sentenza 5 marzo 1985; Giud. Guariniello; imp. Lucchini, CalzoniSource: Il Foro Italiano, Vol. 110, No. 4 (APRILE 1987), pp. 275/276-287/288Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARLStable URL: http://www.jstor.org/stable/23179940 .
Accessed: 24/06/2014 20:28
Your use of the JSTOR archive indicates your acceptance of the Terms & Conditions of Use, available at .http://www.jstor.org/page/info/about/policies/terms.jsp
.JSTOR is a not-for-profit service that helps scholars, researchers, and students discover, use, and build upon a wide range ofcontent in a trusted digital archive. We use information technology and tools to increase productivity and facilitate new formsof scholarship. For more information about JSTOR, please contact [email protected].
.
Societa Editrice Il Foro Italiano ARL is collaborating with JSTOR to digitize, preserve and extend access to IlForo Italiano.
http://www.jstor.org
This content downloaded from 62.122.79.38 on Tue, 24 Jun 2014 20:28:03 PMAll use subject to JSTOR Terms and Conditions
PARTE SECONDA
ne di un'opera eseguita abusivamente (cioè senza l'autorizzazione
di cui all'art. 7). Anche nell'art. 1 sexies, quindi, ciò che rileva penalmente sa
rebbe costituito dalla esecuzione di un'opera in zona vincolata
senza la prescritta autorizzazione. Ma tale conclusione, a parte la sua opinabilità anche in relazione al divieto di applicazione
dell'analogia nella materia penale (art. 12/14 preleggi) e alla con
trarietà al principio della riserva legale in materia, non consente
egualmente di ritenere esaurita la questione, giacché individuato
il precetto rimarrebbe da rintracciare la corrispondente sanzione.
In questa successiva approssimazione, allora, varebbe la pena di
valorizzare il richiamo dell'art. 20 1. n. 47 al punto da far pro
pria, ai nostri fini, la ripartizione ed i relativi precetti ivi conte
nuti e, sostituendo alla indicazione della concessione quella del
l'autorizzazione di cui all'art. 7 1. 1497, prevedere la sanzione
di cui all'art. 20/a per tutti gli interventi eseguiti in zona vincola
ta in parziale difformità dall'autorizzazione e cioè non osservan
do le prescrizioni e le modalità esecutive previste nell'autorizza
zione.
Ma, anche su questa strada, si pone un ulteriore invalicabile ostacolo per la individuazione della sanzione per gli interventi
eseguiti in assenza o in totale difformità dell'autorizzazione che, ove identificata con quella dell'art. 20/c (violazione edilizia in
zona vincolata), da un lato renderebbe inapplicabile l'art. 20/b e dall'altro presupporrebbe l'ulteriore evidenziazione del concetto
di variazione essenziale.
Seguendo questo filone interpretativo, del resto, non si vede
perché (in alternativa alla identificazione della condotta penal mente rilevante con quella della realizzazione di un'opera in zona
vincolata in violazione dell'obbligo previsto dall'art. 7 1. 1497), non dovrebbe potersi ritenere l'applicazione della sanzione del
l'art. 20/a ad ogni altra violazione della 1. 1497 o dei futuri piani
peasistici, lasciando, inoltre, libero l'interprete di individuare il
precetto ed il relativo destinatario (l'assessore regionale compe tente che non provveda ad esaminare l'istanza di autorizzazione
nei sessanta giorni potrebbe, quindi, essere punito con la pena dell'ammenda fino a venti milioni di lire).
Orbene, pare al giudicante, che le considerazioni espresse e le
ipotesi interpretative avanzate (le prime nel panorama dottrinario
e giurisprudenziale ad oggi edito e, quindi, suscettibili di chissà
quante ulteriori varianti) rendano evidente come la norma denun
ciata obblighi il giudice ad una attività che fuoriesce dalla norma
le opera interpretativa ed assume tutti i connotati di supplenza della legge con l'intento di completare la descrizione degli ele
menti del reato e la individuazione delle relative sanzioni e dei
loro destinatari.
Almeno questa volta, emerge con chiarezza che la tecnica della
«incriminazione della inosservanza» non ha avuto successo in quan to sia la lettura della norma integratrice (1. 431 e 1. 1497) sia
l'esame della norma sanzionatoria richiamata non consentono di
determinare la condotta e l'attività che si vuole sanzionare né, in più, di indicare la concreta sanzione da applicare giacché an
che la pena richiamata è triplice. In definitiva pare a questo giudice che l'intento di predispore
una normativa sanzionatoria espressa anche per la violazione, pu ramente formale, delle disposizioni legislative poste a tutela del
paesaggio sia, purtroppo miseramente fallito per eccessiva ... fret
tolosità del legislatore. Ne consegue che deve essere sancita la illegittimità costituzio
nale dell'art. 1 sexies 1. 8 agosto 1985 n. 431 in quanto essa viola
i principi costituzionali di determinatezza e tassatività della fatti
specie penale che trovano il loro riconoscimento non solo nel
l'art. 25, 2° comma, Cost, ma anche nell'art. 24, 2° comma,
Cost., sotto il profilo della violazione del principio di difesa, de
rivante dalla impossibilità di una precisa formulazione del capo di imputazione e dell'addebito, nonché nell'art. 112 Cost, in quanto il principio dell'obbligatorietà dell'azione penale rischia di essere
totalmente vanificato.
La disposizione censurata lungi dal legittimare l'opera interpre tativa del giudice pone lo stesso di fronte ad un compito non
solo esorbitante dalla normale funzione interpretativa ma concre
tamente insormontabile, di modo che l'alternativa alla incostitu
zionalità è la inapplicabilità della norma.
Il Foro Italiano — 1987.
L'art. 1 sexies, infatti, delega al giudice un intervento di vera
formazione della fattispecie criminosa e non fornisce all'operato re alcun effettivo criterio orientativo a cui potersi riferire anche
in relazione alla individuazione della concreta sanzione da appli care per una violazione anch'essa da «inventare». Sia i richiami
ad altre fonti legislative sia alla pregressa elaborazione giurispru denziale risultano del tutto vani. Manca ogni statuizione concreta
sulla materialità della contravvenzione cosi come manca in foto
la esatta individuazione della pena talché non di interpretazione e di discrezionalità del giudice può parlarsi bensì' di vero arbitrio.
Parimenti, simile impostazione legislativa non offre nemmeno
al cittadino alcuna certezza circa i comportamenti vietati e le san
zioni previste per le loro trasgressioni.
Questo giudice è ben consapevole che la corte non ha, finora, mai accolto le eccezioni di illegittimità fondate sul difetto di tas
satività ma ritiene che da un lato l'eccezionalità della fattispecie
(indeterminata sia nella parte precettiva che in quella sanzionato
ria) e dall'altro la grande sensibilità dismostrata dalla corte nella
materia ambientale conduca la stessa ad un accoglimento della
eccezione sollevata proprio per offrire, in futuro, maggiore cer
tezza giuridica anche alla tutela penale del paesaggio e dell'am
biente in contrapposizione alla odierna scarsa rilevanza della san
zione prevista dall'art. 734 c.p. Non va sottaciuto, in proposito, da un lato il rilievo di una
pressante esigenza di una politica criminale organica e coordinata
con le diverse ipotesi criminose e dall'altro che lo scarso tecnici
smo normativo del legislatore, già denunciato ripetutamente dalla
corte, non deve trovare ulteriore comprensione, oggi, dopo i ri
petuti e meritori interventi della attuale presidenza del consiglio dei ministri (vedi da ultimo, circolare 24 febbraio 1986 - Formu
lazione tecnica dei testi legislativi, Le leggi, 1986, 1493). La questione illustrata, come già esposto, appare pienamente
rilevante nella fattispecie sia relativamente alla eccezione princi
pale di violazione degli art. 25, 2° comma, 24, 2° comma, e 112
Cost, sia alla eccezione subordinata di violazione dell'art. 3, 2°
comma Cost.
Per questi motivi, il pretore, visto l'art. 23 1. 11 marzo 1953
n. 87, dichiara rilevante e non manifestamente infondata la que stione di legittimità costituzionale sollevata d'ufficio dell'art. 1
sexies 1. 8 agosto 1985 n. 431 in relazione agli art. 25, 2° comma,
24, 2° comma, e 112 Cost, per mancata determinazione del pre cetto e della relativa sanzione e dell'art. 1 sexies 1. 8 agosto 1985
n. 431 in relazione all'art. 3 Cost, nella parte in cui sanziona
penalmente solo gli illeciti paesaggistici verificatisi nelle zone sot
toposte a vincolo per categoria (art. 1 1. 8 agosto 1985 n. 431) e non anche quelli realizzati in zona con vincolo caso per caso
(art. 2-4-6 1. 29 giugno 1939 n. 1497). (Omissis)
PRETURA DI TORINO; sentenza 5 marzo 1985; Giud. Guari
niello; imp. Lucchini, Calzoni.
PRETURA DI TORINO;
Omicidio e lesioni personali colpose — Lesioni personali colpose
gravi — Indebolimento permanente della funzione respiratoria — Fattispecie (Cod. pen., art. 583, 590; d.p.r. 19 marzo 1956
n. 303, norme generali per l'igiene del lavoro, art. 20, 21). Omicidio e lesioni personali colpose — Lesioni personali colpose
provocate da lavorazioni in ambiente polveroso — Momento
consumativo (Cod. pen., art. 583, 590; d.p.r. 19 marzo 1956
n. 303, art. 20, 21).
Integra il reato di lesione personale colposa plurima la condotta
di chi, rivestendo un ruolo preminente all'interno di un'impre sa e risultando, quindi, responsabile della politica aziendale ivi
assunta, ometta l'adozione, in violazione delle disposizioni di
This content downloaded from 62.122.79.38 on Tue, 24 Jun 2014 20:28:03 PMAll use subject to JSTOR Terms and Conditions
GIURISPRUDENZA PENALE
cui agli art. 20 e 21 d.p.r. n. 303 del 19 marzo 1956, dei prov vedimenti tecnici necessari a contenere lo sviluppo e la diffu sione di agenti patogeni nell'ambiente di lavoro, in tal modo
causando l'indebolimento permanente della funzione respirato ria a carico di alcuni lavoratori. (1)
(1) La sentenza si segnala all'attenzione per il particolare approfondi mento della specifica problematica tecnica affrontata, grazie anche all'u tilizzazione di una vasta informazione scientifica tratta dalla letteratura
specialistica (italiana e straniera) illustrata e discussa in motivazione (su casi analoghi di indebolimento della funzione respiratoria di lavoratori, v. Pret. Legnano 6 marzo 1982, Foro it., Rep. 1983, voce Omicidio e lesioni personali colpose, n. 142 e in Riv. giur. lav., 1982, IV, 436, con
nota di Bellone e Perduca; Cass. 3 aprile 1981, Ivaldi, Foro it., Rep. 1982, voce Lavoro (rapporto), n. 1509; Pret. Legnano 14 giugno 1979, id., Rep. 1980, voce Omicidio e lesioni personali colpose, n. 86; Cass. 29 gennaio 1965, Nardilli, id., Rep. 1965, voce Lavoro (rapporto), n.
772, citate in motivazione). Nel porre in particolare evidenza che versa in colpa quell'imprenditore
che non dia fondo alle risorse tecnologiche, oggettivamente disponibili,
per minimizzare l'esposizione dei lavoratori a polveri, fumi o vapori bron coirritanti e che in tal modo procuri loro una lesione personale, la deci sione in epigrafe accoglie la tesi per la quale ogni precauzione tecnica mente realizzabile è doverosa (nel senso del carattere inderogabile delle
misure antinfortunistiche e dell'impossibilità per il datore di lavoro di
porre in discussione la funzione di sicurezza espletata da tali misure, Pret.
Brescia 3 dicembre 1980, id., Rep. 1982, voce Infortuni sul lavoro, n.
265, e in Riv. giur. lav., 1982, IV, 148, con nota di Pulitanò); in parti colare, secondo un orientamento al quale l'organo giudicante ha ritenuto
di aderire, la prevenzione sarebbe doverosa anche in casi di lavoro all'a
perto o di breve durata (sul punto v. Cass. 26 novembre 1979, Chiesa, Foro it., Rep. 1980. voce Lavoro (rapporto), n. 1058). A fortiori, dun
que, in casi come quello in esame nei quali, per la stessa natura delle
lavorazioni poste in essere, l'ambiente di lavoro risulta particolarmente saturo di fattori atti a porre in pericolo l'integrità fisica dei lavoratori.
Particolare risalto bisogna, quindi, dare al principio sostenuto in motiva
zione, per il quale le considerazioni di fattibilità finanziaria non giustifi cano la carenza di prevenzione; la tutela di un bene cosi elevato, quale
l'integrità fisica, infatti, non può tollerare alcun condizionamento o rap
porto con il criterio di economicità del lavoro (Cosi da ultimo Cass. 9
gennaio 1984, Gorla, id., Rep. 1985, voce Infortuni sul lavoro, nn. 257,
287). E ancora: la predisposizione di un efficace sistema di misure anti
fortunistiche dovrebbe essere richiesta quale vera e propria condicio sine
qua non dell'attività imprenditoriale (Cass. 11 marzo 1981, Albertini, id.,
Rep. 1982, voce cit., n. 489; 24 maggio 1961, Laterza, id., Rep. 1962, voce Lavoro (rapporto), n. 815).
Nell'ambito dell'analisi del problema della prevenzione delle malattie
professionali in fabbriche ad alto rischio di inquinamento ambientale, la decisione in epigrafe non manca, poi, di soffermarsi sul ruolo svolto
dai mezzi di protezione individuale (quali ad esempio mascherine anti
fumo). Conformemente alla strategia di controllo igienico-sanitaria adot
tata dal legislatore italiano (d.p.r. 27 aprile 1955 n. 547), il pretore aderi
sce alla tesi per la quale il ricorso ai c.d. «protettori personali» debba
risultare sussidiario rispetto all'adozione di un programma in grado di
rispondere in modo globale al problema degli inquinamenti aeriformi e
particellari; e inoltre, la vigilanza dell'imprenditore sull'uso dei protettori individuali debba assumere natura impositiva e non meramente dispositi va, nel senso, cioè, che il datore di lavoro risulterebbe responsabile anche
qualora l'inutilizzazione dei mezzi di protezione personale sia dovuta a
colpa del lavoratore (in proposito v. Cass. 28 gennaio 1981, Egger, id.,
Rep. 1982, voce Omicidio e lesioni personali colpose, n. 164, richiamata
in motivazione; nel senso, invece, che non risulti responsabile il datore
di lavoro che non abbia impedito la morte del dipendente dovuta al man
cato uso da parte di quest'ultimo del mezzo di protezione personale a
sua disposizione App. Milano 25 ottobre 1983, id., 1985, II, 119, con
nota di richiami). Da ultimo, in ordine alla esposizione dei lavoratori a gas, vapori, odo
ri, fumi o a polveri, v. Cass. 28 aprile 1986, Serafini e 18 aprile 1986,
Regazzoni, in questo fascicolo, II, 208, con osservazioni di R. Guariniello.
Un ulteriore problema affrontato nella sentenza in epigrafe è quello concernente l'accertamento del nesso di causalità tra inquinamento del
l'ambiente di lavoro e compromissione della funzione respiratoria, in pre senza di altri fattori eziologici che in qualche modo abbiano contribuito
a cagionare la malattia.
Si sostiene, innanzitutto, che le cause professionali ed extra-professionali
possono — allo stesso modo dell'ambiente lavorativo — rivendicare un
ruolo nella determinazione della malattia, non già in via generalizzata
Il Foro Italiano — 1987.
Posto che il reato di cui all'art. 590 c.p. è un reato istantaneo
che si consuma con il verificarsi delle lesioni (anche quando
gli effetti di esse siano permanenti), ove una successiva condot
ta colposa abbia causalmente determinato un aggravamento degli
effetti permanenti delle lesioni stesse, si configura un altro rea
to completo sia negli elementi materiali dell'azione, del rappor
ed aprioristica, bensì caso per caso, a seguito di accertamenti svolti in concreto e sostenuti da elementi probatori (in dottrina Guariniello, Ma lattie da lavoro e processo penale, in Riv. it. dir. e proc. pen., 1981,
579). Tuttavia nella specie, pur profilandosi effettivamente la sussistenza
di fattori eziologici ulteriori rispetto al fattore professionale in oggetto, si è sostenuto il ruolo perlomeno concausale dell'ambiente lavorativo.
Infatti, l'organo giudicante ha accolto la tesi per la quale è sufficiente, affinché sussista il rapporto di causalità, che il datore di lavoro realizzi
una condizione idonea a produrre la malattia, e che tale malattia non si ricolleghi autonomamente al sopraggiungere di fattori eccezionali e ati
pici (nello stesso senso Cass. 10 marzo 1983, Di Martino, Foro it., Rep. 1984, voce Reato in genere, n. 27; 14 ottobre 1982, Specchia, ibid., n.
28); ciò in forza del principio dell'equivalenza delle cause recepito nel
nostro ordinamento e largamente condiviso dall'orientamento giurispru denziale dominante (v. Pret. Torino 9 giugno 1984, id., 1986, II, 375, con nota di richiami cui si rinvia per ulteriori osservazioni e riferimenti
dottrinali; nonché Cass. 8 marzo 1983, Quartana, id., Rep. 1984, voce
cit., n. 19; 13 giugno 1980, Pianalto, id., Rep. 1982, voce Omicidio e
lesioni personali colpose, n. 153). Inoltre, in materia di determinazione del danno, l'organo giudicante
non si astiene dal puntualizzare che non è in alcun modo consentito tras
ferire automaticamente in sede penale le valutazioni effettuate a fini assi
curativi (tale principio è già stato sostenuto dal medesimo giudice nella
sentenza del 9 giugno 1984, cit.). E ciò per due ordini di motivi: innanzi
tutto, perché l'accoglimento dei criteri formulati in sede assicurativa com
porterebbe un'ingiustificata restrizione dell'ambito della tutela penalisti ca, posto che il nostro sistema assicurativo indennizza con rendita le in
validità di grado superiore al 10% (nel senso, invece, che si avrebbe inde
bolimento permanente di un organo in presenza di una menomazione
seppure minima della sua potenzialità funzionale, il costante orientamen
to della giurisprudenza della Suprema corte: sent. 16 giugno 1983, Bion
da, id., Rep. 1984, voce Lesione personale, n. 18; 2 febbraio 1983, Mu
stica, ibid., nn. 17, 20, citata in motivazione; nonché 24 febbraio 1983,
Cocciolo, ibid., n. 19); inoltre, perché non sempre le conclusioni dei peri ti in sede penale collimano con il giudizio di riconoscimento, disconosci
mento o aggravamento della malattia formulato ai fini assicurativi. Nello
stesso senso la dottrina: cfr. Baima Bollone, Zagrebelsky, Percosse e
lesioni personali, 1975, 58; nonché Galiani, Lesioni personali e percosse, voce dell'Enciclopédia de! diritto, Milano, 1974, XXIV, 158. Infine, con
riferimento ai criteri atti ad individuare i soggetti penalmente responsabili di avere provocato in numerosi lavoratori una compromissione irreversi
bile della funzione respiratoria, l'organo giudicante mostra di condividere
l'orientamento dominante nella giurisprudenza della Cassazione secondo
la quale — in tema di lesioni personali colpose da lavoro — l'individua
zione dei soggetti penalmente responsabili deve essere condotta, non già attraverso la qualificazione giuridica astratta del rapporto tra i diversi
soggetti, bensì essenzialmente in concreto, tenendo conto delle mansioni
in realtà disimpegnate da ciascuno, sia di propria iniziativa che per inca
rico ricevuto (v. sent. 11 luglio 1983, Minetta, Foro it., Rep. 1984, voce
Omicidio e lesioni personali colpose, n. 137, citata in motivazione; 3 marzo
1981, Equizzi, id., Rep. 1982, voce Infortuni sul lavoro, n. 310). Se si
è escluso ogni dubbio sull'an della punibilità, essendosi nella specie consi
derata grave la colpa da addebitare al vertice aziendale per le malattie
cagionate a numerosi lavoratori, si è ritenuto tuttavia di dover formulare
dei «distinguo» con riferimento alla graduazione della responsabilità, in
considerazione proprio del ruolo concretamente rivestito da ciascuno nel
l'adozione della politica aziendale.
In conformità alla tesi per la quale destinatario privilegiato degli obbli
ghi di prevenzione è il datore di lavoro (così, citata in motivazione, Cass.
17 ottobre 1984, Liebe, id., Rep. 1985, voce cit., n. 247; 17 gennaio
1979, Mauri, id., Rep. 1980, voce Omicidio e lesioni personali colpose, n. 48), si è ritenuto che principale responsabile delle malattie sofferte
dai lavoratori debba essere considerato colui nelle cui mani, per anni
e anni, sono rimaste cristallizzate la proprietà e la direzione dello stabili
mento, mantenendo (pur avvalendosi di alcuni stretti collaboratori) i po teri organizzativi e finanziari, e non astenendosi da una continua ingeren za personale nella predisposizione del processo lavorativo (nel senso che
l'imprenditore mantenga in proprio la responsabilità qualora non siano
trasferiti ad altri i poteri concernenti l'organizzazione dell'impresa v. Cass.
3 luglio 1981, Savarese, id., Rep. 1982, voce Infortuni sul lavoro, n.
477; 24 marzo 1981, Barbagallo, ibid., n. 487; 16 febbraio 1976, Susca,
This content downloaded from 62.122.79.38 on Tue, 24 Jun 2014 20:28:03 PMAll use subject to JSTOR Terms and Conditions
PARTE SECONDA
to di causalità e dell'evento, sia per quanto riguarda l'elemento
psicologico che lega l'evento al suo autore; con la conseguenza
che, in ipotesi di tal fatta, il reato di lesione personale colposa
provocata da lavorazioni in ambiente polveroso si consuma nel
momento in cui si verifica l'ulteriore debilitazione dell'or
gano. (2)
(Omissis). 3. (Agenti chimici e prevenzione tecnica nella legis
lazione italiana). — Quali gli obblighi posti dalla legge a carico di Lucchini a protezione dei lavoratori impiegati nella sua ac
ciaieria? Anche questi sono obblighi che una legge dello Stato italiano
precisava già prima che il Lucchini impiantasse una sua acciaieria
a Settimo Torinese. Ci riferiamo al d.p.r. 19 marzo 1956 n. 303,
e, per ora, agli art. 20 e 21 di tale d.p.r.: articoli che, a dire
il vero, riproducono largamente le statuizioni dettate in materia
dall'art. 17 r.d. n. 530 risalente addirittura al 14 aprile 1927.
Gli art. 20 e 21 d.p.r. 303 impongono al datore di lavoro l'at
tuazione dei provvedimenti tecnici necessari per contenere lo svi
luppo e la diffusione in aria ambiente degli agenti chimici. Ed
è qui il caso di rammentare subito il consolidato insegnamento
giurisprudenziale impartito in proposito.
Paradigmatica la fondamentale sentenza del 3 aprile 1931 in
causa Invaldi (Foro it., Rep. 1982, voce Lavoro (rapporto), n.
1509) nella quale la Suprema corte enuncia un principio interpre
id., Rep. 1977, voce cit., n. 160; 27 giugno 1975, Castagna, id., Rep.
1976, voce cit., n. 153, tutte richiamate in motivazione).
Sebbene in misura minore, è stato ritenuto colpevole anche un altro
dirigente della società il quale, in forza di incarico espressamente conferi
togli, risultava rivestire la qualifica di responsabile delle relazioni indu
striali e del personale. Sul problema dell'ammissibilità della «delega» di
adempimenti penalmente sanzionati dal titolare originario ad altri sogget
ti, la giurisprudenza si è pronunciata in genere positivamente (cfr. Cass.
6 gennaio 1983, Ghidini, id., Rep. 1984, voce Omicidio e lesioni persona li colpose, n. 127; 11 giugno 1982, Saporiti, id., Rep. 1983, voce cit., n. 92; 18 novembre 1980, Di Gregorio, id., Rep. 1982, voce cit., n. 155; 8 febbraio 1979, Galluzzo, id., Rep. 1980, voce cit., n. 67).
In dottrina, nel senso che la delega di funzioni possa in presenza di
date condizioni obiettive (complessità dell'organizzazione imprenditoria
le, necessità di conoscenze tecniche o scientifiche per la gestione di deter
minati settori dell'impresa) sortire l'effetto di trasferire su un soggetto diverso dal titolare originario la «posizione di garanzia», qualora il ga rante perda il potere di controllo sulla fonte di pericolo e il delegato abbia la capacità di adempiere il precetto, v. Fiandaca, È ripartibile la
responsabilità penale del direttore di stampa periodica?, in Foro it., 1983,
I, 570 (e autori ivi richiamati). Di contrario avviso, invece, quella dottri
na la quale ritiene che il riconoscimento dell'efficacia scriminante della
delega comporterebbe un'inammissibile concentrazione di responsabilità «verso il basso»-, trasferendo a soggetti sprovvisti del potere di gestione delle imprese la titolarità di quegli obblighi penali che hanno significato in quanto riferiti al datore di lavoro in qualità di garante della tutela
degli interessi protetti dalla norma. La rilevanza della delega si avrebbe
sul piano della valutazione del grado di diligenza esigibile e dunque in
sede di valutazione della colpa del titolare originario dell'obbligo (Pado
vani, Diritto penale del lavoro. Profili generali, Milano, 1983; Pulitanò, Posizioni di garanzia e criteri di imputazione personale nel diritto penale del lavoro, in Riv. giur. lav., 1982, IV, 179; conformemente App. Milano
25 ottobre 1983, citata, con nota di richiami). In argomento, cfr. anche
i richiami nella nota di Meyer a Pret. Roma 3 luglio 1984 e 12 gennaio
1984, in Foro it., 1987, II, 189.
(2) Sul punto, la decisione in epigrafe ripropone un nuovo orientamen
to emerso poprio sul terreno delle lesioni cagionate da malattie professio nali; cfr. Pret. Torino 9 giugno 1984, Foro it., 1986, II, 375, con nota
di richiami; nonché Cass. 9 dicembre 1985, Buzzi, ibid., 592, con osser
vazioni di Guariniello.
In generale, sul problema della prevenzione degli infortuni e delle ma
lattie professionali v. Salerno, La tutela della salute e della sicurezza
nei luoghi di lavoro, Padova, 1982; Cottinelli, La tutela della salute
e della sicurezza in fabbrica: una questione di polìtica giudiziaria, in Que stione giustizia, 1982, 269; Guariniello, Quando il lavoro uccide, Tori
no, 1986; Costagliola-Culotta-Di Lecce, Le norme di prevenzione per la sicurezza sul lavoro, Milano, 1986. [L. Renda]
Il Foro Italiano — 1987.
tativo di eminente rilievo (principio poi ribadito ancora in una
pronuncia del 13 giugno 1984 in causa Besner (id., Rep. 1985,
voce cit., n. 1707): «Le prescrizioni imposte al datore di lavoro
dagli art. 20 e 21 d.p.r. 303 non sono limitate ai lavori dai quali
si svolgono gas o vapori irrespirabili o tossici. Pertanto sono irri
levanti ai fini della configurazione dei reati di cui agli art. 20
e 21, sia la mancanza di tossicità e sia la generica nocività dei
vapori e delle polveri derivanti dalle sostanze usate dai lavoratori».
Ne consegue che l'obbligo di prevenzione scatta per l'intera
gamma degli agenti chimici, pur quando le concentrazioni atmo
sferiche non eccedano predeterminati parametri quantitativi, pre
determinati TLV. Come espressamente si evince dalla stessa sen
tenza della Corte suprema in causa Invaldi.
Una conseguenza, questa, di grande peso, se si pensa che i
valori limite non accordano difesa a tutti i lavoratori, ma taglia
no fuori dell'ombrello protettivo gli individui ipersensibili o af
fetti da invalidità degli organi bersaglio (secondo quanto osserva
no gli stessi igienisti industriali americani nel presentare la loro
lista annuale di TLV). Ed è una conseguenza quanto mai calzante
in un'industria come quella del Lucchini. Visto che, in più sog
getti, può svilupparsi o aggravarsi un'affezione polmonare anche
per concentrazioni inferiori ai TLV di polveri contenenti silice.
Il d.p.r. non abbassa la guardia di fronte a concentrazioni maga
ri rispettose dei TLV, ma tecnologicamente passibili di ulteriore
abbassamento. Ed è questa una linea che consente l'allargamento
della tutela a tutti i lavoratori, ivi compresi quelli ipersensibili
o ipersuscettibili. Sicché versa in colpa quell'imprenditore che non
dia fondo alle risorse tecnologiche per minimizzare l'esposizione
dei lavoratori a polveri o fumi o vapori e che in tal guisa procuri
loro una lesione personale. E si badi che ogni precauzione tecni
camente realizzabile è doverosa, anche quando il lavoro si svolga
all'aperto o sia di breve durata (significative sul punto Cass. 26
novembre 1979, Chiesa, id., Rep. 1980, voce cit., n. 1058; e Cass.
22 novembre 1974, Colletta, id., Rep. 1975, voce cit., n. 456).
Si noti ancora — quanto alle polveri — che l'art. 21 d.p.r.
303 elenca specifiche misure tecniche; e che cruciale risulta la se
parazione dei lavori nocivi contemplata nell'art. 19 d.p.r. 303.
Dove si prospetta, e si impone, una precauzione tecnica vantag
giosa per tutto il personale. Perché evita il riverbero dell'inquina
mento a carico degli addetti a mansioni meno pericolose, ma per
segue due scopi ulteriori: permette di concentrare i mezzi protet
tivi nel reparto o nei reparti a rischio; e, all'interno di questi
stessi reparti, intende ovviare alla simultanea e ravvicinata pre
senza di più sorgenti nocive. (Circa l'obbligo di separazione delle
lavorazioni polverose cfr. Cass. 29 gennaio 1965, Nardilli, id.,
Rep. 1965, voce cit., r). 772). Si badi, poi, che le imprese non
sono lasciate Ubere nei tempi di risanamento ambientale e nella
scelta dei presidi. Al primo riguardo, è principio basilare nella giurisprudenza della
Cassazione che le condizioni stabilite dalle norme sull'igiene del
lavoro per il regolare svolgimento dell'attività lavorativa debbo
no preesistere all'inizio di tale attività (Cass. 24 maggio 1961,
Laterza, id., Rep. 1962, voce cit., n. 815). È il medesimo princi
pio di predisposizione dei mezzi preventivi che torna in Cass. 11
marzo 1981, Albertini (id., Rep. 1982, voce Infortuni sul lavoro, n. 257) ove si osserva che le misure di sicurezza non possono essere attuate dopo un certo tempo: «se cosi fosse, si dovrebbe
tollerare che per un tempo più o meno lungo, pur mancando
nel corso del lavoro qualsiasi protezione, nessuno sarebbe chia
mato a risponderne». (In conformità poi Cass. 20 ottobre 1982,
Vedovato, id., Rep. 1984, voce Omicidio e lesioni personali col
pose, nn. 129-131). Non meno puntuale la giurisprudenza circa la scelta dei presi
di: «le cautele sull'igiene nei luoghi di lavoro possono, se mai,
essere attuate in misura maggiore, e non mai minore o diversa
rispetto a quanto prescritto dalla legge» (Cass. 9 marzo 1960,
Bedeschi, id., Rep. 1960, voce Infortuni sul lavoro, n. 284; 12
aprile 1978, Spireddu, id., Rep. 1978, voce cit., nn. 420-422). Si osservi, infine, che spetta al datore di lavoro realizzare quei
dispositivi di sicurezza che «rispondano nel miglior modo a tute
lare la sicurezza, ponendo in essere i più avanzati ritrovati tecnici
in relazione alle continue scoperte della scienza moderna» (Cass.
This content downloaded from 62.122.79.38 on Tue, 24 Jun 2014 20:28:03 PMAll use subject to JSTOR Terms and Conditions
GIURISPRUDENZA PENALE
15 marzo 1982, Galli, id., Rep. 1983, voce cit., n. 277). Senza
che a giustificare una eventuale carenza nella prevenzione valga no le considerazioni di fattibilità finanziaria: «la tutela dell'inte
grità fisica del lavoratore» — ha da ultimo osservato ancora la
Corte suprema nella sentenza 9 gennaio 1984 in causa Gorla (id.,
Rep. 1985, voce cit., n. 257) — «non può tollerare alcun condi
zionamento o rapporto con il criterio di economicità del lavoro».
Ed è ancora da sottolineare un ulteriore, prezioso, insegnamento della Cassazione, impartito nella pronuncia depositata il 10 otto
bre 1984 in causa Affatato: «Di fronte alla rilevanza attribuita
dall'ordinamento al bene tutelato (salute e incolumità), la diffi
coltà o, al limite, l'impossibilità di misure atte ad impedire atten
tati al bene stesso, è evidente che non può assumere valore scri
minante». (Omissis) 7. (Il ruolo dei protettori personali). — Se i livelli di prevenzio
ne tecnica alla Lucchini di Settimo risultano estremamente bassi, non meno negativo si profila il quadro attinente ai protettori per sonali.
Occorre riferire che, nel nostro ordinamento, i protettori indi
viduali rivestono carattere subalterno rispetto agli interventi tec
nici sulle sorgenti o sui percorsi della noxa professionale. È un
dato diffuso in letteratura e nell'esperienza di fabbrica. Dispositi vi quali le maschere respiratorie procurano una tutela ridotta; e possono provocare seri inconvenienti: «Io ho l'impressione» —
scrisse già nel 1941 il Vigliani in una relazione tenuta al convegno torinese sulla silicosi — «che vi sia da noi una eccessiva tendenza
a risolvere i problemi delle prevenzioni della silicosi solamente
con l'uso delle maschere. Non so in base a quali considerazioni
si sia adottato su vasta scala i'uso di questo mezzo protettivo, ma sono certo che non siano state considerazioni di ordine biolo
gico. Le maschere, anche quelle più perfezionate, sono fastidio
se, scomode, e impediscono la piena libertà dei movimenti; il lo
ro uso continuo per l'intero orario lavorativo è indesiderabile e
assai malamente sopportato dagli operai; inoltre esse richiedono
una manutenzione accurata. Ritengo che sia piuttosto rischioso
il dipendere, per la prevenzione, da un forte numero di operai
portanti un mezzo protettivo che essi sono liberi di abolire quan do rechi loro fastidio. La protezione degli operai dalla polvere deve essere di natura più fondamentale, e cioè la polvere deve
essere combattuta alla sua origine».
Razionale, quindi, si rivela la strategia di controllo igienico scelta
dal legislatore italiano; e razionale l'assegnazione di un ruolo sus
sidiario agli strumenti meramente individuali. Eloquente, dal no
stro angolo visuale, l'art. 377 d.p.r. 27 aprile 1955 n. 547. Espli cito nell'ingiungere al datore di lavoro di porre a disposizione dei lavoratori mezzi personali di protezione appropriati, a patto che manchino o siano insufficienti i mezzi tecnici di protezione.
Solo nella misura in cui (e sino a che) le possibilità tecnologi che non consentano un'esauriente risposta oggettiva e globale al
problema degli inquinanti aeriformi o particellari, trovano posto i protettori personali. Nel rispetto di quell'art. 10 convenzione
O.I.L. 148/77, resa esecutiva in Italia, che autorizza il ricorso
all'equipaggiamento personale, ma solo se le misure tecniche non
bastano a contenere i pollutanti nell'aria.
Se gli apparecchi individuali esprimono una linea di prevenzio ne meramente suppletiva, non per questo è consentito liquidare
(e violare) la relativa disciplina legislativa. Compete al datore di
lavoro curare fornitura, impiego capillare da parte dei singoli, e manutenzione, di strumenti appropriati, resistenti e idonei (art. 377 e 4, lett. c, d.p.r. 547, nonché 4, lett. c-d, d.p.r. 303).
Si badi, poi, che la vigilanza spettante all'imprenditore sull'uso
dei protettori individuali assume natura impositiva, e non mera
mente dispositiva. In proposito, Cass. 28 gennaio 1981, Egger
(id., Rep. 1982, voce Omicidio e lesioni personali colpose, n. 164), è puntuale nel dire che non basta prescrivere che i lavoratori ado
perino i mezzi personali, magari con un cartello o un ordine scritto, ma occorre esigerne l'effettiva utilizzazione. Tanto che — sog
giunge Cass. 8 febbraio 1983 — non è sufficiente porre a disposi zione del lavoratore il mezzo personale, me è necessario esigere che tale mezzo venga usato, «escludendo il lavoratore, in caso
di rifiuto, dal lavoro in posti pericolosi». Con un'avvertenza: che
il lavoratore è, si, tenuto a usare con diligenza i mezzi ricevuti
Il Foro Italiano — 1987.
in dotazione. A condizione, però, che siano mezzi in concreto
muniti delle necessarie qualità. Altrimenti, nemmeno scatta l'ob
bligo d'impiego dell'apparecchiatura, e semmai può sorgere il mero
obbligo di segnalarne le deficienze (art. 6, lett. b-c, d.p.r. 547
e 5, lett. b-c, d.p.r. 303). Con una riserva, formulata dal Supre mo collegio il 28 gennaio 1981 (id., Rep. 1982, voce n. 164),
e, cioè, che siffatto obbligo sussiste solo se il datore di lavoro
ignori per causa a lui non imputabile le deficienze e le correlative
situazioni di rischio. (Omissis) 10. (Aggiornamento scientifico e sorveglianza ambientale). —
C'è una norma di peso determinante nella legislazione italiana
in tema di sicurezza del lavoro. È l'art. 4, lett. b), d.p.r. 303, in base al quale il datore di lavoro deve rendere edotti i lavorato
ri dei rischi specifici cui sono esposti e portare a loro conoscenza
i modi di prevenire i danni derivanti da tali rischi. Né il datore
di lavoro può semplicemente addurre a propria scusante l'igno ranza dei rischi presenti in azienda o dei modi di prevenire siffat
ti rischi. In quanto, a suo carico, «la legge ha posto l'obbligo strumentale di acquisire la necessaria competenza tecnica», «un
dovere di aggiornamento sugli sviluppi della tecnica e sulle sco
perte circa gli aspetti rischiosi del lavoro, e conseguentemente di
aggiornamento sulle misure di sicurezza da adottare» (come inse
gnano la Corte d'appello di Torino e la Corte di cassazione nel
caso Ipca). E in quanto l'imprenditore è tenuto a sorvegliare i
posti di lavoro attraverso periodici controlli e misurazioni. Sono
principi desumibili dall'art. 2087 c.c. e destinati a fungere da cri
teri di colpa per gli imputati di omicidio o lesione personale. E
sono principi che si ripercuotono sul d.p.r. 303: nel senso che
l'imprenditore disinformato sui rischi presenti nel suo stabilimen
to o sulle relative misure precauzionali incorre in responsabilità,
qualora non adotti gli accorgimenti necessari o non fornisca ai
dipendenti le indispensabili cognizioni, per colpa, e, in ispecie,
per inottemperanza agli obblighi di aggiornamento scientifico e
sorveglianza ambientale.
Significative in merito anche Cass. 20 ottobre 1981, Valsecchi
(id., Rep. 1982, voce Errore penale, n. 3) e Cass. 12 dicembre
1983, Fabbri (id., Rep. 1985, voce Omicidio e lesioni personali
colpose, n. 115). Nella prima sentenza, il Supremo collegio inse
gna che versa in colpa l'imprenditore, il quale non si valga «di
persona idonea che organizzi l'attività lavorativa e predisponga le condizioni ambientali in modo da evitare rischi per l'incolumi
tà dei lavoratori»: e ciò nel caso in cui l'imprenditore sia persona dotata di «scarsa preparazione tecnico-culturale». Nella seconda
sentenza, la Cassazione puntualizza che il giudizio sulle misure
precauzionali da adottare «non può essere rimesso alle empiriche valutazioni di chi esegue o fa eseguire il lavoro, fosse anche un
pratico esperto, ma richiede l'opera del tecnico qualificato e spe cializzato». (Omissis)
19. (Il delitto di lesione personale colposa). — Occorre, a que sto punto, raccogliere le fila del discorso probatorio fin qui svol
to. I lavoratori di cui ci siamo occupati in dettaglio nei paragrafi che precedono sono stati colposamente esposti alle polveri della
Lucchini. E a causa di questa colposa esposizione hanno subito
l'indebolimento permanente della funzione respiratoria. Ricorre,
quindi, il delitto di lesione personale colposa plurima. V'è ancora da chiedersi, però, quando tale delitto si sia consu
mato in ciascuno dei casi considerati. È un quesito la cui soluzio
ne suppone una corretta impostazione del problema inerente al
momento consumativo del reato di lesione personale colposa sul
lo specifico terreno delle malattie professionali. Sicché diventa
utile riassumere le tesi finora emerse in giurisprudenza. Si tratta di tesi che in generale tendono a valorizzare esclusiva
mente il momento della condotta colposa e prescindono dalla con
siderazione dell'evento. Eloquente la posizione assunta dal Preto
re di Legnano in due pronunce del 14 giugno 1979 (id., Rep.
1980, voce cit., n. 86) e del 26 marzo 1982 (id., Rep. 1983, voce
cit., n. 142), attinenti a casi di silicosi. Posizione che fissa la consumazione del reato nel momento in cui cessa il comporta mento del datore di lavoro «consistente nel mantenere il lavora
tore accanto alla causa patogena». In questo quadro finisce per collocarsi l'atteggiamento adotta
This content downloaded from 62.122.79.38 on Tue, 24 Jun 2014 20:28:03 PMAll use subject to JSTOR Terms and Conditions
PARTE SECONDA
to dal Pretore di Lovere in una sentenza del 28 maggio 1980
(id., 1980, II, 665), relativa a casi di ipoacusia da rumore, allor
ché ravvisa in materia «quel tipo di reato che la dottrina qualifi
ca permanente, nel quale la situazione dannosa che costituisce
il fatto reato si protrae nel tempo a causa del perdurare della
condotta del soggetto e cessa nel momento in cui vien meno la
condotta stessa». Analoga l'ispirazione che muove il Pretore di
Napoli in due pronunce del 4 aprile 1982 (id., Rep. 1983, voce
cit-, n. 140) e del 31 maggio 1983 (id., Rep. 1984, voce Infortuni sul lavoro, nn. 272-273, entrambe su casi di polineuropatie da
collanti, ad osservare che «per le malattie professionali è possibi
le ipotizzare una permanenza del reato fino a quando permane
l'esposizione al rischio»: donde si ricava che, «quanto meno per
tutta la fase di malattia conclamata, ci si trova di fronte ad un
reato permanente». E al carattere permanente del reato si richia
ma pure il Pretore di Carpi in una notevole decisione del 31 ago
sto 1983, centrata su ventotto casi di silicosi.
Sono tesi che certo colgono accuratamente un'esigenza irrinun
ciabile, e cioè l'esigenza di dare rilevanza penale all'ulteriore con
dotta colposa, «di chi, dopo aver già prodotto una lesione, conti
nui ad osservare il medesimo comportamento, potenzialmente ido
neo ad influire sullo sviluppo del processo morboso, nel senso
di impedire la guarigione o aggravare la malattia» (sul tema v.
Pret. Pontassieve 18 febbraio 1982, id., Rep. 1983, voce Omici
dio e lesioni personali colpose, n. 138; e Pret. Prato 13 gennaio
1977, id., Rep. 1978, voce Infortuni sul lavoro, nn. 265-267).
A maggior ragione, ove si consideri che «altrimenti si arriverebbe
all'assurdo di incentivare l'occupazione di lavoratori già colpiti
da patologie in attività particolarmente nocive, in quanto le lesio
ni già sopportate verrebbero a costituire una sorta di sanatoria»
(come perspicuamente si esprime Pret. Milano 1° luglio 1981,
id., Rep. 1982, voce Omicidio e lesioni personali colpose, n. 228).
Il fatto è, però, che le tesi ora riassunte soddisfano un'esigenza
insopprimibile, al prezzo d'introdurre una inammissibile svaloriz
zazione dell'evento (e, per giunta, all'iniquo prezzo di ritenere
che il reato si consumi in pendenza della condotta colposa, pur
quando la malattia sia ormai stabilizzata o comunque più non
si aggravi a causa della condotta colposa stessa). Sicché ben a
ragione il Tribunale di Bergamo 5 marzo 1983 (id., Rep. 1985,
voce cit., n. 16) ha obiettato al Pretore di Lovere che la lesione
personale colposa è «un reato di evento».
Del pari debole per la sua indeterminatezza è la tesi formulata
dal Pretore di Asti il 20 aprile 1982 in causa Bassi. La tesi, cioè,
che individua, «quale inizio della commissione del reato, una da
ta imprecisata antecedente la denuncia presentata dai dipendenti,
e, quale giorno finale, quello in cui i risultati peritali vennero
valutati e fatti propri dall'accusa, con l'emissione di un mandato
di comparizione, certo essendo che fra tali due limiti temporali
si era verificata la realizzazione dell'attività delittuosa, che si sta
verificando tuttora». Del pari indeterminata appare la posizione
assunta dal Tribunale di Savona in una sentenza del 12 aprile
1984, Puccioni, la quale con riguardo a casi di neoplasia vescicale
ferma l'attenzione sulla «data dell'accertamento definitivo di una
situazione patologica irreversibile». Ed egualmente indeterminata
ed evasiva è la soluzione accolta in Pret. Napoli 29 settembre
1983 (id., Rep. 1985, voce cit., n. 37), ove si esclude la prescri
zione in casi di asbestosi in cui i periti avevano indicato la data
approssimativa di inizio della malattia nel 15° anno di esposizio
ne al rischio, e — in mancanza di dati da poter comparare —
avevano «presunto», per i soggetti ammalati, il verificarsi negli
ultimi cinque anni di aggravamenti del deficit respiratorio.
Due sono, dunque, le istanze da contemperare. Di fronte all'e
sigenza di ancorare all'evento la consumazione del delitto di le
sione personale colposa, sta sull'altro piatto della bilancia l'esi
genza di non sottrarre arbitrariamente all'area dell'illecito penale
condotte colpose produttive di ulteriori eventi.
Proprio sotto la spinta di questa duplice esigenza, è maturata
una diversa soluzione. È innegabile che il delitto di lesione perso nale colposa si consumi con la verificazione della lesione e della
conseguente malattia, senza che rilevi il successivo svolgersi del
danno. Peraltro, tutto ciò presuppone che, a seguito del verifi
II Foro Italiano — 1987.
carsi dell'evento, non si sviluppi una ulteriore condotta colposa
dello stesso soggetto e/o di altri soggetti. Qualora invece si avveri
una simile evenienza, occorre stabilire se la nuova condotta col
posa abbia, o no, determinato un ulteriore evento, consistente
ad esempio in un indebolimento permanente o in una malattia
insanabile o persino nell'aggravamento di un indebolimento per
manente già verificatosi prima della nuova condotta colposa. E
nel caso in cui la nuova condotta colposa produca un ulteriore
evento, ecco evidentemente prospettarsi un reato che si consuma
nel momento in cui l'ulteriore evento si verifichi (cosi Pret. Tori
no 14 luglio 1983, ibid., nn. 137, 138; 17 dicembre 1983, ibid., n. 19; nello stesso senso Pret. Milano 12 giugno 1984, Casini).
Di fondamentale peso, a conforto di questa soluzione, è il det
tato dell'art. 583 c.p.: come infatti si arguisce dal tenore letterale
di tale disposto, in tanto è consentito prospettare l'ulteriore even
to come circostanza aggravante di un medesimo reato di lesione
personale colposa, in quanto questo ulteriore evento consegua al
lo stesso «fatto» che ha prodotto il primo evento. Se invece l'ul
teriore evento deriva da un «fatto» distinto (e, cioè, da una nuo
va condotta colposa), s'intende che questo ulteriore evento costi
tuisce un evento destinato a integrare in connessione causale con
la nuova condotta colposa un autonomo reato.
Proprio questa soluzione è stata accolta sullo specifico terreno
delle malattie professionali dalla Corte di cassazione nella impor
tante sentenza del 4 novembre 1983 in causa Affatato. In tale
sentenza il Supremo collegio cosi insegna: «posto che il reato di
cui all'art. 590 c.p. è un reato istantaneo che si consuma con
il verificarsi delle lesioni (anche quando gli effetti di esse siano
permanenti), occorre accertare se una successiva condotta colpo
sa abbia determinato un aggravamento degli effetti permamenti
delle lesioni. In questo caso, infatti, se la ulteriore omissione di
adozione ed osservanza delle misure di sicurezza necessarie a ga
rantire l'integrità fisica dei lavoratori si ponesse in relazione cau
sale diretta con l'aggravamento del fatto lesivo, un altro reato
sarebbe completo, sia nei suoi elementi materiali dell'azione, del
rapporto di causalità adeguata e dell'evento, sia per quanto ri
guarda l'elemento psicologico che lega l'evento al suo autore, sotto
il profilo del nesso causale tra la colpa e la ulteriore conseguenza
(secondo l'accertamento differenziale dell'aggravamento) della le
sione».
È, questa, una soluzione, che si connette coerentemente con
quella costante giurisprudenza per cui «si ha indebolimento per
manente di un organo ogni qual volta questo, in dipendenza del
fatto lesivo, resta menomato nella sua funzionalità», e «non è
rilevante il fatto che l'organo era già in precedenza indebolito,
dato che una ulteriore debilitazione costituisce pur sempre, ri
spetto alla situazione preesistente, una minorazione dell'efficien
za dell'organo» (per tutte v. Cass. 23 novembre 1983, Li Pira,
id., Rep. 1984, voce Lesioni personali e percosse, n. 23; 10 gen
naio 1978, Minatauro, id., Rep. 1978, voce cit., n. 5). E ciò, beninteso, senza che si possa legittimamente distinguere a secon
da che la precedente menomazione sia addebitabile o no a con
dotta colposa (o magari dolosa), né a seconda che sia ascrivibile
a condotta colposa del medesimo soggetto che ha cagionato l'ul
teriore menomazione o a condotta colposa di altri soggetti. E
con la logica conseguenza che, in ipotesi di tal fatta, il reato
di lesione personale colposa si consuma nel momento in cui si
verifica l'ulteriore debilitazione dell'organo. (Omissis) 23. (Ritratto di un imprenditore: Luigi Lucchini). — Grave è
la colpa da addebitare al vertice aziendale della Lucchini per le
malattie cagionate a numerosi lavoratori. Ma in massima parte
questa colpa deve essere rimproverata a Lucchini Luigi, legale
rappresentante e supremo governatore della società.
È costante giurisprudenza della Corte di cassazione che, nel
settore della sicurezza sul lavoro e in tema di lesioni personali
colpose da lavoro, l'imprenditore, il datore di lavoro, il rappre sentante legale della società tenuta a realizzare le misure preventi
ve, è il primo destinatario, il destinatario privilegiato degli obbli
ghi di prevenzione. «È compito del datore di lavoro» — ha anco
ra da ultimo insegnato il Supremo collegio in una sentenza del
17 ottobre 1984 in causa Liebe (id., Rep. 1985, voce Infortuni
This content downloaded from 62.122.79.38 on Tue, 24 Jun 2014 20:28:03 PMAll use subject to JSTOR Terms and Conditions
GIURISPRUDENZA PENALE
sul lavoro, n. 297) — «e in particolare della persona fisica attra
verso la quale, quando datore di lavoro è una persona giuridica, come nel caso della società per azioni, questa agisce nel campo delle relazioni intersoggettive ed aziendali, dotare l'impresa di ap
parati strumentali conformi alla normativa antinfortunistica». È
anzi un «compito che inerisce ex lege alla qualità del soggetto e non abbisogna di espresso conferimento da parte dell'atto co
stitutivo o dello statuto della società, né di espressa delega». In
ragione della sua qualità, l'imprenditore, in particolare, mantiene
in proprio le responsabilità, qualora conservi poteri organizzativi finanziari in materia, e/o non si astenga da un'ingerenza perso nale nella predisposizione del processo lavorativo, e/o venga co
munque a conoscenza delle carenze nella prevenzione. (Su questi
punti v., per tutte, a titolo di esempio Cass. 11 luglio 1983, Mi
netta, id., Rep. 1984, voce Omicidio e lesioni personali colpose, n. 139; 3 luglio 1981, Savarese, id., Rep. 1982, voce Infortuni sul lavoro, n. 477; 30 marzo 1981, Nuccio, ibid., nn. 250, 288,
485; 24 marzo 1981, Barbagallo, ibid., n. 987; 27 giugno 1975,
Castagna, id., Rep. 1976, voce cit., n. 153; 16 febbraio 1976,
Susca, id., Rep. 1977, voce cit., n. 160). Gli elementi probatori raccolti stanno li a dimostrare che il
Lucchini è il primo, effettivo, preponderante, responsabile delle
malattie sofferte da quanto hanno lavorato nel suo stabilimento
di Settimo. Nelle sue mani sono rimasti i poteri finanziari e orga nizzativi anche sui temi della sicurezza e della prevenzione contro
gli inquinanti. Continua e determinante è stata la sua ingerenza nelle varie fasi di lavorazione. Indiscutibile la sua conoscenza delle
situazioni di pericolo esistenti nell'azienda.
Sono punti che si avrà modo di approfondire. Ma intanto vie
ne spontaneo chiedersi perché. È fatto notorio che il Lucchini
non appartiene alla schiera degli imprenditori dislocati in aree
marginali o periferiche del mondo economico e industriale. E al
lora — se proviamo a rileggere le pagine che precedono, e, quin
di, se scorriamo l'allarmante serie di ispezioni, rilievi, sopralluoghi,
prescrizioni, diffide, intervenute presso la sua acciaieria — si prova un iniziale stupore: perché Lucchini ha cosi a lungo trascurato
la salute degli uomini che hanno lavorato nello stabilimento di
Settimo?
C'è un dato che più d'ogni altro colpisce l'attenzione, ove si
esamini la storia di Lucchini imprenditore. Nel luglio 1976, Luc
chini riceve dalla Pretura di Torino una comunicazione giudizia
ria, perché nel capannone dei forni di fusione in cui si sviluppano
polveri e fumi, non erano stati adottati i prescritti provvedimenti
per climatizzare le cabine dei carri ponte. L'11 ottobre 1977, an
zi, per tale fatto, il Lucchini viene condannato dalla Pretura di
Torino. È vero che, a seguito del provvedimento di amnistia del
1978, la Cassazione applicherà in tale caso l'amnistia. Resta non
dimeno un significativo avvertimento. Qualche anno dopo, nel
l'aprile 1980, Lucchini è raggiunto da una nuova comunicazione
giudiziaria nell'ambito del presente processo, in rapporto a più casi di malattia da lavoro. Ciò malgrado, lo stabilimento di Setti
mo continua a restare per anni uno stabilimento nocivo (come si è avuto modo di illustrare in precedenza).
Quel che dunque emerge nel Lucchini è un atteggiamento di
consolidata riluttanza ad esercitare la funzione d'imprenditore nel
rispetto delle leggi che governano il mondo del lavoro. Una rilut
tanza, si badi, che resta ferma pur a fronte degli interventi, non
solo degli organi amministrativi preposti alla prevenzione, bensì'
della stessa autorità giudiziaria. E non è un caso — e di ciò dovrà
tenersi conto di qui a poco nella determinazione della pena —
che siffatta riluttanza trovi conferma in due ulteriori condanne
subite dal Lucchini in passato e passate in cosa giudicata. Una
prima condanna risale al 15 novembre 1962, ed è pronunciata dal Pretore di Salò, sia per l'omessa consegna a 153 dipendenti del prescritto prospetto paga, sia per l'omessa protezione di una
mola abrasiva artificiale. Una seconda condanna è pronunciata dal Pretore di Torino, e confermata dal Tribunale di Torino il
27 gennaio 1975, per violazione dello statuto dei lavoratori.
È nel quadro emergente in questi precedenti giudiziari che si
iscrive coerentemente e trova spiegazione la condotta serbata dal
Lucchini in violazione delle norme sulla sicurezza nel lavoro: quella
li Foro Italiano — 1987 — Parte 11-20.
condotta che a sua volta ha cagionato malattie tra i lavoratori
dello stabilimento di Settimo. E quanto determinante sia stato
il ruolo del Lucchini nella determinazione di tali malattie, si rica
va dalle sue stesse dichiarazioni: «Le spese necessarie per realiz
zare impianti (del tipo di quello posto in funzione nel gennaio 1984 per la captazione di polveri e fumi sui forni fusori) sono
di mia competenza. La mia è un'azienda familiare. Il Calzoni
o il Ceresetti viene sempre a chiedermi cosa ne penso delle solu
zioni da lui individuate per i problemi dell'infortunistica. Cioè,
vengo informato. Io, del resto, mi sono sempre informato presso le persone competenti circa il modo di risolvere i problemi dell'i
giene del lavoro. Preciso che sono io a firmare tutto per l'azien
da: cosi, ad esempio, guardo la posta in entrata e la posta in
uscita; e, se non ci sono in un certo giorno, la posta me la prepa rano per il giorno dopo. I verbali dell'ispettorato del lavoro vole
vo vederli. E ordinavo che venissero attuate le relative prescrizio
ni, e che mi si dicesse che erano state attuate.
«Confermo che decido io gli investimenti da realizzare di ca
rattere tecnico. Quanto ai verbali dell'ispettorato del lavoro, pre ciso che dovevano essere portati a mia conoscenza qualora po nessero problemi relativi ad impianti da realizzare. Quando ac
quisii l'acciaieria di Settimo, non avevo ancora dirigenti, ma in
pratica conducevo l'azienda da solo».
Si affaccia qui un dato nevralgico: e, cioè, che Lucchini costi
tuiva in passato e rappresenta oggi la fonte di ogni decisione in
materia, l'uomo che riunisce ed esercita i poteri destinati a for
giare nelle loro linee essenziali gli ambienti lavorativi nello stabi
limento di Settimo, e, quindi, destinati a segnare la sorte, l'inco
lumità fisica, degli individui chiamati ad operarvi a contatto con
le polveri. Ed è un ruolo che non sorprende, dal momento che
la proprietà dello stabilimento è nelle sue mani.
Abbiamo verificato in precedenza con ricchezza di dettagli quali e quanti fossero i mezzi di prevenzione tecnica sistematicamente
e ininterrottamente trascurati nello stabilimento di Settimo: im
pianti di aspirazione realmente efficaci e potenti, razionalmente
collocati ovunque necessario, e fatti oggetto di continua manu
tenzione; la separazione e il distanziamento dei posti di lavoro; eliminazione di un pavimento praticamente costituito da un co
spicuo strato di materiale polverulento derivante da polvere sedi
mentata nel tempo. Sono alcuni tra gli esempi più vistosi di ca
renze che in modo particolareggiato abbiamo già descritto nelle
parti che precedono. E sono tutte carenze biasimevolmente per
petuatesi malgrado segnalazioni, prescrizioni, raccomandazioni,
doglianze, comunicazioni giudiziarie, processi penali (uno addi
rittura conclusosi con condanna in primo grado). E ancora, e
soprattutto, sono carenze che solo il Lucchini avrebbe avuto i
poteri, finanziari e organizzativi, di risolvere. Si tratta, infatti, di carenze che, per la loro ampiezza e diffusione, esigevano un
impegno societario al più alto livello. Impegno, invece, che il Luc
chini non ha ritenuto di assolvere, se non alla fine della nostra
storia, e quando ormai numerosi lavoratori avevano dovuto la
mentare una malattia per causa di lavoro.
Né, si badi, Lucchini era all'oscuro dei rischi specifici che si corrono in un'azienda come la sua in assenza di un'adeguata pre venzione. Riascoltiamo sul tema la voce dell'interessato: «Sapevo che c'era un problema dei fumi e delle polveri sulla base di quan to ci era stato dettato dall'ispettorato del lavoro e sulla base di
rilevazioni ambientali che avevamo fatto».
Si è osservato fin dall'inizio che i rischi da polveri in acciaieria
sono noti nel nostro paese a far tempo dalla seconda metà degli anni trenta. Non meraviglia, pertanto, che il Lucchini — un in
dustriale da decenni operanti in tale settore — abbia consapevo lezza dei gravi pericoli di malattia conseguenti alle polveri di ac
ciaieria. Una cultura, questa, che Lucchini ricavava — non solo
dalle dichiarate prescrizioni e rilevazioni — ma pure da altri ele
menti: prima fra tutte l'esperienza dei processi penali instaurati
nei suoi confronti. Una cultura che avrebbe dovuto indurre Luc
chini a sviluppare una tempestiva e adeguata prevenzione. Quella
prevenzione che invece è mancata.
Eppure, proprio Lucchini ha osservato in dibattimento che, in
materia, «i problemi si risolvono nel momento in cui effettiva
This content downloaded from 62.122.79.38 on Tue, 24 Jun 2014 20:28:03 PMAll use subject to JSTOR Terms and Conditions
PARTE SECONDA
mente si pongono». L'inconveniente per i lavoratori Lucchini è
stato che il loro datore di lavoro si è posto troppo tardivamente
il problema delle polveri. Senza tener conto del fatto che almeno
dal 1956 lo Stato italiano aveva posto il problema delle polveri
(e imposto la sua soluzione) mediante una legge penalmente san
zionata quale il d.p.r. 303.
Diverso, invece, è stato il comportamento del Lucchini. Basti
riflettere sulle sue parole: «Mi fu offerta un'acciaieria che era
fallita, a Settimo. Io la rilevai. Nello stabilimento c'erano due
forni, senza impianti di aspirazione o altri mezzi di risanamento
ambientale. Preso lo stabilimento, iniziai subito l'attività. Quan do acquisii l'acciaieria di Settimo, conducevo l'azienda da solo.
L'acciaieria che avevo trovato nel 1965 era del tutto sprovvista di mezzi di bonifica ambientale. Il primo importante provvedi
mento di bonifica è stato quello della fine del 1974».
Per dieci anni, dunque, il Lucchini ha condotto lo stabilimento
di Settimo senza apportarvi importanti provvedimenti di bonifica
ambientale (e circa la tardività e insufficienza dello stesso im
pianto di aspirazione messo in marcia nel primo 1975 già ci sia
mo a lungo soffermati in precedenza). Per giunta, malgrado la conoscenza dei rischi specifici esistenti
nello stabilimento, Lucchini non si preoccupa di verificare «se
ci siano casi indennizzati di malattia dall'I.n.a.i.l. presso stabili
mento di Settimo Torinese». Né risulta aver disposto una conti
nua sorveglianza sui livelli di polverosità all'interno degli ambienti
di lavoro, nei diversi reparti e postazioni: e qui il governo della
prevenzione praticato alla Lucchini si tinge di un'ulteriore, nega
tiva, caratteristica: e, cioè, una colpevole leggerezza. Quella stes
sa leggerezza che conduce Lucchini a negare la polverosità del
pavimento: «Le rare volte in cui sono andato a Settimo circa
una volta all'anno, non ho mai riscontrato l'esistenza di uno strato
di polvere sul pavimento: cosa, del resto, che tendo ad escludere
in quanto nella polvere l'operaio non ci può vivere». Non ci può
vivere, ma ci vive: secondo quanto si è chiarito nelle pagine pre cedenti.
Ma non basta. Abbiamo constatato come alle carenze nella pre venzione tecnica si accompagnassero altrettanto vistose crepe nel
la prevenzione personale, e si affiancasse una sostanziale incon
cludenza della prevenzione sanitaria. Sono, a ben vedere, i diver
si aspetti di un medesimo fenomeno: un governo della prevenzio ne contraddistinto al vertice da disorganizzazione e inerzia.
Il Lucchini, è vero, per quel che concerne i protettori indivi
duali e lo spostamento dei lavoratori inidonei o ammalati, ha
precisato di aver dato direttive, ma di non essersene occupato
personalmente: «Le questioni inerenti alle mascherine sono que stioni di cui non mi occupo personalmente. Non mi sono curato
degli spostamenti. Ho sempre disposto che chi si ammala dovesse
essere impiegato diversamente, per evitare un aggravamento della
malattia. Ho dato disposizione affinché i mezzi personali di pro tezione venissero usati e non mi è stato mai segnalato se a volte
le maschere non venissero usate. Diedi anche la direttiva che ve
nissero date le maschere più efficienti esisitenti sul mercato. Il
sistema degli spostamenti era organizzato in questo modo, che
il lavoratore inidoneo era segnalato dal medico e poi lo si doveva
spostare. Possibilità di spostamento ce ne sono, dal momento
che c'è il laminatoio».
La realtà della fabbrica quale emerge dalle pagine precedenti è di segno opposto. I mezzi personali di protezione — in concre
to mascherine di cartone apparse ai periti insufficienti — erano
scarsamente impiegati. Malgrado le segnalazioni del medico, la
voratori inidonei o addirittura ammalati continuavano a rimane
re a contatto con le fonti di rischio specifico. E qui occorre sotto
lineare due aspetti. Il primo è che la carenza di prevenzione per sonale e l'inconcludenza della prevenzione sanitaria appaiono co
sì diffuse, da risultare il frutto di una scelta aziendale, e, comun
que, la conseguenza di una palese, sistematica, inerzia del vertice.
Strettamente connesso è il secondo aspetto: il Lucchini non si
preoccupa di esercitare il minimo controllo sul funzionamento
della prevenzione personale e sull'efficienza del sistema di sposta menti. Un controllo a maggior ragione necessario, quando il Luc
II Foro Italiano — 1987.
chini da solo dirige lo stabilimento (come avviene nei primi anni) e quando il Lucchini riceve comunicazione giudiziaria per le le
sioni personali in danno dei lavoratori (come avviene dal 1980).
È un fatto che, sia nei primi anni, sia negli ultimi, nessun con
trollo viene effettuato. Ed è un fatto che per conseguenza la pre venzione personale fallisce, e troppe volte i lavoratori inidonei
permangono esposti a polveri. (Omissis)
Rivista di giurisprudenza penale
Alimenti e bevande (igiene e commercio) — Prima analisi di cam
pioni — Assenza di garanzie difensive — Questione non mani
festamente infondata di costituzionalità (Cost., art. 3, 24; 1.
30 aprile 1962 n. 283, disciplina igienica della produzione e della vendita delle sostanze alimentari e delle bevande, art. 1).
Non è manifestamente infondata la questione di legittimità co
stituzionale dell'art. 1 1. 30 aprile 1962 n. 283, nella parte in cui
non prevede la possibilità per l'interessato di partecipare alla pri ma analisi di campioni di prodotti alimentari, in riferimento agli art. 3 e 24 Cost. (1)
Pretura di Perugia; ordinanze [due] 16 aprile 1986 (Gazz■ uff. la serie speciale, 22 ottobre 1986, n. 50); imp. Angelucci e Cimi
nari.
(1) Sulla questione di cui alla massima (induttivamente estratta dalle
ermetiche ordinanze) v. da ultimo la nota di richiami in Foro it., 1986,
II, 557 ss. Nella specie il pretore ha sollevato l'eccezione osservando che
non è praticamente possibile eseguire l'analisi di revisione per i prodotti ittici specie ai fini dell'accertamento della loro freschezza stante l'impos sibilità di conservazione del prodotto in questione, se non attraverso il
congelamento dello stesso.
This content downloaded from 62.122.79.38 on Tue, 24 Jun 2014 20:28:03 PMAll use subject to JSTOR Terms and Conditions