REDAZIONE
Direttore: Corrado Piroddi.
Vicedirettore: Anna Maria Ricucci
Redazione: Valeria Bizzari, Antonio Freddi, Giacomo Miranda, Teresa Paciariello, Lavinia Pesci, Corrado Piroddi, Anna Maria
Ricucci, Timothy Tambassi.
Collaboratori esterni: Marco Anzalone, Simona Bertolini, Mara Fornari, Donatella Gorreta, Federica Gregoratto, Francesco
Mazzoli, Giovanna Maria Pileci, Marina Savi, Cristina Travanini.
Direttore responsabile: Ferruccio Andolfi.
SOMMARIO
Introduzione..............................................................................................................................................................................................p. 4
Umanamente oggettivo. Spunti di riflessione a partire dai «Quaderni del carcere» di Lucia Mancini.........................................................p. 6
Tra rappresentazionalismo e realismo diretto: lineamenti di un’interpretazione cartesiana di Giacomo Miranda....................................p. 14
Sulla realtà delle proprietà estetiche: un’incursione nel dibattito analitico di Cristina Travanini.............................................................p. 23
La struttura della compresentazione nella fenomenologia husserliana di Daniela Bandiera....................................................................p. 31
Realtà, ontologia e prospettivismo nell’elaborazione americana di Nietzsche di Antonio Freddi..............................................................p. 37
Realtà e possibilità. Una riflessione sulla proposta metafisica di E.J. Lowe di Timothy Tambassi.........................................................p. 51
Introduzione
Giunta alla seconda edizione, la Giornata di Studi per Dottorandi e Dottori di Ricerca ha mantenuto il taglio della
precedente, privilegiando un approccio argomentativo e dialogico intorno al tema della realtà e del suo rapporto con
il pensiero. Studiosi specializzati in diversi ambiti della filosofia, legati all’Università degli Studi di Parma che ha
fatto da cornice all’evento, si sono confrontati senza che l’apertura prevista dal dibattito si traducesse in una deroga
alla scientificità o alla specificità dei rispettivi metodi. Ne è risultato un succedersi di contributi densi e stimolanti,
raccolti in questo numero della rivista «Quaderni della Ginestra» la cui Associazione culturale di riferimento, «La
Ginestra», è stata, insieme all’Università di Parma e alla Società Filosofica Italiana, tra i patrocinatori dell’evento.
Al riguardo, rinnoviamo i nostri più sentiti ringraziamenti alla prof.ssa Beatrice Centi, Responsabile dell’Area di
Filosofia del Dipartimento A.L.E.F. dell’Università di Parma, e al prof. Ferruccio Andolfi, presidente
dell’Associazione culturale «La Ginestra», direttore de «La società degli individui» e autorevole sostenitore di
questa iniziativa. Ringraziamo i singoli Relatori per gli articoli che compongono la raccolta e cogliamo, infine,
l’occasione per apprezzare il lavoro di Corrado Piroddi, direttore dei «Quaderni della Ginestra» e responsabile
dell’editing.
I curatori
Giacomo Miranda Timothy Tambassi
Quaderni della Ginestra
6
os’è la realtà?
Questo interrogativo, da sempre uno dei punti cardine
dell’indagine filosofica, non è estraneo alla ricerca intellettuale condotta
da Gramsci nei Quaderni del carcere1. Se da un lato questa constatazione
può non destare stupore data la natura frammentaria e miscellanea dei
Quaderni, dall’altro non possiamo che interrogarci sul motivo che può
avere spinto Gramsci, un politico ma non un filosofo, ad affrontare un
tema apparentemente così lontano, così eterogeneo, dai suoi interessi
specifici.
Si cercherà quindi di mostrare come la riflessione sul concetto di
realtà nell’economia del lavoro intellettuale gramsciano trascenda il
piano teoretico-epistemologico per assumere una connotazione
squisitamente politica.
1. Premesse metodologiche
Data la natura degli scritti carcerari, per poter meglio contestualizzare
le mie osservazioni, che non hanno la pretesa di essere conclusioni, ma
semplici spunti di riflessione a partire da alcuni paragrafi dei Quaderni,
diventa necessario premettere alcune considerazioni metodologiche da
tenere sempre presenti nel momento in cui affrontano i testi gramsciani.
Il breve paragrafo che segue ha una semplice funzione introduttiva, può
essere saltato da chi ha già dimestichezza con lo studio delle annotazioni
gramsciane.
In primo luogo occorre tenere presente che i Quaderni del carcere non
sono una trattazione organica e lineare di uno o più argomenti, ma degli
appunti, più o meno approfonditi, che Gramsci raccoglie tra il 1929 e il
1935 su ogni campo del sapere umano: storia, letteratura, economia,
scienze, traendo spunto da ricordi e da letture di libri e riviste.
La prima fase del lavoro carcerario (dall’8 febbraio 1929 alla
primavera del 1932) viene dedicata alle traduzioni dal tedesco, inglese e
dal russo, e all’accumulazione progressiva di note di vario argomento; a
partire dall’aprile del 1932 (pur continuando la stesura di nuove note
miscellanee) Gramsci dà inizio alla compilazione di quaderni, da lui
definiti «speciali», destinati a smistare e raccogliere ‘monograficamente’
alcune delle annotazioni precedenti. A causa del regolamento carcerario,
che limitava il numero di libri e quaderni consentito in cella, Gramsci,
per ovviare a questa restrizione, divideva idealmente e strutturalmente
alcuni di essi in sezioni. Tale pratica gli consentiva di affrontare
contemporaneamente più tematiche e di comportarsi come se avesse a
C UMANAMENTE OGGETTIVO. SPUNTI DI RIFLESSIONE A
PARTIRE DAI QUADERNI DEL CARCERE
Pensare la realtà
7
disposizione un numero maggiore di quaderni2. Si possono così
riconoscere diverse tipologie di quaderni: i quaderni miscellanei, nei
quali vengono raccolte annotazioni senza distinzioni di materia, i
quaderni misti (ossia quei quaderni che hanno una parte miscellanea e
almeno una sezione monografica) e i quaderni speciali, monografici,
destinati a raccogliere le riscritture di note precedenti.
Valentino Gerratana, autore della prima edizione critica dei Quaderni
del carcere, individuava tre differenti tipologie di appunti: i testi A (ossia le
annotazioni in prima stesura cui Gramsci attinge per la compilazione dei
quaderni «speciali»), i testi B (che rimangono in unica stesura) e i testi C
(ossia le annotazioni in seconda stesura dei quaderni «speciali»)3. Nello
specifico i testi C permettono di cogliere, attraverso le modifiche
operate rispetto alle annotazioni originarie, il «ritmo del pensiero in
isviluppo»4 che sostanzia i Quaderni: il processo di revisione continua cui
Gramsci sottopone i suoi appunti e, di conseguenza, le sue posizioni
teoriche. Infatti, nella quasi totalità dei casi, le riscritture sono più
dubitative che assertive perché tendono a problematizzare quanto
scritto nelle annotazioni in prima stesura.
Per comprendere l’idea del lavoro di interrogazione continua che
anima i Quaderni del carcere è possibile fare riferimento al seguente passo,
un appunto particolarmente prezioso perché in esso è Gramsci stesso a
sottolineare il carattere provvisorio delle sue riflessioni:
tutte queste note sono provvisorie e scritte a penna corrente: esso
sono da rivedere e da controllare minutamente, perché contengono
inesattezze, anacronismi, falsi accostamenti ecc. che non importano
danno perché le note hanno solo l’ufficio di promemoria rapido.5
Queste righe fanno parte di un’annotazione del maggio 1930; a due
anni di distanza Gramsci estrapola questo passo, lo rende autonomo e
lo pone in calce al quaderno speciale 11, intitolato Introduzione allo studio
della filosofia. Nel testo C leggiamo:
le note contenute in questo quaderno, come negli altri, sono state
scritte a penna corrente, per segnare un rapido promemoria. Esse sono
tutte da rivedere e controllare minutamente, perché contengono
certamente inesattezze, falsi accostamenti, anacronismi. Scritte senza
aver presenti i libri cui si accenna, è possibile che dopo il controllo
debbano essere radicalmente corrette perché proprio il contrario di ciò
che è scritto risulti vero.6
Proprio perché la riflessione gramsciana è per sua natura provvisoria,
e Gramsci stesso mette in guardia dalla necessità di non «far dire ai testi,
Quaderni della Ginestra
8
per amor di tesi, più di quanto i testi realmente dicono»7, le mie
riflessioni che non vogliono essere ‘dati acquisiti’, ma spunti di
riflessione, interrogazioni a partire da alcuni appunti carcerari.
2. Realtà, spunti di riflessione
Il tema della realtà viene affrontato in diverse annotazioni, per lo più
rubricate sotto i titoli La tecnica del pensiero e L’obbiettività del mondo esterno.
La maggior parte delle note che citerò sono tratte dalle tre serie di
Appunti di filosofia8.
Già a una prima e superficiale lettura si rileva come il fine principale
di questi appunti sia quello di invalidare le tesi del realismo filosofico.
Per perseguire questo obiettivo Gramsci si muove
contemporaneamente contro due approcci, il ‘senso comune’9 e il
materialismo sovietico, due ‘orientamenti’ che, seppur all’apparenza
incommensurabili, portavano a respingere, perché assurda e
controintuitiva, la problematizzazione dell’obiettività e della piena
conoscibilità del mondo esterno. Il senso comune perché ancora
inconsapevolmente permeato dall’ideologia religiosa (secondo la quale
l’uomo, ultima creatura di Dio, si trova inserito in una realtà già esistente
e perfettamente compiuta). Il materialismo sovietico perché, sulla scia di
Materialismo ed empiriocriticismo, banalizzando la differenza kantiana tra
fenomeno e cosa in sé10, affermava l’esistenza di una realtà
indipendentemente e pienamente conoscibile a prescindere dai nostri
schemi concettuali, dalle nostre pratiche linguistiche, dalle nostre
credenze. È interessante notare che nella critica di questa posizione
Gramsci non cita mai l’opera leniniana, ma sempre il testo di Bucharin,
Teoria del materialismo storico, manuale popolare di sociologia marxista (tradotto
in diverse lingue europee, il testo, che tra il 1921 e il 1929 ha avuto sedici
edizioni nella sola Unione Sovietica, era stato pensato come una sorta di
abc, ad uso popolare, del marxismo), citato nei Quaderni nella forma
contratta di Saggio popolare11.
Gramsci definisce con chiarezza la sua posizione nei confronti
dell’oggettività del mondo esterno già nella prima serie di Appunti di
filosofia del Quaderno 4 affermando che questa non è un fatto scientifico
comprovabile mediante prove empiriche, ma «una concezione del
mondo, una filosofia». La scienza può solo vagliare le sensazioni al fine
di separare quelle permanenti dalle fallaci, legate cioè a «speciali
condizioni umane». In questo senso la scienza rettifica e perfeziona la
nostra percezione del mondo descrivendo «l’essere comune a tutti gli
uomini, l’essere indipendente da ogni punto di vista che sia meramente
particolare.»12
Pensare la realtà
9
Con l’esplicito riferimento all’uomo, Gramsci ci suggerisce una
concezione storica, transeunte, umana della realtà. Per corroborare
questa tesi Gramsci riprende l’argomentazione fornita da Russell circa le
categorie di Oriente-Occidente e i concetti di linea, punto, superficie.
Ricordo una affermazione di Bertrando Russell: si può immaginare
sulla terra, anche senza l’uomo, non Glasgow e Londra, ma due punti
della superficie della terra uno più a Nord e uno più a Sud (o qualcosa
di simile: è contenuta in un libretto filosofico di Russell tradotto in una
collezioncina Sonzogno di carattere scientifico). Ma senza l’uomo cosa
significherebbe Nord e Sud, e “punto”, e “superficie” e “terra”?13
A pochi mesi di distanza, nella seconda serie di Appunti di filosofia del
Quaderno 7, l’argomento viene approfondito14:
Oggettività del reale. Per intendere esattamente i significati che può
avere questo concetto, mi pare opportuno svolgere l’esempio dei
concetti «Oriente» e «Occidente» che non cessano di essere
«oggettivamente reali» seppure all’analisi si dimostrano nient’altro che
una «costruzione convenzionale» ossia «storica» (spesso i termini
«artificiale» e «convenzionale» indicano fatti «storici», prodotti dello
sviluppo della civiltà e non costruzioni razionalisticamente arbitrarie o
individualmente arbitrarie). Ricordare il libretto di Bertrand Russell
(ediz. Sonzogno, in una nuova collezione scientifica, numero 5 o 6) sulla
filosofia neorealistica, e il suo esempio. Il Russell dice presso a poco:
«Noi non possiamo pensare, senza l’esistenza dell’uomo sulla terra,
all’esistenza di Londra e di Edimburgo, ma possiamo pensare
all’esistenza di due posti, dove sono oggi Londra e Edimburgo, uno a
Nord e l’altro a Sud». Si potrebbe obbiettare che senza pensare
all’esistenza dell’uomo, non si può pensare di «pensare», non si può
pensare in genere a nessun fatto o rapporto che esiste solo in quanto
esiste l’uomo.
Ma il fatto più tipico, da questo punto di vista, è il rapporto Nord-
Sud e specialmente Est-Ovest. Essi sono rapporti reali e tuttavia non
esisterebbero senza l’uomo e senza lo sviluppo della civiltà. È evidente
che Est e Ovest sono costruzioni arbitrarie, e convenzionali (storiche),
poiché fuori della storia reale ogni punto della terra è Est ed Ovest nello
stesso tempo: costruzioni convenzionali e storiche non dell’uomo in
generale, ma delle classi colte europee, che attraverso la loro egemonia
mondiale le hanno fatte accettare a tutto il mondo. Il Giappone
probabilmente è Estremo Oriente non solo per l’Europeo, ma anche
per l’americano della California e per lo stesso Giapponese, il quale
attraverso la cultura inglese chiamerà prossimo Oriente l’Egitto, che dal
suo punto di vista dovrebbe essere Occidente lontano ecc. D’altronde il
valore puramente storico di tali riferimenti appare dal fatto che oggi le
Quaderni della Ginestra
10
parole Oriente e Occidente hanno acquistato un significato
extracardinale e indicano anche rapporti fra complessi di civiltà15
In questa prospettiva, se lasciato sul piano meramente teorico-
speculativo, perde senso l’interrogativo circa la realtà del mondo esterno
perché «ciò che importa non è dunque l’oggettività del reale come tale
ma l’uomo che elabora questi metodi»16.
Il rapporto uomo-realtà viene da Gramsci risolto attraverso il
concetto di praxis perché «senza l’attività dell’uomo, creatrice di tutti i
valori anche scientifici, cosa sarebbe l’“oggettività”?»17.
Non è difficile notare l’assonanza tra questa posizione e quanto
espresso da Marx nelle Tesi su Feuerbach che Gramsci legge e traduce in
carcere proprio negli stessi mesi in cui registra queste osservazioni. La
seconda tesi su Feuerbach, nella traduzione di Gramsci, recita:
la quistione se al pensiero umano appartenga una verità obbiettiva,
non è una quistione teorica, ma pratica. È nell’attività pratica che
l’uomo deve dimostrare la verità, cioè la realtà e il potere, il carattere
terreno del suo pensiero. La discussione sulla realtà o non realtà di un
pensiero, che si isoli dalla praxis, è una quistione puramente scolastica.18
Gramsci definisce così il retroterra filosofico del materialismo storico
secondo cui «non si può staccare il pensare dall’essere, l’uomo dalla
natura, l’attività (storia) dalla materia, il soggetto dall’oggetto, se si fa
questo distacco si cade nel chiacchiericcio, nell’astrazione senza senso»19.
Ecco che, per superare la separazione tra essere e pensiero, tra
attività e materia, Gramsci concepisce il materialismo storico come un
nuovo monismo ossia come la
attività dell’uomo (storia) in concreto, […] applicata a una certa
«materia» organizzata (forze materiali di produzione), alla «natura»
trasformata dall’uomo. Filosofia dell’atto (praxis), ma non dell’«atto
puro», ma proprio dell’atto «impuro», cioè reale nel senso profano della
parola.20
Ne segue che il marxismo può essere a buon diritto essere definito
materialismo storico se e solo se si interpreta il termine materialismo nel
suo «significato più estensivo»21, ossia come categoria ermeneutica che
escluda la trascendenza dal proprio orizzonte teorico e pratico.
In conclusione, ogni interrogativo sulla natura e sulla realtà che
venga posto sub specie aeternitatis, prescindendo cioè dalla prassi umana, è
un falso problema perché natura e realtà sono sempre dati in quella
Pensare la realtà
11
MATTEO CERRETELLI, LETTURE DI STRADA
sintesi storica nella quale è impossibile prescindere dall’attività umana.
Se è così, ciò che più importa non è dunque l’oggettività del reale
come tale ma l’uomo che elabora questi metodi, questi strumenti
materiali che rettificano gli organi sensori, questi strumenti logici di
discriminazione, cioè la cultura, cioè la concezione del mondo, cioè il
rapporto tra l’uomo e la realtà. Cercare la realtà fuori dall’uomo appare
quindi un paradosso, così come per la religione è un paradosso, peccato,
cercarla fuori di Dio.22
Dopo aver apportato poche varianti, nel corrispettivo testo C
Gramsci aggiunge: «senza l’uomo, cosa significherebbe la realtà
dell’universo? Tutta la scienza è legata ai bisogni, alla vita, all’attività
dell’uomo»23. Ne risulta che, conoscendo solo «i fenomeni in rapporto
all’uomo e siccome l’uomo è un divenire, anche la conoscenza è un
divenire, pertanto anche l’oggettività è un divenire»24. Oggettivo quindi,
si domanda retoricamente Gramsci, «non significherà “umanamente
oggettivo” e non perciò anche umanamente “soggettivo”?»25
3. Considerazioni conclusive
Gramsci con la sua riflessione si impegna a definire la realtà come un
costrutto umano, sociale, per la precisione. Un prodotto storico e quindi
destinato a variare col mutare del sistema sociale di riferimento.
A mio avviso, si può affermare che ad essere importanti non siano
tanto le argomentazioni che Gramsci utilizza a favore della sua tesi,
quanto piuttosto il fine che le anima.
Gramsci non era un filosofo, Gramsci era «un combattente che non
ha avuto fortuna nella lotta politica immediata»26. Qual è stato il motivo
che può aver spinto Gramsci ad affrontare un argomento
apparentemente così lontano dai suoi interessi più o meno immediati
Quaderni della Ginestra
12
come il concetto di realtà e la critica del realismo filosofico di Bucharin?
Probabilmente la risposta a questa domanda risiede nel senso ultimo
che hanno le pagine dei Quaderni. I Quaderni del carcere sono un
laboratorio concettuale immenso, frammentario, labirintico, ma hanno
un fine preciso: elaborare per il futuro un progetto politico impossibile, a
causa della dittatura fascista, da attuare nel presente. Definire la realtà
come un processo, una costruzione umana, storica, e respingere l’idea che
si tratti di un qualcosa di fisso, immutabile, indipendente dall’uomo,
rientra a pieno titolo in questo progetto politico.
Gramsci è intimamente convinto della traducibilità tra concezione del
mondo (anche quando inconsapevole, acritica) e agire politico. La
filosofia, per Gramsci, non è pura teoresi, né semplice storia delle idee,
la filosofia è l’intera forma mentis sottesa al comportamento individuale e
sociale, la filosofia dà senso e vivifica la strategia politica. Come
sottolinea giustamente Frosini, il «materialismo volgare» (e il realismo
filosofico che sottende) appare a Gramsci un’ideologia da subalterni
perché «non fa che ripetere in forma variata la concezione religiosa del
rapporto tra uomo e mondo come di due sfere reciprocamente
estranee»: per Gramsci, «il materialismo perpetua la percezione che di se
stessi hanno le classi subalterne, come di oggetti privi di volontà, in balia
delle circostanze»27.
Per Gramsci il compito del politico in un momento storico di crisi è
educare le classi popolari ad assumere progressivamente un ruolo attivo
e consapevole nella vita politica del paese. Rifondare la filosofia partendo
dal concetto stesso di realtà diventa quindi la precondizione per la
riflessione e l’azione politica.
LUCIA MANCINI
1 Antonio Gramsci, Quaderni del carcere, Edizione critica dell’Istituto Gramsci a cura di V. Gerratana, Einaudi, Torino 1975-2007. I riferimenti ai Quaderni del carcere seguiranno questo ordine: QC, numero di quaderno, numero di paragrafo, numero di pagina dell’edizione critica. Le citazioni delle traduzioni carcerarie fanno riferimento a Quaderni di traduzioni (1929-1932), a cura di G. Cospito, G. Francioni, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, Roma 2007: saranno citati con la sigla QT seguita dall’indicazione del quaderno e del numero di pagina dell’edizione critica. Per quanto riguarda le citazioni dalle lettere, farò riferimento a Lettere dal carcere (1926-1937), a cura di A. A. Santucci, Sellerio, Palermo 1996. I riferimenti seguiranno questo schema: LC, numero di pagina e tra parentesi il destinatario seguito dalla data della lettera. 2 Per quanto riguarda le ‘norme’ redazionali e le modalità di stesura che Gramsci adot-ta in carcere, rimando alla Nota al testo di Gianni Francioni (QT, 835-898). 3 V. Gerratana, Prefazione in QC, XXXVI-VII. 4 QC, 4, 1, 419. 5 QC, 4, 16, 438. 6 QC, 11, Avvertenza, 1365. 7 QC, 6, 198, 838. 8 Con il titolo di Appunti di filosofia Gramsci definisce tre blocchi di note contenute nei Quaderni 4, 7 e 8, stese nei due anni compresi tra il maggio del 1930 e il maggio del 1932. La prima serie (dalla carta 41 recto alla carta 80 verso del Quaderno 4) è stata ver-gata tra il maggio e il novembre del 1930, la seconda (da c. 51 recto a c. 73 verso del Quaderno 7) tra il novembre del 1930 e il novembre del 1931 e l’ultima (dal recto di c. 51 al verso di c. 79) tra il novembre del 1931 e il maggio del 1932. Per quanto riguarda
Pensare la realtà
13
la particolare accezione del termine filosofia in Gramsci rimando al testo di F. Frosini, La religione dell’uomo moderno. Verità e politica nei Quaderni del carcere di Antonio Gramsci, Carocci, Roma 2010. 9 Per Gramsci, il senso comune «è la “filosofia dei non filosofi”, cioè la concezione del mondo assorbita acriticamente dai vari ambienti sociali in cui si sviluppa l’individualità morale dell’uomo medio. Il senso comune non è una concezione unica, identica nel tempo e nello spazio: esso è il “folclore” della filosofia, e come il folclore si presenta in forme innumerevoli: il suo carattere fondamentale è di essere una concezione del mondo disgregata, incoerente, inconseguente, conforme al carattere delle moltitudini di cui esso è la filosofia» (QC, 8, 173, 1045). 10 «Ogni differenziazione misteriosa, sottile, ingegnosa tra il fenomeno e la cosa in sé è un’assoluta assurdità filosofica. In effetti ogni uomo ha osservato milioni di volte la trasformazione semplice ed evidente della “cosa in sé” in fenomeno, in “cosa per noi”. Questa trasformazione non è altro che la conoscenza. La “dottrina” del machismo se-condo cui, poiché noi conosciamo solo le sensazioni, non possiamo sapere niente sull’esistenza di qualche cosa oltre i limiti delle sensazioni, è un vecchio sofismo della filosofia idealistica e agnostica che viene servito con una nuova salsa». (Lenin, Materia-lismo ed empiriocriticismo, [1908], in Opere complete, XLV vol., Editori Riuniti, Roma 1955-1970, vol. XIV, pp. 13-377, p. 116). È doveroso ricordare come nei suoi Quaderni filoso-fici (scritti di carattere personale, non destinati alla pubblicazione e quindi liberi da pre-occupazioni politico-ideologiche immediate) Lenin registri osservazioni gnoseologiche meno ingenue nelle quali la conoscenza non viene definita come mera «fotografia» ma come «processo». «La conoscenza è il processo di immersione (dell’intelletto) nella natu-ra inorganica allo scopo di subordinarla alla potenza del soggetto e allo scopo di otte-nere generalizzazioni (conoscenza dell’universale nei suoi fenomeni). […] Il coincidere del pensiero con l’oggetto è un processo: il pensiero (=l’uomo) non si deve rappresentare la verità come la morta quiete, come una semplice immagine (copia), pallida (inerte), senza tendenza, senza movimento, come un genio o un numero, come un pensiero astratto» (V. I. Lenin, Quaderni filosofici, a cura di L. Colletti, Feltrinelli, Milano 1976, pp. 186-187). 11 N. I. Bucharin, Teorija istoričeskogo materializza. Populjarnyi učebnik marksistkoj sociologii, Mosca 1921; La théorie du materialisme historique. Manuel populaire de sociologie marxiste, Édi-tion Sociales Internationales, Paris 1927; trad. it. A Binazzi, a cura di V. Gerratana, Teoria del materialismo storico. Manuale popolare di sociologia marxista, La nuova Italia, Firen-ze 1977.
12 QC, 4, 41, 466. 13 QC, 4, 41, 467. 14 Un’ulteriore spia dell’interesse di Gramsci può essere dato dall’autonoma correzione dei riferimenti geografici (Edimburgo in luogo di Glasgow) dell’esempio di Russell. Rimando alle osservazioni di Giuseppe Cospito nel saggio Gli strumenti logici del pensiero: Gramsci e Russell in Gramsci e la scienza, storicità e attualità delle note gramsciane sulla scienza, a cura di M. P. Musitelli, Istituto Gramsci Friuli Venezia Giulia, Trieste 2008, pp. 63-80. 15 QC, 7, 25, 874. 16 QC, 4, 41, 467. 17 Ibidem [corsivo mio]. 18 QT, 7 [a], 743. 19 QC, 4, 41, 467. 20 QC, 4, 37, 455. 21 QC, 11, 16, 1408. 22 QC, 4, 41, 467. 23 QC, 11, 37, 1457. 24 QC, 8, 177, 1049. 25 QC, 8, 177, 1048. 26 LC, 448 (alla madre, 24 agosto 1931). 27 F. Frosini, Gramsci e la filosofia, cit., p. 87.
Quaderni della Ginestra
14
ella storia della filosofia uno dei temi più ricorrenti, e talora
inflazionati, è senza dubbio il mind-body problem. In generale, lo si
identifica con l’aporia della presenza, in un solo individuo, di due
sostanze separate quanto a funzioni e, per conseguenza diretta, a status
ontologico. L’immaterialità della mente e dei pensieri appare, se non in
contraddizione, certamente difficile da conciliare con la materialità del
corpo e dei suoi movimenti meccanici, per quanto l’esperienza ordinaria
confermi il singolo nella persuasione di essere all’origine di pensieri e, al
contempo, di azioni materiali. E tuttavia il ricorso all’esperienza, a ciò
che restituiscono i sensi, non è sufficiente, non consente di eludere la
problematicità di una coppia di opposti che verrebbero a coesistere in
un io unitario, o che come tale sperimenta se stesso. Il semplice esperire,
o esperirsi, ben lungi dal privare il mind-body problem della sua rilevanza
filosofica, si inserisce in quanto tale nella questione più ampia evocata
dal titolo della «Giornata di Studi», poiché il primo passo per pensare la
realtà è pensare la propria realtà.
Al riguardo mi è parso significativo proporre la figura di Descartes,
tradizionalmente considerato il campione di un dualismo senza
soluzione – cioè senza conciliabilità – tra mente e corpo e noto per aver
dato un inedito rilievo alla nozione di idea nel pensare la realtà. Poiché,
come apparirà in seguito e alla fine, i due temi sono strettamente
congiunti, dapprima procederò con una breve esposizione dello status
delle idee in Descartes fatta eccezione per quella di Dio, che
meriterebbe una ben più ampia trattazione a parte; dopodiché
ricostruirò le linee guida di una recente interpretazione del filosofo
come rappresentazionalista e, al contempo, realista diretto; infine, alla
luce della teoria dell’idea che sarà emersa, abbozzerò in estrema sintesi
una lettura di Descartes in chiave antidualista, riferendomi in particolare
al carteggio con la principessa Elisabetta di Boemia.
Come prima e immediata osservazione, in Descartes l’elemento
imprescindibile per pensare la realtà, l’idea, ha perso quasi totalmente i
suoi originari connotati platonici. L’opera cartesiana, invero, non è un
caso isolato, risente dell’influsso di un milieu in cui accanto al concetto di
idea-archetipo si era attestato quello di atto compiuto da una mente
finita, e dunque immanente alla causalità di quest’ultima. Nel Lexicon
philosophicum di Rudolph Goclenius, edito nel 1613, l’idea viene trattata
sotto due aspetti, uno generale e l’altro particolare, o speciale: descritta
secondo il primo aspetto, l’idea è la forma o exemplar di una cosa
guardando alla quale un opifex (artigiano, con un richiamo evidente al
Demiurgo del Timeo) produce (efficit) qualcosa in funzione di una precisa
N
TRA RAPPRESENTAZIONALISMO E REALISMO DIRETTO: LINEAMENTI DI UN’INTERPRETAZIONE CARTESIANA
Pensare la realtà
15
intenzione. Specificando questa definizione ne risulta, in base al
secondo aspetto, che idea è la forma o la ragione di una cosa nella
mente di Dio, forma eterna ed immutabile contemplando la quale viene
creato qualcosa di analogo benché dotato di attributi antitetici a quelli
dell’archetipo, quali la durata, la mortalità, il movimento etc.
Prescindendo da quest’ultima, consideriamo invece la prima modalità di
intendere l’idea, precisata poco dopo – sempre alla voce «Idea» del
Lexicon – come segue: «Idea est ratio architectatrix […] in mente
artificis»1. Qui appare accentuato il carattere della progettualità: il
significato di idea tende a differenziarsi da quello di exemplar nella misura
in cui ciò che si designa non è più il corrispettivo perfetto di una cosa
imperfetta, bensì un movente, qualcosa di nettamente più simile al
prodotto della causalità esercitata da una mente umana.
Una fonte delle Meditazioni cartesiane, la Summa philosophiae
quadripatita di Eustache de Saint-Paul, pubblicata nel 1609 e ristampata
nel 1614, lascia anch’essa sopravvivere, in formale omaggio alla
tradizione platonica, il binomio idea-exemplar, ma attribuisce apertamente
all’idea la natura di atto, ovvero di effetto riconducibile ad un agente2.
In Descartes l’inerenza delle idee alla potenzialità della mente
rappresenta un dato acquisito, tanto più che si pone all’origine di una
serie di conseguenze assai rilevanti. In primo luogo, in quanto actus di un
agens, l’essere dell’idea non può ridursi a mero nulla, perché, se così
fosse, si dovrebbe dubitare della consistenza ontologica del suo agens,
ossia della mente. Bisogna allora suppore che il grado d’essere di
un’idea, incomparabile con quello degli oggetti extramentali, sia tuttavia
sufficiente non solo a distinguerla dal nulla, ma anche ad introdurre un
principio di individuazione che stabilisca una differenza numerica
rispetto alle altre idee. Assumo qui il termine “numerica” nel senso
cartesiano di “formale”, in quanto, a prescindere da ciò che
rappresentano, il criterio differenziante di base delle idee è il loro essere
entità individuali, ciascuna identica a se stessa. Si danno perciò idee
plurime solo in quanto si danno atti di pensiero plurimi, vale a dire
esercitati da una sostanza pensante, la mens, che mentre opera
produttivamente in questo modo, per così dire, ‘vede’ i prodotti della
sua operazione. E il ‘vedere’ della mente equivale a possedere
rappresentazioni, vale a dire oggetti dotati di un’esistenza intenzionale,
la cui essenza obiettiva non è altro che l’immagine (non subìta dalla
mente ma effetto del suo agire) dei corrispettivi nella realtà. L’idea di
una rosa bianca, per esempio, è quanto all’esse formale un atto della
mente, saturato tuttavia, a livello di esse obiectivum, dalla gamma di
attributi percepiti in presenza della rosa bianca reale. Ogni idea, da
quella della rosa bianca a quella di Dio, è sempre idea di qualcosa, non
Quaderni della Ginestra
16
può essere un contenitore vuoto, donde comprendiamo bene il valore
simbolico dell’idea cartesiana, cioè il suo ‘rimandare ad altro da sé’: alla
mente quanto all’esse formale, alla realtà esteriore quanto all’esse obiectivum.
Poiché dunque, attraverso questa duplice dinamica di rinvii, l’idea si
pone come indispensabile raccordo tra epistemologia e ontologia, si
comprende bene la centralità – e l’originalità – assegnata da David
Clemenson alla modalità di trattazione che ad essa riserva Descartes e
che, secondo il docente della St. Thomas University, può conciliare
rappresentazionalismo e realismo diretto attraverso la dual presence theory.
Prima di illustrarne il significato, trovo però opportuno riportare le
definizioni di ‘rappresentazionalismo’ e ‘realismo diretto’, funzionali
anche a giustificare la scelta del titolo del mio intervento. In
Descartes’Theory of Ideas (Continuum 2007), il testo di riferimento di
Clemenson, il ‘rappresentazionalismo’ designa la posizione per la quale
nulla di ciò che immediatamente percepiamo esiste separato dall’atto
con cui è percepito, e pensare e percepire, va precisato, hanno il
medesimo significato in Descartes. Il realismo diretto asserisce, invece,
che almeno alcune delle percezioni che otteniamo immediatamente di
qualcosa esistono indipendentemente dalla mente.
Clemenson muove dal carattere essenzialista della metafisica
cartesiana, retaggio della formazione che Descartes ricevette presso il
collegio gesuitico di La Flèche tra il 1607 e il 1615. L’attributo
“essenzialista” è giustificato dalla rilevanza riconosciuta alla nozione di
essenza nella definizione di ens. Due erano le modalità di concepire l’ente:
come atto d’essere, ossia d’esistere, e dunque exsistens, oppure nel senso
di essenza (o natura) di una cosa esistente, intendendo ciò per cui la
cosa è ciò che è o, il che è lo stesso, ciò da cui derivano necessariamente
le proprietà che determinano la cosa in quanto tale. Quando parliamo di
ente reale, pertanto, ci riferiamo a un ente la cui essenza è del tutto
indipendente dalle operazioni dell’intelletto, sicché l’ente reale ‘tavolo’ è
quell’essenza posta la quale deriva la proprietà di esistere in piena
autonomia dalle rappresentazioni mentali e in unione con tutte le altre
peculiarità che contraddistinguono l’‘essere un tavolo’, dall’immobilità al
risultare una superficie piana che poggia su quattro sostegni, e così via.
Come il tavolo, anche l’idea del tavolo, che sappiamo essere un ente non
reale, possiede la sua essenza, ma si tratta di un’essenza che si colloca
alle ultime propaggini della capacità comprensiva del concetto di ente,
consistendo essa interamente nell’essere pensata. Mentre, quindi,
un’essenza reale – quella che gli Scolastici moderni denominavano esse in
mundo – deve esistere e non può non esistere, un’essenza ideale può essere,
ossia è fintanto che è pensata nella sua esistenza intenzionale, meritando
così l’appellativo di ‘ente di ragione’: il quale è all’origine di un’ulteriore
Pensare la realtà
17
suddivisione che si rivelerà tra poco cruciale, quella tra ens rationis cum
fundamento in re ed ens rationis sine fundamento in re.
Quest’ultimo è un’essenza intenzionale, o idea, senza il minimo
ancoraggio alla realtà esterna, come suggerisce l’espressione sine
fundamento in re, dunque non è da escludere che possa consistere anche in
un concetto autocontraddittorio come, per esempio, quello di chimera.
La chimera è in sé autocontradditoria perché riunisce proprietà
incompatibili con la loro presenza simultanea in un unico ente reale.
Quanto invece all’ens rationis cum fundamento in re, desidero rinviarne
per il momento l’illustrazione per concentrarmi, piuttosto, sul
consolidamento delle nozioni finora richiamate: la centralità dell’ens in
quanto essenza, l’esistenza come elemento ontologicamente successivo
alla posizione dell’essenza e, dunque, modo d’essere dell’essenza stessa.
Ne segue che dato un soggetto p, dire che p esiste significa, mettendo
temporaneamente tra parentesi la qualifica di in o extra mentem, porre
l’essenza di p necessariamente non contraddittoria con il fatto che p
esista. Nella proposizione ‘p è esistente’, quindi, la copula ‘è’ che
connette soggetto e predicato esprime l’attitudine dell’essenza di p ad
esistere. Nella medesima proposizione assumiamo che p sia un oggetto
mentale, dunque abbia – o sia, è indifferente – un’esistenza intenzionale:
fino a questo punto, con gli opportuni caveat, non si pone il problema
che p esista intenzionalmente, a condizione però che tale esistenza
soddisfi il requisito di dipendere interamente dalla mente, in quanto
concepire anche una chimera nell’orizzonte del pensabile è
un’operazione legittima. Diviene invece più complesso asserire che ‘p è
esistente’ qualora l’essenza di p sia intenzionale e, allo stesso tempo,
dotata di un fondamento in qualcosa che intenzionale non è. L’aggiunta
cum fundamento in re sortisce appunto l’effetto di porre, secondo l’essenza,
l’esistenza di un ens intenzionale come del tutto e non del tutto
dipendente dall’agens di cui è actus. La contraddittorietà è solo apparente,
a patto di considerare con attenzione le distinzioni ontologiche
tematizzate dagli Scolastici e sopravvissute, ancorché con variazioni, nei
Principia cartesiani del 1644.
Ad un esame non superficiale dei testi di La Flèche, materiale di
riferimento privilegiato da Clemenson e valorizzato soprattutto negli
elementi di continuità in Descartes, si intuisce come il concetto di
distinzione si muova tra due estremi opposti, quello della realtà e quello
della concettualità, senza tuttavia escludere gradi intermedi il cui
numero varia a seconda degli autori presi in considerazione. Distinguere
in base all’essenza reale di una cosa, ad esempio del tavolo, presuppone
che si assegni alla cosa un’unità altrettanto reale e, come sappiamo, già
implicata nella sua essenza al di fuori del nostro pensiero. In generale, si
Quaderni della Ginestra
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può dire che p e q sono realmente distinti se e solo se p o q esistono
senza alcun legame di dipendenza reciproca né, ovviamente, da una
mente pensante. Al contrario, qualunque distinzione concettuale avviene
per necessità all’interno della mens, ma anche in ambiti così eterogenei
vale in maniera uniforme un criterio tanto generale quanto
fondamentale, quello cioè che pone la discernibilità nel numero.
Immaginiamo a questo proposito Socrate e Platone da un lato, e l’idea
di verde e di bianco dall’altro. L’unico tratto comune è costituito dal
raggruppamento, in entrambi i casi, di due unità numeriche.
Ho tuttavia accennato anche a gradi intermedi che, di fatto,
giustificano l’ampliamento del discorso sul concetto di distinzione.
Entro pertanto nel merito di due sotto-varietà contemplate nei manuali
dei Gesuiti e note a Descartes. Una prima è la distinzione ex natura rei,
comprendente sia la distinzione reale tra essenze reali (gli enti Socrate e
Platone) sia un’altra tipologia di distinguo non interamente reale, vale a
dire la distinzione modale. La distinctio modalis dipende strettamente da
come un’essenza esterna alla mente è. Essa dipende dunque dai modi
d’essere che necessariamente scaturiscono dalla sua posizione, come
quando poniamo ‘p è esistente’, ma ciò non toglie che possiamo pensare
– muovendoci dunque su un piano non più esclusivamente reale – p e la
sua esistenza come distinti. Altrimenti detto: dall’esistenza di p deriva in
noi il pensiero espresso nella proposizione ‘p è esistente’, ma, per
quanto nella realtà p e la sua esistenza siano inscindibili, nulla vieta di
pensarli in reciproca autonomia, fermo restando che l’archetipo (qui in
senso non platonico) della suddetta proposizione rimanga esterno alla
mente.
Specularmente, se la distinctio ex natura rei può definirsi come una
distinzione reale ampliata oltre i confini della realtà oggettuale in senso
stretto, anche la distinzione concettuale può proiettarsi al di fuori di un
orizzonte puramente mentale, e conservare la propria non-realtà seppur
in unione con il reale extramentale. Questo modo di distinguere
ricevette il nome di rationis ratiocinatae o, si noti bene, di cum fundamento in
re. Esaminando dunque da vicino questa espressione, come è possibile
che un’operazione – la distinctio, appunto – su essenze intenzionali
rinvenga il suo fondamento nella realtà? Un esempio chiarificatore
proviene dalla teologia. Se Dio è concepito come semplice, ovvero se
l’essenza dell’idea di Dio pone la semplicità, in che termini potrà dirsi
giusto e misericordioso? Non è forse vero che la pluralità di questi
attributi entra in conflitto con l’unità simplex del soggetto? Per evitare
che Dio si riduca ad un molteplice divisibile in se stesso e per
preservare, al contempo, la differenza qualitativa tra gli atti di giustizia e
di misericordia, occorre postulare un livello differente dall’ontologia di
Pensare la realtà
19
ccccccccccccccccccccccccccccccccccccccccccccccccccccccccccccccccccc
Dio, e precisamente il livello reale in cui si manifestano realmente giustizia
e misericordia. In re, insomma, l’incompatibilità viene a cadere. Non
solo quindi è legittimo parlare di una distinzione originariamente
concettuale e cum fundamento nelle cose, ma la relazione che interviene tra
mentale e reale appare ben lontana dallo snaturare o, peggio ancora,
dall’esaurire un ambito nell’altro. In conclusione, come ho anticipato
poco fa, la distinzione tra due enti cum fundamento in re non è totalmente
dipendente dalla mente ancorché da essa tragga origine.
Tenendo allora ferma la tripartizione scolastica che include la
distinzione reale, cum fundamento in re e quella puramente concettuale, nei
Principia cartesiani del 1644 si nota, pur con le debite variazioni, che la
seconda tipologia appena evocata è stata parzialmente respinta
dall’autore e, in certa misura, conservata, incorporata sotto la semplice
dicitura di ‘distinzione razionale’. In fondo, non si tratta forse di un caso
di sinonimia con ‘concettuale’, al punto da rendere irriconoscibile il
fundamentum in re? A prima vista la risposta risulta affermativa: Descartes
prende in esame l’idea di triangolo e ne scinde essenza ed esistenza,
riconducendo tale operazione alla concettualità. Tuttavia apprendiamo
subito che quella distinzione è reale in senso lato, ossia nasce come ente
di ragione ma non perde l’aggancio con qualcosa di indipendente dalla
mente, vale a dire con una porzione di spazio delimitata da tre lati circa ANDREA MARCHESE, INDIVIDUI
Quaderni della Ginestra
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la quale non è contraddittorio ideare, in senso cartesiano, un’essenza e
un’esistenza separate.
Se le cose stanno così, il principio generalissimo di numerabilità
applicabile indifferentemente a res esterne o a idee finisce per incrinarsi.
Infatti, combinando l’essenza intenzionale delle rappresentazioni
mentali con la possibilità di distinguerle cum fundamento in re risulta che la
cosa rappresentata nell’idea è in primis un oggetto della mente, ma
simultaneamente possiede un esse reale. Il tavolo è percepibile, pensabile,
ma al contempo esiste realmente distinto dall’idea in cui è pensato
benché, numericamente, identico ad essa. In ogni istante, secondo
Descartes, una cosa può avere un modo di essere reale o intenzionale –
o ambedue – senza contraddizione. L’esistenza esterna del tavolo non è
dunque il tavolo intenzionato, bensì il fundamentum in re che sospende la
validità della rigida differenziazione numerica e fa di due tavoli – quello
reale e quello rappresentato – un unico tavolo nella rappresentazione.
La tesi della presenza duale enunciata da Clemenson, e che ho voluto
ricostruire partendo dai concetti di ‘essenza’ e ‘distinzione’, sostiene
appunto che realtà e intenzionalità sono due modi d’essere di una stessa
essenza che implicano identità numerica, per quanto l’essere-presente
del rappresentante (l’idea) nella mente rimanga radicalmente altro
dall’essere-presente del rappresentato (la cosa) nella realtà. Clemenson
può allora riscontrare in Descartes la compresenza di
rappresentazionalismo e realismo diretto nelle loro versioni deboli e più
agevolmente conciliabili: il filosofo francese è rappresentazionalista nel
momento in cui formula la tesi che l’oggetto immediatamente percepito
sia qualcosa di dipendente dalla mente, mentre il suo realismo diretto
lascia aperto un margine di indipendenza dalla mente, il che significa che
l’idea, lungi dal dischiudere scenari solipsistici, riacquista il rilievo
assegnatole da Descartes in tutta la sua opera e ci permette di
riformulare il mind-body problem come, in primo luogo, l’idea di un’unione
nella quale sono distinguibili mente e corpo ma che nella realtà,
nell’ontologia dei realia, si mantiene intatta.
Intendo, a questo punto, abbandonare il piano teoretico delle
argomentazioni prodotte da Clemenson per soffermarmi, invece, sulla
parte iniziale della corrispondenza epistolare tra Descartes e la
principessa Elisabetta di Boemia. Cronologicamente faccio riferimento
al 1643, ad un periodo intermedio tra le Meditazioni (1640) e i Principia
(1644).
Dapprima Elisabetta invita Descartes a chiarire lo status quaestionis
della relazione mente-corpo. Nonostante lo sforzo compiuto per
delucidarlo, il filosofo è costretto a dichiarare la natura aporetica,
intrinsecamente complessa, del problema. Poco tempo prima, nella sesta
Pensare la realtà
21
Meditazione, egli si era pronunciato in maniera più scoperta, asserendo –
senza troppo problematizzarlo – che mente e corpo sono insieme uniti
e distinti, e nelle Risposte alle Quarte Obiezioni questa convinzione aveva
trovato forma argomentativa nella nozione di un’unità sostanziale reale,
tale da rendersi presente alla mente come il concetto chiaro e distinto di
una sostanza completa.
Con atteggiamento pedagogico, Descartes sceglie di introdurre
gradualmente Elisabetta nel nucleo del problema e accoglie le sue
perplessità: anzitutto, come porre attenzione all’ordre des raisons,
all’ordine speculativo, senza perdere di vista il sensibile, senza cioè
sacrificare l’unione quale, originariamente, ci viene notificata dai sensi?
In secondo luogo, Descartes rivela alla principessa che è connaturato
all’intelletto il limite che impedisce di comprendere l’unione di due
sostanze separate. Se questa vexata quaestio, per sua natura, non è
traducibile in termini più perspicui, può allora essere utile – in armonia
con le finalità pedagogiche del carteggio – far ricorso ad una
similitudine. Il filosofo, infatti, ricorda a Elisabetta di aver fornito, alla
fine delle Risposte alle Seste Obiezioni, una concezione della gravità –
altrove attribuita agli Scolastici – incardinata su tre assunti: 1. la gravità
del corpo ne causa il movimento ma non meccanicamente; 2. la gravità
del corpo è una qualità reale del corpo; 3. la gravità del corpo è ad esso
congiunta in una modalità del tutto particolare perché è coestesa al corpo,
ovvero è diffusa in modo uniforme attraverso la totalità del corpo
pesante. Descartes propone a Elisabetta di immaginare la mente in
analogia con la gravità, sicché, al modo in cui la forza si esercita sul
grave, anche la mente provocherebbe realmente movimenti nel corpo
ancorché non in maniera meccanica. Tuttavia, data la realtà di queste
azioni, lo statuto della mente si avvicinerebbe pericolosamente a quello
di una qualità del corpo, una caratterizzazione inaccettabile per
Descartes e puntualmente contraddetta, infatti, da altri riferimenti
testuali. Nelle Risposte alle Quinte Obiezioni la mens è contraddistinta dalla
pura inestensione, e similmente si esprimono i Principia là dove, rigettata
la coestensione, emerge l’esperienza sensibile in quanto evidenza
dell’unione di res cogitans e res extensa e della stretta congiunzione tra le
due sostanze addirittura alla maniera aristotelica, ossia attraverso
un’informazione dell’una ad opera dell’altra.
Come motivare, pertanto, queste oscillazioni nella descrizione
dell’unione di mente e corpo? Esiste, al di là delle polemiche contingenti
che certo influirono sulle Risposte e sui Principia, così come al di là dei
tentativi di soddisfare la curiosità di Elisabetta, un elemento invariante
che si possa ricollegare alla centralità dell’idea enfatizzata da Clemenson
e al fatto che in un’idea si dia una distinzione numericamente non altra dalla
Quaderni della Ginestra
22
cosa unitaria in essa rappresentata?
La risposta viene da sé: Elisabetta fatica a comprendere l’unità
perché non la pensa come idea originaria, sicché costringe il pensiero di
Descartes, per così dire, ad un movimento innaturale, ossia al dedurre
qualcosa di originario – l’unione, appunto, che si dà per prima –
muovendo dalle parti – mente e corpo – di cui essa consta e
accentuandone le rispettive differenze. È questa la via al dualismo,
etichetta affibbiata alla filosofia di Descartes già dai contemporanei e
radicatasi poi in un autentico pregiudizio giunto fino ai giorni nostri. Per
la dual presence theory, di contro, l’idea dell’unione è numericamente
identica a come l’unione è in realtà, ed anticipa qualunque divisione
successiva. Come è impossibile pensare essenza ed esistenza del
triangolo senza fondamento in quella porzione di spazio reale la cui
somma degli angoli interni è pari a 180°, così è altrettanto improbabile
che dalle nozioni astratte di mente e corpo si giunga all’unità
dell’individuo. Non solo le percezioni sensibili e la conoscenza, ma
anche le passioni, l’amore, l’odio, attestano che il pensare la nostra realtà
passa necessariamente attraverso il nostro essere nella realtà come enti
indivisi.
GIACOMO MIRANDA
1 R. GOCLENIUS, Lexicon Philosophicum, 1613, p. 209.
2 «Quam Graeci Ideam, Latini Exemplar appellant, quae nihil aliud est quam imago
seu species expressa rei faciendae in mente artificis. Est igitur idea seu exemplar hoco loco phantasma seu phantasiae opus quoddam in artifice cui opus externum conformatur. Sicque in artifice quatenus est artifex, duo sunt interna operandi prin-cipia, nempe ars in mente seu ratione, et idea seu exemplar in phantasia. Ars qui-dem habitus, idea vero actus seu expressus quidam animi conceptus est».
EUSTACHE DE SAINT-PAUL, Summa Philosophica Quadripartita, III, disp. I, quaest. III.
Pensare la realtà
23
uando si afferma la bellezza, l’eleganza o la malinconia di un
oggetto, lo si qualifica in termini che sembrano sfuggire alla
percezione ordinaria. Con che tipo di proprietà abbiamo a che fare?
Prendendo le mosse dalla posizione di Eddy Zemach, si cercherà di
comprendere potenzialità e limiti esplicativi di una teoria realista delle
proprietà estetiche.
Premessa
L’uso del termine ‘estetico’ è di per sé problematico. La stessa
disciplina ‘estetica’ include una tale quantità di questioni da rendere
difficile delimitarne con chiarezza i confini. Nella sua costitutiva
polisemanticità, l’estetica è di fatto caratterizzabile come
scienza della sensibilità, studio del bello nelle sue varie forme, teoria
dell’arte, punto di raccordo dei caratteri sensuali di poetica e retorica, la
disciplina in cui si confrontano quei poteri dell’uomo che, come
l’immaginazione, costruiscono rappresentazioni extralogiche1.
In tale definizione si sovrappongono questioni molto diverse, che
vengono affrontate in modo specifico da altre discipline, come
l’ontologia o la filosofia dell’arte, la filosofia della percezione, la critica
d’arte. Seguendo la prospettiva di Eddy Zemach in Real Beauty (1997),
restringeremo in quanto segue il dominio dell’estetica allo ‘studio del
bello nelle sue varie forme’, escludendo questioni più generali sulla
natura delle nostre percezioni, nonché questioni più specifiche sulla
natura dell’opera d’arte.
Com’è noto, l’interesse della filosofia di tradizione analitica per
questioni di natura estetica è relativamente recente – anche a causa della
diffidenza, di stampo neopositivistico, per la nozione di ‘bello’.
Distinguendo tra discorso dichiarativo e non-dichiarativo, il
neopositivismo include gli enunciati estetici nel discorso non-
dichiarativo: in quanto non verificabili, le proposizioni dell’estetica sono
ritenute prive di valore conoscitivo e, quindi, di interesse filosofico.
Definire qualcosa come ‘bello’ ha dunque a lungo significato
abbandonare il terreno del dibattito razionale per addentrarsi in un
campo privo di riferimenti chiari e condivisi.
Il realismo estetico, come vedremo, è tuttavia in grado di soddisfare il
paradigma neopositivistico: i nostri giudizi estetici sono corretti (o
scorretti) nella misura in cui si riferiscono (o meno) aproprietà estetiche
Q
SULLA REALTÀ DELLE PROPRIETÀ ESTETICHE: UN’INCURSIONE NEL DIBATTITO ANALITICO
Quaderni della Ginestra
24
MATTEO CETTERELLI, ABBANDONATO ALLA REALTÀ
indipendenti dalla mente [mind-independent] di chi le percepisce. La
bellezza è una qualità reale delle cose, che compare nell’inventario di ciò
che compone il mondo.
Una volta ristretta la nozione di estetica all’analisi di ciò che
definiamo ‘bello’, si tratta di chiarire a quali condizioni si possa parlare
di ‘bellezza’ di un oggetto. Una risposta a questo interrogativo implica
due tipi di considerazioni, relativamente all’esperienza in base alla quale
definisco ‘bello’ un oggetto x, e relativamente all’oggetto x che definisco
‘bello’. È la direzione oggettuale implicita nella seconda questione a
interessarci ora. Possiamo riconoscere, nell’oggetto, qualcosa che ci
consenta di qualificarlo come ‘bello’? Qualcosa come proprietà estetiche
specifiche, di cui andrà indagata la natura e la relazione con le proprietà
non-estetiche.
Nella sua Critica della facoltà di giudizio (1790), Kant fa riferimento alla
possibilità di considerare il bello proprietà reale delle cose.
Quando qualcuno mette un oggetto su un piedistallo, e lo chiama
bello, […] non giudica meramente per se stesso, ma per tutti, e parla
della bellezza come se fosse una proprietà delle cose. Dice quindi che è la
cosa in questione ad essere bella2.
Proviamo ora a valutare le implicazioni di un’eventuale eliminazione del
«come se» kantiano, considerando la possibilità che le proprietà estetiche
costituiscano effettivamente caratteristiche reali dell’oggetto.
Descrivere il reale. “Real Beauty”
Per proprietà estetiche di un oggetto intendiamo non solo il suo
essere ‘bello’ o ‘brutto’, ma anche il suo essere ‘elegante’, ‘raffinato’,
Pensare la realtà
25
‘drammatico’, ‘sgargiante’, ‘sciatto’, proprietà che si ritengono oggetto di
un’esperienza emozionale da parte del soggetto.
Ciò che ora ci interessa valutare è la possibilità di un realismo delle
proprietà estetiche così come è sostenuto da Eddy Zemach nel suo Real
Beauty (1997). Qui Zemach non prende posizione per il realismo delle
proprietà in generale: intende piuttosto sostenere che, se ammettiamo
l’esistenza di un qualsiasi tipo di proprietà, primarie o secondarie che
siano, allora dovremo ammettere anche l’esistenza di proprietà estetiche.
L’assunto di fondo è che non vi sia differenza tra il definire un oggetto
x blu e il definirlo bello. Le proprietà estetiche ‘grazioso’, ‘orribile’,
‘vistoso’, ‘sgargiante’, sono qualità reali delle cose, al pari del loro essere
grandi o piccole, rosse o blu, oneste o disoneste.
Nella loro specificità, le proprietà estetiche non sono riducibili a
proprietà psicologiche o fisiche di altro tipo: in effetti, il tentativo
riduzionistico di spiegare i termini estetici ricorderebbe «la speranza
materialistica di spiegare l’azione senza un apparato di credenze e
desideri»3. La scienza non può spiegare in alcun modo le nostre
osservazioni estetiche; nessuna analisi neuronale ci consente di spiegare
come il delicato si distingua dallo sgargiante4.
L’interrogativo di partenza è il seguente: l’enunciato estetico descrive
uno stato di cose? È oggettivamente vero? Se sì, cosa lo rende vero? 5
Nel fondare il proprio realismo estetico, Zemach prende le mosse dalla
seguente obiezione antirealista: è un dato di fatto che sia molto più
facile trovarci d’accordo sul fatto che x è rosso, piuttosto che sul fatto
che x è elegante. Proprio contro questa presunta ovvietà argomenta
Zemach. Quando osserviamo qualcosa, afferma, l’osservazione avviene
in una serie di condizioni standard che rendono attendibile
l’osservazione. Ciò vale tanto per le proprietà secondarie di un oggetto
(il colore varia al variare delle condizioni di luce) che per quelle primarie
(si pensi alla misurazione di una distanza, in cui è ugualmente necessario
tener conto di specifici standard – per esempio, che il sistema di
riferimento sia in quiete). In questo senso, le proprietà estetiche non
hanno nulla di diverso da qualsiasi altra proprietà osservabile: qualcosa
di bello può comunque apparire orribile se osservato in condizioni non-
standard.
Se l’attribuzione di una proprietà dipende dalle condizioni in cui
l’osservazione avviene, diventa necessario chiarire in base a cosa sia
possibile definire le condizioni ‘standard’ di osservazione. Nel caso dei
colori chiunque è in grado di stabilire le condizioni standard che
consentono di vedere qualcosa come rosso: è necessaria la luce del
giorno, normali condizioni psicofisiche, l’assenza di fattori che possano
alterare l’osservazione. Più complicato, invece, è individuare le
Quaderni della Ginestra
26
condizioni standard dell’osservazione in ambito estetico. Si prenda:
- una persona che indica una farfalla, mentre l’esperto la definisce
‘falena’;
- la persona comune che sente il suono di una chitarra, mentre
l’esperto riconosce un liuto;
- un uomo che dice «metto la maglietta rossa», e la compagna che
risponde: intendi quella magenta?6
- uno spettatore che definisce una scena teatrale ‘espressiva’,
mentre il critico lo corregge affermando: non è una scena
espressiva, è una scena ‘istrionica’7.
Riprendendo tesi classiche humeane8, ciò che emerge da questi
esempi è la presenza di esperti a definire le condizioni di correttezza di
un’osservazione. Che si parli di farfalle, strumenti musicali, colori o
spettacoli teatrali, in ciascuno di questi casi si danno personalità dotate
di peculiare sensibilità, in grado di stabilire gli standard osservativi in
questione. Cosa renda un esperto tale, è questione che Zemach non
affronta. Intuiamo tuttavia la duplice abilità dell’esperto, caratterizzato
da un lato da una maggiore ‘sensibilità’ al bello, dall’altro da una più
approfondita conoscenza della materia in oggetto. Si prenda una
qualsiasi citazione tratta da un testo accademico di storia dell’arte:
Nel suo lavoro l’artista sfida lo stile manierista prevalente nella sua
epoca, realizzando i suoi dipinti in modo ruvido, omettendo i dettagli, e
ottenendo così un effetto drammatico sorprendente 9.
Manierismi, ruvidezza del tratto, risultati drammatici sono proprietà
estetiche riscontrate dall’autrice – ed è qui il suo prestigio, la sua
affidabilità, la sua capacità di giustificare le proprie asserzioni a
convincerci della correttezza del suo giudizio. È la comunità di esperti a
garantire la veridicità del discorso estetico. In questo senso, grazie al
lavoro degli esperti di riferimento, ogni teoria estetica risulta adeguata o
inadeguata, suscettibile di controllo, perfino empiricamente verificabile.
Può tornarci utile un esempio proposto da Zemach stesso: si prenda
un adolescente appassionato di musica rock che ascolta un brano di
Bach senza apprezzarlo. Si potrebbe interpretare il non apprezzamento
di Bach come prova del fatto che Bach sia noioso. Oppure si potrebbe
affermare che l’adolescente non ha (ancora) gli strumenti
culturali/concettuali per apprezzarlo, né una sensibilità educata in tal
senso. Qui Zemach è incline a ritenere adeguata la seconda ipotesi, dove
le condizioni standard di osservazione per la valutazione di Bach sono
fissate non da un adolescente appassionato di musica rock ma da critici
musicali professionisti. In effetti, una teoria musicale che definisca Bach
Pensare la realtà
27
noioso non sarà in grado di spiegare moltissime cose: perché musicisti
nei secoli si ostinino a suonare brani di Bach, perché compositori
successivi si siano confrontati con le sue opere, etc.. Certo è possibile
sostenere che tutto il mondo della musica sia vittima di un’illusione ma,
se così fosse, la pazzia dei critici si manifesterebbe probabilmente anche
in altro modo, e non solo nel loro apprezzare Bach. Una teoria che,
invece, prenda come condizioni standard per l’osservazione in ambito
musicale le condizioni sotto le quali le composizioni di Bach risultano
esteticamente belle, avrà particolare potere predittivo: spiegherà i legami
tra Bach e i suoi predecessori e successori; potrà dar conto di fenomeni
storici e sociologici.
Preferire una teoria estetica ad un’altra non è dunque arbitrario. Ma
questo ancora non significa aver dimostrato l’esistenza delle proprietà
estetiche.
Il punto di vista ontologico. Le proprietà estetiche esistono?
Al realista scientifico, per il quale esistono soltanto le proprietà
stabilite da una certa teoria scientifica, Zemach propone la seguente
argomentazione in difesa della realtà delle proprietà estetiche. Il realista
scientifico, di fronte a due teorie rivali, sceglie (con Quine) quella più
coerente (internamente e rispetto ad altre teorie); più semplice; con
maggiore potere esplicativo. La teoria migliore – coerente, semplice,
potente, elegante – deve, in una parola, essere ‘bella’! Scegliere una
qualsiasi teoria scientifica significa impegnarsi sul fronte estetico, e
ammettere la bellezza della teoria in questione10.
D’altra parte, sostenere la bellezza di una teoria ancora non significa
trovare la bellezza nel mondo, nelle cose. La realtà nell’oggetto delle
proprietà estetiche non è stata ancora dimostrata. Possiamo anche
desiderare e costruire una teoria scientifica coerente, semplice ed
elegante: ma cosa succede se invece il mondo, in sé, non è affatto
altrettanto coerente, semplice ed elegante? In altre parole, cosa ce ne
facciamo di una teoria bella se il nostro mondo è in realtà molto brutto?
Un bel modello può essere altamente esplicativo ed elegante, ma può
essere falso. Può un realista metafisico verificare che le cose nella realtà
hanno davvero proprietà estetiche?
E Zemach risponde che sì, il mondo deve di fatto avere proprietà
estetiche: si può dubitare dell’esistenza di elettroni, quark, neutrini, e di
qualsiasi entità postulata dalla scienza, ma non si può dubitare
dell’esistenza di proprietà estetiche, di cui abbiamo una conoscenza
immediata, evidente, indubitabile11. Per il solo fatto di avere una certa
struttura, il mondo ha necessariamente un certo aspetto e, quindi, certe
Quaderni della Ginestra
28
proprietà estetiche – che sono assai meno problematiche delle sue
proprietà geometriche, di proprietà come ‘centrale’ o ‘sferico’ che si
modificano a seconda del tipo di spazio newtoniano/riemanniano
considerato. Possiamo allora fidarci delle nostre credenze estetiche
molto più che delle nostre conoscenze scientifiche, perché basate sulla
percezione delle proprietà estetiche presenti nel mondo.
Ciò non significa del resto avventurarsi in una nuova forma di
realismo ingenuo: non possiamo pensare che il nostro osservare il
mondo ci restituisca il mondo così com’è, «noumenicamente»
Il realismo ingenuo non è un’opzione attuale in metafisica. Sappiamo
che il sistema dei sensi umani è attivato solo da pochissime delle
caratteristiche fisiche del nostro ambiente. […] Credere, come fanno i
realisti ingenui, che l’immagine che ha l’uomo della natura sia una
replica precisa del mondo così come è in sé, è piuttosto irragionevole12.
Osservazioni
Emergono alcuni evidenti punti di forza di una teoria realista delle
proprietà estetiche. Innanzitutto le potenzialità contro posizioni
relativistiche. Che ‘sul gusto non si possa discutere’ è un’affermazione di
senso comune che il realista può agevolmente confutare, nel momento
in cui l’esistenza di proprietà estetiche consente di formulare valutazioni
appropriate e verificabili.
D’altro canto, il riferimento di Zemach all’esigenza di fissare
condizioni standard di osservazione e di individuare una comunità di
esperti di riferimento cui affidarsi nella valutazione estetica, mette in
luce come neppure il realista delle proprietà possa sottrarsi alla necessità
di addurre ragioni a sostegno delle proprie affermazioni. In questo MATTEO CETTERELLI, 3 LONG SHADOWS
Pensare la realtà
29
senso, anche in ambito di realismo estetico si assiste all’apertura di un
orizzonte pragmatico, di uno spazio intersoggettivo di confronto
razionale, in cui si richiede giustificazione per qualsiasi enunciato
espresso, scientifico, etico o estetico che sia. È nella comunità di esperti,
quindi in un contesto di interazione sociale, che possiamo trovare la
ragione ultima a giustificazione della scelta di una certa teoria estetica.
Come poi gli esperti arrivino a giudicare della bellezza di un oggetto è
un’altra questione, non necessariamente da risolversi attraverso il ricorso
alle proprietà estetiche. La proprietà ‘bello’ è nell’oggetto, direbbe
Zemach, ma talvolta è necessario affidarsi a degli esperti per cogliere la
bellezza in questione. In ultima istanza, anche all’interno di una
prospettiva realista, che un oggetto sia bello o meno è deciso all’interno
di un contesto di pratiche intersoggettive condivise, consolidate dal
confronto razionale.
L’ambito estetico si sottrae di conseguenza all’irrazionalità
attribuitogli dalla tradizione neopositivistica, che definiva gli enunciati
dell’estetica (così come quelli dell’etica) ‘pseudo-enunciati’, in quanto
non suscettibili di verificabilità empirica. Definire la bellezza, così come
qualsiasi proprietà estetica, reale proprietà dell’oggetto indipendente
dalla mente di chi la percepisce, consente di dar conto della normatività
dei giudizi estetici: se c’è qualcosa nel mondo che rende vero il mio
giudizio estetico, individuo un criterio per stabilire quali valutazioni
sono corrette e quali non lo sono. D’altra parte, di nuovo non è
necessario fare riferimento a proprietà estetiche reali per poter
ammettere la possibilità di un controllo razionale intersoggettivo dei
nostri enunciati estetici: affermare che un oggetto è ‘bello’ o ‘delicato’ o
‘sgargiante’ non è comunque isolabile dal più ampio contesto delle
relazioni umane, delle forme di vita in cui l’enunciato estetico viene
formulato. Nel momento in cui si apre un orizzonte pragmatico entro
cui collocare il discorso estetico, postulare l’esistenza di proprietà
estetiche diventa superfluo per il raggiungimento di un accordo
valutativo intersoggettivo. Affermare che «x è bello» richiede comunque
un dare ragione del proprio enunciato rispetto ad altre caratteristiche
dell’oggetto o ad altre pratiche sociali e culturali, a prescindere da
considerazioni ontologiche sull’esistenza o meno delle proprietà
estetiche. Un oggetto può essere percettivamente ‘bello’, ‘mostruoso’,
‘elegante’, ma in caso di conflitto valutativo non è nell’oggetto che
troviamo la soluzione alle nostre diatribe, bensì nel contesto più ampio
del confronto pratico, in cui si forniscono ragioni a sostegno delle
proprie posizioni.
CRISTINA TRAVANINI
Quaderni della Ginestra
30
1E. Franzini, Estetica, Bruno Mondadori, Milano 2010, p. xv.
2 I. Kant, Kritik der Urteilskraft, 1790; tr. it., Critica del giudizio, Laterza, Roma-Bari 1984, p. 89. 3 E. Zemach, Real Beauty, Pennsylvania State University Press, University Park 1997, p. 97. 4Esclusa l´ipotesi riduzionistica, resta tuttavia aperta la possibilità di una ‘sopravve-
nienza’ delle proprietà estetiche rispetto a proprietà fisiche: le proprietà estetiche ‘so-
pravverrebbero’ sulla struttura fisica del mondo, quali «modi di apparire di ordine su-
periore che dipendono da modi di apparire di ordine inferiore, a cui tuttavia non sono riducibili» (J. Levinson, “Aesthetic Supervenience” (1983), ristampato in J. Levinson, Music, Art and Metaphysics: Essays in Philosophical Aesthetics, Cornell University Press, I-thaca (NY) 1990, p. 146). In questo senso, due oggetti strutturalmente e contestual-mente identici non potrebbero differire per qualità estetiche. 5 E. Zemach, Real Beauty, cit., p. xi. 6 Non commenteremo qui la banalità dello stereotipo per cui la donna si suppone più sensibile dell’uomo al colore. 7 Cfr. E. Zemach, Real Beauty, cit., p. 55. 8 D. Hume, “Of the Standard of Taste”, 1757; tr. it., La regola del gusto, Abscondita, Milano 2006. 9 E. Zemach, Real Beauty, cit., p. 56. 10 Cfr. E. Zemach, Real Beauty, cit., p. 68. 11 Ibidem, p. 67. 12 E. Zemach, Real Beauty, cit., p. 53.
Riferimenti bibliografici
P. D’Angelo, a cura di, Introduzione all’estetica analitica, Laterza, Roma-Bari 2008.
E. Franzini, Estetica, Bruno Mondadori, Milano 2010. D. Hume, “Of the Standard of Taste”, 1757; tr. it., La regola del gusto,
Abscondita, Milano 2006. I. Kant, Kritik der Urteilskraft , 1790; tr. it., Critica del giudizio, Laterza,
Roma-Bari 1984. J. Levinson, “Aesthetic Supervenience” (1983), ristampato in J.
Levinson, Music, Art and Metaphysics: Essays in Philosophical Aesthetics, Cornell University Press, Ithaca (NY) 1990, pp. 134-158.
J. Levinson, “What are Aesthetic Properties?”, in Proceedings of the Aristotelian Society, suppl. 78, 2005, pp. 211-227; tr. it. “Cosa sono le
proprietà estetiche?”, in J. Levinson, Arte, critica e storia. Saggi di ontologia analitica, a cura di F. Desideri, F. Focosi, Aesthetica, Palermo 2011, pp.
149-162. S. Velotti, La filosofia e le arti. Sentire, pensare, immaginare, Laterza,
Roma-Bari 2012. N. Zangwill, The Metaphysics of Beauty, Cornell University Press, Ithaca
(NY) 2001. E. Zemach, Real Beauty, Pennsylvania State University Press,
University Park 1997 .
Pensare la realtà
31
n che modo la fenomenologia pensa la realtà? Che cosa vuole e può
dirci sulla realtà la fenomenologia husserliana a quasi cent’anni dalla
pubblicazione di Idee I? La fenomenologia è davvero una ‘truffa’1, come
sostiene la protagonista de L’eleganza del riccio di Muriel Barbery? È «un
solitario e infinito monologo della coscienza con sé stessa, un autismo
duro e puro che nessun vero gatto andrà mai ad importunare»2?
Modo efficace per ripensare il modo in cui la fenomenologia
interpreta la realtà potrebbe essere focalizzare l’attenzione su una delle
fondamentali strutture che Husserl mette in campo quando si tratta di
rivolgersi alla realtà, e cioè quella della com-presentazione, del continuo
procedere attraverso quelli che Husserl stesso definisce ‘orizzonti’.
Questa ‘struttura’, ripresa da Heidegger e Gadamer, è stata
particolarmente evidenziata da Merleau-Ponty nel volume postumo del
1964 Il visibile e l’invisibile, nel quale il filosofo sviluppa proprio il
concetto di ‘orizzonte’, e cioè quello di una coesistenza di visibile e
invisibile così strutturale, tanto da dover in definitiva riconoscere che
l’essere del mondo, della realtà non si mostra mai all’uomo nella sua
pienezza, ma si sottrae costantemente alla trasparenza totale. La nostra
esperienza ha un limite costitutivo: essa è strutturalmente prospettica e
cela in sé un “invisibile radicale” che non è un non-ancora-visto, ma
espressione di un’impossibilità di pienezza totale, di percezione totale.
La fenomenologia, husserliana e non, è talmente votata alla ricerca della
complessità e della ricchezza del reale, che, potremmo dire, il suo
principale compito è proprio, ripartendo dall’epochè, quello di riscoprire
tutto l’infinito campo di ricchezza e di stratificazioni che la realtà stessa
ci propone, in una dinamica che in molti modi può essere interpretata,
ma di certo non come ‘autistica’.
Come dicevamo, le riflessioni di Merleu-Ponty sono in realtà una
rivisitazione e un ampliamento del modo in cui Husserl stesso intense il
processo percettivo, sempre destinato ad una pienezza relativa, dinamica
e mai conclusa. Questa concezione attraversa immutata l’intero sviluppo
della fenomenologia husserliana e sembra anzi radicalizzarsi sempre di
più, come si mostra ad esempio in Idee II, in cui la determinazione
dell’oggetto appare come un vero e proprio concetto limite, poiché, in
definitiva, dice Husserl, «la percezione della cosa non è un’esperienza
che ci informi esaustivamente sulla cosa»3, essa è un continuo riattivarsi
di orizzonti, che avevano magari passivamente contribuito
all’apprensione stessa della cosa, senza ricevere la nostra esplicita
attenzione. Il progresso dell’esperienza è allora per Husserl “un
riempimento di motivazioni già presenti, le quali semplicemente si
I
LA STRUTTURA DELLA COMPRESENTAZIONE NELLA
FENOMENOLOGIA HUSSERLIANA
Quaderni della Ginestra
32
arricchiscono e si delimitano nella loro unità di senso”4 e questo
processo è, in via di principio, incrementabile all’infinito ed esclude la
possibilità reale di una datità in originale adeguata della cosa, come
sottolinea ad esempio Rudolf Bernet 5. Come Husserl stesso ricorda
nella Crisi, nella conoscenza della cosa restano sempre orizzonti6
possibili e indeterminati di scoperta, tanto che si può addirittura arrivare
a dire che «la cosa è propriamente ciò che nessuno ha mai visto
realmente, perché è continuamente in movimento, continuamente e per
chiunque; per la coscienza, è l’unità della molteplicità aperta e infinita
delle mutevoli esperienze proprie e altrui e delle cose dell’esperienza»7.
Questo carattere costitutivamente infinito della percezione
husserliana ci sembra trovi massima espressione attraverso la
definizione della Appräsentation o Kompräsentation, “struttura percettiva”
attraverso la quale emerge il senso più profondo della percezione
husserliana, e, più in generale, del modo stesso in cui la fenomenologia
husserliana si rivolge alla realtà, in una continua tensione verso la
valorizzazione della complessità e multiformità del reale attraverso
infiniti rinvii e associazioni.
La struttura percettiva della compresentazione è stata ampiamente
analizzata ad esempio da Elmar Holenstein in Phänomenologie der
Assoziation, volume nel quale viene messo in luce come proprio
attraverso il concetto di compresentazione Husserl metta in forma
l’intuizione per la quale la percezione procede sempre attraverso
orizzonti che non possono mai essere saturati. Noi non percepiamo mai
qualcosa in modo completo, ma di una cosa abbiamo sempre una parte
percepita in modo chiaro e distinto, sulla quale si focalizza la nostra
attenzione attiva, e una parte tendenzialmente infinita di rinvii,
associazioni, orizzonti, che sono sempre co-fungenti nella percezione a
livello più o meno passivo e che possono essere in ogni momento
riattivati e condotti all’attenzione percettiva. Qualsiasi percezione si
delinea sempre allora appunto come una compresentazione, e cioè come
una Verschmelzung tra un presente percettivo e un complesso gioco di
elementi com-presenti: la Wahrnehmung è sempre anche un Mit-
Wahrnehmen.
La struttura della com-presentazione viene applicata da Husserl in
primis in riferimento alla costituzione cosale, la quale procede sempre in
una compenetrazione di elementi presentati direttamente alla nostra
attenzione e di elementi invece solo appresentati, che emergono
dall’infinito possibile insieme di orizzonti e possono sempre essere
condotti successivamente a presentazione. Il soggetto è così sempre
immerso tra le cose del mondo circostante e viene sollecitato prima di
tutto a livello passivo, quindi prima della vera e propria relazione
Pensare la realtà
33
MARTINA TAMBASSI, TOUGH
frontale e oggettivizzante: prima della datità nella sua pienezza, prima
dell’esperienza piena di una singola cosa, il soggetto risulta
continuamente affetto da una pre-datità passiva, da un orizzonte di cose.
La struttura della com-presenza non viene però applicata da Husserl
solo alla costituzione cosale, bensì ad esempio anche alla percezione del
nostro stesso corpo e ciò almeno in un triplice senso. Prima di tutto
bisogna infatti ricordare che sono molte le occasioni in cui Husserl
riporta l’attenzione sulla natura quasi contraddittoria della natura della
percezione del nostro stesso corpo, che, nonostante sia di sicuro, per
così dire, l’oggetto percettivo a noi più prossimo, risulta anche ciò su cui
abbiamo un punto di vista più limitato; noi infatti non possiamo mai
allontanarci dal nostro corpo e, anche mettendo in funzione tutte le
nostre capacità sensoriali, non solo visive, ma anche tattili, non abbiamo
mai una percezione completa del nostro corpo: il nostro stesso corpo
vivo si forma per noi sempre attraverso una compresenza di ciò che è
percepito in modo originale e di ciò che invece non lo è. In secondo
luogo, come sottolinea ad esempio Holenstein8, si dà la
compenetrazione relativa alle possibilità di differenti campi sensoriali: il
campo tattile, quello visivo, quello relativo alle sensazioni di calore non
sono semplicemente insieme, ma funzionano in modo armonico
proprio attraverso una funzione di compresentazione. Si deve infine
ricordare l’approfondimento husserliano relativo alla questione degli
impulsi; ad esempio nelle ultime pagine di Idee II 9, Husserl chiarisce che
la soggettività umana non è affatto un monolito, ma è altamente
stratificata, tanto che l’io spirituale, l’io libero e razionale trova sempre
un fondamento imprescindibile in una ‘base oscura’10, individuata nella
sfera sensibile delle associazioni, persistenze, tendenze, pulsioni,
sentimenti in quanto stimoli, che l’uomo condividerebbe con l’animale
Quaderni della Ginestra
34
come una sorta di comune e basilare psichicità sensibile: anche il livello
della corporeità psico-fisica, nel quale il nostro corpo materiale e la
nostra psichicità si fondono in modo indissociabile, si mostra così come
strutturalmente caratterizzato dalla compresenza, in quanto la sfera degli
istinti e delle pulsioni viene a mostrare come la nostra corporeità viva sia
sempre caratterizzata da una sfera che fonda la coscienza desta, attiva,
spirituale, ma che permane per molti versi, come Husserl stesso ricorda,
oscura. La compresenza è quindi una struttura che fa parte non solo
della costituzione cosale, ma anche della nostra stessa costituzione,
caratterizzando, come abbiamo visto, sia la percezione del nostro Leib
come Körper, cioè come cosa inserita nello spazio-tempo che si sottrae
costitutivamente ad essere data per intero al nostro sguardo, sia del
nostro Leib come essere psichico, poiché la nostra stessa coscienza non
è mai un flusso limpido e chiaro neppure a noi stessi, in quanto essa si
fonda su una base inconscia ed istintiva che non possiamo mai del tutto
condurre dalla compresenza alla presenza.
Se la nostra stessa corporeità e la nostra stessa coscienza non
possono mai essere del tutto condotte dalla compresenza alla presenza
neppure per noi stessi, è facile intuire come la situazione si complichi
estremamente nel caso della percezione di un altro essere umano
nell’empatia e infatti, non a caso, è proprio nell’analisi dell’esperienza
dell’altro (Fremderfahrung) che il concetto di appresenza o compresenza si
radicalizza, venendo a connotare in modo strutturale la percezione
dell’alterità. Come Husserl chiarisce infatti nelle Meditazioni Cartesiane, in
chiara polemica con Theodor Lipps, io posso ‘accedere’ all’altro solo in
modo mediato e indiretto, e cioè tramite appresentazione.
Il concetto di appresentazione in relazione al problema dell’empatia
serve ad Husserl per mostrare come l’alter si offra sempre secondo una
doppia modalità: egli è percepibile originariamente nella sua
Körperlichkeit, ma a questa originaria presentazione si aggiunge sempre
anche il livello della psichicità ap-presente; se infatti la presenza
originaria può riguardare solo un essere oggettivo, l’appresenza viene
invece qui a riferirsi ad un essere psico-fisico, a quell’unione di psiche e
corpo vivo che caratterizza la natura umana. Ogni appresenza comporta
quindi, per essenza, un nucleo fondante di presenza originaria e ciò in
virtù del fatto che ogni psichicità richiede una corporeità fisica
intersoggettivamente esperibile: ogni appresenza rimanda alla presenza
originaria, cioè all’esperienza percettiva del corpo fisico particolare che
supporta la psichicità e che viene percepito originariamente, ma è
unicamente attraverso l’appresenza che io posso afferrare l’altrui
interiorità e, in questa modalità di percezione sui generis, nella quale
alcuni elementi possono costitutivamente essere solo compresenti, è
Pensare la realtà
35
come se la psichicità rivendicasse tutta la propria peculiarità.
Anche nella percezione cosale, come avevamo visto, esiste sempre un
momento di com-presenza, perché il mio sguardo prospettico non è mai
in grado di afferrare l’oggetto in modo completo, esaurendo l’orizzonte
percettivo che l’oggetto stesso reca con sé, ma la differenza tra la
compresenza nella percezione cosale e in quella di un alter è essenziale,
poiché se di un oggetto io ho sempre la possibilità di portare a
percezione diretta qualsiasi elemento all’inizio semplicemente com-
presentato, nella compresenza relativa all’empatia, attraverso la quale mi
si dà l’interiorità di un altro soggetto, ci sono invece degli elementi
strutturalmente compresenti, che di principio non possono essere
condotti a percezione diretta; come sottolinea Alice Pugliese «la
differenziazione tra la conoscenza delle cose e la conoscenza di un altro
io è differenza a priori, trascendentale in senso proprio, perché riguarda
le condizioni di possibilità del riempimento»11. Se la psichicità altrui
fosse per me direttamente percepibile non ci sarebbe più
differenziazione tra io e tu, tra i differenti flussi temporali-motivazionali.
In particolare la forma radicalizzata di compresenza presente
nell’empatia serve allora a mostrare come la compresenza funzioni
sempre attraverso successive integrazioni, integrazioni che nel caso
dell’empatia non possono di principio mai giungere a completa
saturazione: nella percezione cosale ogni compresenza è trasformabile
in via di principio in una presenza, invece nell’empatia si dà sempre una
compresenza radicale e strutturale, che mai può trasformarsi in
presentazione. Elemento molto interessante della fenomenologia
husserliana è che inoltre queste ‘integrazioni’ possono essere anche di
tipo intersoggettivo. Poniamo l’esempio del punto di vista su una cosa:
io posso avere più punti di vista su una cosa grazie alle possibilità che mi
sono offerte dal mio Leib cinestetico, ma posso avere anche un vero e
proprio nuovo punto di vista su quella stessa cosa anche attraverso
l’empatia, pensata da Husserl come una vera e propria possibilità di
esperienza sul mondo, un’esperienza certo sempre indiretta, ma non per
questo meno reale, di assumere il punto di vista dell’altro e di ampliare
le proprie prospettive sul mondo. Queste integrazioni intersoggettive
risultano così fondamentali prima di tutto per la mia stessa auto-
percezione (Husserl sottolinea ad esempio l’importanza degli altri per
“completare” la percezione del mio stesso Leib e per percepire il mio
Leib come un corpo nello spazio, cosa che si può verificare solo grazie
all’intervento del punto di vista altrui) e anche per ampliare
ulteriormente l’orizzonte delle compresentazioni stesse, il quale
funziona sempre attraverso ‘emersioni’ che si verificano in base al
principio di somiglianza-omogeneità o dissomiglianza-eterogeneità;
Quaderni della Ginestra
36
come Husserl ricorda all’Appendice XXVI di HUA XV, la costituzione
del mondo procede attraverso il passaggio da orizzonti conosciuti ad
orizzonti sconosciuti, attraverso i quali emerge come non ogni anomalia
sia un semplice disturbo della normalità, ma come le anomalie stesse
possano avere una funzione positiva, e cioè quella di conferire al reale
elementi nuovi e inattesi, i quali vengono a rappresentare veri e propri
centri propulsori per l’avanzamento della costituzione stessa. Tali
anomalie sono inoltre da considerarsi in un doppio senso: non solo le
anomalie che possono emergere nel processo percettivo, ma anche la
relazione stessa a ‘punti di vista anomali sul mondo’, come quello dei
malati di mente, dei bambini, dei primitivi, o anche degli animali, sembra
per Husserl davvero in grado di allargare la percezione che noi abbiamo
del mondo, tanto che si può di certo affermare che finanche un gatto
può arrivare ad inquietare profondamente lo sguardo fenomenologico.
DANIELA BANDIERA
1 M BARBERY, L’eleganza del riccio, edizioni e/o, Roma 2007, p. 50.
2 Ivi, p. 54.
3E. HUSSERL, Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica ,
libro II, trad. It. Di E. Filippini, Einaudi, Torino, 2002, p. 54. 4 Ivi, p. 114.
5 Come cause principali del fatto che la datità in originale adeguata della cosa sia
solo una possibilità ideale e non reale, Rudolf Bernet ricorda che: non è possibile ridurre lo spazio infinto alla finitezza del campo visivo; il continuum di adombra-menti, attraverso cui si presentano le cose spaziali, si può estendere all’infinito; il corpo spaziale, essendo mobile, può uscire dal campo di apparizioni e successiva-mente ritornarvi (R. BERNET, I. KERN, E. MARBACH, Edmund Husserl, trad. it. di C. La Rocca, il Mulino, Bologna, 2002, p. 171). 6 Il concetto di ‘orizzonte’ è utilizzato da Husserl anche nella Crisi: «In ogni perce-
zione di una cosa è implicito un ‘orizzonte’ di modi di apparizione e di sintesi di validità che non sono attuali e che tuttavia sono co-fungenti» (E. HUSSERL, La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, trad. it. di E. Filippini, Saggiatore, Milano, 2002, p. 186). 7 Ivi, p. 191.
8 E. HOLENSTEIN, Phaenomenologie der Assoziation. Zu Struktur und Funktion
eines Grundprinzips der Passive Genesis bei E. Husserl, Martinus Nijhoff, Den Haag, 1972, p. 155. 9 In particolare, Husserl attua questa divisone a pp. 275-276 di Idee II.
10 Ibid.
11 A. PUGLIESE, Unicità e relazione. Intersoggettività, genesi e io puro in Husserl,
Mimesis, Milano, 2009, p. 170.
Pensare la realtà
37
he cosa si deve intendere per ontologia in riferimento a
Nietzsche1? E’ possibile individuare nel suo prospettivismo uno
spazio per la dottrina dell’essere e per il concetto di realtà? Nelle
interpretazioni di Ricoeur2 e Habermas3, dove diviene assai difficile
distinguere il piano epistemologico da quello ontologico-metafisico
giungendo forse ad un dissolvimento del secondo nel primo, Nietzsche
sembra persuaso della possibilità di pervenire ad un essere ultimo, la
volontà di potenza, che prenderebbe il posto dell’ontos on della vecchia
metafisica.
Se invece Nietzsche volesse proprio negare l’essere e quindi la stessa
ontologia? Se, così come ha ammonito a diffidare della volontà di verità,
denunciasse anche la volontà di essere? In effetti le interpretazioni di
Vattimo4 e Derrida5 suggeriscono proprio che egli abbia cercato di
smascherare senza rimpiazzare, che abbia inteso la demitizzazione come
compito infinito che non pretende di pervenire ad esseri o essenze
ultime. Un’alternativa, pur sempre anti-essenzialista, al rifiuto completo
dell’ontologia è stata la qualifica di Nietzsche come esistenzialista
proposta, per esempio, da Lev Sestov6 a inizio Novecento. Contro il
rifiuto dell’ontologia si schiera anche Deleuze7, il quale anzi la ritiene
l’ambito determinante e la struttura portante dell’intero sistema di
Nietzsche: l’eterno ritorno sarebbe la sintesi della differenza e della
riproduzione del diverso al suo interno.
Alla ricerca di punti di vista inusuali, arricchenti e forse spaesanti su
queste e altre questioni vorrei prendere in considerazione uno scorcio
del panorama filosofico americano contemporaneo, individuabile da una
parte per comuni interessi interpretativi verso Nietzsche e dall’altra per
legami di affinità più o meno evidenti con il pensiero del filosofo di
Röcken. Non si pensi perciò ad un’avventura in un territorio ‘disabitato’
perché l’attenzione per l’aspetto ontologico del prospettivismo è ben
presente in America, per esempio, fin dalle interpretazioni di William
Salter e Frank Lea, risalenti alla prima metà del Novecento, anche se
diventerà consistente soprattutto a partire dagli anni Sessanta. Questi
due studiosi, che in parte anticipano posizioni post-analitiche, ritengono
che il prospettivismo di Nietzsche altro non sia che l’approccio al
mondo come sistemazione estetica ed ermeneutica di impulsi (bisogni e
istinti) sia interni che esterni secondo particolari strutture di significato.
Il mondo avrebbe dietro di sé non uno ma innumerevoli sensi, derivanti
dai nostri bisogni e istinti che lo interpretano con una forma
epistemico-ontologica di dominio.
La trattazione procederà ora per paragrafi che cercano di ‘muoversi’
C
REALTÀ, ONTOLOGIA E PROSPETTIVISMO
NELL’ELABORAZIONE AMERICANA DI NIETZSCHE
Quaderni della Ginestra
38
attorno a questioni che spostano ogni volta il centro d’attenzione o il
punto di vista: se si vuole un po’ come nella celebre parabola indiana dei
sei uomini ciechi che cercavano di conoscere un elefante toccandolo.
Classiche (o vecchie) categorie
Un punto di partenza, invero piuttosto classico, per una disanima
vagamente sistematica all’interno della visione americana di Nietzsche
potrebbe essere chiedersi se la proposta del filosofo tedesco appartenga
al realismo, all’idealismo, al materialismo o a forme di antirealismo.
Benché Nietzsche rifiuti spesso il soggetto, a prima vista non sembra
che il suo prospettivismo possa conciliarsi con l’idea (tipica del realismo)
che la realtà esiste indipendentemente dal soggetto, dai suoi schemi
concettuali, dal suo linguaggio: basta pensare alle sue frequenti critiche
dell’oggettività. D’altra parte si può forse credere che egli si ritroverebbe
in un idealismo, magari berkeleiano, in cui solo le idee sono reali? Cosa
significherebbero allora i suoi richiami alla terra che per taluni lo
avvicinano al materialismo? Sicuramente è difficile far rientrare
Nietzsche semplicemente in uno dei primi due schieramenti. Più
costruttivamente ci si potrebbe chiedere se egli neghi l’esistenza di un
secondo mondo retrostante quello dei fenomeni, oppure neghi l’unicità
della realtà a favore di una sua molteplicità che dall’epistemologia
penetra nell’ontologia.
Recentemente Brian Leiter8 ha proposto un’interpretazione
ontologico-pragmatica secondo la quale il mondo noumenico non è
conoscibile, quindi non importa se esista o meno. In questo senso
Nietzsche sembrerebbe ammettere la possibilità di un’ontologia
tradizionale, dove il problema ontologico sarebbe svincolato da quello
epistemologico. Tale indifferenza verso il noumeno ammetterebbe,
almeno in linea teorica, la possibilità della coesistenza allo stesso tempo
di un mondo conoscibile, per cui pare valere un certo grado di
idealismo, e di uno inconoscibile, al quale ascrivere le fiduciose pretese
di realismo. In realtà Leiter si sta soffermando su una fase, rintracciabile
nelle opere precedenti alla Gaia scienza, nella quale Nietzsche sembra
non preoccuparsi eccessivamente del problema ontologico.
Arthur Danto ritiene che Nietzsche non sia né un idealista, per il
quale non c’è un mondo al di fuori delle articolazioni della mente, né un
fenomenista, il quale crede che tutto ciò che ha significato possa essere
espresso in termini di esperienza. Non avrebbe però voluto rinunciare
all’idea che esista un mondo là fuori e sarebbe stato costretto a
mantenere questo residuo di realismo per avere qualcosa rispetto al
quale le nostre credenze fossero false9. Sebbene possa essere plausibile il
Pensare la realtà
39
realismo residuo di Nietzsche, questo passaggio di Danto,
soffermandosi sulla falsità, rende definitivo uno stadio intermedio della
complessiva argomentazione critica di Nietzsche che, a mio parere, si
conclude invece con la negazione della antitesi verità-falsità.
Frank Lea vede in Nietzsche il superamento sia del materialismo che
dell’idealismo: il mondo materiale non è un’illusione ma il vero essere di
ogni cosa consiste nella sua azione10. La realtà viene ad essere costituita
da centri di forza, cioè la volontà di potenza sostituisce sia la res cogitans
che la res extensa, non più recipiente di stimoli esterni, ma attività stessa.
Da questi e altri esempi appare come le interpretazioni americane
rifiutino perlopiù di incasellare la componente ontologica del pensiero
di Nietzsche in una delle precedenti macroclassificazioni troppo nette.
Realtà o apparenza?
Emerge piuttosto un altro tema classico dell’ontologia per il quale si
possono senz’altro trarre spunti più interessanti dall’atteggiamento di
Nietzsche: la gradualità o le antitesi esistenti in seno all’essere, in
particolare la distinzione tra mondo reale e mondo apparente. Il filosofo
tedesco rivisita, stravolge o capovolge, come vorrebbe l’interpretazione
di Heidegger, tale distinzione di origine platonica?
Un capovolgimento, sebbene diverso, delle precedenti concezioni
ontologiche, è in effetti quanto legge Alexander Nehamas. Nietzsche
non negherebbe la realtà del mondo ma considererebbe gli oggetti che
lo costituiscono il prodotto e non il fondamento di rapporti olistici ed
ermeneutici: «una cosa non è [perciò] per Nietzsche un soggetto che ha
effetti ma semplicemente un collezione di effetti correlati, selezionati da
qualche punto di vista particolare»11.
A questo proposito interessante è ancora Arthur Danto, il quale
coglie l’importanza della critica di Nietzsche alla contrapposizione tra
realtà e apparenza: se, come lui sostiene, scompare il mondo vero
scompare anche il mondo apparente12. L’interpretazione dell’americano
sembra però lasciare in sospeso la questione dell’esistenza di un mondo
metafisico rispetto al solo mondo come mondo-relazione13: infatti egli
attribuisce molta importanza ad un frammento di Umano, troppo umano14
in cui si parla della possibilità del mondo metafisico. Come osservato
per Leiter, questa interpretazione andrebbe associata alla constatazione
della successiva evoluzione del pensiero in Nietzsche.
Una rivisitazione è quanto offre l’interpretazione di Maudemarie
Clark15: sicuramente Nietzsche rifiuta il realismo metafisico, per il quale
la realtà è qualcosa in sé e la sua determinata natura è del tutto
indipendente da noi, dalla nostra struttura cognitiva. Ma la sua analisi va
Quaderni della Ginestra
40
oltre: infatti mentre l’essenza (gnoseologica), realtà o cosa in sé, che dir
si voglia, sarebbe legata al realismo metafisico e quindi contraddittoria
con il prospettivismo, l’esistenza di una cosa indipendente dalla mente e
anche dalle prospettive (che lei associa al realismo del senso comune)
sarebbe invece compatibile con il prospettivismo16. La negazione delle
cose in sé da parte di Nietzsche non contraddirebbe l’esistenza
extramentale di un oggetto di cui si hanno le prospettive, a patto di non
confondere esistenza con essenza. Per giungere a tali considerazioni la
Clark concentra la sua attenzione anche sulle ultime opere di Nietzsche
nelle quali egli distinguerebbe tra oggetto che esiste indipendente da
come appare (l’aspetto esistenziale o ontologico ma
epistemologicamente non rilevante, vuoto) e oggetto in sé (l’aspetto
concettuale, epistemologico, a cui compete l’essenza), entrambi distinti
dal fenomeno e per Nietzsche non conoscibili, se non in modo illusorio.
Anzi, dei due Nietzsche nega l’oggetto in sé. Quindi non c’è nulla di
conoscibile nascosto al di là delle apparenze, non c’è alcun velo di Maya
da squarciare. Ma l’oggetto (non l’oggetto in sé) esiste senza il bisogno
di assumere che la sua vera natura sia indipendente da come appare.
Ecco allora spazio per il prospettivismo: l’apparenza non nasconde
un’essenza e quindi non c’è più rischio di contraddizione.
La posizione della Clark fa però sorgere alcuni dubbi. Innanzitutto la
forma di realismo a cui accostare le prospettive non può certo essere
quella del senso comune, cioè diretto o ingenuo, secondo il quale la
nostra percezione ci metterebbe in contatto non fallace con il mondo e
con gli oggetti che manterrebbero proprietà indipendenti dalla nostra
percezione. Infatti ciò significherebbe trascurare, per esempio, le critiche
di Nietzsche al positivismo. Un altro punto non chiarissimo è il
concetto di essenza: questa studiosa sembra separare l’extramentale in
esistente e essenza-concetto, attribuendo a Nietzsche la negazione della
seconda: quindi una sorta di nominalismo (in effetti è abbastanza
diffuso in ambito analitico) in cui sono negate non solo le essenze
universali ma anche quelle individuali.
Secondo l’interprete post-analitico Richard Schacht17 Nietzsche
sembrerebbe escludere la distinzione tra realtà e apparenza a favore
della sola esperienza, forse verso una forma di fenomenismo rivisitato18.
Alcuni aspetti del mondo sono effettivamente come ci si presentano: il
divenire, il cambiamento, cioè proprio ciò che i filosofi hanno
considerato apparenze, sono invece tra le reali caratteristiche del mondo.
Al mondo fenomenico non si contrappone il mondo vero: potrebbero
al massimo contrapporsi tra loro differenti mondi conoscibili solo
all’interno di specifiche prospettive ma in ogni caso sempre fenomenici.
Riformulando il significato di apparenza, il mondo è un mondo di
Pensare la realtà
41
apparenze, dove l’apparenza non è un modo di cogliere il mondo ma è
la natura stessa in cui consiste il mondo19. Non c’è alcuna trascendenza,
alcun mondo delle idee (per usare l’espressione platonica contro cui
Nietzsche sembra scagliarsi) da opporre al fenomeno. Proseguendo nel
ragionamento si può giungere fino ad osservare che, nel momento in cui
elimina i concetti di trascendenza e di realtà assoluta, Nietzsche fa
cadere anche i concetti di esperienza e di apparenza, annullando
ovviamente la contrapposizione: «il contrasto tra il mondo apparente e il
mondo vero si riduce al contrasto tra ‘mondo’ e ‘nulla’»20.
Secondo Nehamas saremmo di fronte ad un vero e proprio cambio
di paradigma, che va oltre la contrapposizione realtà-apparenza. Per
Nietzsche «verità ed errore, conoscenza ed ignoranza, bene e male non
devono essere contrapposti l’uno all’altro; al contrario, li immagina
come punti di uno stesso continuum»21; aggiungerei alla serie anche realtà
e apparenza. Questo riferimento di Nehamas al continuum mi sembra
costituire un guadagno interpretativo rispetto alle visioni discrete, se
non binarie, di altri interpreti.
Mondi e prospettive
Seppur trascurando la separazione inaugurata da Christian Wolff tra
ontologia e cosmologia, possiamo chiederci quale idea di mondo gli
abbiano quindi attribuito gli studiosi americani?
Schacht sostiene sia l’interpretazione che non esista un mondo a
prescindere dalle prospettive sia l’idea che esso non si riduca ad una
prospettiva, quanto piuttosto alla somma di prospettive. Il mondo è
essenzialmente un mondo di relazioni tra centri di forza, i centri di
prospettive; esso è differente da ogni punto di vista, senza i quali nulla
esiste.
Anche Danto osserva come il mondo relazionale sia differente a
seconda dei punti di vista, mostri aspetti diversi, ma, diversamente da
come inteso da Schacht, non lo ritiene la somma di tutte le prospettive,
in quanto esse sarebbero tra loro inconciliabili e quindi non sommabili.
In realtà, mi sembra che per quanto possa essere discutibile l’idea della
realtà come somma delle prospettive, la loro eventuale inconciliabilità
non costituisce un reale ostacolo alla loro somma o al loro
accostamento: si tratterebbe semplicemente di un’eterotopia 22. Piuttosto
bisogna rilevare che Schacht sembra talvolta contrapporre la singola
prospettiva alla somma delle prospettive, attribuendo alla prima il nome
di apparenza e alla seconda quello di realtà: ma per Nietzsche non si
tratta in entrambi i casi di realtà?
Ci si può anche chiedere se il prospettivismo possa essere ritenuto
Quaderni della Ginestra
42
una sorta di pluralismo ontologico.
Nehamas prende in considerazione questa possibilità, ma per
sottolineare la differenza tra le due concezioni. In entrambi i casi si ha
una pluralità di interpretazioni, ma il pluralismo ontologico è assai più
impegnativo in quanto ritiene che il mondo possegga tante nature
quante sono le interpretazioni. Tali interpretazioni dovrebbero essere
complete, cioè su tutto il mondo: il pluralismo ontologico non sarebbe
quindi compatibile con la nostra necessità di semplificazione di cui
spesso parla Nietzsche23. Il semplice prospettivismo sarebbe invece assai
meno esigente dal punto di vista ontologico: il mondo è unico e finito
ma può sempre essere ri-descritto in ogni sua parte. E’ evidente come
Nehamas attribuisca grande importanza al concetto di semplificazione,
sebbene forse lo privi della valenza negativa presente in Nietzsche: la
natura del mondo è data nella totalità delle concezioni che lo riguardano,
ma noi dobbiamo (o meglio non riusciamo a fare a meno di)
semplificare e selezionare. Questo significa che non vediamo oggetti
diversi, ma vediamo da prospettive diverse.
A mio avviso un’ottima metafora di tale situazione (e forse anche
dell’eterotopia di cui ho detto prima) è rinvenibile nelle figure ambigue
(come l’anatra-coniglio, la vecchia-ragazza, ecc.) e negli switch di cui ha
trattato la psicologia della Gestalt. Pur essendo sempre possibili, e in un
ccccccccccccccccccccccccccccccccccccccccccccccccccccccccccccccccANDREA MARCHESE, A REAL GHOST
Pensare la realtà
43
certo senso presenti, entrambe le “visioni” in tali figure, solo una alla
volta può mostrarsi alla nostra percezione. Tali cambi di prospettiva
trovano un interessante parallelo nei mutamenti di paradigma e del
mondo fenomenico di cui parla Kuhn: vari studiosi effettivamente
associano i paradigmi alle prospettive. Sarebbe a questo proposito
interessante capire se si tratti di un’analogia o se la teoria della Gestalt
rappresenti una possibilità generale sul funzionamento della mente che
comprende non solo il caso scientifico dei paradigmi.
Per meglio esemplificare la propria posizione Nehamas propone una
metafora cinematografica-pittorica, il finale del film Mio zio d’America24:
la sequenza si apre con un paesaggio di campagna, che però si rivela
essere nel mezzo di una città ed essere un affresco-murales iperrealista
sulla parete di un edificio; pare perfetto nei suoi particolari e nelle sue
linee; ma con l’avvicinarsi dello zoom si nota come la superficie non sia
liscia ma mostri i difetti dei mattoni e delle loro giunture, la loro
ruvidezza e l’irregolarità dei colori; quindi il paesaggio si perde sostituito
da confuse pennellate. Si presentano perciò differenti versioni della
situazione, dall’iperrealismo si è passati all’impressionismo (o addirittura
al surrealismo). Quali sono le vere linee? Qual è il vero dipinto? Alain
Resnais (il regista) risponde che sebbene non si possano vedere
contemporaneamente tutte le differenti ‘versioni’, il dipinto è tutte le
versioni sommate insieme, senza però che questa somma diventi la
singola realtà di cui le versioni siano apparenze. Quindi non c’è alcun
diritto qui di parlare di apparenze, perché il dipinto è solo queste
“apparenze” ognuna vista da una distanza particolare25. In altre parole si
potrebbe attribuire a Nietzsche la convinzione che ogni nuovo
approccio alla realtà crei non soltanto una nuova interpretazione, ma
proprio un nuovo testo da interpretare. Ogni visione del mondo è il
risultato di una ricostruzione creativa26.
L’interpretazione di Nehamas sembra oscillare tra un unico mondo e
molteplici mondi contemporanei senza prendere a fondo in
considerazione la possibilità di un unico mondo cangiante e mutevole,
cioè dalla natura in divenire (un divenire sia temporale che spaziale). La
natura dell’universo risulterebbe regolata da relazioni di tipo
interpretativo e quindi non sarebbe fissa ma indeterminata: ciò che
appare è frutto di un particolare e continuo riordinamento delle
componenti dell’universo. Dopotutto egli stesso osserva che le nostre
categorie linguistiche sono compatibili con differenti versioni della
struttura ontologica del mondo, il mondo della volontà di potenza può
essere descritto in molti modi, nessuno dei quali deve o può costituire la
sua rappresentazione ultima: «[Nietzsche] vuole mostrare che il mondo
non ha una struttura ontologica»27.
Quaderni della Ginestra
44
Risulta pertanto naturale che Nehamas ritenga la genealogia, con la
sua polivalenza e la sua creatività, l’alternativa nietzschiana all’ontologia:
«domandare che cosa sia in se stessa la natura del mondo o quale
descrizione di esso sia in definitiva corretta equivale a chiedere quale
albero genealogico raffiguri le reali connessioni genealogiche
intercorrenti tra ciascun individuo del mondo» 28. La genealogia
consente molte alternative e non scopre né impone una realtà data una
volta per tutte perché dipende dall’immagine indeterminata del mondo
offerta dalla volontà di potenza, che nel fare ciò incorpora i propri
interessi.
Spostandosi dal piano dell’interpretazione del pensiero di Nietzsche
a quello della sua influenza, non si può non osservare come la questione
della pluralità dei mondi e/o della loro ‘volubile’ struttura ontologica
richiami senz’altro il pensiero di Nelson Goodman. Noi possiamo
costruire una «varietà di versioni corrette e anche in conflitto, ossia di
mondi»29, una molteplicità di sistemi divergenti che trattano dello stesso
dominio. Si possono approvare tutti o nessuno di tali mondi, ma non c’è
un fondamento in base a cui accettare la realtà di uno, ma non degli
altri.
Se mi chiedessero quale sia il cibo per l’uomo dovrei rispondere
‘nessuno’. Perché ci sono molti cibi. E se mi chiedono qual è il modo in
cui il mondo è, devo ugualmente rispondere ‘nessuno’. Perché il mondo
è in molti modi. [...] Ci sono molti modi in cui è il mondo e ogni
descrizione vera afferra uno di essi 30.
Ciò non sembra molto differente da quanto affermava Nietzsche:
«nella misura in cui la parola ‘conoscenza’ ha in genere un senso, il
mondo è conoscibile; ma lo si può interpretare in altro modo: esso non
ha un senso dietro di sé, ma innumerevoli sensi»31.
Risulta qui ben evidente il collegamento tra piano epistemologico e
ontologico. È naturale allora chiedersi come siano possibili teorie
contrastanti: gli oggetti a cui esse si riferiscono sono diversi, teorie
diverse per oggetti diversi. Un esempio citato spesso da Goodman è la
duplice visione (geocentrica o eliocentrica) del moto relativo tra terra e
sole: gli oggetti, nonché lo spazio e il tempo che occupano, sono
‘version-dependent’. Come suggerisce Nehamas parlando di Nietzsche,
anche in Goodman le cose a cui si riferiscono le versioni del mondo si
formano e vanno di pari passo con le versioni stesse.
Alla molteplicità delle versioni del mondo si collegano le posizioni
critiche tenute da Goodman nei confronti del realismo, che egli
considera interamente relativo alla cultura da cui è posto: «la
Pensare la realtà
45
rappresentazione realistica non dipende dall’imitazione, dall’illusione o
dall’informazione, ma dall’addottrinamento»32. Egli giudica il suo
pensiero «un relativismo radicale sottomesso a restrizioni rigorose, che
si risolve in qualcosa di assai prossimo all’irrealismo»33, posizione diversa
dall’antirealismo; la mente, attraverso le versioni, costruisce i mondi:
«l’irrealismo non sostiene che tutto o qualsiasi cosa sia irreale, ma vede il
mondo fondersi in versioni e le versioni creare mondi, ritiene l’ontologia
evanescente, e ricerca ciò che rende una versione corretta e un mondo
ben costruito»34.
Ma allora si tratta proprio di esistenza di mondi diversi e non solo di
diversa interpretabilità di un unico mondo? In ogni caso per Goodman
non si può parlare di mondo indipendentemente dal riferimento a
specifiche strutture: «il nostro orizzonte è costituito dai modi di
descrivere tutto ciò che viene descritto. Il nostro universo consiste, per
così dire, di questi modi piuttosto che di un mondo o di mondi»35. La
costruzione degli oggetti e dei mondi sembra quasi un ‘farli emergere’
da un magma indistinto dell’essere. E’ evidente però che per Goodman
il costruire si basa su qualcosa che già c’è là fuori, anche se risulta
impossibile non solo capire di che cosa si tratti, ma addirittura pensarlo.
Rimanendo in un contesto filosofico vicino a Goodman, di mondi
ontologicamente differenti sembra parlare Thomas Kuhn, se per mondo
si intende qualcosa di organizzato e concettualizzabile: mentre Galileo
vedeva un pendolo, gli aristotelici vedevano pietre oscillanti, ecc. Se
invece si vuole fare riferimento all’idea, magari un po’ oscura, che ci sia
un qualcosa là fuori, allora forse il mondo è sempre lo stesso. Non è
affatto facile trarre le conseguenze ontologiche dal pluralismo dei mondi
proposto da Kuhn: «a mio giudizio, non v’è nessun modo, indipendente
da teorie, di ricostruire espressioni come ‘esservi realmente’; la nozione
di un accordo tra l’ontologia di una teoria e la sua ‘reale’ controparte
nella natura mi sembra ora, in linea di principio, ingannevole»36. Poiché è
naturale pensare che non ci siano discorsi indipendenti da teorie,
probabilmente siamo di fronte, come rilevabile in altri filosofi successivi
come Donald Davidson, ad una scissione tra piano discorsivo-
concettuale e piano ontologico: che si tratti di una particolare forma di
nominalismo, rilevabile anche in Nietzsche?
Esistono le cose, esistono i fatti?
Ovvero “Le cose non sono le cose”
Nietzsche osserva: «si deve prima di tutto interpretare questo fatto:
esso se ne sta lì in sé, stupido per tutta l’eternità, come ogni cosa in sé»37
e ancora «contro il positivismo, che si ferma ai fenomeni dicendo «ci
Quaderni della Ginestra
46
sono solo i fatti», io direi: no, appunto i fatti non esistono, esistono solo
interpretazioni»38.
John Wilcox esprime una perplessità comune a molti studiosi di
Nietzsche (e non solo): se tutta la nostra conoscenza è interpretativa,
cioè prospettica, c’è qualcosa che resta costante e di cui abbiamo
prospettive 39? Nietzsche, suo malgrado, è costretto ad usare il
linguaggio e il portato metafisico che ha spesso denunciato: il termine
prospettiva, in questo caso, richiama immediatamente un “bersaglio”, la
cosa in sé, a cui sarebbero indirizzate le prospettive. Il dubbio di Wilcox
quindi forse travisa il senso e lo scopo del prospettivismo di Nietzsche.
Siamo infatti sicuri che debba necessariamente esistere qualcosa al di là
della prospettiva?
Basandosi su quanto si trova in Genealogia della morale la Clark ritiene
che Nietzsche non neghi l’esistenza dei fatti, ma di una loro natura
indipendente dall’interpretazione: «la peccaminosità dell’uomo non [è]
un dato di fatto, ma piuttosto unicamente l’interpretazione di un dato di
fatto. [...] Col fatto che qualcuno si sente colpevole, peccaminoso, non è
ancora per nulla dimostrato che a ragione egli si senta tale»40. Quindi
esisterebbero fatti e interpretazioni di fatti: ma che dire allora dei
passaggi fondamentali per il prospettivismo in cui Nietzsche afferma
che non esistono i fatti41, ma solo le interpretazioni? Che cosa
intenderebbe Nietzsche con il termine fatti, che altrove nega? Secondo
questa studiosa la natura degli oggetti (e dei fatti) è solo l’interpretazione
da uno o più punti di vista. Ma si tratta in ultima istanza della somma
dei vari punti di vista? Oppure oggetto delle varie interpretazioni sono
solo altre interpretazioni? La Clark non chiarisce questo eventuale
realismo ontologico e non sembra inoltre tenere conto del fatto che
Nietzsche, nelle opere non giovanili, definisca chiaramente gli oggetti
solo una menzogna utile, un errore incarnato nel linguaggio. Qual è
allora l’oggetto delle nostre interpretazioni? Forse ogni interpretazione
crea i propri oggetti e fatti?
Correttamente Schacht, come altri interpreti post-analitici, insiste sul
legame tra prospettivismo e natura relazionale degli oggetti molto più di
quanto facciano Wilcox e la Clark: se la natura di qualcosa dipende dai
modi, dalla varietà di specifici punti di vista a partire dai quali la si può
incontrare, allora solo nella misura in cui uno è capace di fare gli
appropriati cambi di prospettiva tale natura diviene accessibile42.
Alcuni studiosi si sono soffermati sulle conseguenze di un’originale
proposta in cui Nietzsche sembra comporre la fisica a lui
contemporanea e il prospettivismo, la teoria degli oggetti come fasci
strutturati di potenza. Essa è rintracciabile in Volontà di potenza (o
Frammenti Postumi) dove può essere letto anche il radicalizzarsi di una
Pensare la realtà
47
tradizione anglosassone, contraria all’ontologia delle sostanze, che parte
da Berkeley, passa per Hume e giungerà poi fino a Russell. Infatti all’idea
di Hume che l’io non sia atomico, bensì un fascio di percezioni,
Nietzsche aggiunge l’idea che l’io sia prospettico, all’idea di Berkeley che
non esistano oggetti indipendenti dalle loro proprietà aggiunge che
queste siano tipi di prospettive di potenza, all’idea di Russell che gli
oggetti siano una costruzione aggiunge che anche il sé è una
costruzione43.
Nella lettura di Danto le cose e gli esseri viventi “sono” volontà di
potenza, non “hanno” volontà di potenza. Neppure è corretto parlare di
cose: l’ontologia di Nietzsche tratta di quanti dinamici e non più di cose
e soggetti aventi volontà, perché loro stessi sono volontà, attività. A
questa interpretazione che subordina l’oggetto ad una attività, si può
collegare anche la proposta di filosofi come Davidson44: al concetto di
oggetto essi affiancano o sostituiscono quelli di fatti o ancor più di
eventi e di state of affairs, parlano di ontologie degli eventi. La realtà non
è un sistema atomistico composto da una continuità discreta di quanti,
bensì il risultato delle miriadi di configurazioni che essi possono
assumere.
Per analoghe ragioni Nehamas, pur parlando di fatti, di oggetti e di
eventi, non ritiene ci sia una teoria nietzscheana al riguardo, una
ontologia che risponda a domande come “che cosa è un fatto?”, “che
cosa è un evento?”. Secondo Nehamas l’informazione essenziale che
Nietzsche voleva fornirci è l’interconnessione di tutte le cose, ontologica
e epistemica allo stesso tempo. Infatti se «la loro [dei quanti] essenza
consiste nella loro relazione con tutti gli altri quanti»45, allora essi non
posseggono un sostrato indipendente. Che ne è quindi delle cose in sé?
È proprio a questo punto che all’interno del concetto di potenza si
manifesta la presenza del prospettivismo. Infatti il reale è un tutto fluido
e dinamico in quanto regolato da rapporti olistici ed ermeneutici, la sua
natura non è afferrabile una volta per tutte ma è legata alle
interpretazioni: come osserva Nehamas, «la sua [di Nietzsche]
concezione della relazionalità essenziale del tutto [fa] parte del suo
tentativo di mostrare che non vi è un mondo già dato, rispetto al quale
le nostre concezioni e teorie possono essere vere una volta per tutte»46.
Tra gli oggetti non possono che crearsi relazioni olistico-ermeneutiche:
essi non posseggono caratteristiche proprie, ma si definiscono nei loro
rapporti e nelle loro differenze reciproche. Ne deriva la fondazione
dell’ontologia nietzschiana su un prospettivismo “pan-interpretativo”:
come osserva Tiziana Andina «l’essenza delle cose coincide con la loro
possibilità di essere interpretate»47.
Quasi impossibile non pensare ancora a quanto osserva Goodman: i
Quaderni della Ginestra
48
fatti nella visione filosofica fondazionalista, cioè come qualcosa a cui ci
troviamo davanti e che costituiscono la realtà, non esistono, «sono
qualcosa di chiaramente artificiale»48, teorie di piccola taglia.
L’americano presenta anche una serie di esempi tratti sia dalla vita
quotidiana sia dalle scienze in cui si evidenzia la loro natura di
interpretazione dipendente dalla prospettiva in cui ci si muove (realista
ingenuo, fisico, ecc). Sono gli oggetti, o fatti, ad essere il prodotto
dell’interpretazione, paradossalmente dell’effetto (nel pensiero comune),
direbbe Nehamas49. Tornando a quest’ultimo vediamo infatti come
l’interpretazione rivesta un ruolo fondamentale non solo nella
descrizione, ma anche nella continua ri-descrizione “costitutiva” delle
cose. Infatti, poiché la distinzione sostanza-accidente per Nietzsche non
ha più ragione d’essere e la struttura delle cose dipende esclusivamente
dall’interpretazione, ogni nuova interpretazione produce nuove “cose” e
queste, a loro volta, nuove interpretazioni.
Nehamas fa ricorso ad una metafora, certo non nuova, che però
aiuta a chiarire questo passaggio: il mondo come testo letterario. Tutte le
cose e gli eventi si pongono nei confronti delle loro relazioni come il
personaggio di un romanzo nei confronti dei propri atti: ogni successiva
azione di un personaggio lo modifica, genera una nuova interpretazione
sul suo passato, facendolo risultare «la somma dei suoi effetti»50. Allo
stesso modo le cose non sono circoscrivibili da definizioni e
proposizioni ultime, ma sono la totalità in divenire di eventi, sono
modificate da successivi eventi e generano nuove interpretazioni: «non
come una sostanza è correlata al suo attributo ma come un intero è
correlato alle sue parti; inoltre questa relazione è interpretativa e non
causale»51. Lo stesso rapporto di genesi sintetica e interpretativa,
potremmo dire, esiste tra un’opera d’arte e le varie interpretazioni che di
essa vengono date. Infatti in un’altra metafora, che Nehamas attribuisce
a Nietzsche, il mondo è come un’opera che genera se stessa: «come nel
caso della letteratura, così nel mondo, secondo Nietzsche reinterpretare
gli eventi significa riordinare gli effetti e perciò generare nuove cose»52.
Non proprio di interpretazioni ma di narrazioni parla R. Rorty,
profondo estimatore del pensiero di Nietzsche, che propone un
interessante sviluppo del ‘capovolgimento ontologico’ che, come visto,
alcuni studiosi leggono in Nietzsche. L’americano sembra sostituire alla
realtà la narrazione, fondendo normatività, creatività e descrizione53. La
scomparsa della realtà in senso metafisico non implicherebbe però il
regno del simulacro: l’esercizio dell’immaginazione non corrisponde alla
simulazione. Anzi, a mio avviso, si apre la possibilità di narrare storie
che, con il loro potere creativo, possono davvero fare la differenza: le
forme di narrazione che chiamiamo teoriche possono aiutare a portare
Pensare la realtà
49
alla realtà un mondo migliore; si possono produrre nuove realtà,
virtualità attualizzate. La grande possibilità insita nella proposta di Rorty
è che siano i fatti a derivare dai nuovi mondi narrati, e non più
viceversa: la genesi della realtà è spostata nella narrazione allontanandosi
dai fatti, che cambiano in base alla narrazione. Il mondo può essere
scomposto in fatti solo dopo il lavoro costituente della narrazione: i fatti
sono frutto di un’analisi, di una scomposizione del mondo narrato, e
non più generatori del mondo per sintesi; prima viene la narrazione, poi
i fatti.
Questo sviluppo molto coraggioso lascia però alcuni dubbi: da dove
viene la creazione se non da altri linguaggi, da altre narrazioni? Che cosa
c’è al di fuori delle narrazioni? Al fine della “creazione” bastano le sole
narrazioni o è necessario anche qualcos’altro? In Rorty il centro della
realtà, intesa come narrazione, pare essere occupato dal linguaggio, o
meglio dai linguaggi o dai vocabolari; gli individui, cose o persone,
paiono emarginati: emerge una deriva verso la trascendenza e il
metafisico a scapito della pragmaticità e dell’umanità a cui l’americano
invece pare spesso aspirare54. L’essere diventa il linguaggio oppure
l’essere è semplicemente nel manifestarsi di tutte le prospettive
attraverso i linguaggi a cui l’uomo può accedere.
ANTONIO FREDDI
1 Per gli scritti di Nietzsche si è fatto riferimento alle edizioni critiche Nietzsche, Werke (KGW) e Briefwechsel (KGB) nonché alle relative traduzioni italiane pubblicate in vari anni da Adelphi. Fa eccezione Der Wille zur Macht, per la quale si è fatto riferimento alla traduzione a cura di Ferraris M. e Kobau P., Bompiani, Milano 2005. 2 P. RICOEUR, De l'interprétation. Essai sur Freud, Editions de Seuil; Parigi 1965 ; tr. it. Della interpretazione. Saggio su Freud, Il Saggiatore, Milano 2002. 3 Si veda per esempio T. ROCKMORE, Habermas, Nietzsche, and Cognitive Perspective, 1999 in B. E. BABICH E R. S. COHEN (a cura di), Nietzsche and the Sciences I: Nietzsche, Theories of Knowledge and Critical Theory, Kluwer, Dordrecht e Londra 1999. 4 G. VATTIMO, Ipotesi su Nietzsche, Giappichelli, Torino 1964; Introduzione a Nietzsche, Laterza, Roma-Bari 1985. 5 J. DERRIDA, Eperons. Les styles de Nietzsche, Flammarion, Parigi 1978; Otobiographies. L’enseignement de Nietzsche et la politique du nom propre, Galilée, Parigi 1984. 6 Si veda L. I. SESTOV, Достоевский и Ницше; 1903; tr. it La filosofia della tragedia. Dostoe-vskij e Nietzsche, Marco Editore, Cosenza 2004. 7 G. DELEUZE, Nietzsche et la Philosophie, PUF, Parigi 1962; tr. it. Nietzsche e la filosofia, Colportage, Firenze 1978. 8 B. LEITER, Nietzsche on Morality, Routledge, New York 2002. 9 A. DANTO, Nietzsche as Philosopher, MacMillan, New York 1965, p. 96. 10 F. LEA, The Tragic Philosopher, Philosophical Library, New York 1957, p. 259. 11A. NEHAMAS, Nietzsche: Life as Literature, Harvard University Press, Cambridge (Mass.) 1985, p. 92; tr. it. (a cura di M. PERA) Nietzsche: la vita come letteratura, Armando, Roma 1989, p. 113. 12 A. DANTO, cit., 1965, p. 91. 13 A. DANTO, cit., 1965, p. 78. 14 F. NIETZSCHE, Menschliches, Allzumenschliches, 1878, 9. 15 M. CLARK, Nietzsche on Truth and Philosophy, Cambridge University Press, Cambridge 1990, p. 41. 16 M. CLARK, cit., 1990, p. 136. 17 R. SCHACHT, Nietzsche, Routledge and Kegan Paul, Londra 1983, pp. 188-189. 18 F. NIETZSCHE, Götzen-Dämmerung, 1888, III, 2 e IV. 19 R. SCHACHT, cit., 1983, p. 191. 20 F. NIETZSCHE, Der Wille zur Macht, 1901, 567. 21 A. NEHAMAS, cit., 1985, p. 44 (tr. it., p. 61).
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22 Per approfondire il concetto di eterotopia si faccia riferimento a M. FOUCAULT, Les mots e les choses, Gallimard, Parigi 1966, introduzione, oppure la conferenza Des espaces autres, 1967; tr. it. Eterotopie, in Archivio Foucault, Feltrinelli, Milano 1998. 23 F. NIETZSCHE, Jenseits von Gut und Böse, 1886, 24. 24 Film di Alain Resnais del 1980. 25 A. NEHAMAS, cit., 1985, pp. 51-52 (tr. it., pp. 68-69). 26 F. NIETZSCHE, Die fröhliche Wissenschaft, 1882, 58. 27 A. NEHAMAS, cit., 1985, p. 96 (tr. it., p. 118). 28 A. NEHAMAS, cit., 1985, p. 104 (tr. it., p. 126). 29 N. GOODMAN, Ways of Worldmaking, Hackett Press, Indianapolis 1978, p. x; tr. it. Vedere e costruire il mondo, Laterza, Roma-Bari 1988, p. ix. 30 N. GOODMAN, Problems and Projects, Bobbs-Merrill, New York 1972, pp. 30-31. 31 F. NIETZSCHE, Der Wille zur Macht, 1901, 481 oppure Werke (Nachlass), 8 [7] 60, fine 1886-inizio 1887. 32 N. GOODMAN, Languages of Art: An Approach to a Theory of Symbols, Bobbs-Merrill, Indianapolis 1976; tr. it. (a cura di F. BRIOSCHI), I linguaggi dell’arte, Il Saggiatore, Mila-no 2003, p. 40. 33 N. GOODMAN, cit., 1978, p. x (tr. it., p. viii). 34 N. GOODMAN, Of Mind and Other Matters, Harvard University Press, Cambridge (Mass.) 1984, p. 29. 35 N. GOODMAN, cit., 1978, p. 3 (tr. it., p. 3). 36 T. KUHN, The Structure of Scientific Revolution, 2nd ed. con poscritto, University of Chi-cago Press, Chicago 1970, p. 206; tr. it La struttura delle rivoluzioni scientifiche, Einaudi, Torino 1999, p. 247. 37 F. NIETZSCHE, Zur Genealogie der Moral, 1887, III, 7. 38 F. NIETZSCHE, Der Wille zur Macht, 1901, 481 oppure Werke (Nachlass), 8 [7] 60, fine 1886-inizio 1887. 39 Cfr. J. WILCOX, Truth and Value in Nietzsche: A Study of His Metaethics and Epistemology, The University of Chicago Press, Chicago 1978. 40 F. NIETZSCHE, Zur Genealogie der Moral, 1887, III, 16. 41 F. NIETZSCHE, Der Wille zur Macht, 1901, 481. 42 R. SCHACHT, cit., 1983, p. 101. 43 F. NIETZSCHE, Jenseits von Gut und Böse, 1886, 12. 44 Per esempio in D. DAVIDSON, Essays on Action and Events, Oxford University Press, New York 1980; tr. it., Azioni ed eventi, Il Mulino, Bologna 1992, capp. 7, 8, 9, 10, 11.
45 F. NIETZSCHE, Der Wille zur Macht, 1901, 635. 46 A. NEHAMAS, cit., 1985, p. 81 (tr. it., p. 102). 47 T. ANDINA, Il volto americano di Nietzsche, La Città del Sole, Napoli 1999, p. 338. Vo-lendo si potrebbe osservare che esattamente la stessa cosa che ai miei occhi si compie a proposito dell’essenza del pensiero di Nietzsche. 48 N. GOODMAN, cit., 1978, p. 93 (tr. it., p. 109). 49 A. NEHAMAS, cit., 1985, p. 92 (tr. it., pp. 112-113). 50 ‘A Thing is the Sum of Its Effects’, è il titolo di un capitolo del già citato testo di Nehamas (1985). 51 A. NEHAMAS, cit., 1985, p. 89 (tr. it., p. 110). 52 A. NEHAMAS, cit., 1985, p. 91 (tr. it., p. 112). 53 Cfr. R. RORTY (1989), Contingency, Irony and Solidarity, Cambridge University Press, Cambridge 1989; tr. it. (a cura di A. G. GARGANI) La filosofia dopo la filosofia, Laterza, Roma-Bari 2001. 54 Per esempio quando parla di solidarietà: si ved, per esempio, R. RORTY, cit., 1989, paragrafo ‘Solidarietà’.
Pensare la realtà
51
e nozioni di realtà e possibilità svolgono una funzione centrale
nella metafisica di E. J. Lowe, sia perché lo stesso Lowe definisce
la metafisica come la disciplina che studia le più fondamentali strutture
della realtà, sia per l’obiettivo che le ascrive, ossia stabilire «che cosa può
esserci». In queste pagine, cercherò di analizzare il ruolo che la realtà
assume nella proposta metafisica di Lowe, il rapporto che l’autore
individua tra la metafisica e le varie discipline scientifiche e intellettuali,
e infine di discutere il concetto di possibilità che è alla base della sua
proposta1.
1. Breve nota introduttiva
«La novità degli ultimi anni è che si sono affermati nuovi modi di
occuparsi della ‘scienza dell’essere in quanto essere’, e si è andata
sviluppando una nuova e diffusa consapevolezza nei confronti di questa
disciplina. Tutto il Novecento è pieno di annunciate o sperate o effettive
rinascite della metafisica, ma questa volta almeno alcuni segni fanno
sperare per il meglio. [...] In ogni caso, se il campo del lavoro del
metafisico è ancora relativamente diviso e anarchico [...], c’è la positiva
persuasione che nonostante la varietà delle soluzioni e degli approcci, si
possano trasmettere in modo neutrale almeno alcune delle acquisizioni
preliminari necessarie per occuparsi di metafisica in modo proficuo»2.
Con queste parole Franca D’Agostini sottolinea il rinnovato interesse
che la filosofia contemporanea, nelle sue diverse correnti, ha riservato (e
sta riservando) alle ricerche in metafisica, evidenziandone la pluralità di
soluzioni e metodi di ricerca. Obiettivi preliminari di queste ricerche
sono innanzitutto di definire cosa si intenda con metafisica, in che
modo si differenzi e rapporti alle altre discipline filosofiche, scientifiche
e intellettuali, e di difendere la metafisica dalle varie posizioni anti-
metafisiche che ne negano la possibilità o che la degradano «a qualcosa
di non meritevole di questa denominazione»3. Tali obiettivi sono centrali
nella proposta metafisica di Lowe, proposta che rappresenta lo sfondo
concettuale su cui si articola e struttura l’intera ricerca dell’autore, e i cui
tratti principali sono ben delineati in due sue opere: The Possibility of
Metaphysics (1998) e A Survey of Metaphysics (2002). In A Survey of
Metaphysics4, Lowe si concentra sui (vari) tentativi di definizione di
metafisica, sugli obiettivi di tali ricerche e sul rapporto tra metafisica e
discipline scientifiche e intellettuali. In particolare, Lowe difende una
concezione di metafisica come disciplina che studia la struttura
L
REALTÀ E POSSIBILITÀ. UNA RIFLESSIONE SULLA
PROPOSTA METAFISICA DI E.J. LOWE
Quaderni della Ginestra
52
fondamentale della realtà come un tutto, dalle obiezioni del relativismo,
dell’epistemologia naturalizzata e da coloro che definiscono la metafisica
come lo studio dei nostri pensieri circa la realtà, evidenziando al
contempo la centralità che il concetto di possibilità assume nella sua
proposta. In The Possibility of Metaphysics, invece, Lowe si propone di
restituire alla metafisica un ruolo centrale nella ricerca filosofica,
fissando le ragioni per cui la metafisica è possibile ed è una disciplina
filosofica ragionevole, «con una metodologia autonoma e propri criteri
di validità»5. Secondo Lowe tutte le discipline – e tutte le forme di
sapere – si basano su assunzioni metafisiche. Restituire un ruolo di
primo piano alla metafisica significa analizzare criticamente e rendere
esplicite quelle assunzioni che le varie discipline accolgono senza un
apparato critico adeguato.
2. Che cos’è la metafisica
Lowe descrive la metafisica come la disciplina razionale a priori, di
carattere non empirico, che studia in modo sistematico le più
fondamentali strutture della realtà6 – realtà considerata come unitaria e
indipendente dal nostro modo di pensarla e descriverla7 – e che ha
l’obiettivo di esaminare le possibilità reali, cioè le possibilità della realtà
considerata in se stessa8. In quanto studio sulla realtà, la metafisica si
occupa delle entità su cui si struttura la realtà stessa (i suoi costituenti
basilari) e del modo in cui esse si collegano, e di chiarire alcuni concetti
universalmente applicabili – concetti come identità, possibilità,
necessità, spazio, tempo, persistenza, cambiamento e causalità –
esaminando le dottrine che li riguardano.
La centralità che la realtà, considerata come unitaria e auto-coerente,
e la verità, definita come unica e indivisibile9, assumono nella riflessione
sulla metafisica dell’autore permette di chiarire il rapporto che lega la
metafisica alle altre discipline scientifiche e intellettuali. Scrive a tal
proposito Lowe:
«Le varie discipline scientifiche, e le altre discipline intellettuali i cui
praticanti non sono probabilmente interessati a definirsi ‘scienziati’ –
come gli storici e i letterati – sono tutte impegnate, almeno in parte,
nella ricerca della verità, ricercandola ciascuna con i propri metodi di
indagine e all’interno del proprio ambito di ricerca. Tuttavia,
l’indivisibilità della verità implica che tutte queste forme di ricerca
devono, se vogliono riuscire nei loro obiettivi, riconoscere la necessità di
essere coerenti l’una con l’altra. Nessuna di queste forme di ricerca può
infatti presumere di definire la questione della reciproca coerenza,
perché nessuna tra queste discipline ha un’autorità al di fuori del proprio
Pensare la realtà
53
ambito di ricerca. Tale autorità può essere fornita solo da coloro che
praticano una disciplina intellettuale che aspira a una completa
universalità nel suo oggetto di ricerca e nei suoi obiettivi – e questa la
disciplina è la metafisica, come tradizionalmente concepita» 10.
In questo senso, secondo Lowe, la metafisica ha una priorità
concettuale rispetto a ogni altra disciplina (che ha un dominio più
limitato11), ne costituisce lo sfondo concettuale, e fornisce la struttura
all’interno della quale le varie discipline sono pensate e collegate le une
alle altre:
«uno dei ruoli della metafisica, come disciplina intellettuale, è fornire
un forum in cui possono essere affrontate dispute sui confini tra le varie
discipline – per esempio, la controversia sul fatto che l’oggetto di ricerca
di una disciplina scientifica, come la biologia o la psicologia o
l’economia, possa essere incluso in un’altra disciplina scientifica,
presumibilmente più ‘fondamentale’, come la fisica. [...] La metafisica
può occupare questo ruolo interdisciplinare descritto, perché il suo
obiettivo di ricerca principale è la struttura fondamentale della realtà
come un tutto. Nessuna scienza speciale – nemmeno la fisica – può
avere questo obiettivo, perché l’oggetto di ricerca di ogni disciplina
scientifica è identificato in modo più restrittivo»12. MARTINA TAMBASSI, SOFT
Quaderni della Ginestra
54
La metafisica, inoltre, ha l’obiettivo di indagare e stabilire ‘che cosa
può esserci’ (che cosa è metafisicamente possibile), ed è dunque
strettamente correlata al concetto di possibilità (metafisica), possibilità
che, secondo Lowe, deve essere esplorata (o almeno assunta), prima che
qualsiasi pretesa di verità circa la realtà possa essere legittimata
dall'esperienza. Attraverso l’esperienza, sulla quale si fondano le scienze
empiriche, si potrà poi mostrare quale tra le varie possibilità metafisiche
alternative è plausibilmente vera nella realtà. La metafisica è dunque
preliminare rispetto alle scienze empiriche, in quanto «l’esperienza da
sola non è in grado di determinare ciò che è attuale senza una
delimitazione metafisica del regno del possibile»13. Le scienze empiriche,
invece, dovendo stabilire che cosa è attualmente vero sulla base
dell’esperienza, presuppongono la metafisica14: i contenuti
dell’esperienza, su cui si fondano le scienze empiriche, possono infatti
essere valutati solo alla luce di un quadro più generale che ci indichi cosa
è metafisicamente possibile.
«Dobbiamo riconoscere che, quando un metafisico afferma
l’esistenza di una caratteristica strutturale fondamentale della realtà che
reputa contingente, egli dovrebbe al contempo riconoscere che tale
affermazione deriva, almeno in parte, dall’evidenza empirica. Ma è
importante notare che una tale affermazione non deriva solo
dall’evidenza empirica. Quando un metafisico fa una simile
affermazione, spetta a lui stabilire [...] che l’esistenza di questa
caratteristica è quanto meno possibile. Il punto centrale è che l’evidenza
empirica non può essere la prova dell’esistenza di qualcosa che non è
una caratteristica possibile della realtà. Ma stabilire che l’esistenza di una
determinata caratteristica della realtà è possibile non è un qualcosa che
può essere conseguito con metodi di indagine puramente empirici,
proprio perché l’evidenza empirica può essere solo l’evidenza di uno
stato di cose possibile, indipendentemente da tale evidenza. In questo
senso, la metafisica [...] ha un medoto di indagine di carattere non-
empirico, nella misura in cui è la disciplina intellettuale la cui
preoccupazione è di tracciare le possibilità dell’esistenza reale. La
metafisica si occupa di scoprire ciò che la totalità dell’esistenza potrebbe
abbracciare: vale a dire, quali categorie di entità possono esistere e quali
di esse possono coesistere. Dopo aver tracciato le possibilità, rimarrà la
questione circa quale tra le varie possibilità reciprocamente
incompatibili per caratterizzare la struttura fondamentale della realtà si
ottenga attualmente – e a questa domanda si può rispondere solo, se non
del tutto, con l’aiuto dell’evidenza empirica, e solo attraverso tentativi e
in modo provvisorio»15.
In questo senso, le scienze empiriche possono interagire con la
Pensare la realtà
55
metafisica per determinare cosa è attuale: in particolare per stabilire se
una determinata posizione metafisica è vera nell’attualità. Dichiarare
dunque che il mondo esibisce una determinata proprietà metafisica sarà
quindi un giudizio a posteriori, dal momento che deve rispondere al
tribunale dell’esperienza. Ma il contenuto del giudizio manterrà sempre
il suo carattere modale esprimendo un’autentica possibilità metafisica:
«questa concezione dello statuto epistemologico degli enunciati della
metafisica, essendo a un tempo modali e a posteriori, è ovviamente
vicino alla posizione di Kripke. Egli sostiene, ad esempio, che alcuni
enunciati di identità e costituzione veri siano metafisicamente necessari
e tuttavia conoscibili solo a posteriori. Ciò che può essere conosciuto a
priori, secondo Kripke, è semplicemente che, se vale l’identità tra due
oggetti a e b, allora essa ha il carattere di una necessità metafisica ma il
fatto che essa valga può essere conosciuto solo a posteriori. Non sono
particolarmente incline ad accettare la posizione di Kripke [...] né
accetto la tesi connessa secondo cui la costituzione originaria di un
oggetto è metafisicamente necessaria. Al contrario concordo con la sua
intuizione che la metafisica abbia a che fare con verità modali e che
possa, tuttavia, fornire risposte a questioni riguardanti l’esistenza attuale
che si configurano come a posteriori»16.
Ammessa dunque a priori la correttezza di un determinato argomento
metafisico e a posteriori la sua interazione con le discipline scientifiche
per stabilire che cosa è attuale, avremo allora motivi, sia a priori che a
posteriori, per affermare la correttezza e l’applicabilità di tale argomento
metafisico al mondo attuale. Non dobbiamo tuttavia dimenticare che la
metafisica non può dirci che cosa c’è nella realtà se non interagendo con
le discipline scientifiche: in questo senso, per quanto riguarda l’attualità,
la metafisica da sola non può fornirci certezze. D’altra parte, gli stessi
scienziati, secondo Lowe, formulano inevitabilmente assunzioni
metafisiche, sia implicitamente che esplicitamente, nelle costruzioni e
nel controllo delle teorie – assunzioni che sono al di là di quello che la
scienza è in grado di fondare. E queste assunzioni devono essere
esaminate criticamente sia dagli scienziati che dai filosofi: in entrambi i
casi attenendosi ai propri metodi e oggetti di ricerca.
Si può dunque affermare che sia la metafisica che le discipline
scientifiche mirano alla fondazione di una realtà oggettiva. Differiscono
però per il loro atteggiamento riguardo al contenuto dell’esperienza che,
secondo Lowe, ha un ruolo fondamentale nello stabilire come sia
effettivamente fatta la realtà. Per gli scienziati, infatti, l’esperienza è una
sorta di supporto evidenziale per ipotesi esplanatorie, e il suo contenuto
è accettato in modo relativamente acritico, anche se è spesso
Quaderni della Ginestra
56
interpretato alla luce delle teorie scientifiche prevalenti. Per i metafisici,
invece, il contenuto dell’esperienza, e in particolare i concetti che
servono a strutturare tale contenuto, è esso stesso oggetto di ricerca,
critica e spiegazione sistematica, in base a principi a priori. Una tale
divergenza impone, secondo Lowe, che metafisica e discipline
scientifiche debbano sviluppare un rapporto di reciprocità – rapporto
che l’autore definisce in termini di ‘complementarità’ e ‘cooperazione’ –
in modo tale che la scienza non ignori più l’apriorità dei principi
metafisici, così come la metafisica tenga in conto le costruzioni teoriche,
a posteriori, della ricerca scientifica e dei suoi risultati. Da questo punto
di vista il metafisico non può permettersi di ignorare gli sviluppi della
scienza, ma non può rendersi colpevole di ‘schiavitù’ ideologica rispetto
ai risultati scientifici. Dunque, nel chiedersi ‘che generi di cose
esistono?’, il metafisico deve basarsi sui risultati della scienza e lavorare
criticamente sulle assunzioni e sulla metodologia della riflessione
scientifica, in modo tale da arrivare a una sintesi tra principi metafisici a
priori e costruzioni teoriche scientifiche a posteriori:
«Probabilmente [...] il miglior servizio che la metafisica analitica può
offrire è semplicemente tracciare le possibilità di esistenza e quindi
fornire gli strumenti concettuali con i quali categorizzare il contenuto
del mondo nel miglior modo possibile alla luce dell’esperienza,
assumendo un atteggiamento mentale aperto nei confronti di nuove
evidenze empiriche che possono sopraggiungere in futuro. Dobbiamo,
naturalmente, rivolgerci alla scienza sperimentale per sapere ‘che cosa
c’è’: gli scienziati, tuttavia, possono dirci cosa suppongono ci sia solo
assumendo una qualche categorizzazione delle entità in questione e il
compito di costruzione delle categorie è assegnato in ultima analisi alla
metafisica e non alle scienze empiriche17. La modesta speranza della
metafisica analitica è di poter facilitare il compito della costituzione di
teorie empiriche fornendo una struttura categoriale nella quale collocare
le entità supposte da tali teorie. Una metafisica inadeguata [...] può senza
dubbio intralciare il processo di costruzione delle teorie scientifiche [...].
Poiché ogni studioso formula teorie e congetture basandosi,
inevitabilmente, su alcune presupposizioni metafisiche è meglio che tali
assunzioni siano frutto di riflessione razionale piuttosto che implicite e
non adeguatamente controllate»18.
3. Possibilità metafisica
Dopo aver definito la metafisica come la disciplina che ha l’obiettivo
di indagare e stabilire che cosa può esserci (che cosa è metafisicamente
possibile), ci occupiamo ora della nozione di possibilità che ne è alla
Pensare la realtà
57
base: la nozione di possibilità metafisica.
Ora, potremmo chiederci: come è possibile stabilire che cosa è
metafisicamente possibile? Secondo Lowe, in quanto esseri razionali,
non possiamo non considerarci capaci di conoscere almeno qualcosa sul
regno della possibilità metafisica: il ragionamento stesso dipende infatti
dalla nostra capacità di comprendere le possibilità, ossia di riconoscere
che un argomento è valido se non è possibile per la conclusione essere
falsa se le premesse sono vere – e un essere razionale può discernere la
validità di almeno alcuni argomenti.
Su questi presupposti, Lowe considera la possibilità metafisica come
una possibilità reale (de re), che riguarda la natura delle cose,
indipendentemente dal nostro modo di pensare e concettualizzare il
mondo, e dal nostro modo di descriverlo19. La possibilità metafisica di
uno stato di cose, per esempio, non è determinata semplicemente
dall’assenza di contraddizione nelle proposizioni utilizzate per
descriverlo (benché, ovviamente, l’assenza di contraddizione sia un
requisito minimale della possibilità metafisica), ma piuttosto dal fatto
che l’esistenza di tale stato di cose è resa possibile da principi e categorie
metafisicamente accettabili. La nozione di stato di cose, come quella di
sostanza, proprietà e così via, è essa stessa una nozione metafisica.
Queste sono considerate da Lowe come nozioni trascendentali: non
derivano cioè dall'esperienza, ma servono per costruire ciò che
l’esperienza ci dice della realtà. Ciò ovviamente non significa che
l’applicabilità di una nozione metafisica alla realtà possa essere
determinata interamente a priori, ma solo che la sua possibile
applicabilità può essere determinata in questo modo. Con un esempio:
«i metafisici hanno dibattuto a lungo sulla possibilità del mutamento
e della realtà del tempo [...]. Si tratta, tuttavia, di questioni né puramente
empiriche né puramente logiche. Il modo in cui dovremmo concepire il
tempo è anch’esso un problema metafisico e cioè se e come la nozione
di tempo debba essere correlata ad altre nozioni metafisiche più
fondamentali. [...] Quello che vorrei sottolineare in questa sede è,
innanzitutto, che queste tematiche possono essere affrontate con una
discussione razionale e, secondariamente, che il tipo di argomentazione
in esame è chiaramente metafisico. Far vedere che il tempo è
metafisicamente possibile non consiste solamente nel dimostrare la
consistenza logica del discorso temporale [...] né nel formulare una
coerente teoria fisica del tempo sulla scorta, ad esempio, della teoria
della relatività di Einstein. Quest’ultima dichiara alcuni principi
fondamentali riguardo al tempo [...] ma il fatto che il suo oggetto sia
proprio il tempo e che, in quanto tale, risulti possibile, sono questioni
metafisiche alla quali nessuna teoria scientifica può dare risposta» 20.
Quaderni della Ginestra
58
Considerando le nozioni di possibilità e necessità come
interdefinibili, Lowe intende mostrare come la nozione di necessità (e
dunque di possibilità) metafisica non coincida con la nozione di
necessità logica, anche se esiste una nozione di necessità logica
coestensiva con la necessità metafisica21: la necessità logica ampia (o
allargata), cioè la verità in ogni mondo logicamente possibile, ovvero in
ogni mondo in cui valgono le leggi della logica22. Ossia: dato P, se P è
metafisicamente necessario allora non esiste alcun mondo logicamente
possibile nel quale non-P sia vero, anche se è coerente dire che P è
necessario e che non-P è tuttavia possibile – nel senso che la verità di
non-P non è scartata dalle leggi logiche insieme ai concetti non-logici
presenti in P. In molti casi, tuttavia, questo tipo di necessità non è
conoscibile a priori, proprio perché molto spesso non è fondata sulla
logica e sui concetti ma sulla natura delle cose23.
Un esempio di necessità logica ampia potrebbe essere ‘L’acqua è
H20’, anche se si può obiettare che questa proposizione non possa
essere vera in ogni mondo possibile, dal momento che l’acqua non è
presente in tutti i mondi possibili. Una tale obiezione può tuttavia essere
aggirata distinguendo tra necessità forte e debole: una proposizione è
debolmente necessaria (nel senso della necessità logica ampia) solo nel
caso in cui è vera in ogni mondo possibile nel quale le sue espressioni
referenziali non siano vuote.
«Quindi, assumendo che ‘l’acqua è H20’ debba essere analizzato
come un enunciato di identità costituito da due espressioni referenziali
(o nomi), risulterà essere solo debolmente necessario. Notiamo che se
‘l’acqua è H20’ viene analizzato come ‘Per ogni x, x è acqua se e solo se
x è H20’, allora le difficoltà scompaiono immediatamente da sole poiché
‘l’acqua è H20’ diventa banalmente vera in tutti i mondi in cui l’acqua
non esiste (nei mondi, cioè, dove nulla è acqua e quindi nulla è H20).
Ciò che è fondamentale, in ogni caso, è che non è in virtù delle leggi della
logica più sole definizioni che ‘l’acqua è H20’ risulta vera in tutti i mondi
logicamente possibili (o, alternativamente, in tutti i mondi nei quali l e
espressioni referenziali non sono vuote) e pertanto non si tratta né di
una necessità logica assoluta né ristretta»24.
In questo senso, diciamo che ‘l’acqua è H20’ è una necessità logica
ampia, in virtù della natura dell’acqua, non in base alle leggi logiche e
alle definizioni o ai concetti di acqua e di H20. Lowe chiama questo tipo
di necessità con l’aggettivo ‘metafisica’ in quanto il suo fondamento è di
carattere ontologico e non formale o concettuale. Ciò può costituire una
ragione per riservare il termine ‘necessità metafisica’ a quel tipo di
necessità logiche ampie che non sono anche necessità logiche assolute o
Pensare la realtà
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ristrette.
«Potremmo legittimamente affermare [...] che è un tratto
caratteristico (anche se non necessario) delle necessità metafisiche il non
essere conoscibili a priori, a differenza con le necessità assolute e
ristrette che sono, invece, tipicamente conoscibili a priori. [...] Definire
‘necessità metafisica’ come sinonimo di ‘necessità logica ampia’ o come
sinonimo di ‘necessità logica ampia che non è né necessità logica
assoluta né ristretta’ è alla fine una questione di gusti. Entrambe le
definizioni andranno bene, se adeguatamente argomentate. Tuttavia, per
questioni di semplicità e per consonanza con altri studiosi, adotterò la
prima opzione. Ma vorrei far notare che benché non abbia problemi ad
ammettere che la necessità metafisica di una proposizione come
‘L’acqua è H20’ (o dello stato di cose che tale proposizione descrive)
non sia conoscibile a priori – dal momento che si basa sulla natura
dell’acqua che non è conoscibile secondo quella modalità – insisto
ancora sul fatto che la sola esperienza non è in grado di determinare
cosa sia attuale in assenza di una delimitazione metafisica del possibile.
Normalmente tale delimitazione fa riferimento alle categorie metafisiche,
che sono completamente conoscibili a priori, a differenza dei generi
naturali come l’acqua»25
TIMOTHY TAMBASSI
1 Ho sviluppato queste riflessioni in T. Tambassi, L’esistenza del reale. Metafisica, sostanza e tempo nella proposta di E.J. Lowe, “Philosophia: E-Journal of Philosophy and Culture”, 6, 2014, http://philosophy-e.com/lesistenza-del-reale-metafisica-sostanza-e-tempo-nella-proposta-di-e-j-lowe/. 2 F. D’Agostini, Recensione: Manuali di metafisica, “2R – Rivista di Recensioni Filosofiche (SWIF)”, 3, 2007, pp. 57-58. 3 E. J. Lowe, The Possibility of Metaphysics: Substance, Identity and Time, Clarendon Press, Oxford 1998, trad. it. La possibilità della metafisica. Sostanza, identità, tempo, Rubbettino, Soveria Mannelli 2009, p. 14. A tal proposito va sottolineato come Lowe individui quattro posizioni anti-metafisiche: il relativismo, lo scientismo, il neo-kantismo e il semanticismo. La prima posizione definisce la metafisica come «un prodotto deteriore della tracotanza intellettuale dell’Occidente, ovvero l’illusoria ricerca di un’inesistente verità ‘oggettiva’ e ‘totale’ effettuata secondo i principi della logica a torto considerati eterni e universali», piuttosto che connessi a una determinata situazione culturale. La seconda sostiene che, anche ammessa l’esistenza di un ambito di speculazione metafi-sica, saranno le scienze empiriche a dirci ciò che si può dire su tale ambito. La terza sostiene invece che la metafisica non può dire nulla sulla realtà oggettiva in se stessa, ma si occupa piuttosto di descrivere alcune proprietà necessarie e fondamentali del nostro pensiero sulla realtà. Infine, la quarta sostiene che le questioni metafisiche pos-sano essere risolte con il solo ricorso alla teoria del significato, cfr. E. J. Lowe, La possi-bilità della metafisica, cit., pp. 14-19. 4 E. J. Lowe, A Survey of Metaphysics, Clarendon Press, Oxford 2002. 5 E. J. Lowe, La possibilità della metafisica, cit., p. 5. 6 Lowe tuttavia è restio a fornire una definizione rigorosa di metafisica, la cui impreci-sione potrebbe comportare «il rischio di privilegiare un’impostazione filosofica a di-scapito di un’altra» E. J. Lowe, La possibilità della metafisica, cit., p. 13. 7 In questo senso, secondo Lowe, è un errore (kantiano) supporre che la metafisica riguardi la struttura dei nostri pensieri sulla realtà, piuttosto che la realtà stessa: «È vero […] che noi possiamo solo parlare razionalmente circa la natura dell’essere, in quanto siamo in grado di pensieri su cosa vi sia o su cosa vi possa essere nel mondo. Ma ciò non significa che dobbiamo sostituire lo studio del nostro pensiero sulle cose allo studio delle cose stesse. I nostri pensieri non costituiscono infatti un velo o una tenda interposti tra noi e le cose alle quali cerchiamo di pensare, e che in qualche modo ce le rende inaccessibili o imperscrutabili. Al contrario, le cose sono accessibili a noi proprio perché siamo in grado di pensarle. E le cose a cui pensiamo non collassano nei
Quaderni della Ginestra
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pensieri che abbiamo di esse» E. J. Lowe, A Survey of Metaphysics, cit., p. 14. 8 E. J. Lowe, La possibilità della metafisica, cit., p. 42. 9 Lowe considera la nozione di verità come primitiva e indefinibile, e così come per altre nozioni è restio a fornirne una definizione esaustiva, pur riconoscendole un ruolo ineliminabile nell’attività intellettuale. La mancanza di una definizione non gli impedisce tuttavia di considerarla come unica e indivisibile (alethic monism) e di opporsi a varie visioni relativiste che considerano la verità stessa come molteplice o relativa a un soggetto conoscente. Per un approfondimento della posizione di Lowe sul concetto di verità si veda: E. J. Lowe, The Four-Category Ontology: A Metaphysical Foundation for Natural Science, Clarendon Press, Oxford 2006, pp. 177-210. 10 E. J. Lowe, A Survey of Metaphysics, cit., p. 3. In questo senso, secondo Lowe, la meta-fisica va intesa come una disciplina autonoma di carattere razionale, e ogni cosa, inclusi lo status e le credenziali della metafisica stessa, è oggetto di indagine metafisica. 11 Dalla metafisica otteniamo inoltre risposte a questioni concernenti le strutture fon-damentali della realtà, questioni più fondamentali di quelle affrontate dalle discipline scientifiche, che si occupano di indagare solo parti specifiche della realtà. 12 E. J. Lowe, A Survey of Metaphysics, cit., pp. 2-3. 13 E. J. Lowe, La possibilità della metafisica, cit., p. 22. 14 Lowe non ritiene però necessario distinguere con precisione assoluta gli argomenti a carattere metafisico e i problemi scientifici altamente teorici: tracciare un confine non è utile e non è richiesto per sostenere «che l’oggetto della metafisica è sufficientemente differenziato da costituire un nucleo tematico di una disciplina relativamente indipen-dente» E. J. Lowe, La possibilità della metafisica, cit., p. 13. 15 E. J. Lowe, A Survey of Metaphysics, cit., pp. 10-11. 16 E. J. Lowe, La possibilità della metafisica, cit., pp. 41-42. 17 In altre parole: «la metafisica fornisce le categorie, ma il modo migliore per applicarle nella costruzione di specifiche teorie scientifiche è una questione che è meglio lasciare agli scienziati stessi, a condizione che rispettino i vincoli che la cornice categoriale impone» E. J. Lowe, The Four-Category Ontology, cit., p. 19. 18 E. J. Lowe, La possibilità della metafisica, cit., p. 124. 19 Cfr. E. J. Lowe, A Survey of Metaphysics, cit., pp. 11-13. 20 E. J. Lowe, La possibilità della metafisica, cit., pp. 26-27. 21 La posizione di Lowe su questo punto è molto vicina alle tesi di Platinga e Forbes, cfr. A. Plantinga, The Nature of Necessity, Clarendon Press, Oxford 1974; G. Forbes, The Metaphysics of Modality, Clarendon Press, Oxford 1985.
22 E. J. Lowe, La possibilità della metafisica, cit., p. 29. 23 Ibidem, cit. pp. 38-39. 24 Ibidem, cit. p. 30. 25 Ibidem, cit. pp. 31-32.
Gli autori
Daniela Bandiera ha conseguito nel 2009 la laurea specialistica in Filosofia presso l’Università degli Studi di Parma ed nel 2013 ha terminato il dottorato di ricerca in Filosofia Teoretica e Pratica presso l’Università degli Studi di Padova, presentando una dissertazione dal titolo Tra corporeità, spazialità e immaginazione: forme dell’empatia in
Husserl. Tra le sue pubblicazioni ricordiamo Il dilemma morale nei Lineamenti di etica formale di Husserl (in Dilemmi morali, a cura di A. Da Re e A. Ponchio, Il Melangolo, Padova 2011) e Vivere è sentire: fenomenologia della sensibilità in due recenti saggi di Vincenzo Costa (in «Archivio di storia della cultura», (25), 2012).
Antonio Freddi, dopo una prima laurea magistrale in Ingegneria, si è laureato con lode in Filosofia presso l’Università degli studi di Parma. Ha successivament e conseguito il Dottorato di ricerca in Filosofia presso l’Università del Piemonte Orientale “A. Avogadro” dove è cultore della materia per Storia della Filosofia Moderna
e Contemporanea. Oltre a collaborare con l’Accademia Cattolica di Brescia a un progetto di ricerca relativo all’intercultural ità, attualmente sta frequentando il master di
secondo livello “International Politics” presso l’Università di Bologna. Alla fine del 2012 ha pubblicato con l’editore Aracne il testo Nietzsche e il prospettivismo: interpretazioni e influenze nella filosofia americana contemporanea; la sua eclettica attività di ricerca in ambito filosofico è testimoniata da vari saggi brevi e articoli su R. Rorty, D.
Davidson, M. Foucault, E. Tugendhat, A. Feenberg, H. Frankfurt, Platone, postmodernismo, individualismo, interculturalismo, democrazia, scetticismo e filosofia dell’arte (per gli editori Limina Mentis e Morcelliana e nelle riviste «Rivista di storia della Filosofia», «Intersezioni», «La società degli individui», «Humanitas», «Exibart»,
«Quaderni della Ginestra» e «Dialegesthai»).
Lucia Mancini è nata a Massa il 21 dicembre 1984. Dopo la laurea special istica in Teorie filosofiche, ha conseguito nel 2009 il diploma per la classe di scienze umane
presso l’Istituto Universitario di Studi Superiori di Pavia. Negli anni universitari ha studiato in particolar modo lo storic ismo tedesco, il marxismo italiano e
l’illuminismo napoletano. Nel 2012 ha terminato il ciclo di dottorato in filosofia presso l’Università degli Studi di Pavia d iscutendo una tesi dal titolo “Per un’introduzione alle tre serie di Appunti di filosofia dei Quaderni del carcere di Antonio Gramsci”. Da due anni lavora come redattrice.
Giacomo Miranda ha compiuto gli studi presso l’Università degli Studi di Parma addottorandosi nel 2012 con una Tesi sul tardo cartesianesimo olandese. Ha
collaborato con la «Società degli Individui» e fa parte del comitato redazionale dei «Quaderni della Ginestra». Autore di curatele, l’ultima in ordine di tempo è l a
traduzione, in collaborazione con Leonardo Allodi, di Dio e il mondo, autobiografia del filosofo tedesco Robert Spaemann.
Timothy Tambassi è Assegnista di Ricerca presso il dipartimento di Studi Umanistici dell ’Università del Piemonte Orientale “Amedeo Avogadro” per il progetto
Geolat – Geografia per la letteratura latina. Ha studiato nelle università di Parma e Verona e svolto attività di studio e ricerca presso la Durham University. I suoi interessi di ricerca comprendono: la metafisica, la filosofia della mente, la filosofia politica e l’ontologia formale e della geografia. Oltre a una serie di saggi pubblicati su
riviste scientifiche nazionali e internazionali, è autore delle monografie Il rompicapo della realtà. Metafisica, ontologia e filosofia della mente in E.J. Lowe (Milano-Udine, 2014) e Relativamente possibile (Gaeta, 2014). Ha curato (con G. Miranda) Percorsi nella soggettività (Parma, 2013).
Cristina Travanini si è laureata all'Università degli Studi di Parma e ha conseguito il dottorato di ricerca presso la Scuola Superiore di Studi in Filosofia, Università di Roma Tor Vergata, con una tesi dal titolo “Oggetto e valore. Prove di parallel ismi tra teoria del valore e teoria dell’oggetto in Alexius Meinong”.
Immagini di:
Matteo Cetterelli
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Andrea Marchese
http://500px.com/andreamarchesepr
Martina Tambassi