Sezioni unite civili; sentenza 25 novembre 1983, n. 7072; Pres. F. Greco, Est. Maltese, P. M.Corasaniti (concl. conf.); Calderisi (Avv. Chiola, De Martini) c. Commissione parlamentare perl'indirizzo generale e la vigilanza dei servizi radiotelevisivi (Avv. dello Stato Azzariti).Regolamento di giurisdizioneSource: Il Foro Italiano, Vol. 107, No. 5 (MAGGIO 1984), pp. 1327/1328-1339/1340Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARLStable URL: http://www.jstor.org/stable/23175701 .
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1327 PARTE PRIMA 1328
sia di quella delle parti « quae se gravatam putet ». Ciò conferma che al procedimento di secondo grado che fosse definito con ratifica mancava quel carattere contenzioso proprio dei giudizi d'appello previsti dal nostro ordinamento, dovendo ravvisarvisi solo un controllo d'ufficio preordinato e obbligatorio sia pure da un organo giurisdizionale superiore, che, a sua volta, era suscettibile di ulteriore impugnazione, e quindi con piena possibi lità di successiva difesa delle parti. Non appare, pertanto, neces saria per queste ultime la previa comunicazione o notificazione, di quel procedimento non contenzioso, che la stessa ricorrente ha definito nel ricorso « c.d. di secondo grado », riconoscendone, in tal modo, sebbene a diverso fine, la particolarità.
Infine, non è fuor luogo osservare che lo stesso legislatore canonico ha manifestato e confermato quell'indirizzo sulla natura della fase menzionata con il recente nuovo codice, il cui canone 1682 ha eliminato, anche sotto il lato formale, la impugnazione del difensore del vincolo, disponendo la sola trasmissione d'ufficio della causa dal primo al secondo giudice.
Tale diversità dei due ordinamenti, italiano e canonico, proprio per questa forma del giudizio di secondo grado, è stata anche riconosciuta e ammessa dalla Suprema corte con recente pronun zia (Cass. 14 maggio 1982, n. 3024, id., 1982, I, 1880). Questa, premettendo che l'indagine sulla tutela dell'ordine pubblico italia no riguarda solo quelle norme che involgano principi costituzio nali dello Stato, i quali non sono violati dalla esistenza di secondarie differenze che non incidono su di essi, ha escluso che costituisca ostacolo alla declaratoria della esecutività delle senten ze ecclesiastiche dichiarative della nullità del matrimonio la circostanza che per far luogo al giudizio di secondo grado sia
prevista la mera facoltà del giudice di chiedere alle parti le « animadversiones ».
Deve, pertanto, rigettarsi il primo motivo del ricorso per la rilevata infondatezza delle censure in esso prospettate. (Omissis)
CORTE DI CASSAZIONE; Sezione I civile; sentenza 29 no vembre 1983, n. 7157; Pres. Brancaccio, Est. Battimelli, P. M. Dettori (conci, conf.); Min. finanze (Avv. dello Stato Vittoria) c. Soc. immob. Tornese. Cassa Comm. trib. centrale 8 aprile 1980, n. 2740.
Tributi in genere — Ricorso alla Commissione tributaria centrale — Termine — Deposito presso la segreteria della Commissione tributaria centrale — Inammissibilità (D.p.r. 2 ottobre 1972 n.
636, revisione della disciplina del contenzioso tributario, art. 25).
La tempestività del ricorso alla Commissione tributaria centrale deve essere accertata in relazione alla data in cui il ricorso
perviene alla segreteria della commissione che ha emesso la decisione impugnata (nella specie, il ricorso era stato presentato nel sessantesimo giorno alla segreteria della Commissione tribu taria centrale anziché alla segreteria del giudice a quo; la
prima provvide alla trasmissione degli atti alla commissione di secondo grado che aveva emesso la decisione impugnata, atti che giunsero a destinazione oltre il termine dei sessanta giorni indicato dall'art. 25 d.p.r. 636/72). (1)
Motivi della decisione. — Il primo motivo di ricorso è fondato. Ai sensi del 1° comma dell'art. 25 d.p.r. 26 ottobre 1972 n.
(1) La sentenza si uniforma all'indirizzo che — dopo le prime oscillazioni — ha finito per prevalere; cfr. Comm. trib. centrale 16 marzo 1982, n. 1273, Foro it., Rep. 1982, voce Tributi in genere, n. 809; Cass. 25 luglio 1981, n. 4826, ibid., n. 807; 25 luglio 1981, n. 4829, id., 1981, I, 2119, con nota di richiami.
A questo orientamento si riallacciano quelle decisioni secondo cui è improcedibile l'appello dell'ufficio finanziario notificato direttamente alla controparte anziché presentato alla segreteria del giudice a quo: Cass. 7 giugno 1982, n. 3442, id., Rep. 1982, voce cit., n. 628, e quelle secondo cui l'atto di appello dell'ufficio finanziario deve perve nire nei sessanta giorni alla segreteria del giudice a quo: Comm. trib. centrale 7 dicembre 1981, n. 3711, ibid., n. 657.
La decadenza dal potere di impugnare è impedita se il ricorso è presentato alla segreteria della commissione di secondo grado entro il sessantesimo giorno (art. 25, 3° comma, d.p.r. 636/72) e non se entro tale termine è spedito il ricorso come prevedono gli art. 17 ss. d.p.r. cit., riguardo all'instaurazione del giudizio innanzi alla commissione di primo o di secondo grado: Cass. 18 giugno 1982, n. 3729, ibid., nn. 650, 803, che ha ritenuto infondata la questione di costituzionalità in riferimento agli art. 24 e 113 Cost.; conf. Cass. 18 giugno 1982, n. 3730, ibid., n. 804; 7 luglio 1981, n. 4432, ibid., n. 808; Comm. trib. centrale 17 gennaio 1981, n. 11250, ibid., n. 651; 20 novembre 1980, n. 11978, ibid., n. 810. Il d.p.r. 3 novembre 1981 n. 739 non ha ap portato modifiche sullo specifico punto risolto dalla sentenza in epigrafe.
636, il ricorso alla Commissione centrale va proposto nei sessanta
giorni decorrenti dalla notificazione o dalla comunicazione del
dispositivo della decisione impugnata. Trattandosi di termine per
proporre impugnazione, non vi è dubbio che esso comporti una
decadenza; si che l'impugnazione va riconosciuta tardiva, e con
seguentemente inammissibile, ove il detto termine venga superato,
per mancato adempimento, entro il termine stesso, alle formalità
prescritte per l'esercizio dell'impugnazione. Dette formalità sono previste al 3° comma del medesimo art.
25, in forza del quale il ricorso va presentato alla segretaria della
commissione che ha emesso la decisione impugnata (analogamente a quanto previsto, per l'appello, dal 2° comma dell'art. 22 del
medesimo decreto n. 636/72). A cura della segreteria, poi, copia del ricorso è notificata alla controparte, alla quale spetta un
termine di sessanta giorni per la presentazione di memorie e di
eventuale impugnazione incidentale, da presentarsi ugualmente alla segreteria del giudice a quo-, infine, decorso un ulteriore
termine a disposizione delle parti per il ritiro di copia delle
deduzioni di controparte e per prendere visione del fascicolo, gli atti sono trasmessi alla Commissione centrale per la decisione.
In concreto, pertanto, tutta l'istruttoria dell'impugnazione av
viene a cura della segreteria del giudice che ha emesso decisione
impugnata, si che gli atti non pervengono alla Commissione centrale se non quando sono pronti per la decisione. Tutta l'impugnazio ne, quindi, con la successione cronologica dei vari termini a
disposizione della segreteria e delle parti, è collegata alla presen tazione del ricorso alla segreteria del giudice a quo, sì che nessuna rilevanza può avere la presentazione del ricorso medesi mo alla segreteria del giudice ad quem, che non è competente alla predisposizione dei vari adempimenti necessari per l'acquisi zione di tutti gli atti sui quali la Commissione centrale dovrà fondare la propria decisione.
Nel caso di specie, quindi, essendo il ricorso stato inviato direttamente alla Commissione centrale, la tempestività dell'impu
gnazione va accertata non già in funzione della data di ricezione del ricorso da parte della segreteria della Commissione centrale, bensì in funzione della data dell'unico termine previsto dal
legislatore per l'inizio delle operazioni preliminari alla decisione della Commissione centrale, ossia della data di ricezione del ricorso da parte della segreteria del giudice a quo-, di conseguen za, pur essendo il ricorso pervenuto entro il sessantesimo giorno dalla comunicazione del dispositivo alla segreteria della Commis sione centrale, essendo stato l'atto da questa trasmesso alla
segreteria della commissione di secondo grado per l'adempimento di quanto prescritto dai comma 4° ss. dell'art. 25 d.p.r. n. 636, la
tempestività del ricorso va accertata in funzione della data in cui esso pervenne al destinatario ex lege. Tale data fu successiva al sessantesimo giorno dalla comunicazione della decisione e di
conseguenza la Commissione centrale non doveva esaminare il ricorso nel merito, ma avrebbe dovuto dichiararlo inammissibile.
La decisione impugnata va pertanto cassata, il che comporta che il secondo motivo del ricorso dell'amministrazione non può essere esaminato. (Omissis)
CORTE DI CASSAZIONE; Sezioni unite civili; sentenza 25 novembre 1983, n. 7072; Pres. F. Greco, Est. Maltese, P. M. Corasaniti (conci, conf.); Calderisi (Avv. Chiola, De Mar tini) c. Commissione parlamentare per l'indirizzo generale e la vigilanza dei servizi radiotelevisivi (Avv. dello Stato Az
zariti). Regolamento di giurisdizione.
Radiotelevisione — Commissione parlamentare di vigilanza —
Deliberazioni relative alla rubrica « tribuna politica » — Giurisdi zione del giudice amministrativo — Esclusione (Cost., art. 113; 1. 14 aprile 1975 n. 103, nuove norme in materia di diffusione radiofonica e televisiva, art. 1, 4).
È infondato (per difetto di giurisdizione del giudice ammini
strativo) il regolamento di giurisdizione proposto per ottenere la dichiarazione di competenza del T.A.R. Lazio a conoscere dei ricorsi presentati contro le deliberazioni adottate dalla commis sione per l'indirizzo generale e la vigilanza dei servizi radiote levisivi e riguardanti la disciplina della rubrica « tribuna politi ca » (nella motivazione si sostiene che la natura parlamentare della commissione comporta l'insindacabilità in sede giurisdizio nale degli atti relativi alla ripartizione dei tempi di trasmissione tra i partecipanti alla rubrica televisiva). (1)
(1) Sulla controversia era già intervenuta la decisione di primo grado (T.A.R. Lazio, sez. I, 11 aprile 1979, n. 377, Foro it., 1979, III, 524), anch'essa negativa della giurisdizione del giudice amministrativo
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GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE
Motivi della decisione. — Nel proporre il regolamento di
giurisdizione, i ricorrenti muovono una complessa censura alla
decisione con la quale il T.A.R. Lazio ha dichiarato inammissibili
i ricorsi proposti contro le deliberazioni adottate dalla « commis
sione parlamentare per l'indirizzo generale e la vigilanza dei
servizi radiotelevisivi » in merito alla formazione del calendario
delle trasmissioni di « Tribuna politica », concernenti la campagna
per le votazioni sui cinque referendum, nel periodo 18 maggio-11
giugno 1978.
riguardo alle deliberazioni della commissione parlamentare sul calenda rio di « tribuna politica ». Su un diverso versante si colloca la
magistratura di merito; si veda infatti Pret. Roma, ord. 9 novembre
1982, id., 1982, I, 3064, che ha denunciato l'incostituzionalità della I. n. 103/75, in quanto essa non tutela in via giurisdizionale le situazioni soggettive dei gruppi aventi titolo per partecipare alle
trasmissioni dell'accesso. Analoga questióne è stata dichiarata irrilevan te da Corte cost. 6 dicembre 1977, n. 139 (id., 1978, I, 258), annotata da Chiola, in Giur. costit., 1977, I, 1552; G. De Fina, in Giust. civ., 1978, III, 183; Mastropasqua, in Rass. giur. scuola, 1980, 642.
La natura non parlamentare (ma di parlamentari) della commissione R.a.i.-TV è acutamente sostenuta da Chiola, Il parlamentare al vertice del servizio pubblico radiotelevisivo: commissione bicamerale o di parla mentari, in Dir. radiodiffusioni, 1982, 1, opinione in precedenza delinea
ta da Reposo, La radiotelevisione tra governo e parlamento, id., 1977,
II, e La natura giuridica della commissione parlamentare per i servizi
radiotelevisivi, id., 1978, 560. È di tutta evidenza che partendo dalla
duplice premessa della natura sostanzialmente amministrativa dell'attivi
tà del collegio e del carattere non bicamerale e perciò non politico di
questo, nulla più si opporrebbe al sindacato giurisdizionale sui relativi
atti. La tesi della Cassazione si uniforma invece alla dottrina che
ricomprende la commissione tra gli organi parlamentari a carattere
permanente, sebbene da qualche autore se ne evidenzi l'atipicità
(Zaccaria, La commissione parlamentare per l'indirizzo generale e la
vigilanza, id., 1975, 504, e Radiotelevisione e Costituzione, Milano,
1977, 295; Chimenti, Gli organi bicamerali nel parlamento italiano,
Milano, 1979, 115). Si tende generalmente a riconoscere che la possibilità di accesso al
mezzo radiotelevisivo costituisca una condizione essenziale per la
legittimità del monopolio, sulla scorta dei « comandamenti » di cui alla
sentenza n. 225 del 1974 della Corte costituzionale (Foro it., 1974, I,
1945), al fine di assicurare la completezza e l'obiettività dell'informa
zione (D'Onofrio, Riforma dei servizi radiotelevisivi e sistema di
governo-, alcune riflessioni, in Dir. radiodiffusioni, 1975, 41; Nicolet
ti, Diritto di manifestare il pensiero: partecipazione ed accesso, id.,
1976, 447. Nell'ottica accolta dalla sentenza il raggiungimento di tale
finalità risulta in qualche modo limitato, perché si rimette alla
decisione esclusiva dell'organo parlamentare l'ammissione dell'uno o
dell'altro gruppo alle trasmissioni radiotelevisive, con il rischio « di
escludere dal circuito vitale del messaggio audiovisivo quelle tendenze
culturali e quelle forze politiche che non hanno consistenza parlamen tare » (D'Onofrio). Una parte autorevole della dottrina aveva d'altron
de da tempo prefigurato un orientamento riduttivo, attribuendo all'acces
so una protezione di natura soltanto politica: Santoro, Spunti per un
dibattito sull'accesso, id., 1976, 449; A. M. Sandulli, Spunti problema tici in tema di autonomia degli organi costituzionali e di giustizia do
mestica nei confronti del loro personale, in Giur. it., 1977, I, 1, 1837;
Barile, L'accesso nella radiotelevisione di Stato: una situazione sogget tiva attiva non protetta?, in Dir. radiodiffusioni, 1977, 273. Chi non si è
rassegnato a questa conclusione ha elaborato altre soluzioni, consentite
da una normativa sostanzialmente elusiva. L'accesso è cosi configurato come interesse legittimo (Nicoletti), ma allo stato esso non è ritenuto
tutelabile e pertanto è costituzionalmente illegittima la 1. n. 103/75: M. A. Sandulli, Sulla sindacabilità degli atti della commissione
parlamentare per la R.a.i., in Giur. costit., 1977, I, 1831, e L'accesso
al mezzo radiotelevisivo, in Dir. radiodiffusioni, 1977, 84. Oppure l'accesso è visto come diritto soggettivo « inteso in senso nuovo »,
corrispondente ad un interesse diffuso (Corasaniti, L'accesso alla
radiotelevisione: problemi e prospettive, id., 1980, 90), od ancora si
preferisce individuare una bipartizione e differenziare il diritto sogget tivo degli uni (gruppi qualificati: partiti, sindacati), dall'interesse
legittimo degli altri (« gruppi non identificabili direttamente dal dettato
costituzionale»): Grisolia, Sulla natura dell'accesso al mezzo radiote
levisivo: proposte interpretative e spunti di ricerca, id., 1976, 234.
Una funzione pubblica se attribuita al governo-amministrazione è
una funzione amministrativa e quindi il suo svolgimento è sindacabile
dal giudice amministrativo, ma se la stessa funzione viene attratta
nell'orbita parlamentare cessa dalla primitava qualificazione e diventa
politica e perciò insindacabile? La questione nei suoi aspetti generali si riconduce all'antica disputa sui caratteri della c.d. attività ammini
strativa svolta da autorità non amministrative. Questa problematica sotto il profilo che qui viene in considerazione è esaminata con esiti
contrastanti nei citati scritti di D'Onofrio, M. A. Sandulli, A. M.
Sandulli, e, da ultimo, di D'Amario, Pallottino, La giustiziabilità
degli atti della commissione parlamentare sui servizi radiotelevisivi, in
Riv. amm., 1983, I, 389. Vi è connesso il tema relativo all'individua
zione degli atti politici; sull'argomento si veda una rassegna delle più recenti decisioni giurisprudenziali nella nota redazionale a T.A.R.
Lazio, sez. I, 23 marzo 1983, n. 265, Foro it., 1984, III, 219.
L'attività della commissione per la R.a.i.-TV è dunque politica, non
sono impugnabili i relativi atti ed il gruppo che avanza richiesta di
Il Foro Italiano — 1984 — Parte I-86.
La censura si articola in tre distinti profili, che riguardano,
rispettivamente, l'identità soggettiva dell'organo, autore delle im
pugnate delibere, la natura oggettiva delle funzioni ad esso
attribuite dalla 1. n. 103/75 e l'efficacia formale dei provvedimenti
posti in essere dall'esercizio di tali funzioni.
Sotto il primo profilo i ricorrenti sostengono che la commissio
ne non si potrebbe definire organo parlamentare, non sussistendo
fra essa e il parlamento un rapporto di immedesimazione organi ca.
Sotto il secondo profilo, affermano che fra le attribuzioni della
commissione sarebbero preminenti quelle di carattere amministra
tivo, riconducibili alla titolarità di quattro distinti poteri, ad essa
conferiti dalla 1. n. 103/75: il potere normativo (regolamentare)
per la disciplina dell'accesso al servizio monopolizzato; il potere della sottocommissione di autorizzare l'accesso dei singoli gruppi in base a tale normativa e alle domande proposte; il potere della
commissione di decidere, in seduta plenaria, sui ricorsi presentati contro i provvedimenti della sottocommissione per l'accesso; in
fine, il potere della commissione stessa di disciplinare direttamen
te le « tribune », « politica », « elettorale », « sindacale » e « stam
pa. Tenendo presente il contenuto effettivo di queste attribuzioni, si dovrebbe parlare, secondo i ricorrenti, di attività oggettivamen te amministrativa, come tale sindacabile dal giudice amministrativo.
Sotto il terzo profilo, concernente la natura dei provvedimenti
impugnati, i comitati promotori dei referendum sostengono che
non si tratterebbe di atti « politici » sottratti al sindacato giurisdi zionale, in particolare al controllo del giudice amministrativo.
Considerata, invero, la crisi di identità, >nel nuovo ordinamento
costituzionale, della stessa categoria dell'atto politico, questo sa
rebbe configurabide soltanto come atto di governo, che viene
posto in essere da un organo costituzionale, nell'esercizio di una
funzione sovrana. Nel caso in esame, dovendosi escludere la natura di organo
costituzionale parlamentare della commissione R.a.i.-TV e doven
dosi riconoscere il carattere essenzialmente amministrativo delle
sue funzioni, mancherebbero entrambi i requisiti, soggettivo e og
gettivo, per poter definire « atto politico » — nel senso anzidetto di
atto di governo — le deliberazioni di sua competenza. Difette
rebbe, pertanto, nel duplice aspetto sopra indicato, il presupposto
per ritenere le deliberazioni stesse non sindacabili dal giudice amministrativo.
Comunque, proseguono i ricorrenti, ove mai si dovesse conside
rare la commissione organo parlamentare, i provvedimenti da essa
emanati sarebbero pur sempre annullabili, perché nessun princi
pio generale sottrae gli atti di un organo costituzionale al
sindacato giurisdizionale. Una diversa interpretazione condurrebbe inevitabilmente alla
dichiarazione di illegittimità 1. n. 103/75, istitutiva di un regime difforme dai precetti degli art. 24 e 113 Cost.
In tal senso i ricorrenti concludono, chiedendo in via principa le il riconoscimento della competenza giurisdizionale del T.AjR.
Lazio a conoscere della controversia e, in via subordinata, la
rimessione degli atti alla Corte costituzionale per la dichiarazione
di illegittimità della normativa vigente, nella parte in cui essa
esclude il sindacato giurisdizionale sulle deliberazioni della com
missione parlamentare. Il ricorso è infondato. Per quanto riguarda il primo profilo di
censura, ritiene il collegio che non si possa disconoscere la natura
giuridica di organo parlamentare della commissione bicamerale
per l'indirizzo e la vigilanza dei servizi radiotelevisivi.
In questo settore dell'esperienza giuridica costituzionale, si
distinguono, com'è noto, veri e propri organi bicamerali ed organi meramente ausiliari, per la presenza negli uni e per la mancanza
negli altri di raccordi operativi con le camere.
Di carattere meramente ausiliario sono una serie di commissio
ni aventi compiti di vigilanza nell'ambito di settori determinati di
attività del governo, del tutto prive di raccordi operativi con le
camere, sebbene formate solo da parlamentari. Altrettanto dicasi
di una serie di commissioni consultive.
accesso detiene un interesse di mero fatto. Con specifico riferimento alle trasmissioni di « tribuna politica », la sentenza tuttavia desume dalla normativa vigente un vero e proprio « diritto di accesso » per i partiti aventi gruppo parlamentare e per i comitati promotori dei referendum Ma anche la tutela di tale preteso diritto è attuata esclusivamente in sede parlamentare, conclusione che non manca di suscitare notevoli
perplessità alla luce dei principi generali. Sotto questo profilo la decisione che si riporta si affianca ad altra recente del Supremo collegio (sez. un. 20 febbraio 1984, Savina, Foro it., 1984, II, 209, annotata da R. Moretti), che ha analogamente qualificato come diritti le situazioni dei soggetti privati nei cui confronti si svolge l'attività di una commissione parlamentare d'inchiesta ed ha ravvisato
però la non giustiziabilità dei diritti medesimi, salvo l'eventuale risarcimento dei danni.
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1331 PARTE PRIMA 1332
Organi del parlamento, invece, sono — a parte talune commis sioni temporanee — cinque commissioni bicamerali permanenti,
precisamente la commissione per le questioni regionali, la com missione per il Mezzogiorno, la commissione per la riconversione
industriale, il comitato parlamentare per i servizi di sicurezza e la commissione R.a.i.-TV.
Con l'istituzione di esse il legislatore ha inteso ricondurre ad una capacità decisionale del parlamento questioni attinenti agli importanti settori del Mezzogiorno, dei servizi segreti, delle parteci pazioni statali e del servizio pubblico radiotelevisivo.
Secondo la ratio di queste disposizioni, soltanto con la c.d. « parlamentarizzazione » dell'organo si può conseguire il fine, che il legislatore si è proposto, di rafforzare e di estendere, in un determinato momento storico, ila capacità di azione e di decisione
politica del parlamento. La commissione, quale articolazione operativa delle camere,
appare, pertanto, l'unico strumento idoneo allo scopo, di certo non realizzabile attraverso l'opera di semplici enti ausiliari non
collegati alle camere da raccordi operativi.
Come si è premesso, infatti, le commissioni permanenti sopra indicate sono collegate alle camere — a differenza degli organi ausiliari — da raccordi di vario tipo: in particolare, la commis sione R.a.i.-TV deve riferire annualmente al parlamento sulle pro prie attività e i propri programmi, e il suo regolamento deve
essere, ed è stato emanato dai presidenti delle due camere, sentiti i rispettivi uffici di presidenza.
Inoltre, com'è riconosciuto dai trattatisti della materia, sono utilizzabili per gli organi bicamerali in senso tecnico i meccani smi di raccordo che i regolamenti delle camere prevedono per i
rispettivi organi interni.
Per quanto riguarda, poi, il conferimento alla commissione R.a.i.-TV di una speciale potestà regolamentare, esso è volto soltanto ad assicurarne — con la dotazione di una particolare autonomia — il miglior rendimento e ad accrescerne l'efficienza, nel quadro normativo del potenziamento dell'istituto parlamenta re.
Esiste, dunque, per ciascuna delle dette commissioni un vincolo
organico strutturale con le camere, un collegamento funzionale —
secondo la ratio delle rispettive leggi istitutive — per cui l'attività dell'organo è politicamente imputabile al parlamento.
Contrariamente all'assunto dei ricorrenti, la commissione R.a.i.-TV si deve configurare, pertanto, come organo parlamentare.
Non ha fondamento, inoltre, l'eccezione di illegittimità costitu zionale della 1. n. 103/75 per asserita violazione del princi pio bicamerale.
Secondo i ricorrenti, l'istituzione di una commissione unica violerebbe tale principio, in base al quale ogni potere conferito al
parlamento deve essere esercitato « separatamente » da ciascuna camera.
L'eccezione, che trascende i confini della controversia e pone in dubbio la legittimità costituzionale di tutte le commissioni bica merali, deve essere disattesa perché — come da tempo la dottrina ha chiarito — gli organi bicamerali non sono strutture « unifican ti » le due camere, ma articolazioni operative di esse, strutture di coordinamento, fondate sul principio di autonomia regolamentare delle stesse camere, secondo la prescrizione dell'art. 64 Cost. Ed è
proprio l'art. 26 del regolamento del senato (di cui il regolamento della camera dei deputati costituisce implicita conferma, attraver so una conforme consuetudine interpretativa) a prefigurare gli organi collegiali bicamerali, « nel rispetto del criterio della pro porzionalità » e con la « rappresentanza del maggior numero dei gruppi parlamentari costituiti nei due rami del parlamento ».
Nel quadro costituzionale dell'art. 64, pertanto, le commissioni bicamerali vengono istituite secundum constitutionem, come for me di coordinamento dell'attività delle camere. Esse vengono introdotte nella trama dell'ordinamento parlamentare in attuazio ne di un principio di « efficienza », desumibile dalla stessa regola di autorganizzazione delle camere dell'art. 64: principio integrativo e correttivo della fondamentale struttura dualistica del sistema. Ne consegue che sotto ogni aspetto si rivela infondato e deve essere disatteso il primo profilo di censura, concernente l'indivi duazione dei connotati tipici qualificanti il soggetto, autore delle deliberazioni impugnate, di cui si vorrebbe negare la natura di
organo parlamentare.
Alle stesse conclusioni si deve pervenire nell'esame del secondo profilo di censura.
Come si è premesso, i ricorrenti sostengono che le funzioni connesse ai sopra elencati poteri regolamentari e gestori avrebbe ro natura amministrativa e prevarrebbero su quelle di carattere lato sensu politico. L'esercizio di esse, pertanto, non potrebbe sfuggire al sindacato giurisdizionale del T.A.R.
La composizione parlamentare della commissione sarebbe infat
ti meramente strumentale alla gestione democratica e pluralastica del servizio e non avrebbe alcuna influenza sulla caratterizzazione
dell'organo, dipendente, invece, dalla natura amministrativa delle
funzioni. Queste, secondo i ricorrenti, sarebbero state arbitraria
mente sottratte dalla legge di riforma al governo e devolute alla
commissione parlamentare. Da ciò la necessità di estendere ai
provvedimenti della commissione stessa il controllo del giudice.
Se poi, soggiungono i ricorrenti, si volesse escludere l'impugna bilità delle delibere, nonostante il loro contenuto amministrativo,
perché formalmente provenienti da un organo parlamentare, si
dovrebbe ritenere incostituzionale il sistema, essendo stato il
governo estromesso, con la nuova 1. n. 103/75, dalla cogestione del servizio monopolizzato, cui l'esecutivo avrebbe dovuto, invece
istituzionalmente partecipare nell'ambito del rapporto fiduciario
col parlamento.
Queste sezioni unite ritengono di non poter condividere le
argomentazioni dei ricorrenti in relazione sia all'esegesi, sia alla
valutazione di legittimità della normativa vigente.
Sotto il primo aspetto, bisogna osservare che, per quanto sia
ormai attenuato il rigore del tradizionale principio della divisione
dei poteri, sarebbe frutto di un'evidente forzatura definire atto
amministrativo in senso tecnico il provvedimento emesso da un
organo parlamentare.
Invero, nell'ordinamento costituzionale vigente rimane fermo il
fondamentale principio informatore della giustizia amministrativa, secondo il quale il regime di sindacabilità giurisdizionale attiene alla qualificazione formale dell'atto amministrativo, non al conte
nuto sostanziale di esso.
« Contro gli atti della p.a — dispone l'art. 113 Cost. — è sempre ammessa la tutela giurisdizionale dei diritti e degli interessi
legittimi dinanzi agli organi di giurisdizione ordinaria o ammini
strativa»; e non sono atti della p.a., anche se, in ipotesi, di
natura sostanzialmente amministrativa (su questo punto si tor
nerà tra breve), quelli provenienti da un organo bicamerale, che, essendo composto esclusivamente da parlamentari, verrebbe altrimenti ad assumere la duplice connotazione e la duplice veste di « controllore » e di « controllato », in violazione del principio di imparzialità dell'art. 97 Cost. Per la stessa ragione neppure un ente ausiliario, se composto soltanto da parlamentari, è clas
sificabile fra gli organi della p.a.
La commissione R.a.i.-TV, come si è detto, è organo costituzio
nale e politico per il suo rapporto di immedesimazione organica col parlamento. Di conseguenza, i provvedimenti da essa emanati
non possono ricadere, per una supposta loro intrinseca natura
amministrativa, sotto il peculiare regime d'impugnazione degli atti
provenienti, secondo la previsione della 1. n. 2248 del 20 marzo
1865, ali. E, dal «potere esecutivo» o daH'« autorità amministra
tiva », di cui la commissione non fa parte.
Nel campo dei pubblici poteri è decisivo il valore formale, non
il contenuto dell'atto. Né sembra suggerire una soluzione diversa
l'esempio addotto dai ricorrenti, dell'autodichiarazione delle came re. Invero, nel caso della « giustizia domestica » degli organi costituzionali — senato, camera dei deputati e Corte costituzionale — milita a favore dell'estensione degli ordinari controlli giurisdi zionali ai provvedimenti adottati da quelle autorità nei confronti
dei propri dipendenti (tesi sostenuta da sez. un., ord. n. 356 del
1977, Foro it., 1977, I, 2071) la considerazione che per il disposto dell'art. 409, n. 5, c.p.c., nelle vertenze concernenti rapporti di
lavoro dei dipendenti di enti pubblici ed « altri rapporti di lavoro
pubblico », si osservano le norme per le controversie in materia di lavoro. Nella categoria, appunto, degli « altri rapporti di lavoro
pubblico » (diversi dagli ordinari « rapporti di lavoro dei dipen denti di enti pubblici ») sono inquadrabili, alla luce del principio di uguaglianza dell'art. 3 Cost., i rapporti intercorrenti fra gli organi costituzionali sopra menzionati e il personale alle loro
dipendenze: e ciò ad ogni conseguente effetto processuale, ma nifestamente non compatibile con la riserva di un potere di
giustizia domestica a favore delle stesse autorità delle camere e
della corte.
Inoltre — e viene, a questo punto, in discussione la tesi « contenutistica » dei ricorrenti — nel caso dell'autodichia si tratta pur sempre di provvedimenti non riconducibili alla funzio ne primaria dell'organo, mentre le delibere della commissione R.a.i.-TV sull'accesso e sulla disciplina delle tribune appaiono strettamente connesse, nella legge di riforma, alla funzione essen ziale di indirizzo politico del servizio monopolizzato. Questo, invero, acquista il crisma di legittimità proprio attraverso la
gestione dell'accesso e la disciplina delle « tribune », costituenti il correttivo del monopolio, poiché ne integrano l'apporto informa tivo in un sistema basato sulla pluralità delle fonti di notizie e di voci culturali diverse.
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GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE
A tale funzione primaria, mediatrice delle opposte esigenze della riserva di monopolio statale (art. 43 Cost.) e del pluralismo dei contributi nel campo dell'informazione e della cultura (art. 21
Cost.), si collegano le delibere dell'organo parlamentare, che non sono assimilabili, pertanto, neppure nella causa giuridica e nel
contenuto, agli ordinari provvedimenti amministrativi. Ne conse
gue che non solo per la provenienza formale di tali delibere da un ente bicamerale ma anche per la loro intrinseca natura e
funzione, rientrante nel quadro normativo costituzionale di indi rizzo politico del monopolio statale, non può essere accolta la
censura dei ricorrenti, secondo 'la quale da sentenza impugnata avrebbe errato nel considerare atti soggettivamente e oggettiva mente non amministrativi i provvedimenti della commissione R.a.i.-TV.
Bisogna ora esaminare il secondo aspetto della questione, che si
collega all'eccezione subordinata di incostituzionalità della norma
tiva vigente.
Sostengono i ricorrenti che la 1. n. 103/75, politicizzando ogni funzione gestoria del servizio radiotelevisivo, ne avrebbe defrau dato il governo, con automatica, quanto arbitraria eliminazione delle guarentigie giurisdizionali (art. 24 e 113 Cost.) a favore dei
pretendenti all'accesso e degli aventi diritto a partecipare ai tempi d'antenna delle « tribune ».
Per una corretta impostazione del problema, il collegio ritiene
opportuno premettere che si devono distinguere, secondo la più recente dottrina, tre momenti nell'attività di indirizzo politico: il momento teleologico, consistente nella individuazione legislativa dei fini; il momento strumentale, attuativo, consistente nella
predisposizione dei mezzi; il momento effettuale, esecutivo, con sistente nel conferimento e nell'esercizio delle funzioni operative
per la realizzazione dei fini.
Queste ultime funzioni, sostengono i ricorrenti, sono, di norma, affidate all'esecutivo nell'ambito del rapporto fiduciario con le camere. Nel caso concreto l'abbandono di tale sistema fiduciario, con l'attribuzione delle funzioni operative al parlamento avrebbe
determinato, contra constitutionem, l'esautoramento del governo e
l'arbitrario declassamento a interesse di mero fatto delle posizioni giuridiche differenziate dei singoli gruppi esponenziali, aventi diritto ad esprimere liberamente il proprio pensiero, ai sensi del l'art. 21 Cost., mediante l'uso del mezzo radiotelevisivo.
Ritiene, invece, il collegio che, con l'attribuzione all'organo parlamentare delle dette funzioni operative, il sistema della ri
forma si sia attuato conformemente alla fondamentale esigenza espressa dal precetto costituzionale dell'art. 21.
Esso, invero, è imperniato sull'intervento diretto del parlamen to, anche a soprattutto nel momento effettuale dell'indirizzo
politico, rappresentato dal controllo dell'accesso al mezzo. Come
si è detto, proprio nell'esercizio di tale controllo si opera la
sintesi fra l'apporto esterno di notizie e il servizio pubblico di
informazione, cioè il coordinamento e l'integrazione tra le diverse
fonti di conoscenza, che, in osservanza dell'art. 21, giustificano, sul piano della legittimità costituzionale, ila riserva di monopolio statale, ai sensi dell'art. 43 Cost.
Nell'ambito di tale sistema, coerentemente ispirato al principio di « parlamentarizzazione » del servizio di informazione radiotele visiva anche nel decisivo momento effettuale del controllo dell'ac
cesso all'emittente, non si può parlare di un esautoramento del
governo, né si verifica un declassamento della posizione dei
singoli, interessati a partecipare alle trasmissioni. Lo dimostrano i precedenti storici della riforma e, alla luce, di
essi, la ratio della sentenza n. 225 del 1974 della Corte costituzionale (id., 1974, I, 1945), nonché l'interpretazione siste matica della 1. n. 103/75, emanata in base alle prescrizioni che la corte stessa ha rivolto al legislatore.
Per quanto riguarda la posizione del governo, la questione non
interessa soltanto la commissione R.a.i.-TV, ma si pone nella più
ampia prospettiva teorica dei limiti di legittimità costituzionale dell'attribuzione a un organo bicamerale di funzioni asseritamente
rientranti nella c.d. « riserva di amministrazione » a favore dell'e
secutivo.
Si è discusso, con orientamenti diversi, dell'effettiva esistenza di
una siffatta riserva; ma si propende, ormai, decisamente a negar la, sostenendo la prevalente dottrina che dell'area riservata non
sarebbe a priori determinabile il confine, la cui concreta indivi
duazione rimarebbe affidata al mutevole gioco delle forze politi che.
Nella giurisprudenza, autorevoli decisioni sembrano indiretta
mente suffragare questa tesi (Corte cost. 25 maggio 1957, n. 60,
id., 1957, I, 944). In realtà, il problema non è teorico ma politico, e la risoluzio
ne di esso è legata a presupposti contingenti, al condizionamento « storico » dei rapporti fra parlamento e governo.
In linea di massima, si può intravedere soltanto nella possibile
deresponsabilizzazione del governo — in relazione ai compiti
affidatigli dall'art. 95 Cost. — un limite di legittimità nell'attribu zione di determinate funzioni all'organo bicamerale.
Un pericolo di deresponsabilizzazione del governo si sarebbe
potuto, ad esempio, profilare quando la commissione per le
questioni regionali, chiamata ad esprimere il parere su una serie di decreti delegati, esercitò, di fatto, funzioni legislative anziché consultive e fini col concordare col governo le variazioni ritenute necessarie.
Non altrettanto avviene nel sistema della legge di riforma della Rja.i.-TV.
A questo proposito bisogna ricordare che alla prima sentenza della Corte costituzionale n. 59 del 1960 {id., 1960, I, 1065) segui — seppure a notevole distanza di tempo — un intenso dibattito de lege ferendo, a livello sia dottrinale che istituzionale.
-In quel dibattito fu quasi unanimemente riconosciuto che lo strumento di informazione radiotelevisivo riflette responsabilità e
compiti che sono espressione di un indirizzo politico-costitu zionale e deve trovare, pertanto, nel parlamento, non nel governo, il naturale punto di riferimento.
Si ritenne erroneo pensare che la R.a.i.-TV operi in un settore di competenza governativa e che, una volta dato ingresso alla funzione di indirizzo politico, il parlamento non si debba occupa re dell'amministrazione e debba agire solo nell'ambito e all'inter no del rapporto fiduciario.
Questa particolare « branca della politica » — si disse — fa
parte non dell'indirizzo governativo ma dì quello costituzionale; e « per far vivere il monopolio » bisogna uscire dalla concezione che fa della TV un'attività amministrativa, una funzione che non
può essere sottratta al potere esecutivo. Per l'art. 43 Cost., infatti, è possibile attribuire il servizio anche ad una comunità di utenti; il che non vuol dire — si aggiunge — che sia precluso attribuire il servizio R.a.i.-TV al governo, vuol dire soltanto che il proble ma è di merito e non di legittimità.
L'intervento del parlamento — si ritenne ancora di precisare —
deve essere centrato in relazione immediata con il momento dell'esame delle istanze di partecipazione al mezzo, cioè, in
definitiva, attribuendo all'organo parlamentare le funzioni operati ve concernenti l'accesso e la disciplina delle «tribune».
Proverebbe troppo — è stato infine chiarito — l'obiezione del
necessario riprodursi, in seno alla commissione, dei conflitti
assembleari, essendo questa prospettiva inquadrabile nella norma le dialettica democratica; e il trasferimento del controllo del
servizio dall'area governativa all'area parlamentare e costituzionale non provoca una deresponsabilizzazione del governo in relazione all'attività di informazione, che non è di sua pertinenza esclusiva, né in relazione all'attività di formazione culturale che — come
quella della scuola — deve rimanere autonoma e libera. Le risultanze di quel dibattito — qui riportato nei punti
essenziali — trovano una base storico-politica nel vasto mo vimento diretto a potenziare la funzione e il ruolo del par lamento, circoscrivendo quelli del governo. Il che non è, di
per sé, costituzionalmente illegittimo. Onde si poneva allora soltanto il problema se le funzioni operative, il cui esercizio era
ritenuto necessario al trasferimento dall'area governativa all'area
parlamentare della potestà di controllo del servizio radiotelevisivo
(funzioni che, in parte, il governo non aveva mai posseduto) rientrassero nella capacità di azione del parlamento tramite l'or
gano bicamerale ad esse preposto. Una volta esclusa, infatti, la validità dell'obiezione di una « riserva di amministrazione » — in realtà inesistente — a favore del governo, il problema si riduceva a stabilire se, per lo svolgimento di quelle mansioni, fosse riconoscibile un'adeguata capacità di azione del parlamento.
Ora, non si può dubitare che nel senso affermativo deponga la ratio della successiva sentenza n. 225 del 1974 della Corte
costituzionale, essendo per la corte stessa scontato — nell'e nunciare le sette condizioni, a garanzia di legittimità del
monopolio — l'esito legislativo della propria decisione, se
si tiene presente che allora era in corso davanti alle ca
mere il dibattito su proposte di legge ispirate al fondamentale
criterio di riportare nell'alveo parlamentare funzioni non di gene rica vigilanza e controllo ma di impulso operativo e attuativo
nell'erogazione del servizio monopolizzato dell'informazione radio
televisiva.
Pertanto il modello normativo successivamente elaborato dalla
1. n. 103/75 non differisce da quello schematicamente delineato
nella sentenza, ma ne rappresenta, secondo lo spirito della
riforma, la sostanziale realizzazione.
Si deve ritenere, di conseguenza, superato, nel quadro normati
vo attuale, l'apparente ostacolo non solo di una riserva di
amministrazione che non esiste, ma anche di un supposto rischio
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1335 PARTE PRIMA 1336
di deresponsabilizzazione del governo nello svolgimento di un
servizio informativo e di formazione culturale, che si affida,
invece, all'esercizio del monopolio statale, integrato nel sistema
pluralistico delle fonti. Non senza rilevare, sul piano più stretta
mente tecnico, che l'asserita potestà regolamentare si risolve, in
realtà, nella produzione di norme integrative (seppure dotate di
efficacia esterna) dell'ordinamento parlamentare, per effetto del
l'autonomia organizzativa legittimamente accordata dalle camere
all'organo comune, allo scopo di accrescerne l'efficacia nel perse
guimento del fine istituzionale assegnatogli; e che l'atto di appro vazione dei programmi (i piani di massima della programmazione annuale e pluriennale) presenta forti analogie col provvedimento parlamentare di approvazione del bilancio preventivo; infine, che un margine di « riserva aziendale » rimane alla R.a.i.-TV in
seguito alla determinazione, da parte della commissione, del tetto
degli introiti pubblicitari, nella scelta degli inserzionisti, delle tariffe e dei modi di trasmissione.
Concludendo su questo punto, si deve ritenere che la capacità di azione del parlamento e, per esso, della commissione R.a.i.-TV,
tragga misura dalla scelta, costituzionalmente legittima, del trasfe rimento all'area parlamentare di un'attività facente parte, nella sua interezza, non dell'indirizzo governativo ma di quello costitu zionale. Talché, in assenza di una riserva di amministrazione e del paventato rischio di intaccare la responsabilità del governo, anche le mansioni più propriamente esecutive si inquadrano nella detta funzione politico-costituzionale, e ne fanno inscindibil mente parte, articolandosi, attraverso momenti operativi diversi, in una dimensione giuridica unitaria e traducendosi in delibera zioni caratterizzate dalla stessa causa giuridica dell'indirizzo e della gestione politica del servizio monopolizzato.
Ciò, si ripete, appare conforme alla ratio del sistema, cen trato nella fase della scelta operativa — la decisione, cioè, sull'accesso al mezzo — mediante la quale il monopolio statale
dell'informazione si arricchisce del contributo di fonti di notizie
diverse, e per ciò stesso acquista il carattere di legittimità, secondo l'esigenza espressa dalla Corte costituzionale, in relazione all'art. 21 Cost.
In definitiva, concepito l'accesso come il correttivo esterno alla
gestione dell'informazione svolta dall'ente monopolistico, si giu stifica in pieno — com'è stato giustamente osservato — la
parlamentarizzazione anche di tale attività integrativa mediante l'affidamento di essa allo stesso organo che rappresenta istituzio nalmente l'intera collettività.
Pertanto si deve escludere che la concentrazione di tali funzio ni nella capacità di decisione e di azione del parlamento incontri, nell'ambito dello Stato-apparato, un limite di legittimità costi tuzionale nei principi che regolano la posizione e la respon sabilità del governo (art. 95 Cost.).
Le stesse considerazioni fin qui svolte e un'interpretazione sistematica delle norme vigenti, alla luce dei principi enunciati dalla Corte costituzionale, dimostrano, inoltre, che nell'ambito dello Stato-comunità (art. 24 e 113 Cost.) le posizioni giuridiche degli aspiranti all'accesso non subiscono, per effetto della riforma, un declassamento arbitrario.
Bisogna precisare, al riguardo, che, per le profonde implicazioni esistenti nell'ordinamento attuale, tale indagine sistematica appare necessaria ai fini del decidere, pur risultando la materia del contendere circoscritta, nei motivi del ricorso, alla ripartizione dei
tempi d'antenna nella rubrica di « Tribuna politica », cui i ricorrenti sono stati ammessi — com'è pacifico in causa — con la delibera 11 giugno 1978 della commissione parlamentare.
Non si potrebbe intendere, invero, quale sia la particolare posizione dei partecipanti a tale rubrica televisiva se non attraver so la definizione giuridica dell'istituto dell'accesso, in senso pro prio (art. 6 della legge) e improprio (art. 4: « tribune »), nel
quadro legislativo della riforma.
Ritiene il collegio che anche in relazione a tale aspetto della
controversia, concernente la posizione dei gruppi esponenziali interessati all'uso dell'emittente, non sia fondatamente prospettabi le un motivo di illegittimità costituzionale e, di conseguenza, non sia ipotizzabile un obbligo del legislatore di restituire (o conferi
re) al governo funzioni che ha voluto escludere dall'area della sua competenza, secondo una corretta interpretazione delle pre scrizioni (« comandamenti ») della Corte costituzionale, nel con testo storico-politico nel quale esse sono state impartite.
Invero, con la sentenza n. 225 del 1974, la corte ha stabilito che la riserva a favore dello Stato del servizio radiotelevisivo —
servizio già considerato dalla precedente sentenza n. 59/60 essen ziale e di utilità generale agli effetti dell'art. 43 Cost. — è
legittima solo se preordinata a due fondametali obiettivi: oggetti vità e completezza dell'informazione — con ampia apertura a tutte le correnti culturali e con imparziale rappresentazione delle
idee che esprimono nella società — e realizzazione del « diritto »
di accesso, che il legislatore deve rendere effettivo e garantire nella misura massima consentita dai mezzi tecnici.
Per conseguire il fine di obiettività e completezza dell'informa
zione — ha precisato la corte — occorrono direttive idonee a
garantire l'imparzialità del servizio e a rispecchiare nei program mi culturali la ricchezza e la molteplicità delle correnti di
pensiero; ed è altresì necessario, per l'attuazione di siffatte
direttive e per il relativo controllo, riconoscere adeguati poteri al
parlamento, che istituzionalmente rappresenta l'intera collettività
nazionale.
Per realizzare, poi, il fine di rendere effettivo e di garantire l'accesso al mezzo, nella misura massima tecnicamente possibile, è
necessario che, per l'esigenza derivante dall'art. 21 Cost., esso sia
consentito imparzialmente a gruppi politici, religiosi, culturali nei
quali si esprimono le varie ideologie presenti nella società.
Questa sentenza è stata interpretata secondo un'appropriata chiave di lettura con la successiva 1. n. 103/75.
Come si è detto, l'esito legislativo della decisione era scontato
dalla stessa Corte costituzionale, poiché la sentenza si inseriva nel
movimento diretto a potenziare il ruolo del parlamento rispetto a
quello del governo, nel momento stesso in cui si discutevano
davanti alle camere proposte di legge a tal fine orientate.
Storicamente, dunque, era giustificata e legittima un'interpreta zione nel senso più lato, da parte del legislatore ordinario, dei
termini « direttivi » e « controllo » adoperati dalla corte nel
dettare le condizioni per l'affidamento alle camere dei poteri necessari alla concreta realizzazione dei fini prestabiliti, come
presupposto di legittimità della riserva di monopolio statale.
Da ciò l'elaborazione, con la 1. n. 103/75, di un modello legale sostanzialmente conforme a quello delineato nella sentenza me
diante il conferimento all'organo bicamerale non solo di generici
compiti di direzione e di vigilanza ma anche delle funzioni
operative concernenti l'accesso.
Nel 1° comma dell'art. 1 sono chiarite le finalità della riserva
di monopolio. Nel 2° comma sono enunciati principi di indipen denza, obiettività e apertura alle diverse tendenze politiche, sociali e culturali, quali criteri fondamentali nella disciplina del
servizio pubblico radiotelevisivo.
Nell'art. 6 sono stabilite le competenze sopra indicate della
sottocommissione (e della commissione, su ricorso dell'interessato) in materia di accesso dei gruppi esponenziali (partiti e gruppi
rappresentati in parlamento, organizzazioni associative delle auto
nomie locali, sindacati nazionali, confessioni religiose, enti e
associazioni culturali e politiche, associazioni nazionali del movi
mento cooperativo giuridicamente riconosciute, gruppi etnici e
linguistici e altri gruppi di rilevanza sociale); e viene conferito
allo stesso organo parlamentare il potere di provvedere alla
ripartizione del tempo disponibile fra i soggetti ammessi, secondo
il duplice criterio di assicurare la pluralità delle opinioni e degli orientamenti politici e culturali e di valutare adeguatamente la
rilevanza dell'interesse sociale, culturale e informativo delle pro
poste degli interessati.
Nell'art. 4 è conferito alla commissione il potere di provvedere alla disciplina diretta delle tribune.
Orbene, se la legge si inquadra nelle descritte premesse storico
politiche e giurisprudenziali, non sembra accettabile l'orienta
mento di quella parte della dottrina che, valorizzando l'istanza
individualistica, concepisce la pretesa all'accesso, di cui all'art. 6, come diritto soggettivo perfetto.
A questo proposito, bisogna precisare che, nel tentativo di
definire la correlazione esistente fra le esigenze-parametro po ste dalla sentenza e recepite nella legge — obiettività dell'in
formazione e pluralità delle fonti — si sono formate contrastanti
teorie sulla definizione della posizione giuridica dei gruppi aspi ranti all'uso del mezzo radiotelevisivo.
Una concezione disgiuntiva delle dette esigenze-parametro fi
nisce — come già si è accennato — col valorizzare e privilegia re l'istanza individualistica dell'accesso quale strumento del plu ralismo e tende a configurare come « diritto » (utilizzando anche
un'espressione atecnica della sentenza n. 225/74) la pretesa del
gruppo di comunicare alla collettività e di propagandare una
determinata notizia.
Per contro, una concezione organica e unitaria della correlazio
ne esistente fra le dette esigenze tende correttamente a definire
l'una in funzione dell'altra: il pluralismo delle fonti come mezzo
per conseguire il fine dell'obiettività dell'informazione. Valorizza,
cioè, il momento sociale dell'interesse della comunità a un'infor
mazione completa e, di conseguenza, configura l'accesso non come
diritto soggettivo del gruppo, ma come correttivo esterno alla
concentrazione monopolistica del servizio, fonte di notizie integra tive, a garanzia della completezza dell'informazione.
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GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE
Giustamente è stato osservato che l'interesse generale — il
risultato sociale — sta al centro della motivazione della sentenza
della corte. Per cui l'accesso si configura non come diritto
assoluto ma come semplice connotazione, elemento qualificante della stessa organizzazione del monopolio statale, che si traduce
nell'obbligo del legislatore e, poi, della Costituzione, di assicurare, con la pluralità delle voci, l'obiettività dell'informazione.
Analogamente, la funzione culturale e quella di svago assorbono
l'istanza individualistica nel risultato sociale di promozione cultu
rale, e di per sé giustificano la riserva di monopolio.
Se, dunque, il quadro di riferimento costituzionale è rappresen tato dal fine di obiettività dell'informazione, di cui è strumento la
pluralità delle fonti di notizie e delle voci culturali, oggetto
specifico della normativa in esame è d'interesse della collettività
ad avere un'informazione completa. Con l'attribuire, invece, all'interesse del gruppo valore autono
mo, configurandolo come diritto soggettivo, oltre a confondere —
ovviamente — fra il diritto riconosciuto dall'art. 21 Cost, di
manifestare liberamente il pensiero e il diritto di usare mezzi
determinati per manifestare il pensiero (mezzi di cui l'interessato
può non avere la disponibilità giuridica) si finirebbe col conferire
e col trasferire ai singoli gruppi il potere nascente dalla riserva
dell'art. 43 Cost.; mentre, secondo la 1. n. 103, tale riserva opera esclusivamente a favore dello Stato e potrebbe virtualmente
operare a favore della comunità degli utenti, non certamente
a beneficio di collettività determinate.
In realtà, una letterale applicazione, nella disciplina dell'acces
so, dell'art. 21 Cost, condurrebbe proprio alla formazione dell'oli
gopolio che il legislatore ha voluto evitare istituendo il monopolio
pubblico con il correttivo dell'accesso privato. Ond'è nel vero chi
afferma che l'art. 21 Cost, si pone non come fonte, immediata o mediata, di puntuali situazioni soggettive, ma come principio direttivo per il legislatore ordinario nel disciplinare il servizio
pubblico monopolizzato, secondo una connotazione pluralistica, necessaria al conseguimento dell'interesse generale della comunità
degli utenti.
Né possono essere condivise le opinioni, diversamente articolate
e sfumate, secondo le quali la posizione soggettiva dei gruppi sarebbe configurabile come interesse legittimo, per effetto del
Paffievolimmento derivante dalla subordinazione di essa, nell'ap
prezzamento legislativo, ad un preminente interesse generale. Questa concezione presuppone pur sempre che all'interesse del
gruppo, come tale, il legislatore abbia conferito formale ricono
scimento {con norme di azione, anziché con norme di relazione), mentre la ratio del sistema, per la descritta relazione intercorren
te fra le sopra indicate esigenze-parametro, dimostra la sola
volontà del legislatore di coordinare strumentalmente l'istanza
individualistioa all'interesse sociale; di farne, cioè, mero veicolo
di notizie nello svolgimento del servizio monopolizzato, da utiliz
zare fino al limite massimo consentito dal mezzo tecnico di
diffusione. Volontà, dunque, non arbitraria (violazione del princi
pio di ragionevolezza, cui accennano i ricorrenti), ma frutto di
ponderata scelta, per effetto della quale, nella disciplina dell'ac
cesso come elemento qualificante del servizio pubblico, la posi zione del gruppo si configura come interesse di fatto, o, se si
preferisce, come interesse semplice, nel significato accolto dalla
parte della dottrina che la ritiene indistinguibile dall'interesse di
fatto.
Il silenzio del legislatore appare, quindi, coerente al sistema, nel senso dell'esclusione di un momento giurisdizionale esterno
alla disciplina dell'accesso, concepita nell'art. 6 della legge secon
do le linee di un procedimento a struttura meramente dialettica
nello svolgimento dell'attività dell'ente monopolistico di valuta
zione e di coordinamento delle fonti esteme di informazione. Per
cui anche una diversa, ipotetica regola di competenza governativa
(ministero delle poste e delle telecomunicazioni) lascerebbe im
mutate — se non accompagnata da ulteriori modifiche e innova
zioni — le posizioni soggettive di diritto sostanziale, non configu rabili come interessi legittimi.
Sostenere il contrario significa postulare il riconoscimento nor
mativo di un autonomo e specifico interesse del gruppo ad
informare, nell'ambito di un rapporto diretto fra il gruppo stesso
e la commissione; mentre, secondo la più esatta definizione, il
punto qualificante del sistema è l'interesse della generalità ad
avere un'informazione completa, non l'interesse della singola collettività a fornire un'informazione determinata.
■Se è vero, poi, che all'interesse di fatto del gruppo corrisponde un interesse diffuso dei suoi componenti e della stessa comunità
degli utenti (il canone R.a.i.-TV non è un corrispettivo ma una
tassa: Cass. 16 gennaio 1975, n. 164, id., 1975, I, 563), inon
sembra, tuttavia, che allo stato della legislazione attuale questa
posizione sia tutelabile con l'esperimento degli ordinari mezzi di
difesa in giudizio.
Sotto ogni aspetto, pertanto, riceve una risposta negativa anche il secondo interrogativo sull'esistenza di un limite di legittimità al conferimento alla commissione parlamentare delle funzioni opera tive riguardanti l'accesso.
Non solo nell'ambito dello Stato-apparato (art. 95 Cost.) ma anche nell'ambito dello Stato-comunità (art. 24 e 113 Cost.), la sintesi normativa, attuata con la riforma, dei poteri di gestione politica degli interessi della comunità degli utenti nella sfera della
capacità di azione e di decisione del parlamento, non appare in contrasto con i precetti della Costituzione.
Essendo stati, quindi, legittimamente conferiti tali poteri all'or
gano bicamerale in base alle direttive della Corte costituzionale, l'eccezione di incostituzionalità della legge, sollevata dai ricorren
ti, appare manifestamente infondata e deve essere disattesa. Passando all'esame della disciplina delle tribune, in particolare
di « Tribuna politica », che qui interessa, si pone anche in questo settore il duplice interrogativo se i provvedimenti della commis sione siano sindacabili (« giustiziagli ») dal giudice amministrati vo e, nell'ipotesi negativa, se il sistema sia costituzionalmente
legittimo. Le considerazioni svolte sull'istituto dell'accesso in senso pro
prio (art. 6 1. n. 103/75) aprono la via per la risoluzione dei
problemi inerenti all'accesso in senso improprio alle « tribune »
(art. 4 della legge). IÈ opportuno precisare che questa distinzione fra accesso in
senso proprio e accesso in senso improprio risale alla sentenza 6 dicembre 1977, n. 139 della Corte costituzionale (id., 1978, 1, 258). Essa appare razionale, in quanto nell'accesso disciplinato dall'art. 6 la richiesta di disporre del mezzo monopolizzato proviene dall'esterno e richiede, pertanto, la predisposizione di
un'adeguata procedura; mentre nella disciplina delle « tribune » la sollecitazione dell'interesse della comunità degli utenti a discutere un dato argomento proviene dall'interno del sistema, e con carattere prioritario rispetto all'accesso propriamente detto, che è ammissibile solo se il tema non sia stato o non stia per essere trattato nelle « tribune » (art. 5 del regolamento per le richieste d'accesso del 30 aprile 1976); tanto che da taluno le «tribune» sono state definite mero « oggetto » della gestione, e l'invito a
parteciparvi è stato giuridicamente qualificato come una promessa al pubblico, ai sensi dell'art. 1989 c.c. Tale considerazione sottoli
nea, anche per le tribune, il carattere indifferenziato della posi zione sia dell'utente, titolare di un interesse diffuso all'informa
zione, sia del gruppo esponenziale, titolare di un interesse di
fatto, che si converte in diritto d'accesso alla « tribuna » solo per effetto negoziale della delibera e della sua accettazione.
La complessa materia, peraltro, non si presta a schematizzazio ni e richiede una trattazione più approfondita.
Com'è dato desumere dai risultati della precedente indagine, la commissione parlamentare svolge una attività non decisoria in senso tecnico ma — attraverso la valutazione e il coordinamento delle diverse fonti disponibili, interne ed esterne — di « accerta mento costitutivo » dell'interesse sociale a un'informazione obiet
tiva, cosi attuando, mediante una gestione politica, la tutela degli interessi diffusi.
La natura di tale attività appare ancor più evidente nella
disciplina diretta delle tribune, con la quale la commissione interviene non al fine di rivedere l'operato di una sottocommis
sione, ma, per cosi dire, in primo ed unico grado, elaborando i
programmi e dettando le pratiche modalità per la loro attuazione.
Tuttavia, la discrezionalità delle scelte è autolimitata, per quanto riguarda i soggetti, dallo stesso regolamento istitutivo delle « tribune », emanato dalla originaria commissione parlamentare « di vigilanza » anteriormente alla legge di riforma n. 103/75, e
poi in questa legge recepito con la clausola di ratifica dall'art. 4, secondo la quale l'organo parlamentare disciplina direttamente le rubriche di « Tribuna politica », « Tribuna elettorale », « Tribuna sindacale » e « Tribuna stampa »; l'art. 2 del regolamento stabi
lisce, infatti, che hanno diritto di partecipare a « Tribuna politi ca » « quei partiti i cui rappresentati abbiano costituito almeno in uno dei rami del parlamento gruppo parlamentare ». E poiché, ai sensi dell'art. 52 1. n. 352/70, sono equiparati ai partiti o
gruppi politici rappresentati in parlamento i promotori di « refe
rendum », considerati in un unico complesso, non è controverti
bile l'estensione a questi ultimi del disposto dell'art. 2.
Hanno diritto, pertanto, di accesso a « Tribuna politica » i partiti aventi gruppo parlamentare e i comitati promotori dei referendum.
L'autolimitazione — ma, dopo la legge di riforma del '75, si
deve dire la limitazione legale — opera, quindi, nel senso del
riconoscimento a quei determinati soggetti, senza alcun margine di discrezionalità, del diritto di partecipare alla rubrica radiotele
visiva di « Tribuna politica ».
Al di fuori di questi limiti, l'invito a parteciparvi, rivolto dalla
commissione a soggetti terzi, produce, se accettato, l'effetto di un
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1339 PARTE PRIMA 1340
vincolo negoziale; ricorrendone le premesse, l'invito stesso può essere anche definito come promessa al pubblico.
A tali principi risulta conforme la delibera 16 maggio 1978
della commissione parlamentare, con la quale sono stati iden
tificati gli « aventi diritto » a partecipare alla trasmissione nei
« partiti aventi gruppo parlamentare e nei comitati promotori dei
referendum in itinere». Difatti non esiste, in merito, alcuna
contestazione.
Ma — ecco il punto, rilevante in questo giudizio — come il
terzo, che abbia accettato l'invito rivoltogli dalla commissione,
acquista il diritto con i limiti ai quali l'accesso a « Tribuna politi ca » è stato subordinato, cosi per i soggetti determinati ex lege il
diritto sorge con le limitazioni derivanti dallo stesso sistema che
lo riconosce.
A « Tribuna politica », invero, partecipano soltanto i partiti aven
ti gruppo alle camere (oltre ai comitati promotori, in occasione di
referendum), come espressione di determinate forze politico
culturali, mentre tutti i partiti, nessuno escluso, hanno diritto di
partecipare a « Tribuna elettorale », e non solo i partiti ma anche
gli altri soggetti indicati nella legge elettorale.
Pertanto la delibera della commissione, in concreto istitutiva di
« Tribuna politica », è solo soggettivamente vincolata nella indivi
duazione, fra gli aspiranti all'accesso, delle due anzidette catego rie predeterminate ex lege: i partiti aventi gruppo alle camere, e, ricorrendone le circostanze, i comitati promotori di referendum.
Non è, invece, obiettivamente vincolata nella determinazione del
contenuto dei relativi diritti, che per tutti deriva, costituendone
una risultante, dal rapporto tra le forze politiche presenti nel
parlamento e nella commissione.
Sotto questo profilo, solo l'attribuzione di uno spazio televisivo, se non irrisorio, incongruo equivarrebbe al disconoscimento del
diritto. Non l'adozione di un determinato criterio di ripartizione dei tempi tecnici con le maggioranze stabilite dall'art. 12 del
regolamento dettato dai presidenti della camera e del senato. E
nel caso concreto la commissione ha ritenuto, con valutazione
compiuta secondo queste regole, che, non trattandosi di una
competizione elettorale fra liste di singoli partiti ma di una
mobilitazione del corpo elettorale, espresso nella frazione di un
certo numero di finalità da una parte e di milioni di persone
appartenenti ai partiti dall'altra, si dovesse attuare il confronto
secondo un criterio proporzionale. Deliberazione questa, non
amministrativa ma soggettivamente e oggettivamente politica, che
non è, quindi, paradossalmente impugnabile dagli stessi partiti
partecipanti alla sua formazione, e che può trovare soltanto nel
sistema delle istituzioni politiche la misura della propria effettiva
validità. La soluzione della non sindacabilità del provvedimento in
esame non è costituzionalmente illegittima. Sul piano formale, basta osservare che è infondato l'assunto dei
ricorrenti, espresso nel terzo profilo di censura, secondo il quale la commissione parlamentare porrebbe in essere non atti di
governo — figura residua, nell'ordinamento attuale, dell'atto poli tico — ma, quale organo non costituzionale, atti di natura
meramene amministrativa, come tali sindacabili dal T.A.R.
Si è dimostrato, invero, nell'esame dei due primi profili di
censura, il carattere costituzionale-parlamentare dell'organo bi
camerale e, inoltre, la natura politico-costituzionale dell'indi rizzo nel quale rientrano le sue funzioni, anche operative. Non
può trovare applicazione, pertanto, ila massima citata dai ricorren
ti (sez. un. 5 agosto 1975, n. 2979, id., 1976, I, 392), secondo la
quale sono sindacabili in sede giurisdizionale i provvedimenti amministrativi emessi da organi costituzionali (riguardanti, nel
caso deciso della sentenza 2979, rapporti di lavoro). E non è,
quindi, incostituzionale negare la sindacabilità di provvedimenti, come quelli in esame, posti in essere da un organo parlamentare nell'esercizio delle sue funzioni di controllo e di indirizzo politico.
Ma anche da un punto di vista sostanziale valgono per l'accesso in senso improprio alle « tribune » alcune delle conside
razioni già svolte a proposito dell'accesso in senso proprio all'e
mittente.
Invero, secondo la razionale interpretazione della sentenza della
Corte costituzionale n. 225 del 1974, data dal legislatore ordinario
con la 1. n. 103/75, per poter realizzare il modello del servizio di
informazione radiotelevisiva elaborato nella sentenza stessa, è
necessario estendere all'accesso il controllo dell'organo parlamen tare. Nel momento dell'accesso, invero — considerato in ogni suo
aspetto — il servizio riservato all'ente publico monopolista ai
sensi dell'art. 43 Cost, si integra — come si è già precisato —
con le molteplici fonti esterne di notizie e voci culturali diverse, conformemente al precetto dell'art. 21 Cost.
Tale processo di integrazione non è realizzabile — secondo le linee tracciate nella sentenza della Corte costituzionale — se non attraverso la « pariamentarizzazione » anche delle funzioni opera
tive attinenti al momento effettuale dell'indirizzo politico (control lo dell'accesso e disciplina delle tribune); cioè dell'intero servi zio di informazione radiotelevisiva (al di qua, naturalmente, dell'area di « riserva aziendale »).
Questa sintesi normativa, operata dal legislatore con la con centrazione dei poteri di direzione e di controllo nella sfera della
capacità di azione e di decisione del parlamento e, per esso,
dell'organo bicamerale, rappresenta il risultato di un'appropriata e razionale lettura della sentenza della corte. È frutto, cioè, di
un'equilibrata scelta della via praticabile per l'attuazione della
riforma, nel quadro di riferimento costituzionale tracciato dalla sentenza: senza pregiudizio di una riserva governativa, che non
esiste, e senza pregiudizio della posizione dei gruppi aspiranti all'accesso (in senso proprio ed improprio) i quali, nella generali tà dei casi, sono titolari di un interesse indifferenziato, mentre gli « aventi diritto » a partecipare, alle tribune — primi fra tutti i
partiti politici — trovano nel vincolo soggettivo della delibera la
garanzia del proprio intervento.
Pertanto, sia per la formale ricorrenza del duplice presupposto, soggettivo e oggettivo, che importa la incensurabilità degli atti della commissione, sia per il fondamento razionale dell'interpreta zione della sentenza n. 225 del 1974, offerta dal legislatore della
riforma, l'eccezione di illegittimità della normativa vigente si
rivela, anche sotto questo profilo, infondata e deve essere disatte sa. Ne consegue che, sottraendosi la sentenza impugnata alle censure dei ricorrenti, va rigettato il ricorso per regolamento di
giurisdizione, tendente ad ottenere la dichiarazione della compe tenza giurisdizionale del T.A.R. Lazio a conoscere della contro versia. (Omissis)
CORTE DI CASSAZIONE; Sezione I civile; sentenza 9 novem bre 1983, n. 6622; Pres. Sandulli, Est. Senofonte, P. M. Zema (conci, conf.); Rosa (Avv. Fazzalari, A. Pallottino) c. Comune di Roma (Avv. Precone). Cassa App. Roma 19
maggio 1980.
Giurisdizione civile — Controversie tra privato e p.a. — Prov vedimento amministrativo — Disapplicazione del giudice or dinario — Limiti (L. 20 marzo 1865 n. 2248, ali. E, sul con tenzioso amministrativo, art. 5).
Nelle controversie tra privato e p.a. il giudice ordinario può esa
minare incidentalmente, ai fini della sua eventuale disappli cazione, il provvedimento amministrativo illecito, e cioè lesivo di diritti soggettivi, ma non quello illegittimo, vale a dire inci dente su interessi legittimi. (1)
(1) Per giustificare l'enunciazione riassunta nella massima la corte ha osservato nell'ordine che: a) nelle controversie tra privati e p.a. l'esame incidentale della legittimità del provvedimento amministrativo da parte del giudice ordinario è possibile soltanto quando si tratti di atto illecito, lesivo cioè di diritti soggettivi; b) ove i vizi denunciati rientrino tra quelli previsti dall'art. 26 t.u. sul Consiglio di Stato (incompetenza, violazione di legge, eccesso di potere) non è consentito al giudice ordinario sindacare la legittimità dell'atto amministrativo né eventualmente disapplicarlo; c) gli effetti dell'atto amministrativo, consolidatisi per l'inutile decorso del termine d'impugnazione {o per l'abbandono della medesima) non possono essere rimessi in discussione in successivi giudizi, quale ne sia l'oggetto, eludendo la perentorietà dei termini del processo amministrativo, per far spazio ad una sorta di tutela residuale e concorrente di carattere meramente obiettivo.
La corte ha anche affermato, senza peraltro attribuire rilievo decisi vo alla enunciazione, che quand'anche il riscontro di legittimità previsto dall'art. 5 1. n. 2248, ali. E, possa essere esercitato d'ufficio non per questo « la parte che il vizio deduca è esonerata dall'onere di
specificarlo adeguatamente e quindi di fornire per lo meno » un principio di prova.
Tale essendo l'iter argomentativo della sentenza, è agevole rilevare che quest'ultima considerazione, solo in parte suffragata dalla richiama ta Cass. 19 marzo 1981, n. 1616, Foro it., Rep. 1981, voce Giurisdi zione civile, n. 107 (per la quale il potere di disapplicazione ex art. 5 cit. non è esercitabile di ufficio in ipotesi di illegittimità per travisa mento dei fatti che non sia stato dedotto dall'interessato) non è condivisa né dalla dottrina (A. M. Sandulli, Manuale, 1982, 1943; P. Gotti, Considerazioni su recenti orientamenti giurisprudenziali in tema di sindacato giudiziario di legittimità sugli atti amministrativi, in Foro amm., 1981, 200 ss., spec. 220 e nota 90) né dalla giurisprudenza (fra le altre, Cass. 27 maggio 1975, n. 2135, Foro it., 1976, I, 100; 6 aprile 1972, n. 1030 id., 1972, I, 2471, entrambe con osservazioni di C. M. Barone), per le quali l'accertamento incidentale della illegittimità dell'atto amministrativo può essere compiuto anche d'ufficio dal giudice ordinario in ogni stato e grado del processo.
Anche l'affermazione riassunta sub b) è smentita sia in dottrina {Sandulli, op. cit., 1143-1144; Gotti, op. cit., 221-224) che in giurisprudenza. La Corte di cassazione, infatti, non solo ritiene possibi le il riscontro da parte del giudice ordinario, sempre ai fini dell'art. 5
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