Sezione I civile; sentenza 13 aprile 1964, n. 870; Pres. Varallo P., Est. D'Amico, P. M. Pedace(concl. conf.); Fall. Lutz (Avv. Dente, Sequi) c. Lutz (Avv. Santoro), Colorificio Partenope (Avv.Ciotola) e Ditta Gaber'sSource: Il Foro Italiano, Vol. 87, No. 6 (1964), pp. 1157/1158-1161/1162Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARLStable URL: http://www.jstor.org/stable/23156171 .
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1157 GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE È CIVILE 1158
l'applicazione delle imposte speciali sul reddito dei terreni, dei fabbricati o di ricchezza mobile ».
L'amministrazione resistente lia poi fatto richiamo, nella discussione orale, all'art. 136 del vigente t. u. sulle
imposte dirette (decreto pres. 29 gennaio 1958 n. 645 e
successive modificazioni) ed ha sottolineato che, a propo sito della imposta complementare progressiva sul reddito
complessivo, l'art. 136 dell'accennato t. u., nella formula
zione vigente di cui all'art. 5 della legge 4 dicembre 1962
n. 1482, ammette in detrazione, alla lett. d, tra gli altri
oneri, dalla somma dei redditi, « le spese, le passività e le
perdite inerenti alla produzione dei redditi indicati nel
precedente art. 135 (e quindi anche del reddito dominicale), in quanto per loro natura siano indetraibili nella determi
nazione dei redditi stessi ».
L'amministrazione resistente ne vorrebbe ricavare, sia
pure in via indiretta e anche ai fini del presente giudizio, la non detraibilità dei contributi unificati dal complesso dei redditi e la rilevanza di detti contributi solo in sede
di determinazione delle tariffe d'estimo.
In senso contrario alla suesposta conclusione va rile
vato che : a) la rielaborazione della imposta sul reddito dom -
nicale dei terreni (art. 49 a 61 del t. u. 29 gennaio 1958 n.
645) e della imposta complementare progressiva sul reddito
complessivo (art. 130 a 144 del citato t. u.), con la conse
guente esplicita abrogazione e del t. u. 5 luglio 1951 n.
573 e del r. decreto 30 dicembre 1923 n. 3062 (art. 288 del
t. u. n. 645 del 1958) precludono di ritrarre dalla nuova
disciplina elementi utili all'applicazione delle norme pro
gresso ; b) la tesi dell'amministrazione resistente muove dal
presupposto che nel nuovo sistema la detraibilità o meno
dei contributi agricoli unificati debba essere risolta solo
con riferimento agli oneri di cui alla lett. d dell'art. 36 del
nuovo t. u. (come sostituito, detto art. 36, dall'art. 5 della
legge n. 1682 del 4 dicembre 1962), mentre, al contrario, le lettere b) e c) dello stesso art. 36 ammettono in detra
zione, dalla somma dei redditi, rispettivamente, gli oneri
tributari e gli oneri conseguenti a finalità previdenziali ;
c) che quando anche, come prospettato dall'amministra
zione, si limitasse il problema alla interpretazione della lett.
d) del citato art. 36, resterebbe pur sempre da accertare
se i contributi agricoli unificati siano per loro natura ef
fettivamente detraibili in sede di determinazione dei sin
goli redditi dominicali, specie, ove, a fronte della varia
bilità anche annuale della determinazione dei contributi,
si tenga presente che la possibilità di variazione del reddito
dominicale (imponibile) per revisione catastale è collegata esclusivamente a « variazioni di carattere permanente nello
stato di coltura dei terreni » e che « una nuova revisione
(catastale) non può effettuarsi se non trascorsi almeno dieci
anni dalla precedente » (art. 56 del t. u. n. 645 del 1958).
Esattamente, poiché il rapporto di causa è regolato
compiutamente ed esclusivamente dalle disposizioni di
legge precedenti il vigente t. u. sulle imposte dirette, la
sentenza impugnata non ha trattato le questioni inerenti a
detto t. u., al quale si è accennato al limitato fine di porre in evidenza la infondatezza dell'accenno dell'amministra
zione circa la rilevanza in causa delle nuove norme tribu
tarie.
Contenendo, pertanto, l'esame del ricorso con riferi
mento (come più sopra è stato fatto) alla precedente legi slazione che regola il rapporto in contestazione tra le odierne
ricorrenti e l'amministrazione resistente, il ricorso predetto, in conseguenza di tutti i motivi che si sono venuti esponendo, deve essere accolto per quanto attiene alla detraibilità,
dal complesso dei redditi del Nicolò Mannucci Benincasa,
dei contributi agricoli unificati.
Il ricorso deve essere invece disatteso nella parte in
cui viene denunziato il disconoscimento della detraibi
lità anche degli oneri relativi al lodo De Gasperi ed alla
tregua mezzadrile.
Infatti, se è vero che l'art. 2 del lodo De Gasperi ri
conferma in linea di principio la ripartizione dei prodotti
al 50%, tuttavia il maggior onere addossato ai concedenti
a favore dei mezzadri viene rapportato proprio ad una per
centuale del prodotto Lordo di parte padronale, il quale, in
definitiva, ne resta decurtato.
Analogo rilievo va fatto per gli oneri conseguenti alla
tregua mezzadrile sicché può concludersi che sia il lodo
sia la tregua determinarono una alterazione nell'ammon
tare della quota padronale, non riconducibile in alcuna
delle voci di detrazione tassativamente previste dall'art.
8 del r. decreto 30 dicembre 1923 n. 3062.
E ciò rende irrilevante la considerazione che l'onere deri
vante dalla tregua mezzadrile, gravando sui redditi delle sole
conduzioni a mezzadria, è limitato a determinate zone del
territorio nazionale e non si estende perciò ai terreni col
tivati a produzione diretta.
Concludendo, il ricorso deve essere accolto limitata
mente alla questione dei contributi agricoli unificati e
deve essere affermato che l'importo di questi ultimi rientra
tra le detrazioni dal complesso dei redditi del contribuente
previste dall'art. 8 del r. decreto 30 dicembre 1923 n. 3062.
La sentenza impugnata va cassata in relazione e la causa
rinviata per nuovo esame, sul punto, alla Corte d'appello di
Bologna, che provvederà anche sulle spese di questo giu dizio di cassazione.
Per questi, motivi, ecc.
CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE.
Sezione I civile ; sentenza 13 aprile 1964, n. 870 ; Pres.
Varallo P., Est. D'Amico, P. M. Pedace (conci,
conf.) ; Fall. Lutz (Avv. Dente, Sequi) c. Lutz (Avv.
Santoro), Colorificio Partenope (Avv. Ciotola) e
Ditta Gaber's.
(Conferma App. Roma 31 marzo 1963)
Fallimento — Sentenza di revoca — Impugnazione — Legittimazione del curatore (R. d. 16 marzo
1942, n. 267, disciplina del fallimento, art. 19). Società — Società di capitali —- Titolare della mag
gioranza delle quote — Responsabilità illimitata ■— Esclusione (Cod. civ., art. 2497).
Fallimento — Società di capitali -—- Socio tiranno —
Assoggettabilità a fallimento —■ Limiti (R. d.
16 marzo 1942 n. 267, art. 1). Fallimento — Opposizione a sentenza dichiarativa
— Onere della prova (Cod. civ., art. 2697 ; r. d. 16
marzo 1942 n. 267, art. 18).
Il curatore è legittimato ad impugnare la sentenza di revoca
del fallimento. (1) In una società di due soci, il titolare del novantotto per cento
delle quote non risponde illimitatamente delle obbligazioni
sociali, ammenoché non sia nulla l'intestazione del residuo
due per cento della quota all'altro socio. (2) In caso di insolvenza di una società di capitali non può
essere dichiarato il fallimento del socio che ha usato
dell'impresa sociale come di cosa propria, tranne che
egli non sia titolare di altra impresa autonoma che
esercitava attività economiche in comune con la società di
capitali. (3)
(1) In senso conforme, anche con riferimento alla impugna zione dei creditori istanti, Cass. 30 ottobre 1961, n. 2504, Foro
it., 1962, I, 267, con nota di richiami, cui adde Ferrara, Cura
tore del fallimento, voce dell' Enciclopedia del diritto, XI, pag. 511 ; Zapparoli, Introduzione aduno studio sul «contraddittore
fallimentare », 1962. Sulla legittimazione all'impugnativa del creditore che inter
viene ad adiuvandum il curatore, Cass. 25 ottobre 1961, n. 2366, Foro it., 1962, I, 992 ; 9 agosto 1962, n. 2500, ibid., 2077 ; 21
ottobre 1961, n. 2281, ibid., 993 (annotata da Satta in Foro
pad., 1962, I, 633). (2-3) In senso esattamente conforme alla seconda massima,
Trib. Milano 1° dicembre 1958. Foro it., 1959, I, 1222, con nota
di richiami, la quale ha affermato la necessità, per ritenere re
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1159 PARTE PRIMA 1160
Nel giudìzio di opposizione alla sentenza dichiarativa di
fallimento, il giudice deve verificare anche d'ufficio l'esi
stenza delle condizioni per la dichiarazione sulla base
delle prove fornite dalle parti e di quelle emergenti dagli atti di ciascuna fase del processo fallimentare. (4)
La Corte, ecc. — (Omissis). Ugualmente è infondata la
seconda eccezione, con cui si assume dal Lutz clie il cura tore non potrebbe essere soggetto attivo del gravame per difetto dell'interesse ad agire : il curatore, come inve stito di un munus publicum, sarebbe, a norma dell'art. 18 della legge sul fallimento, legittimato a resistere, anche in
Cassazione, nei giudizi promossi dai veri interessati, ma come pubblico ufficiale, tenuto al rispetto della legge at tuata dai giudici, non avrebbe alcun interesse, nè morale nè materiale, nei giudizi di accertamento dei presupposti per la dichiarazione di fallimento : di conseguenza non sarebbe legittimato ad impugnare le sentenze di revoca del fallimento. Invero, se per espressa disposizione di legge (art. 19 legge fall.) la sentenza che revoca il fallimento deve essere notificata anche al curatore, oltreché al cre ditore che lo ha chiesto e al debitore se questi non è op ponente, e se il curatore è organo pubblico che agisce per la realizzazione dei fini che sono propri del fallimento, deve
essergli concesso di impugnare una pronuncia che abbia
disposto la revoca, appunto allo scopo di ottenere che siano realizzati i fini predetti : l'interesse all'impugnazione sorge dal fatto stesso della soccombenza in un processo, in cui il curatore è parte. Nè va taciuto lo specifico inte resse all'impugnazione nella specie in esame, in cui, come
opportunamente ha sottolineato il ricorrente, la curatela ha già compiuto atti di liquidazione, ha approntato altri
giudizi e svolto una vasta attività, su cui incide la revoca
disposta con la sentenza impugnata.
sponsabile l'azionista di maggioranza, che sia dichiarata la simu lazione dell'intestazione delle azioni di minoranza.
Sulla società d'un sol socio si veda, da ultimo, in Riv. trim., dir. proc. ««., 1964, 133, lo studio di Amatucci, Le società uni personali e il problema della qualificazione del rapporto giuridico.
La stessa sentenza del Trib. Milano ha ancora affermato, in conformità, con la terza massima di quella che s'annota, che l'unico azionista può esser dichiarato fallito non in estensione del fallimento sociale, ma solo se imprenditore (si vedano le critiche di Bigiavi, in nota alla sentenza, nella Giur. it., 1959, I, 2, 149, critiche richiamate nella Difesa dell'imprenditore oc culto, pag. 117, nota 82. Questo A., che sostiene l'applicabilità della teoria dell'imprenditore occulto al c. d. « tiranno » d'una società di capitali, preannuncia la pubblicazione di un saggio sull'argomento : op. cit., pag. 2, nota 3, pag. 12, nota 15, in fondo).
Ancora a proposito della terza massima, App. Torino 8 febbraio 1962, Foro it., Rep. 1962, voce Società, n. 244, afferma il permanere del dualismo socio-società ; mentre per App. Mi lano 28 dicembre 1962, id., Rep. 1963, voce cit., nn. 90, 594, il fallimento d'una società di capitali si estende automaticamente all'unico azionista. Per App. Brescia 6 giugno 1962, ibid., n. 91 (criticata da Bigiavi, in Giur. it., 1963, I, 2, 14), l'unico azionista può o non può essere imprenditore, ma se è imprendi tore (indiretto) della società da lui tiranneggiata, oltre ad essere illimitatamente responsabile, sarà anche assoggettabile a fal limento.
App. Trieste 26 novembre 1962, Foro it., Rep. 1962, voce cit., n. 92, nega l'assoggettabilità a fallimento dell'amministratore d'una società di capitali che, spadroneggiando la società, eserciti attività mercantile personale.
Il fallimento del socio « tiranno », affermato dal Trib. Pine rolo 7 dicembre 1959, è negato da Cass. 16 ottobre 1959, n. 2886 : entrambe le sentenze son pubblicate in Foro it., 1960, I, 1180, con l'ampia nota di Bigiavi, Responsabilità illimitata del socio « tiranno ».
(4) Conformi sulla rilevabilità d'ufficio dei presupposti per la dichiarazione di fallimento, Cass. 12 agosto 1963, n. 2313, Foro it., Rep. 1963, voce Fallimento, n. 169, e 29 maggio 1962, n. 1270, id., Rep. 1962, voce cit., nn. 202-206, e, sull'utilizzabilità delle risultanze del fascicolo fallimentare nel giudizio d'opposi zione alla sentenza dichiarativa : Cass. 14 ottobre 1963, n. 2750, id., Rep. 1963, voce cit., n. 167 ; 6 ottobre 1962, n. 2860, id., 1963, I, 762; Trib. Terni 28 febbraio 1961, id., 1962, I, 820.
Può quindi passarsi all'esame dei motivi di ricorso
proposti dal curatore. (Omissis) Con il secondo mezzo si denuncia dal curatore la viola
zione e la falsa applicazione dell'art. 1 legge fall/ in rela
zione all'art. 2497, 2° comma, cod. civ., per avere la corte
d'appello ritenuto che il Lutz non potesse essere considerato
imprenditore neppure sotto il profilo dell'esercizio di una
attività commerciale personale nella veste di socio sovrano
della società a r. 1. Lutz Becher, pur riconoscendo che
tutte le quote erano a lui appartenenti, che egli aveva
nelle proprie mani l'intera attività d gestione e che quindi la società predetta si identificava nella persona di lui.
La censura è ugualmente infondata. Innanzitutto non
è esatto che nella sentenza impugnata sia stato affermato
che tutte le quote sociali appartenevano al Lutz : la corte
d'appello ha ritenuto invece che al Lutz si appartenevano
quattrocentonovanta delle cinquecento quote sociali. Ne
consegue l'inapplicabilità della specie dell'art. 2497, 2°
comma, cod. civ., secondo cui, in caso di insolvenza della
società, per le obbligazioni sociali sorte nel periodo in
cui le quote risultano essere appartenute ad una sola per sona, questa risponde illimitatamente. Non si applica in
fatti la disposizione predetta, quando i soci siano due, anche
se uno di essi sia intestatario solo di un numero minimo
di quote rispetto all'altro socio, che invece occupa nella
società una posizione di assoluta preminenza, salvo che si
mostri che quest'ultimo debba considerarsi unico intesta
tario delle quote, per essere nulle le intestazioni delle quote all'altro socio, situazione questa neanche adombrata nel
giudizio di merito dal curatore ricorrente.
Ma, ciò premesso, questa Corte non ha motivo di adot
tare, nella proposta questione, una soluzione diversa da
quella ritenuta, nel contrasto della dottrina e della giuri
sprudenza, dalle sentenze 23 settembre 1958, n. 3035
(Foro it., 1959, I, 1142) e 3 aprile 1959, n. 989 (ibid.,
1519), nelle quali fu affermato che non può ritenersi am
missibile, nel sistema vigente, che il socio di una società
di capitali, nella specie a responsabilità limitata, dichiarata
fallita venga sottoposto a fallimento personale, anche se ha usato dell'impresa sociale come di cosa propria, tranne che egli non sia titolare di altra impresa autonoma che abbia esercitato attività economiche in comune con la società di capitali. Si pose in evidenza nella predetta sen tenza il decisivo rilievo che la limitazione di responsabilità al capitale sociale, mediante la costituzione di una società
avente personalità giuridica, è scopo perfettamente lecito e meritevole di tutela nel nostro ordinamento giuridico e
pertanto il socio, anche se sia domino della società della
quale disponga a piacimento, non risponde personalmente delle obbligazioni assunte in nome della società e rimane immune dal fallimento in proprio. Non pare che a soluzione diversa si debba pervenire quando non sia stato chiesto e non sia stato dichiarato il fallimento della società, come si assume dal ricorrente nella memoria, poiché o il socio è imprenditore in proprio, ed allora sarà, come tale, di chiarato il suo fallimento, o risulta soltanto che egli ha usato dell'impresa sociale come di cosa propria, ed allora dovrà essere chiesto e dichiarato il fallimento della società e non del socio. Nella specie, come si è esposto a proposito del primo mezzo, la corte di merito, con apprezzamento di fatto incensurabile in questa sede, ha escluso che il Lutz avesse esercitato attività di imprenditore commer ciale in proprio.
Con il terzo mezzo, denunciandosi la violazione dell'art. 2697 cod. civ. in relazione all'art. 1 legge fall, e all'art. 2094 cod. civ., si sostiene dal curatore ricorrente che la corte d'appello ha errato nel ritenere che incombesse al fallimento ed alle altre parti interessate l'onere di provare la qualità di imprenditore nel Lutz e, per converso, di
negare che egli fosse invece un semplice ausiliario alle
dipendenze della società a responsabilità limitata Lutz Becher.
La censura è parimenti infondata. Come è stato rite nuto da questa Corte nella sentenza 27 giugno 1957, n. 2520
(Foro it., Rep. 1957, voce Fallimento, nn. 152, 153), nel
giudizio di opposizione a sentenza dichiarativa di falli
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1161 GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE 1162
mento se, (la un lato, pèr l'acquisizione (li elementi proba tori nonché per la contestazione di quelli precostituiti, è applicabile il principio generale, secondo cui ciascuno dei soggetti del processo è tenuto all'osservanza degli oneri inerenti alle proprie allegazioni, d'altra parte, tenuto conto della finalità di pubblico interesse, proprie del processo di
fallimento, il giudice è tenuto a verificare anche di ufficio l'esistenza delle condizioni per la dichiarazione di fallimento in base alle prove emergenti dagli atti di ciascuna fase del
processo fallimentare, con ampia libertà di valutazione. Ora questa indagine è stata compiuta dalla corte d'appello, la quale, lungi dal porre l'onere della prova sul curatore e sui creditori presenti nel processo, ha valutato tutti gli elementi emergenti dagli atti della procedura fallimentare oltre quelli risultanti dagli atti esibiti dalle parti ; non occorre qui ripetere in che modo sia stata compiuta questa
indagine, essendosene discorso a proposito del primo mezzo con la conclusione che la motivazione esauriente si sottrae a censura in questa sede. (Omissis)
Per questi motivi, rigetta, ecc.
CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE.
Sezione I civile ; sentenza 13 aprile 1964, n. 868 ; Pres.
Vistoso P., Est. Del Conte, P. M. Silocchi (conci, conf.) ; Soc. S.i.m.s.a. (Avv. Becca, Bertagnani) c. Fall. Pozzan (Avv. Uderzo).
(Cassa Trib. Vicenza 23 dicembre 1901)
Fallimento — Ammissione di eredito eon riserva — Successiva esclusione — Iteriamo al tribunale — Decreto — Impugnabili!à per cassazione (Costi tuzione, art. Ili ; r. d. 16 marzo 1942 n. 267, disciplina del fallimento, art. 23, 26).
Fallimento — Ammissione di eredito con riserva —
Successivo decreto di esclusione — Impugnazione al tribunale — Inammissibilità (R. d. 16 marzo
1942 n. 267, art. 26, 98).
È ammissibile il ricorso per cassazione del decreto emesso dal tribunale in sede di reclamo avverso un provvedimento del giudice delegato che aveva revocato la precedente ammis
sione con riserva di un credito al passivo fallimentare. (1)
(1) La impugnabilità con ricorso per cassazione ex art. Ili Cost, dei decreti pronunciati dal tribunale fallimentare in sede di reclamo ex art. 26 legge fall, da decreti del giudice delegato è stata genericamente affermata dalla Suprema corte sul riflesso della natura decisorio-giurisdizionale che a larga parte dei prov vedimenti del giudice delegato, e dei conseguenti provvedimenti del tribunale emessi su reclamo, deve riconoscersi, nonostante
l'apparente carattere amministrativo di essi. Precisa la Suprema corte in una recente sentenza (4 aprile 1962, n. 703, Foro it., 1962, I, 926) che non può formularsi per tali decreti un principio generale, che stabilisca in ogni caso l'impugnabilità del provve dimento che decide sul reclamo proposto contro di essi in Cassa
zione, poiché il carattere giurisdizionale non è da riconoscersi a tutti i decreti emessi durante il corso della procedura falli mentare dal giudice delegato e dal tribunale ex art. 26 e 23 della legge fall., ma che sarà per ogni singola specie di provve dimento necessario procedere ad un esame particolare della sua sostanza e del suo contenuto. Per vero, se sul principio generale su riferito le varie sezioni della Suprema corte presentano una
perfetta conformità di opinioni, esse divergono poi nell'applica zione di esso alle singole fattispecie e cioè proprio in sede di valutazione della sostanza dei vari decreti e di attribuzione o
meno, ad essi, del carattere giurisdizionale ; sulla valutazione di tale contenuto sostanziale si presenta anzi un ancor più gran dissenso fra la Cassazione e la Corte costituzionale.
La difformità di decisioni fra le varie sezioni della Su
prema corte è manifestata in particolar modo in ordine ai decreti del giudice delegato in sede di riparto delle attività
fallimentari, da talune sentenze ritenendosi che il decreto di esecutorietà del piano di riparto avesse natura giurisdizio nale, da altre che esso costituisse una mera attività ammini
È inammissibile il reclamo al tribunale ex art. 26 legge fall, avverso il decreto del giudice delegato che aveva revocato
la precedente ammissione con riserva del credito al passivo, e deve quindi cassarsi senza rinvio il decreto che il tri
bunale aveva emanato in ordine al reclamo medesimo. (2)
strativa di controllo dell'operato del curatore. Le diverse pro nunce sono richiamate, in no^a a Cass. 6 ottobre 1962, n. 2851, id., 1963, I, 768, da M. Acone, che fa cenno anche ad altre sen tenze della Suprema corte in ordine a decreti del giudice dele
gato di diverso contenuto. Richiami ed altri precedenti giuri sprudenziali del Supremo collegio, a proposito di liquidazione del compenso agli incaricati a prestare la loro opera nel falli mento e di liquidazione dell'onorario al curatore, si rinvengono in nota a Cass. 11 luglio 1963, n. 1867, ibid., 1816, che ha affer mato la natura giurisdizionale del decreto di liquidazione del
compenso agli incaricati, e rispecchiano ancora una completa divergenza di opinioni.
Mentre poi la Cassazione ha costantemente affermato la reclamabilità al tribunale ex art. 26 legge fall, dei decreti del
giudice delegato aventi natura giurisdizionale (da ultimo pos sono consultarsi in argomento le citate sent. 11 luglio 1963, n.
1867, 4 aprile 1962, n. 703, 6 ottobre 1962, n. 2851) diversamente ha opinato la Corte costituzionale, cui con ordinanza del Tribunale di Venezia 22 giugno 1962, id., 1962, I, 2036, con nota di ri
chiami, era stata rimessa la questione di incostituzionalità degli art. 23, ult. comma, e 26, 1° e 2° comma, legge fall, per contra rietà con l'art. 24, 1° comma, della Costituzione, sul riflesso che la brevità del termine per il reclamo e l'assenza di qualsiasi pubblicità o comunicazione diretta agli interessati rende impos sibile o di estrema difficoltà la proposizione del reclamo stesso e quindi la tutela dei diritti soggettivi pregiudicati dal provve dimento a carattere giurisdizionale del giudice delegato ; la Corte
(sent. 9 luglio 1963, id., 1963, I, 1608) ha infatti dichiarato infon data l'eccezione di incostituzionalità in quanto la norma del l'art. 26 legge fall., che prevede il reclamo al tribunale contro i
provvedimenti del giudice delegato entro il termine di tre giorni dalla data, non si applica alle impugnative dei provvedimenti decisori dello stesso giudice e pertanto non è in contrasto con l'art. 24, 1° comma, della Costituzione (ritiene difatti la Corte, in accordo con la propria precedente sentenza n. 57 del 1962, id., 1962, I, 1073, che possa assumersi la violazione dell'art. 24 Cost, solo quando il legislatore abbia limitato la difesa proces suale di un diritto da esso stesso attribuito o riconosciuto).
L'affermazione della Corte costituzionale circa la non recla mabilità ex art. 26 legge fall, dei provvedimenti a contenuto
giurisdizionale del giudice delegato, sembra ricollegarsi a quelle teorie dottrinali che hanno escluso l'applicabilità dell'art. 26 ai provvedimenti del giudice delegato dati in sede di riparto delle attività fallimentari, proprio in considerazione del loro carattere decisorio. Si vedano in tal senso Satta, Decreto di
riparto fallimentare, ricorso per cassazione, giudizio di rinvio, in Riv. dir. comm., 1963, II, 339, in nota a Cass. 4 aprile 1962, n. 703 citata sopra (ed a Trib. Firenze 8 febbraio 1963, data nella stessa causa) e Ferrara, Il fallimento, pag. 407 e segg., i quali ritengono che all'impugnazione dei decreti dati dal giu dice delegato in sede di riparto fallimentare siano applicabili per analogia o, meglio, per estensione le norme sulle opposizioni allo stato passivo oppure, in subordine, le regole generali stabi lite dal codice di procedura civile per la risoluzione delle con troversie sorte in sede di distribuzione del ricavato nella ese cuzione singolare. A favore di quest'ultima tesi si pronuncia anche Provinciali, Manuale, II, pag. 845. Tali teorie sono criti cate da Bianchi d'Espinosa, Impugnazione del decreto che rende esecutivo il piano di riparto nel processo fallimentare, in Giust.
civ., 1961, I, 390, in nota a Cass. 27 gennaio 1961, n. 124, Foro
it., 1961, I, 206. Può utilmente leggersi in argomento anche la nota di Tar
zia, Sulla legittimità costituzionale degli art. 23 e 26 legge fall., in Giur. it., 1963, I, 2, 299, alla citata ordinanza 22 giugno 1962 del Trib. Venezia, là dove approva la rimessione della
questione di illegittimità costituzionale degli art. 23 e 26 legge fall, alla Corte costituzionale, ritenendola fondata in accordo con la precedente decisione 22 novembre 1962, n. 93, Foro it., 1962, I, 2161, della stessa Corte che, in sede di rigetto della eccezione di incostituzionalità dell'art. 18 legge fall, (nella parte in cui disciplina il termine per l'opposizione alla sentenza dichia rativa di fallimento), aveva ritenuto che « il diritto di difesa, al pari di ogni altro diritto garantito dalla Costituzione, deve essere regolato dalla legge ordinaria in modo da garantirne la effettività » e perciò « ove per l'esercizio di essa fossero stabiliti dalla norma denunciata termini così ristretti, da renderlo estre mamente difficile, la norma stessa dovrebbe essere dichiarata
illegittima ».
xl Foro Italiano — Volume LXXXV11 — Parie l-74.
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