’entrata principale del “Kriegsgefangenen Lager”
29 Trascrizione e commento di Mario Carini.
54
e un grande cancello a ferri spinati si chiude dietro di noi. Con oggi
si dà inizio la mia prigionia.2
Dicembre
24 – Alla mezzanotte vado in cappella alla messa di Natale. La
cappella è una piccola e fredda stanza di una grande e più fredda
baracca. È debolmente illuminata da due candele perché proprio
quella sera siamo stati senza luce. Ma allora perché, signor
Colonnello Comandante del campo, le baracche in cui alloggiavano
gli optanti per la nuova repubblica italiana erano invece
illuminate?3
1944
Gennaio
15 – Ricevo finalmente dopo più di quattro mesi una cartolina dai
miei.4
Febbraio
5 – La fame incomincia a sentirsi ogni giorno sempre di più. La
notte non faccio altro che sognare di mangiare.
24 – Un mio collega che aveva comperato del pane disfacendosi
del suo orologio, vista la mia fame, me ne regala due fette. Quale
gioia! Lo ringrazio vivamente, afferro quel poco pane e vado a
mangiarlo in fondo alla stanza in un angolo buio per non farmi
vedere.
25 – Sono andato insieme ad altri colleghi a racimolare nella
cassa dei rifiuti di cucina le bucce di rape, le ho pulite ben bene e poi
fatte bollire. Alla sera le ho mangiate con cipolla (avuta dai tedeschi
per Natale) e con mezzo pane che comperai la sera avanti per £ 500.
Il Comando per evitare epidemie fa coprire i rifiuti della cucina con
55
solfato di calcio. Alcuni seguitano lo stesso a ricercare le bucce ma io
rifiuto di ritornarci.
26 – Ho mangiato per prima volta una coscetta di… topo.
Condita con margarina e cipolle è gustosa. O sarà la fame che la
farà gustosa?5
Marzo
3 – Ricevo una bella lettera dei miei in risposta a una mia di
dicembre. E il pacco quando lo riceverò?
11 – Ricevo dalla Svizzera un messaggio del Vaticano.
18 – Oggi ricevo finalmente il primo pacco.
19 – S. Giuseppe! La giornata è magnifica e, cosa strana oggi si fa
vedere anche il sole. Insieme ad altri quattro colleghi abbiamo
mangiato un buon piatto di fettuccine con lardo e carne, un poco di
crema e una tazzina di caffè e sigaretta. Ma con i miei quando
mangerò?
23 – Si parte da Siedlce per Sandbostel (Amburgo).
26 – Dopo tre giorni di viaggio rinchiusi e sbarrati dentro i carri
bestiame si arriva al nuovo campo XB.6
Aprile
1 – In occorrenza del mio onomastico ho voluto mangiare un po’
meglio del solito. Alla mattina ho preso un po’ di vino caldo avuto
dai prigionieri francesi con tabacco avuto con la vendita della mia
giacca militare. A mezzogiorno ho mangiato una gavetta di… rape
e miglio. Alla sera patate e fagioli.
7 – S’inizia oggi una triste serie di uccisioni da parte di sentinelle
tedesche. Questa notte un capitano viene barbaramente ucciso per
essersi avvicinato al reticolato.
9 – Oggi è Pasqua. Alleluja! Alleluja! Durante la messa
pasquale il cappellano ci ha rivolto gli auguri esortandoci alla
preghiera e alla rassegnazione. Ha detto di ringraziare Iddio per
56
averci domandato ciò che a molti non ha mai domandato, di aiutarlo
di portare la croce al Golgota e che grande sarà la nostra ricompensa.
La giornata è veramente bella (cosa strana) e la pace è nei nostri
cuori, ma non fuori di noi perché lontano si sentono forti esplosioni di
bombardamenti aerei.
28 – Ricevo altre lettere dei miei.7
Maggio
4 – Oggi sono stato costretto anch’io a disfarmi del mio orologio.
In cambio ho avuto una forma di pane, una scatola di olio
margarinato, marmellata e sigarette.
15 – Ricevo sei lettere dall’Italia.
18 – Arriva una commissione della Croce Rossa per gli internati
italiani.
28 – Pentecoste. Il cappellano legge la formula di consacrazione
di tutto il campo XB al Cuore Immacolato di Maria.8
Giugno
13 – Dopo otto mesi mangio un po’ di riso con patate.
24 – Una sentinella ha aperto il fuoco contro un gruppo di
ufficiali che stavano osservando il passaggio d’una formazione di
aerei. Vari colleghi sono rimasti feriti.
26 – Ricevo un pacco della Croce Rossa di Padova.
30 – Questa sera c’è stato un tentativo di fuga di un collega, ma
sorpreso alla stazione viene riportato al campo. Per colpa sua oggi
l’appello pomeridiano è durato più di due ore.9
Luglio
1 – È arrivato un bel pacco da Milano. Questa sera finalmente
dopo quasi un anno mangio un po’ di pasta asciutta ma… senza
formaggio!
12 – Ricevo un altro pacco da Torino.
57
30 – Questa sera si è eseguito un interessante concerto all’aperto con
intervento di ufficiali tedeschi.10
Agosto
In questi giorni abbiamo avuto vari casi di colleghi che hanno
dato segni di pazzia. Un capitano ha buttato per aria una bacinella
dicendo che Dio parlava attraverso la sua voce; un altro ha
scavalcato il primo filo spinato per raccogliere fiori.
25 – Viene barbaramente ucciso un collega che faceva l’atto di
appoggiare un asciugatoio al filo spinato.11
Settembre
5 – Si manifesta un’epidemia di tifo petecchiale.
29 – Oggi abbiamo mangiato del tonno inviatoci dal S. Padre
tramite il Nunzio di Berlino.12
Ottobre
1 – Vi è stata la funzione dell’amministrazione della Cresima. La
cerimonia è stata commovente (vedi fotografie). Domani finisce la
quarantena e ricomincia l’appello.
11 – Riceviamo dalla C.R.I. gallette, formaggi e latte
condensato.
20 – Oggi per il mio compleanno ricevo un pacco… vestiario.13
Novembre
15 – La fame aumenta sempre di più e i tedeschi sempre più
aumentano le loro restrizioni per obbligarci a lavorare. Oggi nevica
molto, fa freddo, la minestra è più acqua del solito e senza sale
completamente. Per giunta oggi siamo stati senza la razione di
zucchero e margarina. La stanza è molto fredda perché non c’è
riscaldamento. Non ricevo più notizie da casa e la guerra non vuol
58
finire. Chi finirà prima? Il morale oggi è bassissimo. Ma anche oggi
ripeto più che mai “fiat voluntas tua”.
22 – Finalmente dopo sette mesi ricevo notizie da casa.
23 – Si ricevono gallette dalla C.R.I. In cappella un ufficiale
riceve il Battesimo, Cresima e Prima Comunione.14
Dicembre
25 – Natale! La sera tutti insieme (siamo circa una ventina)
facciamo una bella tavolata. Io mangio una gavetta di patate con
galletta grattugiata, spezzatino e un dolcetto.
28 – Finalmente dopo nove mesi è nato… un pagliericcio sul
quale dormire. Non dormirò più su assicelle.
31 – Ultimo dell’anno. Alle 16 siamo andati al Te Deum. Questa
sera per eccezione sono andato a letto più tardi del solito. Sono le 20 e
30’.15
1945
Gennaio
21 – Si parte per Wietzendorf (Hannover).
23 – Dopo una notte indimenticabile (!) arrivo a Wietzendorf.
31 – Arrivano gallette e latte dalla C.R.I.16
Febbraio
14 – Oggi sono le Ceneri. Che cosa siamo noi uomini di fronte ai
grandi destini della storia? Questa mattina i tedeschi mi hanno detto
che ci manderanno a fare i contadini. Ma l’uomo propone e Dio
dispone…
24 – La fame si fa sempre più assillante, i viveri diminuiscono.
Perché? Con oggi ricominciano sei settimane di vera fame bestiale.
Sono sei settimane di passione.17
59
Marzo
La guerra si avvicina alla fine, ma anche forse la nostra vita? La
tabella dei viveri soffre ancora diminuzioni.18
Aprile
Questa mattina ci siamo svegliati e non abbiamo
trovato più i tedeschi. Siamo liberi! Si aspetta
l’arrivo degli inglesi. I viveri vengono aumentati. La nostra fede
riceve il premio.
15 – Si ritorna a mangiare carne, ricotta, latte, marmellata, ecc.
Si legge oggi per prima volta il notiziario inglese.
16 – Questa notte c’è stato un violento bombardamento. Questa
mattina mentre cucinavo le rape (ore 7 circa) è arrivato un maggiore
inglese a prendere le consegne del campo, accolto da ovazioni e
sventolamenti di bandiere.
22 – Si parte da Wietzendorf. Essendoci stata una tregua di sei ore
lungo la strada e a una profondità di m. 500 dai margini della
stessa, dopo circa 6 km. di marcia c’incontriamo con gli inglesi che
con i loro camion vengono a caricare i bagagli e condurci a Bergen
(distanza di circa 18 km. da Wietzendorf). Con oggi si dà termine
alla prigionia.19
Maggio
1 – Si ritorna a Wietzendorf!!!
5 – Arrivano i viveri della sussistenza inglese.
8 – Oggi per prima volta esco da solo fuori del reticolato a fare una
passeggiata. I sentimenti che ho provato in quell’ora di libertà non
li scorderò mai!20
Agosto
18 – Partenza per l’Italia.
13 Venerdì
60
24 – Passaggio per il Brennero.
Alle ore 23 circa arrivo a Roma. D. G.21
____________________
Viveri prima della liberazione… e dopo la liberazione
(19-III-1945) (6-V-1945)
farina in acqua… gr. 40 carne in iscatola… gr. 250
pane … gr. 180 pesce… gr. 20
patate cotte … gr. 150 formaggio… gr. 20
margarina… gr. 17 pane bianco… gr. 350
zucchero… gr. 16 prugne… gr. 20
latte… gr. 45
margarina… gr. 45
maiale… gr. 60
zucchero… gr. 70
the… gr. 10
marmellata… gr. 30
latte fresco… ½ l.
patate cotte… gr. 500
minestra piselli e avena… l. 122
* * * * *
COMMENTO
Si elencano di seguito i testi utilizzati per il commento con le relative abbreviazioni:
Avagliano – Palmieri 2009 = Mario Avagliano – Marco Palmieri, Gli internati
militari italiani. Diari e lettere dai Lager nazisti 1943-1945, Einaudi, Torino 2009
Bianchini 2004 = Umberto Bianchini, “Prendi un’anima di anni sette…” (“… e
27 Lunedì
61
sarà tua per tutta la vita…”), Walter Stafoggia Editore, Urbania 2004
Bedeschi 1990 = Prigionia: c’ero anch’io, a cura di Giulio Bedeschi, vol. I, Mursia,
Milano 1990
Carini 2015 = Mario Carini, Una voce dal Lager: il taccuino di Serafino Clementi
(1943-1945), in “Quaderni del Liceo Orazio”, n. 5, Liceo Classico Orazio, Roma
2015, pp. 21-116 (testo leggibile anche sul sito del Liceo Ginnasio Statale Orazio
di Roma all’indirizzo: www.liceo- orazio.it/documenti/public/site/materiale_didattico/Pubblicazioni//Quaderni)
Civinelli 1989 = Tomaso Civinelli, Perché? Per chi? Per che cosa? Diario di
prigionia in Germania di un Italiano qualsiasi, Editrice Fortuna, Fano 1989
Guareschi 199118 = Giovannino Guareschi, Diario clandestino 1943-1945, Rizzoli,
Milano 199118, pp. 31-32
Guareschi 2011 = Giovannino Guareschi, Il Grande Diario. Giovannino cronista del
Lager 1943-1945, Rizzoli, Milano 2011 rist.
Leonardi 2012 = Orazio Leonardi, Sandbostel 1943. Anch’io ho detto “no”, a cura
di Giorgio Mezzalira, Circolo Culturale ANPI di Bolzano, Bolzano 2012, testo
leggibile in Internet all’indirizzo:
http://www.deportati.it/static/upl/qu/quaderno5_leonardi.pdf
Nicolis 2015 = Valeria Nicolis, Pane secco e avemarie, Marlin Editore, Cava de’
Tirreni (SA) 2015
Don Pasa 19663 = Prof. Don Luigi Pasa, Tappe di un calvario 1943-1966,
Tipografia Cafieri, Napoli 19663 (I ed. 1947)
Piasenti 1977 = Paride Piasenti, Il lungo inverno dei Lager, A.N.E.I., Roma 1977
Pellizzoni 1995 = Per non dimenticare: diario di guerra di Arnaldo Pellizzoni,
Lissone 1995, testo leggibile sul sito dell’ANPI di Lissone – Sezione “Emilio
Diligenti” all’indirizzo:
http://anpi-lissone.over-blog.com/article-35390833.html
Ravaglioli 2000 = Armando Ravaglioli, Continuammo a dire no, Edizioni di Roma
Centro Storico, Roma 2000
Sommaruga 2007 = Claudio Sommaruga, Una storia “affossata”, Quaderno-Dossier
N. 3, 2a ed., Archivio “IMI”, 2007, testo leggibile on line all’indirizzo:
www.anrp.it/edizioni/altre-pubblicazioni-consultabili/Quad.3-
Storia%20affossata-2%20ed.pdf
Tagliasacchi 1999 = Claudio Tagliasacchi, Prigionieri dimenticati, Marsilio Editori,
Venezia 1999
Testa 1945 = Ten. Col. Pietro Testa, Wietzendorf. Rapporto sul Campo 83, 22
giugno1945, testo leggibile on line all'indirizzo:
www.storiaxxisecolo.it/internati/Wietzendorf.pdf
(il testo è, con qualche divergenza, anche in Giovannino Guareschi, Il Grande
Diario. Giovannino cronista del Lager 1943-1945, Rizzoli, Milano 2011 rist., pp.
114-129)
Trionfi 2004 = Maria Trionfi, Il Generale Alberto Trionfi. Scritti e memorie dalla
Grecia al Lager. Un delitto delle SS, A.N.E.I. – Presidenza Nazionale, Roma
62
2004
Zani 2009 = Luciano Zani, Resistenza a oltranza. Storia e diario di Federico
Ferrari, internato militare italiano in Germania, Mondadori Università –
Sapienza Università di Roma, Milano 2009
Zupo 2011 = Antonio e Giuseppe Zupo, Storia di IMI. Diario Ricettario Nostalgia e
Ricordi di un Prigioniero Internato Militare Italiano – I.M.I. – in Germania
durante la Seconda Guerra Mondiale, Herald Editore, Roma 2011
1
Il diario inizia il 25 ottobre, quindi un mese e mezzo dopo l’armistizio dell’8
settembre, che colse assolutamente impreparate le truppe italiane di stanza nel Paese
e nei territori fuori d’Italia, come la Grecia e le isole dell’Egeo. A questa data Ugo
d’Ormea, già preso prigioniero dai tedeschi a Rodi, è trasferito di notte in aereo da
Rodi ad Atene. Dopo una marcia di trenta chilometri per raggiungere il centro di
smistamento, il 28 ottobre sale con i suoi compagni sul treno che lo porterà in
Germania.
L’esperienza del viaggio sul treno piombato rappresenta la prima tappa
dell’itinerario, un’autentica via crucis, dei militari italiani verso i campi in
Germania. Erano in genere carri bestiame, della capacità di 40 uomini e 8 cavalli,
ma i tedeschi li stipavano di prigionieri, che erano costretti a viaggiare gli uni
addossati agli altri, in condizioni di insopportabile disagio. L’oscurità era quasi
completa, la luce veniva soltanto dalle fessure fra le travi che costituivano le pareti
dei vagoni e da un finestrino in alto, che spesso era chiuso col filo spinato. Ricorda
Arnaldo Pellizzoni, sergente dell’8° Reggimento Fanteria Cuneo, di stanza sull’isola
di Tinos nel Mar Egeo (ove viene catturato dai tedeschi): “1 Ottobre 1943: vengo
caricato su un vagone ferroviario con la scritta “Hommes 40, chevaux 8”; 40
uomini in un carro merci, del tipo usato per il trasporto di cavalli. I trasporti
ferroviari venivano effettuati sfruttando lo spazio disponibile sino all’estremo limite
delle capacità di carico.” (Pellizzoni 1995). Il limite di capienza dei vagoni, di 40
uomini, veniva spesso superato. Il vagone su cui fece il viaggio Serafino Clementi,
sottotenente di fanteria catturato a Patrasso, conteneva 45 uomini più i bagagli
(Carini 2015, p. 51). Il carro bestiame di Giovannino Guareschi, partito da
Sandbostel per il campo di Czestochowa, in Polonia, il 23 settembre 1943 (lo
scrittore ritornerà a Sandbostel dopo un’odissea nei campi di mezza Europa, il 2
aprile 1944), conteneva “cavalli 8, ufficiali italiani 50, cani 1” (Guareschi 2011, p.
231). Non era raro che alle stazioni la pietà dei civili, in attesa sulle banchine,
sopperisse in qualche maniera alla penuria di viveri dei deportati. Durante la sosta
alla stazione ungherese di Újvidéck e a quella polacca di Starachowice
(rispettivamente il 27 settembre e il 16 ottobre 1943) Serafino Clementi ricevette da
alcune ragazze viveri, panini e mele (Carini 2015, pp. 53 e 59). Più doloroso il
ricordo di Orazio Leonardi, soldato del 232° Reggimento Fanteria di Bolzano, in
attesa di partire sul carro merci alla stazione di Bolzano il 10 settembre 1943
63
(Leonardi 2012, p. 26): “Arrivati in stazione ci fanno salire su carri merci: trenta
soldati per vagone. Nell’attesa della partenza, persone comuni vengono a
manifestarci solidarietà, buttandoci tutto ciò che hanno: cibo e perfino indumenti,
nella speranza di poterci rivestire in borghese. Illusione: la scorta tedesca allontana
con vigore e cattiveria i contatti dei civili, che si accalcano davanti ai vagoni per
creare confusione e poterci dare la possibilità di scappare.”
Per il sottotenente Umberto Bianchini, catturato a Larissa l’8 settembre, il viaggio
in Germania invece fu più comodo (ma aveva chiesto di essere arruolato
nell’esercito tedesco, invano: aderì poi, come “optante”, alla RSI): “La sorveglianza,
contrariamente alle balle raccontate, in seguito, da chi pescava (e pesca) nel
torbido, era praticamente inesistente e gli sportelloni dei vagoni-merci nei quali
eravamo stipati, erano sempre aperti ed incustoditi. Tanto è vero che, ogni volta che
il treno si fermava, centinaia di “selvaggi” scatenati scendevano dal treno e
prendevano d’assalto tutto ciò che potevano rapinare.” (Bianchini 2004, p. 42). Una
testimonianza che contrasta con quelle raccolte da Paride Piasenti nel volume Il
lungo inverno dei Lager (A.N.E.I., Roma 1977): abbiamo scelto di riportare come
emblematici esempi, da un coro unanime che denuncia le crudeli vessazioni patite in
quei convogli ferroviari, le parole dei prigionieri Bruno Betta (Piasenti 1977, p. 80:
“I viaggi preannunciarono subito la realtà che ci attendeva, con la loro crudezza,
svolgendosi per linee secondarie, a binario unico, lenti, senza soste. Con
sorveglianza sempre più vigile. Senza cibo, senz’acqua, senza possibilità di
appagare gli essenziali bisogni corporali.”), Carmelo Cappuccio (Piasenti 1977, p.
93: “Una lunga tradotta, insaccata di ufficiali e soldati: ogni vagone bestiame è
chiuso, stipato di uomini, i rettangoli dei finestrini hanno già dinanzi il filo
spinato.”), Massimo Franch (in Avagliano – Palmieri 2009, p. 34: “In tutto il
viaggio ho notato pochissimi gesti ostili, eccettuati, naturalmente, gli urli, gli
spintoni ed anche i pedatoni (uno l’ho visto dare ad un colonnello che non riusciva
ad aggrapparsi abbastanza in fretta sul carro dei nostri guardiani.” ), Antonio Zupo
(Zupo 2011, p. 24: “Giorno 12 dicembre (1943) si parte per ignota destinazione.
Alcuni dicono si vada nelle vicinanze di Vienna altri in Polonia. È il viaggio della
fame. Ci avevano dato viveri per tre giorni e cioè ¾ di pagnotta (un kg. circa) e 9
formaggini tipo Emmental. Ci dirigiamo verso ovest come possiamo rilevare con
una bussola. Siamo in 50, fra soldati ed ufficiali, in ogni carro bestiame. Lo spazio è
ristretto, non più di mezzo metro quadrato per ciascuno. Alcuni seduti altri in piedi,
chiusi in questo vagone fortunatamente riscaldato, quando ci danno il carbone, da
una stufa. Alle sofferenze dello stomaco si aggiungono quelle per dolori dovuti alla
posizione sempre eguale degli arti inferiori. Si dorme seduti quando si può e si
respira affannosamente per l’acido carbonico della stufa.” Le parole del tenente
colonnello Pietro Testa nel suo Rapporto sul Campo 83 (Wietzendorf), scritto per
denunciare i crimini di guerra compiuti dai tedeschi nel campo di Wietzendorf, ben
riassumono l’effettiva realtà dei viaggi di trasferimento degli IMI nei Lager (Testa
1945, p. 37): “Inoltre io mi sono limitato alla vita del campo di Wietzendorf. I viaggi
di trasferimento in carri bestiame meriterebbero un capitolo a parte per il
64
trasferimento bestiale usato agli ufficiali italiani viaggianti fino a 60 per vagone,
senza mangiare, senza scarpe, senza coperte, senza modo di fare i bisogni corporali,
spesso privi di scarpe, cinghie, bretelle per impedire i tentativi di fuga.”
2
E. = Est
Kriegsgefangenen] Kriengefangen
I viaggi dei deportati, chiusi nei carri bestiame, duravano molti giorni e
avvenivano nelle peggiori condizioni possibili. Senza possibilità di ricevere vitto
sufficiente (scarsissimo era quello che alle soste davano le guardie ai prigionieri, la
cui fame poteva essere per un po’ lenita soltanto dagli inaspettati ma non rari gesti di
solidarietà dei civili alle stazioni), spesso con pochissima acqua, senza riscaldamenti
nelle gelide notti, dovendo sopportare pessime e umilianti condizioni igieniche (al
grido di “Abort” i tedeschi concedevano pochi minuti di sosta per espletare a
comando i propri bisogni, nei campi all’aperto e nelle stazioni in pubblico; dentro i
vagoni c’era in un angolo un fetido bidone coperto da una stuoia per i bisogni
corporali, che per molto tempo non veniva svuotato appestando l’aria all’interno), i
prigionieri, che durante il viaggio avevano anche visto morire di stenti molti loro
compagni, arrivavano alla meta stremati, dovendo poi percorrere vari chilometri
dalla stazione al campo di raccolta.
Il prigioniero Carmelo Cappuccio, deportato a Benjaminowo, in Polonia,
nell’ottobre del 1943, nei suoi ricordi descrive la vicina cittadina di Siedlce (da
Piasenti 1977, pp. 117-118), al cui campo Ugo d’Ormea giunse il 13 novembre
successivo: “Scendiamo (N.B.: dal treno) tra schiere di baionette e rauchi comandi.
La colonna, lunga e sottile, si muove tra gli armati: ai fianchi, qua e là, gli ufficiali
tedeschi cavalcano bianchi cavalli sul verde compatto dei prati. Traversiamo la
piccola Siedlce: una breve serie di case basse e graziose, che ricordano i villaggi
toscani. Ai balconi e alle finestre si affollano donne e ragazzi polacchi: hanno lo
sguardo umano di chi ha già conosciuto il dolore e ha imparato la pietà. Ci
lanciano del pane, mentre le sentinelle urlano e minacciano con i mitra levati verso
il cielo. Poi ci addentriamo in un ampio pianoro, luccicante di acquitrini tra l’erba
folta: la colonna è un enorme nastro di grigie formiche: i bianchi cavalli incedono
trionfanti: all’orizzonte oscillano con un suono cupo le campane d’una chiesa
ancora intatta. La strada è interminabile, faticosa, avvolta da un cupo silenzio. In
fondo traversiamo una grigia borgata: vi sono i nidi delle cicogne; ma gli uccelli
liberi sono già volati via verso le terre più calde. E, lentamente, il reticolato del
campo ci ingoia e si chiude dietro i passi stanchi degli ultimi compagni.”
3
Annota nel suo Grande Diario Giovannino Guareschi, alla data del 18 novembre
1943 (quand’era rinchiuso nel Lager polacco di Beniaminowo), a proposito del
trattamento di favore di cui godevano i prigionieri che avevano optato per la RSI
(Guareschi 2011, p. 266): “I “repubblicani”, ovvero i trentasei che hanno firmato la
65
scheda di adesione e attendono di essere portati via, vivono separati da noi in una
baracca ben riscaldata e mangiano doppia razione di margarina, minestra, uova, e
fumano.” Alla fame, alle privazioni e ai maltrattamenti che dovevano subire gli
internati si aggiungevano anche i pressanti inviti rivolti da ufficiali e funzionari
civili rappresentanti della RSI che visitavano in giri di propaganda i campi per
indurre i prigionieri ad aderire alla neonata repubblica di Mussolini. Citiamo un
episodio ricordato da Orazio Leonardi, in un capitolo del suo memoriale
significativamente intitolato L’ignobile proposta, alla data di metà settembre del
1943, quando venne a visitare i prigionieri di Sandbostel anche l’ambasciatore
italiano a Berlino Filippo Anfuso (Leonardi 2012, p. 34): “Un mattino di metà
settembre ci radunano, soldati e ufficiali, in un grande piazzale, saremo in
cinquemila circa. Davanti a noi c’è un palco con microfoni e altoparlanti.
Nell’attesa di quanto sta per accadere, facciamo le più svariate ipotesi. Poi
arrivano diverse macchine, ne scendono ufficiali tedeschi e persone in abiti civili,
uno dei quali si presenta come l’ambasciatore italiano a Berlino, Anfuso. Dopo
averci arringati sul tradimento perpetrato da Casa Savoia, le autorità tedesche ci
propongono, per riscattarci, di arruolarci nelle SS. La risposta a questa ignobile
proposta è un’ondata di fischi.” Anche Guareschi narra nel suo Grande Diario al 19
settembre, a Sandbostel, la visita degli ufficiali fascisti che con scarso successo
propagandavano l’adesione alla RSI, questa volta accompagnati dal console italiano
di Amburgo (Guareschi 2011, p. 229): “Adunata dei sedicimila soldati e dei trecento
ufficiali italiani presenti nel campo. Una tribunetta con altoparlante preparata in
mezzo a un grande spiazzo. L’hanno anche decorata con dei festoni verdi. Il console
italiano di Amburgo Oderigo e lo «squadrista Busetti» (così lo presentano) cercano
di convincerci a collaborare con le SS germaniche. Aderiscono due tenenti e trenta
soldati.” A seguito di questi giri di propaganda, nei campi nasceva perciò una
situazione assai penosa, che rifletteva la divisione del nostro Paese, stretto fra due
eserciti stranieri e spaccato dalla guerra, che divenne anche guerra civile. A fronte
della stragrande maggioranza, una quota minoritaria di prigionieri, definiti “optanti”,
aderì alla nuova repubblica di Mussolini. Le più varie motivazioni spinsero questi
italiani a lasciare i commilitoni e ad entrare nei ranghi della RSI. Quelle elencate
puntigliosamente da Guareschi nel suo Grande Diario (alle pp. 71-72) si possono
ricondurre sostanzialmente a quattro: la fede nel fascismo e in Mussolini
(motivazione che spinse soprattutto i più giovani), il riscatto dell’onore nazionale
calpestato dal tradimento dell’alleato l’8 settembre, l’impossibilità di continuare a
sopportare gli stenti, il desiderio di tornare a rivedere le proprie famiglie, il
tornaconto personale. Poi ve ne era una quinta, forse quella più cogente: le lettere
che giungevano ai deportati con gli inviti di mogli, madri e sorelle ad arruolarsi e a
fare il loro dovere di soldati e mariti (“Ondata di lettere da casa incitanti a optare!”,
annota Guareschi al 15 maggio 1944: vd. Guareschi 2011, p. 370). Biasimo,
scherno, disprezzo, odio erano i sentimenti che si guadagnavano gli optanti da parte
dei rimasti nei campi, quasi che fossero considerati estranei, da condannare
moralmente, o pur anche nemici, come si legge in Guareschi al 10 maggio 1944, il
66
quale, nel dopoguerra, abbracciò la causa della destra politica fondando il
settimanale Candido (Guareschi 2011, p. 368: “Ho visto il tenente mandato per
raccogliere le adesioni alla Repubblica (sociale) italiana: è senza stellette, con il
gladio tra i rami di quercia. Lo sento di un esercito nemico, più di quello tedesco.”
Tuttavia si è recentemente accertato che il numero degli “optanti” per la RSI fu
considerevole: 200.000 militari, ossia il 20% circa degli internati, secondo
Avagliano – Palmieri 2009, p. 91.
4
Al recapito della corrispondenza dei prigionieri da e verso le proprie famiglie
provvedeva, alquanto saltuariamente, la Croce Rossa Internazionale, che scarsissima
assistenza poteva dare in quanto la qualifica di IMI (Internati Militari Italiani) li
escludeva dalla sua tutela. Scarsa assistenza, d’altra parte diede la RSI con il suo
ufficio SAI (Servizio Assistenza Italiani) e nessuna il Regno del Sud, non
riconosciuto dalla Germania nazista. Preziosa, invece, fu l’opera dei cappellani
militari, come don Luigi Pasa, a Sandbostel, che riuscì a ottenere dai tedeschi di
poter corrispondere per raccomandata con il Nunzio Apostolico di Berlino, Mons.
Cesare Orsenigo. Don Pasa riuscì incredibilmente a inviare a Mons. Orsenigo ben
8.000 messaggi dei prigionieri per le loro famiglie in Italia (Don Pasa 19663, p. 116),
parte dei quali furono radiodiffusi da Mons. Orsenigo e parte inviati in Italia con la
valigia diplomatica.
La lettera costituiva un oggetto molto importante per i prigionieri: era il segno
tangibile che i vincoli di affetto con i propri cari persistevano pur nella forzata
lontananza dalla patria, nel travaglioso presente e nell’incerto domani. Come si
legge in Avagliano-Palmieri 2009, p. 221-225, il ricevimento di una lettera da casa
rinnovava ogni volta la gioia di un ideale abbraccio con i propri familiari e, unita
alle foto di mogli, bambini e genitori, ricostituiva potentemente le forze spirituali per
poter resistere alla dura prigionia. Le lettere dei prigionieri sono una
“corrispondenza standardizzata” (così Avagliano – Palmieri 2009, p. 222), con frasi
obbligate sul proprio stato di salute (sempre buono, evidentemente per non dare
pensiero ai destinatari) e richieste di invio di cibo e vestiario. Vi erano naturalmente
precise regole che limitavano la Kriegsgefangenenpost (corrispondenza dei
prigionieri di guerra): la posta era controllata dalla censura, sia quella in partenza sia
quella in arrivo dovevano essere redatte su moduli prestampati con apposita
intestazione e limitato numero di righe. Ogni ufficiale aveva diritto a spedire tre
lettere e quattro cartoline al mese, i sottufficiali e i soldati due lettere e quattro
cartoline. Era vietata la corrispondenza tra internati. La distribuzione dei pacchi e
della posta avveniva in misura disuguale per i prigionieri. Chi aveva parenti al
centro e al nord Italia (ossia nelle regioni ancora controllate dai nazifascisti) poteva
sperare di ricevere lettere e pacchi da casa con una certa frequenza, mentre gli arrivi
dal sud, dalle regioni liberate dagli Alleati, erano assai difficoltosi. Si creò pertanto
una differenziazioni tra gli stessi prigionieri: alcuni poterono contare su consistenti
rifornimenti di cibo e vestiario (biancheria, indumenti nuovi), quelli che erano
67
chiamati pacchisti, altri meno, altri per niente (in genere quelli che avevano le
famiglie al sud). In questi casi, alla penuria di cibo e vestiti sopperiva la solidarietà
tra compagni di prigionia: se questa mancava chi era stato dimenticato dai propri
familiari non aveva altra risorsa che vendersi gli oggetti preziosi che aveva (ad
esempio, orologi e catenine d’oro contro pane e sigarette).
Dal diario di Ugo d’Ormea si ricava che il Nostro ricevette durante l’intero
periodo di prigionia almeno 36 lettere e 5 pacchi, di cui il primo al 18 marzo 1944.
La prima lettera ricevuta da casa è del 3 marzo 1944, precedentemente d’Ormea
aveva ricevuto una cartolina al 15 gennaio. Giovannino Guareschi scrisse la prima
lettera il 2 dicembre 1943 e ricevette la risposta il 31 dicembre successivo (vd. il
Grande Diario alle pp. 277 e 299). Altri non furono così fortunati. A Sandbostel,
nello stesso campo di d’Ormea, Serafino Clementi, dopo diversi invii epistolari,
ricevette il primo pacco il 25 maggio 1944 e la prima lettera da casa l’8 giugno 1944
(Carini 2015, pp. 74 e 75). Il sottotenente Tomaso Civinelli, prigioniero a Deblin,
riceve la prima lettera di sua madre il 14 febbraio 1944 e il primo pacco il 16 aprile
1944 (Civinelli 1989, pp. 39 e 77): nei giorni precedenti angoscia, disperazione e
odio verso gli aguzzini tedeschi si alternano nel suo animo in un frenetico turbinio di
sentimenti.
5
coscetta ] coscietta
La fame fu il grande avversario degli internati militari. Lo scarso cibo distribuito
nel campo (la “sbobba” o “sbobbetta”, com’è chiamata in molti memoriali),
consistente spesso in una brodaglia di rape o crauti e un pezzetto di pane con
margarina e poco altro, non poteva bastare al fabbisogno calorico dei prigionieri,
molti dei quali morirono di stenti e di malattie o uccisi dalle sentinelle mentre
cercavano di recuperare fra i reticolati merci e generi commestibili scambiati con i
compagni di prigionia. Ci si riduceva a dar la caccia ai topi, pur di placare i morsi
della fame: la terribile penuria li rendeva, con il ricorso agli espedienti culinari,
addirittura gustosi al palato dei prigionieri. Così ricorda Claudio Tagliasacchi,
sottotenente prigioniero a Siedlce e poi a Sandbostel e in altri Lager (Tagliasacchi
1999, p. 51): “Fui più fortunato con un topo (N.B.: il prigioniero aveva tentato poco
prima di lessare le cornacchie): era piccolo e lo presi facilmente con la solita
coperta. Fra l’interesse e i consigli invidiosi di tutti, riuscii a spellarlo. La carne era
bella, di un rosa pallido. Rimaneva il problema della cottura: lesso – secondo il
parere unanime – non avrebbe reso; arrosto era impossibile cuocerlo. Mi ricordai
allora del cappellano che aveva un po’ di vino che i tedeschi gli passavano per dir
messa. Lo commossi e ne ottenni poco più di un cucchiaio: lo mescolai nella gavetta
con un po’ di tisana, vi misi il topolino e posi tutto sulla stufa lasciandolo l’intera
giornata. Alla sera tra l’invidia generale lo mangiai dividendolo con Dado. Era
davvero mica male! Ma i topi non si fecero più vedere e nonostante tutta la baracca
gli desse la caccia, unendosi in cooperativa non ci fu più verso di trovarne uno.”
68
L’inverno del 1944 fu a Sandbostel assai rigido: Serafino Clementi ricorda nel suo
memoriale all’8 dicembre 1944 che le razioni giornaliere davano appena 1600
calorie, appena sufficienti per mantenersi in vita, secondo il maggiore medico del
campo: si passava perciò molto tempo a letto, se la disciplina lo permetteva, per
risparmiare più calorie possibili (Carini 2015, pp. 97 e 98). Si sopperiva poi alle
necessità della fame acquistando a caro prezzo viveri, scarsi e talvolta introvabili, di
cui era incredibilmente fornito il “mercato nero” che a Sandbostel, come negli altri
campi di prigionia, comunque funzionava. A Sandbostel il mercato nero
(ufficialmente vietato) era gestito anche dagli ufficiali italiani, che acquistavano
merci dai tedeschi e le rivendevano a prezzi di molto maggiorati, come informa
Antonio Zupo (Zupo 2011, p. 31): “Ho potuto constatare nei vari campi come il
90% degli ufficiali italiani siano ben forniti di soldi. Lucro indegno di speculazioni
fatte nella regione balcanica. Molti parlano di invio di pacchi a casa, di pelli,
oggetti vari, tonno all’olio, pasta, riso, marmellate, liquori, acquistati (dicono loro)
alle sussistenze militari. Ed i soldati soffrivano la fame! Uno si vanta d’avere
regalato alla moglie una cinta formata da 25 sterline, frutto di mercato nero! Tutti
hanno rubato, hanno speculato ed ora i soldati, che hanno sofferto e che conoscono
il malfatto degli ufficiali, ci trattano da pari a pari. Ma quello che più fa pena è
l’egoismo d’ognuno. Tutto è commerciabile. Se si ha bisogno di un bottone non si
riesce ad ottenerlo, da un collega, se non in cambio di qualche altra cosa. Guai ad
avere bisogno! Nel campo entrano pure delle pagnotte, farina, burro o altro.
Trascrivo i prezzi indegni a cui possono sobbarcarsi quelli che hanno soldi e che
sono aumentati del doppio del prezzo di acquisto presso i soldati tedeschi. Una
pagnotta di un kg. e ½ circa, un kg. di burro £. 3.000, un kg. di farina £. 1.000, un
pacchetto di tabacco £. 200, un mazzetto di cartine £. 100.” Ma va detto che dai
soldati venivano spesso gesti concreti di solidarietà, come quello narrato da d’Ormea
al 24 febbraio 1944. Il Nostro non fa il nome del compagno che gli regalò due fette
di pane che aveva ricevuto in cambio del suo orologio d’oro. Leggiamo però nel
memoriale di Orazio Leonardi, internato a Sandbostel nello stesso periodo del
d’Ormea, che egli, vinto dalla fame, scambiò il suo orologio da polso con un filone
di pane nero (Leonardi 2012, p. 33: “Gli scambi avvengono lanciando gli oggetti al
di sopra dei reticolati, anch’io ho scambiato l’orologio da polso regalatomi per il
mio diciottesimo compleanno, con un filone di pane nero, che purtroppo, non
resistendo alla fame, è sparito subito.”). È improbabile che il Leonardi sia il
generoso compagno di d’Ormea (quanti internati si disfecero degli oggetti più cari
che avevano con sé, ricordi di famiglia, per racimolare un pezzo di pane e vincere i
morsi della terribile fame?), ma sarebbe suggestivo immaginarlo.
6
L’arrivo al campo di un pacco di viveri e vestiario rappresentava per il prigioniero
un momento di ineguagliabile felicità: aveva la prova tangibile che era stato nei
pensieri dei suoi cari, che qualcuno provvedeva a lui, pur segregato in un luogo
remoto e irraggiungibile, e poteva nutrire speranze di sopravvivere all’inferno della
69
prigionia. Ugo d’Ormea ricevette il primo pacco il 18 marzo 1944, a Siedlce in
Polonia. Altri non furono così fortunati. Non tutti i prigionieri ricevevano pacchi
dall’Italia con continuità, ci fu chi ne ricevette pochissimi e chi nessuno. Alla fame
si aggiungevano allora l’invidia verso i compagni che godevano dell’insperata
ricchezza dei pacchi viveri, la rabbia e la disperazione di sentirsi abbandonati.
Annota al riguardo Guareschi nel Grande Diario al 23 ottobre 1944 (Guareschi
2011, p. 430): “Vicino a me mangiano grosse scodelle di riso, formaggio grana,
galletta bianca. C’è chi fuma sigarette, dio, che fame disperata, che voglia di
masticare. Che voglia di fumare. C’è gente che ha ricevuto fino a settanta pacchi:
gente neppure uno, gente pochissimi. Anche qui ci sono i ricchi e i poveri, quelli che
hanno “gente in gamba” a casa. E c’è chi schiatta per troppo mangiare e io crepo
di fame, come tanti altri. Almeno qui dovremmo essere tutti uguali.” E poi, al 2
novembre 1944 (Guareschi 2011, p. 433): “Morpurgo, Barone, Jellinek in una
settimana hanno ricevuto venti pacchi e io da tre mesi niente. Li vedo mangiare e
fumare lì a un metro. I grassi borghesi: non li saluterò più a casa. Mi sento
abbandonato da tutti. Che fanno i miei? Dormono? Nessuno pensa a me! Neanche
Dio!” I pacchi all’arrivo al campo erano accuratamente perquisiti dalle guardie, che
li aprivano e gettavano sui tavoli o per terra tutto il contenuto alla rinfusa: capi di
vestiario e viveri, pasta, conserve, salumi, formaggi, farina, zucchero, caffè o
surrogato, tutto veniva aperto, sparpagliato e mischiato davanti ai prigionieri, che
dovevano poi raccogliere alla bell’e meglio e portarsi via quanto era avanzato dalla
furia degli sgherri. La qualifica di Internati Militari Italiani, data dai tedeschi ai
prigionieri, sottraeva questi ultimi alle tutele concesse dalla Croce Rossa
Internazionale, secondo la Convenzione di Ginevra del 27 luglio 1929: i prigionieri
poterono ricevere, a differenza dei loro compagni francesi o americani, pochissimi
pacchi viveri dalla Croce Rossa, e assai poco giunse sia dalla RSI che dal Regno del
Sud. Il gerarca fascista e delegato per la CRI in Germania prof. Giorgio Alberto
Chiurco poté inviare il 29 marzo 1945 nel campo di Wietzendorf viveri per 185,50
chilogrammi, in gran parte avariati, che dovevano però bastare per circa 4000
internati (la lettera di accompagnamento della spedizione, con le considerazioni di
Guareschi, è riprodotta nel Grande Diario alle pp. 90-91).
A proposito dell’assistenza data dalla Repubblica di Salò ai militari italiani nei
Lager, l’ex ambasciatore della RSI a Berlino, Filippo Anfuso, ha scritto in un suo
libro di memorie che Mussolini stanziò miliardi per far giungere agli internati i
pacchi viveri (Filippo Anfuso, Da Palazzo Venezia al Lago di Garda (1936-1945),
Edizioni Settimo Sigillo, Roma 19964, p. 377). Anche l’esponente del MSI ed ex
vicesegretario del Partito Fascista Repubblicano Pino Romualdi ha affermato che
quantità ingentissime di materiale d’ogni specie furono inviate dalla RSI in
Germania ai nostri prigionieri (Pino Romualdi, Fascismo repubblicano, SugarCo
Edizioni, Milano 1992, p. 110). Ma se è vero quanto affermato da Anfuso e
Romualdi, è altrettanto e incontestabilmente vero, per unanime testimonianza di tutti
gli internati, che agli IMI venne distribuito pochissimo. Una delle spiegazioni della
scarsità degli arrivi di pacchi potrebbe rinvenirsi nelle parole del tenente Antonio
70
Bocchiola, deportato a Wietzendorf (in Bedeschi 1990, p. 364): “Ho ricevuto,
durante i 20 mesi, circa 35 pacchi viveri dalla mia famiglia, che ha compiuto
enormi sacrifici. Ogni pacco poteva essere di 5 kg. Molti sono stati alleggeriti, forse
prima che passassero il confine, dato il contenuto di salumi, zucchero, polli sotto
grasso, che scarseggiavano in Italia.”
Si ricordi che decine di migliaia di prigionieri italiani dalla Germania non
tornarono più, vittime degli stenti, delle malattie o delle brutali sevizie e uccisioni
degli aguzzini nazisti (mancano cifre precise, si va dai 40.000 caduti indicati da
Paride Piasenti 1977, p. 425, ai 20-30.000 secondo Gabriele Hammermann, Gli
internati militari italiani in Germania 1943-1945, trad. di Enzo Morandi, il Mulino,
Bologna 2004, p. 379).
Il 26 marzo 1944 il prigioniero Ugo d’Ormea arriva a Sandbostel, località vicino
Brema. Per una descrizione di Sandbostel, citiamo il brano seguente dall’intro-
duzione al diario di prigionia di Orazio Leonardi, soldato del 232° Reggimento
Fanteria di Bolzano catturato dai tedeschi il 9 settembre 1943 e internato in quel
campo (Leonardi 2012, p. 15): “Uno dei più grandi campi di prigionia costruiti in
territorio tedesco, in un terreno paludoso tra i fiumi Elba e Weser, era il campo
chiamato XB (campo B nel distretto X - Amburgo). Nel settembre 1939 alcune
migliaia di Polacchi arrivarono, come prigionieri di guerra. Fino alla fine della
guerra nell’aprile 1945, vi furono tenute prigioniere e vi transitarono un milione di
persone provenienti da molti paesi europei, prigionieri di guerra, dal Belgio, dalla
Francia, dalla Gran Bretagna, dalla Jugoslavia, dall’Unione Sovietica e militari
italiani dopo l’8 settembre 1943, oltre a circa 10.000 internati dai campi di concen-
tramento. Migliaia di prigionieri morirono a causa della fame, di epidemie, di
esaurimento e di violenza. Le stime parlano di 50.000 morti, per la maggior parte
prigionieri sovietici. Il cimitero è situato a un paio di chilometri dal Lager. Le
spoglie mortali dei prigionieri di guerra e dell’internamento, non sovietici, furono
per la maggior parte trasportati nei loro paesi di provenienza, quelle degli Italiani
nel cimitero di Amburgo-Öjendorf.”
Sandbostel, grande campo di internamento per i militari, vicino Brema, accolse
dal 1939 al 1945 un milione di prigionieri di 46 nazioni, 50.000 dei quali morirono
di stenti, malattie o uccisi. Dal sito www.radio-caterina.org abbiamo appreso che il
campo appartiene a proprietari privati e che nel 1986 ne fu cacciata una troupe
televisiva italiana (sito aggiornato al 2008). Il 19 settembre 1943 erano presenti al
campo, secondo Giovannino Guareschi, 16.000 soldati e 300 ufficiali italiani,
solennemente adunati per ascoltare gli inviti del console italiano di Amburgo e dello
squadrista Busetti a collaborare con le SS (aderirono due tenenti e trenta soldati: vd.
Guareschi 2011, p. 229). Riportiamo anche questa rapidissima ma terribilmente
efficace descrizione guareschiana di Sandbostel, annotazione del 18 settembre 1943:
“Bremerwörde. Tredici chilometri a piedi coi bagagli sulle spalle, quindi il Lager di
Sandbostel. Quaranta o cinquantamila prigionieri di ogni Paese vivono in quelle
schifose baracche, divisi per nazionalità. Sembra un immenso lazzaretto, una città
di appestati” (Guareschi 2011, p. 229).
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Tristezza e desolazione, pur se affiorano tracce di una natura prepotentemente
vitale, promanano dalla descrizione del campo di Sandbostel fatta da Bruno Betta (in
Piasenti 1977, p. 87): “A Sandbostel, presso Bremervörde, il Lager X B era in una
landa ora fiorita d’erica ora lucida e desolata, triste. Gli stornelli in primavera a
stormi si posavano azzurri e ciarlieri sui reticolati e svolazzavano qua e là. E sul far
dell’estate passavano al largo le famiglie dei caprioli: avanti il maschio, e dietro la
femmina col piccolo ancora picchiettato di bianco. D’autunno s’alzava la nebbia,
piano piano, dal suolo, bianchissima, e crescendo, sommergeva lentamente,
ovunque, le figure dei prigionieri, lambendo prima i piedi, giungendo poi a
mezzobusto, lasciando emergere solo la testa, ingoiando infine anche questa. C’era
un gruppetto d’alberi là, verso est, presso due case dal tetto rosso: era un punto che
guardavamo spesso, come il centro d’attrazione del quadro. Era carico di emozioni
e di sentimenti. E c’era anche una stradicciola nella landa. Vi passava qualche
pastore col gregge, qualche donna in bicicletta. Simboli della vita che continuava.
Stagliati sull’orizzonte, al mattino, spiccavano i traini umani dei russi, trascinanti i
carri botte dello sgombero fognature… “Volga, Volga! …” sembrava di sentir
cantare, quasi rivivendo un vecchio spettacolo cinematografico ambientato in
Siberia.” Aggiungiamo anche questa descrizione di Armando Ravaglioli, che vi fu
detenuto dal maggio 1944 al febbraio 1945. Le sue parole richiamano alla mente, ma
in modo assai più triste e minaccioso, la “città dell’acciaio”, Stahlstadt, immaginata
da Verne nel suo famoso romanzo I cinquecento milioni della Begum (Ravaglioli
2000, p. 174): “La prima impressione di questo campo è stato di una mastodontica
città concentrazionaria, somigliante per grandiosità e complessità al nostro iniziale
campo di Fallingbostel. Sembra un accampamento antisismico, con baraccamenti
dal solo pianterreno, di una impressionante grandiosità. Dai tetti ricoperti di
cartoni incatramati, il sole del tramonto trae brividi di lucentezza come da una
superficie marina. I reticolati, montati con abbondanza di filo rugginoso su più file,
la disposizione delle numerose torrette per i fari che esplorano la notte e mostrano
le mitragliatrici pronte a reprimere anche le ombre, la dislocazione urbanistica
degli edifici attorno a spazi centrali sgomberi: tutto offre l’idea di qualcosa che è
stato predisposto come stabile e possente, destinato a funzionare per tutti i mille
anni che sono nel programma di durata del Reich nazista!”
Una originale e assai efficace versione fumettistica della vita quotidiana degli IMI
a Sandbostel è quella disegnata da Marco Ficarra sulla base delle lettere di suo zio
Gioacchino Virga, prigioniero nel 1944 in quel campo: vd. Marco Ficarra, Stalag
XB, BeccoGiallo, Padova 2009.
7
Il capitano di cui Ugo d’Ormea ricorda la barbara uccisione al 7 aprile è Antonio
Thun conte di Hohenstein. La morte del capitano Thun a Sandbostel è ricordata in
vari scritti di reduci, tra cui il Grande Diario di Guareschi (p. 355) alla medesima
data, venerdì 7 aprile 1944 (“Questa notte è stato ucciso il capitano Thun. Un
minuto di raccoglimento”), il taccuino di Serafino Clementi (Carini 2015, p. 70) e il
72
memoriale di Antonio Zupo (Zupo 2011, p. 34). Il conte e cavaliere di Malta
Antonio Thun di (o von) Hohenstein, appartenente ad una nobilissima famiglia
trentina, nato in Boemia a Proeluc il 12 novembre 1911, ufficiale di cavalleria
prigioniero a Sandbostel, rifiutò di arruolarsi nella Wehrmacht, preferendo
mantenere la cittadinanza italiana, e probabilmente per questo motivo fu prodito-
riamente assassinato da una sentinella tedesca. Notizie più dettagliate sulla sua
morte si leggono nella raccolta poetica di un ex deportato, Gino Bertolini, Liriche
dell’esilio, Unione Tipografica Editrice Ferrari, Occella e C., Alessandria 19463, alla
p. 43, che riportiamo di seguito: “Fu grave motivo di dolore per tutti i deportati
italiani il doversi spesso privare di oggetti cari, miracolosamente sfuggiti all’attenta
rapina delle continue perquisizioni, per vincere la fame con cui si cercava di
piegare la loro resistenza morale. Spesso gli stessi militari tedeschi offrivano pane
per strappare agli italiani anche le fedi nuziali. Il capitano Thun che parlava
correntemente la lingua tedesca, pressato da una sentinella, le aveva consegnato un
prezioso di un compagno che languiva di fame, per averne in cambio viveri. Nella
notte dal Venerdì al Sabato Santo (7-8 aprile 1944), a richiesta della sentinella
stessa, alle tre del mattino, il capitano Thun si recò al reticolato per ritirare quanto
pattuito. Cadde innanzi al reticolato per due colpi di fucile. Solo dopo qualche ora
fu concesso ai compagni di raccogliere e trasportare il Conte di Hohenstein, ormai
deceduto. Antonio Thun era caro a tutto il campo per lo sdegnoso rifiuto con cui
aveva respinto le pressioni tedesche perché egli, di origine austriaca, entrasse
nell’esercito nazista. La sua forza morale si diffondeva sugli altri attraverso il
sereno sorriso, che gli illuminava sempre il volto, specialmente quando parlava
della madre e confidava ai più intimi il suo orgoglio per le parole di incitamento e
di approvazione che Ella gli aveva scritto sapendo della irremovibilità del figlio. A
lungo nel Campo rimase l’impressione che il delitto avesse un movente politico.” Si
noti che anche il Bertolini, così come il Clementi, allude a un “movente politico”
dell’assassinio. All’eroico capitano Thun Gino Bertolini volle dedicare una delle sue
liriche, intitolata La Croce di Malta, di cui riportiamo i primi versi (in Liriche
dall’esilio, cit., p. 22): “Il fiero tuo sguardo ricordo, / Conte di Hohenstein, / e
l’orecchio ancor m’accarezza / la voce ne la qual s’addolciva / l’aspra straniera
favella, / allorché ne le grigie mattine / sferzava il nevischio i volti smagriti / e
l’acqua fangosa inzuppava / le scarpe gualcite.” Altre notizie sul capitano Antonio
Thun sono nel memoriale di don Luigi Pasa, in un capitolo significativamente
intitolato Il delitto di Caino (cap. XIX). Ne citiamo un brano, che rievoca la statura
morale, la generosità (gli oggetti preziosi, che il Thun dava alle guardie in cambio di
cibo per i prigionieri, erano suoi personali, non di altri), la nobiltà d’animo e i
sentimenti patriottici che animarono Antonio Thun e che lo resero caro ai compagni
di prigionia (don Pasa 19663, pp. 142-143): “Il Thun godeva la stima generale.
D’origine boema, divenuto italiano dopo il ’18, nel periodo della prigionia era stato
più volte invitato ad optare per la Germania: sempre egli s’era rifiutato.
L’impressione generale fu che tale rifiuto c’entrasse non poco nella sua morte.
Intanto egli si sentiva in una situazione pericolosa. Il giovedì santo, dopo d’essersi
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confessato e comunicato, mi disse: «Ho un certo presentimento…». Malgrado
questo in giornata consegnò di nascosto a una sentinella tedesca alcuni suoi oggetti
perché gli portasse qualcosa da mangiare. La sentinella promise, come aveva già
fatto ancora, avvertendolo di ripassare alle 10 di notte, quando sarebbe stato di
guardia al cancello del campo. All’ora usata Thun andò e fu invitato a tornare alle
3. Alle 3.20 s’udì lo sparo, e indosso al cadavere nulla c’era che testimoniasse la
pattuita consegna di cibarie. S’era trattato, dunque, d’un tranello; e la sentinella
aveva impedito che Salvadori e Nicolodi (N.B.: il capitano Salvadori e il
sottotenente Nicolodi, che erano i più vicini al luogo dello sparo, furono allontanati
col fucile spianato dalla sentinella, quella stessa che aveva sparato contro il Thun)
s’avvicinassero al colpito perché temeva che fosse ancora vivo e potesse parlare…
Il dolore dei prigionieri fu grande e s’espresse nell’intenzione di dare carattere il
più solenne possibile ai funerali; senonchè, verso le 9 di quella stessa mattina, i
tedeschi ci portarono via la salma. «Vedrà» dissi al comandante Brignole (N.B.: il
comandante degli italiani prigionieri a Sandbostel) «che lo seppelliranno come un
cane». «Lei tracci un programma del funerale e io lo presenterò subito ai tedeschi».
Ma la salma non la riavemmo. Ci fu concesso di recarci in trenta ai funerali, che si
svolsero martedì 11, all’ospedale. Poiché il defunto apparteneva al Sovrano
Militare Ordine di Malta, avemmo tre rappresentanti di detto Ordine, nelle persone
del Barone Valentino Salvadori, dei Marchesi Angelo Mazzacchera e Ferdinando
Alfan de Rivera. Avvolto il feretro nel tricolore con l’emblema gerosolimitano,
assistito da Mons. Picco e Don Salvi, il piccolo corteo si mosse dalla cella
mortuaria. Dico subito che il picchetto armato tedesco non fu mandato, tanto per
rendere onore al morto, quanto per accompagnare noi italiani e così impedirci di
scappare.” Altre notizie sul capitano Antonio Thun di Hohenstein si leggono sul sito
“Dimenticati di Stato. I Caduti sepolti nei cimiteri militari italiani in Germania,
Austria e Polonia”, a cura di Roberto Zamboni, all’indirizzo:
www.dimenticatidistato.com
8
La visita della commissione della Croce Rossa a Sandbostel, che Ugo d’Ormea
data al 18 maggio 1944, fornì l’occasione per la propaganda della RSI e l’invito ai
prigionieri, che non avevano optato per arruolarsi nell’esercito repubblicano, a
lavorare nelle fabbriche e fattorie tedesche. Ecco come succintamente narra
l’episodio Giovannino Guareschi nel suo Grande Diario (Guareschi 2011, p. 371)
alla stessa data: “È venuto un generale con la Commissione della Croce Rossa, un
giovanotto biondo e una signora straniera, baronessa moglie del console di Vienna.
Con alcuni pacchettini. «Sarebbe ora che dimenticaste tutto e aderiste a lavorare!»
ha detto il generale: ma chi vi ha fatto generale? Vi faremo vedere come
dimenticheremo.” Le rare visite della Croce Rossa erano seguite dalla distribuzione
di viveri e generi di conforto, una goccia nel mare magnum delle necessità in cui
affogavano i prigionieri. Guareschi ricorda nel suo diario, il giorno dopo, di aver
ricevuto “una sigaretta e un quarto dalla Croce Rossa Italiana.” (ibid.).
74
9
L’episodio del 24 giugno è riferito da Giovanni Guareschi nel Grande Diario (p.
387), alla stessa data, con dettagli sul numero dei feriti e sulla reazione delle
sentinelle: “Passaggio sulle nuvole di una formazione. Coppola suona. Brusio:
scende un paracadutista, l’apparecchio caduto brucia a est, lontano. Corrono. La
torretta spara, quattro colpiti: due al braccio (uno perderà il braccio). Fuggono.
Sentinelle sghignazzano… (Fulminea tragedia).” Variazione sul numero dei feriti
nel taccuino di Serafino Clementi, che riferisce il medesimo fatto, (tre ufficiali
italiani, a uno dei quali verrà amputato il braccio destro). Il Clementi precisa che non
venne suonato l’allarme aereo e che gli ufficiali colpiti erano lontani dai reticolati,
nello spazio permesso (Carini 2015, p. 78: “Non c’era allarme aereo; gli ufficiali
erano lontani dai reticolati, nello spazio permesso!”). Il che dimostra ancora una
volta la gratuita crudeltà dei guardiani di Sandbostel.
Al 30 giugno Ugo d’Ormea annota il tentativo di fuga di un collega, la sua cattura
alla stazione e il successivo faticoso prolungamento dell’appello pomeridiano. Alla
stessa data segna il fatto Guareschi (Guareschi 2011, p. 388): “Non lo trovano,
cercano nei cessi coi bastoni. Impossibile sia fuggito data la perfetta organizzazione
della sorveglianza! Lo hanno ripreso a Bremerwörde (ov’era la stazione ferroviaria,
distante dodici chilometri da Sandbostel).” Don Luigi Pasa, cappellano a Sandbostel,
nel suo memoriale ricorda l’episodio con maggior dovizia di particolari. Riferiamo
le sue parole (don Pasa 19663, p. 128-129): “In quello stesso mese di giugno, il 30,
l’appello pomeridiano durò parecchie ore. Perché?... Mancava un ufficiale, il s. ten.
Bellina, della baracca 85. Da molto tempo costui meditava la fuga, e quel giorno
v’era riuscito. Ma rimase poco uccel di bosco: la polizia di Bremervörder telefonò
al campo annunciando che in… stazione era stato fermato un ufficiale italiano che
attendeva… il treno. Come fosse riuscito a scappare lo sapemmo poi. Ogni giorno
entrava nel campo il camion della posta e dei pacchi. Approfittando d’un momento
che nessuno lo vedeva, il Bellina s’era cacciato dove venivano messi i pneumatici di
ricambio: e così bene si era nascosto che, visitato il camion da varie sentinelle di
guardia all’uscita dal nostro campo e da quelle di altre nazionalità, non era mai
stato scoperto. Prima di Bremervörder, poi, durante un rallentamento della
macchina, era saltato giù, dirigendosi alla… stazione. Se la cavò con la prigione e
una buona dose di legnate.”
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Il concerto a cui assistette Ugo d’Ormea il 30 luglio 1944 fu quello diretto dal
maestro Enrico Cagna Cabiati. Il Guareschi nel suo Grande Diario alla stessa data
ricorda l’evento musicale con una certa irritazione (p. 398: “Un concerto diretto dal
Maestro Cagna Cabiati nella buca della spazzatura: che ignoranza spaventosa,
questa gente!”), forse non del tutto giusta. La “buca della spazzatura” era una cavità
che, accuratamente ripulita dagli italiani dei rifiuti ivi gettati, fu trasformata in una
piccola arena per le audizioni musicali, adatta a ospitare un pubblico più ampio di
75
quello che poteva entrare nelle baracche. Ci informa al riguardo don Pasa nel suo
memoriale alla p. 109: “Dopo alcune esibizioni in baracche, avemmo vari concerti
all’aperto, cioè in quella che, prosciugando un piccolo laghetto, era diventata la
nostra arena. C’era, nel campo, una bassura dove stagnavano gli scoli e venivano
buttati barattoli vuoti, rifiuti ecc. A poco a poco i nostri pulirono tutto e ne sortì una
estesa cavità dalla forma di catino dove, a disporci all’intorno, si udiva e si vedeva
come in una piccola arena. Là vennero eseguiti non pochi concerti vocali
istrumentali che, ogni volta, attiravano l’intera massa dei prigionieri, facendo
vuotare letteralmente le baracche e suscitando persino l’interesse, l’ammirazione
del tedesco. E fu là che gustammo per la prima volta «Volo di rondini», la maggiore
composizione del Cagna al Lager X B, il quale Cagna, tutt’altro che nuovo a
composizioni musicali, svolge normalmente la sua attività a Roma, dove musica
films.”
Incredibilmente, pur fra tanti disagi, stenti, vessazioni e sofferenze patite,
l’ingegnosità e le risorse spirituali dei prigionieri riuscirono ad organizzare eventi
culturali, creando occasioni per concerti musicali, mostre d’arte, conferenze e
persino corsi di studio di livello divulgativo e anche universitario. A Sandbostel,
come informa don Luigi Pasa (don Pasa 19663, pp. 105-110) ebbe luogo una fervida
attività musicale, grazie alla inconsueta generosità dei tedeschi che fornirono gli
strumenti e alla presenza tra i prigionieri di valenti musicisti come il maestro Cagna
Cabiati, il compositore Pietro Maggioli, che organizzò una scuola di canto (don Pasa
ne ricorda le numerose composizioni della prigionia, tra cui la Missa captivorum a
tre voci, eseguita in varie celebrazioni e festività liturgiche), il pianista Arturo
Coppola, il violinista ten. Rovere, il violoncellista Giuseppe Selmi, il baritono
Gerardo Gaudioso e altri tenori. Agosto fu un mese pieno di iniziative musicali,
come annota Guareschi nel suo Grande Diario alle date del 2 agosto 1944 (concerto
all’ “Arena”, ossia la buca ripulita di cui parla don Pasa, di Maggioli e Cagna
Cabiati), del 7 agosto (serata musicale con Coppola e Cagna Cabiati), dell’8 agosto
(concerto di Cagna Cabiati alla presenza di ufficiali tedeschi), del 12 agosto
(concerto di Pietro Maggioli). L’assistenza religiosa a Sandbostel era assicurata dai
sessanta cappellani militari guidati da don Luigi Pasa; vi era una cappella dotata
degli ornamenti religiosi e don Pasa celebrava la Messa ogni mattina, dopo l’appello
al campo. Ma a Sandbostel fervevano anche le attività culturali e ricreative: si
tenevano conferenze di letteratura (sull’ermetismo), musica e teatro, declamazioni di
poeti moderni ad opera del futuro attore Gianrico Tedeschi, si era organizzata una
università all’aperto con corsi di diritto, lettere, ingegneria, ragioneria, agraria (come
informa Guareschi al 1° giugno 1944, vd. alla p. 378 del suo Grande Diario e,
soprattutto, per gli spettacoli, le conferenze, le attività culturali, le letture di racconti
e le conversazioni che teneva nelle camerate lo stesso Guareschi vd. l’appendice
compresa nel Grande Diario alle pp. 545-553), concorsi letterari e mostre d’arte. Si
realizzò il famoso “giornale parlato”, ad opera di Giovannino Guareschi e di altri
valenti collaboratori, esperienza che poi venne proseguita e arricchita anche nel
campo di Wietzendorf (sul “giornale parlato” di Wietzendorf, che vantava tra i
76
collaboratori anche i futuri giuristi Enrico Allorio e Riccardo Orestano, vd. i ricordi
di Giuliano Pratellesi in Piasenti 1977, pp. 154-157).
Tali attività servirono certamente a risollevare lo spirito dei nostri prigionieri e se
non poterono alleviare le asprezze della detenzione, evitarono che gli uomini
degradassero nel totale abbrutimento.
11
A proposito del penoso caso del capitano impazzito, v’è da dire che ciò era
frequente tra gli internati, fin dai primi momenti di prigionia, anche durante il
viaggio in tradotta. La continua paura aggiunta agli stenti e alle brutalità dei
guardiani, l’angoscia per la sorte propria e dei propri cari di cui non si aveva più
notizia, la tensione nervosa, facevano crollare l’equilibrio mentale di molti
prigionieri. Il caso riportato da d’Ormea al mese di agosto potrebbe essere il
medesimo citato da Guareschi al 21 settembre, nel campo di Sandbostel (Guareschi
2011, p. 418): “Improvvisamente il capitano Montanari ha gettato per terra gli
occhiali e la bacinella gridando: «Basta! Ha detto Dio che non servono più!». Poi è
stato portato in manicomio.” Questi sventurati vedevano pertanto ridotte di molto le
possibilità di sopravvivenza.
Al 25 agosto Ugo d’Ormea annota la barbara uccisione di un collega “che faceva
l’atto di appoggiare un asciugatoio al filo spinato.” Le disposizioni date alle
sentinelle del campo erano severissime, fino ai limiti dell’assurdo, e bastava che un
prigioniero si avvicinasse incautamente al filo spinato per ricevere l’immancabile
proiettile, sparato senza alcun avvertimento. Le guardie, fra l’altro, miravano ad
uccidere e per ogni vittima avevano una licenza premio, se invece sbagliavano il
colpo erano messe agli arresti, come informa Guareschi (Guareschi 2011, p. 408).
Lo stesso Guareschi ci permette di identificare il militare italiano proditoriamente
assassinato, ossia il tenente Vincenzo Romeo, calabrese di Siderno Marina, la cui
morte è datata dallo scrittore nel Grande diario al 28 agosto 1944 (Guareschi 2011,
p. 408): “Alle ore 10,30 (è stato) ucciso il tenente Vincenzo Romeo, (dal)lo stesso
che ha accoppato il russo sabato. Stava lavandosi, lo curava. La palla di rimbalzo
sulle ossa (si è piantata) nella nostra baracca (89 B).” Nel Diario clandestino,
pubblicato anteriormente al Grande Diario ma da considerarsi come uno sviluppo
successivo delle brevi note contenute in questo, Guareschi narra con dovizia di
particolari la morte del tenente Romeo, ma la riferisce all’8 agosto (una probabile
svista dell’autore, perché tutte le altre testimonianze sono concordi sul giorno del 28
agosto). Riportiamo di seguito il lungo brano (Guareschi 199118, pp. 122-124): “Il
morto è disteso su quattro casse, in una stanzetta dell’infermeria, una specie di
ripostiglio con lettiere sfasciate, e sembra una cosa anche lui, con quello straccio di
pastrano buttato addosso alla meglio, e quella legaccia passata sopra la testa e
sotto il mento per tener chiusa la mandibola. Quattro compagni gli fanno la
guardia, assenti anch’essi dal mondo dei vivi, e sembra impossibile che possano
riprendere a parlare e a camminare. Vengono gli altri a vedere l’ucciso, e la fila
silenziosa riempie tutto il corridoio della baracca, e se ne vanno senza un gesto,
77
come se fossero venuti soltanto per assicurarsi che è morto sul serio. Perché pare
impossibile: mezz’ora fa stava lavandosi alla fontana, e adesso è morto. A cinque
metri dalla torretta la pompa e – dietro la pompa – cento persone in fila, in attesa di
riempire brocche e bacili. Uno ha posato il bacile pieno d’acqua sulla sabbia, a due
metri dal filo, e si accinge a lavarsi. È una calda mattina assolata, col cielo
insolitamente azzurro. Un colpo secco ammutolisce la gente. Guardano perplessi il
compagno accasciato sulla sabbia, poi guardano la torretta. La sentinella – un
omuncolo con gli occhiali rotondi e l’elmo di foggia vecchia, coi due risalti
d’acciaio ai lati – emerge dal parapetto come una vipera cornuta da un canestro, e
assiste imperturbabile alla rapida agonia, come se la cosa non lo interessasse.
Quando capiscono, urlano pieni di rabbia impotente. La palla, deviando su un osso,
ha colpito uno spigolo della baracca di destra, ha bucato la doppia parete, ha
trapassato una giubba e una gavetta e ha spento la sua furia maledetta in un rotolo
di coperte. Egli ha “curato” il suo uomo: l’ha visto posare per terra il bacile e, col
fucile in pugno, ha seguito ogni suo movimento. E quando il prigioniero – già curvo
sul catino – ha allungato la mano per appoggiare l’asciugamani al filo, ha sparato.
La mano non ha toccato il filo, ma il colpo è andato a segno. È morto subito lì, a
quattro metri dalla torretta: la sabbia asciutta ha bevuto il suo sangue, e l’uomo di
lassù, quando ha visto che il corpo era stecchito, ha staccato il ricevitore e ha
telefonato al corpo di guardia: «Ho ucciso un italiano». Avrà il premio. Se la
sentinella spara e sbaglia ci sono gli arresti, se colpisce c’è la licenza. Il
regolamento è inesorabile. Poco dopo l’aria si rabbuia improvvisamente e si
scatena un uragano di cupa violenza, come per significare il corruccio divino, e tutti
sono alle finestre aspettando che un fulmine incenerisca la torretta. Ma l’uragano
finisce, e non succede niente: una semplice protesta formale del Padre Eterno. La
pioggia ha lavato la macchia di sangue sulla sabbia.”
Riscontri anche in Zupo 2011, p. 37, alla data del 28 agosto: “È stato colpito
presso il reticolato il Ten. Romeo di Siderno M. È morto quasi subito.”, e nel
taccuino di Serafino Clementi, sempre al 28 agosto del ’44 (Carini 2015, p. 85), con
l’indicazione dell’ora in cui avvenne il tragico episodio: “Ore 10,20: L’assassinio
del Ten. Romeo – la vivissima indignazione…!”
Il volume di Antonio e Giuseppe Zupo (Storia di IMI. Diario Ricettario Nostalgia
e Ricordi di un Prigioniero Internato Militare Italiano – I.M.I. – in Germania
durante la Seconda Guerra Mondiale, Herald Editore, Roma 2011) riporta alle pp.
XXIX-XXXI della parte quinta una serie di fotografie, tratte da quelle scattate
clandestinamente a Sandbostel dal prigioniero Vittorio Vialli e costituenti il Fondo
Vialli donato all’Istituto Storico Parri di Bologna. Esse documentano in modo
impressionante la feroce gratuità del proditorio assassinio del tenente Romeo. In
particolare la foto 34 riprodotta a p. XXX mostra che l’asciugamano era ben lontano
di vari metri dal filo di recinzione: il Romeo non si era dunque affatto avvicinato al
filo spinato e la guardia non aveva alcun motivo per fare quello che fece.
78
12
L’epidemia di tifo petecchiale a Sandbostel, datata da Ugo d’Ormea al 5
settembre, trova riscontro in Guareschi, ma il giorno prima (Guareschi 2011 rist.,
ibid.): “Otto casi di tifo petecchiale? Grande impressione.” E poi, al successivo 5
settembre, è annotato l'isolamento del campo: “Siamo isolati: per molti giorni
nessun tedesco entrerà in campo né nessuno o niente entrerà o uscirà eccetto la
morte, naturalmente. Poi si vedrà.” Notizie più dettagliate nel memoriale di don
Luigi Pasa, anch'egli internato a Sandbostel (Don Pasa 19663, p. 137): “Nel
complesso, con tanta gente ivi riunita e proveniente da varie parti, epidemie
gravissime non se n'ebbe. Avemmo sì il tifo petecchiale, ma, per grazia di Dio, fra
gl’italiani non si generalizzò. I primi casi si manifestarono il 4 settembre. I colpiti
dovevano venire subito isolati. Dove, se non c'era posto?... Decidemmo di trasferire
nella cappella gli alloggiati della baracca 85, e, in questa, riunire gli infetti. I
tedeschi, saputo del tifo, non si fecero più vedere in mezzo a noi, in modo che noi
stessi dovemmo decidere, curare, insomma arrangiarci.” Il sottotenente Antonio
Zupo annota i primi casi di tifo petecchiale al 6 agosto 1944 (Zupo 2011, p. 36):
“Per il campo si sparge la voce che vi sono due casi di tifo petecchiale . I due
ufficiali che sono colpiti da tale malattia si trovano all'ospedale.”
13
Nel campo vi erano regolari servizi liturgici, prestati da cappellani militari. Uno di
questi era don Luigi Pasa. Le sofferenze e le privazioni avvicinarono alla Fede molti
prigionieri, cosicché non rare erano le conversioni e la somministrazione dei Sacra-
menti ai convertiti, come la Cresima che fu impartita a Sandbostel la prima
domenica di ottobre, festività del Rosario, e i cui momenti furono fissati da fotografi
tedeschi. Scrive don Pasa nel suo memoriale al 1° ottobre 1944 (don Pasa 19663 p.
139): “Ottantaquattro furono i cresimati, tutti preparati al grande atto con un corso
speciale; e parecchi prigionieri s’accostarono per la prima volta all’Eucarestia.” La
cresima degli ufficiali italiani, con una variazione nel numero (sessanta), è registrata
in Guareschi alla medesima data, il 1° ottobre, nel suo Grande Diario (p. 423). Ben
quindici riti di Cresima celebrò don Luigi Pasa nel campo di Sandbostel. Di don
Pasa circolavano nel campo sue fotografie, in cui appariva abbigliato con paramenti
liturgici, che faceva passare per immagini di S. Cirillo o del Papa: esse erano
vendute ai prigionieri russi in cambio di pane, zucchero e altri viveri (che il
sacerdote distribuiva agli italiani). Vd. l’inserto fotografico in don Pasa 19663, fra le
pp. 112 e 113.
Ugo d’Ormea riferisce al 29 settembre di aver mangiato il tonno inviato dal Santo
Padre, Papa Pio XII, tramite il Nunzio Apostolico di Berlino, Mons. Cesare
Orsenigo. In effetti, come riferisce don Luigi Pasa nel suo memoriale (don Pasa
19663, pp. 113-118), numerosi furono gli invii di viveri e medicinali ai prigionieri
dalla nunziatura di Berlino, grazie all’opera provvidenziale e incessante di Mons.
Orsenigo, che provvedeva anche a inoltrare da e per l’Italia la corrispondenza tra gli
internati e le loro famiglie. L’invio di tonno in scatola (dieci casse per un totale di
79
Kg. 225) da parte di Mons. Orsenigo è datato da don Pasa al 20 settembre 1944 (p.
115 del memoriale): fu quello, molto probabilmente, il tonno che poté gustare Ugo
d’Ormea a Sandbostel.
14
Il mese di novembre, come tutto l’inverno 1944-45 fu durissimo per i deportati.
Al freddo intenso si aggiunsero le restrizioni alimentari. Guareschi informa nel
Grande Diario (p. 434) al 4 novembre che da quindici giorni a Sandbostel non
danno più lo zucchero. Le camerate diventano sempre più fredde e umide, i tedeschi
non danno più legna per riscaldarsi. Anche il taccuino di Serafino Clementi attesta le
restrizioni alimentari e il peggioramento climatico (Carini 2015, pp. 92-93:
“29.10.44 – Tabella-viveri in peggioramento: 150 gr. di rape in luogo di altrettanto
di patate.. Comincio a sentire seriamente il freddo: e l’inverno può dirsi non ancora
iniziato. La situazione è più che mai preoccupante… Sento che, in tali condizioni, mi
sarà ben difficile resistere.”), che tocca i meno 11 gradi al 28 novembre (Carini
2015, p. 97: “28.11.44 – Temperatura: -11. E del riscaldamento, in baracca, non se
ne parla neppure. La notte, per il freddo, non si riesce a dormire…”). Invano il
colonnello Angiolini, subentrato al tenente di vascello Brignole il 15 agosto 1944
quale comandante dei prigionieri italiani a Sandbostel, scrive all’ambasciata di Ber-
lino per denunciare la “penosa situazione del campo: le pessime condizioni di allog-
giamento, di equipaggiamento degli internati” (ibid.). Non ne verrà alcun aiuto.
Anche nella sua relazione il ten. col. Pietro Testa denuncia il peggioramento delle
condizioni di vita a Wietzendorf (campo dove venne trasferito Ugo d’Ormea il 21
gennaio 1945) nell’inverno 1944-45 (Testa 1945, p. 32: “Per lunghi periodi e
soprattutto nell’inverno 44-45 in cui la temperatura per oltre 40 giorni fu al di sotto
di 10° sotto zero e raggiunse un massimo di 19° sotto zero non fu concesso
combustibile per il riscaldamento e per la cottura dei generi dei pacchi. Il com-
bustibile per il riscaldamento fu in tutto 4 volte in quantità irrisoria. Si ebbero nelle
camerate numerosissimi casi di congelamento di 1°, 2° ed anche di 3° grado.”).
15
Nei ricordi dei prigionieri ha uno spazio speciale il Natale vissuto nei campi, e la
partecipazione alla Messa e, in molti casi, all’allestimento del presepio. La vigilia e
il giorno di Natale costituivano occasioni per riunirsi nelle camerate e trascorrere
insieme, davanti a quelle poche cibarie che la penuria permetteva di considerare lauti
pranzi e cene natalizie, momenti di calda e affettuosa solidarietà, pensando ai propri
cari così lontani e dimenticando gli stenti, i soprusi e le umiliazioni subite
nell’inferno della prigionia. Quel giorno, il giorno di Natale, anche la naturale
ferocia degli aguzzini si mitigava e i primordiali istinti di crudeltà cessavano di
fronte al misterioso evento di una Natività che ogni anno rinnovandosi prometteva la
salvezza al genere umano. La suggestiva e arcanamente sacrale potenza di
quell’evento così fondamentale nella storia dell’umanità poteva fermare anche la
mano degli assassini e risparmiare alle vittime, quel giorno, bastonature e altre
80
violenze. Una tenue fiammella di speranza e insieme di nostalgia per la casa lontana,
di inespresso amore per i propri cari e di umana solidarietà per i compagni di
sventura, vibrava nei cuori di quei prigionieri sepolti nella gelida prigione del
campo, dimenticati dal mondo e riuniti insieme per celebrare in una assoluta
semplicità la festa del Natale. Tutti insieme, anche con quei detestati “optanti”, ai
quali la scelta di aderire alla repubblica di Mussolini attirava gli scherni e gli
improperi di coloro che erano stati caparbiamente sordi alle lusinghe dei generali
fascisti in visita periodicamente nei campi. Così Armando Ravaglioli ricorda il
primo Natale, quello del 1943, trascorso da prigioniero nel campo di Tàrnopol, in
Polonia (Ravaglioli 2000, pp. 95-96): “Il Natale è stato davvero un gran giorno per
la evocazione dei sentimenti familiari: un ritorno a pensieri e a riti dell’infanzia in
cui tutti ci siamo ritrovati, praticanti o meno che si fosse. Alle 17 della vigilia c’è
stata una bella messa celebrata da don Amodio con qualche timido
accompagnamento di coro, in vista del presepio, essenziale ma di genuina
ispirazione artistica, che hanno saputo realizzare i nostri aviatori. (Peccato che
siano un gruppo di optanti: l’informazione amareggia, anche se, in questa
circostanza, l’animo è propenso a qualche indulgenza. Ci sono abissi insondabili
nell’animo umano. Chissà quali considerazioni hanno prevalso in loro? Del resto è
calata sul campo una sorta di tregua di Dio, anche nella ridda delle voci. Nessun
arrivo di giornale e niente dicerie, come se all’improvviso il mondo delle battaglie
non interessasse più, rimasto estraneo per qualche ora a quello degli annunci
divini.) Nel presepio allestito nella baracca-chiesetta, ci sono solamente poche ed
essenziali figure, tutte attorno e sotto una tenda di beduini in una distesa desertica
che un accenno di reticolati trasferisce dal medio-Oriente alle nostre circostanze.
Così è sembrato che il Bambino sia sceso a condividere anche Lui questa nostra
solitudine, a raddolcire questa voglia di disperazione che cerchiamo di controllare.”
Il presepe lo allestì anche Antonio Zupo, prigioniero nel campo di Sandbostel, nel
Natale del 1944 (ricordando quando, bambino, era intento a costruire i castelli, le
casette, il mulino a vento, la fontana che zampillava, nel presepe che sarebbe sorto in
un angolo della casa: vd. il suo memoriale alla p. 28), e così tanti altri prigionieri,
praticamente in tutti i campi in cui furono reclusi. E poteva accadere che in qualche
modo si stabilisse anche una timida e silenziosa comunicazione fra gli italiani e i
tedeschi, quasi a voler ricordare che non ogni traccia di umanità era spenta. La
vigilia di Natale il tenente Tomaso Civinelli di Fano poté partecipare a un breve
trattenimento casalingo, allietato da canti natalizi, con la famiglia tedesca Jürgens
che lo ospitava come bracciante nella fattoria di Wesselburen (Civinelli 1989, pp.
180-181).
Non sempre, però, il giorno di Natale portava una pausa dalle afflizioni e dalle
angosce. Il militare Luigi Montresor, prigioniero impiegato in una fabbrica di
zucchero a Oberleutensdorf, scrive il 27 dicembre ai suoi familiari a Bussolengo
(Verona) che nemmeno il giorno di Natale “il nemico ha voluto far festa e così per
molti è stato un Natale di lacrime e di morte. Non si è sentito il gioioso suono delle
81
campane ma bensì quello stridente delle sirene accompagnato più tardi dalle
esplosioni delle bombe dirompenti.” (Nicolis 2015, p. 74).
In un clima certamente più sereno e allegro (per quel che la condizione della
prigionia poteva permettere) Ugo d’Ormea trascorre la sera del 25 dicembre 1944
con i suoi compagni attorno a una “bella tavolata”, mangiando una gavetta di patate
con galletta grattugiata, spezzatino e un dolcetto.
Giovannino Guareschi rappresenta la bellissima Favola di Natale in teatro, a
Sandbostel, con le musiche di Arturo Coppola, e ottiene “un successone” (lettura
replicata il 26 dicembre, come apprendiamo dal Grande Diario, pp. 444-445). Ci
piace immaginare che anche Ugo d’Ormea abbia potuto ascoltare la favola del
bambino che aveva imparato a memoria una poesia da recitare al padre per Natale,
ma non poteva recitargliela perché il padre era prigioniero in un Lager in Germania.
Il bambino, Albertino (evidente allusione al figlioletto di Guareschi), assieme alla
nonna, in un magico, onirico, viaggio, dopo aver attraversato il paese della Pace e
quello della Guerra, incontra il padre in un misterioso bosco pieno di croci nere:
sono le croci dei morti che la guerra ha sparso per il mondo. Il bambino e la nonna
qui incontrano il rispettivo padre e figlio e, dopo essersi abbracciati e scambiati gli
auguri di Natale mestamente si congedano: il bambino non può seguire il padre,
perché, così gli dice, egli se ne va in un luogo dove i bambini non debbono entrare
mai, cioè il Lager.
Ma vogliamo anche pensare al Natale che trascorsero quelli che più non tornarono
dalla Germania, come il generale Alberto Trionfi, barbaramente assassinato dalle SS
il 28 gennaio 1945 a Shelkow, e il tenente Federico Ferrari, giovane intellettuale
cattolico, ucciso nel Lager di Weinböhla dal comandante del Volksturm locale il 24
aprile 1945. Il generale Alberto Trionfi trascorse il giorno di Natale del 1944 nella
preghiera e nel pensiero commosso dei suoi cari: aveva completato quel giorno
l’allestimento del presepio (Trionfi 2004, p. 308). Il tenente Federico Ferrari la
vigilia di Natale poté uscire dal Lager e prendere il tram per andare ad ascoltare la
Messa nel paese di Coswig, e la sera gustò assieme agli altri suoi compagni una torta
(Königtorte). Il giorno dopo preparò i canederli trentini con un compagno. In quella
settimana il freddo era sceso a meno sedici gradi (Zani 2009, pp. 153-154).
16
Le condizioni del campo di Wietzendorf, una sorta di campo di punizione,
autentico inferno per gli sventurati ufficiali italiani (che non godevano neppure della
qualifica di prigionieri di guerra) sono state dettagliatamente descritte dal col. Pietro
Testa, comandante del campo per il settore italiano, nella sua lettera-relazione,
datata al 22 giugno 1945 e diretta al Comando Truppe Britanniche. Riportiamo di
seguito un significativo passo (da Testa 1945, pp. 29-31): “Il campo di
concentramento di Wietzendorf era in origine abitato da prigionieri russi. Della vita
che hanno condotto questi e del loro trattamento testimonia il cimitero russo nei
pressi del campo (a circa un Km. e mezzo lato nord) nel quale si trovano sepolte
oltre 16mila salme. Sgombrato dai russi probabilmente per le condizioni di
82
inabitabilità, servì nell’autunno 1943 allo smistamento dei prigionieri italiani che vi
passarono a decine di migliaia; anche generali vi alloggiarono per più giorni a
terra e senza alcuna sistemazione non di conforto, ma neanche strettamente umana.
In seguito allo sgombro dei campi di Polonia nel gennaio 1944 il campo, con la
denominazione di Oflag 83 fu destinato agli ufficiali italiani. Più di una descrizione
delle baracche adibite ad alloggio e degli impianti igienico-sanitari, vale il fatto che
due commissioni sanitarie tedesche, presiedute da colonnelli medici, dichiararono il
campo inabitabile. Nelle camerate buie e basse, costruite con blocchi di cemento, gli
ufficiali vissero per 15 mesi in affollamento da 50 a 90 in ambienti di 50 metri cubi,
che non permettevano neanche la vita normale. Spesso da 10 a 20 ufficiali hanno
dormito sul pavimento in pietra senza neanche pagliericcio, o su panche e tavoli. La
paglia per quelli che sono riusciti ad averla non è stata mai cambiata. Dai tetti
sconnessi l'acqua cadeva sui tavoli e sui letti. Durante l'inverno nell'interno delle
baracche scendevano ghiaccioli da 20 a 30 cm. mentre qualsiasi riscaldamento
veniva negato (quattro distribuzioni di legna in ragione di Kg. 20 per camerata in
tutta la stagione). Tutti i canali di scolo delle acque di rifiuto delle latrine correvano
allo scoperto ammorbando l'aria. Le latrine erano semplicemente indescrivibili
tanto che costituiscono ancora oggi la maggiore preoccupazione delle autorità
britanniche, che hanno preferito di ordinare la costruzione di latrine all’aperto. Gli
impianti bagno erano rudimentali e senza nessuna garanzia igienica. Il bagno
veniva effettuato circa una volta al mese in un affollamento enorme (6, 8, 10 ufficiali
per doccia) col sistema tedesco di urti, spinte e di far tutto in un tempo
assolutamente insufficiente. A tutte le richieste, proteste, pressioni per migliora-
menti, quando non veniva risposto semplicemente che «per ufficiali italiani era
anche troppo», che «con traditori» si obiettava che la Germania era al quinto-sesto
anno di guerra, che anche la popolazione civile tedesca... che si sarebbe fatto il
possibile..., e la situazione penosa non cambiava. Solo nell'autunno-inverno 44-45
furono ricoperte alcune canalizzazioni delle acque putride e furono costruite delle
baracche rudimentali per lavatoi. Fino ad allora gli ufficiali dovevano attingere
l'acqua per tutti gli usi dalle poche pompe (una per mille ufficiali circa), pompe che
spesso erano guaste e che comunque davano acqua non potabile sì che bisognava
ricorrere alla bollitura. Infine l'infermeria per una forza ufficiali che ha oscillato
dai tre mila ai cinque mila con un massimo di sei mila era del tutto inadeguata. La
capacità di ricovero era di 60 persone e solo nei primi mesi del ’45 fu portata a 100.
Nessun impianto termico, nessuna possibilità di interventi chirurgici, nessun mezzo
di rapido sgombro per i casi di urgenza; neppure medicinali esistevano, neanche i
più comuni, se non in misura irrisoria. Agli ufficiali venivano sottratti i pochi
medicinali di proprietà privata che essi erano riusciti a salvare dalle numerose
perquisizioni, ma solo assai pochi di questi medicinali arrivavano all’infermeria in
cui quasi tutte le cure consistevano nella buona volontà dei medici italiani.” Altre
notizie su Wietzendorf sono fornite da don Luigi Pasa nel suo memoriale (don Pasa
19663 p. 152): “Questo campo, in origine abitato dai russi, e dichiarato inabitabile
da commissioni sanitarie germaniche, è servito, nei mesi di settembre e ottobre ’43,
83
quale campo di smistamento a parecchie decine di migliaia d’Italiani; diventando,
da gennaio 1944, senza alcun miglioramento d’abitabilità o di igiene, campo per
ufficiali. Nelle baracche non riscaldate, per tutto l’inverno pendevano i ghiaccioli;
dai tetti passava l’acqua, pezzi di cartone in luogo di vetri. Numerosissimi i casi di
congelamento: anche di secondo e di terzo grado. Nelle camerate di circa 650 mq.
abitavano 90 ufficiali. Medici francesi, che visitarono il campo dopo la liberazione,
rimasero inorriditi delle condizioni pietose in cui erano ridotti gli ufficiali: dagli
scheletri incartapecoriti li differenziava l’edema; gli abiti cadevano a brandelli.”
17
Nelle annotazioni di Ugo d’Ormea ritorna la fame, vero e proprio incubo
tormentoso e incessante dei prigionieri che comunque, come militari, godevano di
un vitto migliore degli internati ebrei nei Lager. Così la descrive Claudio
Tagliasacchi, ricordando la dura prigionia a Siedlce (Tagliasacchi 1999, p. 43):
“Prigionia è freddo e fame, al limite della tolleranza. Non si può descrivere la fame.
La vera fame, quella che uccide, è una patologia medica. Un dolore incessante che
attanaglia lo stomaco, una mano invisibile che sembra stringerlo e strapparlo in
basso artigliandolo crudelmente: ed è sempre lì. Non c’è posizione che dia sollievo
neppure per un attimo. La mente è offuscata, ossessionata da immagini di cibo, da
fantasie di pietanze ricche, enormi, in cui ci si vorrebbe rotolare soffocando. Non
lascia respiro né giorno né notte. Il corpo dimagrisce, le ossa sporgono arrossando
la pelle là dove ci si sdraia: un nuovo dolore che si aggiunge agli altri, che
impedisce il riposo. Le caviglie e i polsi si gonfiano in edemi che sembrano
salsicciotti.” Ma in momenti così difficili, torturato da una fame spaventosa che
lasciava poche speranze di sopravvivere, l’uomo riusciva a ricavare inaspettate e
straordinarie risorse dall’ingegno e dalla fantasia, evadendo ciascuno con la mente
tra i tesori delle antiche e succulente tradizioni gastronomiche della propria terra. Ne
dà testimonianza il sottotenente Antonio Zupo, detenuto a Siedlce nel febbraio 1944
(Zupo 2011, p. 29), che inserisce nel suo memoriale una raccolta di ricette della
cucina calabrese: “Anche il Carnevale passa come gli altri giorni. C’è la mania, ora,
di scrivere ricette di piatti regionali ed anch’io ho il mio prontuario. Sfilano
dinnanzi agli occhi paiuoli colmi di polenta, sformati di pasta imbottita, vassoi di
dolci, chilometri di salsiccia, arrosti, cacciagione, intingoli, antipasti, frutta,
liquori, conserve le più disparate.”
Nacquero così, frutto di dialoghi al limite del delirio fatti per distrarsi da una fame
implacabile ma con la conseguenza di suscitarla irresistibilmente, i “ricettari” dei
prigionieri, taluni dei quali, arricchiti da splendidi disegni e vignette, sono piccoli
capolavori d’arte e d’ironia (o autoironia), come quello compilato da due militari
rinchiusi a Wietzendorf, Fedele Carriero e Michele Morelli, e pubblicato
recentemente col titolo Padelle, non gavette!, Cosmo Iannone Editore, Isernia 2011.
Lapidario in proposito il commento di Guareschi nel suo Grande Diario al 24
ottobre 1943 (Guareschi 2011, p. 249): “Certi fanno incetta di ricette complicate di
dolci e pietanze. Pazzia.” Lo spunto di riflessione è più ampiamente sviluppato nel
84
Diario clandestino dello scrittore emiliano al 10 dicembre 1943: “Gente si aggira di
baracca in baracca, di letto in letto, a sollecitare pareri sulla situazione: e quando
finirà, e se avverrà una cosa o avverrà l’altra. Questa è debolezza di carattere, ma –
più che altro – è vizio nato dalla noia e dall’inazione. Gente, invece, trascorre il suo
tempo parlando esclusivamente di mangiare, pensando esclusivamente al mangiare.
E questa è pazzia. La fame c’è, e grava sulle nostre spalle in ogni azione della
giornata e, la notte, popola i nostri sogni di visioni dolorose, e tutti l’accettano con
rassegnazione come cosa fatale, come un morbo inguaribile. Ma per costoro la fame
è diventata pazzia. Parlano continuamente di mangiare. Descrivono pranzi, cene,
cenette, colazioni, merende. Descrivono panini imbottiti. Redigono in colla-
borazione ponderatissime liste di pranzi storici da celebrare al ritorno. C’è chi
raccoglie indirizzi di locande con distinte di piatti caratteristici e compila guide
gastronomiche d’Italia. Altri annota accuratamente migliaia di ricette dei più
complicati ammennicoli culinari. L’eterno e vano parlare di cibarie e l’eterno e
vano pensare al mangiare hanno aumentato il desiderio. E lo stomaco, nell’accesa
immaginazione di costoro, ha assunto la dimensione adeguata al desiderio stesso: la
dimensione di un bigoncio. È una forma di pazzia che annebbia d’angoscia i
cervelli, e questi poveretti cacciano fuori tutte le ossa e diventano gialli più ancora
per paura della fame che per la fame stessa.” (Guareschi 199118, pp. 31-32).
18
Il ten. col. Pietro Testa, nella sua relazione sul campo di Wietzendorf destinata
alle autorità britanniche, denuncia dettagliatamente le violazioni delle norme
internazionali commesse dai tedeschi, tra cui l’insufficienza del vitto che ebbe gravi
conseguenze sul fisico dei prigionieri. Citiamo da Pietro Testa 1945, p. 32: “Le
tabelle viveri sono sempre rimaste al di sotto dei valori minimi necessari alla vita
per individui a riposo assoluto. Nell’ultimo inverno essi divennero addirittura al di
sotto delle 1000 calorie giornaliere. Nessuna protesta, nessun appello al diritto di
civiltà dei popoli giovarono a nulla. Le morti dovute a sfinimento o a complicazioni
dovute al deperimento si fecero sempre più frequenti. I casi di edemi da fame si
contarono a centinaia. I congelamenti parziali per difetto di circolazione derivanti
da denutrizione erano di tutti. Due o tre settimane di ritardo nella liberazione
avrebbero portato alla catastrofe del campo.”
19
Il 13 aprile 1945 è la data dello sgombero del campo di Wietzendorf da parte delle
guardie tedesche, preannuncio della liberazione imminente dei prigionieri. Anche
Guareschi, prigioniero con d’Ormea a Wietzendorf, annota esultante quella giornata
(Guareschi 2011, pp. 480-481): “Ore 7: «Non ci sono più i tedeschi!». Solo alle
quattro torrette e per i servizi al comando del capitano «Armistizio» (N.B.: sopran-
nome affibbiato al comandante tedesco Lohse, per la sua aria inoffensiva). Passano
soldati tedeschi senza fucile, su carrettelle. Affisso il primo ordine del giorno del
Comando del Campo italiano 83 di Wietzendorf. Fila alle cucine: tutti vanno a
85
pesarsi per vedere la carne lasciata all’amministrazione tedesca. Tutti si fanno
belli. Saltano fuori, come per miracolo, divise diagonali nuove di zecca! Le bandiere
tricolori fioriscono dappertutto.” Il 13 aprile fu giorno di gioia anche per Antonio
Zupo, che così narra la liberazione di Wietzendorf (Zupo 2011, p. 40: “13/4. Giorno
di Liberazione?? La mattina non suona la sveglia. Meraviglia di tutti. Si fa una
capatina fuori dalle baracche e si hanno così le prime belle notizie. I tedeschi sono
partiti. Il comando del campo è stato preso dal colonnello francese (N.B.: Duluc, il
più alto in grado tra i prigionieri nel campo di Wietzendorf) coadiuvato da un t. col.
francese e dal nostro t. colonnello (Pietro Testa). Si inizia a formare squadre per
requisire, nei dintorni, generi alimentari. E francesi e italiani portano qualcosa.
Abbiamo così, a sera, una distribuzione di patate di 1 kg. E il rancio nei giorni
successivi migliora sempre. Aspettiamo le truppe anglo-americane. Arrivo di un
maggiore inglese (N.B.: questo avvenimento, come i successivi, avviene il 16
aprile). Ancora nei dintorni vi sono truppe tedesche. Siamo con Bebè Fiore presso i
reticolati esterni. A 50 metri dal reticolato v’è un gruppo di tedeschi “abbacchiati”.
Facciamo delle considerazioni. Verso sera di questo giorno i tedeschi che erano
stati fatti prigionieri vengono liberati dalle S.S. che requisiscono le armi da noi
prese a loro e ci impongono di non uscire dal campo dandoci l’autorizzazione a
panificare e a macellare. Ancora la zona è occupata dai tedeschi e gli anglo-
americani, che a detta del maggiore inglese dovevano trovarsi a 4 km, non
arrivano.”
Lo sgombero delle guardie tedesche dal campo non significa però la libertà e la
sicurezza dei prigionieri, praticamente ormai incustoditi. Dopo violenti
combattimenti avvenuti la notte precedente, il 16 aprile, come annota Ugo d’Ormea,
arriva un maggiore inglese, con i suoi uomini, a liberare i prigionieri. D’Ormea data
l’arrivo del maggiore inglese alle ore 7 circa del mattino. Il tenente colonnello Pietro
Testa, comandante dei prigionieri italiani nel campo di Wietzendorf, scrive che il
maggiore inglese Cooley, questo il suo nome, giunse nel pomeriggio, alle ore 17,31,
a bordo di una berlina nera. Ne riportiamo in proposito i ricordi del 16 aprile (da
Piasenti 1977, p. 310): “Alle ore 11 del giorno 16, vedevo, dalla finestra del mio
ufficio, ad un km circa di distanza, sbucare sulla strada di Reddingen, diretto verso
est, un carro armato; sostava, sparava, riprendeva la corsa; lo seguivano altri tre.
Ne parlavo subito con il col. Duluc. Non potevano essere che inglesi o americani.
Ma il combattimento si spegneva e tornava la calma. Noi restavamo in ansia. Al
pomeriggio sedevo, in ufficio, preso da mille pensieri e da una idea fissa: dove
erano? quando sarebbero arrivati? Di scorcio, dalla finestra, potevo vedere a 15
metri il cancello del campo. All’improvviso un movimento. Si ferma una vettura, una
berlina nera; scendono uomini in kaki, armati. Guardo l’orologio: sono le 17.31;
poi mi precipito fuori. Era arrivato il liberatore, il maggiore inglese Cooley. Aveva
lasciato il suo reparto carrista al ponte saltato di Marbostel, un chilometro fuori di
Wietzendorf; aveva proseguito accompagnato da un soldato. In paese, aiutato da
due ufficiali francesi e da due soldati italiani, aveva disperso un gruppo di soldati
tedeschi con una mitragliatrice. Si era impadronito di una vettura privata ed era
86
arrivato al campo.” Il maggiore se ne va promettendo di ritornare con dei rinforzi. Il
giorno dopo, però, ritornano i tedeschi, questa volta le SS, che si fanno restituire le
guardie catturate dagli internati e impiccano il comandante tedesco del campo,
capitano Lohse (il “capitano “Armistizio”), reo di aver ceduto Wietzendorf ai
prigionieri italiani.
Dopo pochi giorni i tedeschi, a corto di munizioni, si accordarono per una breve
tregua con gli inglesi, ormai a pochi chilometri dal campo, per permettere
l’evacuazione dei prigionieri italiani. La tregua stipulata comprendeva la via con il
terreno per una profondità di 500 metri dalla strada di transito e sarebbe durata
alcune ore. Il 22 aprile Ugo d’Ormea registra la partenza degli ormai ex prigionieri
(ma gli inglesi li considerarono POW, ossia Prisoner of War, dal 3 maggio 1945) dal
campo di Wietzendorf e l’arrivo alla cittadina di Bergen (ov’era il famigerato Lager
di Bergen-Belsen), distante circa 13 km., dopo aver caricato i bagagli a bordo dei
camion inglesi. Qui gli italiani si sistemarono nelle case abbandonate dai proprietari
tedeschi, cacciati via dagli americani, trovando nelle cantine ogni ben di Dio.
L'arrivo a Bergen è ricordato da Antonio Zupo alle pp. 40-41 del suo memoriale
(“Dato che gli alleati non arrivano i tedeschi dichiarano che non hanno come
rifornirci e, dopo trattative, si sospende la battaglia e ci si dà il permesso di
raggiungere le linee degli anglo-americani. Così inquadrati, arriviamo a Bergen, a
13 km da Witzendorf (sic) dove siamo alloggiati nelle case dei civili fatti sgombrare
in due ore. Troviamo ogni ben di Dio nelle cantine, nascosto e sotterrato dopo due
anni circa di (…) ci rimpinziamo.”).
Giovannino Guareschi dà un breve pittoresco resoconto del medesimo evento,
ossia il trasferimento da Wietzendorf a Belsen, alla data del 22 aprile del Grande
Diario, con il significativo titoletto del giorno Verso la libertà (Guareschi 2011, p.
490): “Si parte alle 7 con la bandiera della Croce Rossa in testa. Siamo carichi
come muli. Passiamo attraverso boscaglie immense tutte bruciate: terra nera e
alberi verdi, si vedono auto scassate, segni della guerra. C’è gente che arriva:
profughi, bambini, carri. A sei chilometri da Wietzendorf ecco gli inglesi! Auto
americane e autisti. Ottimo servizio bagagli da parte americana. Si va a Bergen. La
Bengodi di Bergen. Si incontrano gli abitanti di Bergen cacciati via dagli americani
che hanno fatto sgomberare il paese per accogliere gli ottomila ufficiali francesi e
italiani. Un casino spaventoso per gli alloggi. Io e Coppola dal droghiere. Siamo
nelle case dei tedeschi. Gli italiani hanno svaligiato il magazzino militare inglese di
coperte e bacinelle e gli inglesi minacciano di cacciarci in un Lager. Oggi niente da
mangiare. Domani neanche. La cuccagna inglese è magra! I russi girano spaccando
tutto e razziando con le armi alla mano.”
È strano che Guareschi non abbia trovato niente da mangiare se le altre
testimonianze dicono che le cantine delle case abbandonate a Belsen erano piene di
viveri come magazzini. Alla vista di tanta abbondanza, che comprendeva anche
polli, maiali, mucche e ovini, i nostri si diedero da fare per scacciare i morsi della
fame sofferta per lunghi mesi. Ecco cosa racconta il tenente Antonio Bocchiola che
era quel giorno nella colonna dei militari italiani arrivati a Belsen (in Bedeschi 1990,
87
p. 366): “Le case erano state abbandonate dalla popolazione in seguito a preciso
ordine del comando alleato, così concepito ed emanato alle ore 10 antimeridiane:
tutta la popolazione deve lasciare le case entro le ore 8 antimeridiane portandosi lo
strettissimo indispensabile. Pur non potendo andar via due ore prima del
ricevimento della disposizione, le case furono trovate sgombre da persone. Ma piene
di ogni ben di Dio: pasta, riso, pane, legumi, melassa, lardo, mele, pancetta, spek
(sic), salumi, olio, sidro (vino di mele), liquori e tutto quanto può costituire riserva
abbondante di una casa per parecchie settimane o mesi. Senza contare i polli, i
maiali, le mucche, gli ovini. Presi posto in una bella casetta con un gruppo di amici,
dei quali il capitano Rossi di Pavia era il più alto in grado. Ci improvvisammo
cuochi, camerieri, macellai. Tutti si davano da fare dappertutto. Si macellarono
animali anche di grossa taglia da parte di profani assoluti. In poco tempo si voleva
rifarci di tutta la fame sofferta in tanti mesi. Il capitano Rossi fece un gran risotto;
mangiammo melassa, lardo, pane; facemmo una torta, bevemmo il sidro, le mele ed
il liquore e ci coricammo finalmente soddisfatti, dopo tanto tempo.” Il 21 maggio
1945 venne rivelato agli ex prigionieri dal colonnello Pietro Testa che il comandante
tedesco di Wietzendorf, colonnello von Bernardi, aveva ricevuto l’ordine di
mitragliare il campo e di sterminare i prigionieri. Il piano non venne però attuato sia
perché alcuni soldati si rifiutarono di eseguire il piano criminale, per paura di
rappresaglie da parte degli anglo-americani, sia perché l’incalzante avanzata del
nemico rese necessario evacuare al più presto il campo (riscontri in Testa 1945, p.
39 e nel diario del sottotenente Donato Esposito, in Avagliano – Palmieri 2009, p.
310).
20
Inaspettatamente il 1° maggio i prigionieri italiani hanno l’ordine di far ritorno al
campo di Wietzendorf. Sentimenti di delusione e disappunto, se non di forte
contrarietà, dovettero animare quel giorno gli italiani, come mostra la doppia
punteggiatura esclamativa usata da Ugo d’Ormea. Il sottotenente Donato Esposito dà
nel suo diario la spiegazione del trasferimento (in Avagliano – Palmieri 2009, p.
309): “Da Bergen si ritorna nel campo di concentramento di Wietzendorf. Il fatto
sembra causato dal bisogno di sfollare Bergen per ricevere donne e bambini
polacchi. Un altro motivo sembra dato da ragioni militari. Infatti si dice che a
Bergen debbano arrivare delle truppe inglesi. Il morale è basso perché si dice che
gli inglesi ci considerano civili lavoratori (N.B.: se non fossero stati considerati
prigionieri di guerra non avrebbero potuto godere delle tutele della Convenzione di
Ginevra: il 3 maggio però gli italiani ebbero questo prezioso riconoscimento dagli
inglesi).” Guareschi allo stesso giorno dà, secondo il suo stile, un caratteristico,
tragicomico resoconto del triste ritorno a Wietzendorf e della scoperta delle pessime
condizioni del campo (Guareschi 2011, pp. 496-497): “Si preparano i bagagli per la
partenza in autocarro. Si mobilitano tutte le carrozzine per bambini, i carrettini, le
carriole. Il bagaglio si è appesantito… Tutti hanno sacchi di viveri, arnesi da
falegname, pentolame, macine per grano. Parecchi hanno anche dell’argenteria,
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macchine da scrivere, raccolte di francobolli, biancheria, pelli, scarpe eccetera…
Viveri. Tanti viveri. Uno ha una pompa d’automobile… Uno vuol portare tre sedie e
una poltrona, ma l’autista canadese non glielo permette. Arrivo alla sera al campo
di Wietzendorf. Un orrore! Un’infamia. Tutto spaccato: vetri, cartelli. I bagagli
pesanti abbandonati prima di partire sono stati saccheggiati dai soldati rimasti.
Nelle camerate: mezzo metro di letame, non una lettiera usabile, un puzzo mefitico.
Occupiamo la Baracca 6 del Blocco 2 dov’erano i francesi: accidenti com’erano
sporchi questi francesi! Non siamo mai stati trattati tanto male neppure dai
tedeschi! È stato uno scherzo orrendo giocato a noi poveri straccioni. Rieccoci
piombati nella miseria. Cimici, pulci, topi ci aspettano famelici al cancello per
riprenderci quello che abbiamo incamerato a Bergen.”
Al 5 maggio, annota Ugo d’Ormea, arrivano al campo i viveri della sussistenza
inglese, il che comporta un netto miglioramento delle razioni, in quantità e qualità,
per i prigionieri. Ma Guareschi non sembra essere contento. Lo scrittore, infatti, al 4
maggio, nota una certa limitazione nella distribuzione dei viveri, che non raggiunge
la quantità desiderata (Guareschi 2011, p. 499): “Gli inglesi sono tirchietti: pane
trecento grammi, carne sessanta grammi, due sbobbe schifose, quaranta grammi di
burro, centoventicinque grammi di latte acido, quattrocentocinquanta grammi di
patate. Presto daranno meno dei tedeschi.”
Il 7 maggio, alle ore 2,41, nel quartier generale degli Alleati a Reims il generale
Alfred Jodl firma la resa della Germania: la guerra in Europa è virtualmente finita.
Da notare l’icastico commento di Guareschi allo stesso giorno (Guareschi 2011, p.
501): “Hanno detto che stamattina è finita la guerra. E chi se ne frega?”. Ben
diversi i sentimenti di Ugo d’Ormea che l’8 successivo assapora per la prima volta la
gioia della ritrovata libertà, uscendo per una passeggiata fuori dal campo di
Wietzendorf. Quali fossero le condizioni del territorio fuori dal campo, ci è detto da
Guareschi, che evoca in rapidi accenni la desolazione e la devastazione causate dalla
guerra, le cui molteplici tracce disegnano un paesaggio di morte (Guareschi 2011, p.
500): “A passeggio per i boschi con Rebora, Novello e Novaro. (…) Armi e
postazioni sono abbandonati nel bosco. Le bombe della Katiusha (N.B.: il micidiale
cannone multiplo dei russi, chiamato anche “organo di Stalin”). Novello vuole un
filo rosso: gli piace. Prendo un elmetto. L’unico segno: qualche straccetto di
volantino e le strisce argentate degli aerei inglesi sui pini: sembrano alberi di
Natale.”
“I sentimenti che ho provato in quell’ora di libertà non li scorderò mai.”, scrive
Ugo d’Ormea all’8 agosto. L’emozione di d’Ormea è quella che dovettero provare le
decine di migliaia di prigionieri italiani in Germania al momento della recuperata
libertà. Quel giorno, che non fu lo stesso per tutti, fu il giorno della resurrezione, che
scatenò nei cuori momenti intensissimi di gioia individuale e di gioia collettiva,
come quella descritta dal capitano Tommaso Melisurgo, detenuto a Gros Hesepe, nel
suo diario al 5 aprile (in Avagliano – Palmieri 2009, p. 323): “Sono libero! Tutti
gioiscono… Una vera grande esplosione di gioia erompe da tutti i cuori. Si vedono
scene commoventi: si abbracciano, si scambiano auguri per loro e per le loro
89
famiglie… Il Colonnello Amodio ha rivolto a tutti noi brevi parole piene di fede, di
entusiasmo e di auguri per la nostra cara Italia immortale. Io ho pochissimi amici e
nessun vero amico. Stringo la mano e scambio gli auguri con alcuni dei pochissimi,
di cui meritano di essere ricordati il capitano Colozza, che conosco da quando ero a
Spital Drau, ed il tenente medico Viola, di Potenza, che ho trovato in questo Campo.
Perciò gran parte del mio entusiasmo è esploso in un soliloquio di brevi parole e di
affettuosi pensieri: «Maria mia, figli miei… son ritornato alla vita, sono ritornato
un uomo libero, un capitano dell’Esercito Italiano che ha fatto il suo dovere sul
campo di battaglia.»”
21
D(eo) G(ratias)
Il ritorno in patria dei prigionieri italiani, che durò praticamente, per le lungaggini
delle pratiche burocratiche e le difficoltà dei trasferimenti, tutta l’estate del 1945,
avvenne nella sostanziale indifferenza se non nell’incomprensione. Certamente gli
ex IMI ritrovarono tra le braccia dei loro cari sopravvissuti quell’affetto e quei
sentimenti che avevano ormai perduto e che avevano disperatamente sperato per
lunghi mesi tra le asprezze di una crudele e disumana detenzione. Ma, passati quei
momenti di piena felicità, non trovarono nello Stato italiano la comprensione e il
giusto risarcimento per tante pene sofferte, in nome della fedeltà alla patria e della
dignità umana. L’Italia che andavano scoprendo era troppo diversa da come
l’avevano lasciata: dopo vent’anni di dittatura e sei anni di guerra, di cui gli ultimi
due particolarmente tragici, il Paese scopriva la bellezza della libertà e della
democrazia, della partecipazione del popolo alla vita politica, del suffragio
universale. Gli ex IMI in questa nuova ed eccitante realtà, che lasciava preconizzare
una realtà di pace e benessere, costituivano una presenza anomala, forse addirittura
scomoda: in nome della fedeltà al giuramento prestato al re Vittorio Emanuele III
nella stragrande maggioranza avevano rifiutato di entrare nei ranghi della RSI e di
collaborare con nazisti e fascisti, avevano preferito soffrire la fame, gli stenti e le
durissime privazioni alle lusinghe dell’immediato ritorno in patria e del notevole
miglioramento, in vitto, alloggio e vestiario, della loro condizione. Ora scoprivano
che quel re per cui tanto avevano sofferto era diventato un nemico del popolo
italiano ed era stato costretto all’abdicazione e all’esilio perché ritenuto
corresponsabile, assieme a Mussolini, della sciagurata e catastrofica guerra condotta
con l’alleato nazista. Di più, questi “soldati del re”, rimasti fedeli nel loro animo ai
Savoia, ora scoprivano che nell’Italia di domani non vi sarebbe più stato posto per
l’istituzione monarchica. Inoltre si rimproverava loro di non aver effettivamente
partecipato alla guerra di Liberazione, di non aver imbracciato le armi come i
partigiani, ma di aver atteso la fine del conflitto stando nella “comoda” situazione di
prigionieri (e qui la malafede fingeva di ignorare le presunte “comodità” che
avevano sofferto questi prigionieri). Non si voleva riconoscere il fatto che il loro
“no” ai tedeschi, un “no” pagato spesso con la vita, era stato il loro modo di essere
“resistenti senz’armi”. E in questa “resistenza senz’armi” (che è anche il titolo di un
90
volume rievocativo di Alessandro Natta) gli internati militari venivano a essere
idealmente fratelli di chi resisteva con le armi in pugno contro tedeschi e fascisti.
Addirittura, poi, li si rimproverava di aver partecipato alle guerre del Duce, stando
dalla parte dell’Asse, fino all’8 settembre 1943, e poi di non aver saputo opporre una
valida resistenza ai tedeschi, ma di aver consegnato loro le caserme, i depositi e gli
armamenti. Sicché, colpiti da queste accuse frutto di pregiudizio e ignoranza,
mortificati ancora di più dall’essere il valore del loro sacrificio misconosciuto nella
stessa patria, gli ex IMI si chiusero spesso in un rassegnato e rancoroso silenzio,
rimuovendo da sé la memoria dei giorni del Lager ed evitando il più possibile di
parlarne, perfino in famiglia.
Di sussidi e risarcimenti pubblici per i danni sofferti, neppure a parlarne. Scrive
Ricciotti Lazzero ancora nel 1996, nel suo volume Gli schiavi di Hitler
(nell’Avvertenza, p. XII): “Al loro ritorno i nostri sopravvissuti ai campi della morte
non hanno trovato una patria riconoscente ad accoglierli, ma sono stati costretti
addirittura a mendicare il pane, sono stati dimenticati, perfino accusati di non aver
partecipato alla lotta per la liberazione. Nelle scuole, in genere, non si parla di
loro.” Ma, per evidenziare l’ingiustizia di cui troppo a lungo sono stati vittime in
patria gli ex internati militari, facciamo nostra questa riflessione di Claudio
Sommaruga a proposito dell’ “altra resistenza”, che rovescia ipoteticamente la
prospettiva storica in senso “controfattuale” (Sommaruga 2007, p. 11): “Ma allora
gli italiani non avevano capito nulla del perché e del duro prezzo dell’ “altra
resistenza”! E se quella marea di 700.000 “NO!” fosse stata invece di 700.000 “SI”
dando, fin dall’8 settembre, il sostegno politico e militare a Hitler e a Mussolini,
quanti sarebbero stati i partigiani, con quali armi, addestrati da chi e con quali
prospettive? Gli Alleati avrebbero vinto lo stesso la guerra, ma che storia si sarebbe
scritta con un’avanzata alleata rallentata, dando per esempio fiato ai tedeschi nella
corsa alle armi missilistiche e atomiche?” Una prospettiva da brividi, che per
fortuna non si è realizzata.
Sul ritorno dei prigionieri italiani in Germania vd. anche Il ritorno dai Lager, a
cura di Pietro Vaenti (relazioni presentate al convegno Il ritorno. Partigiani,
internati politici e razziali, tenutosi a Cesena il 20-21 ottobre 1995 e promosso
dall’Istituto Storico della Resistenza di Cesena-Forlì, ANPI, FIAP e FIVL), Società
Editrice «Il Ponte Vecchio», Cesena 1996 (in particolare vd. gli articoli di Vittorio
Giuntella e Massimo Sani).
A noi però piace pensare che la naturale gioia del ritorno in patria, alla sua casa e
ai suoi cari, di Ugo d’Ormea non sia stata guastata da dolori, amarezze e delusioni. E
per rappresentare la comune esperienza di tanti reduci dalla deportazione, non
avendo ulteriori notizie al riguardo e auspicando che anche Ugo d’Ormea abbia
potuto godere di altrettanti gioiosi momenti, lasciamo il compito di riferire il ritorno
al soldato Orazio Leonardi, così come lo narra nel memoriale Sandbostel 1943.
Anch’io ho detto “no” (Leonardi 20122, p. 105): “Raggiunte le prime case del paese
(N.B.: Ronzone, in provincia di Trento), non sapendo dove andare, chiedo a una
signora informazioni per raggiungere casa mia. Questa, comprendendo chi sono, mi
91
fa salire in casa chiamandomi per nome, raccontandomi di quanto hanno parlato di
me con mia mamma. È meglio che vada lei ad avvisare del mio arrivo. Dalla
finestra vedo mio padre, Renata con la piccola Mara in braccio, che corrono lungo
il sentiero. Un tumulto di gioia mi riempie il cuore, presto sarò tra le loro braccia.
Dopo due anni, si sta ripetendo l’abbraccio che sarà questa volta di gioia e di
felicità. Stringo mio padre. Un nodo mi chiude la gola, parlano solo le lacrime che
bagnano i volti, non riesco a spiccicare parola, abbraccio le mie sorelle. Il nodo si
scioglie dopo un pianto liberatorio, dopodiché corriamo tutti insieme verso casa,
dove mi attende la mamma. Volo sui gradini della casa, la porta è aperta, mamma è
immobile nel centro della stanza con le lacrime, che le rigano il viso. L’abbraccio,
la alzo da terra e mi metto a girare in tondo ridendo e piangendo. Forse una gioia
così grande non la proverò mai più nella mia vita.”
22
Il confronto delle tabelle viveri, prima e dopo la liberazione, posto da Ugo
d’Ormea come appendice al suo diario, è assai istruttivo, giacché rappresenta
un’ulteriore attestazione e conferma dell’effettiva insufficienza del vitto fornito dai
tedeschi ai prigionieri italiani. Un analogo confronto si trova nel memoriale di
Antonio Zupo (Zupo 2011, pp. 40-41), prigioniero come d’Ormea a Wietzendorf.
Nota l’autore alla data del 20 aprile, quindi dopo la liberazione, il nuovo e
relativamente abbondante vitto (alla p. 40): “Gli alimenti migliorano. Ci vengono
distribuiti oggi: sbobba di pasta e patate, gr. 100 di pasta, gr. 250 di patate, gr. 60
di carne, gr. 10 di sale; alla mano: rape kg. 0,500, pane gr. 180, patate gr. 1,500,
carne gr. 70, surrogato amaro (senza zucchero).” Lo Zupo annota poi il vitto che
veniva distribuito dai tedeschi poco prima della liberazione, scientificamente
studiato, a suo giudizio, per far morire d’inedia i prigionieri (alla p. 41): “La razione
ci è stata diminuita ancora. Essa consiste in gr. 150 di pane di segale, gr. 150 di
patate, gr. 15 di margarina, gr. 15 di zucchero ed una sbobba di un litro con dentro
gr. 200 di rape da foraggio e gr. 40 di farina di segale.” Il sottotenente Serafino
Clementi nel suo taccuino ha annotato le tabelle settimanali dei viveri per i periodi
19-26 novembre 1944, 3-10 dicembre 1944, 24-31 dicembre 1944: in esse si nota
una progressiva diminuzione dei quantitativi distribuiti a Sandbostel. Citiamo
l’ultima tabella viveri, quella del 24-31 dicembre 1944 (Carini 2015, pp. 102-103):
“Pane: ogni giorno gr. 300, Patate: ogni giorno gr. 280-300, Patate: il venerdì gr.
230, Zucchero – ogni giorno gr. 25, Margarina: ogni giorno – il martedì gr. 25,
Marmellata – la settimana gr. 120, Sanguinaccio – la settimana gr. 120, Rape
fresche crude – la settimana gr. 700, Zuppa Domenica – 100 gr. orzo, Martedì – 37
gr. piselli, – 50 gr. orzo – 40 gr. farina, Rape fresche gr. 500-600 grasso gr. 10 il
Lunedì, Mercoledì, Giovedì, Sabato, Crauti in salamoia gr. 230 il Venerdì.” Il
Clementi peraltro ricorda più volte nel suo taccuino le sbobbe di rape e crauti
distribuite a Sandbostel e annota all’8 dicembre 1944 che la razione dava solo 1600
calorie, “appena sufficienti per mantenere in vita (secondo i calcoli del maggiore
medico del campo)” (Carini 2015, p. 98). Arnaldo Pellizzoni, costretto a lavorare in
92
una fabbrica di locomotive presso il campo di Julich (a 40 km. da Colonia) ricorda la
minestra di rape come unico pasto giornaliero (Pellizzoni 1995): “L’unico pasto
giornaliero consiste in una minestra di rape, cioè acqua con pezzi di rape,
consumato in fabbrica; ogni 3 giorni al capo baracca vengono consegnati due pezzi
di pane da dividere tra 40 prigionieri.” Per riempirsi lo stomaco si andava anche a
frugare tra i rifiuti delle cucine, si raccattavano le bucce di patate, ma al prezzo di
terribili punizioni, se si veniva scoperti dalle guardie.
Negli ospedali allestiti per gli IMI (che fornivano un’assistenza sanitaria assai
carente) il vitto non era certamente migliore: a Zeithain l’unico pasto della giornata
“comprendeva 3 patate, 150 grammi di pane, un cucchiaio raso di zucchero, una
piccola razione di carne in scatola o un pezzetto di formaggio, una mezza gavetta di
rape o crauti, sostituita una o due volte per settimana da una minestra d’orzo. In
sostituzione dell’acqua, non essendo potabile, veniva distribuito un litro di tè che
doveva bastare 24 ore.” (Piasenti 1977, p. 112). Altri prigionieri ottenevano ancor
meno dai loro aguzzini, come Umberto Olobardi, recluso a marzo del 1945 nel
campo di Fullen, il quale annota (in Piasenti 1977, p. 315): “Non c’erano medicinali,
di nessun genere; e il vitto si faceva presto a distribuirlo: una gavetta di erba
bollita, senza sale, un’erba lunga e legnosa che non ho mai ben capito che cosa
fosse, e centocinquanta grammi di pane scuro e molliccio, che andava e veniva a
fisarmonica come la gomma da masticare.”
La situazione alimentare cambia radicalmente con l’arrivo degli inglesi e degli
americani. Guareschi annota il menù del 24 aprile 1945 (Guareschi 2011, p. 491),
quando i prigionieri sono alloggiati a Bergen: “Menù di domani: budino,
marmellata, pastasciutta, braciole con fagiolini, purè di mele, caffè vero, spumante
(offerto dai russi), sigarette, minestrina, pollo con verdure, budino, spumante, caffè,
sigaro, pane e scatolette.” Un’abbondanza mai vista prima, che comprende generi
scomparsi o divenuti rari durante la guerra come il caffè (al posto del quale era stato
diffuso il surrogato d’orzo o di cicoria) e il pane bianco, invade la mensa dei
prigionieri liberati. Così al 25 aprile Guareschi annota: “Questi i viveri distribuiti
oggi: pane bianco duecentosettantacinque grammi, pane nero duecentottanta, carne
fresca duecentocinquanta, piselli duecento, tè dieci, latte fresco duecentocinquanta,
latte in scatola quaranta, pesce cinquanta, formaggio cinquanta, marmellata
quaranta, burro cinquanta, prosciutto cinquanta, zucchero ottanta, patate a
volontà.”
Lo schema annesso al saggio di Claudio Sommaruga, Uno storia affossata,
Quaderno n. 3, Archivio “IMI” 20073, p. 44, nel quale l’autore confronta le riserve
caloriche dell’organismo umano con le calorie fornite dalle razioni date agli IMI nei
Lager e con il consumo calorico giornaliero dei prigionieri, giungendo a calcolare il
deficit calorico e le speranze residue di vita (in giorni), dimostra senza possibilità di
equivoci l’assoluta insufficienza del vitto a cui furono costretti per lunghi mesi gli
internati, sicché ne morirono di malattie e debolezza in numero assai rilevante
(23.909 vittime calcola Sommaruga, p. 29). Sull’insufficiente alimentazione degli
internati militari italiani vd. Alessandro Ferioli, Fame e resistenza: gli internati
93
militari italiani e il cibo nei Lager nazisti 1943-1945, in “Nuova Secondaria”, n. 5,
gennaio 2016, pp. 70-72.
L’incontro con le truppe alleate che liberavano i campi, mise i prigionieri italiani
di fronte alla realtà, scoperta per la prima volta e per loro sconvolgente, di un
esercito assai meglio armato, equipaggiato e rifornito, contro cui fare la guerra era
stata una stupida follia. Così, con tono sospeso tra il sogno e lo stupore, il
sottotenente Claudio Tagliasacchi, fuggito nell’aprile ’45 con tre compagni dal
Lager di Amstadt, ormai libero, descrive il vettovagliamento dei soldati americani
(Tagliasacchi 1999, p. 129): “mangiavano abbondantemente e potevano servirsi più
volte. Durante l’avanzata, per diverse decine di chilometri di profondità, sulle
strade principali venivano piazzati degli autocarri-cucina dove venivano distribuiti
cibi caldi a chi li chiedeva, ventiquattro ore su ventiquattro. Le razioni di riserva
erano confezionate in involucri di cartone rigido di circa 25x20x10. La più celebre
– che presto imparammo a riconoscere – era siglata «K». Conteneva un pasto
completo che nemmeno da civili avevamo mai potuto gustare: carne corned beef,
cioccolato, caffè, limoncina e ancora sigarette nelle piccole confezioni da quattro,
oltre a un sottile sigaro. Dietro al fronte, per diversi giorni, ci nutrimmo
raccogliendo queste scatole semipiene, che erano state gettate via.” Segue poi la
descrizione ammirata di una pentola con piastra, appositamente adattata per
preparare al momento bacon and eggs, con una buona tazza di caffè, ai soldati in
prima linea, che potevano gustarne a volontà fra un attacco e l’altro. L’abbondanza e
la varietà di equipaggiamento e viveri, la profusione di potentissimi armamenti di
cui godeva l’esercito americano portano il Tagliasacchi a stabilire amari e dolorosi
confronti con le condizioni in cui i soldati italiani, accecati dalla propaganda, furono
condotti alla guerra: quello italiano era “un esercito di straccioni affamati, mal
armati, mal organizzati e ancor peggio comandati: solo carne da cannone, mandati
allo sbaraglio senza armi, senza cibo, senza vestiario” (Tagliasacchi 1999, p. 128).
94
95
MARINA CASTELLANO
Una proposta di lettura scolastica del I canto
dell’Inferno (vv.1-27)
Per entrare subito nel vivo delle vaste problematiche offerte già dalla
lettura delle prime terzine del canto muoviamo da un’osservazione di
Sanguineti a proposito della nuclearità di due termini presenti nel terzo
verso: selva e paura, che ricorreranno più volte nello svolgimento del
canto ma che già inizialmente indicano le linee direttrici dei motivi su
cui si muove l’intera cantica, precisando immediatamente l’assoluto
parallelismo tra motivo paesistico - itinerale e motivo psicologico. Si
potrebbe addirittura dire che il paesaggio costituisce la metafora dell’iter
psicologico. Tre quindi le dimensioni di questo avvio di canto:
paesaggio, cammino, psicologia; ma non basta, in quanto non è
enucleabile un concetto di cammino senza una determinazione
temporale, che leghi questo al paesaggio che muta ed alla psicologia che
attraversa diversi stati. Infatti Dante, grazie alle sue capacità di possente
sintesi, ci fornisce anche la quarta dimensione scolpendola in quel “già”
di v. 17, pregnante evocazione di un percorso temporale scandito passo
dopo passo dall’azione fisica e morale. Come ha notato, da poeta,
Ungaretti, proprio nello stesso periodo storico Giotto scopriva,
unificandoli nel compendio figurativo, il volume, lo spazio, la durata
terrena dell’uomo, il tempo. Ed è proprio il tempo che passa a
concretizzare il passaggio psicologico tra “paura” e “bene sperar” nelle
due succedenti visioni paesistiche, rispettivamente, della “valle” e del
“colle”. Il tutto è risolto dall’apparizione di Virgilio, “figura”, come
direbbe Auerbach, del “colle”: il poeta latino restituisce a Dante il suo
tempo, cioè lo pone in condizione di entrare nel tempo della “speranza
dell’altezza” che presto diventerà il tempo dell’ “altro viaggio”. Mi
sembra che queste semplici considerazioni, del resto niente affatto nuove, siano sufficienti a leggere con una certa diffidenza (che in me si
96
risolve in ferma dissidenza) quanto affermava Croce sulla “stentatezza”,
e quindi l’impoeticità, di questo avvio di canto: la selva è la selva e le
fiere sono le fiere, anzi questa e quelle connettono il proprio significato
letterale a quello psicologico attraverso il senso etico, che rappresenta in
effetti la finalità dichiarata del viaggio stesso. Senza poi contare che la
stessa paura che Dante dichiara di avvertire si fa sempre poesia, laddove
la stessa realtà della sensazione è accompagnata dalla ben nota
fenomenologia fisiologica, che si fa immagine reale, concreta e visibile,
anche piuttosto caricata dal Poeta (tremar le vene e i polsi, lago del cor
ecc.).
Ma il canto presenta anche un’altra tematica di chiaro interesse,
coagulata intorno alla parola nostra, che lo Spitzer definisce “possessive
of human solidarity”: già dal primo verso, a quanto pare, Dante cerca di
coinvolgerci in questo suo - nostro viaggio, soprattutto di chiarire alla
nostra intelligenza la portata universale di questa sua esperienza, che
riguarda tutti, e a cui in qualche modo dobbiamo tutti prender parte. Non
è più il momento (lo vedremo dal canto VI, politico nel senso più greco
della parola, come si cercherà di precisare in quella sede) di rimanere
inerti, ognuno nel proprio guicciardiniano “particulare”: in una
situazione di sbandamento politico, di corruzione a livello di curia
papale, di instabilità sociale, l’uomo, ogni uomo, è chiamato da Dante
all’impegno personale, che parte dal momento etico individuale per
risolversi sul piano storico religioso. Quel nostra muove certamente da
una constatazione cronologica (trentacinque anni rappresentavano “il
mezzo” dell’aspettativa di vita dell’uomo medioevale), ma si precisa
subito in una “chiamata alle armi” contro un nemico che è interiore (il
peccato) ma che tarla quelle istituzioni (Chiesa e Impero) necessarie al
benessere, ad ogni benessere dell’umanità; e sarà Dante stesso a guidare
questo esercito virtuale che porrà le basi morali di una palingenesi
globale. Dante ha bisogno dei suoi lettori; essi sono il suo esercito, il
prototipo dell’uomo nuovo. Come si vede, secoli prima dell’Illumi-
nismo, che avrebbe conferito all’intellettuale il ruolo di educatore del
popolo, e del Romanticismo, che lo avrebbe visto come vate della
liberazione nazionale, Dante aveva già ben chiaro il compito cui l’uomo
di cultura era chiamato, un compito ben più arduo e totalizzante:
messaggero di Dio (compagna la Ragione), esorcista contro il Male che
semina i vizi sulla Terra, stabilizzatore politico, equilibratore sociale,
97
insomma guida morale dell’umanità verso il suo Principio Primo
passando necessariamente attraverso quei principi da Lui scaturenti che
si sommano nei concetti di pace e giustizia.
Anche interessante mi sembra l’altra tematica espressa da Dante nella
seconda terzina, quella del sermo deficit (ahi quanto a dir qual era è
cosa dura, io non so ben ridir) soprattutto per la possibilità di chiarire
meglio la differenza che intercorre tra questo concetto e quello
ricorrentemente espresso nel Paradiso. Mentre l’ineffabile del Paradiso
ha come background una serie di giustificazioni teologiche che
penetrano la realtà del rapporto tra uomo e Dio (la differenza di livello
tra intelletto e memoria, l’abisso tra la gloria di Dio e le limitate facoltà
umane, l’incapacità di comprendere il senso pieno del trasumanar ecc.)
l’indicibile dell’Inferno rappresenta un dato psicologico-morale,
concretizzato nell’espressione “pien di sonno” che compendia allo
stesso tempo (e qui ci riallacciamo al discorso sul coinvolgimento quasi
fisico del lettore) il torpore peccaminoso che affliggeva Dante in quel
momento della sua vita, l’inevitabile stato di disagio che accompagna
l’uomo nei nuclei problematici della sua esistenza, la realtà storica che
vedeva instabilità, corruzione, ingiustizia. In una parola: sonno. Sonno
dell’anima, sonno del cuore, ma anche sonno delle istituzioni. Un sonno
da cui, evidentemente, non è agevole per il momento emergere, come si
evince dall’impossibilità di Dante-umanità-istituzioni di praticare il
“corto andar” della “piaggia” che, naturalmente, è “diserta”. Tale
impotenza, come si legge nel Convivio, risulta da una semplice
constatazione: l’uomo può giungere alla felicità morale se persegue la
vita attiva, mentre la beatitudine può essere attinta esclusivamente con la
rigorosa ricerca della contemplazione, che però implica un continuo
esercizio ascetico, un costante sforzo di liberazione dalle passioni. Un
cammino. Il cammino del pellegrino attraverso i tre regni per
conquistarsi (e conquistarci) il “colle”, vicino alla vista ma
irrimediabilmente lontano per l’uomo ancora involto nella sua
materialità, da sempre ostacolo alla libera esplicazione dello Spirito.
“Forse... questo colle... è... un miraggio antipodale, la sagoma illu-
soria di una promessa” (V. Sermonti, L’Inferno di Dante, Milano 1994,
p.7).
98
vv. 1-9:
Dante, smarrita la via del bene, si ritrova, senza sapere come, in una selva oscura,
che gli procura angoscia ma che, come comprenderà in seguito, lo condurrà ad una
svolta esistenziale.
Nel mezzo1 del cammin2 di nostra3 vita4
1 mezzo: tale espressione, che ha i suoi precedenti in Salmi, 89,10 (“Gli anni della
nostra vita sono settanta”), in Isaia, 38,10 (“nel mezzo dei miei giorni scenderò alle
porte dell’inferno”), nello stesso Convivio (IV,XXXIII,6-10), enuncia efficacemente
la solennità del momento che Dante, ormai trascrittore della sua esperienza, ha
vissuto e di cui vuol rendere partecipe il lettore. Tale sforzo di attrazione si
evidenzia sin dall’inizio in un continuo richiamo alla determinatezza di cose ed
eventi, alla corposità delle sensazioni, alla volumetria giottesca di luoghi e
personaggi. Con questo Dante prende le distanze, se mai sia stato possibile
avvicinare due attitudini letterarie tanto differenti, da quegli autori a lui precedenti
(solo per citarne alcuni, il Bonvesin del Libro delle tre scritture o lo stesso Brunetto
Latini, interlocutore di Dante nel c. XV della cantica, nel Tesoretto) che avevano
parlato di viaggi ultraterreni: tanto visionari e indeterminati questi, quanto realistico
e minuziosamente descrittivo il nostro Poeta. 2 cammin: questa bella parola, di sapore iniziatico e sapienziale, palesa la similarità
della Weltanschauung dantesca con l’analogo pensiero esistenziale delle filosofie
buddhista e taoista. 3 nostra: come si vede, da subito l’esperienza individuale si apre all’intera umanità e
si precisa nel suo valore paradigmatico e nel suo obiettivo, che è quello di “removere
viventes in hac vita de statu miserie et perducere ad statum felicitatis” (Ep., XIII,15). 4 vita: la pregnanza del primo verso, che si conclude con la parola-chiave “vita”,
parola di ampio respiro e di vaste risonanze sia poetiche sia semantiche, detta la
necessità di un’analisi più approfondita riguardo alla peculiarità di questo momento
isolato da Dante, leggibile evidentemente su più piani. Intanto, il piano personale: il
Poeta, si evince dalla lettura della Vita Nuova, sconvolto dalla perdita di Beatrice,
ripensa tutta la propria vita alla luce di ciò che è stato e ciò in cui ha creduto,
vacillando nelle sue convinzioni religiose e scivolando pericolosamente verso l’aver-
roismo razionalistico professato dall’amico Cavalcanti. Quindi, il piano per così dire
epocale: come l’Ortis di Foscolo è, in effetti, emblema della crisi di un’intera
generazione, così il Dante in cammino dipinge i turbamenti di un Medioevo ormai
troppo maturo e non più a suo agio, come sentirà Petrarca, nelle strettoie
dell’aristotelismo. Infine, il piano istituzionale: mai come adesso, ed il pullulare di
99
mi ritrovai5 per6 una selva7 oscura8,
neonati movimenti pauperistici ne è la prova, la Chiesa indulge alla corruzione; mai
come adesso l’Impero si crogiola nella sua debolezza, permettendo che il proprio
dominio, abbandonato in balia dei piccoli potentati locali, sia devastato dalle lotte
intestine e lasci così progressivamente sbiadire la sua identità culturale. Insomma il
pericolo in cui si trova Dante è lo stesso in cui si dibatte il cristiano, malsicuro sulla
via tracciata da una Chiesa, quella di Bonifacio VIII, da lui sentita come infida e
contaminata dall’auri sacra fames; ed è lo stesso che vede il cittadino dell’Impero,
un tempo certo del proprio status politico e sociale, trasformarsi in uno sbandato
senza patria.
Il “giallo” della data. Questo primo verso, a dispetto della premurosa volontà del
Poeta di fornire al lettore una datazione precisa, crea immediatamente il “caso”
relativo alla cronologia iniziale del viaggio. L’anno parrebbe il 1300 (benché se un
cultore di astrologia, Giovangualberto Ceri, in seguito a suoi calcoli esposti in Dante
e l’astrologia, Firenze 1995, sia convinto che ci si debba spostare in avanti di una
unità ), sempre che si parli in termini di calendario usuale; se, infatti, si sceglie l’uso
fiorentino di contare gli anni ab incarnatione (e Dante, in Pd XVI, 34 segg., ci
informa che, effettivamente, quello era il computo che egli soleva applicare), si
potrebbe ipotizzare la data del 25 marzo del 1300, cioè il primo giorno del 1301 in
Firenze. Generalmente si accoglie la tesi 1300, che verrebbe ad incontrarsi con due
elementi interessanti: la corrispondenza numerologica (1300 è composto da multipli
di 10, allegoria della perfezione divina, e di 3, figurazione della Trinità) e la
coincidenza del viaggio con l’indizione, da parte di Bonifacio VIII, del primo
Giubileo. Inoltre sembra significativa la scelta di un anno particolare, iniziatore di
secolo, laddove a “secolo” si potrebbe dare il significato di “epoca”: un anno
palingenetico, insomma, che ben si adatterebbe al sogno di rinnovamento morale e
politico che presto Dante materializzerà nell’enigmatica figura del Veltro. Per
quanto riguarda il giorno, si pensa generalmente all’8 aprile, venerdì santo del 1300,
ma non pochi preferiscono il 25 marzo (l’incarnazione) o addirittura, con minori
argomenti, il 5 maggio. Almeno sull’orario, per fortuna, Dante è stato esplicito,
anche se non puntuale: è sera, come rivelano gli indicatori già del v.17 e la notte
ch’io passai di v. 21. 5 mi ritrovai: il racconto ritorna, con quel “mi”, al livello individuale, ma subito,
ancora una volta, c’è qualcosa che identifica una condizione comune: il verbo
“ritrovai” che, pur qualificando una situazione vissuta in quel momento da Dante,
indica una attitudine prettamente umana, quella assenza di volontà (il Poeta vi
ritornerà con fermi argomenti teologici nel Paradiso) per cui l’uomo si “ritrova” nel
peccato suo malgrado, senza il contributo dell’azione; tale pericolo, sempre in
agguato, deve ammonire l’uomo a vegliare costantemente contro la forza, quella sì,
sempre attiva ed efficiente, del Male.
100
che9 la diritta10 via era smarrita11. 3
6 per: nella stessa funzione di indicare uno stato in luogo circoscritto (“entro”) è
usato da Cavalcanti in Io non pensava: “l’anima sento per lo cor tremare”).
7 selva: si tratta di un luogo-simbolo enormemente pregnante, di antica ascendenza
allegorica, come si vedrà, e scelto da Dante a racchiudere una vera e propria “selva”
di significati. Il senso allegorico che appare immediatamente è quello, è evidente,
del peccato: se l’immagine è mutuata da Virgilio (la selva intricata dell’Averno), da
testi medioevali (la foresta in cui, nel Tesoretto, Brunetto Latini racconta di essersi
smarrito al ritorno dalla Spagna) ed anche dalla dimestichezza di Dante con il
paesaggio rustico della Toscana di allora, l’allegoria è di diretta derivazione
agostiniana (Conf.,X,35), scritturale (Eccl.,7,27) e ... dantesca (Conv.,IV, XXIV, 12:
“la selva erronea di questa vita”). Ma, come spesso accade nella Divina Commedia,
l’allegoria morale si accontenta di un ruolo da comprimaria per lasciare spazio alla
metafora ideologica e politica: così, la selva incarnerà la lotta per il potere tra Chiesa
ed Impero, causa di decadenza e disordine (Sanguineti), ma anche la Firenze
corrotta, meschina ed avida (la “trista selva” di Purg. XIV,74) forgiata a propria
immagine e somiglianza dalla gretta borghesia mercantile che da decenni deteneva il
potere economico della città. 8 oscura: determinante questa assenza di luce, ribadita a v. 60 dal “tacere” del sole;
la luce, infatti, è il luogo dell’armonia, nella quale, per citare Guardini, “il
significato si rivela”. Qui, infatti, nulla può essere rivelato, proprio per la mancanza
della luce-Dio, che non può essere attinta senza il cammino teoretico: “...Dante,
dalla sua oscurità, non la può raggiungere direttamente. Deve prima attraversare
tutta l’esistenza, riconoscersi nelle immagini della storia divenute manifeste nella
luce dell’eternità e, superandosi, giungere alla libertà” (R. Guardini, Studi su Dante,
Brescia, 1979, pp.281-2). 9 che: benché non causi mutamenti determinanti nell’intelligenza generale del passo,
la locuzione sembra passibile di varie sfumature interpretative: causale (“perché”),
consecutiva (“così che”), modale (“nella condizione in cui”). 10 diritta: dopo tanta simbologia, l’aggettivo ci rammenta che Dante è, soprattutto,
poeta e profondo conoscitore della letteratura contemporanea: non gli saranno state
certamente estranee le selve dei romanzi cavallereschi, dove l’eroe, al culmine del
dramma, doveva scegliere la via diritta, cioè la destra, quella del bene. Anche in
Dante, come nell’immaginario poetico collettivo, la selva avrà rappresentato il luogo
dell’avventura, così come sarà per Ariosto e, in modo molto più complesso, per
Tasso.
101
Ah12 quanto a dir qual era è cosa dura13
esta14 selva selvaggia15 ed aspra e forte16 che nel pensier17 rinova la paura! 6
11 smarrita: in una situazione in cui sembra non esservi alcuna via d’uscita, il verbo
“smarrire” suggerisce almeno una speranza, che presto si farà certezza grazie ad un
intervento salvifico; infatti l’espressione non ha il senso definitivo di “perdere”, ma
indica una condizione provvisoria che si avvia, nonostante le apparenze, alla
soluzione, che coincide con il viaggio stesso. Una soluzione molto più gravida di
conseguenze che non la semplice salvezza di un poeta fiorentino. 12 ah: il sospiro lamentoso del Poeta, che peraltro è variamente letto (“Eh” dal Witte,
“Ahi” da altri) non rappresenta una semplice interiezione, ma ha la precisa funzione
di attrarre il lettore nella sfera della sensibilità del poeta-che-ricorda, anticipando
emotivamente quel senso dell’ineffabile che diventerà concetto con “dura”. 13 dura: per la prima volta, ed è emblematico il fatto che compaia già in questa sede,
Dante ci pone di fronte all’idea dell’ineffabile, verso cui il linguaggio pare
inadeguato; il Poeta, che riprenderà l’argomento con tonalità molto più elevate ed
immagini necessariamente più complesse all’inizio della terza Cantica, trae tale
concetto dal mondo mistico, ma lo personalizza attraendolo nella sua
Weltanschauung lirica. 14 esta: più volte ricorrente e comunque di uso comune come dimostrativo sia di
vicinanza (“questo”) sia di lontananza relativa (“codesto”), il termine rappresenta
una forma arcaica (da “iste” latino). 15 selva selvaggia: appare qui una prima figura etimologica, ampiamente in uso nel
Medioevo e fruita da Dante con estrema misura, affinché la poesia non debba
soffrirne; tale scelta stilistica consiste nell’avvicinare parole nascenti dallo stesso
tema e quindi di suono simile, con sicuro effetto retorico. 16 selvaggia e aspra e forte: mi sembra che i tre aggettivi, inframmezzati da quelle
congiunzioni che contribuiscono a dare il senso di un respiro affannoso, proprio di
chi sia preda dello sgomento, tentino di costituire una climax ascendente: infatti
selvaggia (dato naturale, esterno) rappresenta una constatazione paesaggistica, aspra
(dato fisico) connota la difficoltà dell’attraversamento, forte (dato emotivo-morale)
definisce l’angoscia che attanaglia irrimediabilmente il Poeta nella selva.
17 nel pensier: dopo il momentaneo ritorno al tempo del dramma (esta) Dante
riprende le vesti dell’io narrante.
102
tant’è amara18 che poco è più morte19;
ma20 per trattar del ben21 ch’i’ vi trovai dirò dell’altre cose22 ch’i’ v’ho scorte. 9
18 amara: Dante ricorre qui ad una metafora tratta dall’ambito del gusto, al fine di
rendere con maggiore densità la realtà sensibile che ha vissuto ed in cui intende
attrarre il lettore; spesso il Poeta si avvarrà di tale possibilità espressiva,
specialmente quando sarà assolutamente necessario il coinvolgimento totale di chi
legge (è il caso, ad esempio, di Pd XVII, 117, “a molti fia sapor di forte agrume”,
dove stringe l’urgenza di ribadire l’impegno dell’intellettuale anche di fronte al
pericolo di “perder vita”, in ogni senso). Per dovere di cronaca, si segnala l’ipotesi,
ormai datata, secondo cui “amara” non sia riferibile a “selva” bensì a “paura”. 19 morte: solo un pensiero estremo può concludere degnamente l’escalation emotiva
aperta dall’”ah” di v.4; e certamente niente è più amaro della morte, specialmente
quando quella fisica evoca all’immaginazione una morte ben più temibile, la
dannazione indotta dal peccato, che è morte spirituale. Colonna sonora di questa
prima, saldissima sequenza è il sistema fonematico, nella studiata prevalenza dei
suoni aspri ( tn, r, rt). 20 ma: come spesso in Dante, anche stavolta l’avversativa viene rivestita di un valore
enfatico che va ben oltre la semplice retorica: qui si adombra un accenno di salvezza
“ch’era follia sperar” in una situazione apparentemente chiusa e disperante. Si fa
strada, insomma, una Presenza che ad inizio canto sembrava inimmaginabile: Dio,
che nel momento più arduo, nonostante ci si senta sconsolatamente soli, manifesta il
Suo esserci che restituisce l’uomo a se stesso, alla propria capacità di agire e reagire
(donde lo sciamare di “io”, prima mai osati, dei vv. 8, 9, 10). 21 ben: si è molto congetturato sulla realtà del “ben” che Dante trovò nella selva: i
più hanno pensato all’incontro con Virgilio, che porta alla conoscenza del male
(Inferno), al ravvedimento (Purgatorio) e quindi alla salvezza (Paradiso); Di Salvo
ritiene invece non trattarsi di persona o evento, bensì del proposito, nato nel cuore
del Poeta, di liberarsi dal peccato. Credo più plausibile quest’ultima ipotesi, che
raffigura in Dante la svolta coscienziale già individuata dal “ma” del nostro verso e
che anticipa enigmaticamente ma con certezza di positività l’esito di quella che è,
ricordiamolo, una “comedìa”. 22 altre cose: il significato dell’espressione è, evidentemente, strettamente collegato
a quello di “ben”: chi preferisce per questo l’interpretazione “materiale” deve
necessariamente vedere nelle “altre cose” le tre fiere, anche se va osservato che
Dante si imbatterà in esse fuori dalla selva, ciò che non collima con lo stato in quel
luogo espresso da “v’”. Propendere per un significato più ampio di “ben”, come
103
vv. 10 - 27: Dante cerca di darsi una spiegazione razionale di quanto è successo e, quindi, di
uscire da quella situazione angosciosa, confortato dal giorno nascente e dalla vista
rassicurante di un colle illuminato dal sole; tuttavia perdura nel suo animo come
una sensazione negativa, che prefigura quanto sta per accadergli.
Io23 non so24 ben ridir com’i’ v’intrai, tant’era pien di sonno25 a quel punto
che la verace via26 abbandonai. 12
presa di coscienza, momento esperienziale, implica invece comprendere nelle “altre
cose” tutto ciò che accade e che si mostra a Dante sino all’apparizione di Virgilio.
Da segnalare, a margine, la lezione “alte”, di pregnanza semantica e poetica di gran
lunga inferiore ad “altre”, qui accolta. 23 io...io: nello stesso verso, Dante passa con disinvoltura dall’io narrante all’io
personaggio, dando luogo così ad una dialettica agens-auctor che, accompagnando
tutta la lettura, non consentirà mai di sentire il viaggio come semplice visione, ma lo
manifesterà sempre nel suo pieno fieri. 24 Non so: si precisa qui, dopo l’accenno del “quanto a dir qual era”, quel concetto di
ineffabile cui si è già accennato. 25 sonno: ancora un termine fisico applicato alla sfera morale: il sonno (vedi Intr. al I
canto) qui evocato dal Poeta è, infatti, quello indotto dal Male, quella caduta di
tensione che spesso, più ancora della volontà del male, provoca l’inavvertito
scivolamento nel peccato. Anche in questo caso Dante si appoggiava saldamente ad
una vetusta tradizione allegorica, di cui si scorgono chiaramente i precedenti: San
Paolo, Lettera ai Romani, 13,11; S. Agostino, Enarratio in Psalmos, LXII,4
(“Somnum animae est oblivisci Deum”); Boezio, De consolatione philosophiae, I,2
(“...lethargum patitur, communem illusarum mentium morbum “); B. Latini, Trésor,
II,39 (“Il savio, che opera secondo sua scienza, è simile a colui che veglia; e quegli,
che non opera secondo sua scienza, è simile a colui che dorme, e all’ubriaco”); S.
Tommaso, Summa theologica, I, 84,8 (“Nel sonno non si può avere perfetto il
giudizio della ragione”). Alcuni, basandosi sul senso letterale del termine “sonno”,
hanno inferito che Dante voglia presentare il suo viaggio come una visione mistica:
ma ciò contraddice con forza al continuo, quasi insistentemente puntiglioso,
richiamarsi del Poeta al corpo come elemento materiale (cfr. n. al v. 28). 26 verace via: l’espressione, di forte impatto allitterante, rappresenta una variatio di
“diritta via”; ma mentre questa appartiene all’ambito morale, “verace” suggerisce un
104
Ma poi ch’i’ fui al piè d’un colle27 giunto,
là dove terminava quella valle28 che m’avea di paura il cor compunto, 15
guardai in alto29, e vidi le sue spalle
più intimo contatto con la sfera religiosa, dove Dio è Verità. Come appare evidente,
qui Dante ha ben presente la dichiarazione di Cristo in Gv., 14,6: “Ego sum via et
veritas et vita”. 27 colle: come appare dal “ma” che, aprendo il verso, chiude la scena angosciosa
precedente, troviamo qui il primo indizio materiale della salvezza imminente, o
almeno della possibilità, per Dante-umanità-Istituzioni, di coltivare una sia pur labile
e “provvisoria” speranza: è il colle, simbolo della vita virtuosa, quella cui porta la
“diritta-verace” via, che Dante ha “smarrito” , ma non perso, e che gli si pone come
obiettivo. Come presto gli sarà chiaro, il percorso fisico che conduce al colle non è
affatto agevole, ma arduo ed addirittura impraticabile se non preceduto da un
durissimo percorso iniziatico-morale che lo guiderà dapprima alla conoscenza delle
profondità del peccato, quindi all’esercizio di una asperrima penitenza, infine alla
non meno dolorosa penetrazione della accecante gloria di Dio. 28 valle: notevole la “quasi rima” con la quale Dante lega “colle” di v.13 con “valle”
di v.14, quasi a creare tra i due termini, di per sé pressoché omofoni, una forte
opposizione. In effetti i due elementi paesaggistici rappresentano realtà
profondamente antitetiche: mentre la valle, infatti, dipinge un Dante ignaro di sé ed
intorpidito dal sonno spirituale che porta al peccato, il colle già lo individua come
uomo autocosciente e pronto all’azione per riconquistare la sua identità morale.
Significativa mi sembra anche la diversa esposizione alla luce scelta dal Poeta per
differenziare nettamente l’una e l’altra realtà etico-ambientale: oscura la valle ed
evocatrice di insicurezza e di paura; risplendente di sole, invece, il colle, e garanzia
di stabilità morale nella certezza dell’approvazione di Dio (“mena dritto”). 29 in alto: l’ “uomo nuovo” in Dante, già preconizzato dall’apparizione del colle, si
concretizza tutto in questo guardare in alto, quasi a rispondere il suo “sì” all’azione
salvifica di Dio. Il poeta, benché ancora lontano dal pieno compimento, su di sé e su
tutta l’umanità, di questa azione, è però già disponibile a farsene strumento. Egli è
già risorto dal peccato.
In altre occasioni ancora Dante si troverà a guardare in alto, come vedremo: nel
Purgatorio, proprio ai piedi del ripidissimo monte, quasi cercando un’ispirazione per
risolvere il problema dell’ascensione, ostico allo stesso Virgilio-Ragione; nel
Paradiso, per ringraziare i beati o per porre loro questioni teologiche.
105
vestite30 già de’ raggi del pianeta31
che mena dritto altrui32 per ogne calle33. 18
Allor fu la paura un poco queta,
che nel lago del cor34 m’era durata
Da ricordare, infine, il modello scritturale, in questo caso il Salmo 122,1: “Alzai i
miei occhi verso il monte da dove arriverà il mio aiuto”. 30 vestite: cfr. Aen. VI, 640: “largior hic campos aether et lumine vestit”. 31 pianeta: da uomo del suo tempo, Dante seguiva il modello astronomico elaborato
da Tolomeo sulla scorta di Aristotele, secondo cui il sole rappresentava il quarto
pianeta del sistema; anche la chiarissima simbologia del sole-Dio appartiene
inequivocabilmente al mondo medioevale, benché se ne possano rintracciare le
lontane ascendenze nell’antichità orientale. Tuttavia è solo nel Medioevo che
l’immagine solare di Dio diventa “letteraria”, così da costituire un tòpos della
scrittura mistica e francescana; lo stesso Dante si diffonde sull’argomento in Cv III,
XII,7: “Nullo sensibile in tutto lo mondo è più degno di farsi essemplo di Dio che ‘l
sole; lo quale di sensibile luce sé prima e poi tutte le corpora celestiali e le
elementali allumina;...”. 32 altrui: Dante è decisamente uscito dallo stato di torpore che lo aveva obnubilato al
punto di farlo “ritrovare” nella selva: ormai il suo sguardo, cui era stata data la
possibilità di scorgere il “colle”, è talmente limpido da poter constatare, come una
volta, la portata vastissima dell’amore di Dio. In “altrui” sembra di sentire, allo
stesso tempo, un moto di gratitudine da parte di Dante-umanità, una consapevolezza
dell’attuale stato di indegnità di Dante-peccatore, un senso di sollievo, da parte del
Dante-trascrittore, per essere ormai anch’egli parte del gruppo degli “altrui”. 33 calle: (= strada); il termine, d’uso comune nella Firenze di Dante, rimane al giorno
d’oggi nello spagnolo e nel dialetto veneziano. 34 lago del cor: cavità interna dove la medicina medioevale poneva la dimora degli
spiriti vitali (E. Colonna, Il reggimento de’ principi, I, III,9: “In avendo paura...il
sangue si muove delle membra di fuore e torna a quelle dentro, donde l’uomo
diventa pallido”); presto divenne, seguendo la sorte di molti fenomeni naturali, tòpos
stilnovistico: lo smarrimento d’amore, infatti, provoca la concentrazione del sangue
nella cavità cardiaca ed il conseguente pallore tipico della fisionomia dell’amante. Il
fenomeno clinico-poetico è descritto dallo stesso Dante nella rima Donne io non so,
allorché si sente catturato dagli occhi della sua donna, dai quali “discende una saetta
che [gli] asciuga il lago del cor”.
106
la notte35 ch’i’ passai con tanta pièta.36 21
E come37 quei che con lena affannata, uscito fuor del pelago alla riva
si volge38 all’acqua perigliosa e guata39, 24
35 notte: da sempre l’immaginario religioso, in particolar modo quello ebraico-
cristiano, ha sentito la notte come momento di offuscamento spirituale: nel
Purgatorio, come vedremo, durante la notte le anime bloccheranno il loro cammino
penitenziale, impraticabile in assenza della luce-Dio (cfr. nota v. 17). Qui,
specificatamente, il periodo notturno di Dante è “il tempo in che nella ignoranza era
stato” (Jacopo Alighieri): un tempo ormai passato, come abbiamo avuto modo di
ribadire, ma rievocato da Dante a monito costante del pericolo sempre in agguato e
sul quale deve soffermarsi la meditazione del cristiano.
Comunque, la notte è solo un brutto ricordo, superato ormai dall’alba, rassicurante
emblema dell’imminente avvento della Grazia salvifica: Dante ancora non conosce
forme e modalità di questa, che è tuttavia intuita attraverso la presenza del sole. 36 pièta: dal greco pàthos, trasmesso ai Romani come pietas (che però si connota di
una polisemia contestualizzata al codice culturale romano) indica un sentimento, o
meglio una sensazione, che Dante proverà più volte nel corso del suo cammino
infernale e che si potrebbe definire come uno stato di angustia morale, di turbamento
di fronte ad un’umanità, nella quale il Poeta include se stesso, tanto sordida e vile e
tanto capace di peccare contro quello stesso Dio che l’ha dotata di “intelletto e
amore”. 37 E come... : è la famosa bellissima prima similitudine delle molte (cinquecen-
tonovantasette) presenti del poema. Perfetta nella sua architettura retorica si
compone, strutturalmente, di tre versi per parte con un effetto di armonia potenziato
dal perfetto péndant tra le singole espressioni (“lena affannata” - “ancor fuggiva”;
“uscito fuor” - “si volse a retro”; “l’acqua perigliosa - che non lasciò giammai
persona viva”). Tuttavia, nonostante il rigore retorico che anima la comparazione,
non si ha neanche per un attimo la sensazione di stentatezza o di macchinosità
talvolta ingenerata da simili artifici letterari: Dante riesce infatti a celare il
tecnicismo del suo gioco di poeta dietro immagini di possente realismo e di forte
impatto psicologico. 38 si volge: nel De rerum natura (II,1) Lucrezio scrive: “Dolce è mirar da ben sicuro
porto/ l’altrui fatiche all’ampio mare in mezzo”. Ma Dante non conobbe il grande
poeta latino, sprofondato nell’oblio comminatogli dal Medioevo cristiano da cui lo
avrebbe tratto alla luce Poggio Bracciolini nel 1417.
107
così l’animo mio, ch’ancor fuggiva40,
si volse a retro41 a rimirar lo passo che non lasciò già mai persona viva42. 27
39 guata: intensivo di “guardare”, risponde bene all’espressione di sentimenti
“intensi”, qui variamente qualificati: “paura”, “compunto”, “lago del cor”, “tanta
pièta”, “lena affannata”; nell’opera si trova sempre a fin di verso, in rima. 40 fuggiva: un’espressione efficacissima, allo stesso tempo poetica e realistica
nell’individuare lo stato d’animo di sospensione, di trepidazione (chi non l’ha mai
provato?) che permane anche dopo il raggiungimento della salvezza; un’immagine
molto simile si trova in Purg, II,12: “che va col core, e col corpo dimora”. 41 si volse a retro: nonostante il soggetto dell’azione sia un ente spirituale,
l’immagine si evidenzia per la sua plasticità: Dante sente forte l’esigenza di fermarsi
a riflettere sul “passo” che è stato il luogo del suo passato di peccatore e che tanto
influisce sul destino morale dell’umanità. Da questo momento di acuta
contemplazione prende le mosse la consapevolezza della profondità della sua
esperienza: vale la pena osservare a fondo la realtà della vita passata nell’errore,
imprimersi bene nella mente la negatività del passato per concepire un nuovo
progetto per il futuro. Ma il pellegrino Dante ancora non sa (a differenza di Dante -
narratore) che ben altro percorso necessiterà alla palingenesi della sua anima, ora
che è stato scelto da Dio come promotore di quella metànoia che porterà il mondo
sulla “retta via”. 42 che... viva: l’ambiguità semantica e sintattica del verbo “lasciare” rende
problematica l’interpretazione del passo; alcuni ritengono di poterlo rendere con
“(passo) che non nessun vivente lasciò mai” (ma così l’umanità appare invischiata
nel peccato senza possibilità di redenzione, a dispetto della venuta di Cristo). Il
Pagliaro ha proposto di intendere “passo” non come “selva” ma come luogo di
passaggio dalla selva al colle, cioè, allegoricamente, dalla vita attiva alla vita
contemplativa (Ulisse. Ricerche semantiche sulla D.C., I, 17 - 23, Firenze, 1966),
interpretando il verso nel senso secondo cui questo passaggio è inagibile ai viventi,
gravati dal peso del corpo: ipotesi limitata però nei suoi presupposti dall’improbabile
significato assegnato a “passo”, che inficerebbe l’efficacia della similitudine
precedente. Altri vedono in “viva” un predicativo dell’oggetto, leggendo “(passo)
che non lasciò (spiritualmente) vivo nessuno”: nella sua semplicità, mi sembra
l’ipotesi più accettabile, se pensiamo che lo stesso Dante, nel passo-selva, stava per
perdere la vita (spirituale: “tant’è amara che poco è più morte”).
108
109
PIERANGELO CRUCITTI Società Romana di Scienze Naturali
Sul concetto di fauna e sulle sue applicazioni
……..“in ogni paese limitato le specie più comuni, vale a dire di maggior numero di
individui, e le specie più disseminate nella loro regione nativa (circostanza che non
devesi confondere con una grande estensione e neppure fino ad un certo punto
coll’essere comuni) sono quelle che danno più spesso origine a varietà abbastanza
spiccate per essere enumerate nelle opere di botanica. Dunque le specie più fiorenti
o, come potrebbero chiamarsi, le specie dominanti, cioè aventi una grande
estensione geografica, sono le più sparse nel paese da esse abitato e posseggono
anche un numero maggiore di individui; e producono più spesso delle altre quelle
varietà tanto distinte che io considero come altrettante specie nascenti.”
(Charles Darwin, L’origine delle specie, 1859. Prima traduzione italiana col
consenso dell’autore per cura di G. Canestrini e L. Salimbeni, 1864)
Introduzione Alcuni luoghi della Terra ospitano più specie di altri (Cazzolla Gatti,
2014). A livello geopolitico - contesto dell’Europa e, più in generale, del
Bacino del Mediterraneo - è questo il caso dell’Italia, uno dei paesi
europei con la maggiore diversità (ricchezza) di specie documentata per
moltissimi gruppi, sia vegetali sia animali, in particolare funghi,
angiosperme e insetti. Un fatto sorprendente se consideriamo che il
nostro paese subisce da 10.000 anni la presenza modificatrice
dell’Uomo che ha raggiunto, attualmente, una densità di popolazione
superiore a 200 abitanti / kmq: con la Rivoluzione Neolitica, circa
10.000 anni or sono, è iniziata l’irreversibile trasformazione del
paesaggio italiano, soprattutto costiero e planiziale (Pratesi et al., 2014).
La composizione tassonomica della fauna italiana è ampiamente nota; lo
stato delle conoscenze sulla distribuzione di molte specie può definirsi
soddisfacente (Latella et al., 2007). La permanenza di una variegata
biodiversità incluso il gran numero di specie animali endemiche ovvero
presenti esclusivamente nel nostro paese (oltre il 10%) nonché di ambienti e paesaggi esclusivi, rappresenta una ricchezza riconosciuta a
110
livello mondiale. Questo insostituibile patrimonio di cultura scientifica,
non secondario rispetto ad altri serbatoi tradizionali del patrimonio
culturale del paese - paesaggistico e storico-artistico - comprende 58.000
specie di cui circa 55.000 Invertebrati e 2000 Protozoi, oltre un terzo
della fauna del continente europeo. In tale contesto, gli Artropodi
costituiscono il phylum più ricco, con 46.000 specie - 37.000 Insetti di
cui oltre 12.000 Coleotteri; i Vertebrati, poco più del 2% del totale,
costituiscono nondimeno un raggruppamento di 1258 specie; 121
mammiferi, 473 uccelli, 58 rettili, 38 anfibi, 568 pesci (in prevalenza
marini). Gli habitat strettamente terrestri ospitano circa 42.000 specie,
quelli d’acqua dolce circa 5500 specie; le restanti 9000, Protozoi esclusi,
sono marine e, data l’estensione dei mari italiani, costituiscono
verosimilmente la maggioranza delle specie viventi nel Mar Medi-
terraneo (Minelli et al., 2002). Questi valori sono suscettibili di continui
aggiornamenti, soprattutto grazie alla scoperta di specie nuove per la
scienza spesso rinvenute in aree più o meno circoscritte, talora
puntiformi, del paese, coadiuvate dalla applicazione di tecniche avanzate
della genetica molecolare; queste ultime permettono di attribuire a
popolazioni spesso già note il rango di specie / sottospecie nuove (per la
Scienza e per l’Italia) distinte da popolazioni simili. Alcune significative
scoperte recenti suffragano queste tesi.
Il concetto di fauna
“What is a fauna ?” è il titolo di un classico lavoro di Ernst Mayr del
1943. Una definizione potrebbe essere la seguente: la fauna (italiana) è il
complesso delle specie animali viventi allo stato selvatico all’interno del
territorio considerato (Italia). Si tratta di un termine collettivo che può
essere riferito a un dato territorio (fauna balcanica), a un definito
ambiente (fauna cavernicola), a un determinato gruppo tassonomico
(teriofauna o mammalofauna: una fauna costituita da mammiferi;
erpetofauna: una fauna costituita da anfibi e rettili; entomofauna: una
fauna di insetti), a un periodo geologico (faune del Permiano; faune del
Cenozoico). Il termine può essere applicato a situazioni più complesse,
ad esempio malacofauna pleistocenica dell’Umbria; una fauna di
Molluschi (contesto tassonomico) del Pleistocene (contesto geologico -
temporale) dell’Umbria (contesto geografico). Sono utilizzazioni
legittime. In questo saggio ci limitiamo peraltro alle faune attuali
111
trascurando le faune fossili oggetto di studio della paleontologia. La
definizione all’inizio del paragrafo lascia peraltro irrisolti numerosi
problemi, ad esempio la definizione di specie autoctone, alloctone e
indigene, componenti di una fauna. Un esemplare apporto chiarificatore
in tal senso è stato fornito dall’autorevole biogeografo ed entomologo
(ortotterologo) italiano Marcello La Greca (1914-2001) che ne ha
formulato la seguente definizione “La fauna è costituita dall’insieme di
specie e di popolazioni di animali vertebrati ed invertebrati, residenti in un dato territorio, stanziali o di transito abituale, ed inserite nei suoi
ecosistemi; essa, costituitasi in seguito ad eventi storici, (paleo-
geografici e paleoclimatici), comprende le specie autoctone e le specie
immigrate divenute ormai indigene, come pure quelle specie introdotte
dall’uomo o sfuggite ai suoi allevamenti ed andate incontro ad
indigenazione perché inseritesi autonomamente in ecosistemi appropriati; non fanno parte della fauna gli animali domestici e di
allevamento”. Risulta quindi evidente come una fauna sia la somma di
specie indigene e di specie alloctone; le prime possono essere
ulteriormente suddivise in specie autoctone - hanno avuto origine nel
territorio nazionale e.g. in una sua parte - e specie immigrate - da altri
paesi nel territorio nazionale in cui hanno costituito popolazioni
autoctone (La Greca, 1995). Il vistoso macaone Papilio machaon,
comune farfalla praticola, è specie indigena ma non autoctona;
ovviamente, le sue popolazioni sono da tempo autoctone. Emerge la
dimensione storica del concetto di fauna non meno importante della sua
dimensione ecologica. Abbiamo appurato che la fauna italiana, oltre ad
essere la più ricca d’Europa, è anche tra le meglio conosciute del
vecchio continente. Lo sforzo di ricerca finalizzato al completamento
delle conoscenze di base permette di individuare due categorie di
lacune: di natura tassonomica, e.g. gruppi meno conosciuti di altri
(Mollusca (continentali), Araneae, Diptera); di natura geografica, e.g.
aree meno conosciute di altre (Monti Simbruini, Monti del Matese).
Tuttavia, nonostante l’impegno della comunità scientifica, qualcosa
sfuggirà sempre. Una regionalizzazione faunistica del nostro paese
permette di riconoscere quattro fondamentali provincie: alpina; arco
alpino e pianura padana a nord del Fiume Po: appenninica; tutte le
regioni a sud del Fiume Po, dall’Emilia-Romagna alla Calabria ad
eccezione delle isole fossili della Toscana (Monte Argentario) e della
112
fascia costiera adriatica che si estende dal livello del mare a circa 500 m
e la Puglia (eccetto il distretto della Daunia da ascrivere alla provincia
appenninica e la contigua parte della Basilicata ad oriente del Fiume
Bradano, facenti parte della provincia adriatica: tirrenica; isole del Mar
Tirreno; Sardegna e isole circumsarde, Arcipelago Toscano, isole fossili
della Toscana, Isole Ponziane, Sicilia e isole circumsiciliane: adriatica;
pianura del Friuli-Venezia Giulia a sud delle Prealpi Carniche, la zona
pianeggiante orientale del Veneto e tutta la zona costiera adriatica al di
sotto dei 500 m e infine la Puglia, ad eccezione della Daunia e della
parte orientale della Basilicata ad est del Fiume Bradano (La Greca,
1995).
Elogio degli Invertebrati
Considerazioni non marginali sono relative alle applicazioni del
concetto di fauna a livello pratico, e.g. normativo. Per decenni,
l’orientamento prevalente è stato quello di considerare la fauna con
esclusivo riferimento ai vertebrati o, in una versione ancor più
restrittiva, ai mammiferi e agli uccelli, escludendo pertanto la fauna
vertebrata non omeoterma o “minore” (sic!). Il disinteresse nei confronti
degli invertebrati si manifesta ai livelli più diversi, nella scuola come
nella politica. In ultima analisi, gli invertebrati sono stati (e sono spesso
tuttora) semplicemente ignorati. Questo arroccamento su posizioni di
arretratezza culturale e antiscientifica è stato magistralmente discusso da
La Greca (2000). A dimostrazione della fondamentale importanza degli
invertebrati nella biosfera ricordiamo che: 1 - a livello globale, il
numero di specie descritte e ritenute valide include appena il 3,51% di
vertebrati vs il 96,49% di invertebrati; 2 - a livello globale, le specie
ancora da scoprire includono l’1% di vertebrati, il resto è rappresentato
da invertebrati; 3 - per la fauna italiana è stato osservato che i vertebrati
costituiscono il 2,2% delle specie; si ammette che le 15.000 specie (La
Greca, 2000) ancora da scoprire siano tutte o quasi invertebrate; 4 - la
biomassa degli invertebrati è, in tutti gli habitat terrestri, di gran lunga
superiore, di almeno 1:10, a quella dei vertebrati; 5 - un grandissimo
numero di invertebrati è strettamente dipendente dalla presenza degli
invertebrati ed in particolare dagli insetti, dei quali si nutre normalmente
o nei periodi di scarsità di altre risorse trofiche; 6 - l’impollinazione
delle fanerogame con fiori appariscenti e odorosi dipende strettamente
113
dall’attività degli insetti pronubi; 7 - il valore culturale delle faune
invertebrate nella ricostruzione della storia del popolamento animale di
una data regione è insostituibile (La Greca, 2000; Wilson, 2016). Un
antesignano di queste tesi è stato Mario Pavan (1918-2003),
biospeleologo ed entomologo (mirmecologo) italiano che, nel 1986
presentò al Consiglio d’Europa un documento di grande valore culturale
la “Carta degli Invertebrati” la quale, come frequentemente accade in
Italia, ha ottenuto più apprezzamenti all’estero che in patria. Si tratta
pertanto di un documento poco conosciuto che vale la pena “riesumare”.
La proposta prende atto anzitutto del ruolo determinante della fauna
invertebrata nel mantenimento degli equilibri della biosfera inclusa la
produttività primaria e secondaria. Nessuno meglio di Pavan, viag-
giatore ed esploratore instancabile (v. Arcidiaco et al., in bibliografia),
poteva produrre un documento così lungimirante costituito da dieci
articoli che riprendono ed estendono i concetti appena discussi e sui
quali è opportuno ritornare: 1. Gli invertebrati rappresentano l’elemento
più importante della fauna selvatica, sia come numero di specie che
come biomassa; 2. Gli invertebrati costituiscono una importante fonte di
nutrimento per gli animali; 3. Gli invertebrati possono costituire
ugualmente una fonte di alimento per gli uomini; 4. Gli invertebrati
hanno un ruolo fondamentale nella formazione e per la fertilità del
suolo, nella fecondazione e produttività della grande maggioranza delle
piante coltivate; 5. Gli invertebrati sono utili per la difesa delle colture,
delle foreste e dell’allevamento, della salute umana e della purezza delle
acque; 6. Gli invertebrati sono ausiliari preziosi per la medicina,
l’industria e l’artigianato; 7. Molti invertebrati hanno un grande valore
estetico; 8. Qualche invertebrato può causare danni alle attività umane,
ma altri invertebrati permettono di controllarne le popolazioni; 9. Gli
uomini possono ricavare un grande profitto dalla conoscenza
approfondita degli invertebrati; 10. Gli invertebrati terrestri, acquatici e
aerei devono essere protetti contro le possibili cause di danni, di
alterazione o di distruzione (Groppali et al., 2008). Trascurare gli
invertebrati nello studio di una fauna regionale oltre che nella gestione
delle aree protette non è semplicemente riduttivo; è totalmente sbagliato.
114
Il contesto ecologico
Una fauna è peraltro primariamente definita dalla relazione con i
fattori fisici e biotici dell’ambiente in cui si evolve. E si tratta di
relazioni - predazione, competizione, parassitismo, rapporti simbiotici di
altra natura - estremamente complesse; non può essere trascurata
l’opportunità di studiarle in contesti ecologici relativamente semplici.
Due esempi significativi costituiscono il risultato di recenti ricerche. Gli
ambienti insulari rappresentano uno scenario privilegiato per esplorare
meccanismi ecologici ed evolutivi e le isole del Mediterraneo non fanno
eccezione. In particolare, le piccole isole sono idonee ai fini della
verifica di adattamenti particolari di specie autoctone, tra cui
significativi cambiamenti morfologici e adattamenti comportamentali
inattesi. È il caso di una recente ricerca che ha focalizzato l’attenzione
su due specie di serpenti presenti sulla piccola Isola di Montecristo nel
Mar Tirreno, Vipera aspis e Hierophis viridiflavus, comuni e diffuse
anche sulla vicina terraferma. La ricerca si è proposta di verificare: 1. se
le popolazioni di Montecristo fossero simili per le dimensioni corporee
ai loro conspecifici della penisola o se invece presentassero sindromi
insulari (gigantismo e nanismo); 2. eventuali cambiamenti nelle strategie
di caccia; 3. eventuali modificazioni nelle due specie relativamente alla
scelta trofica e/o dell’habitat. I risultati sono stati i seguenti: 1. nessuna
evidenza di variazione dell’habitat, ma un adattamento delle vipere ad
una dieta alternativa rispetto alle popolazioni continentali (uccelli invece
di piccoli mammiferi); 2. variazioni delle dimensioni corporee
significative (nanismo insulare) sia nel caso di H. viridiflavus (riduzione
del 30%) sia nel caso di V. aspis (riduzione del 10%); 3. peculiari
strategie di caccia di V. aspis che, per predare gli uccelli, si apposta sui
rami degli arbusti, comportamento riscontrato anche in vipere insulari
del Giappone e delle isole greche (Luiselli et al., 2015). Una ricerca ha
suffragato l’effetto indiretto dell’incremento delle popolazioni di un
grande mammifero sulle faune locali. Le attività del cinghiale selvatico
Sus scrofa in termini di cure parentali (nesting), scavo e sradicamento
(rooting), alimentazione (feeding) risultano altamente impattanti su
specie e processi ecologici. Evidenze di tali effetti negativi, sospettate
ma insufficientemente dimostrate, sono attualmente suffragate da
indagini sperimentali. Una ricerca condotta in 10 distinte aree della
Sardegna in cui sono stati largamente utilizzati metodi di trappolamento
115
su transetti prefissati durante sessioni in maggio-giugno e ottobre, ha
permesso di accertare l’effetto negativo della abbondanza di Sus scrofa
sulle popolazioni selvatiche del topo campagnolo Apodemus sylvaticus.
In ultima analisi, è stata riscontrata una correlazione inversa tra attività
di overrooting e dimensioni delle popolazioni di roditori nei transetti
selezionati (Amori et al., 2016).
Un concetto dinamico La fauna di un determinato territorio muta con il trascorrere del tempo
a causa di fondamentali processi di evoluzione, estinzione, speciazione e
sostituzione, sia determinati da fattori naturali e sia, in tempi storici ed
in misura sempre più rilevante, da fattori antropici. L’incremento è
imputabile alla scoperta di specie nuove per l’Italia, sia autoctone sia
alloctone.
A) Nuovi taxa di vertebrati. I processi di speciazione e differen-
ziamento intraspecifico rivestono un ruolo fondamentale nell’incre-
mento della diversità biologica. Molte ricerche attuali focalizzano sui
complessi di specie sorelle e congeneriche al fine dell’analisi dell’im-
portanza di barriere riproduttive esogene / endogene, inferendo sulla
eventuale presenza di zone ibride.
Un eccellente modello di studio è costituito da Hierophis viridiflavus,
uno dei serpenti più comuni e diffusi della fauna ofidica italiana, specie
caratterizzata dall’esistenza di linee filetiche distinte le cui relazioni non
risultavano tuttavia affatto chiare. Ricerche basate su un approccio
multidisciplinare, morfometrico, citogenetico (cariologico) e molecolare
(mitocondriale, 16S, Cyt-b, ND4; nucleare PRLR) hanno permesso di
dimostrare l’esistenza di due cladi, H. viridiflavus a distribuzione occi-
dentale, e Hierophis carbonarius a distribuzione orientale, entrambi
presenti in Italia, area ove in precedenza era ammessa l’esistenza del
taxon (politipico) H. viridiflavus con numerose sottospecie tra cui H. v.
carbonarius (Mezzasalma et al., 2015).
Un caso paradigmatico riguarda la scoperta di una nuova specie di
vipera per la fauna italiana, la vipera dei walser Vipera walser che
prende il nome dalla popolazione che vive in alcune valli a sud del
Monte Rosa in Provincia di Biella nel Piemonte nord-orientale. Un team
internazionale formato da ricercatori del MUSE Museo delle Scienze di
Trento (Michele Menegon, Samuele Ghielmi), dell’Università di Basilea
116
(Sylvain Ursenbacher), della Manchester Metropolitan University
(Stuart Marsden) e della Società di Scienze Naturali del Verbanio-
Cusio-Ossola (Lorenzo Laddaga) ha recentemente reso nota l’impor-
tante scoperta. Per quanto nell’area citata fosse nota da tempo una
popolazione del marasso Vipera berus, completamente disgiunta dalle
altre popolazioni della specie, recenti ricerche morfologiche e genetiche
hanno confermato che quel distretto geografico costituisce un’area di
rifugio e differenziamento per il marasso. Dal punto di vista morfo-
logico la nuova specie risulta affine a V. berus mentre dal punto di vista
genetico V. walser risulta distinta da tutte le altre specie europee
evidenziando una maggiore affinità con le vipere del Caucaso, V.
darevskii e V. kaznakovi. Le due popolazioni di V. walser occupano
un’area ristretta, complessivamente inferiore a 500 kmq nelle piovose
valli a nord di Biella. Queste popolazioni sono sopravvissute grazie ad
una combinazione di circostanze fortunate - si consideri di quante specie
non verremo mai a conoscenza soprattutto per l’alterazione irreversibile
del loro habitat. V. walser è considerata peraltro già minacciata (EN
secondo la classificazione IUCN) non solo a causa dell’areale ristretto
ma soprattutto per la trasformazione del suo habitat, aree aperte con
formazioni rocciose a rischio di contrazione per il declino delle attività
agro-silvo-pastorali e conseguente progressiva riforestazione spontanea;
la specie non tollera infatti le formazioni boschive se non estremamente
rade (Ghielmi et al., 2016).
Meno frequentemente, almeno nel caso dei Vertebrati, le scoperte
interessano taxa di cui non si sospettava l’esistenza nel nostro paese. Un
importante ritrovamento riguarda la fauna della Sicilia, “isola delle
sorprese” almeno a giudicare dal rinvenimento recente di piante e
animali la cui presenza era passata inosservata a lungo. Dopo alcuni
avvistamenti, che si sono susseguiti negli ultimi 80 anni, un gruppo di
zoologi è riuscito ad osservare esemplari, sia vivi e in attività e sia morti
sulle strade nei pressi di Licata in Provincia di Agrigento, del boa delle
sabbie Eryx jaculus, appartenente alla famiglia, Erycidae, affine a
Boidae, totalmente nuova per l’Italia. Si tratta di piccoli boa di 30-60 cm
di lunghezza, diffusi nel Vicino e Medio Oriente (una specie in Grecia e
Turchia, almeno sei in Iran), avvistati raramente a causa del
comportamento tipicamente crepuscolare e delle abitudini fossorie. Le
ricerche hanno permesso di accertare la presenza di una popolazione
117
apparentemente stabile in un’area di circa 40 kmq di pianura alluvionale
in prossimità del Fiume Salso presso Licata. Questi serpenti potrebbero
essere stati importati dagli antichi Greci sia per motivi di culto e sia a
scopo bellico. È noto come i Greci fossero soliti impiegare serpenti a
mo’ di proiettili da lanciare sulle navi avversarie prima dell’assalto per
gettare panico e scompiglio tra i nemici. Si ritiene quindi che
l’introduzione di questa specie in Sicilia non sia recente (Insacco et al.,
2015).
L’ofidiofauna italiana risulta pertanto incrementata di una famiglia
(Erycidae) e di tre specie, Hierophis carbonarius, Eryx jaculus e Vipera
walser, passando quindi dalle 22 specie di pochi anni fa (Corti et al.,
2011) alle 25 specie attuali; nel contesto, la famiglia Viperidae è
cresciuta di una specie, dalle quattro specie “storiche” (V. ammodytes, V.
aspis, V. berus, V. ursinii) alle cinque specie attuali. Una breve
digressione si rende necessaria. Dal punto di vista formale, le specie
sono definite per mezzo di un binomio (nome generico più epiteto
specifico), le sottospecie per mezzo di un trinomio (aggiunta dell’epiteto
sottospecifico). Un binomio / trinomio recentemente adottato non è
necessariamente nuovo, ad esempio, l’epiteto specifico carbonarius (Bonaparte, 1833) fu proposto quasi due secoli or sono dal naturalista
Carlo Luciano Bonaparte, Principe di Canino e di Musignano (1803-
1857), nel monumentale trattato “Iconografia della fauna italica per le
quattro classi degli animali vertebrati” (Roma, 1832-41). La situazione
attuale di due Salamandridae italiani è paradigmatica. Il genere
endemico Salamandrina, emblema della fauna italiana, era ritenuto
monotipico sino al 2005. Nella salamandrina di Savi Salamandrina
perspicillata (Savi, 1821), detta anche salamandrina dagli occhiali
settentrionale, il nome, come si deduce dall’autore e dall’anno, è stato
riesumato; in precedenza era ritenuto uno dei tanti sinonimi di
Salamandrina terdigitata (Bonnaterre, 1789), unica specie ammessa
sino, appunto, al 2005 e oggi nota come salamandrina dagli occhiali
meridionale. Nel caso di Salamandra atra aurorae Trevisan, 1982,
diffusa in Italia nord-orientale in una ristretta area sugli altipiani di
Vezzena e di Asiago, e di Salamandra atra pasubiensis Bonato &
Steinfartz 2005, ristretta ad un’area della Provincia di Vicenza presso il
Monte Pasubio, riconosciute sottospecie distinte dalla salamandra nera
Salamandra atra atra Laurenti, 1768, l’epiteto sottospecifico, come si
118
deduce dall’autore/i e dall’anno, è invece di coniazione recente (Lanza
et al., 2007). Sono problemi di nomenclatura, ovvero dell’arte di
assegnare i nomi alle cose (in tal caso a forme di vita animale), mentre il
termine tassonomia è l’equivalente di classificazione ovvero definisce lo
studio dei rapporti tra gli organismi animali fondato sulla relazione
antenato-discendente e basato sugli approcci metodologici più diversi.
B) Nuovi taxa di invertebrati. Se risulta relativamente semplice (per
lo specialista) tenersi aggiornato sui nuovi taxa di vertebrati terrestri /
marini che si aggiungono più o meno frequentemente alla fauna italiana,
più arduo si presenta il compito nel caso degli invertebrati soprattutto se
appartenenti a gruppi speciosi, e.g. Insetti; per la scoperta di specie
nuove per la Scienza e, a fortiori per l’Italia, o di specie già descritte e
note per altri paesi ma non ancora rinvenute in territorio politico
italiano. Esaminiamo, ad esempio, il contenuto dei fascicoli recenti di
tre riviste italiane di entomologia, un piccolo campionario delle riviste
italiane dedicate alla storia naturale degli Artropodi (anche su riviste di
zoologia generale è in teoria possibile pubblicare la descrizione di nuovi
taxa di Artropodi). Sul terzo fascicolo del volume 147 (2015) del
Bollettino della Società Entomologica Italiana vengono segnalate due
specie di microlepidotteri già note altrove, raccolte in Sardegna e in
Basilicata rispettivamente, che si aggiungono quindi alla fauna d’Italia
(Bassi e Nel, 2015). Sul fascicolo 1 del volume 47 (2015) di Fragmenta
Entomologica viene segnalato un Coleottero Nitidulidae di origine
afrotropicale che si è ampiamente diffuso, in tempi recenti, nel
Mediterraneo meridionale; osservata in Sicilia nel 1991, la specie è stata
rinvenuta nell’aprile 2015 nei pressi di Roma, pertanto l’acclimatazione
di questa specie nell’Italia peninsulare è ormai considerata certa
(Audisio et al., 2015). Nel fascicolo successivo (2, 2015) viene riportata
la descrizione di una specie nuova per la Scienza, un Coleottero
Carabidae rinvenuto in due località delle Alpi sud-occidentali in
Piemonte (Allegro et al., 2015). Sul medesimo fascicolo viene discussa
l’acclimatazione di una specie di Coleottero Bostrichidae originaria del
Paleartico orientale e aliena per l’Italia, sulla base del rinvenimento di
un esemplare femmina nella Foresta del Cansiglio presso Treviso nel
Veneto (Nardi et al., 2015). Il contenuto del volume 14 (2016) del
Giornale Italiano di Entomologia è costituito da 23 articoli di cui ben 10
dedicati alla descrizione di taxa nuovi per l’Italia (più uno dedicato al
119
completamento della illustrazione dell’organo copulatore del maschio di
una specie recentemente descritta di Coleottero Carabidae). Sono
descritte come nuove per la Scienza e per la fauna italiana: un
Coleottero Carabidae endogeo della Sicilia, due Carabidae ipogei delle
Prealpi Varesine, un Carabidae della Sardegna centro-occidentale, un
Coleottero Curculionide del Monte Terminillo nel Lazio, due Coleotteri
Staphyilinidae delle Prealpi Venete e Lombarde, un Carabidae della
Barbagia Seulo in Sardegna, uno Staphyilinidae raccolto in Emilia-
Romagna, un Carabidae raccolto sui Colli Berici presso Vicenza, un
Carabidae della Sardegna sud-occidentale; infine, la rivalutazione di un
taxon di Coleottero Carabidae dell’Italia settentrionale e centrale;
complessivamente, 12 specie considerando anche quest’ultima (Magrini,
2016; Magrini et al., 2016; Monguzzi, 2016 a; Magrini e Fancello, 2016;
Magrini e Degiovanni, 2016; Monguzzi, 2016 b; Degiovanni e Magrini,
2016; Magrini e Onnis, 2016 a; Bordoni e Magrini, 2016; Monzini,
2016; Magrini e Onnis, 2016 b). E si tratta esclusivamente di Coleotteri,
la maggior parte dei quali appartenenti alla sola famiglia Carabidae !
La fauna d’Italia nella politica editoriale italiana La fauna italiana è stata oggetto di numerose opere di sintesi incluse
alcune collane editoriali. Una delle prime compilazioni del XX secolo è
“Fauna Italiana” (1933) a cura dello zoologo evoluzionista Giuseppe
Colosi (1892-1975). Si tratta di un’opera di grande erudizione a
carattere prevalentemente divulgativo, piuttosto squilibrata sia dal punto
di vista tassonomico - i vertebrati hanno la prevalenza - sia dal punto di
vista ecologico - le faune terrestri e delle acque dolci sono, in
proporzione, trattate più estesamente. L’esaltazione della ricchezza e
della varietà paesaggistica e biologica del paese sono fortemente
influenzate dalle condizioni politiche del momento storico piuttosto che
da una analisi obiettiva dei fattori che le determinano. La trattazione
rispecchia una sequenza obbligata per l’epoca: mammiferi, uccelli,
vertebrati inferiori, invertebrati. Si tratta peraltro di un’opera che
testimonia la vasta cultura dell’autore, uno dei maggiori zoologi italiani
dei suoi tempi. Per un approccio moderno bisogna attendere la stampa
de “La Fauna” della collana Conosci l’Italia del Touring Club Italiano
(1959) il cui filo conduttore è marcatamente ecologico. Dopo un’ampia
introduzione sui criteri di classificazione e sulla classificazione degli
120
animali, si passa all’esame delle caratteristiche delle faune alpina,
terrestre e acquatica dei monti e delle pianure, degli ambienti umani,
degli ambienti sotterranei, dei litorali e infine del mare; gli ultimi due
capitoli sono dedicati alla sua origine e relativi problemi di rarefazione e
protezione. L’opera, di cui sono compilatori Benedetto Lanza, Paola
Manfredi, Giampaolo Moretti, Carlo Piersanti, Sandro Ruffo, Enrico
Tortonese, Augusto Toschi, è di elevato livello e può essere ancora
consultata con profitto, soprattutto per motivi storici. Una rivisitazione,
sulla stessa falsariga ma assai più recente, è “La Fauna in Italia” (2002),
anch’essa edita dal Touring Club Italiano oltre che dalla Direzione per la
Conservazione della Natura del MATTM (all’epoca ancora MATT) e
dal Centro di Ecologia Alpina, con testi di numerosi autori e
coordinamento scientifico di Roberto Argano, Claudio Chemini, Sandro
La Posta, Alessandro Minelli e Sandro Ruffo. La trattazione è
approfondita e non sussistono squilibri tra i principali ambienti in cui è
ripartito il territorio della nazione. L’opera costituisce una base
indispensabile per gli studenti dei corsi di Biologia della Conservazione;
in particolare, al passato, presente e futuro della nostra fauna è dedicato
l’ultimo capitolo che affronta i problemi della rarefazione ed estinzione
di specie, contestualmente a quelli della conservazione. L’Italia è stato il
primo paese al mondo a dotarsi di una checklist informatizzata completa
delle specie della sua fauna. Il progetto, a cura del MATT e del
Comitato per la Fauna d’Italia, coordinato da Sandro Ruffo, Alessandro
Minelli e Sandro La Posta, ha richiesto la costituzione di un
organigramma di tre coordinatori generali, 14 responsabili di sezione e
circa 250 autori: un impegno formidabile che ha permesso di inserire in
lista tutte le specie sino ad allora note della fauna italiana, oltre 58.000
delle quali 47.000 (85%) di ambienti terrestri. La collana, denominata
“Checklist delle specie della fauna italiana” (1993-1995), ha avuto una
gestazione sorprendentemente breve (Minelli, 1995). Il progetto della
checklist è articolato in 24 fascicoli suddivisi in 110 lotti o sezioni, da
“Protozoa” (Dini et al., 1995) a “Vertebrata” (Amori et al., 1993). Si
tratta di un elenco informatizzato di specie univocamente individuate da
un codice numerico, con indicazioni aggiuntive costituite da sigle di una
o due lettere relative alla distribuzione geografica per grandi aree (Italia
settentrionale, Italia continentale, Sicilia e isole circumsiciliane,
Sardegna e isole circumsarde) e allo status di specie endemica e/o
121
minacciata (Minelli, 1995). Ne risulta un’opera compatta dalle
dimensioni ridotte, l’insieme dei fascicoli può essere contenuto in una
borsa capiente. Un database come la checklist perde molto del suo
valore se non viene aggiornato nel tempo e se questa informazione non
viene resa disponibile il più rapidamente possibile. Sono state quindi
definite norme che ne consentono il periodico aggiornamento, iniziativa
nella quale si è particolarmente distinta la SEI Società Entomologica
Italiana (Stoch et al., 2004). Il proseguimento di questo lavoro ha
portato alla realizzazione del progetto “Checklist e distribuzione della
fauna italiana - 10.000 specie terrestri e delle acque interne” (di cui
esiste versione inglese) a cura della Direzione per la Protezione della
Natura (DPN) del MATTM, del Comitato Scientifico per la Fauna
d’Italia, del Museo Civico di Storia Naturale di Verona e del
Dipartimento di Ecologia dell’Università della Calabria. 538.000 dati di
distribuzione georeferenziati relativi a oltre 10.000 specie terrestri e di
acqua dolce ritenute buoni indicatori faunistici e biogeografici, hanno
consentito la realizzazione di un GIS faunistico e delle relative carte
tematiche (Ruffo e Stoch, 2005). Infine, una seconda serie, limitata alla
fauna delle nostre acque interne, è costituita dalle monografie della
Collana del progetto finalizzato “Promozione della qualità
dell’ambiente” a cura del Consiglio Nazionale delle Ricerche: “Guide
per il riconoscimento delle specie animali delle acque interne italiane”
(1977-1985). Si tratta di 29 monografie, da Irudinei (Hirudinea)
(Minelli, 1977) a Chironomidi, 4 (Nocentini, 1985) destinate allo
specialista o, al più, allo studente di corsi avanzati. Sono esclusi da
questa trattazione, in quanto troppo numerosi, gli “atlanti faunistici”
(regionali, provinciali, locali) su specifici gruppi animali (mammiferi,
uccelli ecc.) e i “libri rossi” o “liste rosse” di specie a rischio. L’UZI
Unione Zoologica Italiana ha promosso numerose iniziative, inquadrate
nell’ambito del Progetto “Bioitaly”, versione nazionale di “Rete Natura
2000”, ad implementazione della Direttiva 92/43 CEE “Habitat” che ha
permesso, dopo quattro anni di intenso lavoro (1994-1997), di
consegnare alla UE le schede di oltre 2200 siti georeferenziati che
ospitano specie e/o habitat di importanza comunitaria a rischio
(Brandmayr et al., 2000).
122
Una perla dell’editoria italiana: la collana “Fauna d’Italia”
L’Italia non è certo l’unica nazione europea ad essersi dotata di una
collana editoriale esclusivamente dedicata alla propria fauna. Dalla fine
del 19° secolo sono numerosi i paesi ad essersi dotati di inventari
faunistici organizzati in collane omogenee: Francia, Spagna, Germania,
Danimarca, Gran Bretagna, Ungheria, Polonia. La Francia ha edito la
serie “Faune de France” (Francia e regioni limitrofe) a partire dal 1921
sotto il patrocinio della Fédération Française des Sociétés de Sciences Naturelles; al suo attivo 97 monografie stampate; dal volume 90, l’opera
è bilingue (francese-inglese). L’obiettivo prioritario di quest’opera è
chiaramente definito: “destinés à permettre l’identification des Animaux
Vertébrés et Invertébrés que l’on rencontre en France ou, suivant les
volumes, dans une aire géographique plus vaste englobant notre pays:
région gallo-rhénane, Europe occidentale, région euro-méditer-ranéenne” grazie alla utilizzazione di chiavi dicotomiche applicate ai
taxa considerati. La serie non è caratterizzata da una sequenza tas-
sonomica univoca; ad esempio, gli ultimi quattro volumi sono dedicati,
rispettivamente, ai Coleotteri Carabidi (94, 95), Emitteri Pentatomidi
euro-Mediterranei. 2 (96), Ortotteri Celiferi (97); al volume 89 (Cétacés
de France) segue il volume 90 (Hémiptères Pentatomoidea Euro-
Méditerranéennes.1). Un’altra serie analoga, relativa ad un territorio
altrettanto esteso e ricco di biodiversità, è “Fauna Iberica” derivante da
un progetto del 1988 con l’obiettivo “to carry out a well-documented
inventory of the animal biodiversity in the Iberian-Balearic region”
(Ramos et al., 2001). Al 2001, circa 1/3 della Fauna della Regione
Iberico-Balearica era stato dettagliato, si stimano almeno 75 anni
necessari per completarne la revisione tassonomica (Ramos et al., 2001).
Ad oggi sono stati editi 41 volumi, in realtà 43 tomi in quanto esiste il
Volume 0 (Coleoptera, Ptinidae, Gibbiinae) ed il Volume 10, Ed. 2
(Reptiles. 2a edición, revisada y aumentada). Quali che siano le carat-
teristiche dell’opera (ogni “fauna” rappresenta un caso a sé, data
l’unicità del gruppo tassonomico e del territorio al quale si riferisce), gli
obiettivi generali di una collana destinata ad illustrare una fauna
nazionale sono: raccogliere, discutere e illustrare analiticamente le informazioni esistenti sino a quel dato momento (un riferimento è l’anno
di stampa del volume dedicato) relative a posizione tassonomica,
morfologia, biologia funzionale e comportamentale, ecologia e
123
distribuzione geografica, delle specie di un gruppo omogeneo (Crucitti
et al., 2016). La parte speciale è, di norma, preceduta da una sezione
generale in cui sono messi in evidenza la storia delle ricerche sul taxon
in oggetto, unitamente alle sue caratteristiche biologiche generali;
costituiscono pure elemento di discussione i metodi di raccolta e di
studio, nonché la diversità (= ricchezza) di specie sia a scala regionale s.l. sia a scala globale, se nota. Risulta infine quanto mai utile
sottolineare le lacune ancora esistenti in merito al completamento delle
conoscenze di base (previsioni sul numero complessivo di taxa -noti e
pertanto descritti più sconosciuti e pertanto non ancora descritti- aree e
ambienti insufficientemente esplorati). Nei volumi più recenti, la
trattazione include i fattori di minaccia di origine antropica in funzione
delle preferenze dell’habitat, i gruppi maggiormente a rischio sono
quelli più o meno strettamente legati alle acque interne o continentali
(Fochetti, 2012). Ne consegue che i 50 volumi sinora editi della Collana
“Fauna d’Italia” (1956-2015) non sono “field guides” maneggevoli per
la rapida determinazione di specie in campo e neppure checklist o
cataloghi annotati di specie.
Problemi di conservazione Abbiamo accennato all’importanza dei taxa endemici o endemiti, il
cui areale è interamente compreso entro i confini politici dell’Italia,
ovvero al 10% circa del totale delle specie attuali sinora descritte e
censite sul territorio italiano, oltre all’enfasi posta sull’importanza di tale
informazione ai fini dell’apprezzamento della ricchezza faunistica del
paese. È poi appena il caso di accennare alle specie esclusive ovvero
presenti in una sola regione. Sicilia e Sardegna sono uniche per
ricchezza di specie misurata soprattutto dal numero di entità esclusive ed
endemiche, all’incirca equivalenti. Le aree a maggiore concentrazione di
endemiti costituiscono hotspot prioritari ai fini della tutela e della
conservazione (Stoch, 2008). Abbiamo a suo tempo esaminato le
condizioni che determinano questa straordinaria concentrazione di
specie e habitat analogamente alle pressioni e minacce che gravano su
entrambi (Crucitti et al., 2015). L’esame della distribuzione delle specie
rare permette di definire hotspot di rarità (e.g. Alpi Occidentali,
Arcipelago Toscano, Aspromonte, Nebrodi, Gennargentu), quello delle
specie minacciate, aree ad elevato grado di minaccia (e.g. Pianura
124
Padano - Veneta). La somma di tre indici - endemicità, rarità, minaccia -
permette l’individuazione di IFA (Important Faunal Areas), aree
prioritarie per la tutela della fauna a invertebrati e vertebrati minori del
nostro paese, ad integrazione delle IBA (Important Bird Areas) e delle
IPA (Important Plant Areas). Il numero di specie cresce senza sosta
anche a causa della introduzione, consapevole o meno, di specie aliene.
Deve essere anzitutto precisato che non tutte le specie aliene sono
problematiche; al contrario, è probabile che la maggioranza delle specie
pervenute in un territorio posto al di fuori dell’areale, si estingua in
tempi più o meno brevi; per scarsità di risorse trofiche, effetto della
competizione, azione dei predatori, condizioni bioclimatiche ed edafiche
sub ottimali o non ottimali. Quelle invasive determinano, a livello
globale, perdita massiva della biodiversità. L’ittiofauna di molti habitat
d’acqua dolce d’Italia è costituita da specie introdotte; l’aspetto più
inquietante risiede nel fatto che alcune tra queste includono grandi
predatori fluviali come il siluro d’Europa Silurus glanis che può
raggiungere un quintale di peso e la cui dieta è basata su altri pesci; è
facile immaginare l’impatto di questo vorace predatore sull’ittiofauna
autoctona. Scenari della strategia nazionale per la biodiversità
suggeriscono l’efficace gestione della rete di aree protette nonché il
monitoraggio, contenimento e, quando possibile, eradicazione, delle
specie aliene invasive oltre a numerosi altri obiettivi (Andreella e
Brecciaroli, 2011-2012; Tartaglini et al., 2009). L’invasione di specie
alloctone infestanti, che si adattano agli ambienti più diversi ed in
particolare a quelli antropizzati, è oggi considerata la seconda causa di
erosione della biodiversità dopo la distruzione dell’habitat. Tra i
bioinvasori animali più dannosi repertati in Italia citiamo; zanzara tigre
Aedes albopictus, nutria Myocastor coypus, testuggine acquatica
americana dalle guance rosse Trachemys scripta e gambero rosso della
Luisiana Procambarus clarkii, quest’ultimo altrimenti noto con
l’inquietante appellativo di gambero killer. Alcune caratteristiche
comuni ai più pericolosi bioinvasori, rendono il gambero della Luisiana
una tra le specie potenzialmente più pericolose per la fauna autoctona,
soprattutto in assenza di predatori naturali. Generalista e opportunista,
dotato della capacità di resistere a condizioni climatiche estreme, a
precoce maturità sessuale, ciclo vitale polivoltino e produzione di un
elevato numero di uova, Procambarus clarkii rappresenta una delle
125
minacce più serie per la batracofauna italiana, aggiungendosi alle
numerose specie introdotte tra cui il fungo Batrachochytrium
dendrobatidis agente eziologico della chitridiomicosi, infezione letale
(Andreone, 2013; Gherardi, 2014 a, b). A proposito del Procambarus si
segnalano i risultati di alcune recenti osservazioni effettuate in zone
umide dell'Emilia-Romagna, ove questa specie è ampiamente diffusa. Si
è avuto modo di constatare -ed in qualche caso di documentare- la sua
predazione ad opera di uccelli acquatici come la Folaga e lo Svasso
maggiore. L'abilità con la quale queste specie riuscivano a catturare il
gambero rosso e rendere inoffensive le sue chele suggerisce una
sperimentata attività di foraggiamento. È probabile inoltre che anche
cormorani, aironi e garzette, sperimentando la commestibilità della
specie aliena ne abbiano fatto oggetto della loro dieta (F. L. Montanari,
in litteris, XI.2016). Analoga la storia dell’omottero Metcalfa pruinosa
anch’essa di origine americana che attacca oltre 200 specie di vegetali
arborei ed erbacei, che ha per antagonista la cinciallegra che si nutre
dell’insetto in una delle prime fasi. Queste osservazioni non
documentano solo l’evoluzione di rapporti trofici con ricadute
prevedibilmente positive per l’ambiente e le specie ma anche la
complessità delle relazioni che si intessono a livello ecosistemico;
l’ecologia è la scienza della complessità per eccellenza. Anche la storia
di Trachemys scripta è esemplificativa di molte situazioni analoghe che
testimoniano la criminale superficialità dell’uomo. Da tempo i Cheloni
sono al centro delle attenzioni del mercato in qualità di pet animals. In
alcuni casi, le dimensioni del commercio hanno raggiunto primati
negativi incredibili; ogni anno, circa sei milioni di esemplari della
testuggine dalle guance rosse sono traslocate dagli Stati Uniti ai mercati
asiatici ed europei, per essere quindi abbandonate nei più diversi
ambienti acquatici causando un inquinamento faunistico unico al
mondo. È soprattutto l’aumento delle dimensioni della T. scripta, da 5 a
300 mm in pochi anni, a determinare la disaffezione dei compratori, i
quali si liberano, appena possibile, di animali adulti ormai non
facilmente gestibili. Le conseguenze per le specie indigene sono
drammatiche, T. scripta è altamente competitiva, dimostrandosi un
pericoloso concorrente e predatore (Ferri e Soccini, 2015). Questa
xenodiversità risulta in progressivo aumento negli habitat d’acqua dolce,
vulnerabili alle bioinvasioni a causa dello stretto legame tra l’uomo e i
126
corsi d’acqua; oltretutto, uno dei rischi associati alla traslocazione di
questi organismi è costituito dalla diffusione dei loro patogeni e parassiti
(Gherardi e Genovesi, 2005; Gherardi et al., 2010). Gherardi et al. (2007) hanno fornito una lista di specie animali aliene presenti nelle
acque interne italiane; 112 specie non-indigene, 64 invertebrati e 48
vertebrati, il 2% circa della fauna delle nostre acque interne. Il
punteruolo rosso delle palme, Rhynchophorus ferrugineus, è un
Coleottero Curculionide polifago e infestante di numerose specie di
palma. Dal 2004, anno in cui è stata scoperta in Toscana, la specie si è
largamente diffusa nella penisola, in particolare nelle regioni centro-
meridionali. Gli individui del punteruolo rosso sono attratti dalle palme
deperenti o danneggiate nel cui tronco la femmina depone centinaia di
uova che schiudono in pochi giorni, le larve si nutrono dell’ospite
determinandone il collasso. I numeri della xenodiversità sono
impressionanti. La situazione dei Molluschi del Mediterraneo richiede
una breve premessa. Molte specie di Molluschi sono penetrate in
Mediterraneo dopo l’apertura del Canale di Suez nel 1869; si tratta di
specie indo-pacifiche dette lessepsiane in omaggio a Ferdinand De
Lesseps, promotore e realizzatore del Canale. I traffici e le attività
produttive dell’uomo hanno esacerbato il fenomeno; i molluschi esotici
pervenuti nel Mediterraneo, tra lessepsiani e non lessepsiani, circa 130
nel 2003, erano diventati circa 170 appena tre anni dopo. Tra questi, il
mitilo zebra Dreissena polymorpha, specie nord-europea e infestante
delle acque interne nord-americane e italiane, provoca gravi danni
economici ostruendo impianti di pompaggio dell’acqua in ambienti sia
lacustri sia fluviali (Cattaneo Vietti et al., 2013). L’Agriolimacidae
Deroceras sturanyi (Gastropoda: Pulmonata), limaccia di dimensioni
medie originaria dell’Europa sud-orientale e introdotta in diversi paesi
europei, è stata segnalata per la prima volta in Italia nel 2015 e
precisamente in Piemonte sulle sponde del Lago di Viverone.
Significativo il ritrovamento di questa specie in un ambiente fortemente
antropizzato; a conferma, la malacofauna terrestre associata a D.
sturanyi nelle stazioni ove sono state censite le prime popolazioni
italiane, annovera ben sei specie transfaunate sulle 23 censite (Birindelli
et al., 2015). Particolarmente appropriata è la raccomandazione “la
conoscenza delle caratteristiche biologiche che determinano la capacità
invasiva delle specie alloctone, risulta di fondamentale importanza per
127
sviluppare e programmare in modo appropriato le necessarie azioni di
contenimento” (Gherardi et al., 2014 b).
Abbiamo fatto cenno alla distruzione e alterazione dell’habitat
imputabile ad una ampia costellazione di fattori, dal disboscamento
massivo di estese porzioni di foreste tropicali / temperate, all’avvento
dell’agricoltura intensiva meccanizzata, al prosciugamento delle zone
umide, al rimboschimento per mezzo di conifere esotiche. Anche
l’inquinamento (rifiuti solidi, piogge acide, pesticidi, fertilizzanti)
costituisce un complesso altamente dannoso di fattori. Il riscaldamento
globale determina gli effetti più diversi; con riferimento al Bacino
Mediterraneo la tropicalizzazione e la meridionalizzazione delle faune.
Sul numero più recente della Rivista Italiana di Ornitologia – Research
in Ornithology (vol. 85, 2015), alcuni contributi confermano
l’importanza del fenomeno. È il caso dell’espansione dell’areale
riproduttivo della Cutrettola italiana Motacilla flava cinereocapilla che
nell’arco di due secoli si è diffusa in tutta la Pianura Padana e
successivamente in Francia, Svizzera, Austria e Germania;
originariamente le popolazioni nidificanti erano soprattutto costiere,
attualmente popolazioni stabili sono presenti a quote superiori a 1000 m.
La prima fase di espansione sembra sia stata favorita dalla
trasformazione della Pianura Padana con l’incremento dell’attività
zootecnica ed il conseguente aumento dei prati; la seconda fase
espansiva è stata probabilmente favorita dai mutamenti climatici ed in
particolare dall’aumento di temperatura della Grande Regione Alpina
(Ferlini, 2015). È ormai da tempo accertata l’acclimatazione di due
parrocchetti nell’area romana Myiopsitta monachus e Psittacula
krameri; di una terza specie Psittakula eupatria l’acclimatazione non è
ancora stata provata, nondimeno si ritiene che possa essere già avvenuta
(Angelici e Fiorillo, 2015). E si potrebbe continuare a lungo. Il
sovrasfruttamento delle risorse biologiche ed in particolare la sovrapesca
dei grandi pelagici ha determinato la forte riduzione degli stock del
tonno rosso Thunnus thynnus. Gli effetti negativi del collezionismo
amatoriale (insetti, molluschi, uccelli) sulle popolazioni animali
vengono attualmente ridimensionati, con l’ovvia esclusione per i
comportamenti più deleteri e maniacali. Il collezionismo presenta infatti
aspetti positivi, ad es. incrementando le informazioni sulla distribuzione
delle specie, e non deve essere in alcun modo confuso con il commercio
128
di animali o loro parti con effetti devastanti su molte specie ormai
sempre più rare. A questo proposito riteniamo utile fornire due notizie,
una buona ed una cattiva. La prima riguarda la crescita delle tigri allo
stato selvatico; nel 2010 si stimavano 3200 individui, nell’ultimo
censimento risultano presenti nel mondo 3890 individui di cui la metà in
India, fatto da attribuire agli sforzi di conservazione congiunti di
governi, comunità locali e specialisti della conservazione (ma si veda
Karanth, 2016 per valutazioni apparentemente meno ottimistiche). La
notizia cattiva riguarda il picco record di bracconaggio dei rinoceronti
africani, ben 1338 vittime nel 2015, una vera mattanza. Si stima che
siano rimasti circa 20.000 rinoceronti bianchi e tra 5000 e 5400
rinoceronti neri sul continente africano (WWF Italia, 2016).
Fondamentale, nel contesto della conservazione, il ruolo delle istituzioni
transnazionali. Dall’1 al 10 settembre 2016 si è svolto lo IUCN World Conservation Congress 2016 (WCC, Hawaii, USA), a frequenza
quadriennale, il più importante evento mondiale in materia di
conservazione. L’eccellente lavoro preparatorio ha consentito al WCC
di quest’anno di conseguire un notevole successo il cui risultato è
rappresentato dagli Hawaii Committments (HC). Gli HC sottolineano la
necessità di uno sforzo accresciuto al fine di ridurre la perdita di
biodiversità, determinare una maggiore resilienza ai cambiamenti
climatici, combattere le tecniche di pesca a maggiore impatto,
proteggere il 30% delle aree marine entro il 2030, investire in misura
crescente per contrastare le invasioni biologiche. Raccomandazioni
importanti riguardano altresì le munizioni in piombo e il bando totale
del commercio di avorio; infine, una particolare enfasi è stata posta sul
ruolo delle comunità indigene del mondo con la richiesta di creare per
loro una specifica categoria di membership IUCN (Genovesi, 2016).
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137
ANNA MARIA ROBUSTELLI
Le tante voci de La fanciulla senza mani 1
PERA
di Nan Fry
pendi dal tuo albero
come una lacrima fattasi solida,
come neve con la pelle lentigginosa.
Quando la fanciulla senza mani
venne da te al chiaro di luna, affamata,
si allungò e ti prese
nella bocca.
1 Tenendo presente che di questa fiaba esistono molte varianti, fondamentalmente la
storia è questa: un contadino fa un patto con quello che poi si rivelerà essere il
Diavolo cedendo sua figlia in cambio di ricchezze. Ma il Diavolo non può prendere
la figlia a causa della sua purezza, finché per ottenerla chiederà al contadino di
mozzarle le mani, impedendole di lavarsi. Anche così la purezza della ragazza ha la
meglio, ma lei decide di andare via dalla casa del padre e dopo molto vagare mangia
le pere del giardino del Re per sfamarsi. Il Re lo scopre e, colpito dalla sua bellezza
decide di accoglierla e sposarla. Dopo un po’ deve partire per la guerra e chiede a
sua madre di avvisarlo quando il bambino, che sua moglie aspetta, nascerà. Così fa
la madre del re, ma il messaggio che lei manda al Re viene contraffatto dal Diavolo
che scrive che è nato un figlio deforme. Ciononostante il Re ha delle buone parole
per sua moglie, ma un altro intervento negativo del Diavolo convince la madre del re
a far fuggire la fanciulla senza mani dopo averle legato il bambino sulle spalle.
Giunta a un corso d’acqua la fanciulla si piega per bere e le cade il figlio nell’acqua.
Mentre si affanna per riprenderlo le rispuntano le mani e può salvarlo. Andrà poi a
vivere in una casa in un bosco dove, dopo sette anni, incontrerà e riconoscerà il Re
partito alla sua ricerca e tutto andrà a finire bene.
138
Suo padre l’aveva venduta
al diavolo e le aveva mozzato le mani,
ma tu ti piegasti verso di lei, Pera,
e offristi te stessa, seno
e latte insieme, terra
fattasi pendula e dolce.2
In questa poesia di Nan Fry ci soffermiamo nel momento in cui la
fanciulla senza mani, dopo aver vagato per tutto il giorno nella foresta –
luogo di rigenerazione – di sera, affamata, si avvicina a un frutteto per
mangiare una pera, aiutata da uno spirito a superare il fossato intorno al
castello (dove si trova il frutteto). L’antica fiaba rivela un rito di
iniziazione che si potrà completare solo dopo aver attraversato un fiume
di morte come lo Stige (il fossato del castello) e con l’aiuto di qualcuno
(lo spirito), così come Virgilio aiutò Dante nell’Inferno.
La poeta Nan Fry si concentra sulla bellezza e benevolenza del frutto
stesso, la pera, che diventa un forte simbolo di rigenerazione o rinascita.
Il dolore della mutilazione delle mani si trasmuta nella lacrima fattasi
solida o nella neve con la pelle lentigginosa. La pera si offre
interamente alla fanciulla diventando seno e latte, terra che nutre e che è
dolce. La poesia trasuda fisicità: la fanciulla senza mani, tradita dagli
esseri umani che avrebbero dovuto proteggerla (il padre e la madre),
dopo l’attraversamento del bosco, incontra il cibo vivificante offerto dal
pero, ed è la terra stessa che le offre nutrimento e conforto in questo
momento critico della sua vita.
Questa fiaba è molto indagata da studiosi del folklore e contastorie.
Apparentemente sembra proporre un modello passivo di femminilità, ma
in realtà addita un lungo processo che porterà alla maturità. Come ha
2 PEAR
you hang from your tree / like a teardrop grown solid, / like snow with a freckled
skin. / When the handless maiden / came to you in moonlight, hungry, / she
stretched up and took you / into her mouth. // Her father had sold her / to the devil
and lopped off her hands, / but you bent to her, Pear, / and offered yourself, breast /
and milk both, the earth / grown pendulous and sweet. Lady Churchill’s Rosebud
Wristlet #15, January 2005.Traduzione di Anna Maria Robustelli.
139
detto la contastorie Susan Gordon: “Possiamo perdere le mani senza che
ne abbiamo colpa e persino in questa condizione non essere impotenti.”3
“Ciascuno di noi può essere ferito e aver bisogno di un posto dove
guarire e dove ripoter diventare intero.”4 La prima volta, ci dice la
Gordon, per lasciare i genitori e diventare adulti, la seconda per lasciarci
alle spalle un’immagine di sé convenzionale. Questa autrice ci fa capire
come questa fiaba possa rifarsi alla nostra storia personale, al modo in
cui in passato abbiamo scoperto di essere stati privati di qualcosa e a
come impariamo a “esaminare le nostre vite e le nostre scelte e a
crescere attraverso le storie.”5
La poeta inglese Vicki Feaver nella sua poesia sulla fanciulla senza
mani si concentra sul momento in cui la protagonista ha potuto
recuperare la figlia dall’acqua in cui era caduta, quando lei si era
accostata al fiume per bere. Le mani, secondo una versione russa, le
sono rispuntate e lei ha potuto compiere l’operazione di salvataggio.
Questo prodigio corona un avvenuto processo di maturazione della
protagonista della fiaba. La poeta inglese fa scaturire i suoi versi nel
momento emotivo del recupero delle mani e sulla conseguente
possibilità di salvare la propria figlia. Infine sottolinea la volontà di
“scrivere” quello che è avvenuto. La fanciulla recupera le mani e
acquista anche la voglia di testimoniare per iscritto quello che è
successo. Il recupero delle mani sigilla quindi il recupero della parola
nella donna silenziosa nei secoli. Riporto la poesia solo in italiano, nella
traduzione di Giorgia Sensi6, dato che già ho parlato di questa poesia in
un precedente articolo, Le mani che germogliarono e scrivono questo,
apparso in Quaderni del Liceo Orazio N. 3 Anno Scolastico 2012/2013:
LA FANCIULLA SENZA MANI
Quando l’acqua smise di uscirle dalla bocca,
3 Susan Gordon, “The Powers of the Handless Maiden”, in Feminist Messages
Coding in Women’s Folk Culture, edited by Joan Newlon Radner, University of
Illinois Press Urbana and Chicago, 1993, p. 252. 4 Ibidem, p. 252. 5 Ibidem, p. 266. 6 Vicki Feaver La fanciulla che ritrovò le sue mani. A cura di Giorgia Sensi e
Brenda Porster, “Poesia”, ottobre 2006.
140
e le ebbi strofinato gambe e braccia,
e torace e pancia e schiena,
con ciuffi di muschio secco;
e messa a dormire in un nido d’erba
e stesi i panni fradici su un cespuglio,
e tenuta di nuovo stretta – il suo calore mi penetrava
nel petto e nella spalla,
il respiro cui non potevo credere
come una piuma a solleticarmi il collo,
mi lasciai andare al pianto. Piansi per le mani
che mio padre mi aveva tagliato; per i moncherini
tormentati dal formicolio di rugose
cicatrici; per le mani d’argento –
me le aveva date mio marito – che filavano e tessevano
ma non sentivano; e per le braccia senza mani
che avevano lasciato cadere la mia bambina – scivolata
dalla stretta fasciatura
mentre bevevo dal fiume rigonfio.
E piansi per le mani che germogliarono
dal fango rossiccio – le mani
che scrivono questo, e stringono
il riccio del suo pugno.
A un’ulteriore lettura di questa riuscita poesia mi piace sottolineare la
ricchezza dei particolari forniti dalla fanciulla dopo che è riuscita a
salvare la figlia dal fiume: i ciuffi di muschio secco, il nido d’erba, i
panni fradici su un cespuglio, tutti elementi che sottolineano il lavoro di
cura tradizionalmente affidato e svolto dalle donne.
Anne Sexton ha scritto una lunga poesia sulla fanciulla senza mani.
Sin dall’incipit pone un interrogativo inquietante riguardo ai motivi per
cui il Re avrebbe voluto sposare la ragazza:
E’ possibile
che lui sposi una storpia
per ammirazione?
Un desiderio di possedere la mutilazione
cosicché nessuno di noi macellai
verrà da lui con leve
o sottili pinze di precisione?
Signora, mi porti la sua gamba di legno
perché io possa stare sui miei
due piedi di porco rosa.
141
Se qualcuno ti brucia l’occhio
ti prenderò l’orbita
e l’userò come portacenere.
Se ti hanno portato via l’utero
ti darò una corona di lauro
da mettere al suo posto.
[…]
La mia mela non ha vermi.
La mia mela è intera!
[…]7
Si direbbe che avere accanto qualcuno mutilato faccia sentire “interi”.
E’ indubbio che la mancanza (delle mani) della donna aumenti il potere
dell’uomo che la sposa, che può darle delle mani d’argento e comunque
proteggerla e acquisire così importanza nel ruolo che si è creato.
L’aspetto inquietante della fiaba viene ribadito alla fine, quando il Re
ritrova la moglie, ormai con le mani restituite, e il figlio nel bosco:
Era buono e gentile come ho già detto
così trovò la sua amata.
Lei mostrò le mani d’argento.
Mostrò Arrecapene8
e lui capì che erano suoi,
anche se entrambi ora sfortunatamente interi.
Ora i macellai verranno da me,
pensò, perché ho perso la mia fortuna.
Ciò mise una paura insidiosa in lui
come un abbassalingua tenuto stretto
nella parte posteriore della gola.9
7 THE MAIDEN WITHOUT LEGS
It is possible he marries a cripple / out of admiration? / A desire to own the maiming
/ so that not one of us butchers / will come to him with crowbars / or slim precise
tweezers? / Lady, bring me your wooden leg / so I may stand on my own / two pink
pig feet. / If someone burns out your eye / I will take your socket / and use it for an
ashtray. / If they have cut out your uterus / I will give you a laurel wreath / to put in
its place. / [...]/ My apple has no worm in it. / My apple is whole! […]. Anne Sexton,
Transformations, Houghton, 1971. Traduzione di Anna Maria Robustelli. 8 Paingiver, è il nome del figlio.
142
Matilde Martín Gonzáles osserva che “Uno dei miti culturali che la
Sexton demolisce in Transformations è la caratterizzazione eroica
tradizionalmente assegnata a figure maschili, in virtù della quale la loro
unica funzione consiste nel salvare damigelle in pericolo, riportandole in
vita o - e questo costituisce la fondamentale preoccupazione delle donne
– sposandole. Le fiabe sottolineano gli effetti sulle donne di varie
“fantasie seducenti” (Rose, 237) che le inducono a considerare
l’innocenza, il sacrificio di sé e l’obbedienza come virtù intrinsecamente
femminili.”10
Le donne-poeta hanno esplorato la fiaba di cui stiamo parlando,
scrutandone ogni aspetto per quanto recondito esso possa essere.
Margaret Atwood ha indagato il vuoto creato dalle “mani assenti” con
un sentimento di intensa fisicità: la distanza ti circonda […]spingendo la distanza davanti a te […] Nessuno può entrare nel circolo / che hai
creato […] L’urlo che avvenne nell’aria / quando gliele mozzarono […] Uno spazio silenzioso e immane connota questa fisicità e l’eco possente
dell’urlo emesso quando le mani sono state mozzate. Il senso della
mancanza si amplifica ed è impossibile da scalfire. Nel racconto della
fiaba nella stesura dei fratelli Grimm invece la mancanza era assorbita e
quasi obliata dal ritmo rassicurante delle parole che conducevano a un
finale felice e scontato.
FANCIULLA SENZA MANI
Passando tra le rovine
mentre ti rechi al lavoro,
rovine che non sembrano rovine
col sole che si riversa
sul mondo visibile
9 He was good and kind as I have already said / so he found his beloved. / She
brought forth the silver hands. / She brought forth Paingiver / and he realized they
were his, / though both now unfortunately whole. / Now the butchers will come to
me, / he thought, for I have lost my luck. / It put an insidious fear in him / like a
tongue depressor held fast / at the back of your throat. Transformations, op. cit.. 10 Matilde Martín González, (Universidad de La Laguna) “Fairy Tales revisited and
transformed: Anne Sexton’s critique of social(ized) femininity”.
143
come grandine o argento
fuso, luminoso
e magnifico, ogni sua foglia
e pietra velocizzati e specifici,
e non lo tieni in mano,
nemmeno in parte. La distanza ti circonda,
segnata dalla fine delle tue braccia
allargate al massimo.
Non puoi procedere oltre,
pensi, camminando in avanti,
spingendo la distanza davanti a te
come un carretto di metallo su ruote
con le sue sponde e traverse.
L’apparenza si scioglie via da te,
uffici e piramidi
all’orizzonte brillando s’estinguono.
Nessuno può entrare nel circolo
che hai creato, quel circolo netto
di spazio morto che hai creato
e in cui stai dentro,
lamentandone la nettezza.
Poi c’è la ragazza col vestito bianco,
significa purezza, o l’impossibilità
di avere un colore. Non hai le mani, è vero.
L’urlo che avvenne nell’aria
quando gliele mozzarono
la circonda ora come un’aureola
di sabbia bollente, senza suono.
Tutto le è sgorgato fuori, come sangue.
Solo una fanciulla così
può sapere cosa ti è successo.
Se fosse qui allungherebbe
le braccia verso di te
e ti toccherebbe
con le sue mani assenti
144
e tu non sentiresti nulla, ma ne saresti
ugualmente toccato.11
Elline Lipkin, autrice di Conversazione con mio padre, focalizza la sua
attenzione su un altro aspetto della fiaba che di fatto revisiona: la
volontà della ragazza di non farsi tagliare le mani dal padre.
CONVERSAZIONE CON MIO PADRE
Dopo che ci siamo parlati vado dal ferramenta
per decidermi su un trapano, sento ogni arnese confezionato in nero
pullulare della volontà di far male. Mi intrufolo
tra corredi di pezzi, mostre di lame e aste,
forme di metallo simili a fucili che vantano potere.
Il brusio-parola della nostra conversazione fa ronzare il suo drone
una sega calda lasciata sempre nell’angolo, pronta a tagliuzzare.
Importante – istruzioni di sicurezza volteggiano poi cadono.
Seguo i tuoi consigli su ciò che serve per forare
una mano di vernice, la forza che ci vuole per bucare il muro.
11 GIRL WITHOUT HANDS
Walking through the ruins / on your way to work / that do not look like ruins / with
the sunlight pouring over / the seen world / like hail or melted / silver, that bright /
and magnificent, each leaf / and stone quickened and specific in it, / and you can’t
hold it, / you can’t hold any of it. Distance surrounds you, / marked out by the ends
of your arms /when they are stretched to their fullest. / You can go no farther than
this, / you think, walking forward, / pushing the distance in front of you / like a
metal cart on wheels / with its barriers and horizontals. / Appearance melts away
from you, / the offices and pyramids / on the horizon shimmer and cease. / No one
can enter that circle / you have made, that clean circle / of dead space you have
made / and stay inside, / mourning because it is clean. // Then there’s the girl, in the
white dress, / meaning purity, or the failure / to be any colour. She has no hands, it’s
true./ The scream that happened to the air / when they were taken off / surrounds her
now like an aureole / of hot sand, of no sound. / Everything has bled out of her. //
Only a girl like this / can know what’s happened to you. / If she were here she would
/ reach out her arms towards / you now, and touch you / with her absent hands / and
you would feel nothing, but you would be / touched all the same. Margaret Atwood,
Mattino nella casa bruciata, a cura di Giorgia Sensi e Andrea Sirotti, Le Lettere,
Firenze, 2007. Titolo originale: Morning in the Burned House. © Margaret Atwood
1995.
145
Quanto meglio se avessi potuto essere come Atena,
che balzò limpida come una cerva, chiara come una somma, scoccata
dalla tua testa come un flusso di logica nitida. Se solo avessi
potuto essere pura come un prodotto della mitosi della mente,
giustificata come quando ‘se’ genera ‘quindi’, e ‘a’ è uguale a ‘c’,
ciascuna camera della ragione che oltrepassassi capace di fondere uno
strato
di minerale di ferro sul mio petto. Quanto potremmo essere simili se
io emergessi, equilibrata come un assioma, infilata bene
come una teoria, e nata armata, con arco e freccia in mano.
Invece , nella tua stretta, ero Pollicina, un angelo di vetro,
un completo di braccia di porcellana incrociate dietro un dorso.
La mia mano doveva restare indissolta come una zolletta
di zucchero filato finché non fossi stata richiesta, approvata, poi trainata
per
un corridoio. Ma te l’ho detto che non posso starmene buona come
la ragazza dei Grimm, quando stiamo vicino all’ascia ritraggo
i polsi. Ogni dito appuntito è la mia vera arma.
Non ti lascerò bronzare le coppe tagliate dei miei palmi.12
12 CONVERSATION WITH MY FATHER After we speak I go to the hardware store / to decide on a drill, feel each black-
packaged tool / bristle with its will to do harm. I interlope / among bit sets, arrays of
blade and shaft, / gun-like metal shapes that brag of power. / The world-whir of our
talk still buzzes its drone / a hot saw always left in the corner, ready to hack. /
Important – safety instructions flutter then drop. / I follow your advice on what’s
needed to needle / a skin of paint, the force to punch the wall. // How much better if
I could have been like Athena, / springing clear as a doe, neat as a sum, blasted out /
of your head like a sweep of clean logic. If only I could / have been pure as a
product of the mind’s mitosis, / justified as when ‘if’ begets ‘then’, and ‘a’ equals
‘c’, / each chamber of reason I passed smelting an iron-ore / layer over my breast.
How alike we could be when / I emerged, balanced as an axiom, threaded straight /
as a theory, and born armed, with bow and arrow in hand. // Instead, in your grip, I
was Thumbelina, a glass angel, / a set of porcelain arms crossed behind a back. / My
hand was to stay undissolved as a spun-sugar / lump until asked for, approved of,
then towed down / an aisle. But I’ve told you I can’t be good as / Grimm’s girl,
when we stand near the axe I draw / my wrists back. Each pointed finger is my true
146
Nella prima strofa, in un negozio di ferramenta, la ragazza avverte i
segnali aggressivi che gli giungono da tutti gli oggetti esposti, un
mondo, si direbbe, totalmente e oscuramente maschile. Nella seconda la
voce narrante desidera di poter essere scaturita limpidamente come
Atena dalla testa di Giove (quindi dal padre). Ma in realtà il rapporto tra
padre e figlia è più contorto: lei si sente una Pollicina-angelo di vetro, si
sente qualcuno totalmente dipendente dal dominio paterno. Proprio per
questo dichiara la sua volontà di reagire alla violenza, impedendo la
mutilazione delle mani, e anzi conservando ogni dito appuntito come
arma di difesa. La fiaba di cui stiamo parlando ci induce a identificarci con la
protagonista e, come spesso fanno le fiabe, ci spinge ad esaminare le
nostre vite, a mettere da parte la nostra distruttività e a immaginare
nuove possibilità.
Gordon insiste sul valore “terapeutico” delle fiabe, che ci permettono
di uscire da un tunnel negativo, facendo balenare nuove opportunità. Il
bosco è il luogo del risanamento, che permette di riconoscere le perdite
e elaborarle. Il fattore tempo è sottolineato nella fiaba. Ci vogliono sette
anni per portare a termine il processo completo di salvezza e anche il Re
deve attendere lo stesso lungo periodo di tempo per poter ricongiungersi
con la moglie e il figlio. Gordon aggiunge: “La fanciulla senza mani,
come la racconto io, è una storia di sviluppo umano. Ascoltatori di ogni
età e di ambedue i generi hanno scoperto che sono stati senza mani
come la Fanciulla. Credo che sia prima di tutto una storia di sviluppo
delle donne, dalla mancanza di potere all’affermazione di sé, perché
nelle scelte dei suoi personaggi descrive il bisogno di una donna di
separare e riprendere il suo sé intero, in un modo che non è dettato dalla
gerarchia esistente, per vivere con tutta la pienezza di cui è capace.”13
Una terapista ha capito che la fiaba “era un messaggio, donna a donna
e che la madre della fiaba avrebbe riconosciuto il dolore della figlia, ma
non avrebbe sfidato il patriarcato.” 14 “La fanciulla senza mani illustra
weapon. / I won’t let you bronze the cut cups of my palms. Elline Lipkin, The Poet’s
Grimm, edited by Jeanne Marie Beaumont and Claudia Carlson, Story Line Press,
2003. Traduzione di Anna Maria Robustelli. 13 Susan Gordon, op.cit., pp. 267-68. 14 Susan Gordon, op. cit., p. 273.
147
gli abusi di potere tra uomini e donne, tra adulti e bambini. Rende
visibili i modi in cui siamo vulnerabili e collegati nelle nostre vite; il
mugnaio e la moglie ci mostrano come questa conoscenza può essere
rifiutata insieme alla povertà che ne segue.”15Nelle fiabe dei Grimm ci
sono anche molti angeli (aiutano la ragazza nel frutteto, la
accompagnano quando entra nel bosco ecc.), ma Gordon li fa sparire,
un po’ come avviene nella poesia di Vicki Feaver. Ecco come è vista la
ragazza nel racconto del giardiniere del Re:
[…] andò dal Re e disse,
“Guarda, c’è qualcuno o qualcosa nel tuo giardino
e non so chi sia o cosa sia,
ma non sono tipo da impicciarmi.
Quando lei lo chiede,
le mura si rompono,
i fossati si separano,
gli alberi si piegano.
Non ha le mani.
E’ coperta di luce.
Oltre a questo,
è la cosa più bella che abbia visto.”
[…]16
Per Gordon quell’essere coperta di “luce” significa che la ragazza è
“protetta dall’interno” ed è in sintonia con la natura e l’universo. Questa
luce simboleggia la forza che la ragazza – ma anche chiunque sia
impegnato in un processo di rigenerazione – possiede.
15 Susan Gordon op. cit. p. 274. 16 Susan Gordon, op. cit., pp. 258-59.
[…] he went to the King and he said, / “Look, there’s somebody or something in
your garden / and I don’t know who she is or what she is, / but I’m not the man to
mess with her. / When she calls out, / walls break, / moats part, / trees bend. / She
doesn’t have any hands. / She’s covered in light. / Besides that, / she’s the most
beautiful thing I’ve ever seen.”[…]. Traduzione di Anna Maria Robustelli. Le frasi
che ho appena citato sono tratte dalla versione scritta della fiaba, così come la
racconta Susan Gordon. La disposizione grafica (che assomiglia a una poesia) è stata
scelta dalla contastorie statunitense per rispettare il ritmo del racconto e la sua
musicalità.
148
Alcuni ascoltatori dei racconti di Gordon si meravigliano del fatto che
la ragazza si sia fatta tagliare le mani con troppa arrendevolezza, senza
difendersi adeguatamente. Le famose parole della ragazza al padre,
quando questi si accinge a mozzargliele: “Caro padre, fa di me quello
che vuoi.” non vanno interpretate come pura e semplice passività, ma
come riconoscimento che nei rapporti genitoriali con i figli il potere
decisionale spetta agli adulti e qui Gordon aggiunge un’importante
considerazione: “I bambini hanno un’abilità inequivocabile nell’assi-
milare e riflettere il vero stato di impoverimento o di salute dei genitori.
Automaticamente si assumono la colpa delle mancanze dei genitori
perché hanno «un’innata tendenza a sentirsi impotenti, abbandonati,
vergognosi e colpevoli in rapporto alle persone da cui dipendono.» “17
Il processo di autonomia della ragazza senza mani comincia quando
lei decide di non stare più nella casa paterna, si rinforza quando chiede
al pero di piegarsi verso di lei, perché possa mangiare aprendo i muri del
castello del Re (che la separano dal suo vero io e dalla possibilità di
relazionarsi con gli altri) e si definisce quando lei, sola nel bosco,
riacquista le mani e impara a gestire la sua vita e il suo bambino.
Vorrei concludere proprio citando la parte della fiaba, nella versione
di Susan Gordon, in cui il processo di autonomia della ragazza
comincia. E’ la sua risposta, per niente passiva, alla assurda richiesta del
padre di volerle tagliare le mani, per paura che il Diavolo, se non lo fa,
lo porterà nell’inferno:
Si diresse verso la figlia, dicendo
“Ora, hai sentito l’uomo [il Diavolo]. Non ho scelta.
Non ho scelta.”
Lei lo guardò.
“Nessuna scelta? Nessuna scelta?
Oh, mio Dio.
Darei quasi tutto nel mondo
per non essere tua figlia,
ma lo sono. Lo sono.
Così fa di me quello che vuoi.”
17 S. Gordon cita queste fonti all’origine della sua osservazione: Kim Chernin, The
Hungry Self (New York: Times Books, 1985), 122-23; E .Erikson, Identity: Youth
and Crisis (New York: Norton, 1968), 75-76.
149
Tese le mani.
Senza un attimo di esitazione,
lui abbatté l’ascia su di loro.
Il Diavolo, se ne andò soddisfatto.
Il mugnaio – lasciò sua figlia
in piedi nel cortile.
E ora lei pianse.
Pianse per il suo dolore;
pianse per la sua infelicità.
Pianse tutto il giorno;
Pianse tutta la notte.
Pianse tanto e così forte che,
la mattina,
aveva lavato persino i moncherini
dove le mani erano state
pulite.18
18 Susan Gordon, op. cit., pp. 256-57.
He walked toward his daughter, saying / “Now, you heard the man. I ain’t got no
choice. / I ain’t got no choice.” // She looked at him. / “No choice? No choice? /
Oh, my God. / I would give almost anything in the world / not to be your daughter, /
but I am. I am./ So you do with me what you will.” // She held out her hands. //
Without a moment’s hesitation, / he brought his ax down through them. // The Devil,
he left satisfied. / The miller – left his daughter / standing in the yard. // And now
she cried. / She cried in her pain; / she cried in her misery. / She cried all day long; /
She cried all night long. / She cried so long and so hard that, / by morning, / she had
washed even the stumps / where her hands had been / clean.
150
151
Sezione didattica (collaborazioni degli studenti)
152
153
STEFANO DE STEFANO
XXIV Olimpiade di Filosofia
La XXIV edizione delle “Olimpiadi di Filosofia” è stata curata, nel
nostro Liceo, dai professori: Cherubini Adriana, Colini Simona, De
Liguori Edmondo, De Stefano Stefano e Dedato Elisabetta. Sulla scorta
delle indicazioni della Società Filosofica Italiana è stata organizzata la
prova scritta per la selezione regionale, quindi sono stati corretti gli
elaborati e sono stati individuati i candidati dell’Orazio che hanno
partecipato alle selezioni regionali per accedere alla gara nazionale.
La selezione d’Istituto si è svolta giovedì 11 febbraio 2016 e ha
coinvolto 32 studenti, per la gara in lingua italiana, e 12, per la gara in
lingua straniera (inglese).
La selezione regionale, che si è svolta presso l’Università di Roma
Tre, ha coinvolto, quest’anno, un numero di scuole significativo: circa
33 istituti scolastici del Lazio – scuola secondaria di secondo grado - ,
per un totale di circa 120 studenti tra la prova in italiano e quella in
lingua comunitaria, hanno partecipato all’iniziativa, a testimonianza
dell’interesse per lo studio della filosofia, caratterizzato dalla volontà di
confrontarsi, secondo modalità e contenuti squisitamente culturali, su
temi legati al mondo contemporaneo.
Le tracce proposte, per la selezione d’Istituto, sono state le seguenti:
1) Etica Commenta il seguente testo del filosofo tedesco Hans Georg
Gadamer (1900-2002), sviluppando e argomentando un tuo punto di
vista, con eventuali richiami ad altri autori studiati o spunti di
riflessione già presi in esame:
«Il futuro ci pone un compito: preservare e sviluppare l’Europa nella
sua unità e varietà. Il futuro è ritorno. Così noi ci ricordiamo di
quell’unità di Occidente e Oriente che oggi ci manca, e che un tempo era
l’ecumene del mondo antico; e faceva dell’Oriente cristiano l’erede dell’impero romano. L’unità di Occidente e di Oriente, la varietà
154
dell’Occidente e la varietà dell’Oriente sono l’Europa. L’antichità greca
e il mondo greco-latino dell’impero romano costituiscono, in una ricca
tradizione umanistica e cristiana, lo sfondo comune di tutte le scuole e di
tutte le Chiese: ossia l’unità culturale dell’Europa».
(Da: Hans Georg Gadamer, Messaggio in occasione della presen-
tazione al Parlamento Europeo degli Appelli per la filosofia e la ricerca
umanistica, 1991)
2) Estetica L'aggettivo “bello” viene usato nelle situazioni più diverse: può essere
riferito a oggetti materiali prodotti tecnicamente ma estremamente
diversi tra loro, per es. un mobile, un vestito, un gioiello, un cellulare
dal disegno particolare, un'automobile fino a quei manufatti considerati
“opere d'arte” come pitture o sculture ma anche poesie, musica, cinema,
teatro ecc.; di bellezza si parla poi molto riguardo la natura, “bello” può
essere considerato un paesaggio, un fiore, un giardino, il cielo (di giorno
o di notte), un animale, un corpo, un volto o i suoi dettagli (gli occhi, le
labbra). Ma la parola “bellezza” può essere impiegata anche in
riferimento a esperienze più “immateriali”, la conversazione con
qualcuno, un incontro imprevisto, una relazione intima, persino una
teoria o una argomentazione razionale.
Questi usi così svariati e con riferimento a oggetti così eterogenei
della stessa parola indicano una semplice sinonimia necessaria solo per
comunicare esperienze irriducibilmente soggettive o presuppongono un
significato comune a tutti? E in quest'ultimo caso si tratta di un valore,
una regola convenzionale frutto dell'educazione e della cultura? Ed
eventualmente come si concilia con la sensibilità personale?
Svolgi le tue considerazioni su questi problemi con riferimento anche a
teorie filosofiche di tua conoscenza ma soprattutto in relazione alle tue
esperienze personali.
3) Gnoseologia
L’ideale galileiano dell’oggettività della conoscenza scientifica
sembra venir meno nei punti di vista espressi dal medico e filosofo
statunitense William James (1842 – 1910) e dal filosofo della scienza
austriaco Paul Feyerabend (1924 – 1994). Discutete le due posizioni con adeguati riferimenti alla vostra esperienza e alle vostre conoscenze
in ambito filosofico e scientifico.
155
La verità di un’idea non è una sua stagnante proprietà. Un’idea
diventa vera, è resa vera dagli eventi. La sua verità è di fatto un
avvenimento, un processo: il processo, più esattamente, del suo
verificarsi, la sua verificazione. La sua validità è allo stesso modo il
processo della sua convalidazione.
(Da: W. James, Pragmatismo, cit. in Lezioni di filosofia 3, a cura di
A. M. Pastore, SEI 1998, pag. 334.)
È chiaro, quindi, che l’idea di un metodo fisso, o di una teoria fissa
della razionalità, poggia su una visione troppo ingenua dell’uomo e del
suo ambiente sociale. Per coloro che non vogliono ignorare il ricco
materiale fornito dalla storia, e che non si propongono di impoverirlo
per compiacere ai loro istinti più bassi, alla loro brama di sicurezza
intellettuale nella forma della chiarezza, della precisione, dell’
“obiettività”, della “verità”, diventerà chiaro che c’è un solo principio
che possa essere difeso in tutte le circostanze e in tutte le fasi dello
sviluppo umano. È il principio: qualsiasi cosa può andar bene. (Da: P. Feyerabend, Contro il metodo, cit. in Lezioni di filosofia 3, a
cura di A. M. Pastore, SEI 1998, pag. 398)
4) Filosofia politica Commenta il seguente testo di Karl Jaspers (1883-1969), uno dei
maggiori esponenti dell’esistenzialismo tedesco, sviluppando e
argomentando un tuo punto di vista, con eventuali richiami ad altri
autori studiati o spunti di riflessione già presi in esame:
«“La politica è il destino”. Da che nell’età della tecnica esiste il
dominio totale, questa frase di Napoleone è più terribile che mai. Anche
quando si considerò apolitica, la filosofia ha sempre avuto un significato
politico. Nel filosofare infatti l’uomo perviene a se stesso. Ivi trae gli
impulsi a configurare e a giudicare politicamente la sua esistenza
nell’azione reciproca di tutti».
(Da: Karl Jaspers, Piccola scuola del pensiero filosofico [1965], trad.
it. di C. Mainoldi, Milano, SE, 2006)
Di seguito gli elaborati premiati:
Antonella Di Piero, 2B classico 2015-2016
Gnoseologia
156
Svolgimento
“Che cos’è la verità?”. Matias si ricordò quasi per caso della
domanda, posta qualche giorno prima, dall’adorato nipote, mentre lo
riaccompagnava da scuola. Matias aveva cercato di rispondere alla
curiosità del piccolo richiamandosi ad autori, libri, riportando alla
memoria alcune esperienze, ma sapeva di non essere riuscito a dare una
risposta soddisfacente.
A turbarlo, in fondo, non era stata la scomoda domanda del giovane
ma la paura della consapevolezza di non conoscerne la risposta.
La verità, si disse, doveva essere un colore, il bianco, semplice, senza
traccia di macchie. Essa non poteva essere assimilabile ad alcun altro
colore, perché tutti questi contenevano in sé qualche segno di parzialità;
il bianco, d’altro canto, li rappresentava tutti e insieme nessuno, perché
non ve ne era alcuno che primeggiasse sugli altri.
Conteneva in sé una limpida giustizia, non una giustizia di uomini,
sottoposta a giudizio arbitrario, ma una giustizia naturale, inflessibile e
immutabile, che trovava in sé e non in altri giustificazione e fondamento
della propria esistenza. Ne derivava che la verità, così come il bianco,
era al di sopra della casualità, della consequenzialità e di qualunque altro
effimero fattore. La verità non diventava tale in base all’altalenarsi degli
eventi, piuttosto essa poteva rivelarsi agli occhi dell’uomo, ma questo
non ne indicava la dipendenza, né in essi ricercava la sua validità.
Matias arrivò a pensare che la verità fosse espressione della natura, ma
che spesso le persone l’avessero scambiata per espressione di se stessi,
del proprio pensiero. Invece, secondo l’anziano, il fondamento della
verità risiedeva proprio nella sua estraneità, oggettività, essa guardava
tutto dall’alto, con occhio distaccato; gli uomini, al contrario, dal basso
potevano scorgere, quando fossero attenti, solo ciò che la verità
decideva di mostrare loro. E’ per questo che Matias non poteva
concepire l’idea che la verità divenisse tale solo in relazione agli eventi,
perché questo avrebbe significato rivendicare se stessi a creatori del vero
e del falso e da opinioni di singoli non sarebbe potuto derivare alcunché
di universale. Spesso, infatti, si era reso conto che la parte più celata,
nascosta fosse in realtà l’elemento più identificativo di una persona. E
allora, si disse, perché ciò non doveva essere tale anche per la natura?
Come potevano, infatti, pretendere degli individui di essere arbitri
della natura, quando essa si rivelava solo parzialmente? Per quanto
157
riguardava gli uomini, Matias capiva che spesso potevano avere opinioni
diverse, talvolta quasi contrastanti, ma esse dovevano necessariamente
derivare da una verità comune di cui, però, gli uomini non avevano che
una conoscenza parziale, e proprio da questo derivavano le differenti
interpretazioni della mente.
Il giorno seguente, quindi, andando a prendere il nipotino a scuola,
Matias si sentì molto sereno e, quando lo vide, affermò con sicurezza:
“La verità è il bianco!”.
Flores Valeria, 1D classico 2015 - 2016
Estetica
Svolgimento
"E' bellissimo". Siamo io e lui, sotto un cielo stellato. "Perché?". Lo
guardo. "Ti sei mai chiesto il perché tu dica sia bello?". Rifletto un po'.
"Sarà che mi piace...". "Se è per questo ci sono altre centinaia di cose
che ti piacciono: ascoltare la tua canzone preferita, ballare, scrivere, la
cioccolata. Ma basta che ti piaccia veramente perché sia bello?". "No,
suppongo di no". "Se la mettiamo così, la bellezza è solo questione di
"mi piace". Eppure la tua canzone preferita può anche non piacermi, no?
E se fosse così, allora non sarebbe più "bella"?". "No, affatto...ci sono
pareri soggettivi...e insomma de gustibus non disputandum est".
"Esattamente... per cui siamo d'accordo sul fatto che la bellezza sia
qualcosa di più?". "Beh si...suppongo che in generale ci siano cose belle
perché piacciono semplicemente...altre sono belle perché magari in quel
momento ti fanno stare bene". "Ad esempio stare con una persona?".
"Si, per esempio"." Quindi se tu stai bene con una persona è bello. Ma
se un giorno, ipoteticamente, tu avessi una discussione con essa o non la
rivedessi mai più? Allora lo stare con lei non sarebbe più bello?". "No,
certo...la bellezza dello stare insieme rimarrà sempre...voglio dire, ti
lascia qualcosa...". "Perfetto...quindi sei d'accordo che la bellezza vera
oltre a superare il semplice "mi piace", supera anche il tempo, è
qualcosa che ti lascia il segno". "Si, infatti". "Eppure ci sono situazioni
spiacevoli che comunque ti lasciano qualcosa, ma non per questo sono
belle: un'esperienza dolorosa, una perdita, una sofferenza...ma le puoi
definire belle come questo cielo stellato?". "No, assolutamente...eppure
questo cielo rimane bello...". "Già... per cui abbiamo appurato che la
158
bellezza può essere soggettiva, legata ai nostri gusti, può essere qualcosa
che ci fa star bene...ma davvero è solo questo?". "Questi discorsi mi
stanno iniziando a confondere". "E' risaputo che il cielo stellato è bello"
gli dico." Vedi, non basta nemmeno questo... è risaputo...troppo
poco...per esempio per un cavernicolo questo stesso cielo rappresentava
una presenza incombente, terribile... e poi possono cambiare i contesti;
per esempio i Greci sostenevano che la vera bellezza stava nel rispetto
meticoloso delle proporzioni...ma sappiamo benissimo che un qualcosa
di imperfetto può avere la sua bellezza, anzi forse proprio in quella
risiede la vera idea di bello... non trovi?". "Si, hai ragione... ma allora
spiegami perché questo cielo è così bello? Perché dico che lo sia e
perché non c'è niente che mi possa convincere del contrario?".
"Purtroppo nessuno ha la risposta, sai? in tanti se lo sono chiesti... e in
tanti hanno provato a rispondere...La bellezza è la cura per raggiungere
la felicità...Una cosa bella ti lascia qualcosa, ti trasmette la sensazione di
essere vivo, lì, in quel posto, in quel momento...c'è la tua sensibilità...c'è
quella di tante persone diverse...ma la bellezza è il legame profondo che
abbiamo con qualcosa di bello...forse questo cielo è così bello perché in
realtà siete fatti della stessa sostanza...avete la stessa origine...che sia
Dio o qualsiasi altra forza soprannaturale o divina...entrambi avete l'idea
di bellezza in voi...partecipate dell'idea del bello...e questa idea è
presente nelle cose in rapporti diversi. E' qualcosa che va oltre il tuo
modo di vedere, sentire, toccare e percepire le cose...l'idea del bello
risiede in un mondo intellegibile...e da questo mondo derivate sia tu, sia
il cielo...Per questo dici che è bello...perché l'idea del bello è presente in
te e in esso, in maniera piena e completa, profonda". Lo guardo e penso:
"Chissà...forse Platone ha proprio ragione".
Edna Esposito, 2D classico 2015 - 2016
Estetica
Svolgimento
Dear friend,
I may now ask you to do something pretty weird: open your eyes wide
and look all around you. What can you see? What are you feeling?
Aren’t you wondering how something so powerful yet so fragile like
159
this world was born? You know, that’s how philosophy works. You see
something that makes your heart pound so fast that you just can’t help
but say, “How beautiful this is! I want to know everything about it!”
But still, what is beauty? Is it something your culture exerts her
influence upon? Artists find beauty in proportions, but then if beauty
was traceable to proportions we wouldn’t be able to define “beautiful”
something we can’t see, and yet, we do.
Philosophers like Plato thought beauty was an idea, something totally
incorporeal, which could be found in different things, making them
somehow similar to that perfect concept, but not perfect themselves.
What do you think, my friend? I may agree with Plato here, even if not
completely. Beauty is something we find in our hearts as an innate idea,
that is confirmed by the feeling we get from some external impulses.
Culture and education sure affect whatever concerns the use of the
five senses, making familiar things look beautiful: a familiar taste, or a
smell that reminds us of our country, of different experiences we made
with our family, friends and, why not, with our loved one, but
sometimes beauty goes beyond the use of the five senses. We find
beauty in love, which is something we can’t see, touch, smell, taste or
hear. I assume it is something that was born in our souls, as human
beings. I know you’re not easy to convince, my friend, that is why I’d
request you to think of your little sister, or brother while being told a
fairytale. They listen to you like you’re drawing amazing dragons and
castles in the air, even though you are not. Words are something
incorporeal, things that touch our souls, not our body, and have a great
impact on us, on our imagination, that develops on her own, according
to our sensibility.
That’s it, my friend, I’m not going to bother you any longer with my
abstract theories, but still, being beauty something incorporeal, but you
may even find this beautiful as well.
Tartaglia Francesco, 3L classico 2015 – 2016
Gnoseologia
Svolgimento
Feyerabend’s and James’s criticism to scientifical objectivity can
easily be shared and supported through several examples: everybody
160
knows that Einstein’s revolutionary theories ousted Newton’s from the
leading role they had been playing for three centuries. Hence, how can
we still consider a theory reliable and avoid the terrible relativism which
seems to come out from James’s statement?
Feyerabend’s vision of science consists in the refusal of the singleness
of the methodology to be used in scientifical researches: he claims that
the common concept of rationality must be redefined, since it has to take
into account a wider range of elements, such as scientifical criterias but
also political, religious and ethical ones. This new kind of rationality
must necessarily prefer what can be more useful to the society in its
wholeness, rather than some merely scientifical proofs; this means that
theology and methaphysics aren’t a less reliable way of understanding
our world.
What Feyerabend and James seem to confuse is the developing of a
scientific idea, its concrete formal structure of formulas and, later, its
practical developments. An idea is, indeed, “inside true by events” as
James thinks, but this only means that it has to prove to be reliable when
it comes to practical confirmations. Instead, the development of a theory
can start, in a scientist’s mind, from whatever he considers appropriate,
both scientifical and not: Einstein replaced Newton starting his theory
by the idea of surfing a gleam of light. The necessity of a fixed
methodology appears when an idea has to be put into practice, since it’s
the only way the scientist can verify it. The scientifical theory
necessarily presents, therefore, a double nature: “rational” as we usually
intend it (strictly technically), and “rational” as Feyerabend does (related
to ethical-political beliefs and historical conditions).
The second meaning, though, doesn’t concern the proper field of
science, but it is more related to philosophy (in the moment of invention,
since it refers to the scientist’s Weltanschauung and not directly to
numbers and formulas, even though those ones comes from it) and
politics (in the moment of the choice of how to make the most of a
theory’s technical applications). This logically implies that Feyerabend’s
rationality is a political idea more than a scientifical one, and therefore it
doesn’t sap the foundations of Galileo’s scientifical objectivity – though
we must never forget that every theory is not a dogma, because it may
(and it’s bound to) be overcome by another one sooner or later.
161
MAURIZIO CASTELLAN
Miscellanea di matematica
Introduzione
Come ormai da diversi anni i quaderni ospitano in questo spazio una
illustrazione delle attività del laboratorio di ricerca matematica
dell’Orazio (l’iniziativa, inserita nel piano lauree scientifiche 2015 -
2016, si svolge in collaborazione con il dipartimento di matematica
dell’università di Tor Vergata). Gli studenti partecipanti, a partire dallo
scorso febbraio, hanno intrapreso un percorso di esplorazione
nell’ambito della teoria matematica giochi.
Il lavoro è ancora in corso. Il 16 giugno si è tenuto nella sede centrale
dell’istituto un breve workshop alla presenza della prof. Francesca
Tovena (coordinatrice del PLS dell’università di Tor Vergata) per fare
insieme il punto sulla ricerca.
A questo stadio del progetto non siamo ancora in grado di presentare
risultati in forma definitiva. Ci riserviamo di pubblicare un resoconto
dei lavori nel prossimo numero dei quaderni; tuttavia, convinti di fare
cosa gradita ai lettori dei quaderni, illustriamo lo spunto da cui ha preso
vita la nostra ricerca. Si tratta di un gioco che pur nella sua semplicità si
presta ad una serie di interessanti analisi e riflessioni teoriche: “il
chomp”.
Ne diamo qui una breve introduzione [1].
162
__________________________________________________________
IL CHOMP
Tutto comincia da una tavoletta di cioccolata con 4 × 5 quadratini, di
cui l’ultimo in basso a sinistra è contrassegnato: si tratta del quadratino
avvelenato.
Il gioco chiamato Chomp (il nome è stato inventato da Martin
Gardner in [2]) è la sfida tra due contendenti che devono, ad ogni mossa,
mangiare almeno un quadratino di cioccolato. Chi mangia il quadratino
avvelenato naturalmente perde; vince quindi chi obbliga l’avversario a
mangiare il veleno. La regola è che i giocatori hanno una bocca
rettangolare: volendo mangiare un certo quadratino, il giocatore
mangerà anche tutti quelli che si trovano più a destra e più in alto di
esso.
Per chiarire bene come funziona, proviamo a seguire una partita di
Chomp.
Il primo giocatore sceglie il quadratino che si trova nella terza
colonna da destra e nella seconda riga dall’alto e mangia 6 quadratini. Il
rettangolo del suo morso è quindi determinato dalla scelta del quadratino
in basso a sinistra.
163
Il secondo giocatore risponde con una mossa in cui mangia due soli
quadratini:
infatti sceglie il quadratino nella seconda riga dal basso e nella seconda
colonna da destra, determinando così il “morso” rettangolare che è
tratteggiato nella figura. Questo morso ha l’effetto pratico di togliere i
due quadratini marcati in grigio - perché il resto era già stato mangiato
nella prima mossa.
Non riuscendo ad indovinare la strategia dell’avversario, il giocatore
che aveva cominciato la partita opta ora per una mossa drastica, nella
speranza di distruggere l’oscuro disegno dell’avversario: sceglie il
quadratino appena sopra quello avvelenato, e si fa un’inaudita quanto
discutibilmente salutare scorpacciata di ben 7 quadratini!
Ma ahimé! La golosità è spesso cattiva consigliera: non appena la sua
ingordigia si è placata, egli si accorge di avere in pratica regalato la
vittoria all’avversario. E infatti,
164
mangiando tutta la cioccolata “sana” dell’ultima riga, il secondo
giocatore ha gioco facile nel costringere l’avversario ad affrontare la
dura realtà, sebbene a pancia piena, e a pentirsi di non aver riflettuto più
attentamente sulla ricerca delle mosse che lo avrebbero invece condotto
alla vittoria. (N.d.r: si può giocare al chomp utilizzando una delle varie
applet che si trovano in rete [2]).
Per non rischiare di finire anche noi un giorno nella sua stessa
situazione, vogliamo ora studiare il problema e cercare di scoprire qual è
il modo migliore per giocare a Chomp.
Una strada per provare a vincere potrebbe essere quella di studiare
una lista di tutte le mosse possibili: si potrebbero cioè scrivere tutte le
situazioni di gioco possibili, collegandole con delle frecce che indicano
da quale situazione a quale altra si può passare con una mossa valida.
Seguiremo questa idea, ma con quale spirito? Ci rendiamo conto che se
questo ci desse informazioni solo per il caso della tavoletta 4×5, non ci
soddisferebbe. Chiaramente il Chomp si può giocare con una tavoletta di
qualsiasi dimensione: ci piacerebbe dunque utilizzare gli esempi come
spunto per cercare, se possibile, di individuare qualche idea più
generale.
Cominciamo a porci alcune domande.
Il gioco è già segnato in partenza? Ovvero: si può mostrare che il
primo o il secondo giocatore può sempre vincere, se gioca in maniera
sufficientemente astuta?
Questa domanda naturalmente presuppone già la risposta, che nel
caso del Chomp sembra piuttosto evidente.
Il gioco finisce? Ovvero: possono crearsi situazioni dove si continua a
eseguire delle mosse senza mai approdare alla vittoria di uno dei
contendenti?
C’è anche un’altra questione che ci incuriosisce e che precisa quella
sulla finitezza del gioco. Chiamiamo configurazione del gioco una
forma che la tavoletta di cioccolata può assumere durante il gioco.
Quante sono le configurazioni possibili di un Chomp con n × m
quadratini?
Pur avendo, come si diceva, l’intenzione di trovare qualche regola
generale, ci conviene iniziare da un esempio piccolo: proviamo a
disegnare uno schema (detto grafo del gioco) che schematizzi il caso del
Chomp 2×3 (ci saranno 10 configurazioni possibili: una di esse è quella
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finale, che non disegniamo, dove tutta la tavoletta è stata mangiata – e
dunque uno dei due concorrenti, ahimè...).
Notiamo che, partendo dal basso, ossia dalla configurazione
banalmente perdente (nel Chomp è quella con solo il quadratino
avvelenato: chi se la trova davanti ha perso), abbiamo contrassegnato
una configurazione come vincente (V, in figura) o perdente (P) se chi
trova il gioco in quella configurazione e deve muovere ha una strategia
per vincere il gioco o no.
Questo fa nascere un sospetto. In principio, lo schema si può scrivere
per ogni Chomp, è vero tuttavia che le configurazioni si possono sempre
tutte contrassegnare come perdenti o vincenti a partire “dal fondo”,
come abbiamo fatto nell’esempio? Se così fosse, in ogni Chomp uno dei
due contendenti avrebbe a disposizione una strategia vincente. Infatti se
la posizione iniziale avesse una V, vorrebbe dire che il primo giocatore
vince, se invece avesse una P, vorrebbe dire che vince il secondo.
Visto che abbiamo un sospetto, non molliamo la presa. Supponiamo
che ciò che sospettiamo sia vero... quali altre conclusioni ne
seguirebbero? Da un sospetto, cosa può nascere? Beh, ne può nascere un
altro.
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Il primo giocatore, se gioca in modo sufficientemente scaltro, riesce
sempre a vincere?
Questo fin da subito appare un po’ più di un sospetto: ci pare di
intuire quale potrebbe essere un buon argomento per provarlo. Infatti il
primo giocatore ha a disposizione una mossa “speciale”: mangiare il
quadratino in alto a destra. Qualsiasi mossa il secondo riesca a fare
partendo da lì, avrebbe potuto esser eseguita già all’inizio dal primo
giocatore (dunque se il secondo giocatore avesse una buona mossa il
primo potrebbe precederlo facendola prima di lui: questo si chiama
argomento della “mossa rubata”). Quindi la posizione iniziale di un
Chomp dovrebbe venire sempre contrassegnata con una V.
[ …]
Conclusione
Il nostro lavoro, come dicevamo, parte dal Chomp e si pone come
obiettivo lo studio delle sue proprietà strutturali per arricchire (si spera)
il quadro delle conoscenze. A tale scopo sono state elaborate e
analizzate dagli allievi del laboratorio alcune interessanti varianti del
gioco di cui parleremo successivamente.
Ci lasciamo qui dando appuntamento ai nostri lettori al prossimo
numero dei quaderni dell’Orazio.
Maurizio Castellan
Bibliografia e sitografia
[1] http://www.dm.unipi.it/~gaiffi/papers/giochi.pdf
[2] Martin Gardner, Mathematical Games, Scientific American, Jan.
1973, pp.110-111.
[3] http://www.math.ucla.edu/~tom/Games/chomp.html
[4] Emanuele Delucchi, Giovanni Gaiffi, Ludovico Pernazza, Giochi e percorsi matematici, Springer
[5] https://it.wikipedia.org/wiki/Chomp
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