Sezione I civile; sentenza 3 maggio 1984, n. 2680; Pres. Sandulli, Est. R. Sgroi, P. M. Paolucci(concl. conf.); Caccia (Avv. Caravita Di Toritto, Resta, A. Donati) c. Soc. coop. autotrasportivimercatesi (Avv. Flauti, Ideo, Magnocavallo). Cassa App. Milano 2 ottobre 1981Source: Il Foro Italiano, Vol. 107, No. 7/8 (LUGLIO-AGOSTO 1984), pp. 1835/1836-1841/1842Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARLStable URL: http://www.jstor.org/stable/23177207 .
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1835 PARTE PRIMA 1836
febbraio 1975, n. 23, id., 1975, I, 249), ferma restando la garanzia del diritto di difesa di cui all'art. 24 Cost, (v., ad. es., la cit. sent,
n. 2500/79), inducono a ritenere che conseguenza unica {e non
da poco) della mancata richiesta di intervento del medico pubbli co (peraltro facente parte, secondo l'originaria disciplina, del
l'organizzazione dell'ente tenuto alle prestazioni previdenziali) sia
l'impossibilità per il datore di lavoro di far eseguire accertamenti
sanitari sull'infermità denunziata dal dipendente da parte di
sanitari o altre persone di sua libera scelta e fiducia.
L'avverbio « soltanto » va quindi riferito all'iniziativa del dato
re di lavoro, unicamente menzionato sia nel 1° che nel 2° comma
dell'art. 5, non anche all'attività del giudice, sovrana nella scelta
e valutazione degli elementi di convincimento, senza che ciò
incida sul divieto di prendere in esame accertamenti posti in
essere da parte datoriale in violazione della prescrizione e dei
limiti desumibili, nel senso predetto, dal citato 2° comma; limiti
che, se si dovessero ritenere dettati anche ai fini della protezione della sfera privata del lavoratore, non risultano di questa riduttivi
nel caso in cui il titolare del diritto di controllo non se ne
avvalga, affidando interamente al giudice l'indagine sulla sussi stenza delle infermità ostative della prestazione del dipendente.
Volendo dare qualificazione giuridica al controllo di cui si tratta deve notarsi che esso si atteggia come espressione di una facoltà accordata al creditore della prestazione, perché nell'eser cizio della sua pretesa possa cautelarsi nei confronti dell'obbliga to; ma, tenuto conto della specialissima natura della prestazione del lavoratore, l'accertamento cautelativo non può essere compiu to direttamente dal creditore bensì dà organo pubblico partico larmente qualificato.
L'esercizio del diritto di controllo implica l'obbligo accessorio del prestatore il quale tenuto a comportarsi in modo tale da
rendere attuabile l'accertamento cautelativo, non vi può opporre immotivato rifiuto e, ove si allontani dall'abituale residenza
(fattispecie presa in esame dalle sentenze nn. 2319/80, id., Rep. 1980, voce cit., n. 1099, e 1824/78, id., Rep. 1978, voce cit., n.
1033), deve comunicare il proprio recapito. I contegni omissivi sia dell'esercizio del diritto di controllo, che
dei cernati corrispondenti obblighi, non precludono, né limitano, la (libera) valutazione del giudice in ordine agli elementi di
prova non vietati, al fine di confermare od escludere la veridicità
della certificazione prodotta dal lavoratore, dichiaratosi infermo, e
di attribuire il giusto rilievo al rifiuto ovvero all'allontanamento
non comunicato, traendone opportune conseguenze circa la ripar tizione dell'onere della prova (oltre che disciplinari nei confronti
del dipendente inadempiente) Ad ulteriore dimostrazione che quello previsto dall'art. 5 non è
l'unico mezzo per contestare l'attendibilità del certificato prodotto per giustificare l'assenza è stato anche osservato (conf. sent.
4454/80, cit.) che in caso di assenza di durata inferiore al termine
contrattualmente stabilito per l'esibizione di tale certificato il datore di lavoro, non potendo utilmente ricorrere al controllo a
guarigione avvenuta, sarebbe, se si seguisse l'assunto del ricorren
te, privo di difesa.
Una tale eventualità non può avverarsi, se per le ragioni esposte si ritiene, come va quindi ribadito, che il controllo delle assenze per infermità previsto dall'art. 5 1. 20 maggio 1970 n.
300, che il datore di lavoro può chiedere ai sanitari dei servizi
ispettivi degli istituti previdenziali (competenti anteriormente alla
soppressione di tali enti), non costituisce l'unico mezzo conces so al datore di lavoro per contestare l'attendibilità del certificato medico prodotto dal lavoratore a giustificazione dell'assenza, es sendo tale certificato, soggetto, al pari di ogni altro documento, alla valutazione del giudice del merito, il cui convincimento è incensurabile in sede di legittimità se sorretto da motivazione
logica ed immune da vizi giuridici. Di tale principio ha fatto applicazione il Tribunale di Napoli
nel caso di specie. Il motivo va quindi respinto. Nel terzo, con la censura, appunto, di difetto di motivazione, il
ricorrente sostiene che il controllo della malattia non può util
mente espletarsi a mezzo della consulenza tecnica a guarigione avvenuta, come era avvenuto invece nel caso in esame, nel quale il tribunale, piuttosto che rilevare l'impossibilità dell'accertamento
per essere il Ventriglia guarito, ha desunto dallo stato attuale di
non infermità il convincimento che lo stesso si era convinto di
non poter insistere su una malattia mai esistita.
Osserva poi che il secondo consulente, prof. Bonavita, aveva
ritenuto prudente premettere al suo giudizio la frase « con ogni
probabilità »; sicché da tale giudizio il tribunale non avrebbe
potuto trarre la certezza dell'inestistenza della malattia.
II giudice di secondo grado, che con le ordinanze di ammissio
ne delle consulenze aveva rimesso ai consulenti il giudizio tecnico
sullo stato di malattia, avrebbe finito con l'esprimere invece il
suo convincimento cne i-1 Ventriglia non sia stato mai « affetto da
una vera e propria malattia nevrotica », sulla base di illazioni, come quella della dichiarazione dell'appellato della cessazione
della malattia e di arbitrarie considerazioni come quella basantesi
sull'ammissione del Ventriglia di aver continuato la sua opera pur con i disturbi accusati dal 1976 in poi, escludendo a priori che
ciò fosse avvenuto per spirito di attaccamento all'azienda.
Il tribunale infine avrebbe valutato in modo non corretto le
conclusioni del consulente prof. Bonavita, che, rispondendo al
quesito, -aveva affermato che « il periziando è portatore di tratti
personalogici, che hanno reso, rendono e renderanno sempre
difficili, proprio per essere tratti personalogici, l'integrazione del
Ventriglia in determinati contesti lavorativi o più genericamente
sociali, e cioè in ambienti che richiedano, per la integrazione, tolleranza e capacità di adattarsi », laddove ha affermato: « Non
v'è dunque un'infermità che abbia avuto incidenza sulla capacità di lavoro, anche se quei tratti caratteriali possono rendere difficile
l'integrazione in contesti lavorativi e sociali ».
Osserva il collegio che in tema di accertamento della legittimità ai sensi dell'art. 2110 c.c. del licenziamento intimato al lavoratore subordinato assente per malattia sul presupposto dell'inesistenza delle dedotte infermità impeditive della prestazione, l'ampio pote re di indagine del giudice del merito, che legittimamente si
esprime anche (e soprattutto) con la nomina di consulenti tecnici di ufficio, non trova limiti di ordine logico e, ancor meno, giuridici nel fatto che da una o da entrambe le parti si affermi che al momento dell'indagine sia intervenuta la guarigione della malattia denunziata, giacché a parte la possibilità di attuali riscontri obiettivi, il giudizio tecnico (che, contrariamente a
quanto assume il ricorrente, non può essere equiparato al control lo delle assenze di cui all'art. 5 1. 20 maggio 1970 n. 300) bene
può essere fondato su altri elementi di convincimento, già legit timamente acquisiti al processo e ricercati dall'ausiliario nei limiti dei poteri conferitigli e con le garanzie imposte a tutela delle
parti. Posto che nessuna preclusione impediva, nel caso, l'acquisizione
delle consulenze e, in particolare, di quella del prof. Bonavita, sulla quale il tribunale ha fondato il suo convincimento, deve
escludersi che questo giudice sia incorso nel vizio di erronea
interpretazione delle conclusioni della relazione peritale, in quan to sia il parere del consulente, quale esposto nella motivazione
della sentenza, sia i rilievi volti a giustificare l'adozione di esso a
preferenza di quello (di senso opposto) espresso dal primo consulente prof. Sessa, non sono esposti con le sole scarne frasi
riportate nel ricorso, essendo lumeggiati con ampiezza e attenta
ricostruzione dell'iter processuale e delle considerazioni logiche che indussero il collegio giudicante, prima, a disporre la rinnova
zione delle indagine e, poi, ad accogliere il parere del prof. Bonavita.
D'altra parte, anche dal tenore delle espressioni riportate nel ricorso non si desume un parere conforme all'assunto del ricor
rente, dal momento che il mettere in luce ineliminabili tratti
personalogici che rendono difficile l'adattamento a determinati
contesti lavorativi e sociali, non equivale all'affermazione di un
(temporaneo) impedimento alla prestazione lavorativa, che solo avrebbe potuto giustificare le assenze del Ventriglia.
Non merita pertanto censura, essendo congruamente motivata, la conclusione della sentenza, che « dal 4 dicembre 1979 le
condizioni di salute del Ventriglia non erano tali, come non lo
erano state in precedenza, nonostante la stessa sintomatologia, da
determinare una sua incapacità di attendere alle sue occupazioni».
Conseguentemente va rigettato anche il motivo ora esaminato.
(Omissis)
CORTE DI CASSAZIONE; Sezione I civile; sentenza 3 maggio
1984, n. 2680; Pres. Sandulli, Est. R. Sgroi, P. M. Paolucci
(conci, conf.); Caccia (Avv. Caravita Di Toritto, Resta, A.
Donati) c. Soc. coop, autotrasporti vimercatesi (Avv. Flauti,
Ideo, Magnocavallo). Cassa App. Milano 2 ottobre 1981.
Lavoro e previdenza (controversie in materia di) — Rapporto tra società e socio — Art. 409, n. 3, c.p.c. — Applicabilità —
Esclusione — Condizioni (Cod. civ., art. 2049; cod. proc. civ.,
art. 409, n. 3). Arbitrato e compromesso — Statuto societario — Controversie
tra società e socio — Clausola compromissoria per arbitrato ri
tuale — Sindaci — Funzioni arbitrali — Nullità (Cod. proc.
civ., art. 51, 815, 829; cod. civ., art. 1418).
Il rapporto tra società, ancorché cooperativa, e socio, che non rive
sta l'ulteriore qualifica di collaboratore o di lavoratore subordina
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GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE
to, in quanto preordinato all'esercizio in comune dell'impresa so
cietaria, esula dalla previsione dell'art. 409, n. 3, c.p.c. (1) È nulla la clausola compromissoria di statuto societario che attri
buisce a un collegio di arbitri rituali, costituito dai sindaci
della società, la cognizione delle controversie tra quest'ultima e
i soci. (2)
Svolgimento del processo. — Con citazione notificata il 29
giugno 1979 'Benedetto Caccia conveniva dinanzi alla -Corte d'ap pello di Milano la sjr.l. Cooperativa autotrasporti vimercatesi
(C.a.v.) per sentir dichiarare la nullità del lodo arbitrale —
depositato presso la Pretura di Monza il 5 aprile 1979, reso esecutivo dal Pretore di Monza il 27 aprile 1979 e notificato il 4
giugno 1979 — con il quale il collegio sindacale della convenuta, in veste di collegio arbitrale, aveva confermato l'esclusione dell'at tore dalla società, disposta con la delibera in data 13 febbraio
1979 del consiglio di amministrazione della società per la grave mancanza di non aver ottemperato alle disposizioni di servizio
noticategli il giorno precedente. A fondamento dell'impugnazione il Caccia deduceva: 1) la
nullità del deferimento della funzione arbitrale al collegio sin
dacale; 2) ila nullità del lodo per non avere il collegio arbitrale
fatto pervenire al socio escluso oopia del verbale contenente la
delibera di esclusione; 3) la nullità del lodo per violazione della
1. n. 300/70 e dell'art. 808 cjp.c., modif. dall'art. 4 1. n. 533/73;
'(1) La sentenza, che ribadisce principi ormai acquisiti tanto a proposito dei limiti di configurabilità della subordinazione nel rapporto tra società cooperativa di lavoro e socio (sul punto, in aggiunta ai precedenti richiamati in motivazione, si può consultare Cass. 11 maggio 1982, n. 2945, Foro it., 1984, I, 818, ricordata ad altro fine dalla
corte) quanto in ordine all'applicabilità dell'art. 409, n. 3, c.p.c. nell'ambito societario (in argomento, fra le altre, Cass. 24 marzo 1981, n. 1722, id., 1981, I, 1934), si discosta dall'affermazione, ritenuta
incidentale, di Cass. 9 ottobre 1979, n. 5214, id., Rep. 1979, voce Lavoro (rapporto), n. 308, circa la riconducibilità dei rapporti tra
cooperative di lavoro e soci nella previsione del cit. art. 409, n. 3, c.p.c.
L'enunciazione riprodotta nella massima è giustificata dalla riportata sentenza sul rilievo della impossibilità di ricomprendere rapporti come
quello di specie nella nozione di collaborazione, all'uopo delineata. Ma l'impostazione, se da un lato consente di individuare le caratte
ristiche, per così dire ontologiche, dei « rapporti di collaborazione » di cui al medesimo art. 409 da porre accanto a quelle degli specifici rapporti tipici (agenzia e rappresentanza commerciale) considerati dalla
norma, sembra valutare, dall'altro lato, il dato formale della natura dei
rapporti ai fini dell'applicabilità del ripetuto art. 409, in una prospetti va diversa dall'altra finora adottata dalla dottrina e dalla giurispruden za, concordi nel ritenere decisivo ai medesimi fini l'elemento obiettivo del carattere continuativo, coordinato e prevalentemente personale delle
prestazioni d'opera disimpegnate. (2) La corte riconduce la nullità della clausola compromissoria,
principalmente, alla violazione del dovere di imparzialità che è
requisito indispensabile dell'arbitrato rituale, alla stregua di considera zioni più rigorose di quelle svolte in precedenti occasioni.
Nella sent. 28 gennaio 1972, n. 244, Foro it., 1972, I, 600, con richiami e osservazioni di C. M. Barone, la stessa corte ha, infatti, reputato valida la clausola compromissoria, inserita nel contratto concluso da un privato con una istituzione pubblica di assistenza e beneficenza che, nel caso di mancato accordo tra gli arbitri designati dalle parti, demanda la scelta del terzo al prefetto, non potendosi ravvisare nel fatto che questo presiede il comitato provinciale di assistenza e beneficenza, organo autonomo e distinto dal suo presidente e con attribuzioni proprie, un vizio di legittimità del sistema di scelta
dell'arbitro, che importa il venir meno della sua imparzialità. Nella
precedente sent. 15 aprile 1971, n. 1060, id., 1971, I, 2563, con nota di richiami, tra i quali App. Brescia 24 febbraio 1965, id., Rep. 1965, voce Arbitrato, n. 17 (a proposito della ricusabilità del collegio arbitrale costituito dai sindaci nella controversia tra società e socio), la Cassazione ha affermato, altresì, che l'appartenenza di un arbitro alla branca della p.a., che è parte in causa, ne rappresenta motivo non di
incapacità, ma di ricusazione da far valere nei tempi e modi di rito. Circa i limiti di validità delle clausole compromissorie contenute
negli statuti societari che attribuiscono ai collegi probivirali la cogni zione delle controversie tra società e soci, cfr. Cass. 21 ottobre 1980, n. 5635, id., 1980, I, 2694, con osservazioni di C. M. Barone e 11
maggio 1982, n. 2945, cit.; adde, a proposito della nullità, ai sensi dell'art. 808 c.p.c., della clausola di statuto di società cooperativa di
lavoro che deferisce la controversia tra i soci e la cooperativa al
collegio dei probiviri, nella parte in cui si riferisce a contestazioni riconducibili a quelle previste dall'art. 409 c.p.c., Pret. Genova 7
novembre 1983, ibid., 878, con ulteriori indicazioni. La regola secondo cui alla nomina degli arbitri devono concorrere
tutte le parti, tenuta presente tanto dalla sent. n. 5635 del 1980 quanto dalla successiva n. 2945 del 1982, è stata considerata, nella parte non pubblicata, anche da Cass. 15 marzo 1983, n. 1900, id., 1983, I, 883, concernente fattispecie di inoperatività della clausola compromissoria contenuta in atto costitutivo di società in accomandita semplice relativamente all'azione di revoca dell'amministratore.
4) la nullità del lodo per violazione del principio del contraddit
torio; 5) l'insussistenza della gravità dell'infrazione, ai sensi dell'art. 1455 c.c. e della 1. n. 300/70.
La società cooperativa convenuta si costituiva, chiedendo il
rigetto dell'impugnazione. La Corte d'appello di Milano con sentenza 2 ottobre 1981
rigettava l'impugnazione e condannava il Caccia al pagamento delle spese processuali.
La corte osservava che il primo motivo era infondato, sotto entrambi i profili dedotti per contestare il requisito dell'imparzia lità degli arbitri. Infatti tale requisito sussiste quando la scelta avviene indipendentemente dalla singola controversia, ad opera di un'assemblea della quale fa parte anche colui che potenzialmente è futura controparte della società nel giudizio arbitrale. Inoltre nessuna incompatibilità sussiste fra le funzioni arbitrali e quelle dei sindaci, essendo quella sindacale una funzione di controllo la quale non impedisce in astratto di riconoscere ai componenti del collegio sindacale l'idoneità a giudicare.
La corte di Milano respingeva poi il terzo motivo, escludendo che nella specie si trattasse di controversia di lavoro subordinato, non avendo tale natura il rapporto fra il socio e la cooperativa di lavoro.
Rigettava infine il secondo ed il quarto motivo, osservando che l'oggetto della lite era noto fin dall'origine al Caccila al quale oon lettera del 14 febbraio 1979 era stata data notizia sia del provvedimento di esclusione, sia dei motivi che avevano determi nato tale provvedimento e che ogni ulteriore attività istruttoria del collegio arbitrale avrebbe potuto svolgersi su iniziativa del socio, se questi avesse partecipato al giudizio arbitrale con la dovuta diligenza e non si fosse rifiutato di partecipare all'udienza del 19 marzo 1979 dinanzi al collegio arbitrale, dopo aver ricevuto l'invito a comparire (validamente fatto pervenire a lui personalmente, anziché al suo difensore). La corte non esaminava l'ultimo motivo.
Avverso la suddetta sentenza il Caccia ha proposto ricorso per cassazione, illustrato con memoria. La soc. Cooperativa autotra sporti vimercatesi ha resistito con controricorso.
Motivi della decisione. — È di carattere pregiudiziale l'esame del secondo motivo del ricorso, oon il quale il Caccia deduce la Violazione (ai sensi dell'art. 360, ntt. 3 e 5, c.p.c.) dell'art. 808
c.p.c., dell'art. 409 c.p.c., dell'art. 4 e 5 1. 11 agosto 1973 n. 533, in relazione agli art. 2094, 2511 e 2247 c.c., lamentando che la corte d'appello, per affermare la validità del patto compromisso rio inserito nello statuto sociale anche laddove la controversia fra socio e società verta in tema di esclusione per causa di infrazioni
disciplinari alla prestazione lavorativa, abbia motivato soltanto sull'esclusione del carattere subordinato del rapporto di lavoro corrente fra il socio e la società cooperativa.
Il ricorrente obietta (in relazione alla non compro me ttibilità ad arbitri delle controversie di cui all'art. 409 c.p.c.) che l'art. 409 non considera soltanto le prestazioni correlative ad un rapporto di lavoro subordinato, ma tutte quelle che, comunque, comporti no una necessità di un unico giudice che risolva le questioni ove il rapporto di lavoro sussista oomunque. Infatti, il n. 1 dell'art. 409 precisa l'estensione delle controversie -di lavoro anche a
quelle inerenti all'esercizio di un'impresa; ed in questa fattispecie può ricadere la prestazione di un socio, per l'interesse del socio oome tale nell'esplicazione dell'attività sociale. Inoltre, il n. 3 dell'art. 409 comprende gli altri rapporti di collaborazione che si concretino in una prestazione di opera continuativa e coordinata, prevalentemente personale, anche se non a carattere subordinato; e non può sussistere dubbio che i soci di una cooperativa prestino un'opera continuativa e coordinata, anche se non a carattere subordinato.
D'altra parte, continua il ricorrente, i motivi che portarono all'esclusione del Caccia furono quelli inerenti ad una prestazione di lavoro subordinato e non ad una violazione di un patto sociale, perché si contestava al Caccia di non aver ottemperato alle disposizioni di servizio notificategli per iscritto, attraverso
prassi normale, dal responsabile, il che attestava che la contesta zione faceva riferimento alla violazione della subordinazione dovuta al responsabile dei 'lavori sociali e provava l'esistenza di un vero e proprio rapporto di lavoro subordinato.
Comunque, non è passibile una diversità di trattamento in sede
processuale fra un prestatore di lavoro nell'interesse di una
cooperativa di cui il lavoratore stesso è socio, ed un prestatore di lavoro subordinato presso un'impresa, in quanto la prestazione di lavoro è identica, sia se svolta da un socio per la cooperativa, sia dal prestatore di lavoro subordinato in un'impresa, ai sensi dell'art. 2094 c.c.; ed è perciò che l'art. 409, n. 1, e l'art. 409, n.
3, devolvono ad un unico giudice del lavoro tutte le controversie
interessanti, oltre al vero e proprio lavoro subordinato, anche
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1839 PARTE PRIMA 1840
quell'attività lavorativa che concretizzi un'opera continuativa e
coordinata, prevalentemente personale, anche se a carattere non
subordinato, come potrebbe essere la prestazione di un socio lavoratore di una società cooperativa. Doveva quindi applicarsi la 1. 11 agosto 1973 n. 533, in relazione all'inammissibilità della decisione arbitrale, prevista dallo statuto speciale come arbitrato di equità, in quanto l'art. 4 1. oit. richiama l'art. 409, n. 1 e n. 3,
per la nullità del patto compromissorio. Il motivo è infondato. Nella specie, secondo la prospettazione
stessa .della parte attrice, non era configurabile un rapporto di lavoro subordinato che potesse rendere applicabile il combinato
disposto degli art. 409, n. 1, 806 e 808 c.p.c. (modif. dall'art. 4 1. n. 533 del 1973) allo scopo di dichiarare la non compromettibilità in arbitrato rituale (previsto da un contratto individuale o da uno statuto di società) della presente controversia.
Invero, la coesistenza nello stesso soggetto della qualità di socio di una cooperativa di lavoro e di lavoratore subordinato alle dipendenze della medesima sooietà — pur essendo configura bile in astratto — deve escludersi quando l'attività svolta dal socio in favore della cooperativa Si traduca in prestazioni rivolte a consentite alla cooperativa il conseguimento dei suoi fini istituzionali (Cass. 8 giugno 1977, n. 2360, Foro it., Rep. 1977, voce Lavoro (rapporto), n. 385; 26 ottobre 1977, n. 4611, id., 1978, I, 414; 22 luglio 1980, n. 4785, id., Rep. 1980, voce
Competenza civ., n. 173); né può rilevare, in contrario, che il socio sia tenuto all'osservanza di turni .di servizio (Cass. 4 maggio 1983, n. 3068, id., 1984, I, 814). Nella specie, pertanto, poiché la prestazione lavorativa era richiesta al socio — come è pacifico —
soltanto per la sua qualità di socio, tenuto all'osservanza di regole emanate dalla società nell'organizzazione del lavoro stesso (che costituiva lo scopo dell'oggetto sodale) il rapporto era sottoposto soltanto alla disciplina del contratto associativo.
Il problema non deve essere risolto, ad avviso della corte, in termini diversi, in relazione al disposto dellìart. 409, n. 3, c.p.c. La sentenza 9 ottobre 1979, n. 5214 (id., Rep. 1979, voce Lavoro
(rapporto), n. 308), dopo aver confermato l'indirizzo già supra citato, secondo cui l'attività svolta dal socio in favore di una
cooperativa di produzione e lavoro non è riconducibile ad un rapporto di lavoro subordinato, ha incidentalmente osservato, in
motivazione, che i rapporti fra cooperativa e socio lavoratore
possono rientrare tra quelli le cui controversie sono di competen za del giudice del lavoro a norma dell'art. 409, n. 3; ina l'affermazione non costituisce la vera ratio decidendi, che consiste nell'altra secondo cui la competenza è determinata in base alla
pretesa dedotta in giudizio. Parimenti non pertinenti sono le sentenze 28 febbraio 1978, n.
1029 (id., 1979, I, 789) e 9 febbraio 1979, n. 914 (id., Rep. 1979, voce cit., n. 88) secondo le quali il rapporto fra la compagnia portuale e i lavoratori che ne fanno parte rientrano nel novero dei rapporti di collaborazione previsti dall'art. 409, n. 3, data la
peculiarità dell'ordinamento delle compagnie portuali (che ha fatto dubitare la dottrina che si tratti di .società cooperative secondo lo schema del codice civile). Infatti i lavoratori portuali — come hanno rilevato le sentenze citate — sono legati alle compagnie alle quali sono iscritti da un rapporto che, pur non essendo di lavoro subordinato, presenta le caratteristiche quanto meno di quella « para-subordinazione » che è necessaria per poter applicate l'art. 409, n. 3 (essi hanno -diritto ad un salario minimo
garantito, nonché ad un salario differito sotto specie di indennità di buonuscita; sono soggetti alla disciplina del lavoro straordina rio e festivo, alle sanzioni disciplinari, ecc.). Si veda Cass. 17 ottobre 1983, n. 6067 (id., Rep. 1983, voce Lavoro portuale, n. 5).
È poi appena il caso di ricordare che la qualifica di « datori di lavoro » agli effetti della legislazione previdenziale, conferita tanto alle società cooperative nei confronti dei propri soci, quanto alle
compagnie portuali nei confronti deli propri iscritti (art. 9 d.p.r. 30 aprile 1970 n. 602) non costituisce argomento risolutivo per la definizione del rapporto tanto ai fini privatistici che processuaii stici, posto che llart. 442 c.p.c. non ha il medesimo raggio dazione dell'art. 409 c.p.c.
Nell'ambito della previsione dell'art. 409, n. 3, rientrano —
oltre i rapporti di agenzia e di rappresentanza commerciale —
altri rapporti di collaborazione volti al conseguimento di un
risultato per mezzo di una prestazione caratterizzata dai requisiti della continuità, del coordinamento e della preminenza del con tributo di lavoro personale del contraente.
Prima ancora di scendere all'esame dei suddetti tre requisiti (e fermo quello .della non subordinanazione) occorre però stabilire che si tratti di un rapporto di « collaborazione », termine questo che è usato nella rubrica della sez. II, capo I, titolo II, libro V del codice civile e nel testo dell'art. 2094 che definisce il
prestatore di lavoro subordinato. È un termine che ha riguardo
alla causa del contratto, ila quale implica un rapporto, fra due centri di interessi distinti, caratterizzato -dallo scambio di presta zioni. Tale termine, il cui carattere essenziale non può discono
scersi, non può attagliarsi al contratto di società, nel quale lo
scopo -fra i contraenti è comune e quindi trascende la mera « collaborazione » (Cass. 17 gennaio 1969, n. 94, id., Rep. 1969, voce Società, n. 118; 17 gennaio 1978, n. 206, id., Rep. 1978, voce cit., n. 139), nel senso in cui il termine è usato dalle citate norme di legge, e cioè in antitesi ,all'associazione.
Si deve pertanto concludere nel senso che, in linea di princi pio, il rapporto fra il socio e la -società (anche se si tratta di società cooperativa), visto nella sua tipicità, non rientra fra quelli ai quali si riferisce l'art. 409, n. 3. Si -devono eccettuare i casi nei
quali, oltre la sua qualifica tipica, il socio ne rivesta un'altra di collaboratore {come nel caso dell'amministratore: Oass. n. 4028 -del 1980, id., Rep. 1980, voce Lavoro e previdenza (controversie), n. 85, o -del sodo-direttore commerciale: Oass. n. 584 del 1976, id., Rep. 1976, voce cit., n. 71); ed i oasi — già accennati — nei
quali il socio riveste -anche la qualifica di lavoratore subordinato, ma non per la sua posizione di socio. In altri termini, si deve
sempre distinguere fra la prestazione a favore di un altro soggetto che esercita l'impresa e l'esercizio in comune dell'impresa societa ria. Dove esiste tale esercizio in comune non vi può essere né
subor-di-nazione né parasubordimazione -(-anche se esistono elementi simili a tali figure) e quindi non può applicarsi l'art. 409 c.p.c.
-Con il primo motivo il Caccia -deduce la violazione degli -art.
828, 829, n. 4, 807, 808 c.p.c., in relazione -agli art. 4 e 5 1. 11
agosto 1973 e 409 cjp.c., 2403, 2405, 2488 e 2535 c.c., con riferimento ai patti 14, 22, 34, 39, 41 dello statuto della C.A.V., ai sensi dell'art. 360, nn. 3 e 5, c.p.c., lamentando che la corte
-d'appello, con errata, contraddittoria ed omissiva motivatone, -abbia ritenuto non sussistente l'incapacità -alla funzione arbitrale dei sindaci.
La oort-e -d'appello -non ha tenuto presente, secondo il ricorren
te, il fatto che i sindaci per -norma statutaria hanno la possibilità di partecipare alle riunioni del consiglio di amministrazione per cui essi non sono estranei alla formazione della volontà sociale, sicché una loro funzione arbitrale (comportante imparzialità ed
indipendenza) -non potrebbe che essere necessariamente condizio nata.
Il motivo è fondato. Il problema della designazione -degli -arbitri da parte -dell'assemblea della società deve essere considera to (prima ancora che sotto -il profilo -della riferib'ilità della nomin-a tanto -alla volontà della società -che -a quella del socio con -il quale è insorta la controversia: cfr., fra le altre Cass. -11
maggio 1982, m. 2945, id., 1984, I, 818; 30 marzo 1981, n. 1826, id., Rep. 1981, voce Arbitrato, n. 59; 27 -luglio 1976, n. 2986, id.,
Rep. 1976, voce ci-t., n. 37; 7 febbraio 1968, -n. 404, id., 1968, I,
1233) in relazione alla necessità che la nomina ricada su soggetti
-imparziali, in quanto la funzione -arbitrale può essere svolta
soltanto da tali soggetti, secondo un principio -d'ordine pubblico. E pertanto, anche una nomina fatta d'accordo fra le parti che
non rispetti tale principio, è nulla -ai sensi dell'art. 1418 c.c.
Sotto il profilo indicato, si deve nettamente distinguere il caso delle -funzioni arbitrali espletate -dal collegio dei probiviri (che
-per alcuni tipi -di -società cooperative, come i consorzi -agrari, sono previsti per legge) da quello -delle funzioni medesime
espletate dai sindaci (o direttamente o, come nella specie, i-n
sostituzione -del collegio dei probiviri, mancante perché non
nominato). iLa corte ritiene che -ai sindaci non possano essere affidate
funzioni di -arbitri rituali, nelle controversie -fra -sodietà e socio. I sindaci possono -essere -soci i(airt. 2397, 2535 c.c.); -essi, oltre alla funzione di controllo, hanno un potere di iniziativa analogo a
quello degli amministratori (in tema di impugnativa di delibera
zioni, ad es.) o in -sostituzione di essi -(-art. 2406; art. 2386, ult.
comma) o in unione con essi (art. 2426, 2427). La stessa -assistenza -alle sedute -nelil-e -quali vengono prese le -deliberazioni -da impugnare può comportare un -sospetto di parzialità (art. 2405
c.c.). A parte i -suddetti elementi, che sono tutti indici significativi di
una posizione non secondaria dei sindaci nell'ambito dell'ammi
ni-str-azione soci-ale (e, d'altra parte, la funzione di « controllo » ex
-art. 2403 -non è altro che un aspetto dell'amministrazione, come tale distinta dalla funzione giurisdizionale) Si -deve sottolineare
che i sindaci sono legati alla società d-a un rapporto di prestazio ne -d'opera intellettuale, ex art. 2230 c.c. (Cass. 23 aprile 1975, n.
1579, id., 1976, I, 1670) e quindi hanno il dovere -di perseguire l'interesse del committente che li retribuisce.
Non è possibile conciliare tale dovere, dipendente da un
-rapporto specifico con la società (sia esso fondato su un contratto o su un atto di nomina, non interessa, perché quello che cont-a
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GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE
sono i doveri che ne nascono ex art. 2407 c.c. e norme da esso
richiamate, verso la società, d creditori sociali ed i terzi) con il
dovere di imparzialità che è requisito indispensabile dell'arbitro
rituale. È infatti -logicamente impensabile che un arbitro, nell'e
sercizio dei suoi compiti, possa incorrere in una responsabilità in
forza di un rapporto particolare con uno dei litiganti (diverso dal
rapporto che ha dato luogo alla nomina) perché nel caso di
conflitto fra i due tipi di doveri l'intendimento di osservarne uno
potrebbe far violare l'altro (arg. ex art. 51 cjp.c., richiamato
dall'art. 815). Il problema trascende però i limiti della ricusazione
(che riguarda gli arbitri non nominati dalla parte che ricusa)
perché la norma sulla ricusazione si coordina appunto con un
tipo di nomina distribuito fra le parti e tende ad assicurare
l'imparzialità degli arbitri, pur tenendo conto che nella dialettica
deillarbitrato vi possono essere gli arbitri — nominati da una
parte — che sono tenuti a sostenere le ragioni di colui che
rappresentano in -seno al giudizio e quindi possono essere i
professionisti della parte che ili nomina.
Quando la nomina, dnveoe, è riferibile ad entrambe le parti (cfr. Oass. n. 404 del 1968; n. 2986 del 1976), secondo un sistema
che implica che essa ricada su soggetti che rivestono una deter
minata qualifica, comune a tutti -gli arbitri, ma in conflitto con la
funzione arbitrale, il problema non è più quello del « gradimen to » riservato all'apprezzamento ed alla disponibilità del soggetto, secondo la logica dell'art. 815 c.p.c., in quanto trascende l'interes
se particolare ed attiene all'ordine pubblico. Non può infatti
ammettersi che la legge oonsenta un tipo di arbitrato « parziale ».
Come .si è già rilevato, il conflitto fra i doveri del sindaco della
società e ile funzioni arbitrali potrebbe nascere anche ai danni
della società e .indipendentemente dall'intendimento dell'arbitro di
osservare i propri doveri nascenti dal rapporto particolare in forza
del quale egli è sindaco della società in lite con il socio, e cioè
proprio in ragione del fatto che egli voglia tutelare obiettivamen
te gli interessi del socio (con il quale quel rapporto particolare non sussiste), per cui il socio potrebbe non avere interesse alla
ricusazione.
È la legge che deve preoccuparsi degli interessi preminenti della serietà del giudizio arbitrale ed impedire che tale tipo di conflitto sorga obiettivamente, e cioè indipendentemente dalla
volontà delle parti, ponendo un limite all'autonomia privata (art. 1418 c.c.)
Deve, pertanto, concludersi nel senso che è nulla la clausola
compromissoria di uno statuto di società che deferisca le contro
versie fra la società ed i soci a un arbitrato rituale, prevedendo che ;il collegio arbitrale sia formato dai sindaci della società.
L'accoglimento del primo motivo comporta, ovviamente, l'assor
bimento .del terzo, quarto e quinto motivo.
La sentenza impugnata va rimessa ad altra sezione della Corte
d'appello di Milano. (Omissis)
CORTE DI CASSAZIONE; Sezione III civile; sentenza 14
aprile 1984, n. 2419; Pres. Gabrieli, Est. Scala, P. M. Ca
risto (conci, conf.); Rovegno (Avv. Gaito, Simonetti, V. Te
deschi) c. Rovegno (Avv. Perrone, Boggiano, Bongiorno
Gallegra). Conferma App. Genova 26 settembre 1981.
Rendita vitalizia — Vitalizio oneroso — Alea — Sussistenza —
Estremi (Cod. civ., art. 1872).
Nel contratto di vitalizio oneroso l'esistenza dell'alea deve essere valutata con riferimento all'età ed allo stato di salute del
vitaliziato ed al valore dei frutti dei beni trasferiti al vitali ziante: in relazione al primo elemento, il verificarsi della morte del vitaliziato immediatamente dopo la stipulazione del contrat to non è sufficiente ad escludere l'esistenza del rischio, richieden
dosi, invece, un collegamento causale dell'evento letale ad un
preesistente stato morboso che, per la sua natura e gravità,
faccia apparire sicura o estremamente probabile la morte del
vitaliziato, ovvero che questi abbia un'età talmente avanzata da
non poter certamente sopravvivere, anche secondo le previsioni
più ottimistiche, oltre un arco di tempo determinabile; in
relazione al secondo elemento, l'alea va esclusa quando i frutti dei beni trasferiti al vitalhiante siano di valore eguale o
superiore alla rendita costituita a suo carico e tali da far ritenere che detto rapporto non subirà modifiche di rilievo per tutta la durata del vitalizio. (1)
(1) I criteri d'indagine per valutare la sussistenza dell'alea nel contratto di rendita vitalizia sono analiticamente passati in rassegna da Cass. 16 giugno 1981, n. 3902, Foro it., 1982, I, 477, con osservazioni
Il Foro Italiano — 1984 — Parte /-118.
Svolgimento del processo. — Con atto di citazione del 9
dicembre 1976 Pasqualina, Giovanni Battista e Silvia Rovegno convenivano in giudizio avanti al Tribunale di Genova la sorella
Agostina Rovegno per sentir dichiarare la nullità per mancanza
di causa (stante l'assoluta carenza di alea), la simulazione o,
comunque, l'annullamento per incapacità naturale del contratto oneroso di rendita vitalizia stipulato dalla convenuta con atto
notar Grifoni di Chiavari in data 14 agosto 1970, con il quale la
Agostina Rovegno si era resa acquirente dell'intero patrimonio del comune genitore Rovegno Antonio (novantenne all'epoca della
stipula dell'atto) impegnandosi a corrispondere all'alienante ed
alla di lui moglie, madre delle parti, signora De Ferrari Caterina
(settantatreenne all'època della stipula), diecimila lire mensili vita
naturai durante, oltre vitto e alloggio, vestiario e cure mediche.
Conseguentemente l'adito tribunale dichiarasse che i beni oggetto dell'atto dovevano ritenersi caduti nella successione legittima del
Rovegno Antonio e per sentir infine dichiarare la divisione dei beni.
La convenuta si costituiva, deducendo l'assoluta infondatezza
della domanda. Veniva, quindi, ammessa una consulenza tecnica che accertava che i beni, oggetto del contratto impugnato, aveva
no all'epoca della stipula, il valore di lire 9.843.000.
Con sentenza 19 novembre 1979-12 gennaio 1980, il Tribunale
di Genova rigettava la domanda condannando gli attori alle
spese. Silvia e Pasqualina Rovegno impugnavano la sentenza, chie
dendone la riforma e sostenendo: a) l'affermazione del tribunale,
secondo cui la mancanza di causa nei negozi tipici sarebbe
irrilevante al fine della pronuncia della nullità del contratto,
costituirebbe errore di diritto, essendo vero il contrario; b)
l'ulteriore affermazione, secondo cui il contratto vitalizio sarebbe
stato comunque valido, in quanto le obbligazioni assunte avreb
bero equamente compensato il valore del bene acquistato, non
avrebbe rilevanza, in quanto l'asserzione di un esborso presuntivo di lire 90 mila mensili, oltre che sfornito di prova, sarebbe
fantasiosa e priva di fondamento; c) avrebbe errato la sentenzia
laddove afferma che la domanda di simulazione del negozio non
sarebbe accoglibile per mancanza di prova scritta, in quanto gli
appellati non sarebbero terzi rispetto al negozio impugnato; d) sarebbe errata la pronuncia per aver respinto la seconda doman
da subordinata (la tesi, cioè, della incapacità di intendere e di
volere) essendo chiaro il pregiudizio derivante ad una persona
novantenne, gravemente ammalata, dalla stipula di un atto del
genere di quello in questione Con sentenza 9 giugno-26 settembre 1981 la Corte d'appello
di Genova rigettava la proposta impugnazione.
di Di Paola, cui adde Cass. 9 aprile 1980, n. 2283, id., Rep. 1981, voce Rendita vitalizia, n. 1.
Nella fattispecie ora decisa con la sentenza in epigrafe era posto a
carico del vitaliziante l'obbligo di corrispondere, oltre una rendita
mensile in denaro, vitto, alloggio, vestiario e cure mediche ai vitalizia ti. Si trattava, dunque, di una forma mista, comprendente in sé gli elementi del vitalizio in senso stretto e del c.d. vitalizio assistenziale, che a sua volta viene distinto dal c.d. vitalizio alimentare o di
mantenimento, in cui il vitaliziante è tenuto solamente alla prestazione degli alimenti al vitaliziato (la distinzione è evidenziata da Cass.
3902/81). Nella sentenza qui riportata non viene affrontato esplicitamen te il problema della qualificazione giuridica di tale tipo di contratto. Ciò non significa che la sua soluzione sia scontata. In giurisprudenza si registra, anzi, una divergenza marcata tra l'indirizzo che ravvisa nel
vitalizio assistenziale una forma particolare o una sottospecie della
rendita disciplinata dagli art. 1872 ss. c.c. (da ultimo, in tal senso,
rispettivamente Cass. 15 marzo 1982, n. 1683, id., Rep. 1982, voce cit., n. 2; 3902/81) e l'orientamento che lo qualifica alla stregua di contratto atipico, affine alla rendita, ma che da esso si discosta perché ha per oggetto una serie di prestazioni di fare variabili e discontinue con il mutare delle esigenze del vitaliziato ed incoercibili per il loro contenuto anche morale e spirituale (cosi Cass. 15 febbraio 1983, n.
1166, id., 1983, I, 933, con osservazioni di Cuffaro, cui adde, nel senso della atipicità, Cass. 4 maggio 1982, n. 2756, id., Rep. 1982, vo ce Contratto in genere, n. 73; 27 aprile 1982, n. 2629, ibid., n. 72).
Ad ogni modo quando la rendita assume la forma del vitalizio alimentare o assistenziale 1'aleatorietà viene accentuata per la variabili tà della prestazione posta a carico del vitaliziante (Cass. 3902/81) e
l'indagine per accertare la sua esistenza deve essere condotta in modo
da accertare anche l'effettivo contenuto di tale prestazione, per stabilire
se essa sia circoscritta agli alimenti in senso stretto, presupponenti uno
stato di bisogno, ovvero prescinda da tale stato e soddisfi esigenze più
ampie di mantenimento (Cass. 24 marzo 1982, n. 1880, id., Rep. 1982, voce Rendita vitalizia, n. 5).
In dottrina, da ultimo, sull'alea nel contratto in genere, Bianca, Diritto civile, Milano, 1984, III, 463 ss.; Sacco (e De Nova), Obbligazioni e contratti, in Trattato di diritto privato, diretto da
Rescigno, 10, Torino, 1982, 452 ss.
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