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QUANDO IL CIBO RACCONTA…
E GIUNGE ALL’ANIMA
IC2MONTESARCHIOSCIENZA 2015
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Nell’Antico e nel Nuovo Testamento
la parola di Dio è il pane degli uomini.
Parola e cibo insieme, dunque:
il cibo, nutrimento del corpo, diviene
metafora vigorosa di Sapere e Verità
quale nutrimento dell’anima.
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Uno dei temi che maggiormente sta prendendo piede negli ultimi anni è quello dell’alimentazione. Mangiare bene non è più una semplice indicazione salutare, ma è anche un piacere da condividere e trasmettere. L’Expo 2015 è emblema di questa nuova attenzione al cibo, diventato non più forma di sostentamento, ma elemento centrale nella vita di tutti. Imparare a cucinare, studiare nuove ricette, informarsi su tradizioni e simboli della cultura enogastronomica è ormai un piacere dedicato non solo a chef ed esperti del settore, ma anche a semplici neo – appassionati. In letteratura, molti autori hanno dedicato odi, scritti, romanzi a questa meravigliosa arte culinaria, descrivendone cultura, sviluppo e aneddoti; tanti hanno affrontato l’argomento con moltissimi testi, che vanno da trattati culinari a generi paraletterari come i grandi ricettari, senza dimenticare i romanzi e i racconti dove la cucina ha un ruolo chiave. Inoltre miti, leggende e fiabe legate al cibo portano con sé e distinguono tra loro le tradizioni delle società occidentali e orientali, accomunate dal posto di rilievo a esso dedicato. L’attività letteraria e gastronomica si accompagnano nel corso di tutta la storia della letteratura. Emblematico è il caso di Dante che nel suo Convivio paragona le quattordici canzoni ad altrettante vivande e dove i commenti al testo sono paragonati al pane “sanza lo quale da loro non potrebbe esser mangiata”.
Il cibo è bagaglio culturale delle civiltà e occupa un posto di rilievo anche nelle
produzioni artistiche. In epoca moderna l’accostamento della gastronomia a tutte le
altre espressioni artistiche, quali pittura, musica e architettura, viene affermato con
convinto vigore da gastronomi del calibro di Gualtiero Marchesi o di Pietro
Leemann . Scrive Marchesi “la cucina attenta, ponderata, colta, sa dialogare con
altre espressioni culturali perché è essa stessa cultura”.
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Quante se ne dicono: “Ma sarà vero?”; “Lo sapevi che…?”; “Ha mai sentito parlare di …?”
E’ vero: se ne dicono tante e altrettante se ne scrivono, ma qualcosa di vero c’è. Storie, aneddoti, leggende, appunto, alcune veramente sorprendenti.
Curiosità Partiamo dalla Catalogna, magari, dove esiste un formaggio dall’odore insopportabile ma dal sapore eccezionale, il “Tupi”. Il primo dubbio che lo riguarda
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è facilmente risolvibile. Immaginatevi un assedio, o una situazione di carestia: dopo aver esaurito ogni scorta, come estrema risorsa qualcuno fu costretto a consumare anche il formaggio “andato a male” avendo, in questo caso, la piacevole sorpresa di scoprire che esso si era trasformato in qualcosa di estremamente appetibile. L’altro mistero riveste il nome del formaggio stesso, “Tupi”, che sfugge a ogni etimologia. Ebbene, provate a ipotizzare che il formaggio in questione fosse di origine greca; sulla cassa che lo conteneva ci sarebbe stata la dicitura “Tiri” (formaggio, appunto), scritta, naturalmente, nei caratteri di quella lingua. Per pura combinazione, le lettere centrali somigliano alle nostre “u” e “p”, e la loro (errata) lettura potrebbe aver generato un equivoco linguistico che perdura ancora ai giorni nostri. Ad un’interpretazione sbagliata potrebbe essere dovuto anche il termine “BBQ” (poi trasformato in “Barbecue”), che significa “alla griglia”, e sulla cui origine non è mai stata fatta luce. In arabo, “alla griglia” si dice “Qabab” (o “Qebab”, o “Kabab”, o “Kebab”): le differenze di trascrizione sono dovute al fatto che gli arabi non indicano le vocali, e che la lettera “Kof” non è né una “k” né una “q”, ma una via di mezzo tra le due. Scrivete “Qabab” alla “araba”, cioè senza vocali e da destra a sinistra: otterrete le tre lettere BBQ, all’origine dell’enigma. Dalla linguistica alla chimica: vi siete mai chiesti come si riesca a infilare la ciliegina e il liquore in certi “boeri” industriali, sul tipo dei famosi “Mon Cheri”? Chi immagina che liquore e ciliegia vengano sistemati in “gusci” vuoti, successivamente chiusi da una sorta di coperchio di cioccolato, si sbaglia: il sistema sarebbe complicato, lento e costoso; oltretutto (guardare per credere), i prodotti non presentano alcun segno di saldatura. Le ciliegine sotto spirito vengono circondate da un blocchetto di pasta di zucchero semisolido, trattato con particolari enzimi; i blocchetti – cui viene data la forma desiderata – sono quindi immersi nella cioccolata fusa, che forma l’involucro esterno. Una volta al chiuso e al buio, gli enzimi sciolgono lo zucchero, che assume un po’ di alcol dalla ciliegina stessa, e il gioco è fatto.
A Proposito di...
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C’eravamo lasciati con la chimica: e allora perché, a questo punto, non occuparsi anche di fisica? Anzi di un fisico, ad esser precisi:Alessandro Volta.
Sapevate che, oltre alla batteria, il grande scienziato comasco ha inventato anche gli gnocchi di patate? Ai suoi tempi si scatenò un’ingiustificata campagna contro questi tuberi, dovuta all’errata convinzione che le solanacee fossero velenose (lo sono, come tutti i vegetali, ma esclusivamente in particolarissime circostanze). Volta – già famoso e stimato – spezzò una lancia in favore dei coltivatori, spiegando che non solo esse non erano pericolose ma, mescolate all’impasto, rendevano più leggeri gli gnocchi, fino ad allora costituiti solo da farina di grano, come i “pisarei” piacentini e i “malloreddus” sardi.
Potremmo da qui continuare con una nutrita raffica di “trivia”, che coinvolgono storia, geografia, personaggi famosi: perché la zuppa inglese si chiama inglese quando invece è bolognese? (perché alchermes e kummel le conferiscono i colori rosso e azzurro della bandiera inglese); perché gli hot-dogs (“cani caldi)” si chiamano così quando, grazie al cielo, non sono fatti di cane? (perché il termine è la contrazione di “Hot-Dachshund-Dog Sausage”, ovvero “salsiccia calda a forma di bassotto”); da dove nasce il nome delle deliziose “pesche Melba”? (dalla celebre soprano australiana Nellie Melba).
Potrebbe sembrare addirittura tutto uno scherzo, se messa in questi termini. Eppure, anche il Carnevale qualcosa c’entra. Coriandolo, infatti, come tutti
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sapete, è il nome di una pianta dai semi odorosi e commestibili, tradizionalmente usati per confezionare dolci e liquori. Nella pasticceria medievale, il seme si rivestì di zucchero e diventò coriandolo confetto (cioè confezionato). Col passar dei secoli, confetto si trasformò da aggettivo in sostantivo e fu usato, in alternativa a coriandolo, per designare il tutto. Verso la fine del Settecento qualche burlone, invece dello zucchero, usò del gesso per far confetti o coriandoli fasulli da lanciare a Carnevale. A metà dell’Ottocento l’antico nome coriandolo prevalse, ma le autorità ne proibirono il lancio per ragioni di pubblica sicurezza. E un tal Mangilli, originario di Crescenzago (Milano), inventò i coriandoli di carta in sostituzione di quelli di gesso, che a loro volta avevano sostituito quelli di zucchero. Gioco per gioco, allora, chi se la sentirebbe di azzardare una bella roulette russa a tavola? Nulla di strano, che credete: anche i giapponesi la fanno. Grazie a un pesce, il puffarolo o pesce rospo (fugu in giapponese e Arothron hispidus nel linguaggio scientifico, perché quando è irritato si gonfia e si riempie di aculei). La carne cruda di questo pesce, che misura intorno ai cinquanta centimetri di lunghezza, è considerata talmente prelibata dai giapponesi che, pur di gustarla, sono disposti a rischiare la vita. Il consumo del fugu è proibito dalla legge: infatti, ogni anno, decine di persone muoiono avvelenate per causa sua. Tuttavia, in certi ristoranti, si trovano cuochi esperti in grado di prepararlo a dovere, eliminandone tutte quelle parti contenenti un veleno più potente del cianuro (uova, fegato, intestino, sangue). Ma va detto che, sino alla fine del pasto, non si è mai sicuri se si uscirà dal ristorante in piedi o distesi. Che cosa spinge a i giapponesi a desiderare così ardentemente il fugu? La ghiottoneria o il sottile, masochistico piacere di scampare alla morte?
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La leggenda di San Girolamo
San Girolamo riporta meticolosamente la dieta del santo eremita Ilarione di Gaza, che per tre anni si nutrì quotidianamente di circa mezzo chilo di lenticchie ammollate nell’acqua fredda, e per altri tre anni di pane scondito con sale e acqua.
Da tale digiuno si rimise mangiando erbe di campo e radici crude, un etto e mezzo di pane d’orzo e verdura poco cotta, senz’olio, per altri quattro anni. Ma sentendo che i suoi occhi si annebbiavano e che tutto il corpo era roso da una terribile scabbia, aggiunse olio al vitto precedente.
E così fece dai trent’anni fino ai sessantatre.
L’aggiunta del sano condimento non lo liberò da tormentose allucinazioni che, secondo san Girolamo, si presentavano al pover’uomo nelle sembianze di donne nude e pranzi succulenti.
Il comportamento di Ilarione non è un caso isolato nei primi secoli dell’epoca cristiana, quando molti credenti si ritiravano in luoghi desertici per conquistare la salvezza dell’anima attraverso le più atroci mortificazioni del corpo.
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Di questo eccessivo rigore ascetico, non del tutto in linea con lo spirito del Vangelo, non c’è traccia nelle regole degli ordini monastici fioriti nell’Occidente cristiano. Non sempre, però, questi precetti erano osservati fedelmente e con spirito di sacrificio.
Poiché il digiuno permetteva di cibarsi di verdure, pesce, uova, latticini, ma comportava l’astensione dalla carne, si accesero sottili dispute su ciò che si doveva intendere per carne. Così, rane e castori furono equiparati ai pesci, e i feti di coniglio, già apprezzate leccornie per i romani, furono considerati, al pari delle uova, come “non carne”.
Anche certe anatre irlandesi che, secondo la leggenda, nascevano da tronchi imputriditi, vennero considerati vegetali. Più tardi, anche i Gesuiti sostennero che il cioccolato, in quanto prodotto vegetale, non rompeva il digiuno.
La leggenda del Panettone
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Si narra che alla vigilia di Natale, nella corte del Duca Ludovico il Moro, Signore di Milano, si tenne un gran pranzo. Per quell’occasione il capo della cucina aveva predisposto un dolce particolare, degno di chiudere con successo il fastoso banchetto. Accortosi che il dolce era bruciato durante la cottura, il panico colse l'intera cucina. Per rimediare alla mancanza, uno sguattero della cucina, detto Toni, propose un dolce che aveva preparato per sé, usando degli ingredienti che aveva trovato a disposizione tra gli avanzi della precedente preparazione. Il capo cuoco, non avendo altro da scegliere, decise di rischiare il tutto per tutto, servendo l'unico dolce che aveva a disposizione. Un "pane dolce" inconsueto fu presentato agli invitati del Duca, profumato di frutta candita e burro, con una cupola ben brunita, fu accolto da fragorosi applausi e in un istante, andò a ruba. Un coro di lodi si levò unanime e gli ospiti chiesero al padrone di conoscere il nome e l’autore di questo straordinario pane dolce. Toni si fece avanti dicendo di non avergli ancora dato nessun nome. Il Duca allora lo battezzò con il nome del suo creatore e da quel momento tutti mangiano e festeggiano con il "pan del Toni", ossia il panetto ormai in tutto il mondo.
Un'abitudine chiamata Geofagia
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Da tempo si sapeva che alcune popolazioni primitive (di diverse zone geografiche) integravano la loro dieta, povera di certi minerali, mangiando… terra.
Un’abitudine, chiamata geofagia, che l’uomo ha probabilmente acquisito osservando il comportamento animale. Lo studio del gorilla di montagna ha rivelato che questa scimmia antropoide del Congo, accanto alla normale alimentazione vegetale, sgranocchia anche determinate pietre; nello stesso modo si comportano l’alce e il daino siberiano. Vassilj Bgatov, direttore del centro di ricerca dell’Istituto di Geologia e Mineralogia di Novosibirsk, ha studiato per anni questi casi di litofagia, scoprendo che in alcune regioni della Siberia, oltre agli animali, anche gli uomini completano la loro dieta con pietre “commestibili” (zooliti siberiani, montmorilloniti ) E questi cibi decisamente inconsueti non soltanto non provocano occlusioni intestinali o appendiciti, ma, attraverso uno scambio di ioni, permettono all’organismo di assorbire i minerali migliorando le proprie difese immunitarie. Con piglio imprenditoriale, quindi, Bgatov ha deciso di sfruttare commercialmente i risultati delle sue indagini, dopo aver scoperto che la litofagia è praticata anche in certe zone dell’Africa, dell’Asia e delle Americhe, così come lo è stata in Sardegna, in età preistorica.
Ha quindi messo a punto un preparato (chiamato Litovit e venduto in barattoli contenenti una mistura di sassi teneri, crusca di frumento e grano saraceno), che ha ottenuto anche discreto successo.
La leggenda del mais bianco
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Molti anni fa nacque, a Pipiles un villaggio del Messico, in una notte di luna piena la figlia del signore del villaggio: aveva bellissimi occhi neri e un radioso sorriso che le illuminavano il volto. Crebbe molto bella tanto che tutti i principi dei villaggi vicini
la chiedevano in sposa, ma il padre non sapeva decidersi. Alla fanciulla piaceva passeggiare nel bosco, ammirare le montagne e bagnarsi nel fiume quando il sole era alto nel cielo. Uno giorno che proprio si trovava a fare il bagno sentì una voce provenire dalla montagna che diceva -Fanciulla, fiore amato dallo spirito del giorno, se mi vuoi conoscere segui le orme che troverai accanto alle rocce-. La giovane, incuriosita, seguì le orme fino a una roccia dove si fermò a riposarsi. E subito la voce -Fanciulla, fiore amato dallo spirito del giorno, segui le orme fino a quando arriverai a una grotta-. Si mise in cammino e trovò, seduto, un bellissimo giovane con un copricapo tempestato di brillanti-Sono il signore di Murcielager le disse e se rimarrai con me, avrai un figlio forte come la roccia e bello come questo bosco-. La fanciulla rimase con il giovane e dopo un po’ di tempo partorì un bambino dal sorriso radioso e dai denti candidi come quelli della mamma. Nel frattempo però nel villaggio di Pipiles la gente soffriva la fame perché un grosso animale aveva mangiato il cuore del mais che doveva servire per la semina. Quando la giovane apprese della disgrazia si recò dal padre il quale, ritenendola responsabile dell’accaduto, le ordinò –Vai e trova semi di mais affinché il nostro popolo cessi di soffrire la fame-. La figlia partì e camminò fino alla grotta del signore di Murcielager a cui raccontò tutte le sue pene. L’uomo ascoltò e poi disse –Non disperare, domani torna al villaggio e dì agli uomini di preparare i campi e, al momento della semina, strappati i denti e seminali-. La fanciulla, per amore del suo popolo, si sacrificò e tutti si misero al lavoro. Il tempo passò e quando il mais cominciò a dare i suoi frutti, gli abitanti del villaggio scoprirono con meraviglia che i grani della pannocchia erano bianchi e brillanti come i denti della donna.
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Il mais bianco era il regalo fatto dagli dei alla gente di Pipiles in ricordo della giovane che era stata disposta a strapparsi i denti per salvare il suo popolo.
In cucina con il Detective
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Delle abitudini alimentari di Auguste Dupin, il primo investigatore così come siamo soliti immaginarlo, creato da Edgar Allan Poe nel 1841, sappiamo ben poco. Ma di molti dei più famosi detective che l’hanno seguito si conoscono diversi costumi e fobie, anche se solo tre di loro hanno il merito di aver dato vita a veri e propri ricettari di cucina, oltre ad aver risolto casi impossibili: Nero Wolfe, Jules Maigret e Pepe Carvalho.
Sedersi a tavola e assaporare i raffinatissimi piatti preparati dal cuoco svizzero Fritz Brenner, nel caso del grasso eroe di Rex Stout; versarsi un bicchiere di Bordeaux rosso e pregustarsi il sapore dell’arrosto della signora Maigret, per il commissario creato da Georges Simenon; e infine, sbucciare le cipolle per cucinare chissà quale complicato piatto della tradizione spagnola, per il sensuale personaggio ideato da Manuel Vàzquez Montalbàn.
Sono tutte operazioni che, rispetto alla finalità dell’indagine, hanno una funzione ben precisa e indispensabile: ritemprare la mente affaticata del detective mediante il contatto con l’essenza delle cose (il sapore delle ostriche, del paté di campagna o degli involtini di cavolo ripieni delle ostriche stesse).
Per Wolfe, Maigret e Carvalho, la tavola è il luogo in cui la passione investigativa trova nuovo vigore, e il cibo per il corpo diventa anche quello per lo spirito.
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Che sapore avevano i cibi del passato?
E, soprattutto, ci sarebbero piaciuti? Di sicuro, attraverso i secoli, il gusto ha subito sensibili variazioni, e quanto piaceva al palato dei nostri antenati non è detto che risulterebbe gradito anche a quello dei contemporanei.
Per esempio, i sapori della cucina romana ci avrebbero lasciato a dir poco perplessi, a causa di certi ingredienti (latte di murena, barbigli di triglie, lingue di pappagallo, mammelle e vulve di scrofa) oggi considerati ripugnanti, ma soprattutto perché la cucina di Nerone e di Orazio non era ispirata all’arte di combinare armonicamente i vari elementi, quanto piuttosto a quella di sovrapporli, mescolando carni bianche e rosse, carne e pesce, dolce e salato. L’utilizzo smodato delle erbe aromatiche e delle spezie, allora molto costose e simbolo di distinzione sociale, nonché il diffusissimo impiego del garum o liquamen (salsa di pesce in salamoia) finivano per annullare profumi, aromi e sapori. Qualcosa di non molto diverso capitava per i vini. Quelli dell’antichità non erano mai bevuti puri, ma annacquati (in genere, tre parti d’acqua e una di vino), per ridurne l’alta gradazione alcolica (di solito superiore ai quindici gradi) e permettere ai convitati di ingurgitarne quindi una buona quantità ma senza ubriacarsi. Inoltre, poiché il vino si trasformava facilmente in aceto, vi si aggiungevano conservanti e stabilizzanti. Il più usato in Grecia era l’acqua di mare, ma venivano impiegati anche resine, catrame, radice di giaggiolo, minerali di calce e sali di piombo. Secondo alcuni studiosi, l’aristocrazia romana dell’età imperiale avrebbe sofferto di un’intossicazione cronica da piombo provocata, per l’appunto, dall’uso di condutture in piombo per l’acqua, di pentole e vasellame in piombo e peltro (una lega di stagno e piombo) e di vino al piombo (spesso anche le anfore, all’interno, erano rivestite di questo metallo).
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La decorazione e la disposizione dei cibi erano curate in modo scenografico, quasi a voler accontentare più la vista che il palato o, almeno, stuzzicare, insieme alla curiosità, anche l’appetito. Si puntava a nascondere i cibi fino a creare un effetto sorpresa: basti pensare al porcus troianos, un maiale arrostito dal cui ventre, aperto in tavola, uscivano volatili di vari tipi, proprio come dal cavallo di Troia erano usciti gli incursori greci.
Dal Medioevo fino a tutto il Seicento, continuò nella gastronomia principesca, anche se in misura sempre meno marcata, il gusto per il pittoresco, per gli scherzi culinari e per l’accumulo di sapori contrastanti ed eterogenei: vitelli, caprioli, cervi, cinghiali, serviti interi e circondati da oche, pernici, galli cedroni, pavoni e cigni, tutti rivestiti delle loro penne dopo la cottura.
E poi, frutta fresca all’inizio del pasto così come negli stufati di carne, salse zuccherate, mescolanza di carne e pesce, grande uso di spezie, anche per mascherare l’odore e il sapore di carni non sempre ben conservate. Nel Settecento, si cominciò pian piano a mutare orientamento. In sintonia con le idee illuministiche, che predicavano un approccio naturale e razionale ai vari fenomeni, anche la gastronomia si propose di sviluppare i sapori e le proprietà naturali di ciascun prodotto.
Ciò significò un ritorno alla semplicità, un uso più discreto di sale e di spezie, nonché la valorizzazione delle erbe aromatiche. Ma fu solo nei primi decenni dell’Ottocento che, grazie soprattutto all’opera di un cuoco francese, Antonin Carême, questa nuova filosofia della cucina si affermò definitivamente.
Gli alimenti sulle navi
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Un tempo gli alimenti freschi, e in special modo la frutta, erano praticamente inesistenti sulle navi: per questo, durante i lunghi viaggi attraverso l’Oceano, i marinai restavano vittime di una malattia “professionale”, lo scorbuto, dovuta alla carenza di vitamina C.
Quando si scoprì che bastavano poche gocce di succo di limone o di arancia nella dieta quotidiana, per cautelarsi, si era ormai nel Seicento: ma ci volle ancora più di un secolo perché fosse obbligatoria la distribuzione di succo di agrumi sulle navi. Le poche verdure che s’imbarcavano, invece, finivano presto, e quelle che non terminavano marcivano nelle stive a causa dell’altissima umidità. La carne salata poi, ammollata in acqua dolce, risultava quasi immangiabile, addirittura così coriacea da essere a volte utilizzata per farne tabacchiere e ninnoli; l’unica carne fresca, invero, era quella dei ratti, che venivano quindi pagati a caro prezzo. Per non parlare delle gallette, il cui nome deriva dall’antico francese gal, che significa ciottolo.
Questo impasto di farina di frumento e acqua, cotto in forno e poi messo ad essiccare, diventava infatti duro come un sasso ed era quasi impossibile romperlo sia con le mani che con i denti. Sembra però che le gallette restassero commestibili per cinquant’anni… o forse anche di più: a giudicare da quelle rinvenute nel 1821 sull’isola di Candia (l’attuale Creta, un tempo posseduta dai veneziani e ceduta ai turchi nel 1699), vecchie di quasi due secoli ma in ottimo stato di conservazione. A dare un aiuto alle mandibole dei marinai, infatti, erano piccolissimi coleotteri, i curculioni, che tracciavano un sistema di gallerie all’interno della galletta rendendola, comunque, almeno frantumabile.
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Così nacque il cioccolato
Un'antica leggenda narra che ai tempi in cui in Messico dominava Quetzacoatl, il dio fondatore della stirpe precolombiana, una bella principessa azteca, lasciata di guardia al tesoro dello sposo mentre questi era in guerra, fu assalita dai nemici che volevano costringerla a rivelare dove fosse il tesoro. La principessa preferì morire piuttosto che rivelare il segreto. Dal suo sangue versato da questa fedele sposa nacque la pianta del cacao. Da quel giorno si dice che questo frutto nasconde un tesoro nei suoi semi, "..amari come le sofferenze dell'amore, forti come la virtù e rossi come il sangue della principessa". Questo dono dal cielo fu interpretato dagli Aztechi come un regalo del dio Quetzacoatl, un omaggio reso alla fedeltà della principessa per il suo sposo.Gli Aztechi attribuivano, infatti, l'origine dell'albero del cacao a Quetzacoatl "serpente piumato", il dio barbuto dal viso brutto e dalla testa lunga, che regnava nel villaggio di Tolla, antica città tolteca. Si diceva che possedeva tutte le ricchezze del mondo, in oro, in argento e in pietre preziose, e anche un gran numero di alberi del cacao di cui aveva insegnato, ai suoi vassalli, la cultura. Tutto andava per il meglio, ma venne il tempo in cui finì la fortuna di Quetzacoatl. Tre stregoni, invidiosi della sua felicità e della sua ricchezza, si scatenarono contro Quetzacoatl. Uno dei due, il mago Titlacauan prese le sembianze di un vecchio decrepito che gli disse :<<Signore, ti porto una bevanda che è buona e che inebria colui che la beve; Ti intenerirà il cuore, ti guarirà e ti farà conoscere le strada del tuo prossimo viaggio nel paese in cui troverai la giovinezza>>.Quetzacoalt bevve, s'inebriò e perse la testa. Bruciò tutte le sue case d'argento e di conchiglie, e sotterrò i suoi tesori nella montagna e nel letto dei fiumi. Trasformò gli alberi di cacao in un'altra specie che non dava frutti. Partì per i paesi dove pensava di ritrovare la giovinezza, nella direzione del sole levante, verso l'est. Si imbarcò coperto di piume, su di un vascello fatto di serpenti intrecciati, promettendo al suo popolo di ritornare un giorno e riportare tutti i tesori del paradiso.
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“Non mangerai di questa carne”!
L’ordine divino fu perentorio, e i figli d’Israele si astennero dai cibi che Dio aveva loro vietato.
La proibizione concerneva tutti gli animali cosiddetti “impuri”, cioè quelli che non hanno lo zoccolo e l’unghia fessa e che non ruminano. Inoltre, erano esclusi gli uccelli rapaci, i pesci senza pinne e squame, i molluschi, i rettili, i crostacei e quasi tutti gli insetti. Tradotto in termini culinari, ciò significava niente maiali, conigli, lepri, anguille, seppie, polpi, scampi, aragoste, granchi, ostriche… La proibizione di mangiare carne di maiale è molto diffusa, attualmente, in tutto il Medio Oriente e nei paesi abitati da musulmani.
Da dove viene il pregiudizio contro la carne di porco? Gli studiosi che cercano di rispondere agli interrogativi sui tabù alimentari si ispirano a due orientamenti diversi: il primo insiste su motivi religiosi e ideologici, il secondo su quelli economici e ambientali. In effetti, le tribù nomadi che praticavano la pastorizia hanno sempre guardato con scarsa simpatia al maiale, il cui allevamento non era adatto ad un ambiente dominato da steppe e deserti. Questo ha probabilmente fatto sì che alla sporcizia dei porci – comunque non superiore a quella di altri animali – venisse attribuito anche un valore morale, al punto che il suino finì per essere considerato impuro, e il suo consumo condannato con divieto religioso. L’influenza esercitata tra il 1800 e il 1400 a.C. dai gruppi pastorali sulle popolazioni cittadine, che già da alcuni millenni allevavano e mangiavano il maiale, ha esteso gradualmente a tutta l’area medio-orientale il divieto di cibarsi della sua carne. Qualcosa di più o meno analogo è successo alla vacca in India. Nell’antica religione induista la società era divisa in caste, e quella sacerdotale dei
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brahamani non aveva il compito di proteggere le vacche, bensì di macellarle. Intorno al 600 a.C, il livello di vita peggiorò a causa di guerre e carestie, ma anche per l’aumento della popolazione e per la diminuzione del bestiame. E la gente divenne sempre più ostile all’uccisione dei bovini, che tornavano utilissimi come fornitori di latte e di sterco – utilizzato come letame e combustione – e come animali da tiro, sia per il trasporto che per la coltivazione dei campi. Nello stesso periodo nacque il buddismo, che vietava l’uccisione degli animali e predicava una dieta vegetariana in nome della non-violenza. Poiché anche la popolazione induista si mostrò sostanzialmente favorevole a questo atteggiamento, anche i brahamani lo adottarono: finendo gradualmente per sacralizzare la vacca e vietarne la macellazione.
A CURA DI:
Barbieri Cristian
D’Onofrio Pasquale
Simone Maione
Francesco Oliva
Vincenzo Sorice
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“Lo scrittore che non parla mai di mangiare, di appetito, di fame, di cibo,
di cuochi, di pranzi mi ispira diffidenza, come se mancasse di qualcosa di
essenziale”
(Albo Buzzi)
Il cibo, con le sue forme, le sue consistenze, i suoi profumi e le occasioni sociali che
crea, ha ispirato le penne di molti poeti. Il suo forte valore evocativo lo ha reso un
mezzo per parlare di emozioni, di situazioni, suggestioni e stati d’animo. Al nostro
gruppo è stato assegnato il compito di ricercare poesie che avessero come
argomento il cibo. La ricerca è stata svolta con grande senso di responsabilità, ma
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anche tanto umorismo :non avremmo mai immaginato che anche i più grandi poeti
avessero dedicato al cibo versi preziosi e divertenti! Ecco cosa abbiamo scoperto…
“Ode al pomodoro” di Pablo Neruda
“Il pomodoro invade le cucine,
entra per i pranzi,
si siede, riposato, nelle credenze,
tra i bicchieri,
e le saliere azzurre.
Emana
una luce propria
maestà benigna”
Vincenzo Cardarelli poi canta la primavera appena iniziata paragonandola
all'effervescenza del vino:
Oggi la primavera è un vino effervescente.
Spumeggia il primo verde
sui grandi olmi fioriti a ciuffi
dove il germe già cade
come diffusa pioggia.Ebbra la primavera corre nel sangue.
Eh sì, il Cardarelli aveva ragione, tant'è vero che in Spagna si diceche "la primavera
la sangre altera", e cioè "con la primavera il sangue si altera", s'inebria!
Nell'antica Roma, il poeta ispano-latino Marziale del I secolo, utilizza i versi di un
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epigramma per invitare un amico a una cena, modesta -dice lui - ma allietata dalla
musica dei flautisti come era costume allora nei banchetti pubblici e privati:
Se di cenare in casa malinconico
ti stringe il cuore,
vieni da me, Toranio.
La cena, chi lo nega, è povera,
ma il giovane Condielo,
né troppo sacre, né troppo profane
ariette eseguirà sopra il suo flauto...
Invece Lorenzo il Magnifico utilizza una sua poesiola, "La canzone dei confortini",
dedicata ai "bericuocoli" e ai "confortini", biscotti tipici toscani della sua epoca,
come il pretesto per filosofare sul tempo che passa e non ritorna:
Bericuocoli, donne e confortini
se ne volete i nostri son de' fini.
Non bisogna insegnar come si fanno:
ch'è tempo perso, e 'l tempo è pur gran danno:
e chi lo perde, come molte fanno
convien che faccia poi de' pentolini.
Giovanni Pascoli invece ha scritto una poesia- culinaria dedicandola a uno dei
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prodotti più tipici della sua terra romagnola: la piada che in Romagna è il pane
quotidiano.
E tu, Maria, con le tue mani blande
domi la pasta e poi l'allarghi e spiani;
ed ecco è liscia come un foglio, e grande
come la luna; e sulle aperte mani
tu me l'arrechi, e me l'adagi molle
sul testo caldo, e quindi t'allontani.
Io, la giro, e le attizzo con le molle
il fuoco sotto, fin che stride invasa
dal calor mite e si rigonfia in bolle:
e l'odor del pane empie la casa.
Poi c'è lui, Gabriele D'Annunzio che era nato a Pescara e anche vivendo in altri
luoghi non dimenticava le buone cose della sua terra. E ne ricorda alcune persino
in versi; come questi, perfettamente "dannunziani", che utilizza per magnificare
l'ineguagliabile brodetto abruzzese appena piccante grazie al peperoncino, il
"diavoletto" lo chiamano in Abruzzo:
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Nel glauco mare che già amaro in sante
rampogne il Vate disse, nel sonante
mare che specchia Febo italo amante
divino ardente,
di tra i flutti prendemmo la silente
figliolanza del cefalo lucente,
il turgido merlango paziente...
Dai fiorenti
orti cogliemmo il timo, i rossardenti
diavoletti folli e le virenti
erbette fine.
Il fuoco lento infine alle terrine
porose demmo, e il canto alle marine
spiagge che vider navi anche col rostro.
Nessun brodetto mai eguaglia il nostro!
Insomma, come vedete la poesia può essere grande poesia persino descrivendo la preparazione di un pane, come faceva il Pascoli o la zuppa di pesce come D'Annunzio.
Ma non sempre i poeti creano delle vere poesie, a volte sono soltanto filastrocche o sonetti comici o versi in libertà, tanto per divertirsi.
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Come ad esempio quelli dello scrittore Nico Orengo con questo suo "Epitaffio per un gelato”:
Per un attimo
se ne sta impettito
poi si è squagliato!
Oppure Carlo Porta che così "canta" i "Tordi con la polenta":
Ed i tordi più di trenta
in lardosa maestà
stavan là sulla polenta
come turchi sul sofà!
E così il "serioso" Giacomo Leopardi in gioventù ha dedicato versi coltissimi contro
la minestra, che odiava.
E Guido Gozzano ha cantato le squisite "bignole" torinesi con versi deliziosi che
inneggiano "alle signore che le mangiano nelle pasticcerie".
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“Er medico m'ha detto” di Aldo Fabrizi
"Commenda cari, è d’uopo che lo dica ma l’italiano, escluso il proletario,
pappa tre volte più del necessario, sottoponendo il cuore a ‘na fatica.
Di fame, creda, non si muore mica,
piuttosto accade tutto l’incontrario, e chi vol diventare centenario deve evità perfino la mollica.
Perciò m’ascolti, segua il mio dettame; io quando siedo a tavola non m’empio e m’alzo sempre avendo ancora fame!"
Embè quanno che ar medico ce credi,
bisogna daje retta: mò, presempio, l’urtimo piatto me lo magno in piedi!
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“Pasta alla capricciosella” di Aldo Fabrizi
Provate a fa’ sto’ sugo, ch’è un poema: piselli freschi, oppure surgelati, calamaretti, funghi "cortivati",
così magnate senz’avè patema.
Pe’ fa’ li calamari c’è un sistema: se metteno a pezzetti martajati nell’ajo e l’ojo e bene rosolati,
so’ teneri che pareno ‘na crema.
Appresso svaporate un po’ de vino; poi pommidoro, funghi e pisellini
insaporiti cor peperoncino.
Formaggio gnente, a la maniera antica, fatece bavettine o spaghettini…
Bòn appetito e.. Dio ve benedica!
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“O’ RRAU’” di Eduardo De Filippo
'O rraù ca me piace a me
m' 'o ffaceva sulo mammà.
A che m'aggio spusato a te,
ne parlammo pè ne parlà.
Io nun sogno difficultuso;
ma luvàmell''a miezo st'uso.
Sì, va buono: cumme vuò tu.
Mò ce avèssem' appiccecà?
Tu che dice? Chest'è rraù?
E io m'a 'o mmagno pè m' 'o mangià...
M' 'a faje dicere na parola?
Chesta è carne c' 'a pummarola
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Filastrocche del cibo
Frittelle Vedo la luna, vedo le stelle, vedo Caino che fa le frittelle. Vedo la tavola apparecchiata vedo Caino che fa la frittata.
Zucca pelata Zucca pelata ha fatto i tortelli e non ne ha dati ai suoi fratelli; i suoi fratelli han fatto la frittata e non l’hanno data a Zucca pelata. Zucca pelata ha fatto i crostini e non ne ha dati ai suoi cugini; i suoi cugini han fatto il torrone e a Zucca pelata nemmeno un boccone.
La pigrizia La pigrizia andò al mercato ed un cavolo comprò; mezzogiorno era suonato quando a casa ritornò. Prese l’acqua, accese il fuoco, si sedette, riposò, ed intanto, a poco a poco, anche il sole tramontò. Così, persa ormai la lena, sola, al buio, ella restò ed a letto senza cena la meschina se ne andò.
Cavallino arrò arrò Cavallino arrò arrò, piglia la biada che ti dò, piglia i ferri che ti metto, per andare a San Francesco. San Francesco è sulla via per andare alla badia. Alla badia ci sta un frate che prepara le frittate. Le frittate non son cotte mangeremo le ricotte, le ricotte son salate, mangeremo le frittate.
Fragole e crema Ricci bioncli e occhio bello, vuoi venire al mio castello? Tu sarai la mia regina e mai più starai in cucina. Avrai vesti ricamate e d’argento le posate; sulla fronte avrai un diadema, mangerai fragole e crema.
Il ciuco cocciuto
Un ciuco cocciuto col ciuffo sugli occhi rosicchia carciofi, spinaci e finocchi. Tirando calcioni e muovendo gli orecchi divora lenticchie insieme a fichi secchi. Da bere chinotto o aranciata; per dolce ciambelle e cioccolata. Ma ecco si accorge che sta per scoppiare e scappa nel prato per poter brucare.
La spiga Un giorno un chiccolino giocava a nascondino. Nessuno lo cercò e lui s’addormentò! Dormì sotto la neve un sonno lungo e greve infine si svegliò e pianta diventò. La pianta era sottile flessibile, gentile la spiga mise fuor d’un esile color. Il sole la baciava il vento la cullava di chicchi allor s’empì pel pane d’ogni dì.
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Chiccolirio
Chiccolino dove stai? Sotto terra, non lo sai? E la sotto non fai nulla? Dormo dentro la mia culla. E se tanto crescerai, chiccolino che farai? Una Spiga metterò tanti chicchi ti darò fresco pane diverrò.
Din don Din don domani è festa si mangia la minestra, la minestra non mi piace, si mangia pane e brace, la brace è troppo nera, si mangia pane e pera, la pera è troppo bianca, si mangia pane e panca, la panca è troppo dura si va a letto addirittura.
Domani è festa
Domani è festa, si mangia la minestra, la minestra non è cotta, si mangia la ricotta, la ricotta non è fresca, si mangia la ventresca, la ventresca è salata, si mangia l’insalata, l’insalata è senz’olio, chiamiamo Sor lmbroglio, Sor lmbroglio è andato a messa con una principessa.
La Peppina
Uno, due, tre, la Peppinia fa il caffè, fa il caffè con la cioccolata, la Peppina è ammalata, ammalata di gran dolore, va a chiamare il dottore, il dottore con le ciabatte, qui mi duole, qui mi batte qui mi sento una gran pena. Sor dottor son senza cena.
La gallina sotto al muro
La gallina sotto al muro becca i! grano che è maturo becca qua, becca là quando è stanca se ne va. Se ne va dalla Carmela in vià Mela ventitrè. La casetta di cartone, la scaletta di torrone, la padrona di cioccolata, la servetta impepata. Coccodè, coccodè, questa casa fa per me.
Il pane e il galletto
Chicchirichì canta il galletto questo pane è troppo secco non lo posso rosicchiare chicchirichì mi sento male.
Coccodè
Coccodè che c’è di nuovo? La gallina ha fatto l’uovo e l’ha fatto piccolino, per donarlo a Serafino. Coccodè coccodè questo uovo è qui per te!
Piccolo micino
Piccolo micino corri in quel buchino che c’è pane e formaggino. Un pò a lei, un pò a me, ogni cosa in bocca a te!
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Bolli, bolli Bolli, bolli pentolino, fai la pappa al mio bambino; la rimescola la mamma mentre il bimbo fa la nanna. Fai la nanna, gioia mia, o la pappa scappa via. Guarda, guarda il can che scappa, che ha portato via la pappa, via la pappa al mio bambino per portarla al cagnolino. Cagnolin tutto Contento se la mangia in un momento se la mangia e fa bu, bu, e la pappa non c'è più.
Pim Pirulin
Pim Pirulin voleva mezza mela la sua mamma non l’aveva Pim Pirulin piangeva la sua mamma mezza matta gli tirò una ciabatta. A mezzanotte in punto passò un aeroplano e sotto c’era scritto “Pim Pirulin sta’ zitto!”
La coccinella
Coccinella, coccinella fammi una ciambella, fammela bella grande come quella di San Giovanni. San Giovanni non la vuole, se la piglia San Nicola, San Nicola se la piglia per l’amore di sua figlia.
A CURA DI
Esposito Maria Pia
Giorio Alessia
Lacerra Francesca
Russo Giulia
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♣ Che il tuo cibo sia la tua unica medicina. (Ippocrate di Cos, Aforismi, V-IV sec. )
♣ E' una superstizione insistere su una dieta particolare. Tutto alla fine è fatto
degli stessi atomi chimici. Ralph Waldo Emerson .
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♣ La speranza è una buona prima colazione, ma è una pessima cena. FRANCIS BACON .
♣ Datemi da mangiare bene e vi farò buona politica. LUIGI XIV
♣ La scoperta di un piatto nuovo è più preziosa per il genere umano che la scoperta di una nuova stella. Anthelme Brillat-Savarin .
♣ Troppo cibo rovina lo stomaco, troppa saggezza l'esistenza. Alessandro Morandotti, Minime, 1979/80
♣ Ecco il problema di chi beve, pensai versandomene un altro: se succede qualcosa di brutto si beve per dimenticare; se succede qualcosa di bello si beve per festeggiare; se non succede niente si beve per far succedere qualcosa. C. Bukowski
♣ La gastronomia è la mia unica passione seria. GUY DE
MAUPASSANT
♣ Solo chi non ha fame è in grado di giudicare la qualità del cibo. Alessandro Morandotti
♣ Le dita sono state fatte prima della forchetta, e le mani prima dei coltelli. Jonathan Swift
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♣ Anche la groviera ha i buchi e non si lamenta. TOTO'
♣ A volte è difficile fare la scelta giusta perché o sei roso dai morsi della coscienza o da quelli della fame. TOTO'
♣ Mai che a un rinfresco dessero un piatto di spaghetti caldi! TOTO' (Il
Professore)
♣ Giura su qualcosa di più sacro del tuo onore: la tua fame. TOTO’
♣ Prendo tre caffè alla volta per risparmiare due mance – TOTO’
♣ Fare una buona insalata vuol dire essere un diplomatico brillante, il problema è identico in entrambi i casi: sapere esattamente quanto olio bisogna mettere assieme all'aceto. OSCAR WILDE
♣ Meno le persone sanno di come vengono fatte le salsicce e le leggi e meglio dormono la notte. OTTONE von BISMARCK
♣ La prima legge della dietetica: se ha un buon sapore, non è per te. ISAAC ASIMOV.
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♣ Dio non ha fatto che l'acqua, ma l'uomo ha fatto il vino. VICTOR HUGO
♣ Il caffè dev’essere caldo come l’inferno, nero come il diavolo, puro come un angelo e dolce come l’amore.
Charles Maurice de Talleyrand-Périgord
♣ Tutti gli uomini sono dei mostri; non c'è altro da fare che cibarli bene: un buon cuoco fa miracoli. OSCAR WILDE
WOODY ALLEN Linda: "Ma tu ti cuoci solo cibi surgelati?”. Woody Allen: “Cuocerli? E chi li cuoce? Io neanche li scongelo. Li succhio come se fossero ghiaccioli!”.
♣ Ci sono tre cose che una donna è capace di fare con niente: un cappello, un'insalata e una scenata. MARK TWAIN
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♣ Vino e musica furono sempre per me il miglior cavatappi. ANTON CECHOV, Taccuini
♣ Gli inglesi non vivono che di roast beef e di budino, gli Olandesi di carne
cotta in forno, di patate e di formaggio, i Tedeschi di sauer - kraut e di lardone affumicato, gli Spagnoli di ceci, di cioccolata e di lardone rancido, gli Italiani di maccheroni. ALEXANDER DUMAS padre
♣ Chi non ama le donne il vino e il canto, è solo un matto e non un santo.
ARTHUR SCHOPENHAUER
♣ Le cose più belle della vita o sono immorali, o sono illegali, oppure fanno ingrassare. GEORGE BERNARD SHAW
♣ Non conosco nulla che vellichi così voluttuosamente lo stomaco e la testa
quanto i vapori di quei piatti saporiti che vanno ad accarezzare la mente preparandola alla lussuria. DE SADE
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♣ A casa nostra, nel caffelatte non ci mettiamo niente: né il caffé, né il latte
(Totò in 'Miseria e nobiltà)
♣ Erano persone che non sapevano fare niente, tranne che mangiare. Mangiavano da professionisti. TOTO’
♣ Si dice che l'appetito vien mangiando, ma in realta' viene a star digiuni. (Toto' in "Toto' al Giro d'Italia")
♣ Quando io morirò, tu portami il caffè, e vedrai che io resuscito come Lazzaro.
EDUARDO DE FILIPPO (rivolto alla domestica in "Fantasmi a Roma")
♣ Tutta la storia umana attesta che la felicità dell’uomo, peccatore affamato, da quando Eva mangiò il pomo, dipende molto dal pranzo (LORD BYRON)
♣ Buona cucina e buon vino, è il paradiso sulla terra. Enrico IV
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♣ ...ma sopra tutto nel buon vino ho fede, e credo che sia salvo chi gli crede; e credo nella torta e nel tortello: l'uno è la madre, e l'altro è il figliuolo; il vero paternostro è il fegatello...
(LUIGI PULCI - "Morgante")
♣ Mi preoccupo di essere a tavola in tredici... quando c'è da mangiare solo per dodici. ACHILLE CAMPANILE
E quando addentate una mela,
ditele nel vostro cuore: I tuoi semi vivranno nel mio corpo
E i tuoi germogli futuri sbocceranno nel mio cuore,
La loro fragranza sarà il mio respiro, E insieme gioiremo in tutte le stagioni.
KAHLIL GIBRAN
♣ E' una superstizione insistere su una dieta particolare. Tutto alla fine è fatto degli stessi atomi chimici. Ralph Waldo Emerson
♣ A tavola perdonerei chiunque,
anche i miei parenti. OSCAR WILDE
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♣ Mi hanno chiesto: lei è in favore della liberalizzazione delle droghe? Ho
risposto: prima cominciamo con la liberalizzazione del pane. E' soggetto a proibizionismo feroce in metà del mondo. JOSE SARAMAGO
A cura di
Luciano Alessandro
Palluotto Federica
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Il Cibo ha sempre avuto un posto e un ruolo ben precisi nell’arte, in quella Classica e in quella Contemporanea, nelle scene religiose così come nelle nature morte, sullo sfondo oppure in primissimo piano, accessorio o al contrario protagonista. Nell’Arte Medievale e Moderna le vivande apparivano per ciò che erano, anche se talvolta potevano avere dei significati nascosti, misteriosi o al contrario facilmente riconoscibili; il Pane ad esempio rimandava all’Eucarestia, la Melagrana alla Fedeltà Coniugale, la Mela Morsicata alla Caducità della Vita… Il primo a stravolgere il senso e l’uso comune dei generi alimentari è stato senza dubbio Arcimboldo che, già nel Cinquecento, si divertiva a realizzare curiosi Ritratti con Frutta e Verdura, creando un divertissement unico per la corte asburgica. Nell’Arte Contemporanea il cibo ha iniziato ad assumere un ruolo diverso e a essere usato non più come tale, ma come qualcos’altro. Così il Busto di Donna, retrospettiva di Salvador Dalì, ha come Copricapo una Baguette e come Capelli delle Pannocchie, mentre René Magritte sconvolge tutte le nostre certezze dicendoci che non sempre una Mela Disegnata è semplicemente una Mela (Ceci n’est pas Une Pomme). Tra tutti i movimenti artistici, la Pop Art è di certo quello che ha dedicato un posto di riguardo al Cibo; non esiste artista pop che non abbia realizzato almeno un’opera il cui protagonista sia un alimento. Andy Warhol ha creato una serie di litografie che hanno per soggetto alcuni Dolci più o meno inventati, con fantasiose ricette per riprodurli. Il vero Gastronomo della Pop Art rimane però Claes Oldenburg, con le sue Sculture Molli di vinile imbottito che riproducono cibi di largo consumo, come gelati, hamburger, patatine fritte e torte. Nemmeno l’Arte Povera poteva tralasciare il cibo, nella sua continua ricerca di Materiali Fuori dalla Tradizione con cui creare opere d’arte inaspettate e ribaltare la presunzione di eternità che l’arte porta insita in sé sin dall’inizio. Cosa c’è di più deperibile di un Cespo di Insalata? Eppure Giovanni Anselmo ha pensato bene di inserirla tra due blocchi di granito (un materiale al contrario solidissimo e pressoché eterno), costringendo tutta la scultura alla precarietà e alla costante
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sostituzione di una sua parte fondamentale. Il belga Marcel Broodthaers invece ha usato il cibo, in particolare un Piatto Tipico Nazionale, per ironizzare e prendere in giro il proprio paese; le Cozze, vero simbolo del Belgio, emergono come una colonna compatta da una comunissima casseruola da cucina, in un accostamento dal sapore surrealista, così inaspettato eppure convincente. Anche frutta e verdure non fanno magie solo in cucina, ma anche in campo artistico. Molti sono gli artisti contemporanei che utilizzano questi alimenti per dar vita a opere singolari. Così cetrioli, zucchine e pomodori diventano una macchina fotografica, peperoni e limoni prendono le sembianze di una moto, pezzi di pane prendono anima!
Qui di seguito vogliamo riproporvi solo alcune delle innumerevoli forme artistiche gastronomiche…
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Claes Oldenburg, Floor Cake, 1962, New York, MoMA
Salvador Dalì, Busto di donna retrospettiva, 1933, New York, MoMA
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Giovanni Anselmo, Senza titolo – Scultura che mangia, 1968, Parigi, Centre Pompidou
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Casserole and Closed Mussels 1964 by Marcel Broodthaers 1924-1976
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L’Arte Povera di Daniel Spoerri
Sculture di cibo
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Le nostre sculture
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E adesso, provate a guardare il cibo con gli stessi occhi di prima…
A cura di
Barbieri Cristian
Falco Matteo
Ferraro Benedetta
Giorio Alessia
Musat Alin
Sorice Vincenzo
Totino Francesco
Vene Noemi
Votino Filomena
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A cura di
Calabrese Niccolò
Perone Raffaele
Pezzulo Antonio
Votino Filomena