Indice
PARTE PRIMA
1899-1945: DAL MIRACOLO INDUSTRIALE DEL PERIODO GIOLITTIANO AL DIRIGISMO CORPORATIVO FASCISTA PREAMBOLO: 1866 - 1898 IL PERIODO DI INCUBAZIONE I . PERIODO: DAL 1899 SINO AL 1914. IL MIRACOLO INDUSTRIALE ITALIANO IN REGIME DI LIBERTÀ DI MERCATO. II. PERIODO: DAL 1915 AL 1924. FRA ECONOMIA MERCATO E DIRIGISMO STATALE . III. PERIODO: DAL 1925 AL 1945. Il DIRIGISMO CORPORATIVO FASCISTA
PARTE SECONDA
1946-2000: DAL MIRACOLO ECONOMICO DEL DOPOGUERRA ALL’ EURO IV. PERIODO: DAL 1945 AL 1962. IL MIRACOLO ECONOMICO IN REGIME DI DEMOCRAZIA E LIBERO MERCATO V. PERIODO: DAL 1963 AL 1972. IL SECONDO MIRACOLO ECONOMICO IN REGIME DI DEMOCRAZIA, MERCATO APERTO E RIFORME VI. PERIODO: DAL 1973 AL 1982. LA DEMOCRAZIA CONSOCIATIVA E L’ECONOMIA DIRIGISTA. INFLAZIONE E DEBITO PUBBLICO VII. PERIODO: DAL 1983 AL 1993. IL RIENTRO NEL SISTEMA DI MERCATO E LE BASI DEL RISANAMENTO FINANZIARIO VIII. PERIODO: DAL 1994 al 2000. IL RISANAMENTO FINANZIARIO E LE OCCASIONI STRUTTURALI MANCATE
PARTE PRIMA
PREAMBOLO: 1866-1898. IL PERIODO DI INCUBAZIONE.
Nel terzo di secolo che va dalla formazione del Regno di Italia nel
1866 al 1898, l’Italia, appena unificata, con istituzioni democratiche,
procede alla costruzione delle sue infrastrutture, alla formazione del
capitale umano, mediante lo sviluppo della pubblica istruzione, alla
formazione di una pubblica amministrazione capace di garantire la
legge e l’ordine in tutto il paese, alla costruzione di un sistema di
entrate e spese pubbliche in grado di garantire, assieme ai servizi
essenziali, la stabilità monetaria e la tutela del risparmio. Si tratta
delle basi necessarie per lo sviluppo economico in regime di
economia di mercato, per il quale è cruciale il passaggio da una
economia prevalentemente agricola ad una con ruolo importante
dell’industria e delle strutture finanziarie e commerciali.
Anno PIL (lire correnti) PIL (miliardi % crescita PIL Popolazione .
PIL pro capite
Di lire 2001) Reale (migliaia) (milioni per abitante.)
1861 7,784 68621 26328 2,61862 8,162 71194 3,7 26507 2,71863 7,528 69623 -2,2 26712 2,61864 7,764 71487 2,7 26915 2,71865 8,039 73711 3,1 27131 2,71866 8,838 77003 4,5 27381 2,81867 8,46 71695 -6,9 27440 2,61868 9,424 73563 2,6 27561 2,71869 9,152 75692 2,9 27801 2,71870 9,057 75334 -0,5 27974 2,71871 9,406 76495 1,5 28151 2,7
1872 10,471 75857 -0,8 28314 2,71873 11,893 78950 4,1 28459 2,81874 11,355 77230 -2,2 28551 2,71875 9,978 80044 3,6 28709 2,81876 10,041 79545 -0,6 28964 2,71877 11,258 80173 0,8 29169 2,71878 10,68 80778 0,8 29334 2,81879 10,484 81145 0,5 29516 2,71880 11,24 84139 3,7 29552 2,81881 10,127 79604 -5,4 29791 2,71882 10,926 83861 5,3 30005 2,81883 10,28 83022 -1,0 30221 2,71884 10,159 83966 1,1 30511 2,81885 10,878 84086 0,1 30776 2,71886 11,322 87172 3,7 30937 2,81887 10,521 86856 -0,4 31160 2,81888 10,426 86539 -0,4 31325 2,81889 10,524 82528 -4,6 31611 2,61890 11,518 88363 7,1 31792 2,81891 12,043 90532 2,5 31992 2,81892 10,821 86390 -4,6 32189 2,71893 10,992 89195 3,2 32417 2,81894 10,621 88458 -0,8 32608 2,71895 11,005 89776 1,5 32770 2,71896 10,999 91136 1,5 32955 2,81897 10,679 87388 -4,1 33200 2,61898 11,996 93693 7,2 33369 2,8
Come si desume dai dati della Tavola 1, in questo terzo di
secolo il Pil italiano è cresciuto del 36%, pari al tasso composto di
poco meno dell’1% annuo. Il Pil per abitante, data la crescita della
popolazione, è rimasto, invece, praticamente invariato, oscillando
attorno ai 2,6-2,8 milioni di lire 2000 all’anno.
Dall’unificazione nazionale sino al 1876, il governo,
dall’ottava alla XIII legislatura fu gestito dalla destra storica, dal
1876 al 1891, prevalse sistematicamente la sinistra storica.
Successivamente tornò al potere la destra. E dall’alba del nuovo
secolo emerse la nuova coalizione liberale moderata giolittiana che
riuscì a gestire il potere sino al 1914 .
VIII LEGISLATURA 1861-1865
IX LEGISLATURA 1865-1867
Rosario Romeo, insigne storico dell’economia italiana, di formazione
liberale, nel suo celebre libro Risorgimento e Capitalismo (1959,
riedito con nuovi sviluppi nel 1963) 1 pone negli anni 1880-1886 la
formazione della base industriale italiana. Nel successivo libro
Breve storia della grande industria in Italia, (1961 e nuova edizione
accresciuta 1963) individua nel periodo dal 1896 al 1914, in gran
parte coincidente con l’età giolittiana, l’epoca della rivoluzione
industriale italiana, che alcuni chiamano anche periodo del “decollo
economico” italiano. Alexander Gerschenkron, (1956) Osservazioni
sul saggio di sviluppo industriale dell’Italia, critica il Romeo, per la
sua tesi sulla formazione della base industriale italiana negli anni ’80
dell’800, perché il decollo è avvenuto solo nel periodo dal 1900 al
1910. Questa tesi è in sé esatta, ma non vale come critica al Romeo,
altra cosa essendo il decollo e altra la formazione della base
industriale. La tesi del Gerschenkron è stata strumentalizzata per
criticare le origini del capitalismo italiano, sostenendo che esso era
viziato da affarismo e che, perciò, nonostante lo sfruttamento dei
lavoratori, l’Italia non riuscì a decollare, quando avrebbe potuto:
negli anni ’80 e il suo sviluppo fu ritardato agli inizi del novecento.
Tale polemica non solo è pretestuosa ma si basa anche su dati errati.
Infatti non è vero che dopo sette anni di sviluppo dallo 1880 al 1887,
1 ROSARIO ROMEO, 1959 Risorgimento e Capitalismo del 1959, Bari,Laterza. IDEM (1961)Breve storia della grande industria in Italia, Bologna, ll Mulino, (nuova edizione accresciuta 1963). GERSCHENKRON, (1956) Osservazioni sul saggio di sviluppo industriale dell’Italia, in Moneta e Credito n. 33-34 . Il Romeo ha ripreso il tema in un dibattito presso la SVIMEZ, nel 1960, pubblicato dalla Rivista Nord e Sud e poi riprodotto in ALBERTO CARACCIOLO,(1963) La formazione dell’Italia industriale, Bari, Laterza con il titolo A.GERSHENKRON e R. ROMEO, Consensi e dissensi, ipotesi:dibattito.
il processo di crescita industriale italiano cessò e si dovettero
attendere altri undici anni, perché si riprendesse. La crescita media
annua degli anni dopo il l887 è simile a quella del settennio 80-87. Se
si potesse sostenere che in tutte le economie, dopo una prima breve
fase di incubazione, vi debba necessariamente essere un processo
sostenuto di crescita capitalistica, della durata di circa un decennio,
allora si potrebbe dire che l’Italia non ebbe, negli anni ‘80 il decollo
che avrebbe dovuto avere. Ma, correttamente, nella formulazione del
Romeo, si distinguono la formazione della base industriale e la
rivoluzione industriale e si analizza la prima, mettendone in luce le
realizzazioni. Tale periodo fu forse più lungo che in altri paesi, che
prima dell’Italia ebbero una rivoluzione industriale. Ma ve ne sono
valide ragioni, che poco hanno a che fare con l’affarismo, che in altre
rivoluzioni industriali fu assai più pronunciato. Certamente il sistema
politico italiano, su base parlamentare non consentiva una continuità
dei governi, per lunghi periodi. Spesso le legislature, come si vede
dalle Tavole di cui sopra, non duravano cinque anni, ma meno. E
questo dava una certa discontinuità alla politica economica, che può
avere influito in modo non favorevole sullo sviluppo dell’economia
italiana. Ma si tratta di fattori secondari. Infatti è importante tenere
presente che la rivoluzione industriale che genera un sistema
capitalistico, capace di crescita, perché operante in economia di
mercato, ha bisogno di basi, che possono costituirsi in poco o tanto
tempo, a seconda delle condizioni di partenza. Il Romeo lo ha
chiarito in un dibattito con il GERSCHENKRON nel 1960,
riprodotto in ALBERTO CARACCIOLO, (1963) La formazione
dell’Italia industriale. Gli storici marxisti tendono a identificare lo
sviluppo capitalistico con il solo processo di accumulazione di
capitali materiali nell’industria. Trascurano gli altri fattori - messi in
luce da storici ed economisti di più ampie vedute - come il capitale
umano, le infrastrutture, lo sviluppo tecnologico, le istituzioni,
essenziali per l’economia di mercato, senza cui lo sviluppo
economico non può durare -. L’accumulazione di capitale industriale
nella Russia sovietica è stata enorme, ma – mancando l’economia di
mercato e i fattori che vi si collegano - l’economia dell’URSS si è
bloccata, si è irrigidita sempre di più ed è poi crollata come un
castello di carte.
L’industrializzazione dell’Italia è partita in ritardo, rispetto alle
grandi nazioni d’Europa, di America e dell’Asia ed ha avuto una fase
di pre - decollo di un ventennio, a differenza che nei maggiori paesi
industriali, con cui oggi ci confrontiamo. Per la Gran Bretagna il
decollo (“take off”)2 dovuto alla “rivoluzione industriale” è stato
individuato3, nel 1783-1802, per la Francia nel 1830-1860, per gli
Stati Uniti nel 1843-1860, per la Germania nel 1850-1873, per il
2Con questo termine, in inglese “take off” il Rostow (1960),The Stages of economic growth, Cambridge ,traduzione italiana , 1962Gli stadi dello sviluppo economico, Torino, Einaudi e altri economisti designano la fase in cui una economia inizia un processo di industrializzazione cumulativo , che la trasforma da prevalentemente agricola in industriale e le consente una tendenza allo aumento permanente del prodotto nazionale pro capite Questi economisti non distinguono la formazione delle basi della rivoluzione industriale con il periodo vero e proprio di decollo: analogamente, per un aereo, si può chiamare decollo la fase in cui esso che inizia quando esso si alza dal suolo e termina quando esso è in volo oppure tutta la fase dal momento in cui entra in pista sino a quando .esso è in volo. 3Dal ROSTOW,(1960),The Stages of economic growth, Cambridge ,traduzione italiana , 1962Gli stadi dello sviluppo economico, Torino, Einaudi
Giappone nel 1879-1900 e per la Russia nel 1890-1914. Si tratta,
rispettivamente di venti anni, di trenta anni, di diciassette anni, di
ventitré anni, di ventiquattro anni.
Per l’Italia il decollo in senso stretto si verificò solo nel
periodo dal 1899 al 1914, chiamato “età giolittiana”, dal nome del
presidente del Consiglio che governò per gran parte di tale periodo
(vedi sotto), con un pre - decollo di circa 20 anni. In totale il decollo
in senso ampio, comprensivo della fase di incubazione, durò 34 anni.
Volendo, però, si può affermare che oramai nel 1906 la nostra
economia era decollata. Allora il decollo in senso ampio fu di
ventotto anni. L’Italia non potè giovarsi delle risorse minerarie che
favorirono lo sviluppo industriale della Gran Bretagna e della
Germania, né della abbondanza di ricca terra agricola, che favorì
quello della Francia o della combinazione fra ricchezza agricola e
mineraria che fu alla base del prodigioso decollo degli Stati Uniti.
Non aveva un mercato di dimensioni paragonabili a quello del
Commonwealth inglese, a quello dell’impero giapponese o agli
imperi centrali della Germania e dell’Austria. Aveva, come ha, una
robusta e rigogliosa pianta di imprenditori, tratti dal ceto medio e
anche dalla classe dei coltivatori diretti e dei piccoli artigiani e
commercianti. Aveva come anche ora ha, una grande capacità di
apprendere e creare innovazioni tecnologiche, grazie anche a buone
scuole medie e a buoni istituti universitari. Aveva come ha lavoratori
tenaci e una elevata propensione al risparmio in tutte le classi sociali.
Queste erano le sue ricchezze, soprattutto di capitale umano, con cui
rimpiazzò la carenza di materie prime, nel difficile periodo post
risorgimentale di costruzione della nuova Italia, le cui fondamenta
erano state gettate con l’unificazione nazionale. Una Italia, quella del
Risorgimento, di impostazione liberale, in politica e in economia.
Per lo sviluppo industriale occorrono non solo le basi
industriali e un adeguato risparmio che affluisce alle imprese
mediante il sistema bancario e la borsa. Occorrono anche buone
infrastrutture, una buona legislazione civile e commerciale, un
ordinamento giudiziario che ne assicura l’applicazione, un buon
apparato di ordine pubblico, servizi pubblici di istruzione, ai vari
livelli, un adeguato sviluppo della rete commerciale domestica e
internazionale, per consentire l’espansione dell’economia di mercato.
Queste condizioni erano in gran parte carenti in Italia, all’atto della
unificazione politica nazionale nel Regno di Italia. Per vari decenni,
i governi italiani succeduti all’unificazione nazionale del 1866
avevano dovuto dedicarsi a fornire al paese le infrastrutture e il
sistema di servizi pubblici di base necessari per porla al livello degli
stati europei evoluti. E il peso delle imposte che erano state per
questo necessarie aveva inciso pesantemente sul risparmio. Ciò
insieme alle manchevolezze del giovane sistema bancario aveva
ostacolato la crescita industriale. Nel periodo 1880-1886, con un
fiorire di iniziative imprenditoriali private, ebbe luogo la formazione
delle basi industriali moderne dell’Italia. Nel 1880 Italia aveva
ancora una economia prevalentemente agricola e la sua terra, salvo
eccezioni, non era molto feconda. L’Italia era scarsissima di materie
prime minerarie: mancava quasi del tutto di ferro e carbone, gli
elementi fondamentali dello sviluppo industriale dell’ottocento. Ma il
prodotto pro capite italiano, grazie all’agricoltura, era arrivato, nel
1880, finalmente a 84.139 miliardi di lire del 2001. Era una buona
premessa per il decollo. A fine secolo, dopo alterne vicende, il nostro
PIL, sempre in lire 2001, era di 94.675 miliardi. In venti anni era
cresciuto solo del 12,7%. Una crescita lentissima, con un tasso del
0,58% . La popolazione era già di 29.552.000 abitanti e nel 1899 era
oramai arrivata a 33.605.000. L’aumento, dunque, nel ventennio, era
stato del 13,3%. Pro capite il PIL era rimasto stazionario sui 2,7-2,8
milioni di lire del 2001. Ma all’interno di questo mutamento lento vi
sono fenomeni industriali molto dinamici: che però non si notano
molto negli indici globali della crescita economica, dato il modesto
peso dell’industria sul prodotto nazionale, la cui parte maggiore era
quella agricola. L’indice di incremento delle sei industrie principali -
mineraria, metallurgica, meccanica, tessile, alimentare e chimica-
difatti crebbe nel periodo 1881-1888 del 4,6% annuo composto 4.
Ma nonostante ciò il prodotto nazionale (PIL), dato lo scarso
successo della produzione agricola e dato l’avverso andamento dei
prezzi dei prodotti industriali aumentò solo di un 6% in 7 anni, con
un tasso di crescita annuo dello 0,75% E, dato l’incremento
demografico, pro capite rimase, sia quasi invariato rispetto al livello
precedente. Nel 1887 il processo di crescita industriale subì una
4 R.S. ECKAUS, (1963). Il divario Nord-Sud nei primi decenni dell’unità, in ALBERTO CARACCIOLO,(1963) La formazione dell’Italia industriale, Bari, Laterza.
grave interruzione a causa della crisi economica, di origine
internazionale, che si prolungò in una crisi del sistema bancario
italiano, con dissesti e difficoltà nelle industrie. Nel 1889, a causa
della interruzione e inversione della crescita industriale, il prodotto
pro capite italiano era sceso a 407 lire: il 10% in meno che dieci anni
prima. La ripresa, però, fu robusta, tanto che il prodotto nazionale
potè aumentare dello 11% in 11 anni, con un incremento medio dello
1% annuo: che sarebbe stato ben maggiore, senza gli anni di crisi.
L’indice della produzione industriale in termini quantitativi realizzò
un aumento medio annuo solo dello 0,3%. I prezzi dei prodotti
industriali però migliorarono, in relazione al miglioramento
qualitativo della produzione. D’altra parte questo indice non cattura
l’andamento delle industrie minori. In complesso non è azzardato
affermare che il prodotto netto dell’industria, in questi undici anni,
realizzo, a prezzi costanti, una crescita un po’ superiore allo 1%
medio annuo. In questo periodo si ebbe un rilevante sviluppo del
commercio e il sistema bancario si ristrutturò. Il miglioramento del
commercio e del credito diedero un importante contributo al
consolidarsi del giovane sistema industriale. Data la crescita della
popolazione di un altro 4% (che sarebbe stata ben maggiore, senza i
flussi emigratori) non si ebbe una crescita del prodotto pro capite
dello 11%, ma solo della metà circa. Nel 1898 però esso era riuscito
ad eguagliare la punta del 1880. Il decennio fra la fine degli anni ‘80
e la fine degli anni ’90, non fu, come qualcuno ama scrivere, un
periodo di stagnazione, ma un periodo prezioso di sviluppo del
sistema di mercato, che doveva dare i suoi frutti nell’epoca
successiva. Si andava realizzando la “commercializzazione”
dell’economia italiana. Il sistema finanziario di mercato – banche,
borse, assicurazioni- si rafforzava, con fasi di crisi , cui seguivano
riorganizzazioni. I traffici si erano sviluppati tramite una nuova
generazione di imprenditori, aperti agli scambi, grazie anche al
continuo miglioramento delle infrastrutture di comunicazione. E
oramai l’edificio del credito si andava arricchendo di banche di
origine tedesca, quali la Banca Commerciale Italiana e al Credito
Italiano, specializzate nello investimento di capitali in grandi
intraprese industriali, nei settori dell’industria pesante, dei trasporti,
dell’energia. Emergevano anche vigorose banche popolari di credito
cooperativo e casse di risparmio. Fra queste assunse grandi
dimensioni la Cassa di Risparmio delle province lombarde. Ciò
faceva affluire credito all’agricoltura per la sua modernizzazione e
all’artigianato, la piccola industria, il commercio per il pullulare di
nuove iniziative di produzione di beni e servizi. Verso la fine del
secolo, era anche iniziato lo sfruttamento dell’energia idroelettrica:
con cui l’Italia , in particolare quella del Nord, rimediava alla carenza
di carbone, quale forza motrice e fonte di calore, nei processi
industriali: non a caso , la forza idro-elettrica , abbondante soprattutto
nell’arco alpino, fu chiamata “carbone bianco”. Il periodo di
incubazione, del predecollo, della nostra economia industriale
capitalistica, dunque, durò venti anni, fra il 1880 e il 1899. In questo
anno, quello dell’esposizione universale di Torino, che si qualificava,
con Milano, come capitale industriale di Italia, era oramai
completato. Dal 1898-89 prese lo spicco un vigoroso ciclo di
crescita della nostra industria, che, per la sua intensità e i suoi
risultati, si caratterizza come la fase della “ rivoluzione industriale”
italiana. Politicamente, questa epoca viene anche ricordata come
l’età giolittiana, perché la scena politica fu dominata dai governi
liberali moderati e riformisti di Giovanni Giolitti, che furono al
potere quasi ininterrottamente (vedi sotto). Giustamente si ricordano
questi anni, come anni aurei dell’economia italiana, in cui la lira
arrivò a fare aggio sull’oro: cioè a avere un prezzo di mercato
superiore a quello ufficiale di parità, con l’oro, a cui era agganciata.
Ma non va dimenticato lo sforzo che l’Italia aveva sostenuto, nel
ventennio precedente, per darsi un sistema di infrastrutture idoneo
alle esigenze del mercato nazionale e dell’apertura al commercio
internazionale. Le cifre di questo sforzo vanno ricordate, perché
illustrano il compito a cui seppero adempiere i governi e i cittadini
dell’epoca, in regime di libertà, per dare alla giovane nazione un
destino non troppo distante da quello dei grandi paesi industriali, che
le erano vicini e che erano dotati di molti maggiori mezzi. Nel 1871
la rete ferroviaria nazionale era di 6.700 km., nel 1881 era cresciuta a
9.500 km. E nel 1893 era pervenuta a 15.000. Nel 1901 era di
16.500. Attualmente le Ferrovie statali hanno una rete di 16 mila km
e quelle minori ne contano circa altri 3 mila Dunque nel ventennio
dal 1880 alla fine degli anni ‘90 la nostra rete ferroviaria era quasi
raddoppiata ed aveva oramai una dimensione paragonabile a quella
attuale: notevole, anche se non del tutto soddisfacente, perché carente
nelle tratte da ovest a est, ostacolate, nel centro sud, dalle difficoltà
naturali dell’arco appenninico. Nel 1871 il naviglio mercantile a
propulsione meccanica era solo di 3.600 tonnellate, su un milione
circa di tonnellate, prevalentemente a vela. Dieci anni dopo le navi a
motore raggiunsero le 9.500 tonnellate. Nel 1893 arrivarono a 26
mila tonnate e all’alba del nuovo secolo erano oramai 40 mila
tonnellate, sul milione di tonnellate di naviglio mercantile , che anche
allora, predominava nei porti italiani. Questi porti nel frattempo
erano molto cresciuti di importanza e avevano nuove infrastrutture ,
adeguate al traffico più intenso consentito dalle navi meccaniche,
molto più veloci di quelle a vela. Nei primi decenni dopo la creazione
del Regno di Italia, era anche stato compiuto nel settore un grande
sforzo della rete dei servizi postali. L’effetto positivo, per le
comunicazioni d’affari e amministrative, lo si può misurare
considerando i telegrammi spediti. Questi nel 1871 erano ancora
solo 2,6 milioni. Nel 1881 , più che raddoppiati, erano saliti a 6
milioni, passando a 8,4 milioni nel 1893. Sfioravano i 10 milioni
all’inizio del nuovo secolo.
PRIMO PERIODO
DAL 1899 SINO AL 1914. IL MIRACOLO INDUSTRIALE ITALIANO IN REGIME DI
LIBERTÀ DI MERCATO.
Il termine “miracolo industriale” è certamente appropriato per il
periodo 1899 –1914 anche se ciò che accadde allora, per il tasso di
crescita del prodotto lordo globale, non è così sensazionale come il
processo di crescita che l’Italia ha avuto dal 1947 al 1960.
Anno PIL (lire correnti) PIL (miliardi % crescita PIL Pop.Pop. (migliaia)
PIL pro capite
di lire 2001) Reale (migliaia) (miliardi per mille ab.)
1899
12,004 94675 1,0 33605 2,8
1900 12,775 99340 4,9 33739 2,91901 13,03 104923 5,6 34015 3,11902 12,457 102774 -2,0 34316 3,01903 13,627 107809 4,9 34555 3,11904 13,47 107644 -0,2 34875 3,11905 13,935 110949 3,1 35147 3,21906 14,812 112626 1,5 35446 3,21907 16,823 124799 10,8 35742 3,51908 16,12 121203 -2,9 36055 3,41909 17,588 129309 6,7 36370 3,61910 17,328 120864 -6,5 36774 3,31911 19,186 130446 7,9 37059 3,51912 20,041 132507 1,6 37241 3,61913 20,827 136831 3,3 37255 3,71914 20,251 134414 -1,8 37797 3,6
Rispetto al PIL del 1898, il PIL del 1914, secondo i dati Istat che
autorevoli studiosi oramai considerano sotto stimati, risultava
cresciuto del 43.5% in 16 anni, con un tasso di crescita medio annuo
del 2,4% circa. Questa crescita fu dovuta essenzialmente a quella
della produzione industriale. Il prodotto nazionale lordo dal 1899 al
1915 , sotto la spinta dello sviluppo industriale, aumentò da 94.675
miliardi di lire 2001 a 138.675. La popolazione aumentò da 33.605
milioni di abitanti a 38.166.000 del 13,5% soltanto, nonostante la
rilevante crescita demografica perché vi fu vi è un grande flusso di
emigrazione alle campagne. Il prodotto pro capite pertanto aumentò
da 2,8 milioni di lire 2001 a 3,6 con un incremento del 28% in sedici
anni, pari al 1,6% annuo : appariva già molto allora, al confronto
con la lenta crescita del periodo precedente e non si presentava
male nel paragone con i dati internazionali.
IL QUADRO POLITICO E DI POLITICA ECONOMICA
All’inizio di questo periodo si va esaurendo il potere parlamentare
della sinistra ministeriale. Come si è potuto già osservare, dalle
Tavole riguardanti le legislature di fine secolo le elezioni per la XX
legislatura del 21 marzo del 1897 avevano visto una affermazione di
misura della sinistra che aveva ottenuto il 40,55% dei seggi ( 206
deputati su 508 ) con un gruppo composto di sinistra storica+ centro
sinistra + ministeriali, contro il 37,80°% dei seggi della destra ( 192
deputati su 508), anche essa costituita da un gruppone composito
formato da deputati della destra storica+
centro+cattolici+ministeriali.
In sostanza dopo le disastrose vicende dei governi Crispi in
Africa, la forza politica dei liberali di sinistra autori di politiche
confuse , si andava riducendo, mentre cresceva quello dei liberali
conservatori e di centro. L’estrema , che aveva solo il 5,71% dei
seggi (29 deputati) era composta da radicali, repubblicani e un
manipolo di socialisti fra cui Filippo Turati, Enrico Ferri, Luigi De
Andresi, mentre vi era anche un vasto gruppo di “indefiniti” (ben 81
deputati) che arrivava al 15,94% dei seggi e quindi rendeva possibili,
con il proprio voto, sia governi della sinistra, che governi della
destra. Ed in effetti, l’asse politico si spostò verso destra , per altro
con frequenti crisi di governo.
Questo frazionamento delle posizioni politiche e l’esistenza di
un vasto gruppo con una posizione indefinita era dovuto al fatto
che il sistema elettorale era basato sul sistema dei collegi uninominali
(viene eletto chi, in quel collegio elettorale, ha più voti o al primo
turno o al ballottaggio con fra il primo e il secondo, se nessuno al
primo turno ha superato il 50%). Inoltre, l’elettorato era ristretto,
essendo esclusi non solo le persone con meno di 21 anni, ma anche
tutte le donne e coloro che non sapessero leggere e scrivere e le
persone al di sotto di un certo censo. Quindi spesso gli elettori, che
avevano un rapporto diretto con i candidati, badavano di più alla
persona che al programma. All’inizio della legislatura conservò il
potere il III governo di destra presieduto dal marchese Di Rudinì,
che era sostenuto anche dalla sinistra di Zanardelli e Giolitti e che
aveva, al Tesoro, Luigi Luzzatti. Esso durò sino al dicembre del
1897. Seguì, con un rimpasto, che diede luogo al IV governo Di
Rudinì che durò sino al 1 giugno del 1898 , con lo stesso Ministro
del Tesoro. E infine un V Di Rudinì, con la stessa compagine che
durò solo sino al 26 giugno. Di Rudinì. con il Ministro delle
Finanze Branca e con Luzzatti al Tesoro aveva attuato il pareggio
del bilancio, grazie a una severa politica della spesa (la celebre
“politica della lesina”, inaugurata già dal I governo Di Rudini’ del
1891-92, con Liuzzatti al Tesoro) e all’aumento delle imposte sui
consumi . Ma nel maggio del 1898, scoppiarono scioperi e moti
popolari di protesta contro l’aumento del prezzo del grano (gravato
da un alto dazio) e del pane (colpito dal dazio sulle farine) .
Proclamato a Milano e in altri centri, lo stato d’assedio , il generale
Bava Beccaris comandante della Piazza di Milano attuò azioni
repressive cruente che secondo le stesse cifre ufficiali provocarono il
7 maggio a Milano 80 morti (altre fonti giunsero a stimarli in 3oo
circa) . La sinistra di Zanardelli e Giolitti ritirò il suo appoggio al
governo. Di Rudinì riuscì’ a metterne insieme un altro, fotocopia del
precedente, ma non riuscì a trovare appoggi adeguati in parlamento.
Caduto il V governo del marchese Di Rudinì, il Re diede l’incarico
al generale Pelloux, che formò il 29 giugno 1898 un governo
appoggiato dalla sinistra di Zanardelli e Giolitti, finalizzato
ambiguamente al ritorno alla legalità costituzionale. Ma nel febbraio
1899 Pelloux presentava un disegno di legge sull’ordine pubblico
(già presentato senza esito dal di Rudinì) che vietava lo sciopero di
ferrovieri , postelegrafonici e addetti all’illuminazione pubblica (che
generalmente avveniva con lampade a gas) , vieta di portare insegne
ed emblemi sediziosi, stabilisce ampie facoltà delle autorità di
pubblica sicurezza con riguardo al divieto e allo scioglimento di
riunioni e assembramenti e pone sanzioni penali a carico di redattori
oltreché direttori responsabili per reati di stampa. Il disegno di
legge, sostenuto anche da Zanardelli e Giolitti, dovrà essere
approvato in tre letture . La prima lettura riceve l’approvazione con
310 voti e solo 93 contrari, quasi solo di repubblicani, radicali e
socialisti . Effettuato un rimpasto Pelloux , cerca di far passare in
parlamento il suo disegno di legge sull’ordine pubblico. seconda
lettura . Ma l’estrema sinistra inizia l’ostruzionismo parlamentare,
con Enrico Ferri che fa discorsi interminabili, sorretto da colleghi
repubblicani, radicali e socialisti. Alle amministrative la coalizione
di repubblicani, socialisti, radicali ottiene la maggioranza del
comune di Milano e notevoli affermazioni a Torino, Firenze,
Alessandria, Parma, Pavia. Giolitti e Zanardelli si rendono conto che
il provvedimento è impopolare , che occorre adottare una nuova linea
di attenzione ai movimenti di sinistra per coinvolgerli in una linea di
governo basata sulle riforme nel rispetto dei principi liberali e
ritirano il loro appoggio al progetto. Pelloux lo trasforma in decreto
legge, ma gli manca la maggioranza per convertirlo in legge. Al
termine della legislatura , nel giugno 1900 la sua coalizione si
dissolve .
XXI LEGISLATURA 1900-1904
Nelle votazioni per la XXI legislatura, che ebbero luogo il 16
giugno del 1900, gli aventi diritto al voto erano solo il 6,9% della
popolazione , cioè 2,2 milioni di abitanti ti su una popolazione che
era ormai di 32 milioni e mezzo. Il suffragio elettorale invero era a
base ristretta, escludeva oltre alle donne e ai minori di età, tutti
coloro che non sapessero leggere e scrivere. Votò , al solito, solo il
58% degli elettori. E sotto l’impressione dei morti del 1898 e dei
tentativi di restrizione alle libertà democratiche che si erano verificati
con il governo del generale Pelloux, la coalizione della sinistra a
guida liberale moderata, che si presentava come sinistra ministeriale
recuperò parecchi seggi , ottenendone 296, pari al 58.27%. La destra
+l’opposizione costituzionale, costituita in sostanza dai liberali di
destra, si fermò a 116 seggi pari al 22,83% mentre si rafforzavano i
repubblicani e i radicali, che assieme otteneva 63 seggi, pari al
12,3%. I radicali per altro avevano più seggi dei repubblicani: il
6,69% contro il 5,71%. Ma la grande novità era costituita
dall’ingresso in forze in parlamento dei socialisti, con un gruppo di
ben 29 deputati, pari al 6,5% : non era un numero o una quota molto
elevata, ma aggiunto al 12% dei repubblicani e liberali si trattava di
una potenziale coalizione che sfiorava il 20% dei seggi. E poi questi
29 deputati socialisti erano collegati al sindacato dei lavoratori, Le
diversità ideologiche e i dissidi che esistevano al suo interno, però ne
minavano già allora la capacità di svolgere una azione politica
coerente. Vi erano, invero, varie correnti, non facili da comporre ad
unità.. Quella capeggiata da Filippo Turati eletto a Milano riteneva
che l’unica via praticabile fosse quella di cercare alleanze con la
borghesia più dinamica e progressista, al fine di realizzare, con
gradualismo, riforme sociali che avrebbe giovato ai lavoratori e ne
avrebbero a accresciuto via via il peso politico, contribuendo così
all’evoluzione della società verso forme di socialismo , per la verità
individuate in modo molto nebuloso, nei tempi e nel contenuto.
Questa linea conteneva un elemento di ambiguità, riguardo agli
obbiettivi perché mentre si richiamava a obbiettivi di socialismo,
nello stesso tempo si ricollegava alla dottrina revisionista di
Bernstein, per cui il capitalismo , a differenza di quanto previsto da
Marx non sarebbe crollato. E quindi, la linea riformista lo avrebbe
migliorato, ma –secondo la tesi dei socialisti rivoluzionari, avversari
di Turati- lo avrebbe, in definitiva, rafforzato. Questi avversari dei
riformismi, a loro volta , erano divisi in vari indirizzi ideologici, che
si riflettevano anche sulla linea da tenere verso i vari governi .
Costantino Lazzari, il personaggio più influente del partito, che nel
1901 mise Turati in minoranza, fedele alla intransigente linea
operaista milanese, sosteneva un programma massimalista, che
comportava l’opposizione parlamentare. Arturo Labriola, fautore del
sindacalismo rivoluzionario, oltre alla opposizione parlamentare,
propugnava forme spinte di agitazione sindacale, non condivise per
altro dal sindacato dei lavoratori; dal canto suo Enrico Ferri, celebre
penalista e grande oratore, sosteneva le alleanze caso per caso, a
seconda dei governi e, nello stesso tempo, la prospettiva finale
rivoluzionaria. Il primo governo successivo alle elezioni, fu un
governo istituzionale di attesa guidato dal presidente del Senato,
Giuseppe Saracco , esponente piemontese della destra storica. Ma il
29 luglio il Re Umberto I viene ucciso a Monza da un anarchico ,
Gaetano Bresci con la esplicita motivazione di vendicare i morti del
1898 . Il nuovo re , Vittorio Emanule e III , dopo un lungo periodo di
riflessione , si decise a una netta svolta, per altro suggerita dalla
situazione politica e diede l’incarico di formare il governo al leader
dei liberali di sinistra ovvero liberal -democratici , il giurista
democratico Giuseppe Zanardelli, che si insediò solo 1l 15 febbraio
1901 , ma durò sino al 3 novembre 1903. In realtà si trattava del
governo Zanardelli- Giolitti , perché il Ministero degli Interni,
posizione cruciale, in quella situazione, fu affidato a Giovanni
Giolitti, che era l’esponente dell’ala moderata dei liberal-
democratici. Giolitti si apprestava a divenire il protagonista della
politica italiana, di indirizzo liberale moderatamente riformista in
politica e in economia , per tutto il periodo sino alla svolta delle
elezioni a suffragio universale della seconda metà del 1913. Dal
novembre 1903 al 28 marzo 1905 , in effetti, alla presidenza del
governo va Giovanni Giolitti, che tiene anche il Ministero degli
Interni e si avvale, prima al Ministero delle finanze, poi al Tesoro
del liberale riformista della destra storica Luigi Luzzatti, risanatore
dei bilanci statali, ma anche promotore delle banche di credito
popolare e del movimento cooperativo, come risposta alle formule
dello statalismo e del collettivismo marxista.
XII LEGISLATURA 1904-1909
Il 24 novembre del 1904 si svolsero le elezioni per la XII legislatura ,
in cui avevano diritto di voto 2,5 milioni di elettori pari al 7,5%
della popolazione . Si realizzò in grande rimescolamento di carte,
poiché emerse una coalizione di conservatori e democratici
ministeriali, in sostanza la grande maggioranza dei liberali che
conquistò il 66,73% dei seggi, con ben 339 deputati. Rimanevano
tagliati fuori dal potere di governo sia la destra con l’opposizione
costituzionale cioè l’ala della destra liberale che aveva ottenuto
solo 76 seggi pari al 14,96% sia l’ala della sinistra intransigente dei
radicali e i repubblicani che erano rimasti al 12% con 61 seggi . Ma i
radicali avevano recuperato parte dei voti persi nelle precedenti
tornate elettorali ottenendo il 7,28% dei seggi. Dal canto loro i
repubblicani, politicamente isolati, avevano ottenuto solo il 4,72%
dei seggi. Erano politicamente isolati anche i cattolici autonomi, che
non facevano parte del gruppone dei conservatori e democratici
ministeriali, ed avevano solo 3 seggi. Quanto ai socialisti che
avevano mantenuto i loro 29 seggi , pari al 5,71% essi si
preparavano a tenere un atteggiamento di benevola neutralità, nei
riguardi del governo, in cambio di concessioni di riforme, anche
modeste, che avvantaggiassero la classe lavoratrice , denominata
nella terminologia allora corrente “il proletariato” ad indicare che la
sua unica ricchezza era la prole, che poteva lavorare, contribuendo
con i suoi magri compensi, al reddito familiare. Potrebbe sembrare
illogico che, con una maggioranza parlamentare di due terzi la
coalizione conservatori e democratici ministeriali, il governo avesse
interesse all’astensione del drappello dei socialisti , per far passare le
sue delibere. Ma la coalizione di governo non era per nulla compatta
e a chi la guidava faceva comodo di potere disporre di un nucleo di
voti esterni , che potessero venirgli in soccorso , anche come
deterrente, ove necessario.
All’inizio di questa legislatura , Giolitti non guida il governo.
Preferisce lasciare che sia Presidente del consiglio un autorevole
politico del suoi gruppo, già garibaldino ma ora costituzionale e , in
economia , di indirizzo liberale moderato come Giolitti. Nei dieci
mesi dal 28 marzo 1905 all’8 febbraio 1906 il governo guidato da
Alessandro Fortis adempie al compito di portare a termine la
nazionalizzazione delle ferrovie, che Giolittti aveva impostato e
portato quasi a termine . Venivano passati allo stato, mediante
indennizzo, le reti e i materiali dei tre gruppi privati che , sono ad
allora, le gestivano, con una situazione che appariva, al gruppo
giolittiano , insoddisfacente, sia perché non vi era, in tal modo, una
rete nazionale , indispensabile come infrastruttura per l’unificazione
del mercato nazionale e per la coesione del paese, sia perché il
legame fra ferrovie e banche prosciugava risorse finanziarie che ,
secondo l’impostazione giolittiana, era desiderabile lasciare
maggiormente a disposizione dello sviluppo dell’industria
manifatturiera. Gli investimenti ferroviari, sarebbero entrati a far
parte della politica dei lavori pubblici, che era uno dei cardini della
politica giolittiana. Per altro, Fortis pagò un prezzo di riscatto per le
Strade Ferrate Meridionali (gruppo SME) che parve eccessivo. Fu
costretto a dimettersi, difeso da Giolittti , formò un secondo governo,
che durò solo un mese e nel febbraio 1906, perse la fiducia, sotto i
colpi dell’opposizione di destra, capeggiata da Sidney Sonnino e
anche di quella di sinistra guidata dai socialisti. Questi , che in
passato erano stati alleati di Giolittti, nei loro interventi polemici
ravvisarono in lui il vero responsabile degli errori e dell’inazione di
Fortis. Giolitti, allora, depositò agli atti del parlamento una memoria
a “difesa della propria attività ministeriale “ che è molto interessante
, in quanto sintetizza le realizzazioni riformiste che egli aveva
realizzato, nei suoi governi .” Ricordò che i suoi governi avevano
favorito le organizzazioni operaie, impostato e risolto la questione
ferroviaria, abolito il dazio sulle farine, municipalizzato i servizi
pubblici, promosso la riforma carceraria, obbligato i proprietari a
provvedere case igieniche per i contadini e prescritto ai comuni la
distribuzione gratuita di medicinali ai malati poveri, aumentato gli
stipendi agli insegnanti elementari e preso i primi provvedimenti per
gli sviluppi delle regioni meridionali”5 . Il governo, come era
inevitabile, passò alla destra liberale , guidata dal suo rivale Sidney
Sonnino. Ma questi durò al potere solo cento giorni dall’8 febbraio
al 29 maggio, nonostante si fosse cautelato sulla destra dando il
Tesoro a Luigi Luzzatti e sulla sinistra dando l’Agricoltura, industria
e commercio al radicale Edoardo Pantano e si fosse assicurata la
benevola astensione che i socialisti avevano, in precedenza, dato a
Giolitti. E che per altro non dipendeva più dall’atteggiamento
dell’ala riformista, ma da quello dei leaders massimalisti come
Enrico Ferri, che preferivano l qualcuno più a destra di Giolitti, a
favore una linea contraria ai compromessi giolittiani. Nel
programma liberale di Sonnino, in cui campeggiava il principio della
moralizzazione della vita pubblica , vi era in effetti lo
smembramento del latifondo del Mezzogiorno, per dare vita alla
piccola proprietà contadina. Ma il programma non poté essere attuato
Sonnino, il moralizzatore, cadde sugli indennizzi per le ferrovie
espropriate: la proposta di Sonnino parve eccessiva non solo
all’opposizione, ma anche a due deputati della sua maggioranza che
votarono contro . E Sonnino, convinto di non poter controllare il 5 Cito da Sergio Romano, 1989 ,Giolitti. Lo stile del potere.Milano, Bompiani
parlamento si dimise. Il nuovo governo di Giolitti, durò dal 9
maggio 1906 allo 11 dicembre 1909.
E guidò l’Italia in uno dei periodi migliori del suo sviluppo
economico ed industriale, in cui un ruolo di primo piano ebbero la
solidità delle finanze pubbliche con il bilancio ordinario in pareggio
o in avanzo e la politica di sviluppo delle ferrovie.6 Per altro nel
1907 ha luogo una contrazione economica internazionale, con
caduta dei valori di borsa, che si propaga anche in Italia e genera la
crisi di una grossa banca , la Società Bancaria Italiana , la terza per
importanza in Italia , per le partecipazioni in imprese industriali,
dopo la Banca Commerciale e il Credito Italiana . Giolitti fa
intervenire, in salvataggio della SBI, un consorzio di banche guidato
dalla Banca di Italia affiancata da Commerciale e Credito Italiano:
il salvataggio si realizza con denaro liquido della Banca di Italia, reso
disponibile mediante modifica del limite massimo alla emissione di
banconote da parte della Banca stessa. E’ il primo salvataggio del
circuito banca-industria realizzato in Italia. Esso verrà parzialmente
copiato nella crisi degli anni 30 con la differenza che allora saranno
statizzate le imprese industriali, finanziate con i soldi della Banca di
Italia tramite il consorzio di salvataggio . Invece, in regime
giolittiano l’intervento non sfociò in acquisizione allo stato delle
industrie, finanziate dalla SBI, ma terminò con la rimessa di questa in
condizioni di solvibilità. In questa legislatura Giolitti realizza un
6 Cfr. Guido Pescosolido (s.d.) Lo sviluppo industriale, in Il Parlamento Italiano. Storia parlamentare e politica dell’Italia 1861-1988, vol. 7° 1902-1908, p.82.
altro importante intervento : la creazione dell’Azienda di stato dei
servizi telefonici, per le linee di grande comunicazione sul territorio
nazionale, che viene attuata rilevando singole imprese private.
XXIII LEGISLATURA 1909-1913
Nelle votazioni per la XXIII legislatura del 7 marzo 1909 , sempre a
suffragio ristretto, gli elettori erano saliti allo 8,3% della
popolazione, essendo aumentati coloro che avessero conseguito la
maggiore età e avessero il requisito di saper leggere e scrivere .
Oramai non si riuscivano più a distinguere fra di loro i vari
raggruppamenti liberali, che si presentavano come costituzionali
ministeriali, costituzionali d’opposizione e come indipendenti: a loro
andò il 75,20% dei seggi, con ben 382 onorevoli. Repubblicani e
radicali erano saliti a 69 seggi, con oltre il 13,5% dei voti, ma se si
va a guardare più in dettaglio la situazione di questi partiti , si nota
che i radicali sono saliti allo 8,86% mentre i repubblicani sono
rimasti al 4,72% dei seggi, della precedente legislatura. Dal canto
loro i socialisti, la cui politica evidentemente era ritenuta producente
dagli ambienti vicini al “proletariato” erano saliti allo 8, 07% con 41
deputati. Anche i cattolici autonomi , finalmente, si affermavano,
ottenendo 16 deputati, pari al 3,15%. Erano le premesse del partito
popolare, che sarebbe dopo poco tempo, decollato, verso dimensioni
di grande rilievo .
Il frazionamento politico dei liberali non impedisce però a
Giolitti di controllare sostanzialmente la situazione politica. Il suo
governo però durò, nella nuova legislatura solo sino al dicembre
1909 . Giolitti di dimise perché non riusciva ad avere una
maggioranza sulla questione del rinnovo delle convenzioni
marittime: le linee di navigazione marittima, allora molto importanti,
erano dominate dalla Società Italiana di Navigazione, che aveva un
quasi monopolio. Giolitti aveva cercato invano di contrapporre a tale
Società un altro gruppo, il Lloyd Italiano diretto da Erasmo Piaggio,
per gestire tutte le linee sovvenzionate dallo stato, con una
convenzione di 25 anni di durata. Al suo governo, successe un
governo liberale di destra, presieduto da Sidney Sonnino, che dura
solo sino al marzo del 1910, non riuscendo a scigliere il nodo delle
linee di navigazione. Gli succedette dall’aprile del 1910 al marzo
1911, un governo (relativamente) più lungo presieduto dal liberale di
destra Luigi Luzzatti, sostenuto da Giolitti, con cui egli già aveva
strettamente collaborato. Al Ministero delle finanze vi è
l’onorevole cuneese Luigi Facta, fedelissino di Giolitti e al Tesoro il
liberale Francesco Tedesco, già alto funzionario finanziario delle
ferrovie, anche egli giolittiano. Luzzatti riuscì a concludere
l’operazione di rinnovo delle convenzioni secondo le linee
progettate da Giolitti, affidando le linee sovvenzionate alla Società
Nazionale dei Servizi Marittimi , con una convenzione di minor
durata, apparentemente transitoria. Nel frattempo, attuava la prima
legge per la bonifica integrale idraulico forestale, riguardante in
particolare bacini montani. Le leggi fasciste sulla bonifica integrale
si rifaranno a questo precedente . 7 Dal marzo 1911 sino al marzo del
1914 Giolitti tornò ininterrottamente alla presidenza del consiglio:
in triennio, era , all’epoca una durata record per un governo. E alle
Finanze vi è ancora Luigi Facta, mentre al Tesoro permane
Francesco Tedesco.
In questo periodo egli propugna due grandi riforme: la legge
sul suffragio universale che era stata vigorosamente proposta dal
Luzzatti da cui non si voleva far scavalcare e il monopolio statale
delle assicurazioni sulla vita, che doveva dare allo stato i mezzi
finanziari per costruire un solido sistema di assicurazioni sociali per
i lavoratori, basato sulla Cassa per la vecchiaia e invalidità dei
lavoratori, la futura INPS. Riuscì a attuare la prima riforma, non la
seconda. E paradossalmente fu proprio l’introduzione del suffragio
universale, che egli aveva in precedenza avversato , ritenendolo
prematuro in relazione al diffuso analfabetismo delle masse (agli
inizi del secolo ancora quasi il 40% delle coppie, al matrimonio
dichiarava di non saper leggere scrivere 8) , che generò il declino del
7 L:uigi Luzzatti , veneziano, fautore di queste bonifiche si rifaceva certamente alla tradizione delle grandiose bonifiche intraprese dalla Repubblica veneta, dal quattrocento in poi. Cfr. su ciò F.- Forte Le Ville Venete , in 8 Cfr. Romano, 1989, p. 215
suo potere e di quello dei liberali, che avevano sino ad allora
governato l’Italia.
Ma Giolitti aveva ragione di collegare queste due riforme al
grande progresso che dall’inizio del secolo l’Italia aveva realizzato
nel campo economico e sociale. Abbiamo visto che la crescita del
PIL fu , secondo l’Istat, come si è visto, in questo periodo attorno al
45% Come è stato scritto “ I progressi più eclatanti furono
comunque quelli dell’industria , che riuscì ad erodere sensibilmente
la posizione detenuta dall’agricoltura nella formazione del prodotto
interno lordo. Mentre la quota di quest’ultima , fra il 1896 e il 1913,
quella dell’industria crebbe dal 19, 4% al 24,7% . Tutti gli indici
della produzione industriale di questo periodo segnalano un saggio
di espansione nettamente più alto che in passato e nettamente più
elevato di quello sia delle attività primarie che delle terziarie.
Secondo l’Istat che fornisce la valutazione più prudente , il saggio
medio annuo di sviluppo dell’industria manifatturiera sarebbe stato
del 4% nel periodo 1896-1913 mentre nel 1896-1908 esso sarebbe
stato del 5,2% seguito da un più contenuto 1,4% nel periodo 1908-
1913 . Degli altri indici della produzione , il più noto, oltre a quello
di Silvio Golzio, è certamente quello di Alexander Gerschenkron, che
segnala incrementi rispettivamente del 6,7% per gli anni 1896-1908
e 2,4% per gli anni 1908-1913. L’indice più recente, quello di
Fenoaltea, presenta valori ancora più alti:6,2% per il 1896-1913 e, in
particolare, 7,9% per il 1896-1908 e 2,3% per il 1908 –1913 . E
sicuramente i valori di Gerschenkron e di Fenoaltea sono da ritenere
più attendibili se si tiene conto delle altre indicazioni disponibili,
prima fra tutte quella degli scambi commerciali con l’estero ,
secondo cui già nel periodo 1894-1897 , quando le attività industriali
cominciano nuovamente ad espandersi , dopo la crisi del 1888-92, a
fronte di una flessione di semilavorati, si assiste a un cospicuo
incremento di quella di generi alimentari e materie grezze e
soprattutto di prodotti finiti dell’industria, che rispetto alla media del
triennio 1888-1890 aumentano rispettivamente del 21%, del 17% e
del 63%, in misura cioè nettamente superiore a quella delle
corrispondenti importazioni , fra le quali non a caso si segnala il
15% di aumento delle materie prime per le industrie (Romeo).
L’analisi die ami più importanti conferma la rilevanza quantitativa e
qualitativa dei fenomeni di crescita. Sensibili variazioni a favore
delle imprese industriali in genere e dei settori più moderni in
particolare si registrarono nella composizione del capitale azionario
complessivo e della popolazione attiva . Nel primo caso si riscontra
che nel 1913 le società varie, comprensive di quelle propriamente
industriali, rappresentavano oramai il 66,5% del capitale azionario,
contro il 13,2% elle banche e il 20,3% dei trasporti , mentre nel
1872 tali percentuali erano rispettivamente del 25,5% , del 57% e del
15.7% . Nel secondo si può rilevare che tra il 1903 e il 1911 aumentò
la percentuale sul totale degli addetti della metallurgia (dal 2,8 al
6,2%), alla meccanica ( dall’8, all’11,2%), all’abbigliamento, cuoio e
pelli (dal 5,1% al 12,5%), a fronte di una flessione dei più
tradizionali settori alimentare (dal 14,4 al 13,2%) e tessile (dal 32,1
al 21,5%)(Romeo).Queste cifre alludono inequivocabilmente alla
superiore dinamica delle industrie produttrici di beni di investimento:
in particolare l’elettrica, la siderurgica, la meccanica, la chimica le
quali si trovarono a fronteggiare la crescente domanda interna di
macchinari, attrezzature e beni di consumo durevoli , utilizzando una
serie assai ampia di innovazioni tecnologiche nel campo della
produzione e della applicazione dell’elettricità ai processi produttivi
(elettromeccanica, elettrochimica) , in quello dei trasporti (motore a
combustione interna ), in quello chimico”9
Sarebbe errato ravvisare le cause di questo grande processo
di sviluppo e modernizzazione dell’economia italiana solo nella
sostanziale stabilità politica di questo periodo e alla politica
economica “giolittiana” . Le basi di questo sviluppo, nella politica
pubblica come si è visto, erano state gettate nel periodo precedente,
con tappe faticose di costruzione dello stato unitario, delle sue
infrastrutture, di acquisizione della stabilità monetaria e del pareggio
del bilancio, di sviluppo dell’istruzione pubblica ai vari livelli, di
tutela della libertà del mercato e di adozione di misure
protezionistiche, che, pur con alcuni aspetti criticabili, nel complesso
avevano favorito lo sviluppo industriale. E il mondo della produzione
e del lavoro aveva operato con tenacia, con senso del risparmio, con
intraprendenza, con apertura ai mercati internazionali, capacità di
apprendimento dei nuovi sviluppi tecnologici.
9 Pescosolido citato pag.59-60.
Ma dato a “Cesare quel che è di Cesare”, dato ciò atto che del balzo
in avanti del periodo 1898-1914 , ha un merito anche il precedente
lungo periodo di incubazione, bisogna pur riconoscere che grossi
meriti competono al quadro politico di questo periodo aureo della
nostra economia : alla continuità politica , alla intelligente apertura
delle istituzioni alle istanze delle masse popolari, alla saggia
combinazione fra principi di economia di libero mercato , riforme
sociali e cauti interventi pubblici.
Vedremo, poi, che in questo quadro politico favorevole hanno avuto
sviluppo rigoglioso le energie imprenditoriali: la pianta “uomo”
italiana , in regime di libertà, dà , nell’economia di intrapresa, frutti
ma volte persino sorprendenti, per il confronto fra le modeste basi di
partenza e i grandi punti di arrivo.
LE CARATTERISTICHE E LE VICENDE
INDUSTRIALI
Al termine di questo periodo, nel 1914, l’Italia aveva una
struttura industriale capitalistica, che ebbe la sua “prova del fuoco”
nella prima guerra mondiale, in cui –come vedremo- l ’Italia riuscì a
sconfiggere l’Austria, nonostante la rotta subita nel 1917, a
Caporetto, proprio grazie alla forza del suo apparato industriale . 10
Lo sviluppo industriale italiano degli anni 98-1914 conseguito in un
regime di libertà di mercato e la connessa struttura capitalistica
10 Nel volume Breve storia della grande industria in Italia, menzionato a nota 3.
ebbero la loro prova del fuoco (e non in senso puramente figurato) e
un collaudo positivo con la grande guerra mondiale e la vittoria del
1918.
L’esito fu molto diverso per la prova del fuoco e il collaudo che
subirono altrettanto dell’apparato industriale italiano e la connessa
struttura capitalistica durante la seconda guerra mondiale: la prova fu
negativa, il collaudo poco meno che disastroso . Il fatto è che il
sistema industriale e il capitalismo del ventennio fascista erano
cresciuti nell’economia corporativa, senza diritto di sciopero, senza
libertà sindacale e contrattuale, senza concorrenza, e si erano nutriti
di autarchia, di statalismo e di dirigismo interferente . La debolezza
di questo apparato industriale, oramai molto articolato
apparentemente robusto, si rivelò in pieno nelle vicende militari degli
anni ‘40 in cui si venne a trovare impegnata l’Italia.
Ma vediamo i fatti e le cifre, del periodo che qui ci interessa,
riprendendo i dati che abbiamo appena visto, circa la nostra crescita
industriale. Fatto 100 il livello del prodotto lordo di cinque settori
manifatturieri fondamentali – alimentari bevande e tabacco, tessile,
metallurgico, meccanico , chimico, del 1896 , l’aumento della
produzione industriale manifatturiera era salito a quota 132 nel
1900. Aumentò ancora dello 85% dal 1900 al 1913 e risultò
accresciuto del 243 % nei 16 anni dal 1996 a al 1913 con un tasso di
crescita medio annuo del 5,75% .
Il settore alimentare, bevande e tabacco ebbe un aumento sopra la
media del prodotto lordo del 280% , quello tessile solo del 50%.
L’accrescimento del settore metallurgico fu spettacolare: 470%, e fu
seguito a poca distanza da quello meccanico che fu del 423% . Il
settore chimico a sua volta registrò un aumento ancora maggiore ;
dello 818%. La composizione strutturale dell’industria manifatturiera
italiana era profondamente cambiata . Facendo eguale a 100 il
prodotto lordo dei quattro settori, l’alimentare nel 1896 occupava il
31,7% del totale, superato dal tessile che occupava il 48% del
totale, mentre il settore metallurgico costituiva solo il 3,34% , il
meccanico era il 12,4% e il chimico appena lo 1,5%. Era il quadro
di una economia prevalentemente agricola, con molto autoconsumo e
basso tenore di vita delle masse. Nel 1913 l’alimentare aveva una
posizione pressoché invariata, il 34%. Il settore tessile era sceso al
32%, il settore metallurgico aveva guadagnato la quota del 6,45% ,
quello meccanico era salito al 21% e quello chimico era al 5,4%.
L’economia si era evoluta: il settore meccanico aveva oramai un
ruolo molto importante e insieme al settore metallurgico sfiorava il
28%, aggiungendo la chimica, i tre settori tecnologicamente avanzati
superavano il settore tessile ed eguagliavano quello alimentare, che
si era molto sviluppato, in valore assoluto, in relazione all’evoluzione
dei consumi delle masse, che erano aumentati ed erano diventati
sempre meno dipendenti dall’autoconsumo agricolo. 11
11 I dati, da cui ho tratto gli indici di crescita del prodotto lordo delle industrie manifatturiere e i loro rapporti di composizione nel 1896 e nel 1913 li ho tratti da Paolo Ercolani,1975, Documentazione statistica di base , in Giorgio Fuà (a cura di ), Lo sviluppo economico in Italia, Vol. III. Studi di settore e documentazione di base, Milano, Franco Angeli.
Le imprese industriali , secondo il censimento industriale del 1903
erano arrivate 117 mila, con 1.275.000 addetti, con 6.7 HP per
impresa e 0,6 per addetto e 11 addetti per impresa. Nel censimento
industriale del 1911 il numero di imprese industriali era più che
raddoppiato, essendo arrivato a 243 mila. Gli HP per impresa erano
saliti a 9,5. Quelli elettrici che nel 1903 erano solo il 5,5% del totale
, nel 1911 erano diventati il 27% del totale. Gli occupati erano 2.304
mila. Il numero di addetti per impresa era sceso a 9,5 ma gli HP per
addetto erano aumentati a 0,9. Anche per quanto riguarda gli addetti,
la composizione dell’industria aveva subito , nel periodo in esame ,
un grosso mutamento. Si era ridotta l’importanza dei rami
tradizionali dell’industria leggera , legati al consumo finale per
l’alimentazione e il vestiario ed era aumentata l’importanza
dell’industria pesante , delle produzioni di dei beni strumentali e e si
affacciavano nuove produzioni di beni di consumo durevoli. Il
settore alimentare che all’inizio del secolo annoverava il 18,5 % degli
addetti complessivi dell’industria, nel 1911 era sceso al 13%. Il
settore tessile e abbigliamento che annoverava, nel 1903, il 37%
degli addetti, era diminuito nel 1911 al 33%. Nel settore
metallurgico gli addetti erano più che raddoppiati, passando dal 2,8%
al 6,2%. In quello meccanico erano saliti dallo 8,5 allo 11,2% ed era
oramai importante l’industria di produzione dei mezzi di trasporto
terrestri, ferroviari e automobilistici, mentre andava iniziando a
prendere una qualche consistenza la fabbricazione aeronautica. Gli
addetti del settore del legno e dei mobili era passato dal 6,6 al 9%.
Un altro sintomo importante della trasformazione che si stava
verificando nella struttura industriale, riguardava il settore tessile e
abbigliamento e calzature. Nel 1903 il tessile occupava il 31% degli
addetti e nel 1911 solo il 21%. All’opposto, il settore
dell’abbigliamento e calzature, che nel 1903 occupava solo il 5%
degli addetti, era arrivato nell’11 al 12,5%: l’abbigliamento della
massa della popolazione non era più confezionato prevalentemente in
casa, era prodotto da fabbriche e aziende artigiane , in quantità
crescenti, per soddisfare a bisogni crescenti di vestiario. Le scarpe,
che prima erano un articolo quasi di lusso, erano diventate un bene
diffuso. 12
Ed ecco, senza pretesa di completezza, alcuni dati flash di questo
miracolo industriale dell’epoca giolittiana .
L’industria della pasta che esportava, nel 1901, 15.700 tonnellate di
pasta, ne esportò 71.000 nel 1913. I pastifici erano 2.700. Le
fabbriche di birra nel 1910 producevano 56.700.000 litri di birra in
circa 90 stabilimenti. Nel 1912 erano già saliti a 710. 000.000 . Le
fabbriche di fiammiferi nel 1914 ne produssero 72 miliardi , poco
meno 2 mila per abitante.
Nel settore cotoniero, nel 1900 vi erano già 2.000.000 di fusi. Nel
1913 erano saliti a 4.600.000. L’ esportazione di filati e tessuti di
cotone , in lire 1918, passò da 55 milioni nel 1900 a 128 nel 1907 a
12 Un quadro chiaro di questi cambiamenti si può leggere nel saggio di ROBERTO TREMELLONI, Cent’anni dell’industria italiana (1861-1961), nel volume L’economia italiana dal 1861 al 1961, edito da Giuffè, Milano, nel centenario dell’unificazione nazionale. Molti libri pubblicati in occasione delle celebrazioni di quel centenario, che si ama dimenticare , sono di grande interesse anche ad anni di distanza.
224 nel 1913. L’esportazione di tessuti e altri manufatti di seta
passò, sempre in lire 1918, da 39 milioni nel 1895 a 75 nel 1901 a
90 nel 1907 a 108 nel 1913, L’industria dei guanti ne esportava nel
1914 ben 4 milioni di paia all’anno.
L’industria del marmo passò da 232.000 tonnellate di materie
gregge nel 1900 a 513.259 nel 1913 , mentre le esportazioni di
greggio e tavole triplicavano da 9.996.000 lire nel 1928 a 28.114.000
nel 1913
Nell’industria della carta, anche essa non considerata nell’indice di
cui sopra , nel 1903 funzionavano 171 macchine continue e 200 a
tamburo, nel 1910 268 macchine continue e 322 a tamburo.
Un’altra industria non considerata nell’indice è quella del cemento,
che produceva 300.000 tonnellate nel 1905, 850.000 nel 1910 e oltre
un milione nel 1912.
L’industria della gomma che importava 684 tonnellate di materia
prima nel 1900, ne importò oltre 5.000 nel 1915 e l’esportazione di
manufatti di gomma passò da 3.628.000 lire nel 1900 a 38.000.000
nel 1915.
Nell’industria metallurgica sono illuminanti alcuni dati: la
produzione di ghisa in pani che nel 1901 era di 16.tonnellate, salì’ a
140, 000 nel 1905 , a 350.000 nel 1910 e a 380 mila nel 1915. La
produzione di ferro e leghe ferro metalliche e di acciaio in lingotti da
300.000 tonnellate nel 1900 a 450.000 nel 1905, a oltre un milione
nel 1910. La tesi per cui la protezione della siderurgia danneggiò le
industrie di trasformazione meccaniche ignora che importanti
industrie di trasformazione del ciclo siderurgico sono state rese
possibili dallo sviluppo della siderurgia di base: tubi di ghisa, di
ferro , di acciaio, profilati, lamiere , rotaie. E poi ancora molle, funi
metalliche, reti, chiodi e altre minuterie metalliche. Ad esempio la
produzione di rotaie salì da 17.653 tonnellate nel 1895 a 173. 470
nel 1915.
I dati fondamentali di crescita dell’industria chimica, in questo
periodo, sono sintetizzati dalla tabella che segue: 13
PRODUZIONE ITALIANA ANNUA IN TONNELLATE DEI
PRINCIPALI PRODOTTI CHIMICI 1895-1913
1895 1905 1913
Acido solforico 95.710 302.100 644.713
Acido nitrico 1.105 1.455 13.611
Acido cloridrico 5.750 11.170 18.966
Solfato di rame 3.150 26.210 44.497
Solfato di sodio 7.771 8.912 16.802
Perfosfati e concimi diversi 145.685 512.348 971.494
Fra i fattori del “miracolo industriale” del periodo giolittiano, ebbe
un ruolo molto importante l’energia idro elettrica, denominata allora
, a ragione “il carbone bianco” , che consentiva all’Italia di disporre
di una propria autonoma fonte di energia. Lo sviluppo del “carbone
bianco” , iniziato con il principio del secolo , fu impetuoso: nel
13 CREDITO ITALIANO, 1920, L’economia italiana nel suo divenire durante l’ultimo venticinquennio e nelle sue condizioni attuali, 1895-1920, Milano, Bertieri e Vanzetti
1896 la produzione di energia elettrica era stata di 15 milioni di kwh
, nel 1901 di 220, nel 1906 di 700 e nel 1911 di 1800.14
Ai successi industriali di questo periodo giovò la congiuntura
internazionale favorevole, che consentì l’espansione del commercio
estero. Il ciclo espansivo industriale , salvo una interruzione nel
1907, dovuta ai fattori di crisi internazionali, proseguì vigoroso sino
al 1914.
Il grande sviluppo del commercio estero italiano dal 1895 al 1913
emerge con chiarezza dalla tavola che segue:
COMMERCIO ESTERO ITALIANO 1895-1913
in milioni di lire 1918
1895 1901 1907 1913
Importazioni 685 1.006 1. 707 2.092
Esportazioni . 552 817 1.181 1.389
Lo sbilancio fra importazioni ed esportazioni di beni era più che
compensato dall’apporto dei turisti stranieri , dalle rimesse degli
emigranti e, in misura minore, dai noli attivi , tanto che le riserve
auree crebbero continuamente da 739 milioni di lire oro nel 1895 a
1203 nel 19005 a 1.990 nel 1915. Alla vigilia della guerra mondiale 14 Cfr. N: Crepax, 2002 Storia dell’industria in Italia. Uomini, imprese, prodotti, Bologna, Il Mulino, p. 58 che cita il volume a cura di G: M. Rey , 1992, Una sintesi delle fonti ufficiali, 1890-1970, vol, I di I conti economici dell’Italia, Roima, Bari
erano quasi triplicate in venti anni. Non è da meravigliarsi che la lira
fosse arrivata a fare aggio sull’oro con cui era in parità ufficiale,
valeva cioè più la banconota dell’equivalente in metallo, tanta era la
solidità della moneta italiana.
Le nostre imprese poterono approfittare della solidità della lira che
consentiva una ampia apertura degli scambi con l’estero , grazie alla
capacità degli imprenditori, dei dirigenti e delle maestranze e grazie
alla esistenza di buone infrastrutture e alla diffusione crescente
dell’istruzione , sia ai livelli elementari, che a quelli medi e
universitari . Questi fattori consentirono di assorbire il progresso
tecnologico e organizzativo delle nazioni più avanzate. Ma giova
ripetere che il fiorire delle energie imprenditoriali, nei vari ceti
sociali, nell’economia interna e sui mercati internazionali , fu reso
possibile dal quadro di governo del periodo giolittiano stabilmente
ispirato a principi di economia di mercato, favorevole alla impresa e
a moderni sviluppi sociali.
L’industria però si sviluppò , prevalentemente nel Nord di Italia e
nel Centro, mentre il Mezzogiorno rimaneva prevalentemente
agricolo. Occorre ricordare che l’energia idroelettrica era
particolarmente abbondante nell’arco alpino e che le maggiori
miniere (di piriti, acido solforico, marmo , boro) si trovarono in
Toscana. Il Nord di Italia inoltre era più vicino ai grandi mercati
dell’Europa continentale, che il Mezzogiorno. Inoltre la cultura
tecnologica era più diffusa nel Nord , in Toscana e in Emilia che nel
Meridione, ove predominava una cultura umanistica e la figura
dell’imprenditore aveva, in relazione a ciò, un minor apprezzamento
sociale. Se esso è notevole, si accresce lo stimolo dei giovani di
ingegno a dedicarsi alle attività Fra i fattori dello sviluppo
economico è, infatti, molto importante il ruolo sociale che si
riconosce agli imprenditori imprenditoriali , si accresce la
propensione delle banche a far loro credito e i funzionari e gli
amministratori pubblici sono meglio predisposti nei loro confronti.
Ed è importante la cultura tecnica, di carattere tecnologico e
economico, che consente di sviluppare iniziative nuove e di
migliorare le imprese esistenti. Il capitale umano, come scriveva
Carlo Cattaneo, alla metà dell’800- nel saggio “Del pensiero come
principio di economia pubblica” 15è un fattore produttivo altrettanto
importante della risorse naturali, del lavoro, del capitale.
Nelle pagine che seguono, vedremo come il pensiero si sia unito
alla imprenditorialità, nelle figure di grandi protagonisti
dell’economia industriale di questo periodo. Sarebbe errato poi ,
descrivere questa crescita industriale come dovuta prevalentemente ai
capitani della grande industria. Infatti, come si è visto, il numero
medio di addetti per impresa rimase attorno ai 10 e non solo non
crebbe e anzi diminuì , sia pure di poco, in tutto questo periodo
smentendo la tesi di Marx secondo cui lo sviluppo industriale genera
la concentrazione capitalistica. Le società per azioni ebbero un
grande sviluppo. Ma accanto alle grandi imprese, finanziate con la
15 Comparso originariamente , nel 1861, nella rivista “Il Politecnico”, fondata e diretta da Carlo Cattaneo, ora accessibile nelle opere scelte , edizione Einaudi, Torino, 1972, a cura di Delia Castelnuovo Frigessi, volume IV, Storia universale e ideologia delle genti, Scritti 1852-1864.
borsa e il capitale delle banche commerciali, fiorirono molte medie e
piccole imprese , dando vita a vivaci distretti industriali, come quello
laniero di Biella, quello cotoniero di Busto Arsizio, quello delle
trafilerie e minuterie metalliche lecchese quello meccanico di Torino,
quello ceramico di Faenza, quelli caseari dell’Emilia.
SECONDO PERIODO DAL 1915 AL 1925. FRA ECONOMIA MERCATO,
DIRIGISMO STATALE E RESTAURAZIONE DELL’ORDINE .
Al termine di questo periodo si consuma la dissoluzione del regime
democratico e , simultaneamente inizia quella dell’economia di
mercato. Si vedrà che le due grandi istituzioni, quella politica della
democrazia costituzionale e del sistema di governo basato su libere
elezioni, in regime di libertà di pensiero, di stampa , di riunione e
associazione politica , religiosa e culturale e quella del mercato,
basato sulla proprietà e l’iniziativa privata, la libertà di impresa , e la
apertura internazionale dell’economia e della finanza , vanno
assieme, Simul stabunt simul cadent.
Il periodo sino al 1914 come si è visto, aveva potuto godere si una
notevole stabilità politica , nonostante le pecche del sistema
parlamentarista, grazie a un leader della statura di Giovanni
Giolitti, che riusciva a manovrare i notabili eletti in parlamento. Ma,
con il passaggio al suffragio universale, nel 1913, come vedremo,
esso conteneva in sè i germi della ingovernabilità, che si sarebbero
accentuato con il passaggio al sistema elettorale proporzionale, in
regime parlamentarista, con le elezioni del giugno del 1921, le ultime
in regime di libertà democratica , sino alla fine del Regno di Italia.
E la governabilità è un fattore molto importante per lo sviluppo
economico , in regime democratico. I governi brevi non hanno tempo
per le politiche di largo respiro. Gli operatori economici, quando i
governi hanno breve durata, hanno minori certezze che quando essi
sono di lunga durata e quindi è più facile prevedere che cosa il
governo farà in futuro. La debolezza dei governi, in una democrazia
non completamente matura, favorisce non il desiderio di una
leadership autorevole in regime democratico, ma quello di
sbarazzarsi del regime democratico a cui si dà la colpa della scarsa
governabilità. E’ quello che accadde in Italia, negli anni venti del
secolo scorso. E , come vedremo, fu molto dannoso per l’economia,
perché , come si è detto, l’economia di mercato senza la democrazia
non resiste a lungo in un sistema economico evoluto. Il sistema
autoritario di governo tende a garantirsi il potere anche tramite il
controllo delle leve del sistema capitalistico . E così’ soffoca il
mercato e la concorrenza, come accadde in Italia con l’instaurazione
del regime autoritario fascista. La governabilità pagata a così’ caro
prezzo si rivela, per l’economia, come molto peggiore dei governi
deboli di breve durata, di un regime democratico, in cui si rispettino
le regole del mercato.
Dalle vicende italiane dello scorso secolo, infatti, con riguardo alla
cosi detta “Prima repubblica”, emerge che anche nel periodo in cui la
governabilità si ridusse, quando poté funzionare il mercato, si ebbe
comunque una notevole crescita dell’economia .
Anno PIL (lire correnti) PIL (miliardi % crescita PIL Pop.Pop. (migliaia)
PIL pro capite
di lire 2001) reale (migliaia) (miliardi per mille ab.)
1914 20,251 134414 -1,8 37797 3,6
1915 23,271 138675 3,2 38166 3,61916 31,945 141081 1,7 38118 3,71917 42,559 135805 -3,7 37844 3,61918 53,235 132883 -2,2 37195 3,61919 62,555 129801 -2,3 37304 3,51920 92,305 134920 3,9 37491 3,61921 94,291 136551 1,2 37890 3,61922 103,92 148742 8,9 38281 3,91923 113,485 157385 5,8 38629 4,11924 118,08 158841 0,9 38990 4,11925 147,838 167804 5,6 39339 4,3
Il Pil nel decennio fra l’anno della nostra entrata nella prima guerra
mondiale e il 1925 crebbe del 21%, con un tasso di crescita medio
annuo composto del 2%, piuttosto notevole considerando le
vicissitudini belliche. Pro capite l’aumento fu del 19,4% ,
corrispondente all’1,75%: anche questo dato appare notevole, alla
luce delle situazioni internazionali dell’epoca. Ma il ritmo di crescita
, rispetto al precedente quindicennio era chiaramente rallentato . E
l’economia italiana , da allora in poi subì un processo di involuzione.
Gli eventi politici e i connessi indirizzi della politica economica
sono in gran parte responsabili di quel rallentamento e della
successiva involuzione. In particolare il periodo del dopoguerra, dal
1919 al 1922 fu particolarmente difficile e turbinoso . Molte
occasioni furono allora mancate, in particolare in relazione alla sfida
della riconversione dell’industria dall’assetto bellico a quello di pace.
IL QUADRO POLITICO E DI POLITICA ECONOMICA
Il 27 novembre del 1913 ebbero luogo le elezioni per la XXIV
legislatura , per la prima volta a suffragio universale . Il corpo
elettorale era salito dai 2,9 milioni
XXIV LEGISLATURA 1913-1919
di elettori della precedente legislatura pari allo 8,3 dei cittadini
residenti in Italia a 8,4 milioni di elettori, pari al 23% della
popolazione, sempre con il sistema uninominale . Per suffragio
universale si intendeva il diritto di voto per tutti gli uomini
maggiorenni- con la maggiore età a 21 anni- che avessero prestato
servizio militare per 18 mesi, ancorché analfabeti o aventi almeno 30
anni , per coloro che non lo avessero prestato per tale tempo e fossero
analfabeti. Dato l’obbligo di leva militare , pochi analfabeti erano ,
così’ esclusi dal diritto di voto, Le donne erano escluse dal voto,
così come i ragazzi di diciotto anni: che pure erano considerati maturi
per il servizio militare di leva. Con il suffragio universale , i rapporti
personali dei candidati con gli elettori si assottigliavano e le
posizioni dei vari gruppi politici si andavano delineando come più
importanti, ma emergeva anche un frazionamento maggiore, che era
la logica conseguenza del fatto che stavano emergendo le diversità
ideologiche. Una delle maggiori conseguenze di ciò fu che sparì la
sinistra in quanto tale , tradizionalmente etichettata come i
“democratici” perché si trattava oramai di una denominazione troppo
generica, entro cui si potevano collocare i più diversi indirizzi. Una
parte di essa, quella liberale moderata, confluì nei liberali, che
emersero come tali ed ottennero 270 seggi, pari al 53,15%. I
costituzionali democratici, eredi della tradizionale sinistra
ministeriale avevano conseguito solo 29 seggi, con il 5,71% dei voti.
Isolati, i democratici puri , con 11 seggi, pari al 2,1% Una parte
dell’elettorato di sinistra moderata era rifluita sui radicali che erano
diventati un movimento di sinistra riformista ed erano saliti a 62
seggi, con il 12,2% dei voti e si preparavano ad assumere un ruolo
importante anche se sfortunato nei governi italiani . Essi avevano
però pagato questa nuova posizione con una scissione, sulla sinistra:
i radicali dissidenti, staccatisi dal partito avevano conseguito 11
seggi, pari al 2,17% Anche i repubblicani , che, a differenza dei
radicali, già nelle precedenti legislature avevano visto una continua
erosione dei voti e dei seggi, divisi come erano tradizionalmente fra
borghesi illuminati di tradizione mazziniana e garibaldina
risorgimentale anticlericali e antimonarchici ma non rivoluzionari
propensi ad allearsi con i radicali nei ballottaggi e ala popolare
rivoluzionaria , propensa ad allearsi ai socialisti con la
proporzionale, si erano divisi in due tronconi. A differenza dei
radicali, il loro numero totale di seggi si era molto assottigliato a 17 .
Una metà abbondante, con nove eletti, pari allo 1,77% si era portata
su posizioni di sinistra intransigente. I repubblicani ufficiali avevano
8 seggi pari al 1,57% dei voti. I voti per i socialisti erano molto
aumentati , ma il partito si era frazionato in tre pezzi. I socialisti
ufficiali, in cui convivevano massimalisti e i riformisti di Turati ,
entrambi contrari, per diverse ragioni alla partecipazione diretta al
governo, avevano ottenuto ben 52 seggi, pari al 10,24%. Ma la
maggioranza del partito socialista ufficiale era passata ai massimalisti
e questi avevano ottenuto l’espulsione di un gruppo di socialisti
nettamente riformisti, capeggiarti da Leonida Bissolati e da Ivanoe
Bonomi, che con questa denominazione. Questi ,a suffragio
universale, avevano ottenuto 19 seggi pari al 3,74% e si avviavano
ad accettare stabilmente le responsabilità di governo che i liberali di
sinistra erano desiderosi di offrire a loro e ai socialisti, per ampliare
la base di consenso del governo, nella direzione delle masse popolari.
Un terzo esiguo gruppo di socialisti, che era costituito di
“indipendenti sindacalisti” , di indirizzo rivoluzionario, aveva
ottenuto 8 seggi, pari allo 1,57%. . Anche i cattolici erano aumentati,
seppur meno dei socialisti. E, come i socialisti, si erano scissi. I
cattolici del partito popolare avevano ottenuto 20 seggi, pari al 3,94%
mentre i conservatori cattolici ne avevano ottenuti poco meno della
metà, cioè 9 pari allo 1,7%.
Nella nuova Camera, che si avviava a rimanere congelata sino al 1
dicembre 1919, si annoveravano oramai ben 12 partiti. Era l’inizio
di una situazione caotica , il cui emergere fu rinviato solo a causa del
frapporsi della guerra , che congelò la situazione , ma gettò anche le
basi per ulteriori alterazioni e frammentazioni del quadro politico. La
frammentazione del 1913 comunque merita molta attenzione,
perché si verificò in regime di legge elettorale uninominale: e
secondo una tesi corrente, soprattutto fra gli economisti, basta
sostituire un sistema elettorale uni nominale ad uno proporzionale,
per avere un quadro politico basato solo su poche coalizioni,
tendenzialmente due, con conseguenti vantaggi per la durata dei
governi e la governabilità. Il sistema elettorale uninominale non era
stato in grado di dare luogo a un sistema politico bipartititico, colme
altrove, poiché era stato, sin dalle origini, di “tipo parlamentare”
ovvero “parlamentarista” . In altre parole, la scelta del leader del
governo non era rimessa alle votazioni , ma al parlamento che
veniva eletto. E questo avrebbe potuto nominare e poi deporre i capi
del governo che avesse, via via, prescelto, sulla base delle
maggioranze che si sarebbero formate in parlamento. Poiché quando
votavano i cittadini non sceglievano chi avrebbe guidato il governo,
il sistema elettorale uninominale non assicurava per nulla la
riduzione del numero dei raggruppamenti politici. Al contrario,
favoriva il frazionamento , perché anche un raggruppamento
minuscolo costituito ad hoc poteva sperare di entrare a far parte del
governo, tramite il gioco delle alleanze , che si sarebbero fatte in
parlamento, per fare emergere i leader delle varie coalizioni, e quella
vincente, grazie alle abilità manovriere del suo capo e dei fedelissimi.
Quando il capo del governo è scelto direttamente dal corpo elettorale,
in quanto va a formare il governo il leader della coalizione che
ottiene più voti, il sistema uninominale invece tende alla
aggregazione in sede elettorale delle varie forze politiche in pochi
movimenti politici, perché l’aggregazione è la condizione per
vincere. E il leader, che trae forza dal voto popolare, diventa il
fattore unificante , oltreché di guida, della coalizione. Con l’adozione
della legge elettorale a suffragio universale , che riduceva il
rapporto personale fra elettori ed eletti, il frazionismo favorito dal
sistema parlamentarista , si era accresciuto , traducendosi in partiti
e partitini, ciascuno teso a affermare la propria identità e a conseguire
i propri seggi, per poter contare in parlamento. A ciò si deve
aggiungere la immaturità dei due nuovi movimenti politici, diversi
dai liberali e dagli altri partiti tradizionali : i socialisti, nei loro
diversi partiti ed i cattolici, anche essi divisi in diversi partiti (oltre a
quelli presenti nei liberali ). Le leggi che governano la democrazia
possono essere più o meno buone. Ma hanno grande importanza
anche le ideologie politiche e la capacità dei rappresentanti politici
di elaborarle, in modo da superare il punto di vista della fazione per
quanto nobile e assumere il punto di vista dell’uomo di stato. Le
istituzioni di governo della democrazia non idonee all’aggregazione
delle forze politiche, come il sistema elettorale uninominale
combinato con il parlamentarismo , rendono più difficile ai partiti di
superare i conflitti ideologici e ai rappresentanti politici di pensare
ed agire come statisti e non come uomini di partito. Se si fosse
stabilito che gli elettori sceglievano non solo i loro rappresentanti, ma
anche il capo del governo, l’esito sarebbe potuto esser diverso. Ma
così non fu.
Nel parlamento uscito dalle elezioni del 1913, i partiti di sinistra
erano una decina, con un pulviscolo di posizioni diverse, anche
all’interno dei singoli partiti. Fra i socialisti ufficiali, anche dopo
l’espulsione dei riformisti , di Bissolati e Bonomi, conviveva, sia
pure in minoranza, l’ala riformisti guidata Filippo Turati e Anna
Kuliscioff moglie di Turati , Claudio Treves , con il gruppone dei
massimalisti guidati da Costantino Lazzari . Al loro fianco vi erano i
massimalisti estremisti come Benito Mussolini direttore
dell’Avanti! per conto della sinistra del partito. C’erano poi
riformisti dissidenti come Oddino Morgari e Giuseppe Emanuele
Modigliani , sindacalisti su posizioni intermedie, massimalisti
anomali come Enrico Ferri. 16
Nelle elezioni per la XXIV legislatura del 1913 i liberali , come si è
visto, comunque, avevano ottenuto la maggioranza assoluta con il
53,15% dei seggi. E poterono perciò assi curare al paese la continuità
16 Cfr. su tutte queste vicende dei socialisti G. Arfè(1965) Storia del socialismo italiano,( 1892-1926), Torino, Einaudi
politica nel difficile periodo bellico. Tuttavia i meriti che in tal modo
si erano assicurati, in particolare con la fermezza dimostrata dopo la
rotta di Caporetto del 1917, e la successiva splendida vittoria con la
battaglia campale di Vittorio Veneto che era merito anche
dell’efficienza organizzativa e dell’ impegno saldo nella guida
politica del paese , non vennero loro riconosciuti nelle elezioni che si
tennero , l’ 1 dicembre 1918 , un anno dopo la conclusione della
guerra. L’Italia era entrata nella grande guerra del 14-18 solo nel
maggio del 1915: ma già alla fine del 1914 era abbastanza chiaro che
essa si sarebbe schierata con la Francia e la Gran Bretagna contro
l’Austria e la Germania, per conquistare le “terre irredente” di Trento
e Trieste , che erano ancora sotto il dominio austriaco. L’industria
pesante (siderurgica) e quella meccanica così avevano iniziato a
prepararsi per il conflitto. Si pensava però che esso non sarebbe
durato così lungo, come poi avvenne. L’Italia non aveva la
sufficienza cerealicola e difettava di materie prime, in particolare
carbone. Fu introdotto il razionamento, che per altro, nel settore
alimentare funzionò male, dando luogo a fenomeni di borsa nera, con
prezzi molto superiori a quelli delle razioni, che erano stati bloccati.
Le spese militari per armamenti, vestiario, spostamenti e
alimentazione delle truppe, finanziate con debito pubblico ed
espansione della circolazione monetaria, generarono una notevole
espansione della produzione e dell’occupazione, che crebbe anche
per la necessità di sostituire le truppe al fronte con manodopera
civile. La stampa di moneta generò una ondata di inflazione , che,
negli anni di guerra, fu repressa con il controllo dei prezzi e la
sovvenzione al prezzo politico del pane. Vi fu chi si arricchì con i
profitti derivanti dalla congiuntura bellica , mentre i ceti medi e le
masse popolari sopportavano il peso delle restrizioni e le grandi
perdite di vite umane dovute al conflitto. Nel novembre del 1918,
cessata la guerra, i controlli sui prezzi vennero allentati e si
scatenarono l’inflazione e la disoccupazione. Al disordine economico
si aggiunse il disordine pubblico dovuto alle proteste popolari con cui
si incrociavano quelle dei reduci. Il ritorno all’economia di mercato,
dopo i controlli bellici su tutta l’economia, non era facile. E la
burocrazia statale , nel frattempo, si era abituata all’intervento
pubblico nell’economia . Durante la guerra, per tenere alto lo spirito
dei combattenti, si erano fatte loro grandi promesse, di futuro
benessere e giustizia sociale, in particolare la terra incolta ai
braccianti e ai piccoli coltivatori diretti. Questo duplice fenomeno, lo
sviluppo della abitudine delle burocrazie all’intervento pubblico
nell’economia e le promesse sociali, non riguardava solo l’Italia,
riguardava anche le potenze industriali europee vincitrici del
conflitto. E nei paesi sconfitti, Germania ed ex impero austriaco, i
partiti di sinistra erano giunti al potere sotto la spinta della
dissoluzione dei vecchi regimi monarchici. In Russia lo zarismo non
aveva retto, erano giunti al potere i comunisti, guidati da Lenin, che
avevano fondato l’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche ,
l’URSS. I soviet , che erano alla base del nuovo potere, costituito da
intellettuali e operai, erano i consigli di fabbrica, controllati dai
comunisti.
I liberali si erano attirati impopolarità , fra i civili. a causa dei
sacrifici economici alle popolazioni nel periodo bellico e
dell’inflazione e della disoccupazione che era succeduta, con la
riconversione al periodi di pace . E . nello stesso tempo, la gente
comune impoverita dall’inflazione e dalla diminuzione dei posti di
lavoro, vedeva i lussi degli arricchiti , che avevano fatto soldi con le
forniture e le speculazioni nel periodo bellico e postbellico. reduci ,
erano delusi del fatto che . D’altra parte il sommo pontefice aveva
tolto il veto alla piena partecipazione dei cattolici alla vita pubblica e,
pertanto, era stato costituito il partito popolare, che si presentava alle
elezioni per la prima volta, con un programma di centro,
concorrenziale a quello dei liberal demoratici. Le elezioni del
dicembre del 1919, per la XXV legislatura , le prime a suffragio
universale esteso anche a chi, maschio maggiorenne, fosse incapace
di leggere e di scrivere , così , diedero luogo a risultati ben diversi da
quelli che i liberal democratici avevano sperato. speravano.
XXVI LEGISLATURA 1919-1921
Il parlamento era composto di 502 seggi. La maggioranza assoluta
era pertanto di 252 I socialisti con 156 seggi e i popolari con 100
seggi erano teoricamente in grado di formare il governo. Tuttavia,
con la scissione di Livorno avvenuta nel luglio 1920 anche questa
coalizione teorica (a cui mirava don Luigi Sturzo, con una parte dei
popolati) diventava impossibile perché i deputati socialisti
scendevano a 137. Il gruppo parlamentare dei socialisti riformisti
era di 21 membri, che in teoria avrebbero potuto unirsi agli altri
socialisti per fare un governo con i popolari, ma anche questo era
impossibile dato che il loro leader Ivanoe Bonomi , espulso dal
partito nel 1913 assieme a Leonida Bissolati (nel frattempo deceduto
) era qualificato come “rinnegato” . Il gruppo (giolittiano) di
democrazia liberale, che vantava 91 seggi, ed era il terzo per
numerosità dopo socialisti e popolari assumeva così l’onere
tradizionale di forza essenziale per il governo: ma anche alleato con
i liberali storici che avevano 23 seggi e con i radicali nittiani , che
avevano 57 e con il gruppo di rinnovamento che aveva 33 seggi e i
socialisti riformisti, non disponeva di una maggioranza di governo,
disponendo solo di 204 seggi. Né l’aggiunta dei 9 repubblicani e di
tutti i 13 parlamentari del gruppo misto sarebbe bastato a dare al
blocco laico di centro destra una maggioranza . I liberali, i radicali e
i socialisti potevano solo sperare di governare con l’appoggio dei
popolari o con la benevola astensione dei socialisti. Ma questi erano
allora retti da una maggioranza massimalista. Turati non era in grado
di fare ciò che aveva fatto nell’epoca giolittiana. Dunque le sole
soluzioni possibili passavano per i popolari. In effetti Nitti, che era
succeduto a Vittorio Emanuele Orlando nel giugno del 1919, con
l’incarico di formare il primo governo dopo la pace, prevedendo una
affermazione dei popolari, costituiti in partito dal maggio, ne aveva
incluso qualcuno nel suo governo, per altro in posizione secondaria.
E i popolari, anche dopo le elezioni aveva accettato di appoggiare il
governo Nitti. Lo avevano fatto però solo sino al maggio 1920, di
malavoglia. La guerra aveva comportato lo squilibrio fra spese ed
entrate , che si era tradotto in un pesante deficit, che era stato colmato
con grandi emissioni di debito pubblico. Non era facile, nel
dopoguerra provvedere al pagamento degli interessi su tale debito,
senza stampare altra carta moneta, generando inflazione.
SPESE ED ENTRATE EFFETTIVE (in milioni di lire)
ANNO Entrate Spese Avanzo
(+) Disavanzo
(-) 1862 Primo bilancio
unificato 480.26 926.72 -446.46
1866 Guerra contro l’Austria
617.13 1.338.58 -721.45
1876 Caduta del partito conservatore (destra) dal potere
1.123.33 1.102.63 +20.70
1881 Abolizione del macinato
1.278.02 1.224.76 +53.26
1888-89 Gabinetto Crispi. Aumento delle spese militari
1.500.84 1.736.21 -235.37
1893-94 Crisi bancaria ed economica Nuove imposte Sonnino
1.517.12 1.616.55 -99.43
1906-907 Massimo Avanzo. Conversione della rendita dal 4 al 3,5
1.954.56 1.856.31 +98.25
1913-914 Ultimo anno di pace europea Guerra libica
2.523.75 2.687.66 -163.91
1914-915 Guerra europea 2.559.96 5.395.40 -2.835.44 1915-916 Guerra europea 3.733.73 10.625.24 -6.891.51
1916-917 Guerra europea 5.345.04 17.595.26 -12.250.22 1917-918 Guerra europea 7.496.18 25.339.49 -17.843.31 1918-919 Guerra europea 9.498.39 32.599.50 -23.101.11 I bilanci statali in Italia, come si nota dalla Tavola, erano stati spesso
in disavanzo nell’800, ma avevano trovato il loro equilibrio con la
politica di austerità della destra storica verso la fine degli anni ’70. Vi
erano state poi vicende alterne e nell’epoca giolittiana si era
riguadagnato il pareggio. Tuttavia nell’esercizio finanziario 1913-
1914 vi era stato un modesto disavanzo del 5% circa delle entrate
sulle spese dovuto ai costi della guerra libica. Con la guerra
mondiale le spese superano le entrate di una volta, due volte , tre
volte. E nell’esercizio finanziario 1918-1919 si ha un deficit di 23
miliardi , a fronte di 9,5 di entrate e a 32,6 di spese. Il deficit è oltre
2,5 volte le entrate , circa il 70% delle spese. Il raggiungimento del
pareggio appariva un compito immane e il primo governo , guidato
da Francesco Saverio Nitti, cadde ben presto, per la difficoltà di
attuare l’arduo programma di risanamento finanziario , mentre
imperversavano le proteste sociali e quelle dei reduci. I popolari non
desideravano più sostenerlo, Il Re diede al popolare Meda l’incarico
di formare un nuovo governo, ma questi rifiutò. L’incarico passò di
nuovo a Nitti, che accrebbe la componente dei polari, ma durò solo
dal 21 maggio al 9 giugno 1920. L’incarico passò a Giolitti, che i
popolari appoggiarono molto mal volentieri perché lo consideravano
il loro maggior avversario, in quanto aveva spesso incluso fra i suoi
deputati dei cattolici moderati, che essi consideravano con ostilità, in
quanto asserviti ai liberali, tradizionalmente laici. Giolitti per
risolvere la situazione e convincere i popolari ad appoggiarlo si fece
promotore della legge elettorale proporzionale, che essi
desideravano. Il suo governo però durò solo un anno, perché i
popolari, maturata la nuova legge elettorale, gli tolsero l’appoggio
formalmente per dissenso sulla soluzione da lui data alla vertenza
della occupazione delle fabbriche da parte dei consigli di fabbrica di
numerose imprese. Il decreto Giolitti proponeva ambigui poteri di tali
consigli con riguardo a tematiche del lavoro e dell’occupazione.
Concessioni che a un liberale come Einaudi parevano esagerate . Ma
don Sturzo proponeva addirittura l’azionariato operaio, una soluzione
che avrebbe dato un potere ancora maggiore ai consigli di fabbrica,
in rappresentanza dei nuovi azionisti. I popolari però tolsero
l’appoggio al governo Giolitti perché miravano a una affermazione
elettorale per la quale il rapporto con Giolitti, tradizionale
avversario, era contraddittorio. Vennero bandite le nuove elezioni, in
cui Giolitti , per incanalare la protesta delle piazze, a livello
politico, aveva propugnato la legge elettorale proporzionale: che
consentiva ai partiti di massa- i socialisti e i popolari- di esprimere i
propri candidati, senza bisogno di alleanze nei singoli collegi
elettorali, con personalità di diverso indirizzo. Era una idea
sinceramente democratica e liberale . E’ vero che Giolitti sperava
che ciò avrebbe favorito la tendenza di questi partiti a gestire il
potere assieme alla vecchia guardia librale, che, inevitabilmente,
avrebbe perso voti. Ma fu certo sua mancanza di senso politico se
ciò non si realizzò. Dipese dalla immaturità dei popolari. Anche i
socialisti, come vedremo, si rifiutarono di partecipare a un governo
con i liberaldemocratici, i nittiani e i riformisti socialisti. Ma questo
era scontato. La questione vera era la capacità dei popolari, partito di
centro, di capire che essi stavano diventando gli arbitri della
democrazia in Italia ,per la difesa di quei principi della piccola
proprietà privata , dell’impresa e del decentramento localistico, di cui
erano i fautori, D’altra parte Giolitti non pensava solo alla ipotesi
peggiore, quella , in cui i popolari avrebbero dovuto assumersi il
peso delle scelte decisive. Aveva formato i blocchi nazionali, che
accanto alle forze liberal democratiche tradizionali comportavano la
partecipazione di nazionalisti e anche di fascisti: i quali si erano
pronunciati per la restaurazione dell’ordine e delle regole del
mercato, in nome dei principi nazionali. Con il senno di poi questo
“via libera” di Giolitti ai fascisti può apparire strano, ma egli non era
il solo a pensarla così. Altri, come lo stesso Nitti e persino liberali
puri come Einaudi pensavano che si potessero “incanalare” i fascisti
in regole parlamentari e metterli assieme con altre forze politiche,
per la restaurazione dell’ordine, Non va dimenticato che su fronte
opposto vi erano i bagliori del collettivismo sovietico, che aveva fatto
le sue prime esperienze concrete con l’occupazione delle fabbriche,
ma anche delle terre e non solo dei latifondisti, come la letteratura
storiografica di questi decenni ha voluto far credere, bensì di
proprietà mezzadrili piccole e medie: che erano le più facili da
mettere in ginocchio, per consentire ai mezzadri di espropriare i
proprietari. E molti fascisti erano reclutati, oltreché fra i reduci della
guerra, appunto fra i piccoli proprietari che avevano subito o
potevano subire queste concrete vessazioni e minacce alla loro
proprietà. Questo era il clima in cui si svolsero le elezioni del 1921.
TERZO PERIODO DAL 1925 AL 1945. Il DIRIGISMO CORPORATIVO
FASCISTA
VICENDE POLITICHE DEL PERIODO Dopo le elezioni del 1924 il fascismo, come si è visto godeva di
un’ampia maggioranza parlamentare. Tuttavia nel listone fascista
erano stati eletti molti nazionalisti ed ex liberali o ex democratico
sociali e personalità del mondo economico. L’uccisione mediante
pestaggio dell’onorevole Matteotti, compiuta forse per cesso di zelo
o per errore, da sicari fascisti che dovevano dargli una pesante
“lezione” , nel 1924, mise in grave difficoltà Mussolini, che era
considerato il mandante o uno dei mandanti o l’istigatore o il
complice del compimento della spedizione punitiva . se non del
delitto. Era molto difficile per Mussolini sostenere che egli non ne
sapeva nulla, perché egli era anche il Ministro dell’Interno e non
era immaginabile che dei gerarchi fascisti organizzassero una
spedizione punitiva contro un parlamentare di rilievo quale Matteotti,
e che il suo esecutore materiale, Amerigo Dumini, stipendiato
dall’Ufficio stampa della Presidenza del consiglio la effettuasse
senza curarsi di avere una copertura della polizia. E il movente
esisteva, per Mussolini, in quanto l’onorevole Matteotti , segretario
del partito dei socialisti riformisti , nella prima seduta della nuova
Camera aveva chiesto l’invalidazione delle elezioni, a causa dei
numerosi brogli elettorali e delle violenze compiute dai fascisti in
prossimità delle urne, per condizionare gli elettori e si apprestava a
fornirne ampia documentazione. Il re avrebbe potuto esonerare
Mussolini dalla carica di Presidente del Consiglio, in attesa del
verdetto giudiziario sul delitto. L’incarico poteva andare a un
nazionalista come Federzoni o a un generale , dati i rischi per
l’ordine pubblico dovuti a una probabile reazione delle squadre
fasciste. Ma ciò non accadde, anche perché, come si è visto, mancava
in parlamento, una robusta coalizione politica democratica e i
socialisti erano divisi fra massimalisti, riformisti, demo socialisti ,
con i massimalisti che si erano ricongiunti ai comunisti. E parte dei
popolari simpatizzava per il fascismo, che aveva mostrato devozione
al Vaticano : che era estremamente preoccupato dalle inaudite
persecuzioni ed eccidi dei comunisti nell’URSS dal pericolo del
comunismo in Italia. Mussolini così approfittò delle incertezze degli
altri e rovesciò la debole situazione in cui si trovava mediante leggi
speciali di polizia, con il pretesto di dover sedare i tumulti che in
effetti si manifestavano, come reazione al delitto, da parte delle
sinistre, cui rispondevano gli squadristi fascisti. D’altra parte la
situazione economica era migliorata e l’opinione pubblica lo
apprezzava, mentre non tradiva la prospettiva di un nuovo periodo
di instabilità politica , con governi brevi e incerte coalizioni
parlamentari di partiti. Mussolini assunse sempre più poteri e con
l’operazione di rivalutazione della lira , da un lato si guadagnò la
simpatia del pubblico dei risparmiatori a reddito fisso, dall’altro
tagliò le unghie alle banche cattoliche, numerose ma meno robuste
delle grandi banche tradizionali. Inoltre pose in difficoltà il sistema
banca-industria, che si dovette impegnare in profonde ristrutturazioni
per reggere alla rivalutazione e trarne profitto, mediante
l’assorbimento delle imprese e delle banche più deboli. Ma nel 1928,
si profilava la scadenza della Camera . Andare a nuove elezioni
democratiche appariva rischioso, perché, dopo la rivalutazione della
lira, serpeggiava una crisi di banche e imprese che poteva
alimentare lo scontento di molte forze economiche e la Confindustria
oramai diffidava dello strapotere del fascismo, che in realtà si era
tradotto in una dittatura personale di Mussolini, il cui autoritarismo si
era dispiegato in pieno appunto con l’operazione di rivalutazione
della lira a quota 90 con la sterlina , conclusa nel 1927, con
l’annuncio della nuova parità ufficiale della lira alla sterlina : una
operazione di enorme portata, considerato che nel 1925 la lira era a
quota 120 con la sterlina. Mussolini pertanto diede mandato al
Ministro della Giustizia, il giurista Alfredo Rocco, che si ispirava
alla teoria idealiste dello stato etico, di creare un nuovo sistema
elettorale, basato sul fascismo. Ciò fu attuato con due leggi, La prima
, approvata dalla camera nell’autunno del 1928, stabiliva che il Gran
Consiglio del fascismo diventava organo dello stato. La seconda ,
approvata dallo stesso Gran Consiglio, stabiliva che la nuova Camera
sarebbe stata di 400 membri, scelti dal Gran Consiglio del fascismo
sulla base delle segnalazioni provenienti dalle associazioni sindacali
dei lavoratori (in pratica la fascista, la sola riconosciuta) , dei datori
di lavoro (Confindustria e altre organizzazioni settoriali ) e di vari
enti e associazioni . La lista dei 400 sarebbe stata votata con
referendum popolare, con un si o un no in blocco. Anche questa
legge fu approvata dalla Camera, con il voto contrario degli oramai
sparuti oppositori. Per i liberali prese la parola Giolitti, per esprimere
il suo dissenso. Turati era oramai in esilio. E così don Sturzo e Nitti.
La legge passò poi al Senato, con il consenso del Re. Il referendum
venne denominato plebiscito in omaggio alla tradizione romana a cui
oramai il fascismo si ispirava (ma il nome “fascio” originario si
ispirava alle tradizioni delle leghe sindacali, spesso denominate
“fasci” in relazione ai fasci di grano, legna etc. ). In tempi brevi il
Gran Consiglio del fascismo formulò la sua lista di 400 nomi , sulla
base delle indicazioni che gli erano pervenute , cui fece alcune
correzioni. Il plebiscito fu tenuto nell’aprile del 1929, poco dopo la
“conciliazione” fra Stato e Chiesa dell’11 febbraio . Esso diede un
risultato del 98% a favore , che con la terminologia attuale si direbbe
“bulgaro” ( a ricordo dei referendum negli stati satelliti della Russia,
retti da un dittatore come quello della Bulgaria) . E la nuova Camera
della XXVIII legislatura fu inaugurata in aprile, con il tradizionale
discorso della Corona (cioè del re), che plaudiva al nuovo sistema
elettorale. Nel 1934 il Gran Consiglio del fascismo nominò, con lo
stesso sistema, la nuova Camera della XXIX legislatura. Il plebiscito
questa volta diede il 96,52% di si. Nel 1939 la Camera dei deputati
venne soppressa e con l’entrata in vigore della nuova legge che
fondeva il Consiglio nazionale delle corporazioni nella Camera dei
fasci e delle corporazioni. La nuova Camera di 500 membri si
componeva non solo dei membri del Consiglio delle corporazioni,
ma anche di quelli, assai numerosi , del Consiglio del Partito
Nazionale fascista e dei membri del Gran Consiglio del fascismo,
che rimaneva . comunque, ai vertici di questa struttura , dato che,
almeno formalmente, aveva i poteri di nomina sul partito e, in gran
parte, sul Consiglio delle corporazioni. Ovviamente la legge che
dava luogo a questa trasformazione era stata approvata dal Gran
Consiglio del fascismo ed era poi passata alla Camera e al senato,
ove era stata approvata senza problemi. Non vi erano più plebisciti,
per nominare la Camera. Essa dipendeva, di fatto, dal gran
Consiglio del fascismo. Mussolini controllava il Gran Consiglio. E
tramite questo tutta la struttura dell’apparato legislativo ed esecutivo
dello stato. Ma il 25 luglio 1943 il Gran Consiglio del fascismo, con
una mozione Grandi-Bottai con 19 voti favorevoli, 8 contrari e 1
astenuto sfiduciò Mussolini dal punto di vista militare e politico,
con riconsegnando tali poteri al Re. Il Re per conseguenza lo destituì
fa Capo del governo , senza chiedere un inutile voto di fiducia alla
Camera e lo fece arrestare dai carabinieri, per evitare sommosse.
Cadeva così per auto dissolvimento il regime fascista. Questa volta la
maggioranza non era bulgara ma su 28% voti validi era comunque
del 64%, togliendo l’astenuto la mozione Grandi-Bottati di auto
dissolvimento del regime fascista aveva avuto il 66, 6% . Quella del
listone fascista nelle ultime elezioni democratiche era stata del 60, 3
%, con l’aggiunta di un 4,8% di liste civetta fasciste. In totale il 65%
. Il conto del destino era pareggiato.
STRUTTURE ECONOMICHE E VICENDE DEL PERIODO
Anno PIL (lire correnti) PIL (miliardi % crescita PIL Pop.Pop. (migliaia)
PIL pro capite
Di lire 2001) Reale (migliaia) (miliardi per mille ab.)
1925 147,838 167804 5,6 39339 4,3
1926 157,189 169278 0,9 39665 4,31927 137,706 168903 -0,2 40030 4,21928 137,987 181972 7,7 40342 4,51929 137,803 185718 2,1 40595 4,61930 122,874 173647 -6,5 40987 4,21931 110,062 174207 0,3 41277 4,21932 106,601 181795 4,4 41585 4,41933 99,046 181068 -0,4 41921 4,31934 99,709 180280 -0,4 42265 4,31935 112,152 197739 9,7 42592 4,61936 119,266 195983 -0,9 42908 4,61937 141,446 210192 7,3 43228 4,91938 153,005 210757 0,3 43610 4,81939 169,283 223715 6,1 44119 5,11940 195,758 212169 -5,2 44562 4,81941 227,592 207329 -2,3 44885 4,61942 282,516 198970 -4,0 45119 4,41943 374,916 177224 -10,9 45235 3,91944 685,572 131296 -25,9 45344 2,91945 1254,065 105466 -19,7 45540 2,3
.
Il PIL dell’economia italiana passa dai 167.000 miliardi di lire 2001
del 1925 ai 223.715 del 1939, ultimo anno non sconvolto dalla
guerra, con una crescita del 33% in 14 anni , pari al 2% circa ,
superiore dunque a quella dei precedenti periodi. La popolazione, nel
decennio cresce del 13%. Pro capite pertanto il PIL aumenta dello
1,9%: un po’ di più che nel periodo “giolittiano” di inizio del
secolo, considerato l’epoca felice. Ma le distruzioni belliche sono
mostruose. Alla fine della guerra nel 1945 il PIL è solo 105.000
miliardi di lire 2001, ossia praticamente eguale a quello dell’inizio
del secolo. E pro capite esso è sceso a 2,3 milioni di lire, meno di
quello del 1861.
NASCE IL REGIME CORPORATIVO
Nel 1925 con il patto di Palazzo Vidoni fra la Confindustria e la
Confederazione delle corporazioni fasciste e la successiva legge
sulla disciplina giuridica die rapporti collettivi di lavoro del 3 aprile
1926, fu ufficialmente inaugurato il regime corporativo
caratterizzato dall’accordo obbligatorio fra sindacato unico dei
lavoratori e organizzazione unica degli industriali (cui si affiancherà
l’analogo accordo per gli altri settori produttivi), con effetto per
tutti i lavoratori e tutte le imprese, anche non aderenti ( o iscritti
d’ufficio ) a tali organismi e regolamentazione statale integrale del
mercato del lavoro; conseguente abrogazione del diritto di effettuare
scioperi o serrate, che diventano reati contro l’economia nazionale.
Il testo del patto di Palazzo Vidoni recitava “ 1)La Confindustria
riconosce nella Confederazione delle Corporazioni fasciste e nelle
organizzazioni sue dipendenti la rappresentanza esclusiva delle
maestranze lavoratrici; 2) La Confederazione delle corporazioni
fasciste riconosce nella Confederazione dell’Industria e nelle
organizzazioni sue dipendenti la rappresentanza esclusiva degli
industriali ; 3) Tutti i rapporti contrattuali fra industriali e maestranze
dovranno intercorrere fra le organizzazioni dipendenti dalla
Confederazione dell’Industria e quelle dipendenti dalla
Confederazione delle Corporazioni; 4)In Conseguenza le
Commissioni interne di fabbrica sono abolite e le loro funzioni sono
demandate al Sindacato locale che le eserciterà solo nei confronti
della corrispondente organizzazione industriale”. La legge del 3
aprile 1926 sulla disciplina dei rapporti collettivi di lavoro dava
riconoscimento giuridico alle associazioni sindacali uniche dei
lavoratori e dei datori di lavoro e le inquadrava nello stato con il
regolamento per cui i contratti collettivi di lavoro dovevano avere
l’assenso del governo ed erano immediatamente vincolanti per tutti “
con la sostituzione della giustizia di stato all’incomposta autodifesa
di classe e con il conseguente divieto di sciopero e serrata” 17. Il
quadro si completava con la istituzione nel luglio del 1926, del
Ministero delle Corporazioni, che aveva il compito di realizzare le
regolamentazioni e le direttive statali in materia di lavoro e
previdenza sociale e coordinare le attività delle organizzazioni
sindacali dei datori di lavoro e dei lavoratori e approvare i contratti di
lavoro. Nell’aprile del 1926, le Camere di Commercio, Industria e
Agricoltura furono trasformate in Consigli Provinciali dell’Economia
Corporativa. Con successiva legge del 1927 questi Consigli esse
17 Citazione da A. ROCCO, A. ASQUINI, G. AZZARITI (1934) I rapporti fra capitale e lavoro, Annali di Economia dell’Università Bocconi, vol. IX
diventarono organi consultivi provinciali dello Stato, con membri
nominati in parte dalle organizzazioni sindacali riconosciute dei
datori di lavoro e dei lavoratori e dei professionisti e artisti (anche
queste così inquadrate nello stato fascista, come corporazioni) , in
parte fra i capi delle amministrazioni statali della provincia .
Presidente il prefetto, il vicepresidente (capo effettivo dei Consigli
provinciali dell’Economia Corporativa) era invece nominato dal
Ministro delle Corporazioni. Anche i presidenti delle varie sezioni
(commercio, industria, agricoltura, professioni, artigianato ecc )erano
nominati da tale Ministro. Gli Uffici delle camere di commercio
venivano invece trasformati in Uffici provinciali dell’Economia
Corporativa alle dipendenze del Ministero delle Corporazioni di cui
diventavano l’articolazione sul territorio.
GLI STRUMENTI DEL NUOVO DIRIGISMO . LA PRIMA
FASE CON OB BLIGHI, REMORE E INCENTIVI E
CONTROLLI SUL CREDITO, SUI CAMBI, SUL MERCATO
DEL RISPARMIO , SULLE IMPORTAZIONI E I CONSUMI ,
SULLE PRODUZIONI AGRICOLE, SUGLI ACQUISTI DEI
SOGGETTI PUBBLICI .
Il precedente della crisi della Banca Italiana di Sconto , che aveva
avuto gravi contraccolpi sul Banco di Roma, aveva indotto il
governo sotto la guida di De Stefano, nel 1923, a intervenire nel
salvataggio di questo, costituendo una apposita Società finanziaria
per l’industria e il commercio che fu fornita di denaro liquido da u n
Consorzio per la sovvenzione su valori, formato da varie banche e
capeggiato dalla Banca di Italia , che stampava la necessaria carta
moneta. La Sofind rilevò con questi mezzi gli impieghi “meno liquidi
“ (eufemismo per meno buoni) del Banco di Roma, in cambio di
ben due miliardi di lire di allora. A differenza della Banca di
Sconto, che era stata liquidata, così il Banco di Roma fu rimesso in
piedi con i soldi pubblici . Era il precedente dell’IRI , di cui si vedrà.
Comunque, questa operazione di salvataggio del “liberista” De
Stefani fornì al Conte Volpi, che gli era succeduto nel 1926, il
pretesto per stabilire il monopolio bancario. Una sua legge del 1926
stabilì che l’apertura di nuove banche era sottoposta al vaglio del
Ministro del tesoro, sentita la Banca di Italia. Essa stabilì anche un
limite ai fidi bancari, nei vari settori “onde favorire una razionale
distribuzione del risparmio fra i diversi settori della produzione ed
evitarne l’investimento solo in taluni o peggio solo in poche
aziende” 18 . Così la distribuzione del credito ai vari settori e tipi di
imprese non era più dettata dal mercato, nel rapporto fra banche e
clienti, ma era stabilita (almeno formalmente) dal governo . Fu estesa
anche la vigilanza della Banca di Italia su tutte le aziende di credito.
E per centralizzare il sistema , furono aboliti il potere di emettere
moneta cartacea del Banco di Napoli, di Roma e di Sicilia,
concentrando questo potere nella sola Banca di Italia. Il Tesoro dava
un contributo annuo di 500 milioni alla Banca di Italia, per ridurre il 18 Cfr. GUARNERI(1953 e 1988) Battaglie economiche fra le due guerre, citato, pag. 215.
suo debito verso di essa, in realtà per attrarla meglio nella propria
orbita. Questo avveniva però soprattutto con il nuovo potere che il
Conte Volpi aveva sviluppato, per lo stato, nel campo dei rapporti
monetari internazionali. Il 25 agosto del 1925 era stata stabilita la
sorveglianza sul mercato dei cambi , cioè dei pagamenti in valuta
pregiata per importazioni ed operazioni finanziarie, “ per eliminare il
quanto meno ridurre le operazioni a carattere speculativo” 19. Il 29
agosto la sorveglianza dei cambi fu trasformata in regime
obbligatorio, occorrevano , alle banche, le autorizzazioni statali per le
importazioni e le operazioni finanziarie in valuta richieste dalla
clientela. Il debito fluttuante in Buoni del tesoro ordinari,
quinquennali e settennali nel novembre del 1926 venne convertito,
per legge, in un “ prestito del Littorio” consolidato al 5% emesso al
di sotto della pari allo 87,50%. Il fascio littorio romano era diventato
il simbolo patriottico ufficiale del fascismo, con tutta la romanità (
benché originariamente il fascismo di Mussolini si chiamasse così’
con una denominazione in uso nelle leghe sindacali e patriottiche e
nelle associazioni rurali, in analogia con i fasci di frumento, legna
ecc, ).E i risparmiatori furono obbligati a questa conversione del loro
credito temporaneo in credito perpetuo, come atto patriottico.
Invece ai tempi di Giolitti, Luzzatti e Sonnino il successo della
conversione della rendita era stato affidato al mercato. Il governo
fascista non gradiva di essere giudicato dal mercato, che identificava
retoricamente con il “capitalismo speculativo” . Il regime era oramai 19 Cgr. GUARNERI (1953 e 1988) citato pag. 210.
strettamente connesso con il capitalismo industriale e bancario con
rapporti “fuori mercato”. L’Italia aveva uno squilibrio di bilancia
dei pagamenti sul cui passivo pesava per il 50% l’importazione di
grano. Nel luglio 1925 Mussolini iniziava la battaglia del grano ,
insediando il Comitato permanente per il grano e delineando una
strategia che comportava oltreché premi agli agricoltori per
aumentare il rendimento per ettaro , anche dazi di importazione sui
cereali per fare salire il prezzo interno sopra a quello internazionale.
Facevano seguirti dazi doganali sullo zucchero ,sulla seta artificiale,
sulla carta per giornali, per favorire produttori nazionali e la
formazione di monopoli nazionali settoriali. Nell’agosto del 1926 si
stabiliva la possibilità per i Ministri competenti di concerto col capo
del governo di variare i dazi di importazione “ per coordinare e
controllare il movimento di importazione delle merci ai fini della
maggiore disciplina del consumo interno e del miglioramento della
valuta”. Con legge del 1926 si fece obbligo a tutte le amministrazioni
pubbliche, aziende ed enti pubblici statali , parastatali e locali e a
quelli sottoposti a vigilanza dello stato di dare, nei loro acquisti, la
preferenza alle industrie nazionali. Imprese interessate alle forniture
pubbliche come la Fiat e numerose aziende impegnate nelle
commesse militari ne trassero grande vantaggio, ma la spinta a
migliorare la qualità dei prodotti si attenuò e lo si vide poi durante la
seconda guerra mondiale.
Nel 1927 Il Conte Volpi di Misurata non era però favorevole alla
rivalutazione della lira. La avrebbe voluta stabilizzare a 120 –125
con la sterlina e 25 con il dollaro. Mussolini voleva invece tornare ai
livelli del cambio precedenti al fascismo. Secondo autorevoli
economisti come Luigi Einaudi, la rivalutazione era opportuna ma su
un livello intermedio. Va notato che assieme al miglioramento del
cambio, essa avrebbe comportato una riduzione dei salari e dei
prezzi in lire, cioè una rivalutazione della lira sul mercato interno:
che poteva essere attuata con relativa facilità, dato che, con
l’ordinamento corporativo, era lo stato che fissava i salari e che gli
Uffici provinciali dell’economia corporativa avrebbero potuto
verificare sei i prezzi al consumo fossero conformi ai ribassi dei
salari e delle derrate di importazione e creare difficoltà agli
operatori economici che avessero sabotato la rivalutazione voluta dal
duce. Essa quindi aveva notevoli possibilità di successo , a
differenza di quel che può accadere quando la si tenti di applicare in
una economia di libero mercato. A favore della rivalutazione erano i
risparmiatori a reddito fisso, i cui risparmi erano stati taglieggiati
dall’inflazione e gli investitori internazionali che avevano capitali in
Italia espressi in lire. Erano fortemente contrari gli esportatori, dato
che la rivalutazione della lira li avrebbe reso meno competitivi sui
mercati internazionali. Ma se i salari si fossero ridotti, come era
previsto, gli esportatori avrebbero presto ritrovato il loro vantaggio
competitivo. Anche le imprese che avevano finanziato con prestiti i
propri grossi investimenti in impianti temevano la rivalutazione,
perché avrebbe creato loro un onere, che poteva metterle in seria
difficoltà . Ma le imprese maggiori sapevano che la rivalutazione
avrebbe creato una crisi a quelle meno solide difficoltà particolari ed
esse avrebbe potuto assorbirle a basso costo. Volpi che era
esponente del mondo degli esportatori e delle grandi imprese con
forti investimenti fissi finanziati a debito ,si adattò a gestire la
rivalutazione della lira , cosa che fece con notevole abilità ,
portandola alla quota ’90 voluta da Mussolini. Ma questi non si
fidava di lui , molti fascisti lo consideravano un estraneo al loro
mondo e , pertanto, il 7 luglio 1928, quando sembrava non ci fosse
più bisogno delle sue particolari competenze, fu sostituito da un
burocrate di vecchio stampo, il sessantenne senatore Antonio
Mosconi, un ex prefetto di carriera, che era stato Capo di gabinetto
della Presidenza del Consiglio dei Ministri nel 1913 , per gestire
l’ordinaria amministrazione. In realtà Mussolini intendeva dirigere
la politica economica , avvalendosi dei consigli di esperti in cui
aveva fiducia, come Alberto Beneduce.
GLI STRUMENTI DEL NUOVO DIRIGISMO .LA SECONDA
FASE CON IL CAPITALISMO DI STATO , L’AUTARCHIA
E L’ECONOMIA MONOPOLISTICA
L’economia italiana , dopo la rivalutazione della lira, nel 1928-29 era
in forte ripresa. Ma non era stata prevista la grande crisi finanziaria
internazionale del 1929, che fece precipitare la borsa di Wall Street,
il dollaro, l’economia americana, i mercati internazionali e i prezzi ,
generando la spinta dei vari paesi a svalutare la propria moneta
rispetto all’oro per evitare la perdita di competitività con io dollaro.
Mussolini però decise che l’Italia non avrebbe seguito questa linea.
La sua battaglia per la rivalutazione della lira, appena conclusa ,
avrebbe subito una clamorosa smentita. Emergeva chiara la
crescente difficoltà finanziaria delle nostre grandi banche e imprese.
Ma ciò poteva costituire l’occasione per accrescere l’intervento dello
stato nell’economia, che non si era riusciti a realizzare mediante il
sistema corporativo , che era rimasto al puro livello dei rapporti di
lavoro fra imprese e loro maestranze ed era gestito prevalentemente
dalla Confindustria, cioè dagli industriali, anziché dal governo, come
il nuovo ordinamento ideato da Alfredo Rocco e Giuseppe Bottai,
teoricamente prescriveva. Fu così deciso dalla Banca di Italia , con il
consenso del governo, un aumento del tasso di sconto al 7% per
operare una stretta del credito, che avrebbe tutelato la lira nel cambio
internazionale, ma faceva scendere la produzione industriale e
causava la crisi delle banche più deboli: cioè quelle cattoliche, che
già dal 1926, dall’epoca della rivalutazione della lira erano in forte
difficoltà. La Banca di Italia, intervenne tramite l’Istituto di
liquidazioni : alcune banche cattoliche furono lasciate fallire, altre
vennero riorganizzate : ma erano debitrici della Banca di Italia dei
mezzi messi a loro disposizione ed avevano perso, così, la loro
autonomia. E’ evidente il significato politico di questo evento,
mentre fra lo stato e la Chiesa cattolica si stipulava, appunto nel
1929, la “Conciliazione” , con i patti lateranensi. Cadeva nello stesso
anno anche la Banca Agricola Italiana, controllata dal gruppo Snia ,
che essa a sua volta finanziava. Un tentativo di salvataggio tramite
l’Istituto di liquidazioni non andava in porto e gli sportelli della
banca venivano distribuiti fra altre grandi banche. Nel 1931 anche il
Credito Italiano presieduto da Carlo Feltrinelli, amministratore
delegato della Edison, la maggiore società elettrica italiana, entrò in
crisi di liquidità, in conseguenza della crisi delle sue partecipazioni
industriali, fra le quali vi erano la stessa Edison e la Pirelli . Poco
dopo , per analoghe ragioni entrarono in crisi , anche la Banca
Commerciale Italiana (Comit), che deteneva azioni della Liquigas e
della Sip e-di nuovo- il Banco di Roma . A Mussolini , per
consolidare il suo potere politico, premeva controllare il salotto
buono del sistema economico- finanziario, in modo da rendere
docili al regime i grandi capitalisti. Così anche nel Credito Italiano,
nella Comit e nel Banco di Roma si preparò l’intervento della Banca
di Italia, questa volta con un sistema che avrebbe comportato la
presenza diretta dello stato, con quote di maggioranza, dando vita a
un nuovo sistema di economia mista. Il teorico di questa
formulazione era l’economista tecnocrate di Nitti, Alberto Beneduce
che consigliava Mussolini, recandosi da lui periodicamente a Palazzo
Venezia. L’economista-tecnocrate di scuola nittiana già aveva dato
vita ai cosidetti “ enti pubblici Beneduce”, ossia il Consorzio di
credito per le opere pubbliche (Crediop) costituito nel 1919 ,
controllato dalla Cassa Depositi e prestiti, per il finanziamento ,con
mutui a medio e lungo termine ,di opere pubbliche e lo Istituto di
Credito per le imprese di pubblica utilità (ICIPU) , istituito nel 1924 ,
per il finanziamento con mutui di medio e lungo termine di grandi
imprese impegnate nei settori elettrico, telefonico, ferroviario , della
navigazione marittima e altre pubbliche utilità. Su suggerimento di
Beneduce, venne fondata la Sfi , Società finanziaria italiana , che
rilevò dal Credito Italiano le partecipazioni azionarie in compagnie
industriali difficili da collocare sul mercato così da evitarne il
fallimento. La Sfi avrebbe poi venduto sul mercato tali partecipazioni
a un prezzo inferiore a quello a cui erano state rilevate. La perdita
sarebbero stata coperta da finanziamenti dell’Istituto di Liquidazioni:
un ente di diritto pubblico creato nel 1926, in sostituzione del
Consorzio per la sovvenzione dei valori industriali CISVI, per gestire
le partecipazioni dello Stato in attesa di poterle vendere. Il CISVI
creato nel 1914 con fondi dei tre istituti di emissione di banconote,
la Banca di Italia, il Banco di Napoli e il Banco di Sicilia, per
sorreggere la grande industria durante la grande guerra con
finanziamenti in cambio di garanzia di titoli e crediti a, lungo
termine, era stato poi prorogato nel dopoguerra ed era stato utilizzato
per rilevare l’Ansaldo (e altre imprese come l’Alfa Romeo) dando
soddisfazione parziale ai rispettivi creditori. L’Istituto di
liquidazione e la Banca d’Italia che lo sorreggeva finanziariamente ,
diventavano anche controllori della Sfi . D’altra parte a salvataggio
della Comit era intervenuta la Sonfindit , che ne aveva rilevato i
pacchetti industriali . Oramai la Banca di Italia , tramite l’Istituto di
liquidazioni, la Sfi, il CISVI, la Sofindit, la sua situazione diventava
sempre più anomala. Una Banca centrale che controlla, tramite
soggetti finanziari di salvataggio, delle banche e possiede pacchetti
di aziende industriali, da queste rilevate , per cercare di piazzarle sul
mercato era una soluzione che non poteva durare a lungo. E la
situazione della lira sui mercati internazionali si faceva sempre più
difficile. Mussolini decise un drastico “cambio della guardia” nella
guida dell’economia. E il 20 luglio 1932 sostituì il grigio Mosconi
con Guido Jung, un fascista di antica data, combattente decorato con
tre medaglie d’argento della prima guerra mondiale, banchiere ,
esperto di commercio e finanza internazionale già delegato alla
conferenza della pace di Parigi , capo della delegazione italiana alla
Conferenza economica mondiale di Londra, membro del gruppo di
tecnici che aveva operato il salvataggio del Banco di Roma nel 1923 ,
deputato dal 1924 al 1929, allora presidente dell’Istituto Nazionale
per l’esportazione. Un tecnico estremamente abile e fedele, che
durerà al potere sino al 1935. E che, come ebreo, con le leggi razziali
poco dopo, perderà ogni ruolo di rilievo nella politica economica
fascista, che aveva contribuito a plasmare nel senso del capitalismo
di stato e dell’economia monopolistica pubblica protetta legalmente
dalla concorrenza internazionale e domestica, mediante
regolamentazioni ed interventi specifici. Mussolini assunse su di sé il
Ministero delle corporazioni, che Bottai non aveva saputo gestire in
senso autoritario. Mussolini non voleva smobilitare la proprietà delle
imprese siderurgiche, meccaniche, navali , elettriche, telefoniche,
prima controllate dalle tre grandi banche ed ora nel dominio della Sfi,
della Sofindit e dell’Istituto di Liquidazioni. E il presidente della
Commerciale Toeplitz non voleva che la sua Banca, che non riuscita
a risollevarsi dalla crisi, nonostante gli interventi della Sfi, facesse la
fine della Banca di Sconto. D’altra parte liquidare tutto ciò sarebbe
stato un crack per l’intera economia nazionale. Ma Beneduce , nel
suggerire a Mussolini e Mosconi quegli schemi di intervento non era
stato certo uno sprovveduto. Aveva pronta la soluzione: uno degli
“istituti Beneduce” , il maggiore di tutti. Così nel 1933 l’ Istituto di
liquidazioni, sulla base di una bozza del Toeplitz, rielaborata da
Beneduce, fu trasformato nell’IRI, Istituto di ricostruzione
Industriale, che aveva compiti misti, in parte di liquidazione di
possessi azionari statali e in parte di loro gestione e sviluppo. Al
vertice dell’IRI andò Beneduce, All’IRI passarono le partecipazioni
della Sfi e le tre Banche che essa controllava. L’IRI era un ente di
diritto pubblico, così come voleva la dottrina Beneduce, ma gestiva
imprese organizzate come società per azioni, soggette alle norme del
diritto privato, in cui vi erano quote importanti di capitale privato.
Le banche cessavano la loro funzione di proprietarie di pacchetti di
controllo di imprese e di finanziamento a lungo termine del credito
industriale . Sul finire del 1931 era stato costituito, per questo scopo,
lo IMI, Istituto Mobiliare Italiano, ente pubblico con compiti di
finanziamento con prestiti a medio e lungo termine, che si affiancava
agli altri tre “istituti Beneduce”: Crediop, ICIPU, IRI. Si inaugurava
la cosiddetta “economia mista”. E il proposito ufficiale di liquidare
parte delle imprese nel controllo dell’IRI non veniva realizzato. Il
fascismo, con Jung alle finanze, andava in altra direzione. Nel
gennaio 1933, infatti, furono conferiti al governo i poteri per
sottoporre ad autorizzazione statale l’ampliamento degli stabilimenti
industriali e l’impianto di nuovi stabilimenti “ allo scopo di adeguare
la nazione alle condizioni economiche esistenti”. Veniva, dunque, a
cessare la concorrenza del mercato, nel campo degli investimenti
industriali. Questa legge era la logica prosecuzione di quelle che
avevano stabilito i consorzi industriali obbligatori e volontari. Il 31
dicembre 1931 e il 1 gennaio 1932 il Ministro delle corporazioni
(Bottai) aveva istituito con suoi decreti il consorzio obbligatorio dei
laminati e profilati di ferro e quello dei fabbricanti di prodotti
derivati dalla vergella. Con una legge del 16 giugno 1932 poi lo
stato dispose una speciale disciplina giuridica per i consorzi
obbligatori nella produzione e negli scambi: i monopoli venivano
così riconosciuti e disciplinati da apposite leggi, non combattuti
perché contrari ai principi del mercato di concorrenza.
Il quadro si completava nel 1936 con la inaugurazione della politica
dell’autarchia. In un discorso del 23 marzo , all’assemblea nazionale
delle corporazioni, Mussolini tracciava “il piano regolatore
dell’economia italiana nel prossimo tempo fascista” assegnandogli il
compito di “realizzare nel più breve tempo possibile il massimo
possibile di autonomia nella vita economica della nazionale,
soprattutto nel settore della difesa”20 . E’ vero, come scrive il
20 Cfr. Guarneri(1953 e 1988) Battaglie economiche fra le due guerre, Capitolo dodicesimo. L’autarchia economica e Capitolo tredicesimo Polemiche intorno all’autarchia..
Guarneri21, che ne fu protagonista, come Ministro degli scambi e
valute dal 1935 al 1940, che l’autarchia era in buona parte la risposta
del protezionismo economico italiano rispetto a quello attuato allora
da grandi nazioni industriali colpite dalla crisi come USA, Gran
Bretagna, Francia, Germania. Ma in essa vi erano due fattori che ne
fecero una politica economica estremamente dannosa per la nostra
economia. Innanzitutto, la politica autarchica non era condotta solo
con dazi protettivi o contingenti valutari sulle importazione , ma
anche con sovvenzioni e enti impegnati nella promozione e
produzione dei più diversi beni di origine nazionale. E quindi
l’autarchia diventava pretesto per interferire in modo discriminatorio
in tutta l’economia e stabilire soggetti monopolistici privilegiati.
L’autarchia diventava la copertura politica di una economia di
monopoli industriali , commerciali, nei servizi che spesso aveva solo
la logica del potere monopolistico, non dello sviluppo di una
economia domestica capace di confrontarsi con quella dei paesi
avanzati. Inoltre fra il protezionismo e l’autarchia vi era ( e vi è)
una notevole differenza concettuale, che comportava effetti pratici
non indifferenti, di spreco di risorse e di illusione circa la solidità
dell’apparato economico : la pretesa di sostituire tutte le importazioni
con produzioni domestiche è un assurdo. Come lo stesso Guarneri
non può fare a meno di notare, non si poteva pensare di sostituire con
surrogati fantasiosi certe materie prime, di cui noi non disponevamo
o solo in misura limitata come il ferro o il petrolio. E in alcuni casi 21 Nell’opera citata, nei capitoli citati
la fantasia aveva portato a escogitare prodotti stravaganti , di cattiva
qualità ed alto costo come il Lanital, la lana fatta con il latte , mentre
vi era in Italia la possibilità di produrre buona lana vera , data la
grande estensione del nostro patrimonio ovino, per lo più utilizzato
quasi solo per la carne e il latte.
IL PEGGIORAMENTO PROGRESSIVO DEL BILANCIO E DEL
DEBITO PUBBLICO
Anno Debito pubblico Pil Debito fluttuante Debito pubblico/ Debito fluttuante /
a prezzi correnti a prezzi correnti A prezzi correnti Pil Debito pubblico (miliardi di lire ) ( miliardi di lire ) ( miliardi di lire ) % %
1924 93,444 118,08 30,267 79% 32,4% 1925 90,78 147,838 25,422 61% 28,0% 1926 91,242 157,189 25,689 58% 28,2%
1927 82,881 137,706 18,8916 60% 22,8% 1928 87,006 137,987 2,126 63% 2,4% 1929 87,689 137,803 3,035 64% 3,5% 1930 88,781 122,874 4,409 72% 5,0% 1931 91,418 110,062 5,484 83% 6,0% 1932 95,936 106,601 7,556 90% 7,9% 1933 98,029 99,046 9,782 99% 10,0% 1934 105,164 99,709 11,206 105% 10,7% 1935 105,836 112,152 11,39 94% 10,8% 1936 117,345 119,266 20,291 98% 17,3% 1937 128,802 141,446 25,366 91% 19,7% 1938 140,11 153,005 35,98 92% 25,7% 1939 153,99 169,283 49,36 91% 32,1% 1940 191,05 195,758 63,99 98% 33,5% 1941 261,16 227,592 97,5 115% 37,3% 1942 349,91 282,516 134,68 124% 38,5% 1943 455,77 374,916 220,15 122% 48,3% 1944 588,86 685,572 356,1 86% 60,5% 1945 938,12 1254,065 598,68 75% 63,8%
Il debito pubblico italiano, in conseguenza della politica di
conversione obbligatoria del Conte Volpi nel 1926 era sceso al 58%
del PIL. Ma dal 1927 in poi risalì gradualmente, sotto la spinta
dell’intervento finanziario a favore delle imprese in crisi e ,
successivamente, delle difficoltà economiche che influivano
negativamente sulla crescita del PIL e sul gettito delle imposte, che
di conseguenza non era abbondante. Ma il debito fluttuante, nel
quadro delle manovre tendenti a rafforzare la lira, fu ridotto a un
modesto livello. Il rapporto peggiore del debito al PIL fu raggiunto
nel 1934 , in periodo di crisi economica ( il PIL del 1933 e 1934
risultò in regresso dello 0,4% annuo), con un livello del 105% . Il
debito pubblico in rapporto al PIL decrebbe, poi, nel 1935 al 94%
nonostante le spese per la guerra di Etiopia ,sia perché essa ed altri
fattori generò anche una grossa ripresa, che diede luogo ad entrate
abbondanti, sicché il bilancio del 1935 non ebbe deficit. Nel 1936
però la situazione peggiorò nuovamente, il debito arrivò poco lontano
dal 100% del PIL , perché il PIL subì un declino di quasi lo 1%.
L’anno seguente, grazie alla nuova ripresa della crescita il rapporto
fra debito pubblico e PIL scese al 91% e su questo livello rimase per
un triennio. Con la guerra, nel 1940, balzò di nuovo al 98%. Poi salì
al 122% e al 125% . L’inflazione degli anni tragici del 1944 e 1945
lo riportò al 75%, nonostante i grandi disavanzi dei bilanci pubblici,
del paese devastato dal conflitto sul proprio territorio. Dal 1936,
mentre il rapporto debito/Pil subiva alterne vicende , il debito
fluttuante prese sistematicamente a salire sul debito complessivo e
nel 1945 esso era oramai il 63% del debito complessivo. I governi
ECONOMIA ITALIANA 1945-1962
QUARTO PERIODO: DAL 1943 AL 1962. IL MIRACOLO ECONOMICO IN REGIME DI
DEMOCRAZIA E LIBERO MERCATO
GLI ANNI BUI DI TRANSIZIONE ALLA PACE E ALLA LIBERTA’
TAVOLA 1
DINAMICA DEL PIL 1943-49
Anno PI(lire Coefficiente corren rivalutazione
PIL (miliardi % variaz % PIL variazione PIL Pop.Pop. (migliaia)
PIL pro capite
ti) ne in lire2001 Di lire 2001) PILreale Reale con prezzi PIL (migliaia) (miliardi per mille ab.)
1938 153,0 1377 210.681 43610 4,81939 169,3 1319 221.690 +5,1 +7,7 44119 5,01940 195,7 1130 220. 350 -0,5 -1,22 44562 4,91941 227,6 976 223.504 +1,4 -0,11 44885 5,0 1942 282,5 845 240.828 +7,75 -2,3 45119 5,31943 374,9 5 04 168.336 -20,00 -22,28 45235 37, 1944 685,6 113 131296 -21,59 - 20.97 45344 2,91945 1254,1 5 7 58 105466 -31,31 -21,77 45540 2,31946 2989 48.79 145.830 +38,27 +31,12 45910 2,31947 6014 30.10 181.020 +24,13 +15,27 46210 3,9 1948 7088 28.43 201.511 +11,32 +12,41 46552 4,31949 7640 28.02 214.072 +6,2 +8,5 46914 4,6
Fonti .Mia elaborazione su dati Istat, con Pil reale calcolato con gli indici dei prezzi al consumo e tassi di crescita calcolati su tale PIL e dal PIL deflazionato con prezzi impliciti 1938 calcolato da Paolo Ercolani, Documentazione Statistica di base,in G. Fuà(a cura di ) Lo sviluppo economico in Italia, vol.III, Studi di settore e documentazione di base,Milano, Angeli, 1969 e 197. Il PIL pro capite è desunto dai dati Istat deflazionati con i prezzi al consumo.
Il prodotto nazionale italiano, dal 1940, anno dell’entrata in guerra
era cominciato a diminuire , rispetto al precedente periodo(va per
altro notato che nel 1939 esso aveva subito un rilevante aumento,
perché l’Italia, mentre non affrontava alcuno sforzo e rischio
bellico, usufruiva della domanda dei paesi impegnati nel conflitto
mondiale) Si nota che la variazione in diminuzione è più sensibile nel
PIL calcolato ai suoi prezzi che in quello valutato con i prezzi al
consumo. Ciò a causa del sistema di prezzi calmierati , introdotto
durante la guerra. Nel biennio seguente il PIL calcolato con i prezzi
al consumo subisce un aumento, dovuto al calmiere , ma nella realtà
esso comincia a diminuire di un 3%. Nel 1943 esso cade di un quinto
con i prezzi al consumo calmierati e sensibilmente di più in termini
reali. Nel 1944 il PIL italiano cade ancora di un quinto, sia con i
prezzi al consumo che in termini reali. Nel 1945 la caduta al
consumo è di quasi il 40% a fronte di una minor riduzione del PIL
in termini reali , calcolata in un 30% circa (ma si tratta di stime
opinabili, dato il disordine bellico nella prima parte dell’anno) : il
regime dei prezzi controllati consente una fittizia situazione di
maggior prodotto, rispetto a quello effettivo calcolato sulla base
dell’inflazione a livello di prezzi all’ingrosso e alla produzione . Nel
1946 il PIL cresce in termini reali di un 30% e di un 38% al
consumo, perché operano ancora i calmieri su alcuni prezzi di beni
e servizi di consumo . Nel 1947 nuova grossa crescita, più ampia al
consumo che in termini reali. Nel 1949 la crescita reale , con pesi dei
beni del 1938, è dello 8,5% nel PIL , mentre è del 6,2% al
consumo perché alcuni calmieri dei prezzi vengono allentanti . Nel
1948-1949 , in termini reali il PIL , anche con pesi del 1938, è
oramai al livello del 1938. Lo supera con riferimento ai prezzi al
consumo. La popolazione, frattanto, nonostante le perdite durante il
conflitto, era continuata a crescere e, pertanto, nel 1949 il PIL per
abitante , calcolato con i prezzi al consumo era ancora lievemente
inferiore a quello del 1938. Presumibilmente però considerando ,
per il calcolo del PIL non i prodotti rappresentativi del PIL del
1938, ma quelli del 1954 , il prodotto per abitante in termini reali era
oramai di valore equivalente a quello del 1938.
Il periodo bellico e postbellico è caratterizzato da una inflazione
elevata, che segue un ciclo prima di accelerazione e poi di
decelerazione, in concomitanza con le vicende politiche. Dal 3% del
1939, il tasso di inflazione , misurato sui prezzi del prodotto
nazionale, balza al 37% nel 1940, viene contenuto al 28% grazie da
operazioni dirigiste, nell’anno seguente, ma poi torna a salire al 52%.
Con la crisi politico-militare del 1943 la spirale inflazionistica prende
a galoppare, superando il 100% mentre il prodotto nazionale declina.
Nel dopoguerra per un biennio rimane assai al di sopra del 50%, poi
con il 1947-48 grazie ad energiche manovre di politica monetaria e di
politica economica viene messa sotto controllo .
TAVOLA 2
INDICE DEI PREZZI DAL 1938 AL 1948
Prezzi Prezzi Tasso di inflazione annuo Ingrosso al minuto Ingrosso Al minuto Implicito nel PIL 1938 1,00 1,00 - 1939 1,04 1,04 4 ,0 4,0 3,0 1940 1,23 1,22 18,26 17,31 36,8 1941 1,36 1,41 10,56 11,47 27,7 1942 1,53 1,62 12,50 15,55 51,7 1943 2,29 2,73 49,60 68.5 125,6 1944 8,58 12,52 274,00 358,6 116,7 1945 20,60 23,92 140,10 91,0 79,3 1946 51,59 28,29 150,00 18,26 66,4 1947 54,43 45,75 5,50 61,7 8,7 1948 51,69 48,44 + 0.94 5,8 -2,8 Fonte Per i prezzi ingrosso e al minuto , ISTAT, Annuario Statistico Italiano, 1955, Roma p.438, TAV.481 Per l’inflazione calcolata sui prezzi ingrosso e al minuto, mia elaborazione sui dati Istat. Per quella sui prezzi impliciti del PIL, mia elaborazione su P.ERCOLANI, Documentazione statistica di base, in G.FUÀ (a cura di) Lo sviluppo economico in Italia, Vol. III Studi di settore e documentazione di base, Milano Angeli, 1969 e 1975
VICENDE POLITICHE DEL PERIODO
Nel 1943 , a causa della guerra , il territorio nazionale viene diviso
in due parti:da un lato quello , in cui opera il governo legittimo, che
si estende dal Sud verso il Centro e il Nord, mano a mano gli alleati
(gli anglo americani , con l’ausilio di truppe coloniali francesi del
Marocco , dell’Algeria e della Tunisia ) , originariamente sbarcati in
Sicilia, conquistano parti della penisola e dall’altro quello controllato
dai tedeschi, affiancati dalla Repubblica Sociale Italiana costituita da
Mussolini nell’ottobre 1943, con governo a Salò, contro cui operano
le formazioni partigiane del Comando Volontari della Libertà, sotto
la guida politica del Comitato Nazionale Liberazione Alta Italia
(CNL-AI) , costituito dai partiti politici antifascisti che hanno la loro
centrale palese nel Sud e poi a Roma e quella clandestina a Milano.
TAVOLA 3
I GOVERNI LEGITTIMI ITALIANI NEL PERIODO DI
OCCUPAZIONE E GUERRA CIVILE 1943-1945
PRESIDENTI DEL CONSIGLIO MINISTRI FINANZIARI
TESORO FINANZE
P.Badoglio I 25-7-43 ---22-4-44
G.Pellegrini
P.Badoglio II 24-4-44---6-6-44
D.Bartolini-G.Jung
I.Bonomi I 11-6-44---25-11-44 M. Soleri
S.Siglienti
I.Bonomi II 12-12-44—12-6-45 M. Soleri A.Pesenti
La nuova fase politico-istituzionale del Regno di Italia, inizia nel
1943 con la caduta del governo di Mussolini, messo in minoranza
con l’ordine del giorno Grandi-Bottai del Gran Consiglio del
fascismo, che era il supremo organo dello stato. Il potere di nomina
dei governi tornava al Re, che in effetti procedette a nominare capo
del primo governo non fascista, il maresciallo Pietro Badoglio.
Questi , per un breve periodo sino allo 8 settembre ottobre del 1943
poté governare su tutta l’Italia, salvo la Sicilia e la Calabria oramai
conquistata dagli alleati. L’8 settembre, mentre gli alleati sbarcavano
a Salerno, Badoglio annunciava che l’Italia aveva concluso un
armistizio con gli alleati e invitava l’esercito a resistere a chiunque lo
attaccasse, senza per altro precisare se esse dovevano ora
considerarsi al fianco degli alleati o rimanere neutrali e difendersi dai
tedeschi. Questi immediatamente assalirono le forze militari italiane
allo sbando, disarmandole e assediarono Roma , da cui frattanto
Badoglio e il Re fuggivano , recandosi a Pescara, da cui venivano
imbarcati su una nave e portati a Brindisi occupata dagli alleati. Il 10
settembre dopo una breve resistenza le truppe italiane che
difendevano Roma, capitolavano a quelle tedesche che occupavano la
capitale e tutta l’area da Napoli sino al Nord . Il 13 ottobre,
tardivamente Badoglio dichiarava la guerra alla Germania, ma
all’Italia non veniva riconosciuto lo status di membro degli stati
“alleati “. Nel Febbraio 1943 il governo Badoglio si trasferiva a
Salerno . Frattanto gli alleati erano oramai arrivati a Cassino Il 22
aprile Badoglio costituiva il suo secondo governo, a cui
parteciparono tutti i partiti antifascisti, compreso il PCI guidato dal
suo leader Palmiro Togliatti , giunto da Mosca , che vi assunse la
carica di Ministro senza portafoglio, assieme ai rappresentanti degli
altri partiti antifascisti “di “unità nazionale” facenti parte del CLN.
Iniziava così la lunga fase storica, conclusa solo nel 1994, in cui i
partiti “antifascisti” rappresentavano l’unità democratica nazionale,
in contrapposto ai fascisti e poi al Movimento Sociale Italiano che
rappresentavano l’anti democrazia. Fu poi cura di Togliatti di
sostenere costantemente la linea di partecipazione dei comunisti al
governo, chiunque lo guidasse, per affermare la natura democratica
del partito comunista (che pure prendeva ordini direttamente
dall’URSS a Mosca) e il principio della omogeneità fra i partiti
antifascisti di unità nazionale iniziata con la “svolta di Salerno.” Il 4
giugno Roma viene liberata dagli alleati, Il Re si ritira dall’attività
istituzionale , ma- secondo un tortuoso suggerimento dell’astuto
giurista liberale Enrico De Nicola, che dopo aver fatto parte del
blocco nazionale del 1921 e avere appoggiato senza esitazione il
governo fascista , era entrato nel “listone” del 1924, abbandonandolo
in extremis , per dedicarsi prudentemente alla professione forense-
non abdica e nomina suo figlio Umberto luogotenente generale del
Regno. Ciò, come vedremo, nuocerà alla causa monarchica e sarà fra
i fattori per cui essa perdette il referendum del 1946 fra monarchia e
repubblica, con un minimo scarto di voti. Il Maresciallo Badoglio, il
cui governo, anche quello con i partiti di unità nazionale, era stato
estremamente grigio e inconcludente, presenta le dimissioni e
Umberto affida la presidenza del consiglio a Ivanoe Bonomi. Vi
entrano come Ministro senza portafogli, accanto a P. Togliatti per il
PCI , anche due leaders che faranno, fra poco la storia di Italia: A.
De Gasperi per la DC e G. Saragat per i socialisti A fine novembre , a
causa di contrasti fra moderati e sinistre, Bonomi dà le dimissioni ,
con il reincarico, il 12 dicembre forma un governo da cui sono
assenti socialisti e partito d’azione, mentre Togliatti decide che i
comunisti vi debbono comunque partecipare e assume la vice
presidenza del consiglio mentre il Democristiano Alcide De Gasperi ,
futuro leader dei governi democratici italiani sino al 1954 assume gli
esteri.. Liberata Milano e quasi tutto il Nord il 25 aprile 1945 , il 27
aprile Mussolini viene catturato dai partigiani della Valtellina a
Dongo e il 28 viene fucilato da un inviato del Comitato Nazionale di
Liberazione Alta Italia , che lo aveva condannato a morte.
L’esecutore personale della sentenza è un partigiano comunista, il
colonnello Valerio ( che si ritiene fosse il partigiano piemontese
Walter Audisio).
TAVOLA 4
GOVERNI ITALIANI DALLA LIBERAZIONE (1945) AL 1948
PRESIDENTI DEL CONSIGLIO MINISTRI FINANZIARI
TESORO FINANZE
BILANCIO
F.Parri 21-6-45---24-11-45 Unità Nazi. M.Soleri F.Ricci
M.Scoccimarro
A.DeGasperi I 10-12-45--1-7-46 Unità Naz E.Corbino M.Scoccimarro
A.DeGasperi II 15-7-46--20-1-47 Unità Naz. E.Corbino-G.Bertone M.Scoccimarro
A.DeGasperi III 2-2-47--13-5-47 con PCI e PSI P.Campilli P.Campilli
A.DeGasperi IV 31-5-47--12-5-48 Senza Sinistre G.DelVecchio G.Pella
L.Einaudi
L’8 maggio la Germania capitola. L’11 giugno si insedia il primo
governo di unità nazionale con giurisdizione su tutta l’Italia , la
presidenza del Consiglio va a F. Parri, leader del Partito d’Azione.
Palmiro Togliatti diventa Ministro della Giustizia , mentre Alcide De
Gasperi rimane agli Esteri . Il 10 dicembre liberali lasciano il
governo Parri, accusandolo di cattiva amministrazione, la DC
abbandona anche essa il governo e l’incarico di formare quello nuovo
va a De Gasperi, che mantiene Togliatti alla giustizia. In seguito i
comunisti otterranno sempre il Ministero della Giustizia , con Fausto
Gullo in tutti i governi a guida DC di unità nazionale di cui faranno
parte, sino al maggio 1947, in cui saranno costretti a passare
all’opposizione. Non sembra che si trattasse di una scelta
occasionale. L’intento era quello di creare una nuova classe di
magistrati, con una concezione della dottrina giuridica basata su una
interpretazione sociale del diritto.
Il 2 giugno del 1946 a seguito del referendum fra monarchia e
repubblica, viene proclamata la Repubblica che vince con
12.717.923 voti su 24.946.942 votanti, pari 51,19% con uno scarto di
meno di 250 mila voti rispetto al 50% che era 12.473.471. Nella
stessa data viene eletta l’assemblea costituente.
TAVOLA 5
LE ELEZIONI PER L’ASSEMBLEA COSTITUENTE 1946-1948
Partito Voti % Seggi
%
Democrazia Cristiana 8.101.004 35,2 207 37,2
Partito Socialista Italiano 4.758.129 20,7 115 20,68
di unità proletaria
Partito Comunista 4.366.686 18,9 104 18.70
Unione Democratica Nazionale 1.560.638 6 ,8 41 7,37
Fronte dell’Uomo Qualunque 1.211.956 5,3 30 5.39 Partito Repubblicano Italiano 1.003.007 4,4 23 4,13 Blocco Nazionale della Libertà 637.328 2,8 16 2,87
Partito d’azione 334. 748 1,5 7 1,26 Movimento per l’indipendenza 171.201 0,7 4 0,72 della Sicilia Partito dei Contadini di Italia 102.393 0,4 1 0,17 Concentrazione democratica 97.690 0,4 2 0,35 Repubblicana
Partito Sardo d’Azione 79.154 0,3 2 0,35
Movimento unionista italiano 51.083 0,3 1 0.17
Partito cristiano sociale 40.62 3 0,2 1 0.17
Partito democratico del lavoro 40.034 0.2 1 0.17
Partito democratico progressista 21.853 0,1 1 0.17
repubblicano
Altre liste 412.650 1,8 0 0,00
Schede nulle 1.203. 641 5,2 0 0,00
Schede bianche 643.0 67 2,6 0 0,00
556 100,00
Sino al 1946 i governi legittimi non erano stati eletti . Con il 2
giugno 1946 la grande svolta: si tengono le prime elezioni
democratiche , dalla lontana epoca del 1921 (quelle del 1924 erano
già inficiate dal potere fascista, che le condizionava ). Il sistema
elettorale era quello proporzionale puro, che rimarrà sostanzialmente
in vigore sino al 1994. E , come sappiamo, esso comportava un
grande ruolo per i partiti organizzati , ma anche un notevole
frazionamento della rappresentanza, in una molteplicità di
raggruppamenti o partiti. E’ evidente che la DC fronteggiava un
blocco di comunisti e socialisti, uniti da patto di unità di azione che,
assieme, superavano i 9 milioni di voti ed avevano una forza
parlamentare superiore. Con il blocco Democratico nazionale, in cui
vi erano 25 aderenti al partito liberale, 13 aderenti alla democrazia
del lavoro di Meuccio Ruini e un gruppo di indipendenti la DC
arrivava a 248 voti, cui si poteva aggiungere quello di Ivanoe
Bonomi , ispiratore del raggruppamento, che si era fatto eleggere
con una propria lista . Anche con i voti dell’Uomo Qualunque,
comunque non molto affidabile, non era in grado di arrivare alla
maggioranza assoluta. La avrebbe di poco superata aggiungendo i
monarchici del blocco nazionale della libertà. E non avrebbe potuto
effettuare una maggioranza aggiungendo all’Unione democratico
Nazionale , i repubblicani in cui erano confluiti anche i due esponenti
della Concentrazione democratica , gli ex azionisti Parri e La Malfa
che erano 25 . Il totale sarebbe stato di 274 voti, mentre la
maggioranza assoluta era di 278. E non si poteva sperare nei nove
esponenti del partito d’azione , che guardavano in linea preferenziale
al blocco social comunista. La situazione cambiò drasticamente
quando ai Democristiani e i liberali si aggiunsero 52 scissionisti
democratici del PSI, che erano il 9,3% . A quel punto uno
schieramento della DC con i socialdemocratici ed i liberali e i demo
laburisti godeva di una maggioranza del 54% ed era ovvio che essa,
anche senza un appoggio esplicito dei repubblicani sarebbe stata in
grado di governare l’Italia, ma era evidente che i repubblicani vi si
sarebbero associati, in quanto desiderosi di essere protagonisti di una
linea di economia di mercato “di terza via “ e di rigore nella finanza
pubblica , come infatti accadde.
L’ECONOMIA E LA POLITICA ECONOMICA NEL
PERIODO DELLA RICOSTRUZIONE
Il deficit dell’esercizio finanziario 1944-45 è impressionante, ma
comprensibile. L’Italia per più di metà di questo periodo era rimasta
divisa in due e il governo legittimo non aveva potuto operare in
quella più importante, il Nord. Il Ministro del Tesoro Marcello Soleri
, nonostante i suoi sforzi eroici , che lo portarono a una morte
precoce a 63 anni nel luglio 1945, non riuscì a bloccare l’inflazione.
Essa nel 1944 aveva raggiunto il livello spaventoso del 274 % nei
prezzi in grosso e del 358% in quelli al minuto. Nel PIL l’indice di
inflazione implicito, che allora ovviamente non si conosceva (poiché
ancora in Italia non si calcolava il prodotto nazionale) era al 116%,
Era riuscito ad abolire , nei primi mesi del 1945 la sovvenzione
pubblica al prezzo politico del pane, che venne per altro reintrodotta
pochi mesi dopo. Ebbe successo il “prestito per la liberazione” , da
lui lanciato subito dopo la liberazione del Nord , con la emissione di
buoni del tesoro a scadenza quinquennale e tasso di interesse del 5%,
che rese 106 miliardi di lire .La sua morte e la sostituzione con il
senatore liberale Federico Ricci, esperto di finanze, ma privo di
esperienza politica, misero la politica finanziaria del governo Parri
nelle redini del Ministro delle Finanze , il comunista Mauro
Scoccimarro, dottore in economia e commercio, con un lungo passato
di rivoluzionario , di prigioniero politico e di leader della sinistra
comunista intransigente. Oramai il governo nazionale operava su
tutto il paese. Con la fine del 1945 era cessata la causa maggiore di
inflazione, costituita dalla stampa di carta moneta da parte dei
tedeschi e degli alleati, nei rispettivi territori. Einaudi diventato
governatore della Banca di Italia nell’aprile del 1945 premeva per
una energica lotta all’inflazione mediante la politica fiscale e, nello
stesso tempo, per il ritorno al libero mercato, nel campo del
commercio estero e delle relative disponibilità di valuta . Ma
rimanevano, come causa fondamentale di inflazione, la stampa di
carta moneta per il deficit pubblico causato anche da sovvenzioni per
i prezzi politici come quello del pane e la elevata velocità di
circolazione della carta moneta, dovuta alla psicosi inflazionistica. Il
Ministro delle Finanze Scoccimarro era consapevole del fatto che
contenendo la quantità di carta moneta in circolazione e dando
segnali per cui l’inflazione , dovuta alla stampa di biglietti, non
sarebbe continuata , l’inflazione si sarebbe bloccata . Ma sosteneva
che il cambio della moneta , attuato per censire tutte le ricchezze
degli italiani, grandi e piccole e controllare tutti i depositi bancari ,
accompagnato da una imposta del 10% sulle scorte di moneta ,sui
depositi bancari,sui titoli a reddito fisso e affiancata da una
patrimoniale progressiva, che tenesse anche conto dei guadagni
speculativi di guerra e dopoguerra, poteva servire a mettere ordine
nel sistema economico e finanziario , mentre era restio a ridurre il
deficit pubblico, finanziato emettendo banconote, perché pensava che
ciò avrebbe contribuito a ridurre la disoccupazione, tramite
l’aumento della domanda globale. Le due linee erano contraddittorie.
Infatti l’espansione della domanda globale, mediante il deficit
pubblico e la stampa di carta moneta avrebbe potuto stimolare
l’economia, pur con notevoli rischi di inflazione, a condizione di
lasciare interamente libera da impacci l’offerta, quindi il capitale
privato e le banche. Ma il predicare la falcidia dei risparmi e dei
profitti e nello stesso tempo l’espansione della domanda comportava
di generare sfiducia nella moneta e di gettare benzina sul fuoco
dell’inflazione. Fortunatamente alla linea Scoccimarro, appoggiata
dalla stampa comunista, a livello divulgativo e con la rivista Critica
Economica , si contrapponeva la linea di Einaudi , che riteneva che
la lotta all’inflazione fosse necessaria per incoraggiare il risparmio e
quindi generare le basi dello sviluppo economico e dell’occupazione
e dare fiducia al risparmio, anche con la riduzione dei prezzi politici
sovvenzionati dallo stato, come quello del pane, in ciò affiancato dal
nuovo Ministro del tesoro del governo Parri Marcello Soleri .
Einaudi si opponeva fermamente al cambio della moneta, in quanto
comportava la abrogazione del segreto bancario e la probabile
vessazione dei risparmiatori. La morte prematura di Soleri e la
sostituzione con Ricci però, come si è detto, avevano reso più
precaria la sua linea, alla Banca di Italia, perché non affiancata dalla
politica economica governativa. Frattanto l’inflazione galoppava: nei
prezzi all’ingrosso nel 1954 procedeva al ritmo del 140%, in quelli al
minuto, con i prezzi politici, veniva contenuta al 91%. Nei prezzi
impliciti del PIL era sull’80%. Data la crescita dei prezzi
all’ingrosso , niente di buono si prometteva per l’inflazione del 1996,
nella produzione e nel commercio ingrosso. Ma comunisti e per
loro Scoccimarro nel governo Parri erano contrari a qualsiasi misura
di rigore, mentre continuavano a lanciare messaggi contro la
speculazione e gli arricchiti e a fare minacce di imposte espropriatici.
Per di più l’apparato amministrativo dello stato era in disordine,
anche perché i comunisti e gli azionisti continuavano a esercitare e
minacciare l’epurazione dei massimi dirigenti e dei quadri intermedi.
Scoccimarro , abile tribuno politico, non aveva esperienza in materia
fiscale e la macchina tributaria aveva bisogno di essere rimessa in
sesto. L’accusa di cattiva gestione della cosa pubblica e di demagogia
circa le imposte espropriatici , sostenuta dai liberali, fu fra le cause
della caduta dell’incolpevole e probo presidente Parri, che era un
buon economista ma non era riuscito a prendere in mano la
situazione. Il successivo governo De Gasperi ebbe una sorte un po’
migliore, nel cercare di ridurre l’inflazione originata dakl bilancio
pubblico grazie all’azione del Ministro del Tesoro Corbino , brillante
economista liberale, seguace delle idee di Einaudi di cui era stato
allievo . Ma Mauro Scoccimarro svolgeva, nei riguardi di Corbino e
di Einaudi e in genere dei fautori del mercato , una tenace
opposizione. Nel 1946, assieme alla ricostruzione, era già cominciata
la ripresa economica, tanto che alla fine del 1946 il prodotto
nazionale era potuto superare il livello del 1943 , mentre la media
del 1946 rimaneva di poco al di sotto di quella del 1943. Il tasso di
inflazione all’ingrosso nel 1946 fu peggiore di quello del 1995,
mentre al minuto le cose andavano meglio in parte grazie agli aiuti
americani, in parte mediante il controllo dei prezzi, che per altro non
poteva reggere a lungo. Nei prezzi impliciti dle PIL l’inflazione era
al 66%. Appariva ancora preoccupante il deficit del bilancio statale
del 1946-1947 in cui il PIL era rapidamente cresciuto, in termini reali
e in termini monetari: il disavanzo, anche con l’apporto delle partite
finanziarie, rimaneva all’11% , mentre quello economico fra spese
effettive ed entrate effettive era attorno al 12%. Si volle dare la colpa
della pressione inflazionistica alla linea della Banca di Italia che,
guidata da Einaudi, favoriva il credito agli operatori economici per i
loro investimento e nell’aprile del 1946 aveva ridotto al 50%
l’obbligo per gli esportatori di deposito della valuta ottenuta in
pagamento , che ne aveva accresciuto la disponibilità di lire per i
loro impieghi in quanto il cambio libero era più che doppio di
quello ufficiale di 250 lire per dollaro. Ciò aveva aumentato la
circolazione di lire sul mercato interno, ma anche la disponibilità di
valuta per comperare materie prime e impianti dall’estero e quindi
accrescere la produzione e le esportazioni e aveva fatto riaffluire in
Italia capitali che erano stati occultati dagli esportatori, mediante
sottofatturazioni per non sottostare al cambio artificioso di 250 lire
per dollaro. E in effetti il cambio della lira dopo esser salito sino a
900 lire con il dollaro nel maggio scese verso le 650 nel settembre
1947. Ma nel 1946 clima di aspro dissenso fra i comunisti
spalleggiati dai socialisti di Morandi e i democristiani e i liberali ,
circa gli indirizzi di politica economica e lo stesso principio di tutela
della proprietà privata, con l’incombente minaccia del cambio della
moneta come strumento per abrogare il segreto bancario e
taglieggiare i risparmi e i profitti , era naturale che l’inflazione si
scatenasse ancora quando oramai la allegra stampa di carta moneta
da parte degli eserciti di occupazione era terminata. Einaudi non
poteva ancora attuare il controllo dell’espansione della massa
monetaria, che avrebbe desiderato effettuare, perché non si sentiva
spalleggiato dal governo. Sui sarebbe trattato di misure impopolari e
la sua autonomia, come governatore della Banca di Italia era molto
ristretta , dato che egli era un esterno di nomina governativa e anche
il direttore generale Menichella che aveva chiamato a collaborare con
lui era un esterno di nomina governativa. La soluzione che
Scoccimarro voleva era il cambio della moneta, non la stretta del
credito ed era ovvio che se Einaudi avesse predisposto la stretta del
credito, essa sarebbe apparsa alternativa al cambio della moneta e
non sarebbe potuta andare in porto, per superiori ragioni politiche.
E’ equi dare a Scoccimarro e al PCI , sostenuto, allora dai socialisti,
la colpa piena dell’inflazione del 1946. L’aspro conflitto di Epicarmo
Corbino con Scoccimarro, in tema di cambio della moneta indusse
Corbino a rassegnare le dimissioni nel settembre del 1946. De
Gasperi lo sostituì con il democristiano Giovan Battista Bertone, che
era stato Ministro delle Finanze prima del fascismo nei governi
Facta. Bertone , era favorevole al cambio della moneta , ma con una
linea moderata . Ed era più pesante politicamente di Corbino , data la
sua appartenenza al partito di maggioranza relativa. Egli poté perciò
lanciare il 15 novembre un prestito trentennale della ricostruzione al
3,5% emesso però sotto la pari a 97,5 lire , che frutterà ben 235
miliardi. Il prestito doveva servire per pagare la futura imposta
straordinaria sul patrimonio, collegata al cambio della moneta. Ma
oramai si cominciava a capire che il cambio della moneta non
avrebbe comportato la linea espropriatrice dei comunisti, spalleggiati
dai socialisti perché il clima politico andava mutando. Infatti il 20
novembre, 5 giorni dopo il lancio del prestito, Giuseppe Saragat , in
una intervista a Il Giornale di Italia, attaccava la linea del Partito
Socialista perché troppo vicina a quella comunista e chiedeva la
convocazione di un congresso straordinario. E l’11 di gennaio
avveniva la scissione fra socialisti massimalisti e socialisti
democratici, di cui fra un attimo si vedrà. Era allora evidente che la
linea economica dei comunisti non avrebbe più potuto prevalere .
Così il cambio della moneta punitivo stava rapidamente sfumando.
TAVOLA 6 BILANCI STATALI DAL 1944-45 AL 1949-50
Parte effettiva Movimento di capitali Deficit PIL Deficit/PIL Spese Entrate Spese Entrate 1944-45 311 64 8 43 211 970 21,7 1945-46 568 160 52 98 363 2.122 17,1 1946-47 916 382 298 338 494 4. 500 10,9 1947-48 1.696 851 211 140 917 6.551 14,0 1948-49 1.634 1.140 101 44 552 7.364 7,4 1949-50 1.716 1.418 230 341 185 8.015 2.3 Fonte ISTAT Sommario di statistiche storiche dell’Italia-1861-1965, Roma 1968 pag. 139,Tav.107
Scoccimarro era riuscito a far eliminare Corbino, che veniva
impiccato in effigie sulle piazze, come affamatore del popolo. Ma la
pesante ipoteca del partito comunista sul governo che aveva
esercitato un pesante condizionamento negativo della politica
economica, ora volgeva alla fine, a causa della scissione del Partito
socialista (denominato allora PSUP) che ebbe luogo, durante il XXV
Congresso, l’ 11 gennaio del 1947, con l’annuncio da parte di
Giuseppe Saragat che a Palazzo Barberini stava iniziando un nuovo
congresso dei socialisti democratici , per dare vita a un partito
autonomo dal patto di unità di azione con i Comunisti , che si sarebbe
denominato PSLI . 52 deputati lasciarono lo PSIUP (che assunse la
denominazione di PSI) e, in gran parte, confluirono nello PSLI, un
gruppo guidato da Ignazio Silone , dichiaratamente anticomunista,
rimaneva autonomo e confluirà nello PSLI in un secondo tempo.
Oramai era possibile una maggioranza parlamentare senza i
comunisti.
De Gasperi colse l’occasione del congresso socialista per
presentare le dimissioni e ricevere un nuovo mandato a formare
gabinetto di decantazione senza Scoccimarro con l’abile uomo
d’affari democristiano Pietro Campilli, alle Finanze e al Tesoro , che
cercava di attuare una linea mediana. Ma il contrasto fra la linea
Einaudi e la linea comunista continuava nell’Assemblea costituente e
nel nuovo governo, anche se coloro che ne erano stati protagonisti,
nei Ministeri economici erano usciti di scena. E il 13 maggio De
Gasperi lasciò che esplodessero , nella sua coalizione, in vista della
esposizione finanziaria annuale da presentare in Parlamento, per
l’esercizio finanziario 1947-58. Ne trasse la convinzione che era
necessario un chiarimento e diede le dimissioni. Non ebbe , però, il
reincarico perché nella nuova situazione era possibile un governo con
la guida dei partiti laici intermedi e in particolare di esponenti
dell’Unione Democratica Nazionale. E De Nicola diede l’incarico a
Nitti che, per altro, dovette rinunciarvi per l’opposizione dei liberali
spalleggiati dai democristiani, L’incarico passò all’anzianissimo
Vittorio Emanuele Orlando, che trovò, a sua volta, l’ostilità di Nitti
mentre i liberali puntavano su Einaudi. L’incarico allora , come era
prevedibile, data la frantumazione delle forze intermedie, tornò a De
Gasperi, che formò un gabinetto tripartito con i liberali e i
repubblicani , con Einaudi vicepresidente del Consiglio e Ministro
del Bilancio e l’appoggio esterno dei socialdemocratici. Il 15
dicembre alla vicepresidenza del Consiglio andavano Saragat per i
socialdemocratici e Pacciardi per i repubblicani-
TAVOLA 7
CAPI DELLA BANCA DI ITALIA 1861-1881 G. Bombrini Direttore generale della Banca Nazionale 1881-1894 G.Grillo Direttore generale della Banca Nazionale 1894-1900 G.Marchiori Direttore generale della Banca di Italia 1900-1928 B.Stringher Direttore generale 1928-1930 B.Stringher Governatore della Banca di Italia 1931-1944 G.Azzolini Governatore 1944-1944 A.Atti Commissario Straordinario della Banca di Italia 1944-1945 N.Introna Commissario Straordinario 1945-1948 L.Einaudi Governatore 1947-1948 D. Menichella Facente funzioni di Governatore della Banca di Italia 1948-1960 D.Menichella Governatore
Toccò a Luigi Einaudi, Ministro del Bilancio e interim di
governatore della Banca di Italia (ove era suo vice e facente funzioni
Donato Menichella ) ,con la collaborazione di G. Pella alle Finanze e
G. Del Vecchio al Tesoro, iniziare nell’aprile 1947, con questo
primo governo senza i comunisti, la nuova linea di lotta
all’inflazione, mediante la stretta del credito che, come si è detto, era
la misura alternativa al cambio della moneta che lui e Menichella
avevano allo studio . Grazie a tale stretta , il tasso di inflazione nel
1947 per i prezzi ingrosso si ridusse al solo 5,5% mentre nei prezzi al
minuto, con una operazione di liberalizzazione, essa saliva al 61% ,
che però non preoccupava , dato che la spirale era stata tagliata
all’origine. In effetti i prezzi alla produzione relativi al PIL erano in
aumento solo dello 8,7%. E nel 1998 i prezzi al minuto poterono
salire solo del 5,8% mentre quelli ingrossos scendevano di circa un
1% e alla produzione la diminuzione rasentava addirittura il 3%. La
stretta del credito attuata da Einaudi e Menichella consistette nello
stabilire la riserva obbligatoria del 25% dei loro depositi , che
nell’anno precedente erano triplicati rispetto al 1945, dando luogo a
una imponente circolazione di moneta fiduciaria, cioè di pagamenti
sui conti correnti . La riduzione del 25% dei depositi, pari a 112
miliardi, ridusse la piramide del credito e ridusse anche l’ascesa dei
prezzi, al consumo che era stata nel primo semestre del 50% . Essa
era resa necessaria dal fatto che l’Italia era entrata dal maggio nel
Fondo Monetario Internazionale, accettando il cambio fisso della lira
con il dollaro, fissato a 650 lire. Occorreva creare le premesse per
rendere stabile tale cambio e , pertanto, ridurre al minimo
l’inflazione. Per farlo si poteva, in linea di principio, agire su due
fronti: quello del bilancio pubblico e quello del credito. Einaudi ,
ovviamente, avrebbe preferito ridurre le spese pubbliche non
indispensabili e aumentare le imposte, in modo da diminuire il
deficit pubblico, che non attuare una stretta del credito, in quanto
questo serviva per finanziare la ricostruzione, gli investimenti, le
esportazioni , quindi la crescita economica . Ma il deficit no poteva
essere facilmente compresso, in tempi brevi, in quanto il sistema
tributario e la macchina fiscale erano stati lasciati in completo
disordine dalla gestione demagogica e velleitaria di Mauro
Scoccimarro e l’azione di contenimento delle spese comportava una
azione legislativa e amministrativa che non poteva avere effetto
immediato. Fu dunque deciso da Einaudi e dai suoi collaboratori di
operare la stretta del 1947-48 con la politica monetaria, lasciando
che una politica fiscale di fatto permissiva, ne alleviasse, con il suo
deficit, le conseguenze restrittive sulla domanda globale. Ma va
notato che anche la stretta del credito non fu drastica: essa moderava
una precedente frenetica espansione dovuta al fatto che il volume dei
depositi bancari si era enormemente accresciuto, in conseguenza
della liberalizzazione valutaria e del miglioramento dei redditi degli
operatori economici e ciò aveva alimentato una espansione anomala
della circolazione monetaria fiduciaria ( quella costituita dai
pagamenti mediante bonifici e assegni sui conti correnti) . In effetti
lo stesso Einaudi spiegò, a un parlamento poco convinto , che la sua
stretta, consistente nella riserva obbligatoria del 25%, non era
deflazionistica, in senso economico. Ed aveva perfettamente ragione .
Infatti nel 1997, l’anno della stretta, che i comunisti bollarono come
deflazione in senso economico e che tale rimase nella vulgata
economico-politica per molti anni, per effetto di tale propaganda e di
interpretazioni di storici e di economisti della sinistra non riformista-
il PIL aumentò in termini reali di oltre il 15%, mentre il livello del
tasso di inflazione a fine anno risultava dell’8%. L’anno successivo,
il 1998, mentre il livello dei prezzi diminuiva di un po’ più del 2%,
ciò che è, in termini monetari, una vera deflazione, il PIL aumentava
del 5,5% in termini reali, ciò che non è certo deflazione in senso
economico. L’economia si sviluppava a ritmo alto, senza droga
monetaria e l’economia dell’ Italia, ancora convalescente e dolorante
delle ferite belliche, era inserita a pieno titolo nel sistema monetario
internazionale. D’altra parte il deficit pubblico era aumentato rispetto
all’anno precedente, giungendo al livello del 14% . Anche
considerando il solo deficit economico del bilancio , cioè quello fra
spese effettive ed entrate effettive, esso rimaneva al 13% . Il che
può fare piuttosto l’ impressione di lassismo, non di deflazione
fiscale. Ma si spiega con il fatto che le spese e le entrate del 1947-48
dato lo sfasamento risentivano ancora della politica permissiva del
1946-47 . Solo nel 1948-1949 si vedranno i frutti della nuova politica
: le spese rimarranno bloccate sul livello del precedente esercizio
mentre le entrate subiranno un vigoroso incremento, sicchè il deficit
si ridurrà al 7% nel bilancio complessivo e al nel rapporto fra
spese effettive ed entrate effettive E , con quanto oscillazione, la
situazione si consoliderà negli anni successivi, grazie alla linea Pella-
Vanoni , che proseguirà sino al gennaio 1954 . Anziché denigrare la
manovra di Einaudi , nel primo governo centrista, è d’uopo esaltarla,
per i suoi risultati da manuale: stabilizzazione monetaria in meno di
un biennio assieme a una crescita economica elevata , a un bilancio
pubblico sano e a una politica di economia di mercato. Essa andrebbe
fatta da studiare dal Fondo Monetario Internazionale, ai paesi a cui
chiede programmi di aggiustamento, in cambio dei suoi aiuti
finanziari.
In effetti l’Italia , nel 1948 , poco prima delle elezioni, che
avrebbero visto il trionfo della DC ,a cui fu soprattutto imputato il
successo della eliminazione dei comunisti dal potere di governo,
ebbe un grosso aiuto finanziario internazionale tramite il “piano
Marshall”.
SCHEDA 1
IL PIANO MARSHALL
Questo programma, così chiamato dal generale americano
Miniastro degli esteri dell’amministrazione Truman, che ne era stato
promotore, nella conferenza di Parigi del 2 luglio 1947, approvato
nel gennaio 1998 dal Presidente Truman , con una attuazione
provvisoria e reso definitivo dal parlamento degli Stati Uniti il 3
aprile del 1947, stanziava 17 miliardi di dollari in 4 anni, per aiutare
la ricostruzione dell’Europa. I fondi , che erano divisi fra aiuti
gratuiti e aiuti a titolo di prestito, erano amministrati dall’ ECA
(Economic Administration Corporation) . Ogni governo beneficiario
riceveva lo 86% dei fondi a titolo gratuito mediante merci americane
scelte dai destinatari e il resto a titolo di prestito . Inoltre ogni
governo beneficiario con il ricavato delle merci ottenute
gratuitamente doveva costituire dei “fondi di contro partita “ nella
propria moneta nazionale, da destinare alla ripresa e allo sviluppo
economico del paese. L’ente italiano incaricato del coordinamento
dle programma e delle erogazioni dal fondo fu il CIR (Comitato
Interministeriale per la Ricostruzione) . L’apporto del Piano Marshall
all’Italia fu notevole. Vi furono dissensi fra il governo italiano e
l’ECA sul modo di utilizzarlo , in parte derivanti dal fatto che l’Italia
tendeva a utilizzare i fondi più per alleviare problemi di bilancia dei
pagamenti nel settore delle derrate di base che per investimenti e in
parte , però, dal fatto che gli americani cercavano di erogare beni di
investimento e derrate di cui avevano una capacità produttiva in
esubero o per cui avevano maggiori pressioni da interessi economici
costituiti e l’Italia, a sua volta, cercava di dare ascolto alle priorità dei
propri operatori e in particolare di quelli più influenti e cercava di
evitare di procurarsi beni concorrenziali a quelli dell’agricoltura e
delle industrie domestiche. Ciò è normale in ogni politica di aiuti e
molte critiche che sono state fatte all’attuazione del piano Marshall
in Italia magnificando queste controversie sono immotivate. E’ vero
invece che il piano Marshall fu, oltreché uno strumento economico,
uno strumento politico, perché accrebbe in Europa e, in particolare in
Italia, nel periodo della guerra fredda , la popolarità degli Stati Uniti
e l’avversione ai comunisti e al blocco sovietico. Per questo si è
cercato, da parte di una certa storiografia, di svalutare l’apporto del
piano Marshall al nostro sviluppo economico. Una serena valutazione
del piano Marshall si trova nelle pagine che seguono, di un
osservatore imparziale.
“ Il Piano Marshall fu… una felice intuizione. I paesi europei,
stremati dal periodo bellico , si trovavano in una situazione di grave
crisi, tale per cui la richiesta di alimenti e altri beni primari
(provenienti in prevalenza dagli Stati Uniti) sarebbero state per
alcuni anni superiori alle capacità di pagamento: ne derivava che,
senza un sostanziale aiuto esterno, essi avrebbero dovuto
fronteggiare un decadimento di pesanti dimensioni, a livello
economico, sociale,politico. Pertanto, il Piano prevedeva l'invio di
aiuti ai Paesi Europei, dal 1948 al 1952, per il finanziamento e la
realizzazione di infrastrutture, e per il risanamento dei bilanci statali
(il progetto era stato elaborato anche per gli Stati dell'Europa
Orientale e per l'Unione Sovietica i quali, tuttavia, ritennero
opportuno rifiutare anche se, nella primissima fase di aiuti, erano
stati accolti quelli forniti dall'United Relief And Rehabilitation
Administration U.N.R.R.A., organismo ufficialmente afferente alle
Nazioni Unite, ma in realtà esplicitazione dell'intervento economico
americano). Gli scopi che il Piano Marshall si prefiggeva erano
molteplici: prevenire la caduta del commercio internazionale, e dei
relativi pagamenti; dare stabilità ai Paesi Europei (anche per
favorire gli interessi americani, in contrapposizione a quelli dei
Paesi dell'Est); reinserire la Germania nel blocco Europeo tramite
una strategia di ricostruzione congiunta; aiutare, infine, l'unione
economica e militare dell'Europa. .All'inizio di giugno del 1947,
quando Gorge Marshall propose il suo Piano (dando particolare
rilievo al fatto che i Paesi Europei avrebbero dovuto definire
collegialmente le richieste di aiuti), la reazione che ne seguì fu
straordinariamente positiva ed immediata. E, già il 12 luglio, sedici
Nazioni costituivano a Parigi il C.E.E.C. (Committee for European
Economic Cooperation), che cominciò subito, pur tra variegate
difficoltà, a quantificare l'importo necessario alla ricostruzione
dell'Europa. Poco più di due mesi dopo, il 22 settembre, gli Stati
Uniti ricevettero la richiesta di aiuti (stimati in 19 miliardi di
dollari), abbinata all'impegno di istituire un'Organizzazione Europea
di Cooperazione Economica (O.E.C.E.), con il compito di gestire, e
di coordinare, il piano di intervento. Il 3 aprile 1948 gli americani
approvarono la Legge di attuazione del Piano Marshall (detta anche
European Recovery Program E.R.P.). In pratica, veniva strutturato
un piano quadriennale di aiuti materiali (anziché in dollari come
richiesto dagli Europei), diminuiti, però, di circa un terzo rispetto
all'importo formalizzato dall'Europa. Restava, comunque, un valore
superiore ai 12 miliardi di dollari. Conseguentemente, il 16 aprile
1948,veniva ufficialmente istituita l'O.E.C.E. (da cui trasse poi
origine l'attuale O.C.S.E.), il cui mandato era indicato già nel primo
articolo: "Le parti contraenti debbono agire in stretta cooperazione,
ed avere come compito immediato quello dell'elaborazione e
dell'attuazione di un programma comune di ricostruzione. Inoltre,
esse debbono elaborare piani congiunti per la ripartizione degli aiuti
americani".
Gli aiuti Marshall furono ripartiti fra sedici Paesi. All'Italia, tenuta
in buona considerazione, venne attribuito quasil'11 per cento: solo la
Gran Bretagna con il 23 per cento, e la Francia con circa il 21 per
cento, ottennero di più. Seguivano, poi, con quote decrescenti,
Germania, Olanda, Belgio, Austria, Grecia,Danimarca, Norvegia,
Irlanda, Turchia, Svezia, Portogallo, Islanda, Yugoslavia. Fu
importante non solo l'entità del sostegno, ma anche, e di maggiore
valenza, la stabilità e l'elasticità degli aiuti, in quanto le merci inviate
erano strettamente correlate con le reali esigenze di ogni Paese. E se,
all'inizio, era prevalente la domanda di prodotti alimentari, mangimi
e fertilizzanti, col passare del tempo aumentò gradualmente quella di
materie prime e di prodotti semi-finiti, carburanti,macchinari e
veicoli, attrezzature meccaniche, che erano fondamentali per l'avvio e
la ripresa dell'attività industriale (le prime imprese italiane a
beneficiarne furono la Fiat, l'Edison, e la Finsider).
Il Piano Marshall poneva le prime basi avendo come coerente riferimento il principio "più mercato e meno controllo". Difatti, le condizioni che regolavano la distribuzione degli aiuti imposero ad ogni Stato di pianificare la diminuzione dei dazi, e l'abolizione dei controlli sul commercio. Sostanzialmente, l'architettura del Piano assunse grande importanza non solo nel breve periodo di riferimento, e per il relativo contesto di attuazione, ma anche, e soprattutto, negli anni a seguire, per l'apporto che avrebbe dato ai Paesi Europei, favorendoli in una crescita sempre più dinamica e prospettica. Luciano Neri , Per lo sviluppo e la ricostruzione dell’Europa in “Incontri”, Rivista trimestrale della Banca Popolare dell’Emilia Romagna http://w.w.w.bper.i/gruppobper/incontri/pdf_64/82_64.pdf.
Gli aiuti del Piano Marshall diedero un buon contributo allo
sviluppo economico dell’Italia e contribuirono a migliorare gli
approvvigionamenti di derrate di base in un periodo in cui la
situazione sociale era molto tesa anche perché le imprese per potersi
cimentare nella concorrenza internazionale dovevano praticare bassi
salari . Però la alcuni esponenti della missione di aiuti all’Italia del
piano Marshall sostenevano che bisognava applicare all’Italia ricette
keynesiane, di spesa in deficit, basandosi sulla favorevole esperienza
degli USA. Einaudi aveva replicato che presso di noi mancavano le
premesse per una ampia politica di tale natura perché era vero che vi
era notevole disoccupazione di lavoro, ma vi era , in quelle
circostanze, scarsità di materie prime e di impianti produttivi (e
avrebbe potuto aggiungere anche di esperti quadri tecnici) a causa
delle distruzioni belliche, quindi non si sarebbe potuta fare una ampia
spesa in disavanzo senza generare nuova inflazione dato lo squilibrio
fra la domanda e l’offerta. D’altra parte a ben guardare, la Banca di
Italia con la sua politica di finanziamento del credito alle imprese e
di parziale liberalizzazione della valuta per le esportazioni stava
dando un considerevole stimolo alla domanda, non quella di
consumi, ma quella di investimenti in capitale fisso e circolante
(acquisti di materie prime etc,) e quella per esportazioni, che
accresceva la capacità di importazione, quindi di ridurre le
strozzature alla capacità produttiva domestica. Di più non si poteva
certo fare. Innanzitutto mancava la valuta per pagare un ulteriore
eccesso di importazioni sulle esportazioni , gli aiuti americani , anche
generosi, non bastavano che a tappare alcuni buchi . Inoltre vi era
una questione di tempi: i cicli produttivi nuovi non si improvvisano ,
e non si può pensare che un eccesso di domanda di consumi potesse
generare una nuova produzione , con nuovi macchinari e materiali
importati e posti in opera, che a loro volta avrebbero comportato una
ulteriore espansione della domanda globale. In realtà la domanda
era già alta per conto suo, dati i bisogni della ricostruzione e il ritmo
di espansione dell’offerta era già febbrile. L’unico difetto di Einaudi
fu , allora, di non spiegare chiaramente che , nei limiti del fattibile,
l’Italia stava praticando una linea di tipo keynesiano: con la
differenza che essa si basava più sul lato dell’offerta che sul lato
della domanda di consumi e , in questa ottica, cercava di espandere
l’offerta con l’incoraggiamento del risparmio.
L’inflazione galoppante aveva di molto ridotto il peso del debito
pubblico sul PIL nonostante la drastica caduta di questo, sino al
1946.Ma man mano che la moneta si stabilizzava, il rapporto fra il
debito e il PIL poi era aumentato. Il salto in diminuzione fra il 1946
e il 1947 si deve al fatto che, per questi due anni, ci si è riferiti alla
fonte ufficiale della banca di Italia, che rilevava allora solo i debiti
del Tesoro in titoli e non tutti i debiti del governo centrale. Il salto in
aumento fra il 1948 e il 1949 è in grande prevalenza un fenomeno
statistico, dovuto al fatto che nel 1949 l’Italia, aderendo al Fondo
Monetario Internazionale, dovette effettuare un rigoroso censimento
di ogni forma di debito del governo centrale, anche a prescindere da
quello espresso in titoli del debito pubblico. E’ probabile che il
debito del 1949 , misurato con criteri omogenei, fosse a, rispetto al
PIL, pari a quello del 1946: il deficit pubblico era stato contenuti, ma
l’operatore pubblico non lo finanziava più emettendo carta moneta,
ma con veri e propri indebitamenti sul mercato. In seguito, mentre il
PIL cresceva di continuo, il bilancio pubblico ebbe deficit annuali
molto inferiori alla crescita del PIL e , per conseguenza, il rapporto
fra debito e PIL decrebbe di continuo.
TAVOLA 8
IL DEBITO PUBBLICO ITALIANO DAL PERIODO PREBELLICO AL PERIODO DELLA RICOSTRUZIONE E DEL
MIRACOLO ECONOMICO
Anno Debito pubblico Pil Debito fluttuante Debito pubblico/ Debito fluttuante / a prezzi correnti a prezzi correnti a prezzi correnti Pil Debito pubblico (miliardi di lire ) ( miliardi di lire ) ( miliardi di lire ) % %
1939 167,577 169,283 71,526 99% 42,7%1940 209,365 195,758 96,254 107% 46,0%1941 286,393 227,592 140,703 126% 49,1%1942 386,509 282,516 196,846 137% 50,9%1943 524,574 374,916 316,129 140% 60,3%1944 773,373 685,572 567,699 113% 73,4%1945 1.098,23 1.254,07 787,878 88% 71,7%1946 1.446,16 2.985,00 986,455 48% 68,2%1947 1.473,69 5.986,00 985,2 25% 66,9%1948 1.894,35 7.055,00 1.416,51 27% 74,8%1949 4.310,00 7.601,00 57% 1950 4.710,00 8.430,00 56% 1951 5.100,00 10.735,00 47% 1952 5.680,00 11.575,00 49% 1953 6.170,00 12.805,00 48% 1954 6.740,00 13.634,00 49%
Fonti :
Forte FedeliRubino
per il periodo 1861-1946: Vera Zamagni, "Il debito pubblico italiano 1861-1946: ricostruzione della serie
storica", in "Rivista di storia economica",n.3, 1998 per il periodo 1947-1948: Banca d'Italia, "Bollettino statistico",n.1 del 1948 e n.1 del 1949 per il periodo 1949-1998: F.m.i., "Total debt central government ", 1999
Frattanto l’economia cresceva e nel 1949 l’Italia, nonostante i
grossi danni subiti durante la guerra, recuperava il livello del Pil
prebellico.
LA NUOVA FASE POLITICA ED ECONOMICA :GLI
ANNI DEL CENTRISMO DEGASPERIANO E DEL
CENTRISMO ATTENUATO E IL MIRACOLO
ECONOMICO
La fase che ora consideriamo è , nella storia economica italiana del
‘900, una di quelle più felici. Il Pil dal 1948 al 1962, in 14 anni ,
aumentò di oltre il 150% sia deflazionato con i prezzi al consumo e
sia con i prezzi impliciti delle sue componenti .Il tasso di crescita del
PIL , nei quattordici anni del periodo 1948-1962, fu mediamente del
6,76 % annuo ! Quello pro capite aumentò del 6%. L’espressione “
miracolo economico” , indica, nella sua enfasi , che fu una crescita
prodigiosa, anche se non si trattava di un “miracolo”, ma di un
processo di sviluppo sospinto da forze umane che, come si vedrà,
non avevano niente di “magico” . La crescita , mentre si basava su
robusti fattori dell’economia reale e su un quadro internazionale
favorevole , conteneva in sé anche alcune contraddizioni e problemi,
che sarebbero emersi con particolare evidenza negli anni ’60.
TAVOLA 9
IL PIL ITALIANO NEL PERIODO DALLA RICOSTRUZIONE AL
PERIODO INIZIALE DEL MIRACOLO ECONOMICO (1949-54)
Anno PIL (lire correnti) PIL (miliardi %crescita%crescita Pop.Pop. (migliaia)
PIL pro capite
di lire 2001) consumo PIL reale (migliaia) (miliardi per mille ab.)
1938 153,005 210757 43610 4,81939 169,283 223715 5,1 7,27 44119 5,0
1948 1949
7088 7640
201.511 214.072
11,32 12,4 6,2 8,5
46.552 46914
4,34,6
1950 8454 240.093 12.15 7,9 47295 5,11951 10735 277929 15,7 9,1 47540 5,81952 11575 287407 3,74 5,7 47792 6,01953 12805 311.929 8,53 7,2 48121 6.5 1954 13634 323.398 3,68 5,8 48477 6,71955 15042 347.018 7,33 6,3 48789 7,11956 16360 359.609 3,60 4,4 49052 7,31957 17565 378.701 5,31 6,4 49311 7,71958 18862 388.179 2,40 4,6 49640 7,81959 20029 411.535 6,18 7,6 50023 8,21960 23210 470.379 14,30 7,1 50372 9,31961 25810 508.326 8,28 8,3 50675 10.11962 29000 549.376 8,08 10,5 51012 11,0
Fonte : dal 1951 elaborazione di FORTE–FEDELI sui dati del Fondo Monetario Internazionale
LE VICENDE POLITICHE NEL PERIODO DEL CENTRISMO DEGASPERIANO
Le prime elezioni politiche dopo la proclamazione della Repubblica
ebbero luogo il 18 aprile del 1948. Esse videro il trionfo della
Democrazia Cristiana, che ebbe la maggioranza assoluta dei seggi
della Camera, vale a dire 305, su 590 con il 53,14% , con il 48,5%
dei voti. Questa differenza fra percentuale di seggi e voti non si
spiega con le schede nulle che furono lo 1,6% (una percentuale
abbastanza bassa , essendo la prima volta che gli italiani votavano da
più di venti anni ) e le bianche che furono un altro 0,6%. Il fatto è che
la dispersione di liste avvantaggiò molto la DC. nonostante il sistema
proporzionale. Infatti un partito con molti voti poteva ottenere una
percentuale di seggi notevolmente maggiore dei voti, in quanto fruiva
dei voti dei
TAVOLA 10 PRIMA LEGISLATURA. 18-4- 1948--6-6-1953
partiti minori, che non avevano ottenuto alcun seggio. Il Fronte
democratico popolare, guidato dai comunisti del PCI, con l’alleanza
dei socialisti del PSI e alcuni indipendenti raccolse solo il 31,88%
dei seggi, in totale 183 seggi, con il 31% dei voti. A causa della abile
gestione del gioco delle preferenze di lista , ben 143 seggi pari al
24% andarono ai candidati del PCI mentre il Partito Socialista
otteneva solo 39 seggi pari al 6,6% , molto meno della sua forza
elettorale. Unità socialista (nella Tavola 3, denominata “Unione
Sociale” ) costituita dai socialdemocratici dello PSLI guidato da
Giuseppe Saragat , da un gruppo di ex azionisti e dai socialisti
dissidenti di Ivan Matteo Lombardo e Ignazio Silone, pur fortemente
minoritaria dal punto di vista dei voti, nella costellazione delle forze
socialiste , ottenne un gruppo di 33 deputati, pari al 5,75% , non
molto minore di quello dei socialisti del PSI. Ciò nonostante la
dispersione di voti, dovuta al fatto che in alcune circoscrizioni non
era riuscito ad eleggere alcun candidato e quindi non aveva potuto
usufruire dei voti ottenuti: che a livello nazionale furono il 7,1%.
Deludente invece il risultato del blocco nazionale, costituito dai
liberali e dall’Uomo Qualunque, che ottenne solo il 3,31% dei seggi,
con il 3,8% dei voti: aveva pesato negativamente su tale esito, la
innaturalezza e infecondità della alleanza fra un partito storico,
come il PLI e un partito di protesta , oramai in disfacimento, come
quello qualunquista. Anche il Partito Nazionale Monarchico
nonostante l’apporto della Alleanza destra nazionale di A.D. N. non
ottenne un buon risultato: solo 14 seggi, pari al 2,44% , con il 2,8%
dei voti Dal canto loro i repubblicani del PRI, ottennero solo 9 seggi,
pari allo 1,57% . La sfida nel referendum fra monarchia e
repubblica , aveva avvantaggiato questo partito nelle elezioni per la
costituente. Ora data la vittoria della repubblica, la sua funzione
storica appariva esaurita. Esso doveva costruirsi una nuova identità
di “terza forza” nello schieramento politico: cosa non facile data
l’esistenza di due partiti analoghi, quello socialdemocratico nell’area
riformista di centro sinistra e quello liberale nell’area di centro destra
. Va comunque notato che anche i voti del Pri erano stati il 2,5%: la
dispersione dei voti penalizzava particolarmente questo partito che,
era polarizzato in alcune regioni dell’Italia Centrale e nelle altre
circoscrizioni era sparpagliato con quozienti troppo bassi per
eleggere un deputato che venivano tutti sprecati. I fascisti erano
praticamente spariti: il Movimento Sociale Italiano che li
rappresentava politicamente ottenne solo 8 seggi, pari allo 1,05. La
polarizzazione fra DC e Fronte popolare aveva indotto molti fra i
nostalgici del fascismo (circa un 5% del corpo elettorale) a dare il
voto alla DC in funzione di diga contro “l’onda rossa.” Ma anche per
essi aveva giocato negativamente la dispersione dei voti: in fatti la
quota di questi era stata il 2%. Ma metà dei voti non si erano tradotti
in seggi. Vi era poi un gruppetto di partitini: il Partito Popolare
Sudtirolese, con 3 seggi pari allo 0,17% , pur con lo 0,5% dei voti. il
partito contadino (che avrebbe dovuto togliere voti alla DC, secondo
la strategia del Fronte Popolare, con 1 seggio, pari allo 0,17% e lo
0,3% dei voti e il Partito Sardo d’Azione anche esso con un seggio e
lo 0,2% dei voti . Le altre liste, che non avevano ottenuto alcun
seggio, ed era spesso liste di disturbo messe in piedi dalla DC per
contrastare il Fronte popolare, avevano ottenuto un 1,3% dei voti:
che non utilizzati da loro, andarono a ingrossare la quota degli eletti
della DC.
TAVOLA 11
PRIMA LEGISLATURA.18 -4- 1948—6-6- 1953. ELEZIONI AL SENATO
% seggi
Democrazia cristiana . 48.1 131 Fronte democratico popolare 30,8 72 Unità socialista (US) 4,2 8 Blocco nazionale 5,4 7 Lista comune US-PRI 2,7 4 Liberali autonomi 0,4 3 Partito nazionale monarchico 1,7 3 Unione monarchica 0,1 1 Partito repubblicano italiano 2,6 4 Movimento sociale italiano 07 - Sud Tiroler Volkspartei 0,4 2 Partito sardo d’azione 0,3 1
Accanto alla Camera, con la nuova costituzione, aveva grande
rilevanza il Senato, eletto direttamente dai cittadini di almeno 25
anni di età. In esso la DC ebbe, pressa poco come alla Camera il
48,1% dei voti ed elesse 131 senatori pari al a 60,6% di quelli
eleggibili, ma pari solo 39% di quelli complessivi . 107 senatori
facevano parte di diritto del Senato (in parte provenienti dal vecchio
Senato ora disciolto, in parte dall’Assemblea Costituente ; e solo 18
di questi senatori di diritto , pari al 5,5 % dei complessivi erano DC.
Essa così’ ebbe solo 44,5% dei seggi senatoriali complessivi. Il
Fronte popolare dal canto suo, al Senato, con il 29,22% dei voti,
riuscì a conquistarsi 72 seggi pari al 33,3% di quelli elettivi . In ogni
collegio senatoriale si votava –secondo il sistema ancora adesso in
vigore- un solo candidato, recuperando nel più ampio collegio
circoscrizionale tutti i seggi non assegnati direttamente a chi avesse
ottenuto, nel proprio collegio la maggioranza assoluta. Questi seggi
venivano ( e sono tutt’ora) assegnati ai vari schieramenti elettorali in
base al totale dei voti da essi conseguiti e non utilizzati nella elezione
diretta. All’interno di ciascun schieramento, venivano ( e sono )
eletti i candidati di esso, che , nel proprio collegio individuale ,
avessero (abbiano) ottenuto la maggiore percentuale di voti ,
rispetto a quelli del collegio. Questo sistema, consentiva di
valorizzare meglio le personalità individuali gradite agli elettori. Ma
rendeva più difficile il voto da parte dei blocchi: ai socialisti, che si
presentavano come candidati del Fronte Popolare , non era tanto
facile ottenere i voti dei comunisti , nonostante la disciplina di partito
mentre per i socialisti non massimalisti non era agevole dare il voto
al candidato comunista. Ciò probabilmente spiega il fatto che al
Senato le schede bianche siano state il 2% e le nulle il 3% , il
doppio che alla Camera nonostante che ivi votassero persone di
almeno 25 anni. Tuttavia, come si nota, nel complesso , al Senato
dove si votavano i nomi, le cose andarono meglio per il Fronte
popolare, che alla Camera ove il patto di unità di azione mortificava
lo spirito di autonomia dell’elettorato socialista. Unità socialista al
Senato andò peggio che alla Camera : ebbe poco meno un milione di
voti (943.000) pari al 4, 2% , con solo 8 seggi pari al 3,7% di quelli
elettivi e al 2,4% di quelli totali . Va però notato che il minor
risultato elettorale era , in gran parte, puramente apparente: dipese
dalla scelta di fare blocco con candidati repubblicani, per non
sprecare i propri voti: e in effetti , le liste comuni diedero al mini
blocco in questione il 2,7% con 4 seggi pari allo 1,8% dei seggi
elettivi e allo 1,2% dei seggi totali . In totale , prescindendo dal fatto
che una piccola quota di questi voti era dei repubblicani, si arrivava
ancora al 7% Un’altra parte del Pri , che non volle fare parte del
blocco, presentandosi da sola ottenne il 2,6% dei voti, ma solo 4
senatori pari al lo 1,8% dei seggi elettivi e solo 1,2% dei seggi
totali . Il blocco nazionale, con il 2,7% dei voti ottenne solo 7
Senatori pari al 2,1% dei seggi totali . Una formazione di liberali
indipendenti ottenne altri 3 seggi. I monarchici indipendenti di Lauro
ottennero 1 seggio. 2 seggi li ebbe la Volkspartei e 1 il partito sardo
d’azione Nonostante che la DC , da sola, al Senato fosse in
minoranza , assieme agli altri partiti che avevano complessivamente
il 9,2% dei seggi elettivi, arrivava al 53,7% dei seggi, oltre a quelli
di diritto dei partiti di centro, suoi alleati. Poteva così fare varie
alleanze, dotate di largo margine
TAVOLA 12
GOVERNI ITALIANI NELLA PRIMA LEGISLATURA 18-4- 1948—6-6-1953 MINISTRI FINANZIARI TESORO FINANZE BILANCIO V De Gasperi (23-5-48--12-1-50) DC-PSDI-PRI-PLI Pella Vanoni Pella VI De Gasperi (27-1-50--17-7-51) DC.PSDI-PRI Pella Vanoni Pella VII De Gasperi (26-7-51--29-06-53)DC-PRI Vanoni-Pella Vanoni Pella
Se alla lettura del numero di ministeri che si alternarono in questa
prima legislatura repubblicana, si può avere la sensazione di
instabilità politica, in quanto vi si succedono tre governi , questo è
un periodo di assoluta stabilità politica, in quanto tutti e tre governi
che si succedono, dalle elezioni del ‘48 sono tutti governi di centro
guidati dal ledare democristiano De Gasperi con forze di centro e
centro destra come la DC e il PLI e di centro sinistra come il PRI e il
PSDI : un quadripartito –composto da repubblicani , i socialisti
democratici e i liberali o un tripartito con repubblicani e i socialisti o
un bipartito con i soli repubblicani.
ECONOMIA E POLITICA ECONOMICA NEL
PERIODO DEL CENTRISMO DEGASPERIANO. LA
LINEA PELLA
La politica economica ha, per tutta la legislatura, una guida stabile.
Infatti essa è costituita , per tutto il quinquennio, dal binomio Pella-
Vanoni, in cui il primo è il continuatore rigoroso della linea Einaudi e
il secondo democristiano, con un passato di socialista riformista, è
l’espressione di un indirizzo di economia sociale di mercato . Nel
binomio, come si nota, predomina Pella , al quale compete oltrechè il
Tesoro (salvo per il periodo dal 26-7-51 al 2-2-52 in cui vi è Vanoni)
anche il coordinamento, tramite il ministero del Bilancio . Il binomio
favorisce una politica indipendente della Banca di Italia, ove
Menichella continua nella linea di Einaudi basata non solo sulla
stabilità monetaria, secondo la leggenda diminutiva che è stata
consolidata dalla propaganda avversa, ma anche sul favore per il
credito alla produzione e sulla tutela e lo stimolo al risparmio,
mediante un sistema di credito in cui, accanto alle grandi banche di
interesse nazionale, trovano un ampio ruolo le Casse di risparmio e
le banche popolari di credito cooperativo, su base locale . La politica
del bilancio è improntata a notevole rigore. Dopo un primo anno con
deficit ancora al 7% del PIL, il disavanzo del bilancio statale
inclusivo delle partire finanziarie di movimento dei capitali scende al
di sotto del 3% , tenendosi a poco più del 2%. Sale solo una volta a
poco più del 3% del PIL nell’esercizio finanziario 1951-1952.
TAVOLA 13
BILANCI STATALI DAL 1948-49 AL 1952-53
Parte effettiva Movimento capitali Deficit Deficit PIL Deficit/PIL Spese Entrate Spese Entrate globale effettivo saldo globale saldo effettivo 1948-491.634 1.140 101 44 552 494 7.364 7,4 6,7 1949-50 1.716 1.418 230 341 185 298 8.047 2.2 3,7 1950-51 1.893 1.720 319 271 220 173 9.595 2,3 1,8 1951-52 2.129 1.737 305 335 360 392 11.155 3,2 3,5 1952-53 2.310 1.804 119 304 321 506 12.190 2,6 4,15 Fonte ISTAT Sommario di statistiche storiche dell’Italia-1861-1965, Roma 1968 pag. 139,Tav.107
In realtà la manovra di finanza pubblica , considerando entrate e
spese effettive e quindi deficit effettivo del bilancio, fu più articolata.
Le entrate statali effettive aumentarono del 58% in cinque anni. Le
spese statali si accrebbero del 41%. La loro crescita, dunque, anche
tenuto conto dell’inflazione fu notevole . Ma la loro dinamica era
inferiore a quella del PIL. Ed in effetti esse passarono dal 22% del
PIL al 21% nel quinquennio, grazie alla prudenza di Pella . Per le
entrate effettive la dinamica fu invece pari a quella del PIL . Infatti
rimasero sul modestissimo 15% del PIL : ma la sperequazione
esistente, in un sistema tributario bisognoso di modernizzazione ,
caratterizzato da ampia e irregolare evasione e non adatto , nel settore
della tassazione indiretta, a favorire la crescita economica, faceva
sentire , ai contribuenti meno fortunati, un peso della tassazione più
oneroso di quanto potesse apparire dalle grandi medie. Dal 1948-
1949 al 1949-50 la riduzione del deficit effettivo fu meno accentuata
di quel appare considerando il bilancio inclusivo delle partite
finanziarie. Il disavanzo effettivo nel 1948-49 è sotto il 7% e nel
1949-50 è ancora al 3,7%. Nel successivo esercizio, soprattutto
grazie allo sforzo tributario, si ha una politica fiscale restrittiva, in
connessione con la grande ondata espansionista suscitata dalla guerra
in Corea. L’anno seguente il deficit di parte effettiva sale oltre il 3%
e in quello successivo, oltre il 4%, perché si registra una certa
difficoltà di espansione nelle entrate e, comunque, si approssimano le
elezioni , che consigliano di non premere troppo con la macchina
fiscale. Vanoni , autore di una importante riforma tributaria, basata
sulla dichiarazione dei redditi delle persone fisiche, trovava oramai
difficoltà a proseguire nella sua opera , che gli dava impopolarità fra i
contribuenti , molti dei quali votavano per la DC. Il problema
dell’inflazione, nonostante il successo della politica attuata da
Einaudi rimaneva ancora vivo , in quanto la rapida crescita
economica non poteva non comportare tensioni sul lato della
domanda. Nei prezzi all’ingrosso il tasso annuo di inflazione , con
1947 =100, risulta ancora un po’ superiore al 5% nel 1948 . Nel
successivo biennio si ha una loro riduzione netta di oltre 10 punti i
due anni, resa possibile dagli effetti calmieratori delle importazioni e
dallo sviluppo della produttività, dovuto alla nuova produzione di
massa . Ciò fu favorito da una azione monetaria restrittiva e una
politica fiscale prudente , che permise di sconfiggere la precedente
spirale inflazionista. Ma nel 1951 per effetto dell’aumento dei prezzi
internazionali e del boom economico la spirale inflazionistica
riespose, di qui la reazione nei due anni successivi , che permise di
tornare al livello dei prezzi ingrosso del 1948 . Per i prezzi al
consumo, vi dopo un biennio di prezzi abbastanza sostenuti, vi è una
inversione nel 1950, in conseguenza della tendenza a monte nei
prezzi ingrosso e in parte a una maggior concorrenza nel sistema
distributivo , dovuto alla modernizzazione e allo sviluppo dei
consumi di massa . Ma nel 1948, nel 1951 e nel 1952 anche al
consumo vi sono forti pressioni inflazionistiche. Il rigore nella
politica monetaria e di di bilancio, che appariva eccessiva ai critici di
allora, sia nelle sinistre all’opposizione , sia negli ambienti sindacali
e in certi ceti medi - e che comportò, per Vanoni, Ministro delle
Finanze una notevole impopolarità- alla luce dei dati reali non lo è di
certo. Tenuto conto del rapporto deficit PIL si può dire che mai la
politica fiscale fu restrittiva , in questo periodo.
TAVOLA 14 INDICE DEI PREZZI DAL 1948 AL 1953 ANNI Prezzi Prezzi al Tasso di inflazione annuo ingrosso minuto Ingrosso Al minuto Indice Fondo Monetario 1947 51,59 45,75 100 100 1948 54,43 48,44 5,5 5,80 1949 51,69 49,15 - 5,20 1,50 1950 48,97 48,49 -5,27 -1,45 1951 55,81 53,20 14,13 8,7 100 1952 52,70 55,46 -5,04 4,24 1,85 1953 52,50 56,54 -0,04 1,9 1,41 Fonte Istat per i prezzi ingrosso e al minuto
D’altra parte , va notato che la riduzione del livello dei prezzi
ingrosso del biennio 1949-1950 non si accompagnò a una deflazione
dell’economia reale , al contrario fu affiancata da un robusto tasso di
crescita del PIL del 18% complessivo nel biennio, con riguardo ai
dati al consumo e del 16,5% con riguardo ai dati del PIL
deflazionato con i prezzi delle sue componenti. Nel 1951 la crescita,
per effetto della congiuntura internazionale favorevole, come si è
visto, esplose (e se per la stima con i prezzi al consumo il dato è
distorto da politiche di calmiere , per la stima con i prezzi impliciti
del PIL questo non si può affermare ) mentre vi era una nuova
pressione inflazionistica . Nel 1952, mentre vi era una nuova
riduzione dei prezzi all’ingrosso, il Pil saliva ancora del 3,74% con i
prezzi al consumo e del 5,7% con il calcolo a prezzi impliciti del PIL
: il che fa capire che la manovra di lotta all’inflazione poteva
denominarsi deflazione in termini monetari ma non certo in termini
reali. E nel 1953 in cui la manovra di contenimento dei prezzi ,
dovuta alla politica monetaria , fu controbilancia da una politica di
bilancio espansiva , il PIL crebbe ancora del 7% abbondante nel
calcolo con i prezzi impliciti e dell’8,5% con riguardo al calcolo
basato sui prezzi al consumo. La manovra dal 1948 al 1953, nel
periodo del centrismo degasperiano, che ricevette allora molte
critiche da sinistra, per l’eccessiva prudenza della politica economica
(e anche alcune critiche della missione ERP americana, sotto
l’influenza dagli intellettuali della sinistra italiana) in realtà
consentì al Pil italiano di crescere del 54% nel quinquennio
passando da circa 200 mila miliardi di lire del 2001 nel 1948 a circa
312 mila miliardi nel 1953. Il tasso medio di crescita annuo in
termini reali fu attorno all’8,70% sia con riguardo al prodotto
deflazionato con i prezzi al consumo che con quello deflazionato con
le variazioni dei prezzi impliciti che vi si riferivano . Pro capite il
Pil passò da 4,3 milioni di lire 2001 nel 1948 a 6,5 milioni nel
1962 con un aumento del 50%, pari allo 8,5% annuo. Queste cifre
sono più eloquenti di qualsiasi analisi , circa il successo della linea
del tandem Pella-Vanoni: che per altro non ebbe allora e nella
storiografia successiva il giudizio entusiastico, che si sarebbe
meritata. Non si può dire che quella impetuosa crescita dipendesse
dalla relativa facilità con cui si può effettuare la ricostruzione dopo
una massiccia distruzione, mediante il lavoro, il risparmio e le
conoscenze già accumulate nel passato. Nel 1948-49 la ricostruzione
era già terminata. Quello successivo, dell’epoca “centrista” fu un
brillante “decollo” nella moderna società industriale, causato da una
politica economica favorevole allo sviluppo , basata sul mercato
libero, un sistema fiscale serio, una politica di bilancio attenta , una
crescente liberalizzazione del mercato internazionale, le imprese
pubbliche nei settori guida del neocapitalismo, l’inizio di iniziative
per il sostegno del Mezzogiorno, l’entrata della Comunità Europea
del Carbone e dell’acciaio, preludio del MEC (il Mercato Comune
Europeo, la futura Unione Europea). Certo, vi furono anche fattori
internazionali favorevoli, come quello ricordato della l guerra in
Corea del 1951 che , con il riarmo degli USA , generò un ampio
stimolo della domanda globale mondiale e consentì alla Germania ,
provata dalla sconfitta e della distruzioni, di ritornare sui mercati
mondiale, dando vita al suo “miracolo economico”. E l’Italia poté
avvalersi, nella sua crescita vertiginosa, del pool di tecnologie
disponibile nei paesi più avanzati, da cui realizzò, in tempi brevi, un
apprendimento sia tecnico che organizzativo. Questo però fu reso
possibile dal fatto che la scuola italiana (oggetto allora come ora di
critiche ingiustificate) aveva dato luogo a una schiera di persone
preparate , capaci di rapido apprendimento delle innovazioni e di
creatività . Emersero, nelle imprese private, nuove grandi energie
manageriali, in alcuni casi sulla base di strutture capitalistiche
collaudate, come per Fiat, Pirelli, Olivetti, Edison, Montecatini e nel
settore tessile . In altri casi con la crescita di nuove medie e grandi
imprese sorte da piccole imprese , in altri casi ancora con il fiorire di
piccole imprese . Un apporto importante fu anche quello delle grandi
imprese pubbliche del gruppo IRI e della neonata ENI, che
svilupparono importanti energie tecnologiche e manageriali,
smentendo la tesi che solo le imprese private sono in grado di
svilupparsi con efficienza in un mercato libero e competitivo.
SCHEDA 2
LA CASSA PER IL MEZZOGIORNO
Guido Pescosolido nel rivedere in chiave critica sia l'entità e la
natura del dislivello Nord-Sud al momento dell'unificazione
nazionale ha sostenuto, in modo convincente, che esso non era così
accentuato come la letteratura economica vorrebbe far credere . Ma
fu notevole, secondo Pescosolido, il condizionamento che lo sviluppo
del Nord inflisse nei confronti del Sud. Il divario fra le due aree , egli
sostiene, aumentò a causa delle politiche intraprese dopo
l'Unificazione . Mancò , soprattutto, quella modifica degli assetti
agrari, che, attraverso l'istituzione di una proprietà contadina su base
familiare, avrebbe «eliminato il divario economico e sociale tra le
due Italie e risolto il problema del Mezzogirno». In effetti, nello
sviluppo industriale del Nord , nell’ultima parte dell’ottocento
all’inizio e durante il Novecento, è stata molto importante, come si è
visto, la base di piccola proprietà agricola. E ciò giocò un grande
ruolo anche nel “miracolo economico” del secondo dopoguerra:
molte delle piccole imprese che divennero medie e grandi imprese ,
ebbero le loro origini nell’ambiente economico sociale di aree di
piccola proprietà contadina, come la provincia di Cuneo, per i
Ferrero , la provincia di Pordenone per Zanussi
La Cassa del Mezzogiorno, creata nell’agosto del 1950, preceduta da
una legge di riforma agraria per la Calabria, non nacque, come certa
vulgata fa supporre, da idee di assistenzialismo (e annesso
clientelismo) democristiano anche se questi episodi, poi, vi furono.
La Sua idea e la sua legge emersero da un fervido ambiente
intellettuale costituito dalla Svimez, una Associazione per gli studi e
per la promozione dello sviluppo del Mezzogiorno creata nel 1947
dal Ministro dell’Industria del II e III Governo de Gasperi Rodolfo
Moranti, che divenne dal 1948 un cenacolo intellettuale di
economisti meridionalisti, di varie estrazioni dall’economista
industriale democristiano Pasquale Saraceno ( con il sostegno del
Ministro elle Finanze Ezio Vanoni, suo cognato ,) , all’economista
agrario socialista Manlio Rosssi Doria , ad Ugo La Malfa . Molto
giovò alla nascita della Cassa, anche la collaborazione
dell'International Bank of Reconstruction and Development , meglio
conosciuta come la Banca Mondiale . La Svimez convinse la Banca a
non limitare l'intervento finanziario alle opere infrastrutturali e ad
effettuare finanziamenti anche per lo sviluppo di specifici
programmi di industrializzazione. Nel decennio dalla sua istituzione
, la Cassa del Mezzogiorno erogò metà ei suoi fondi al settore
agricolo, il 28% alle opere pubbliche ed altre infrastrutture, il 22%
all’industria e (per quote minime) all’artigianato e al turismo .
L'apporto di valuta estera connesso al programma della Cassa,
erogato dalla Banca Mondiale fu sicuramente decisivo per
affrontare i costi dell'ammodernamento infrastrutturale e industriale
dell'Italia. Il progetto era condizionato, però, da una certa
frammentarietà che è stato fatto risalire, dalla letteratura economica
e politica successiva , alla cosiddetta «la cultura della
straordinarietà» , come se un programma straordinario dovesse essere
necessariamente frammentario e non strutturale. In realtà furono le
pressioni politiche locali e quelle di abili gruppi di pressione del
Nord che ostacolarono la organicità dei programmi. E, inoltre la
inadeguatezza delle leggi sui lavori pubblici generò lungaggini e
sprechi nella erogazione dei fondi. Il maggiore errore fu quello di
non coordinare l’intervento ordinario con quello straordinario ,
mediante una programmazione generale. Ma ciò non dipese da una
scelta deliberata. Come vedremo, lo strumento per realizzare tale
coordinamento avrebbe dovuto essere il Piano Vanoni, cui mancò,
per altro l’incisività politica, a causa della morte prematura dello
statista che lo aveva creato Il grosso di fondi iniziali della Cassa del
Mezzogiorno fu devoluto alle opere di bonifica , l’altra quota
maggiore fu devoluta alla creazione di infrastrutture:acquedotti,
fognature, strade, ferrovie. L’intuizione era giusta. La bonifica
avrebbe dato impulso all’agricoltura , si sarebbe potuto sviluppare
un nuovo tessuto di borghesia e picco,a borghesia rurale. Ma era
indispensabile dotare il Mezzogiorno di infrastrutture per farlo uscire
dall’isolamento e dall’inferiorità per quanto riguarda le condizioni di
base delle moderne attività produttive di beni e servizi.
Gli effetti sull'agricoltura del Mezzogiorno della realizzazione di
grandi infrastrutture del territorio meridionale, della riforma agraria,
delle bonifiche e delle opere di irrigazione furono positivi , come si è
potuto vedere dallo intenso ritmo di sviluppo dell'agricoltura
meridionale negli anni sessanta. La vastità del capitale fisso
impiantato dalla Cassa ha anche elevato il tono civile e la cultura di
grandi masse popolari. Grazie alla realizzazione del nesso bonifica-
irrigazione-riforma, con un sapiente intreccio di esproprio in aree
ristrette, più ampia attivazione del mercato fondiario, trasformazione
agraria, riassetto territoriale e infrastrutturazione, nel trentennio
1950-80 il tasso di crescita dell'agricoltura meridionale assunse
incrementi mai registrati, a una velocità anche maggiore di quella
nazionale. Il nodo irrisolto rimane però ancor oggi quello dello
sviluppo di un sistema agro-industriale autoctono. Meno
soddisfacenti furono le modalità di gestione e allocazione dei
finanziamenti statali all'industria meridionale e in particolare il ruolo
dell'Isveimer , ente preposto all'esercizio del credito a medio termine
a favore delle piccole e medie imprese che operano esclusivamente
nel settore industriale e nelle aree depresse del Mezzogiorno. Mentre
la gestione degli incentivi si affermava sempre più a favore della
grande impresa, nella pratica aumentano le interferenze di natura
politica e clientelare nell'erogazione dei finanziamenti. Ciò finì col
pesare negativamente sul bilancio dei primi dieci anni di intervento
dell'Istituto.. L’industria chimica, assieme alla siderurgia e
all’automobile, fu il settore che più di ogni altro beneficiò
dell'intervento straordinario della Cassa attraverso l'erogazione di
credito agevolato. Sfortunatamente , però, si finanziarono capacità in
eccesso fra di loro e soprattutto la chimica di base e negli anni 70 in
questo settore ebbe luogo una aspra contesa di ristrutturazione , fra
grandi gruppi: ENI e Montedison in particolare La “guerra chimica”
sacrificò le imprese migliori, che erano quelle nuove del
Mezzogiorno , che appartenevano rispettivamente alla Sir alla
Liquichimica, che avevano una minor forza politica e minore
appoggio finanziario da parte dei grandi istituti di credito. La
localizzazione meridionale degli impianti di produzioni primarie, si
rivelò errata anche a causa della distanza tra centri di produzione e
centri utilizzatori , per altro aggravata dal fatto che i finanziamenti
non presero in considerazione i cicli a valle. Gli investimenti della
Fiat nel Mezzogiorno , invece, hanno avuto successo, sin che questa
impresa è riuscita a produrre 2 milioni –1,5 milioni di autovetture
all’anno, ma averli frazionati in quattro località: Cassino, Napoli,
Melfi, Termini Imprese ha generato in seguito notevoli difficoltà, ai
fini della ristrutturazione del gruppo. Nella siderurgia invece la
politica di investimento della Cassa del mezzogiorno ha avuto pieno
successo con il Centro siderurgico di Taranto, il maggiore e più
efficiente in Italia, attualmente gestito con notevole competitività da
una impresa privata del Nord di Italia . Nel complesso, la politica di
promozione e di finanziamento dello sviluppo economico attuata con
la Cassa del Mezzogiorno ha avuto un notevole successo nel settore
agricolo, mentre ha avuto esiti limitati negativi nel settore
industriale..
Il saggio di G: Pescosolido qui citato si trova in Leandra D'Antone (a
cura di), Radici storiche ed esperienza dell'intervento straordinario
nel Mezzogiorno, Roma Bibliopolis, 1996, 699 pp.
I MUTAMENTI NELLA STRUTTURA ECONOMICO SOCIALE NEL PERIODO
CENTRISTA
Si può notare, che nel 1951, nella fase iniziale del miracolo
economico, vi era già stato un grande cambiamento nella
composizione del prodotto lordo, rispetto all’anteguerra. La quota
dell’industria manifatturiera era aumentata di un 28 % circa, quella
dei trasporti si era accresciuta del 44% , quella del commercio era
aumentata del 30% , mentre quella dell’agricoltura era scesa del
12% ma rimaneva ancora elevata, perché il processo di
modernizzazione agricola non era ancora decollato e le campagne
erano ancora una riserva di lavoro sotto occupato, che negli anni
successivi si sarebbe riversato nelle aree urbane, alimentando
processi di industrializzazione e di terziario moderno. La quota della
pubblica amministrazione era scesa del 18% sia per una modesta
riduzione di personale, rispetto allo stato fascista, sia soprattutto per
il deprezzamento delle retribuzioni del pubblico impiego .
TAVOLA 15
I VALORE ASSOLUTO COMPOSIZIONE PERCENTUALE PER SETTORI DEL PRODOTTO LORDO ITALIANO NEL 1939 E NEL 1951 In miliardi di lire 1938
Industrie Servizi Agricol Industrie Manifat Costru Elettri Traspor Com Credito Servizi Fabbri P.A. Totale
1939 tura estrattive turiere zioni cità ti mercio vari cati
valori 42 1,2 40,8 3,4 4,8 12 16,3 4,1 6,8 11,4 18,6 162 assoluti Percen 25,9 0,7 25,18 2,0 2,9 7 9,.8 2,5 4,2 7,0 11,34 100 tuali 1951 valori 42,4 1,6 52,4 3,9 6,8 17,3 20,2 4,8 7,1 11,9 17,6 186 assoluti percen 22,8 0,8 28,17 2,1 3,6 9,3 10,8 2,6 3,8 6,3 9,4 100 tuali FONTE P. ERCOLANI (1969) Documentazione statistica di base, in G. FUA’ Lo sviluppo economico in Italia, vol. III
I consumi andavano evolvendo e con loro mutava la produzione agricola. .. TAVOLA 16
Produzione di alcuni beni alimentari pregiati
(milioni di tonnellate)
Legumi freschi
Agrumi Frutta fresca
Uva da vino
Olio d'oliva
Carne bovina e suina
1918 0,13 0,80 0,95 6,57 0,26 0,51 1923 0,11 0,72 1,18 9,35 0,25 0,52 1928 0,11 0,77 1,36 8,45 0,30 0,62 1933 0,17 0,79 1,39 5,77 0,17 0,58 1938 0,22 0,74 1,07 6,64 0,18 0,62 1943 0,19 0,61 1,32 6,36 0,13 0,39 1948 0,31 0,67 1,48 6,57 0,11 0,46 1953 0,35 0,89 2,36 8,32 0,35 0,59 1958 0,47 1,13 3,26 10,05 0,26 0,60 R. PETRI , (2002) Storia Economica di Italia, Bologna Mulino Fonte: G.M. Rey (a cura di), I conti economici dell'Italia, Roma-Bari, Laterza, 1991, vol. I.
La produzione agricola si evolve, nel periodo del miracolo
economico, sia a causa della cessazione della politica autarchica,che
a causa dell’aumento del tenore di vita , che genera, nella gran massa
della popolazione, una nuova domanda di beni di consumo
alimentari, al di là di quelli tradizionali, di sussistenza. Nel 1953 la
produzione di legumi freschi è aumentata del 170 % rispetto al
periodo prebellico. La produzione di frutta fresca è aumentata del
140% , quella di uva da vino è aumentata del 25% , quella di olio di
oliva del 34% , quella di carne bovina del 15% . Una parte delle
aumentate produzioni di ortofrutticoli è esportata in Europa , ove i
commerci sono in misura crescente liberalizzati, una parte è destinata
ad arricchire le mense degli italiani. Le produzioni di carne bovina
aumenta di poco rispetto ai livelli del periodo autarchico, perché
all’aumento del consumo di carne si fa fronte con l’importazione
dall’Europa
LA CRISI DEL CENTRISMO DE GASPERIANO E IL CENTRO CON EVOLUZIONE VERSO IL CENTRO
SINISTRA Nella seconda legislatura , con le elezioni del 7-8 giugno 1953 la DC
non ottiene più la maggioranza assoluta . Si era in clima di guerra
fredda fra blocco occidentale e blocco sovietico. De Gasperi
aspirava a stabilizzare l’alleanza centrista sulla base di una nuova
legge elettorale con premio di maggioranza per la coalizione
vincente. Tale legge , varata poco prima della fine della legislatura,
dopo furibonde reazioni della sinistra, che la aveva subito battezzata
“legge truffa” , stabiliva che se un gruppo di partiti collegati avesse
conseguito almeno il 50,01% dei voti validi avrebbe avuto diritto al
65,3% dei seggi. DC , PSDI, PRI, PLI e Partito popolare Sud
tirolese si presentarono alleati, ma non ottennero la maggioranza dei
voti, per uno scarto dello 0,2% pari a 57 mila voti , quasi certamente
da attribuirsi a manipolazioni , dovute al numero anomalo di schede
nulle, salito al 3,1%. Per altro, senza le probabili manipolazioni il
blocco centrista avrebbero comunque vinto con uno scarto minimo
di voti e la applicazione della cosiddetta legge truffa, nel clima di
“guerra fredda” avrebbe potuto risultare molto difficile, date le
violente reazioni che essa aveva suscitato. Gli oppositori sostenevano
che la legge che dava quell’enorme premio di maggioranza, a chi
avesse avuto , in effetti la maggioranza, sia pure piccola, era una
legge truffa. Il termine non era stato inventato da loro, ma in un
discorso alla Camera dal giurista socialdemocratico ed ex azionista
Piero Calamandrei, a nome di sette membri del gruppo parlamentare
del PSDI . In realtà non era una truffa, perché non trasformava una
minoranza, in maggioranza, ma accresceva i seggi della
maggioranza per assicurarne la governabilità e dava un premio ai
partiti che si uniscono, per incentivare il bipolarismo. Il vero difetto
della legge, che provocò le dimissioni dal PRI di Ferruccio Parri,
l’espulsione dal PSDI di Tristano Codignola, per la sua troppo aspra
opposizione alla legge , seguita dalle dimissioni di solidarietà degli
onorevoli Calamandrei, Vittorelli, Zanardi, Greppi, Cossu, Libertini
e altri , stava nel fatto che scattando il 65% dei seggi, si aveva , per
ogni partito, un incremento del 30% dei suoi seggi. Ed è chiaro che
se la DC avesse avuto almeno il 38%% dei voti, (e in effetti ne il
40% ) avrebbe potuto usufruire della maggioranza assoluta. Ma gli
elettori non erano tanto scossi da questa circostanza, quanto dal fatto
emotivo della “truffa elettorale “ E il cartello composto da DC e dai
partiti laici franò soprattutto perché i socialdemocratici scesero, alla
camera, dal 7% al 4,5% dei voti con una perdita di un terzo
abbondante , mentre i repubblicani scesero dal 2,5% allo 1,6% con
una perdita attorno al 36%. Tennero, invece, i liberali al 3%,
probabilmente perché già in precedenza decimati dall’alleanza con
l’Uomo qualunque: e la alleanza con la DC dava , comunque, meno
fastidio all’elettorato di quell’altra. In realtà pochi elettori liberali
erano preoccupati della egemonia DC, perché avevano visto nel
rapporto fra Pella ed Einaudi la garanzia che vi sarebbe stato
piuttosto un rapporto di prevalenza intellettuale dei liberali. Il calcolo
politico di De Gasperi ,accettato idealisticamente da Saragat per i
socialdemocratici e da La Malfa per i repubblicani, era stato
sbagliato. I fattori che avevano indotto in errore un sottile politico
come de Gasperi erano parecchi. Innanzitutto, non aveva considerato
il culto del regime elettorale proporzionale sia da parte delle sinistre
che dei cattolici che vi avevano visto la propria affermazione politica
negli anni del primo dopoguerra. Inoltre non aveva considerato la
riluttanza da parte di autorevoli leader dei partiti laici minori ad
accettare una alleanza precostituita con la DC sulla base di una legge
ad hoc . Ciò diede vita a una lista autonoma di indirizzo liberale
guidata da Epicarmo Corbino che prese il nome di Alleanza
Democratica Nazionale , che raccolse alla Camera circa 55 mila voti
(ma nessun seggio). Una cifra praticamente eguale a quella per cui
non era scattata la legge maggioritaria. I voti a Corbino giunsero
probabilmente da elettori repubblicani, e in effetti il Pri, apparentato
con la DC , come si è detto, aveva ottenuto solo lo 1,6% dei voti
contro il 2,5% delle precedenti elezioni .Soprattutto però
l’operazione di apparentamento fallì perché la sinistra del partito
socialdemocratico non ritenne accettabile l’apparentamento con la
DC, in quanto aspirava ad ampliare l’area dei socialisti autonomi
dal PC e sapeva che l’autonomia dei socialisti era la condizione per
far riemergere il riformismo dei socialisti . Fu così presentato alle
elezioni il raggruppamento di Unità Popolare , in cui erano confluiti
anche il repubblicano Parri e l’ ex azionista Piero Calamandrei , che
era essenzialmente costituito dal nutrito gruppo di socialisti del
MAS (Movimento di autonomia socialista) che annoverava figure del
riformismo come Garosci, Faravelli, Mondolfo, Caleffi, Vittorelli,
Greppi, Pieraccini. Esso pur non ottenendo alcun seggio, arrivò a
171 mila voti, pari allo 0,6% dei voti. Non era un grande successo:
ma la rinuncia al nome “socialismo” penalizzava questo movimento.
In effetti una parte dei voti socialisti democratici affluì l’Unione
Socialista Indipendente formata da un esiguo gruppo di transfughi del
partito comunista di indirizzo socialdemocratico come gli onorevoli
Cucchi e Valdo Magnani e da socialisti come Giuliano Vassalli che
raccolse 225 mila voti pari allo 0,8%, nessun seggio. Il Frazionismo
non ha mai premiato i socialisti. Come il MAS aveva previsto, il
fatto che questa volta i socialisti del PSI si presentassero separati dal
PCI , ne accresceva l’attrattiva da parte dell’elettorato che aveva a
cuore l’autonomia socialista. E il PSI , che si era ridotto, nelle
precedenti elezioni, a soli 40 seggi ne ottenne 75, pari al 12,7% :non
era molto. Ma la reazione rispetto alla precedente tendenza era netta.
E segnalava anche che la via dell’autonomia dai comunisti poteva
ripagare. In effetti l’assieme dei socialisti sparsi in varie liste,
nonostante l’effetto negativo del frazionismo, arrivava al 18,6%. I
comunisti potevano cantare vittoria perché avevano sconfitto la
“legge truffa”, ma erano rimasti al 22% alla Camera e al 20% al
senato. Si affermavano invece i monarchici che ottenevano il 6,9%
dei voti e il Movimento sociale Italiano che otteneva un 5,8% . Come
il MAS aveva previsto, dal momento che i socialisti si presentavano
per conto proprio ,non essendovi più il pericolo della presa del potere
da parte di un fronte popolare guidato dai comunisti, glie elettori di
destra davano il proprio voto ai partiti che ne rappresentavano
l’ideologia e gli interessi, convinti che, in questo modo, avrebbero
potuto contare di più , sulla scena politica.
La vistosa caduta della DC dal 48,5% dei voti al 40%, si spiegava
agevolmente , sulla base di tali considerazioni. Il calo non dipendeva
certo da una scomodità della alleanza con i laici, che , come si è
detto, le avrebbe potuto dare un notevole beneficio in termini di
potere parlamentare. Né dipendeva da dubbi morali sulla legge truffa,
dato che il premio elettorale si configurava , agli occhi del suo
elettorato, come un compenso per la governabilità, così bene assolta
nel quinquennio precedente. Il calo dipendeva dal fatto che la sua
funzione di “diga” contro l’ondata rossa non appariva più necessaria.
E’ agevole capire che quello 8% in meno dei voti ottenuti dalla DC
erano, in parte notevole rifluiti su monarchici e Movimento sociale
che, assieme, avevano guadagnato per l’appunto circa l’8% dei voti
rispetto alle precedenti elezioni.
Nonostante la riduzione dei voti al 40%, la DC , alla Camera,
grazie alla dispersione dei voti, dovuta alla proliferazione di liste
minori , riusciva ad assicurarsi comunque il 44,4% dei seggi. Ciò
compensava la perdita di seggi rispetto ai voti, subita dai partiti
alleati, a causa del loro frazionamento e consentiva al quadripartito di
disporre alla Camera del 51% dei voti che diventava il 51,5% con
l’aggiunta del Volkspartei sud tirolese. Poiché la DC aveva il 44,4%
dei seggi, aggiungendovi il 3,27% del pur decimato Partito
Socialdemocratico si arrivava al 47, 7% . I liberali apportavano un
altro 2,7% e si riusciva così a totalizzare il 50,04 e il Partito
Popolare Sud tirolese un ulteriore 0,51% . I repubblicani
aggiungevano un altro 0,8% ma non erano più indispensabili. Invece
ora socialdemocratici e liberali singolarmente presi, diventavano
determinanti per la sorte della coalizione. E ciò riduceva la
governabilità del paese. D’altra parte era possibile una coalizione di
centro destra , con i monarchici, in quanto essa, senza i liberali,
aveva una maggioranza analoga a quella del quadripartito mentre
con questi poteva disporre di una base parlamentare più robusta. Se
vi si fossero aggiunti i liberali, questa coalizione avrebbe potuto
avere una maggioranza del 53, 7%. : con una opposizione in cui le
sinistre, in totale , contavano solo il 37% , mentre a destra il
Movimento sociale aveva un 5% , che poteva appoggiare dall'esterno,
con la semplice astensione, un governo di destra, assicurandogli una
situazione di assoluta tranquillità . Pur avendo sventato la “legge
truffa”, il PCI aveva , ora, una difficilissima posizione politica,
poiché i socialisti si era staccati dal blocco con loro e tendevano , con
la guida di Nenni e della stessa sinistra di Lombardi, a posizioni
riformiste. Nella DC non tutto il partito era disponibile per una
alleanza di destra, una importante componente era collegata alla
CISL , la Confederazione italiana sindacati liberi , sorta nel 1950 ,
prevalentemente cattolica ( nel 1950 era sorta anche la UIL, Unione
Italiana del lavoro, collegata ai socialdemocratici e ai repubblicani) .
Un’altra ala di sinistra della DC era collegata al gruppo ENI, guidato
da Enrico Mattei, sorto nel 1953. La DC pertanto , dopo primi
tentativi di coalizioni a destra, optò per la coalizione di centro. Essa
non aveva una larga maggioranza, ma le opposizioni erano frazionate
, in due ali distinte , sul lato destro e su quello sinistro e alla sinistra
non vi era più un blocco omogeneo contrario alla coalizione centrista.
Cominciava ad emergere l’idea che si potesse sviluppare una nuova
coalizione di centro-sinistra.
TAVOLA 19
II LEGISLATURA 1953-58
COMPOSIZIONE DEL SENATO
% VOTI SEGGI % SEGGI ELETTIVI
Democrazia Cristiana 39,9 113 47,7
Partito Comunista Italiano 20,5 54 23,0
Partito Socialista Italiano 12,2 28 12,0
Partito Nazionale Monarchico 7,1 16 6,8
Movimento Sociale Italiano 6,1 9 3,8
Partito Socialista Democratico 4,3 4 1,7
Partito Liberale Italiano 2,9 3 1,3
Partito Repubblicano Italiano 1,2 - -
Partito Popolare Sudtirolese 0,4 2 0,8
Liste miste DC-PRI 0,8 3 1.3
Liste miste PCI-PSI 1,1% 4 1,7
Alleanza democratica nazionale 0,5 1 0,4
Al Senato, la DC aveva avuto praticamente gli stessi voti che alla
Camera, cioè il 39,9% e , a causa della frantumazione delle liste, vi
poté eleggere 113 parlamentari pari al 47,6% a cui si aggiungevano
altri tre eletti il liste miste Democristiani-Repubblicani, portando la
percentuale globale al 49,5. Con i due della democrazia cristiana sud
tirolese la percentuale era del 50,4% . Con i sette senatori
socialdemocratici e liberali la coalizione dei partiti che alla Camera
erano apparentati arrivava al Senato alla maggioranza del 53,4% . Più
che sufficiente per fungere da maggioranza di governo , tanto più che
PCI e PSI e Alleanza Democratica Nazionale totalizzavano solo il
37% , mentre gli altri senatori eletti erano monarchici e del
Movimento Sociale Italiano. Dato il successo dei monarchici era
anche qui possibile una coalizione di centro destra fra DC e
monarchici, con i liberali .
TAVOLA 20
GOVERNI ITALIANI DELLA II LEGISLATURA 7 –6-1953—24-5-1958) MINISTRI FINANZIARI
Tesoro Bilancio Finanze VIII De Gasperi16-7-53--17-8-53 DC Pella Pella Vanoni I Pella (17-8-53—5-1-54) DC-Indipendenti Gava Pella Vanoni I Fanfani (18-1-54—31-1-54) DC Gava Vanoni Zoli I Scelba (10-2-54—22-6-55) DC-PSDI-PLI Gava Vanoni Tremelloni I Segni (6-7-55—6-5-57) DC-PSDI-PLI GavaVanoni Medici Vanoni Zoli Andreotti I Zoli (19-5-57—19-6-58) DC Medici Zoli Andreotti
L’unica cosa certa era che non vi era più il pericolo comunista. E
le alternative, ora erano fra un centro orientato verso la sinistra e un
centro-destra. Con i liberali in posizione decisiva, in quanto
indispensabili per una maggioranza di governo centrista con i
socialdemocratici e i repubblicani , quindi aperta a sinistra , ma
disponibili a favorire un governo di centro destra, se la linea della
coalizione alternativa fosse ststa troppo sbilanciata a sinistra. In
sostanza , la strategia dei comunisti , apparentemente vittoriosa, li
aveva isolati.
La formazione del governo, comunque, spettava, di diritto, a De
Gasperi : che non ottenne l’appoggio dei socialdemocratici e dei
repubblicani , scossi dall’esito elettorale e che commise l’errore di
non fare la scelta, che il quadro politico comportava, fra i due
possibili orientamenti e formò un governo monocolore che non
appagava né la parte della DC orientata a destra, che contava su
massicce forze economiche e sull’appoggio dell’Azione Cattolica; né
quella che propugnava la “apertura a sinistra”, che poteva contare sul
supporto di due sindacati liberi, la CILS , di orientamento
prevalentemente cattolico e la UIL di orientamento prevalentemente
socialdemocratico e repubblicano. Anche il neonato ENI , guidato da
Enrico Mattei spingeva verso un orientamento di centro sinistra , per
il proprio naturale ruolo nell’economia e a causa del supporto della
corrente della DC di base. Il governo di De Gasperi, come i
precedenti, realizzava il bilanciamento delle due anime della DC ,
mediante la diarchia, nella politica economica, di Pella, al Tesoro e al
Bilancio e Vanoni alle Finanze. De Gasperi sperava di poter ottenere
almeno il voto dei socialdemocratici e dei repubblicani e qualche
benevolenza dei socialisti , tramite il fatto che , nelle consultazioni,
per la formazione del governo, chiamò anche Nenni e Togliatti. Ma
ciò ebbe il risultato opposto : poiché dava la sensazione di un appello
all’unità nazionale, mentre la linea da loro auspicata era quella
dell’apertura a sinistra.
Alcide De Gasperi, il prestigioso premier del miracolo economico,
così, dopo un solo mese dovette gettare la spugna. E dovette
prendere atto che il suo progetto politico centrista era finito . Entrava
in campo Giuseppe Pella che, interpretando i voti del paese, pensava
di poter formare un governo di centro destra, data la grande
affermazione dei partiti della destra. Per altro , vi era il problema
della omologazione dei monarchici alla partecipazione a un governo
di una giovane repubblica . E naturalmente appariva impossibile
fondare il governo sul MSI , poiché la DC si dichiarava
rigorosamente antifascista . E fra gli errori di De Gasperi , fermo alla
sua esperienza postbellica, vi era stato quello di avere privilegiato,
anche da ultimo, i partiti del cosiddetto “arco costituzionale”. Il
governo Pella pertanto non poteva includere organicamente le forze
politiche di destra, ma si avvaleva , per questo scopo, di personalità
indipendenti, ad essere presumibilmente gradite. Intanto continuava
la presenza di Vanoni alle Finanze, che doveva lanciare un
messaggio alle sinistre. Comunque, nonostante l’opposizione dei
socialdemocratici e dei repubblicani, e l’assenza dei liberali dal
governo, Pella con i voti dei monarchici poteva contare sulla
maggioranza. Nonostante la sua abilità , il suo governo però non
durò oltre il gennaio 1954. L’occasione per la sua caduta, fu la sua
linea politica, accesamente nazionalistica sulla questione di Trieste.
In realtà nella DC stava avendo il sopravvento la maggioranza
favorevole all’apertura a sinistra. Gli succedette un governo
monocolore presieduto dal leader della sinistra cattolica moderata
Amintore Fanfani. Questo, per altro non poté durare più del breve
periodo di un mese perché non era riuscito a convincere i
socialdemocratici, i liberali e i repubblicani a darvi il loro appoggio.
Ed infatti, Vanoni era stato tolto dal Ministero delle Finanze e
mandato al bilancio , ma in questa posizione non avrebbe potuto
svolgere agevolmente il compito di coordinamento della politica
economica proprio di tale Ministero , in quanto il Tesoro era stato
affidato a Silvio Gava , leader emergente della destra democristiana
fautore di una interpretazione rigorista della linea Pella , mentre alle
Finanze vi era Adone Zoli un notabile di spicco, che difficilmente
avrebbe accettato di essere coordinato da Vanoni, data la sua
caratura politica e il suo carattere. Adone Zoli, presidente del
Consiglio Nazionale democristiano, apparteneva al gruppo dei
popolari storici degli anni ’20 e poi del gruppo dei fedelissimi di De
Gasperi, aveva guidato il movimento contadino toscano nel
dopoguerra , si era battuto per la Repubblica contro la monarchia,
mostrava simpatia per i socialisti di Nenni, ma antipatia per i
socialdemocratici, avendo fatto parte della resistenza toscana, si
faceva vanto anche di un rigoroso antifascismo , se ne ignoravano
totalmente le idee economiche, salvo le posizioni a favore dei piccoli
coltivatori diretti . Forse per il suo integralismo, era considerato con
diffidenza dai socialisti , dai socialdemocratici, dai repubblicani e dai
liberali. All’agricoltura vi era Giuseppe Medici, un economista
agrario di grande levatura, ex liberale, fedele alla tradizione liberista,
la cui impostazione, nella tematica agricola, era antitetica a quella di
Zoli. E all’industria vi era Salvatore Aldisio, esponente della destra
democristiana più conservatrice. Come monocolore di centro
orientato verso la sinistra questo prima governo Fanfani appariva
assai ambiguo. Caduto questo monocolore l’incarico pertanto fu
dato a Mario Scelba che poté formare una coalizione con i
socialdemocratici e i liberali, in cui Saragat era vice presidente del
Consiglio, mentre alle Finanze andava l’economista
socialdemocratico Roberto Tremelloni. Per Vanoni, al Bilancio, ciò
significava la possibilità di un efficace coordinamento della politica
economica, poiché la linea di Tremelloni coincideva con la sua.
Gava, al Tesoro, rimaneva in posizione minoritaria . La garanzia che
Scelba dava, sul lato destro della coalizione, stava nella sua
reputazione di netto anti comunismo e di assoluta fedeltà al Patto
Atlantico, che si era fatta come Ministro degli Interni nei governi De
Gasperi dal 1947 al 1953. Fu in questo periodo che venne lanciato il
piano decennale di sviluppo economico di Ezio Vanoni, che apriva la
nuova linea di programmazione indicativa di lungo termine, gravida
di implicazioni per il mutamento della politica economica, verso una
linea che, pur favorevole al mercato, ammette l’esigenza di
sistematici interventi pubblici di carattere correttivo, ai fini della
crescita del prodotto nazionale e dell’occupazione. Il 26 aprile del
1955 veniva eletto, alla presidenza della Repubblica, il democristiano
di sinistra Giovanni Gronchi. Segno chiaro che un nuovo indirizzo
andava maturando nello schieramento politico centrista. Nel febbraio
del 1956, dopo l’andata al potere di Kruschiov nell’URSS, a seguito
della morte di Stalin , cominciavano a emergere gli orrori dello
stalinismo. Il 24 giugno Pietro Nenni su l’Avanti!” prendeva
posizione contro la dittatura comunista nell’URSS. Il 26 giugno il
governo Scelba entrava in crisi. Il 30 giugno Togliatti ribadiva, nella
Rivista “Nuovi Argomenti”, la sua linea filo stalinista. Oramai era
chiaro che si stava determinando una frattura e una svolta nello
schieramento politico della sinistra e il 6 luglio il governo Scelba
terminava la sua vita. La linea fermamente anticomunista e
favorevole al patto atlantico, di difesa comune con gli USA, che
Scelba sosteneva , gli valse attacchi furibondi dalla stampa e dagli
intellettuali di area comunista e para comunista, che riuscirono a
descriverlo come una figura di cupo questurino , mentre si trattava di
una leader di alto profilo che aveva iniziato un nuovo corso politico
di grande importanza politica ed economica. In realtà, nel governo
Scelba, Tremelloni aveva portato avanti con energia la riforma
tributaria di Ezio Vanoni. Un difficile cammino, che fu interrotto con
la sua caduta e non fu più ripreso, per molti anni. Gli succedeva un
governo, durato circa un anno, di Antonio Segni di indirizzo centrista
“dinamico”, cioè aperti a sinistra, con i socialdemocratici e i liberali ,
che aveva il compito agevolare lo spostamento definitivo dei
socialisti nell’area atlantica e della integrazione economica europea.
Nella troika economica rimanevano Gava e Vanoni, Tremelloni
veniva sostituito da un prudente Andreotti, che faceva aperta mostra
di non desiderare di portare avanti la riforma tributaria. I
socialdemocratici ottenevano Ministeri economici (Lavori Pubblici
per Romita e Lavoro per Vigorelli) altrettanto importanti , ma meno
impopolari delle Finanze , agli esteri rimaneva il liberale Gaetano
Martino . Intanto i rapporti fra socialdemocratici e socialisti subivano
una svolta importante, con l’incontro di Saragat e Nenni, a
Pralognan, in Francia il 25 agosto. In ottobre si verificava
l’insurrezione ungherese . repressa con la violenza e il sangue dai
carri armati russi, che determinava una nuova crisi nella sinistra : il
PCI rimaneva fedele a Mosca, mentre i socialisti pronunciavano una
ferma condanna dell’Unione Sovietica e il patto di Unità di azione fra
i due partiti veniva trasformato in patto di consultazione . Il 22
dicembre 1956 nasceva il Ministero delle Partecipazione Statali,
chiara espressione dell’indirizzo , che andava emergendo, di
intervento pubblico nell’economia di mercato ai fini di sviluppo
economico, nel quadro delle linee di economia sociale di mercato
tracciate dal piano Vanoni. Segni, però, prudentemente assegnava il
nuovo Ministero all’onorevole democristiano Giuseppe Togni,
notoriamente collegato al mondo dell’industria privata, suscitando
vivaci polemiche. In Gennaio si dimetteva il ministro del Tesoro
Gava, per dissensi sulla linea del governo, relativi alla spesa pubblica
e l’interim del Tesoro veniva assunto da Ezio Vanoni . Nel febbraio
Vanoni moriva , subito dopo il discorso al Senato sul bilancio, in cui
aveva difeso la linea di rigore dell’ex collega Gava , ma con una
maggiore flessibilità di questi, in relazione alle esigenze sociali, di
creazione di occupazione e sviluppo. Con la morte di Vanoni, che,
con il suo piano decennale per lo sviluppo e l’occupazione, era il
perno della coalizione politica di centro orientata verso il centro
sinistra, il governo Segni subiva un notevole indebolimento politico.
Al posto di Vanoni, al bilancio veniva nominato Adone Zoli che ,
ufficialmente, ne continuava la politica economica, secondo le
indicazioni del piano decennale vanoniano: ma rimaneva alle
enunciazioni macroeconomiche, senza affrontare i problemi
strutturali che esso sottintendeva. Al Tesoro andava Giuseppe
Medici, che si ispirava, in modo più duttile di Gava, alla linea Pella .
Zoppicante, nella politica economica di medio termine , però il
governo Segni riusciva ancora ad effettuare alcune scelte, che
saranno fondamentali per lo sviluppo economico italiano di lungo
termine. Infatti il 25 marzo del 1957, esso , mediante l’azione del
Ministro degli Esteri, il liberale Gaetano Martino, il governo Segni
realizzava un evento di importanza storica eccezionale: la creazione,
a Roma, del MEC, il Trattato che darà vita alla Comunità Europea,
firmato da Francia, Germania, Italia, Belgio, Olanda e Lussemburgo.
Dal MEC derivava, per tutti i paesi aderenti, l’obbligo di procedere,
con varie tappe, alla abrogazione completa delle tariffe doganali fra i
paesi membri e ad armonizzarne le imposte indirette :una scelta
coraggiosa , di adesione all’economia di mercato aperta, che genererà
nuove grandiose spinte allo sviluppo economico e sociale italiano,
ma anche nuovi squilibri ed esigenze di correttivi. I socialisti si
astenevano sul tratto del MEC e votavano a favore di quello per
l’Euratom , la comunità europea del settore nucleare, che veniva
simultaneamente costituita. Intanto incombeva la discussione sulla
legge sui patti agrari fra proprietari ed affittuari o mezzadri, in cui vi
era la questione del diritto dei proprietari al recesso , che fu accolto,
con una definizione di compromesso della “giusta causa”. La
soluzione considerata troppo favorevole agli agrari non soddisfaceva
i repubblicani e i socialdemocratici , ma dispiaceva per ragioni
opposte, ai liberali, in cui la destra di Giovanni Malagodi stava
prendendo il sopravvento. In realtà l’elettorato dei socialdemocratici
e dei repubblicani non erano molto interessato al tema dei patti
agrari, ma i due partiti miravano a un governo senza i liberali, con
l’astensione dei socialisti, che continuasse con determinazione ,
anziché con vaghezza, nella linea vanoniana, . Il 6 maggio Saragat
ritirava la fiducia dei socialdemocratici al governo Segni, che
entrava, perciò, in crisi. La soluzione politica (e di politica
economica ) prospettata dai socialdemocratici e dai repubblicani ,
per la quale il presidente della Repubblica Gronchi aveva chiara
simpatia, però veniva considerata inaccettabile dalla DC. L’incarico
veniva perciò dato ad Adone Zoli , che – ufficialmente super partes-
formava un governo di democristiani con l’aggiunta di tecnici,
orientato al centro destra, confidando nell’appoggio dei monarchici.
Giuseppe Pella non aveva la guida della politica economica, ma gli
veniva affidato il Ministero degli Esteri, che, con la firma del Trattato
del MEC, acquistava grande rilevanza, anche per la politica
economica. Il Ministro del Tesoro era affidato a Giuseppe Medici .
Al Ministro del commercio estero veniva nominato il tecnico
liberale Guido Carli . Alle partecipazioni statali andava Giorgio Bo,
un democristiano di sinistra di Genova fautore delle imprese a
partecipazione statale . Zoli , per accattivarsi le destre, nei discorsi
sulla fiducia, al Senato e alla Camera, fu molto aspro con i
socialdemocratici, accusandoli di clientelismo, una critica che poi i
comunisti svilupparono in modo martellante, per denigrare quella
linea socialdemocratica i cui esponenti spregiativamente
denominavano come social traditori .Dichiarò, comunque, che non
avrebbe considerato determinante il voto del MSI. Confidava sul
fatto che, dal punto di vista numerico, questi voti non erano
necessari. E al Senato, infatti, riuscì ad avere la fiducia , anche a
prescindere dai voti missini. Ma non aveva fatto i conti con la
avversione di alcuni democristiani alla linea di centro destra, che
determinò alcune assenze, nel voto di fiducia alla Camera . Ivi il suo
governo passò con una discreta maggioranza in cui , per altro, risultò
determinante il voto di un onorevole del Movimento sociale. In
coerenza con le sue dichiarazioni Zoli rassegnò le dimissioni.
Rimandato alle Camere da Gronchi, data l’impossibilità di formare
un nuovo governo, Zoli dichiarò che il suo era un governo di
minoranza precostituita : praticando così quella discriminazione
contro il MSI , che apparteneva alla tradizione dell’Unità Nazionale
Antifascista e che, sempre di più, contrastava con l’esigenza di
pacificazione nazionale. Il suo governo, per altro, riuscì a durare per
tutta la restante parte della legislatura, senza particolari problemi,
data la maggioranza effettiva di cui godeva. E la troika economica, in
cui egli manteneva il bilancio, funzionò bene, ispirandosi, nelle
grandi linee macro economiche ai principi del piano Vanoni. Si
trattava però quasi completamente di ordinaria amministrazione .
L’unica decisione strutturale di rilievo fu il passaggio all’Iri , della
Teti, la società telefonica privata che eserciva le reti del Lazio e
della parte tirrenica dell’Italia Centrale della Timo, che eserciva
quelle dell’Italia Meridionale . L’IRI, che già deteneva con la Stipel
la Telve e la Timo, rispettivamente, le rete telefoniche dell’Italia del
Nord Ovest, del Nord Est e dell’Emilia Romagna settentrionale e
della parte adriatica dell’Italia Centrale, diventava così titolare di
tutte le linee telefoniche nazionali , che raggruppava nella Stet. I
problemi strutturali che emergevano, con l’impetuosa crescita
economica, per la maggior parte, rimanevano nel cassetto, comprese
la attuazione delle Regioni e del Sistema Sanitario Nazionale,
previsti dalla Costituzione. La formula centrista appariva inadatta ad
affrontarli. E le nuove elezioni avevano il compito di stabilire quale
rotta dovesse prendere la DC , per gestire l’Italia trasformata dal
miracolo economico in una giovane potenza industriale, bisognosa di
porsi una nuova identità.
Le elezioni del maggio del 1958, in pieno sviluppo del miracolo
economico, vedono un piccolo ma confortevole recupero della DC
che , con il 42,5% dei voti , alla Camera, riesce a raccogliere il
45,8dei seggi. Il partito socialdemocratico, ha il 4,5% dei voti e il
3,8% dei seggi : rispetto all’epoca della sua costituzione è oramai un
partito minore, ma con un serbatoio di voti stabile, ancora
importante per la formazione della maggioranza politica nazionale,
che per salvaguardare il processo di sviluppo e la democrazia, deve
opporsi alla martellante minaccia comunista, alimentata dall’Unione
Sovietica nel gelido clima della “guerra fredda”, caratterizzata dalla
reciproca minaccia nucleare . Il partito liberale in significativo
recupero con il 3,5% dei voti ha il 2,8% dei seggi, mentre i
repubblicani nonostante siano rimasti fuori per tanti anni dalle
coalizioni di governo e abbiano fatto una alleanza con il movimento
radicale, formato da liberali di sinistra, ottengono solo lo 1,4% dei
voti e lo 1% dei seggi. Su di loro sembra incombere , la minaccia
dell’estinzione, perché la loro linea di centro sinistra , non è ancora
decollata. Un altro 0,5% dei voti e dei seggi è del Partito Popolare
Sud tirolese. Alla DC alla Camera bastano i socialdemocratici e i
repubblicani, per formare un governo di centro sinistra . Il
quadripartito alla Camera teoricamente ha il 53,5% ma si tratta di
una maggioranza anacronistica. I monarchici , divisi in due partiti,
hanno il 4,8% dei voti e il 4,5% dei seggi. Il Movimento Sociale ha
il 4,8% dei voti e il 4% dei seggi. Chiaramente è possibile anche una
maggioranza di centro destra, anche senza i liberali . Essa è
numericamente più modesta del tripartito, ma con l’astensione del
Movimento sociale , può contare di fatto su un buon supporto
parlamentare . Ma i socialisti, che si stanno affacciando all’area
governativa , hanno ottenuto un largo consenso, raggiungendo il 14,
2% dei voti . La corrente autonomista di Nenni ha raccolto il 58% dei
voti nel Congresso di Napoli ed è ora al potere nel Partito.
L’impostazione autonomista da loro un notevole premio in termini
di voti. Più che nella precedente legislatura sono possibili sia il
centro destra, che il centro sinistra e il centrismo è oramai finito. Ma
data la disponibilità dei socialisti all’entrare nell’area di governo,
emerge maggiormente la linea di centro sinistra.
Per quanto riguardava il Senato, a causa del frazionamento dei
distretti elettorali, che impediva ai partiti minori di avere bastanti voti
per un seggio, la DC, con il 41,2 dei voti vi otteneva ben 123 seggi,
pari al 49,5% degli eletti (vi erano in aggiunta 5 senatori a vita, di
nomina del Capo dello Stato), mentre i socialdemocratici con il 4,4%
dei voti vi ottenevano solo 5 seggi, pari al 2% e i liberali con il 2,9%
dei voti conseguivano solo 4 seggi, pari allo 1,6% . I repubblicani
alleati con i radicali non riuscivano a ottenere alcun seggio, mentre
ne conseguiva 2 , pari allo 0,8% dei seggi il partito popolare sud
tirolese , che aveva ottenuto il solito 0,5 dei voti otteneva 2 seggi
pari allo 0,8% dei seggi. Le liste PCI-PSI che si presentavano in
Sardegna ottenevano lo 0,7% dei voti e 2 seggi.
TAVOLA 21
ELEZIONI DEL SENATO PER LA III LEGISLATURA 1958 -
1963
% Voti Seggi % Seggi Elettivi
Democrazia Cristiana 41,2 123 49,5
Partito Comunista Italiano 21,8 59 23,7
Partito Socialista Italiano 14,1 35 14,1
Partito monarchico popolare 3,0 5 2,0
Partito Nazionale Monarchico 1,9 2 0,8
Movimento Sociale Italiano 4,4 8 3,2
Partito Socialista Democratico 4,4 5 2,0
Partito Liberale Italiano 3,9 4 1,6
Partito Repubblicano Italiano e 1,2 - -
partito radicale
Partito Popolare Sudtirolese 0,5 2 0,8
Liste miste PC-PSI 0,7 2 0.8
Liste miste PCI-PSI 1,1% 4 1,7
Unione Valdotaine 0,1% 1 0,4
Era evidente che per la DC , anche al Senato, come e ancor più che
alla Camera, partito dominante, erano possibili tre combinazioni:
l’alleanza con i soli socialdemocratici e repubblicani , che poteva
contare su 130 voti pari al 52,4% e col tempo, l’astensione socialista
, il quadripartito che poteva contare su 134 voti pari al 54% dei voti ,
l’alleanza con i monarchici , che poteva contare su 132 voti, pari al
53,2% e, naturalmente, poteva avere come conseguenza l’astensione
o il voto favorevole del Movimento Sociale Italiano. I comunisti
completamente e rabbiosamente emarginati, temevano soprattutto
l’apertura a sinistra con la presenza dei socialisti fra le forze di
governo, che li avrebbe isolati politicamente in un ghetto. E si
dedicarono, pertanto, con tutte le loro energie, a cercare di farla
fallire, sia con le agitazioni di piazza e sia con i collegamenti, che
ancora avevano, all’interno del PSI , i cui quadri periferici
dell’apparato del partito erano stati selezionati dal segretario
Rodolfo Morandi, fra i filo comunisti, anche perché il finanziamento
del PSI dipendeva , in larga misura, dal PCI , che riceveva i fondi da
Mosca e anche Pechino , con vari sistemi , fra i quali campeggiavano
i lucri sul commercio estero con l’URSS e la Cina.
TAVOLA 22 GOVERNI ITALIANI DELLA III Legislatura:25-5-1958—15-5-
1963 MINISTRI FINANZIARI Tesoro Bilancio Finanze 2° Fanfani 1-7-58--26-1-59: DC-PSDI Andreotti Medici Preti 2° Segni 15-2-59--24-2-60: DC Tambroni Tambroni Taviani 1° Tambroni 25-3-60--19-7-60: DC Taviani Tambroni Trabucchi
3° Fanfani 26-7-60--2-2-62: DC Taviani Pella Trabucchi 4° Fanfani 21-2-62--16-5-63:DC-PRI-PSDI Tremelloni La Malfa Trabucchi
Il disgelo fra socialisti e socialdemocratici che aveva avuto luogo con
l’incontro fra Nenni e Saragat a Pralognan , aveva dato poi luogo, nel
1957, nel congresso di Venezia del PSI a una situazione fluida: la
mozione autonomista riformista di Nenni aveva avuto la
maggioranza, ma nel comitato centrale la corrente di Nenni era
andata in minoranza, aveva vinto con notevole margine un assieme di
correnti contrarie, ma lui era stato egualmente confermato alla guida
del partito . All’inizio della legislatura si ebbe così un secondo
governo Fanfani, bicolore con il socialdemocratici che guardava a
sinistra . La troika economica aveva connotati ambigui :Andreotti al
Tesoro, Medici al bilancio, il prudente socialdemocratico Luigi Preti
alle Finanze. Esso però durò un semestre soltanto .La maturazione
dei socialisti come forza di governo del centro sinistra era ancora
lenta e incerta. Gli succedette nel febbraio del 1959 un monocolore
di Segni, sostenuto dal quadripartito, che mirava ad accattivarsi i
socialisti , mediante la presenza al Tesoro e al Bilancio di Ferdinando
Tambroni, molto vicino al presidente dell’ENI , Enrico Mattei, che
aveva lanciato un programma economico di programmazione
economica. Alle Finanze vi era Paolo Emilio Taviani, un economista
democristiano con un temperato orientamento vanoniano. Alle
partecipazioni statali vi era l’economista democristiano Mario Ferrari
Aggradi a lungo collaboratore e devoto seguace di Ezio Vanoni, sul
cui pensiero e azione politica aveva appena scritto un libro. Nello
stesso tempo, il governo Segni mirava ad accattivarsi le simpatie dei
liberali , in quanto Tambroni era decisamente anti comunista e ,
comunque, riteneva che i socialisti avessero ancora bisogno di alcune
rotture con i comunisti per diventare parte affidabile dello
schieramento democratico. E agli esteri Segni aveva chiamato di
nuovo Giuseppe Pella, il prestigioso leader della DC liberale. Il
governo Segni durò sino al febbraio 1960, in modo abbastanza
precario, in quanto la DC era incerta di fronte ai socialisti e i liberali
non gradivano la apertura ai socialisti . Il governo Segni cadde, in
pieno boom economico, causato dall’etto espansionista del MEC, con
il ritiro della fiducia al governo da parte dei liberali. Il presidente
Gronchi allora dava l’incarico di formare un governo “pendolare” a
Ferdinando Tambroni, che aveva le due caratteristiche di propugnare
un programma basato su una programmazione economica volta a
rafforzare e aggiornare le indicazioni del Piano Vanoni e di essere
anticomunista e diffidente delle residue consistenti alleanze fra
socialisti e PCI , che si manifestavano in sede amministrativa , con le
giunte rosse. Tambroni conservava il bilancio, mentre al Tesoro
andava Taviani e le finanze andavano al tecnico democristiano
Giuseppe Trabucchi. Alle partecipazioni statali rimaneva
l’economista, discepolo di Vanoni, Mario Ferrari Aggradi. Al voto ,
tutti i partiti del quadripartito si mostrarono ostili, per opposte
ragioni, al governo Tambroni, che passò con i voti determinanti del
Movimento sociale , che si dichiarava “destra sociale”. La linea di
Tambroni , sostenuta da Gronchi, era quella di creare le condizioni di
fatto per il centro sinistra, avvalendosi dell’argomento di volere
evitare la svolta a destra, determinata dall’aperta partecipazione del
MSI alla sfera di governo. Ma i socialisti di Nenni avrebbero
desiderato una maggiore cautela di Tambroni verso la destra , per
poterlo sostenere , con la loro astensione, per un governo di tregua ,
incaricato di far votare i bilanci.22 Intanto poteva maturare la loro
adesione al centro sinistra , a cui Ugo La La Malfa per i repubblicani
e Saragt per i socialdemocratici stavano attivamente lavorando. I
comunisti capivano che il rischio in questione era imminente e ,
inoltre, paventavano la definitiva emarginazione, che avrebbe avuto
luogo se il MSI fosse stato “sdoganato” grazie al successo di
Tambroni, indubbiamente favorito dal boom economico. Infatti
Tambroni riuscì a diminuire il prezzo della benzina e dello zucchero
ed accelerava, con crescente successo, la attuazione del MEC . Ve ne
era abbastanza perché i comunisti scattassero descrivendo il governo
Tambroni come asservito ai gruppi monopolistici nazionali e
internazionali e dando luogo ad agitazioni a catena, con elementi di
vera a propria sommossa, per screditare il governo Tambroni ,
impegnato nella tutela dell’ordine pubblico. La prima occasione fui
22 Ciò risulta chiaramente dai Diari di Pietro Nenni, che annotava “Ne noi, né Saragat, né Oronzo Reale (leader dei repubblicani , mia nota) avremmo potuto rifiutare, in questo caso, la nostra astensione. Invece Tambroni si è avventurato in un programma di dieci anni, cioè nella più artificiosa delle costruzioni. Rischia così di avere i soli voti dei fascisti. Pressappoco un suicidio.”
l’autorizzazione al congresso del MSI di Genova del luglio 1960:
considerato una provocazione di Tambroni per la natura antifascista
di Genova ! E del resto già autorizzato dal precedente governo Segni.
Sciopero generale del 30 giugno proclamato dalla Camera del Lavoro
di Genova, un corteo di centomila persone, lacrimogeni, incendi di
camionette della polizia, barricate , poliziotti contusi e manganellate
di rivalsa. IL MSI ,a cogliendo la richiesta del Prefetto di Genova,
rinuncia al congresso e ritira l’adesione al governo. Ma il 5 luglio a
Licata, nel corso di uno a sciopero generale, per l’industrializzazione,
nuovi disordini e questa volta un morto e cinque feriti gravi fra i
dimostranti. Altri disordini a Rom, nel corso di una manifestazione
non autorizzata in cui alcuni parlamentari comunisti e socialisti
vengono contusi. Scioperi a Bologna, Ravenna, Ferrara, Parma, città
rosse, e anche a Napoli . Poi lo sciopero generale di Reggio Emilia,
proclamato dalla CGIL, cui non aderiscono CISL e UIL :cinque
morti e numerosi feriti fra i dimostranti perché , secondo la
ricostruzione della Questura, “ agenti e militi, dileggiati , insultati e
bersagliati da sassaiole “ anche nei giorni precedenti avevano perso il
controllo della situazione. Tambroni era convinto di trovarsi di fronte
a una situazione insurrezionale, guidata dai comunisti e Nenni stesso
annotava nei suoi diari che “ la vittoria antifascista di Genova viene
usata dai comunisti in termini di frontismo , di ginnastica
rivoluzionaria, di vittoria della piazza, tutto il bagaglio estremista che
pagammo caro nel 1919”. 23 Le nuove violenze e repressioni 23 Cfr la ricostruzione di Luciano radi, in Fernando tambnroni e la crisi del 1960, in Il Parlamento
causarono la definitiva caduta del governo Tambroni nel luglio 1960,
a seguito del ritiro della fiducia da parte della DC In realtà , la caduta
di Tambroni era stata colta con favore dalla DC che riteneva
necessario “raccogliere le aperture manifestatesi evidenziando la
possibilità di trasformarle in convergenze democratiche per la difesa
della libertà contro tutti gli estremismi e in particolare contro il
preoccupante attacco comunista, per lo sviluppo della solidarietà
atlantica ed europea e per una politica di sviluppo economico e di
ardito progresso sociale nella libertà” 24 . Era chiaramente l’apertura
a sinistra ,che Nenni avrebbe accettato per difendere le libertà
democratiche da involuzioni autoritarie, argomento che, prima del
governo Tambroni e delle sommosse comuniste , con conseguenti
reazioni delle forze dell’ordine gli era mancato. Il Papa Giovanni
XXIII aveva iniziato una linea di ampia apertura sociale. La DC
considerava sempre più promettente la linea di centro sinistra, che le
avrebbe consentito un largo margine di consensi parlamentari e
avrebbe isolato i comunisti , appagando invece il crescente
movimento sindacale e politico cattolico , nella linea giovannea. Un
nuovo monocolore di Fanfani (il suo terzo governo) appoggiato da
PSDI e PRI aprì , dunque, la strada alla nuova formula di governo,
dal luglio 1960 . troika economica non era molto, orientata a sinistra:
al bilancio infatti era tornato Giuseppe Pella, garanzia di ortodossia
economica e monetaria, alle finanze rimaneva il cauto tecnico
Italiano, vol. 18° 1959-1963.Una difficile transizione 24 Cfr. L. RADI, op. cit. pagina 119, I colonna.
democristiano Giuseppe Trabucchi, al Tesoro vi era ancora Taviani ,
che nel governo Tambroni, aveva dato ottima prova. Ma al Lavoro vi
era Fiorentino Sullo, leader della sinistra DC , mentre al nuovo
ministero delle partecipazioni tornava il democristiano di sinistra
Giorgio Bo, che delle partecipazioni statali era considerato il maggior
fautore. Si trattava di un governo molto autorevole, in quanto oltre
ai personaggi indicati vi erano anche Scelba, agli interni e Segni
agli esteri. Il governo era denominato di “convergenze parallele” , ad
indicare che aveva il compito di portare la DC che i socialisti
all’incontro, con la continuazione del movimento da entrambi già
iniziato . Il termine coniato da Aldo Moro non era geometricamente
strano, come è stato scritto da politologhi poco esperti di geometria.
Infatti la retta del movimento politico della DC e quella del PSI erano
ciascuna inclinata , rispettivamente verso il basso a sinistra e e verso
la destra in alto. Ma erano ancora distanti fra loro. Per convergere a
un punto di incontro , quella della DC avrebbe dovuto abbassarsi in
parallelo alla propria precedente posizione mentre quella socialista
avrebbe dovuto alzarsi, in parallelo alla precedente posizione. Ciò
stava avvenendo. Fanfani riuscì a governare con questa formula dal
luglio del 1960 al febbraio 1962 , un anno e otto mesi . Nel febbraio
del 1962 le convergenze erano raggiunte .Veniva, infatti, formato un
quarto, organico governo Fanfani con PSDI e PRI, con l’astensione
del PSI, che conduceva alle elezioni del 28 aprile del 1953 . Con
Tremelloni al Tesoro, la Malfa al bilancio e Trabucchi alle finanze, la
troika economica era decisamente cambiata. E la Malfa, con il un
suo Documento, diminutivamente denominato “ Nota aggiuntiva” al
Bilancio dello Stato, data inizio alla programmazione del centro
sinistra. L’esame che ora faremo delle vicende economiche si ferma a
tutto il 1961 , considerando il 1962 come l’ epoca di inizio del centro
sinistra organico.
STRUTTURE ECONOMICHE E VICENDE DEL PERIODO 1954-1961.
LO SVILUPPO ECONOMICO LE POLITICHE ECONOMICHE FRA ECONOMIA DI LIBERO MERCATO E
PROGRAMMAZIONE INDICATIVA
Il periodo dal 1954 al 1961, anno del centenario dell’Unità
Nazionale, benché caratterizzato dal succedersi di molti governi, con
varie formule quello successi, è caratterizzato da una rilevante
coerenza alla politica economica, che , pur con qualche oscillazione,
si svolge sostanzialmente secondo le linee macro economiche del
Piano Vanoni e con la progressiva integrazione nel mercato comune
europeo. A questa inquadramento di politica economica
sostanzialmente coerente si affianca un fattore estremamente
importante: la stabilità della politica monetaria , che è caratterizzata
dalla continuità della linea dei governatori, nella tradizione
einaudiana , basata sul perseguimento di obbiettivi di stabilità
monetaria e di priorità di finanziamento del mercato. In ciò fu di
grande aiuto la autorevolezza acquisita dai primi governatori,
succeduti ad Einaudi, con il mantenimento di tale linea, per un
periodo molto lungo: per Menichella quasi 20 anni e per Carli, che
gli successe nel 1960 , altri 15 anni.
TAVOLA 23
GOVERNATORI DELLA BANCA DI ITALIA 1960-2000
1948-1960 D.Menichella Governatore
1960-1975 G. Carli Governatore 1975-1979 P.Baffi Governatore 1979-1993 C.A.Ciampi Governatore 1993- A.Fazio Governatore
Il modello einaudiano di economia di mercato libera, con bilancio in
tendenziale pareggio e sistema tributario efficiente, per finanziare i
pubblici servizi fondamentali , era stato accolto in Italia per tutto il
periodo del “miracolo economico” , che coincideva con il periodo
politico dei governi centristi degasperiani . Man mano però emerse ,
in tale quadro, una tendenza di “economia di mercato sociale” , con
imprese pubbliche con compito di sviluppo economico e
programmazione indicativa con il piano decennale per lo sviluppo
dell’occupazione e del reddito lanciato nel 1954 dal Ministro del
bilancio Ezio Vanoni . L’economista della sinistra cattolica Pasquale
Saraceno era , assieme ad alcuni economisti neo liberali come
Ferdinando Di Fenizio e Libero Lenti , l’autore effettivo del Piano
Vanoni : in cui , come si vedrà, assieme a linee di programmazione
macroeconomica del bilancio pubblico , avevano un rilevante ruolo
le imprese pubbliche, con i due poli dell’ IRI e dell’Eni e le spese
pubbliche per infrastrutture . troviamo un leader del riformismo
socialdemocratico, l’economista . Trova, invece, scarsa audience in
Italia in tutto questo periodo la politica della spesa in deficit per il
sostegno della domanda globale . Nella impostazione del piano
decennale Vanoni, la politica di sostegno della domanda viene
accolta con il principio del bilancio pubblico in pareggio, mediante la
politica di spesa pubblica e delle imprese pubbliche nel settore delle
infrastrutture e della spesa per l’edilizia popolare e per lo sviluppo
del Mezzogiorno. La crescita è agevolata da una grande flessibilità
del mercato del lavoro, ma si concentra soprattutto nel Nord , cui
affluiscono milioni di persone dal Sud. Città come Torino, in poco
tempo, raddoppiano la popolazione , nell’area metropolitana,
passando da 600 mila abitanti a 1,2 milioni di abitanti , nel centenario
dell’unità Nazionale. Il sistema tributario conservò però una
struttura, che nonostante gli sforzi di riforma di Ezio Vanoni e del
suo successore Roberto Tremelloni al Ministero delle finanze a metà
del periodo in esame, non era adatta allo sviluppo economico. Lo
favoriva solo tramite una bassa pressione fiscale Il bilancio era in
ottime condizioni, grazie alla modestia della spesa pubblica , un fatto
finanziariamente favorevole, che però dava luogo a tensioni nei
prezzi al consumo dovute alle carenze di infrastrutture,
insoddisfazioni economiche e sociali, che generavano esigenze di
cambiamento economico sociale.
TAVOLA 24
BILANCI STATALI DAL 1953-54 AL 1962-63
PARTE EFFETTIVA MOVIMENTO CAPITALI DEFICIT DEFICIT PIL DEFICIT/PIL (in miliardi di lire ) Spese Entrate Spese Entrate saldo globale saldo effettivo globale effettivo 1953-54 2.326 2.001 184 337 171 325 1 3,2
1,29 2,46 1954-55 2.623 2.314 136 308 136 309
14,3 0,95 2,16
1955-56 2..803 2.509 98 253 138 302 1 5,6
0,88 1,93
1956-57 2. 956 2.808 112 174 86 148
16,9 0,50 0,87
1957-58 3. 323 3.098 391 353 264 225
18,1 1,45 1,24
1958-59 3.372 3.248 248 150 223 124
19,4 1,18 0,60
1959-60 4.010 3.684 590 904 +88 +326
21,6 +1,03 +1,56
1960-61 4.357 3.949 324 356 378 408
24,5 1,54 1,70
1961-62 4.855 4.548 521 405 423 271
27,4 1,54 1,00
1962-63 5.697 5.251 412 161 698 446
31,1 2.29 1,43
Il Pil , dopo una crescita modesta nel 1954, crebbe a ritmi
estremamente sostenuti, fra il 6% e il 7% annuo, nei tre anni
successivi . Vi fu una lieve flessione nella crescita nell’anno seguente
e poi un boom senza precedenti , per cinque anni, che alla fine
sboccò in una fiammata inflazionistica.
A causa delle buone condizioni del bilancio e della sostenuta
crescita, che riversava sull’economia continuamente nuovi beni, il
tasso di inflazione, nonostante le strozzature dovute alla rapidità
dello sviluppo e alle carenze nei servizi pubblici, secondo i dati del
Fondo Monetario Internazionale , risultò, in una prima fase, sino al
1958 attorno allo 1,5-3,2% annuo soltanto E nel 1959 , con
Ferdinando Tambroni Ministro del Bilancio e del Tesoro essa fu
zero, pur in presenza di una crescita del Pil superiore al 6%.. Nel
1960 l’inflazione tornò a un modesto 1,45% , mentre il PIL cresceva
a un ritmo elevatissimo (per altro il dato del 14% è gonfiato da una
anomalia statistica, dovuta al mutamento del metodo di calcolo). Nei
due anni successivi mentre il boom economico italiano continuava ,
l’inflazione si tenne fra il 2,5 e il 3% . Sfuggì di mano nel 1963 in
relazione agli eventi politici su cui ci dovremo soffermare e al fatto
che un prolungato ciclo di crescita economica aveva fatto emergere
in pieno le strozzature dell’economia, nelle infrastrutture, nei servizi
commerciali e finanziari , nella manodopera qualificata e arroventato
i prezzi.
TAVOLA 25
Tasso di inflazione Tasso di crescita del PIL
Anno (Indice Fondo Monetario) deflazionato
1954 3,19 3,7
1955 2,90 7
1956 3,00 6
1957 1,45 6
1958 2,69 4
1959 0,00 6,2
1960 1,45 14,3
1961 2,70 8,3
1962 2,82 8,1
1963 7,6 6,5
Lo sviluppo del credito alle imprese e all’edilizia d’abitazione, che
era fra i fattori propulsivi del boom, risultava favorito dal basso
livello del debito pubblico, che –ovviamente- si ricollegava al
modesto deficit del bilancio pubblico. Dal 1954 in effetti , il rapporto
fra il debito pubblico del governo centrale e il PIL scende
costantemente , portandosi, al termine della II legislatura , al 44% del
Pil e giungendo, nel 1962 a solo il 35% del Pil. Il periodo del
centrismo aperto a sinistra, in cui vi sono stati continui cambiamenti
di governo, con mutamenti nella rotta politica, non ha dato luogo a
un incremento, ma a una sostanziale diminuzione del debito pubblico
. La ragione di fondo sta , ovviamente, nella elevata crescita del PIL,
ma anche nel modesto deficit dei bilanci, che in un anno si è anche
tradotto in surplus. Si è trattato, generalmente, di governi che
seguivano la linea indicata dal Piano Vanoni , di perseguire la
crescita del PIL in regime di bilanci tendenzialmente in equilibrio,
per favorire la devoluzione del risparmio al finanziamento
dell’economia produttiva, in cui erano molto importanti le imprese
private e l’edilizia di abitazione, ma giocavano un ruolo notevole e
crescente le imprese a partecipazione statale del gruppo IRI e
dell’ENI.
TAVOLA 26
IL DEBITO PUBBLICO ITALIANO DAL PERIODO DEGASPERIANO AL PERIODO DEL CENTRISMO APERTO
A SINISTRA (1954-1962)
Anno Debito pubblico Pil Debito pubblico/ A prezzi correnti a prezzi correnti Pil (miliardi di lire ) ( miliardi di lire ) %
1954 6.740,00 13.634,00 49% 1955 7.300,00 15.042,00 49% 1956 7.630,00 16.360,00 47% 1957 7.900,00 17.565,00 45% 1958 8.390,00 18.862,00 44% 1959 8.900,00 20.029,00 44% 1960 9.290,00 23.210,00 40% 1961 9.640,00 25.810,00 37% 1962 10.220,00 29.000,00 35%
Fonti :
Per il periodo 1947-1948: Banca d'Italia, "Bollettino statistico",n.1 del 1948 e n.1 del 1949 Per il periodo 1949-1998: Fondo Monetario Internazionale , Debito totale del governo
centrale
Negli otto anni considerati il PIL crebbe, in termini reali, con
riferimento al tasso di inflazione italiano così come rilevato dal
Fondo Monetario e con riferimento ai prezzi impliciti , secondo i
calcoli del gruppo Fuà 25., del 70% ad un tasso medio annuo del 7%.
Quello pro capite aumentò del 64% a un tasso medio annuo del 6,4
%.
TAVOLA 26
IL PIL ITALIANO NEL PERIODO DEL BOOM DEL
MIRACOLO ECONOMICO 54-1962
Anno PIL (lire correnti) PIL (miliardi %crescita%crescita Pop.Pop. (migliaia)
PIL pro capite
di lire 2001) consumo PIL reale (migliaia) (miliardi per mille ab.)
1954 13634 323.398 3,7 5,8 48477 6,71955 15042 347.018 7,0 6,3 48789 7,11956 16360 359.609 5,6 4,4 49052 7,31957 17565 378.701 5,8 6,4 49311 7,71958 18862 388.179 4,4 4,6 49640 7,81959 20029 411.535 6,2 7,6 50023 8,21960 23210 470.379 14,3 7,1 50372 9,3 1961 25810 508.326 8,2 8,3 50675 10,11962 29000 549 .396 8,1 10,5 51012 11,0
Le trasformazioni economiche che ebbero luogo in Italia in quel
periodo sono imponenti. Nel 1951 l’agricoltura ha ancora una
posizione fondamentale, accanto all’industria e il terziario è
prevalentemente di commercio per il consumo . Nel 1954 25 Cfr. P. ERCOLANI, (1969 e 1975) citato, pag. 418 .
l’agricoltura è scesa al 9 e mezzo per cento e nel 1961 allo 8,7 % .
L’industria che era il 30% ancora nel 1954, in pochi anni , nel 1961,
arriva a sfiorare il 34% . I servizi sono oramai vicini al 40% del PIL.
Nel settore dei servizi , accanto alle attività commerciali, si
sviluppano i servizi tecnici alle imprese, le professioni, la finanza, il
commercio internazionale. Il contributo della Pubblica
Amministrazione al prodotto nazionale non riesce a tenere il ritmo di
espansione dell’industria e del settore dei servizi di mercato: e così
dal 15% del 1951 arriva al 21,4% nel 1954 , ma scende poi al 18%.
Qui si annidano problemi, che esploderanno nel periodo successivo.
TAVOLA 27 COMPOSIZIONE PERCENTUALE DEL PRODOTTO INTERNO
LORDO 1951-1961
Anno Agricoltura Industria Servizi Pubblica Amministrazione Grado di apertura
Internazionale
1951 19,0 30 ,0 36,0 15,0 11,4
1956 9.4 30,5 38,7 21,4
1961 8,7 33,8 39,2 18,3 21,2
FONTE Per i dati di composizione settoriale del prodotto nazionale del 1951 , P. ERCOLANI (1969) in FUA’ Lo sviluppo economico in Italia, Milano, Angeli, vol.III, calcolati con prezzi 1963 . Per gli altri dati N. ROSSI, A. SORGATO e G. TONIOLO, I conti economici italiani. Una ricostruzione statistica 1890-1990, Rivista di Storia Economica, 1993. I dati di Rossi-Sorgato-Toniolo sottovalutano l’agricoltura e sopravalutano i servizi e la Pubblica Amministrazione rispetto a quelli di Ercolani-Fuà , in quanto basati su diversi indici di prezzi.
La riduzione di importanza dell’occupazione e della produzione del
settore agricolo sottende anche a un grosso sviluppo della
produttività in agricoltura che si realizza tramite la sua
“industrializzazione”. Una spia della imponente trasformazione
tecnologica e culturale del mondo agricolo italiano è data
dall’impiego di prodotti chimici in agricoltura.
TAVOLA 28
Concimi chimici distribuiti all'agricoltura (medie annue; migliaia di tonnellate) Fosfatici Azotati Potassici Complessi Totale 1931 1.095 101 23 - 1.219 1925-26 1.489 187 46 - 1.722 1931-40 812 513 42 18 1.385 1939-40 1.714 854 58 26 2.652 1941-50 818 478 41 4 1.341 1951-60 1.600 1.159 175 481 3.415 1961-65 1.143 1.289 217 1.454 4.103 Fonte: R. PETRI (2002) Storia economica di Italia , Bologna, Il Mulino Istat, Sommario di statistiche storiche dell'Italia 1861-1965, Roma 1968; M. Pezzati, Agricoltura e industria: i concimi chimici, in P.P. D'Attorre e A. De Bernardi (a cura di), Studi sull'agricoltura italiana. Società rurale e modernizzazione, Milano, Feltrinelli, 1996.
Nel periodo fascista, per le esigenze dell’autarchia, lo utilizzo e lo
sfruttamento del terreno coltivabile fu spinto al massimo, Così il
consumo di fertilizzanti aveva subito un incremento continuo,
accrescendosi in 20 anni di un 216 % . Nel dopoguerra l’uso di
terre poco redditizie si ridusse man mano che la liberalizzazione dei
mercato faceva affluire i prodotti agricoli necessari alla nostra
economia. Ma si accresceva l’utilizzo delle terre buone , mediante
una crescente modernizzazione. Al termine del periodo del miracolo
economico il consumo di fertilizzanti, rispetto agli ultimi anni prima
della guerra aveva oramai subito un incremento del 54%. Se si
prende come base il 1950 l’incremento è di ben 300 volte .
TAVOLA 29
Produzione di alcuni beni alimentari pregiati (milioni di tonnellate)
Legumi
freschi
Agrumi
Frutta fresca
Una da
vino
Olio d'oliva
Carne bovina e suina
1938 0,22 0,74 1,07 6,64 0,18 0,62 1943 0,19 0,61 1,32 6,36 0,13 0,39 1948 0,31 0,67 1,48 6,57 0,11 0,46 1953 0,35 0,89 2,36 8,32 0,35 0,59
1958 0,47 1,13 3,26 10,05 0,26 0,60
1963 0,57 1,41 5,26 7,97 0,54 0,66 R. PETRI , (2002) Storia Economica di Italia, Bologna, Il Mulino Fonte: G.M. Rey (a cura di), I conti economici dell'Italia, Roma-Bari, Laterza, 1991, vol. I.
La produzione agricola italiana dai primi due decenni del secolo
agli anni ’60 si è evoluta qualitativamente, sia in rapporto alle
opportunità sui mercati di esportazioni, sia soprattutto per le mutate
esigenze del consumo sul mercato interno. La produzione di legumi
freschi rispetto al periodo prebellico è aumentata di quasi tre volte .
Minore è stata la crescita della produzione di agrumi,
sostanzialmente raddoppiata. Per la frutta fresca l’aumento della
produzione italiana è stato vertiginoso , più di 5 volte on riguardo
agli anni terminali dell’epoca fascista , in cui esso, a causa della
enfasi sul grano, era rimasta ai livello del 1918. Per l’olio d’oliva la
crescita è stata del 300 % rispetto all’epoca autarchica fascista :
fenomeno certamente notevole, considerati i costi e i tempi per lo
sviluppo dell’olivicoltura. Per il vino il volume è rimasto
praticamente stazionario, perché la crescita italiana è stata ed è
essenzialmente qualitativa. Si tratta di una trasformazione che ha
riguardato prima le uve e la vinificazione del Nord di Italia, poi
quelle dell’Italia Centrale mentre è in questi anni in corso la
nobilitazione del made in Italy enologico dell’Italia del sud. La
produzione di carne suina e bovina non è sostanzialmente variata
rispetto al 1938, ma ne è molto aumentata l’importazione , in
relazione alla grande crescita del nostro consumo e al grande
sviluppo dell’export italiano di salumi. L’aspetto più imponente
della trasformazione dell’economia italiana sta nella modifica del suo
grado di apertura internazionale, che si misura con il rapporto fra
volume delle importazioni ed esportazioni e PIL: era solo dello 11%
nel 1951, è quasi raddoppiato , nel 1961 in cui risulta del 21%. E’
ovvio che da un certo punto in poi, il grado di apertura si accresce a
causa dell’attuazione progressiva del mercato comune europeo, in cui
l’Italia si è inserita . Il commercio internazionale è una componente
fondamentale dello straordinario boom economico di questo periodo.
QUINTO PERIODO DAL 1962 AL 1972. IL TERZO MIRACOLO
ECONOMICO IN REGIME DI DEMOCRAZIA, MERCATO APERTO E RIFORME
TAVOLA 1 ELEZIONI DEL 1963
CAMERA DEI DEPUTATI
Seggi Elettori Votanti Voti validi %
630 34.201.660 31.766.058 30.758.031 92,9%
RISULTATI IN PERCENTUALE DI VOTI E DI SEGGI
LISTE Voti (in 1000)
% SEGGI % Numero
Democrazia Cristiana 11.776 38,3 260 41.13
Partito Socialista It. 4.257 13,8 87 13,8
Partito Comunista It. 7.768 25,3 166 26,3
Partito Socialdemocratico It.
1.877 6,1 33 5,2
Partito Liberale Italiano 2.144 7,0 39 6,2
Movimento Sociale It. 1.571 5,1 27 4,3
Partito repubblicano 420 1,4 6
Altre 1.365 3,0 0,9 17 28,5
Totale 30.758 100 630 100
SENATO DELLA REPUBBLICA
Seggi Elettori Votanti Voti validi %
315 30.989.382 28.831.008 27.471.086 93,03%
VOTI E SEGGI
PERCENTUALE
Gruppo politico Voti (in 1000) % SEGGI % Numero
Democrazia Cristiana 10.032 36,5 129 40,9
Partito Socialista It. 3.850 14,0 44
13,9
Partito Comunista It. 6.934 25,2 84 26,6
Partito Socialdemocratico It.
1.744 6,4 14 4,4
Partito Liberale Italiano
2.029 7,4 18 5,7
Movimento Sociale It. 1.459 5,3 14 4,4
Partito Repubblicano e DC ALTRI
223 5,2
1,5 11,5
4 1,2 12 3,8
Totale 27.471 100 315 100
TAVOLA 2
CAPO DELLO STATO:
Antonio Segni (1962-1964): fu costretto a dimettersi dopo solo 2 anni e 6 mesi, perché
colpito da un grave ictus . Giuseppe Saragat (1964-71)
I l risultato delle elezioni del 1963 diede luogo a una robusta
maggioranza di centro sinistra sia alla Camera che al senato. Infatti,
la DC , nonostante il sistema elettorale proporzionale, con il 38 %
circa dei voti ottenne alla Camera il 41% dei seggi, mentre il PSI, che
era il secondo partito della nuova coalizione, con il 13,8% ei voti
otteneva il 13,8% dei seggi. I socialdemocratici, con il 6% circa dei
voti avevano un 5% dei seggi mentre i repubblicani, che pure
teorizzavano la nuova alleanza, mediante il loro leader Ugo La
Malfa ottenevano solo un 1,4% dei voti e meno dell’1% dei seggi. La
coalizione , alla Camera, contando anche il Volkspartei , disponeva
più del 60% dei seggi , mentre all’opposizione, sulla sinistra vi era
un fortissimo partito comunista che arrivava al 27% circa dei
deputati. A destra, l’unica forza importante era quella dei liberali,
che erano cresciuti anche essi , come i comunisti e arrivavano ad
oltre il 7%, dei voti e sfioravano il 6% dei seggi , un record storico.
La composizione del Senato, nonostante la diversità della legge
elettorale, era analoga. Anche qui la DC aveva il 41% dei seggi,
mentre i socialisti erano il 13,9% e i socialdemocratici il 4,4% .
Anche qui la DC . con gli alleati disponeva di un buon 60% dei
voti, mentre sulla sinistra, nell’opposizione campeggiava il Partito
Comunista con quasi il 27% dei seggi. Sull’ala destra, il solo partito
d’opposizione rilevante era il liberale, che aveva recuperato
fortemente. Ma nonostante il cospicuo numero di voti e di seggi, la
nuova coalizione aveva elementi di debolezza interna, perché nella
DC una parte (a destra) non simpatizzava con i socialisti, mentre
un’altra parte (a sinistra), concepiva l’alleanza con i socialisti come
un primo passo verso la vera alleanza, rappresentata dal rapporto con
i comunisti. Nel partito socialista, inoltre, vi era ancora un
consistente troncone, che non era favorevole alla nuova alleanza,
prediligendo quella con i comunisti:una parte dei “massimalisti” si
sarebbe scisso, dando luogo allo PSIUP, un’altra rimaneva nel partito
socialista , ma all’opposizione. La linea scelta dai comunisti fu
appunto quella di “chiedere sempre di più”, così da rappresentare le
riforme del centro sinistra come “inadeguate”, allo scopo di alzare,
nel paese, la richiesta sociale, da rendere difficile una azione
riformista coerente con le regole del mercato e da ridicolizzarla. Una
azione di denigrazione, che obbediva anche e in primo luogo ad
esigenze di politica estera, in quanto il PSI, con la nuova linea ,
aveva rafforzato il fronte dell’alleanza atlantica, indebolendo
l’opposizione al Patto Atlantico, che risultava oramai marginale. Glie
eventi economici e asociali di questo periodo nion possono essere
compresi senza tenere conto di questo fatto , che si concretava nella
questione “amici del neocapitalismo USA” o suoi avversari
L’interpretazione ufficiale degli intellettuali di sinistra degli anni
2000 dei risultati elettorali del 1968 e delle vicende degli anni della
contestazione “sessantottina” è la seguente, che riporto fra virgolette,
perché mi pare illustri bene il modo con cui le “lenti ideologiche”
possono deformare la lettura dei successi che, pur fra grandi
difficoltà, era riuscito a realizzare il centro-sinistra “ Le elezioni del
1968 si svolsero in un clima sociale di assoluta tensione; sono questi,
infatti, gli anni della contestazione studentesca e del nuovo
movimento operaio”.
“ La contestazione giovanile in opposizione alla guerra del Vietnam,
alle discriminazioni razziali contro i neri e in favore di una società
liberata da ogni oppressione era passata dagli Stati Uniti in Europa.
Le manifestazioni si diffusero dapprima in Francia, per poi
raggiungere anche le università e le scuole medie superiori italiane
intorno al 1967. Gli studenti in agitazione rivendicavano l'esigenza di
radicali riforme di natura scolastica, politica, sociale ed economica,
finalizzate ad un rinnovamento totale nel modo di governare.”
“Ben presto, alle agitazioni studentesche si unì la protesta operaia.
Gli operai, con i metalmeccanici in prima fila, chiedevano un rinnovo
dei contratti di lavoro, miglioramenti salariali, un modo nuovo di
lavorare, meno soffocante e avvilente, la fine delle gabbie salariali
(un sistema contrattuale per cui allo stesso lavoro corrispondevano
salari diversi a seconda della regione), un maggior peso e una più
concreta partecipazione delle classi popolari alla vita politica ed
economica del paese. Il movimento ebbe il suo culmine nel 1969 nel
cosiddetto “autunno caldo”. Nello stesso periodo prese il via la
"strategia della tensione" (nata dall'intreccio tra settori politici
conservatori, mondo degli affari, servizi segreti e logge massoniche
del tutto particolari come la P2), un lungo calvario di stragi e
attentati, cominciato con le bombe del 12 dicembre 1969 all'interno
della Banca dell'Agricoltura, in piazza Fontana a Milano, e all'Altare
della Patria, a Roma. Collegata ad un disegno politico mirato a
disorientare l'opinione pubblica e a insidiare le istituzioni
repubblicane, la minaccia reazionaria favorì la formazione di gruppi
armati di sinistra, dei quali il più importante fu quello delle Brigate
Rosse, i quali ipotizzarono un prolungamento della resistenza
partigiana .Le frange armate del movimento degli studenti e degli
operai attribuivano aspirazioni insurrezionali al movimento operaio.
In realtà, negli anni settanta la conflittualità sociale prese a diminuire
grazie ai recuperi salariali e alla legislazione dei lavoratori (lo Statuto
dei lavoratori) e ad alcune riforme quali ad esempio l'attuazione
dell'ordinamento regionale, l'abolizione delle gabbie salariali,
l'istituzione della scala mobile, il divorzio”
. In sostanza, nonostante le grandi difficoltà, il centro sinistra aveva
saputo attuare una linea di riforme economiche e sociali di grande
rilevanza. Fu invece seppellito, come inadeguato. Ciò però anche a
causa del fatto che mentre la DC migliorava i suoi risultati elettorali,
in termini di voti , se non di seggi, viceversa il PSI, che si era fuso
con il PSDI ,nonostante queste realizzazioni sociali, perdeva voti e
seggi in parlamento, il potere politico del “riformismo
socialdemocratico” declinava.
TAVOLA 3
ELEZIONI DEL 1968
CAMERA DEI DEPUTATI
Seggi Elettori Votanti Voti validi %
630 35.566.681 33.003.249 31.803.253 92,8
RISULTATI ELETTORALI IN VOTI E SEGGI
LISTE Voti (in 1.000)
% SEGGI % Numero
Democrazia Cristiana 12.442 39,1 266 42,2
Partito Comunista It. 8.557 26,9 177 28,1
Partito Socialista Un. 4.606 14,5 91 14,4
Movimento Sociale It. 1.415 4,5 24 3,8
P. S. Unità Prol. 1.414 4,4 23 3,6
Partito Liberale It. 1.851 5,8 31 4,9
Altre 1518 4,8 18
2,8
Totale 31.803 100 630 100
SENATO DELLA REPUBBLICA
Seggi Elettori Votanti Voti validi %
315 32.528.271 30.212.701 28.601.247 92,88
RISULTATI ELETTORALI IN VOTI E IN SEGGI
Gruppo politico Voti (x 1000)
% SEGGI %
Democrazia Cristiana 10.966 38,3 135 42,8
PCI-PSIUP 8.583 30,0 101 32,06
Part. Socialista Un. 4.356 15,2 45 14,6
Movimento Soc. It. 1.380 4,8 11 3,4
Partito Liberale Italiano 1.937 6,8 16 5,0
Altre 1.379 4,9 6 1,9
Totale 28.601 100 315
TAVOLA 4 CAPO DELLO STATO:
Giuseppe Saragat (1964-1971) Giovanni Leone (1971-78)
Sebbene i maggiori problemi politici, nell’area del centro sinistra, riguardassero l’insuccesso della fusione fra socialisti e socialdemocratici che aveva portato a u risultato elettorale peggiore alla somma dei voti dei due partiti nelle precedenti elezioni del 1963, in cui si erano presentati come forse politiche separate, l’effetto negativo maggiore del risultato elettorale riguardò la DC, che pure era andata bene. Essa era allarmata della enorme crescita dei voti dei comunisti, che erano oramai arrivati al 27% alla Camera, mentre al Senato, collegandosi con il PSDIUP (il partito socialista massimalista, nato della scissione del PSI-PSDI Unificati ), il PCIO era arrivato al 30% di voti e al 32% dei seggi Una cifra ingente . Questa avanzata comunista con i socialisti massimalisti e il rallentamento del successo dei socialisti riformisti, che , assieme ai socialdemocratici, avevano preso meno della somma dei voti dei due partiti, rese difficile il cammino dei governi del centro-sinistra , nella
nuova legislatura e diede origine a una fase di “solidarietà nazionale”, la cui prima e più illustre vittime fui l’economia di mercato. I governi , dopo un primo governo monocolore di Leone, furono di DC di centro , i moderati, i cosiddetti dorotei, alleati con i socialisti , come Mariano Rumor (che occupo, con tre governi gran parte della legislatura ed Emilio Colombo, La formula del centro sinistra veniva perseguita con tenacia, realizzando importanti riforme sociali, Ma nella DC stava crescendo la corrente favorevole alla apertura al PCI, sotto la pressione delle tensioni sociali e , soprattutto, del terrorismo , che dilagava nelle fabbriche, nelle scuole, nei giornali. . La situazione era in bilico. Nel 1972 però le elezioni, benché punissero i socialisti, scesi al 9% dei voti, non generarono una smentita elettorale del centro-sinistra in quanto la DC confermava le sue posizioni , sia di voti che di seggi, alla Camera e al Senato, mentre i socialdemocratici ottenevano un buon successo elettorale, sicché la coalizione di centro sinistra era ancora solida , in termini di voti e seggi. I comunisti erano fermi sulle loro posizioni. A destra, si erano molto rafforzati il movimento sociale italiani e vedevano ridotta la loro forza i liberali. Fra gli “opposti estremismi” vi era un’area di centro e centro sinistra molto ampia. Ma stavano accadendo due fenomeni: la crisi energetica, dovuta all’enorme rincaro del prezzo del petrolio, conseguente alla guerra del Golfo, lo sviluppo sanguinario del terrorismo, con il proliferare di organizzazioni terroristiche che continuavano ad incupire la situazione e a rendere drammatico l’orizzonte politico. portando la politica italiana in una situazione molto difficile , di emergenza politica ed economica. In tale scenario i comunisti poterono finalmente avanzare la loro proposta di governi e regimi di “solidarietà nazionale”, per dare “stabilità politica al paese onde affrontare i gravi problemi che la attraversavano” . La frase fra virgolette è la sintesi della proposta comunista, così come formulata dai suoi leaders, dagli “indipendenti di sinistra” , intellettuali e tecnici dell’economia, che lo fiancheggiavano e dagli ex azionisti che vi vedevano un redivivo CNL. L’aumentato del prezzo dei prodotti petroliferi , assieme alle grandi tensioni sindacali e salariali avevano generato la svalutazione della lira , la nostra moneta , nel cambio con
io dollaro e le altre monete forti, fra cui allora, il marco tedesco: e dell’esportazione di rilevanti capitali all’estero , la cosiddetta "fuga di capitali"),. TAVOLA 5 ELEZIONI DEL 1972 CAMERA DEI DEPUTATI
Seggi Elettori Votanti Voti validi %
630 37.049.654 34.524.106 33.414.779 93,2
RISULTATI ELETTORALI –VOTI E SEGGI- NUMERO E PERCENTUALI
LISTE Voti (in 1000)
% SEGGI Numero %
Democrazia Cristiana 12.919 38,7 266 42,2%
Partito Comunista It. 9.073 27,1 179 28,4
Partito Socialista It. 3.210 9,6 61 9,6
MSI - Destra Naz. 2.897 8,7 56 8,8
P.S.D.I. 1.718 5,1 29 4,6
Partito Liberale It. 1.297 3,9 20 3,1
Altre 2.301 6.9 19 3,0
Totale 33.415 100 630 100
SENATO DELLA REPUBBLICA
Seggi Elettori Votanti Voti validi %
315
33.823.895 31.454.873 30.114.906 93
RISULTATI ELETTORALI IN VOTI E SEGGI
VALORI ASSOLUTI E
PERCENUALI
Gruppo politico Voti (in 1000)
% SEGGI % Numero
Democrazia Cristiana 11.466 38,1 135 42,8
PCI-PSIUP 8.475 28,1 94 29,8
Part. Soc. It. 3.226 10,7 33 10,4
MSI – DN 2.378 9,1 26 8,2
PSDI 1.614 5,4 11 3,15
Partito Liberale It. 1.316 4,4 8 2,6
Altre 1.280 4,2 8 2,6
Totale 30.115 100 315 100
TAVOLA 6
CAPO DELLO STATO:
Giovanni Leone (1971-78)
Il centro sinistra oramai era in crisi, dal punto di vista non già delle forze parlamentari, ma del rapporto con le piazze e il terrorismo e dal punto di vista della nuova cultura , che andava emergendo, nella sociologia e nell’economia, di critica al neo capitalismo. Questa critica stava determinando nel mondo socialista una nuova tensione, verso valori meno socialdemocratici e più libertari, quindi più individualistici e liberali , mentre nel mondo democristiano stava riemergendo la linea del cattolicesimo filo comunista.
ELEZIONI DEL 20 GIUGNO 1976
CAMERA DEI DEPUTATI
Seggi Elettori Votanti Voti validi %
630 40.423.131 37.760.520 36.727.273 93,4
RISULTATI ELETTORALI. VOTI E SEGGI. VALORI ASSOLUTI E PERCENTUALI
LISTE Voti (x 1000) % SEGGI % Numero
Democrazia Cristiana 14.218 38,7 263 41,7
Partito Comunista It. 12.623 34,4 227 36,0
Partito Socialista It. 3.543 9,6 57 9,0
MSI - Destra Naz. 2.245 6,1 35 5,5
P.S.D.I. 1.237 3,4 15 2,3
Partito Liberale It. 479 1,3 5 0,7
Partito Repubblicano It. Altre
1.134 2.382
3.1 6,5
14 2,228 4,4
Totale 36.727 100 630 100
SENATO DELLA REPUBBLICA
Seggi Elettori Votanti Voti validi %
315 34.908.119 32.557.373 31.448.181 93,26
RISULTATI ELETTORALI. VOTI E SEGGI VALORI ASSOLUTI E PERCENTUALI
Gruppo politico Voti (x 1000) % SEGGI % Numero
Democrazia Cristiana 12.227 38,9 135 44,2
P. Comunista Italiano 10.641 33,8 116 36,8
Part. Soc. It. 3.210 10,2 29 9,2
MSI – DN 2.090 6,7 15 4,7
PSDI 967 3,1 6 1,9
Partito Liberale It. 436 1,4 2 0,6
Partito Repubblicano It. Altre
846 1.877
3,1 5,9
6 1,912 3,8
Totale 31.448 100 315 100
TAVOLA 7
CAPO DELLO STATO:
Giovanni Leone (1971-78)
GOVERNI DELLA LEGISLATURA:
• 3° Governo Andreotti • 4° Governo Andreotti • 5° Governo Andreotti
Nelle elezione del 1976, il PCI, ottenne un successo mai visto in
precedenza arrivando al 34% dei voti e al 36% dei seggi alla Camera
e al Senato. La DC teneva le posizioni, sia in voti che in seggi, tanto
alla Camera che al Senato: con un 38% abbondante dei voti tanto alla
Camera che al Senato, mentre in termini di seggi, arrivava ,
rispettivamente, al 42% e al $$% nella prima e nella seconda
Camera. Ma mentre il PSI teneva la sua oramai modesta posizione di
poco inferiore al 10%, il partito socialdemocratico aveva registrato
perdite rilevanti, pervenendo al 2% soltanto dei seggi. I repubblicani
erano schierati per la nuova formula , che ampliava il centro sinistra
al PCI, pur condizionandolo alla solidarietà europea ed atlantica e a
politiche di rigore nella finanza pubblica. La formula del centro
sinistra tradizionale , così era oramai molto precaria per la DC: alla
Camera, ammesso che tutti i socialisti fossero ad essa favorevoli, la
coalizione di centro sinistra puro, che non poteva più contare sui
repubblicani, arrivava attorno al 55%, ma nel PSI sfiorava la
maggioranza la linea degli equilibri più avanzati, che concepiva il
centro sinistra come una formula transitoria, per la apertura al PCI.
Questo, con Enrico Berlinguer, aveva elaborato una sua linea di
dirigismo neo mercantilista con
-regolamentazione vincolista nel commercio estero e nelle valute
- credito regolamentato ,
- piani di settore , con agevolazioni varie e interventi di
salvataggio per l’industria , il terziario e l’agricoltura
- politica dei redditi concertata a livello sindacale ,
- ampio stato del benessere e assistenzialismo
Questa linea, denominata “terza via” , pareva raccogliere ampio
consenso sia nelle masse operaie, che nelle imprese pubbliche e in
alcune grandi imprese bisognose di protezioni statali e di accordi
con il sindacato sui salari. Aveva offerto la sua disponibilità a una
politica di riforme in tale direzione , che con l’alleanza con DC e
repubblicani, a livello politico, veniva denominata compromesso
storico e soddisfaceva a linee tradizionali di neo corporativismo
cattolico. Non era facile l’accesso dei comunisti al governo , date le
implicazioni di politica internazionale: se la formula del
compromesso storico si fosse consolidato, l’Italia avrebbe ripudiato
la sua alleanza nel Patto Atlantico e sarebbe diventata una
repubblica dell’area sovietica o di tipo neutrale fra le due aree, come
quella Jugoslava,. Si trattava di una linea anti capitalistica e anti
americana . La fase culminante della nuova linea si ebbe con il 5°
governo Andreotti, che comportava l’ingresso dei comunisti
nell’area di governo, con l’appoggio esterno a una coalizione di
unità nazionale Dc, Psi, Psdi, Pri, Pli, dominata dall’asse DC-PCI Il
giorno della fiducia al nuovo governo ebbe luogo il rapimento del
leader DC Aldo Moro da parte delle Brigate Rosse , che era
esponente di una linea in cui i comunisti erano una forza
aggiuntiva, di ampliamento del tradizionale centro-sinistra, ciò che
comportava il maggior ruolo dei socialisti e dei repubblicani e una
linea europeista, favorevole all’alleanza atlantica. Nel frattempo, i
comunisti votavano contro l’adesione dell’Italia allo SME, l’inizio
dell’Unione Monetaria Europea, mentre i socialisti, in cui erano
giunti al potere i riformisti guidati da Bettino Craxi non vi si
opponevano e i repubblicani votavano a favore . Si stava
sviluppando la linea liberal socialista favorevole al mercato,
incompatibile con la linea del compromesso storico e con le
connesse formule di dirigismo economico.
TAVOLA 8
LE ELEZIONI DEL 1979
CAMERA DEI DEPUTATI
Seggi Elettori Votanti Voti validi %
630 42.203.314 38.252.986 36.671.308 90,6
RISULTATI ELETTORALI. VOTI E SEGGI. VALORI ASSOLUTI E PERCENTUALI
LISTE Voti (x 1000) % SEGGI %
Numero
Democrazia Cristiana 14.027 38,3 261 41,4
Partito Comunista It. 11.129 30,4 201 31,9
Partito Socialista It. 3.591 9,8 62 9,8
MSI – Destra Naz. 1.927 5,3 31 4,9
P.S.D.I. 1.405 3,8 21 3,3
Partito Radicale 1.264 3,5 18 2,8
Partito Liberale 714 1,9 9 1,4
Partito Repubblicano Altre
1.110 2.572
3,0 7,0
16 2,5 27 3,8
Totale 36.629 100 630 100
SENATO DELLA REPUBBLICA
Seggi Elettori Votanti Voti validi %
315 36.364.039 32.877.329 31.344.776 90,41
RISULTATI ELETTORALI. VOTI E SEGGI. VALORI ASSOLUT I E PERCENTUALI
Gruppo politico Voti (x 1000) % SEGGI % Numero
Democrazia Cristiana 12.011 38,3 138 43,8
P. Comunista Italiano 9.856 31,5 109 34,6
Part. Soc. It. 3.253 10,4 32 10,15
MSI – DN 1.781 5,7 13 4,1
PSDI 1.321 4,2 9 2,8
Partito Radicale 413 1,3 2 0,6
Partito Liberale It. 692 2,2 2 0,6
Partito Repubblicano It. Altre
1.052 2.004
3,4 6,4
6 1,9 10 3,1
Totale 31.331 100 315
TAVOLA 9
CAPO DELLO STATO:
Sandro Pertini (1978-1985)
GOVERNI DELLA LEGISLATURA:
• 1° Governo Cossiga • 2° Governo Cossiga • 1° Governo Forlani • 1° Governo Spadolini • 2° Governo Spadolini • 5° Governo Fanfani
I comunisti , in queste elezioni, subiscono una netta sconfitta:tanto
più grave in quanto essi erano appena diventati forza di governo e,
nel governo, aveva svolto una linea ispirata alla politica della
fermezza nella lotta al terrorismo. Ma la loro bocciatura dello SME e
la loro avversione al Patto Atlantico avevano generato, a livello
politico, una reazione di rigetto nei loro confronti dai nuovi ceti, che
si erano avvicinati al partito di Berlinguer, come forza di
rinnovamento. I repubblicani non erano più favorevoli ai governi di
solidarietà nazionale, fra i socialisti oramai i riformisti, guidati da
Bettino Craxi, erano la grande maggioranza e anche la sinistra ,
guidata da Riccardo Lombardi, in quanto europeista, era contraria
all’alleanza con i comunisti e , pur con riserve, favorevole al patto
atlantico. I liberali, oramai assottigliati, delusi dalla linea di destra, si
erano avvicinati al centro sinistra. Questo, dunque poteva tornare ad
essere la formula di governo prevalente, con una innovazione: un
peso maggiore per i partiti laici che nella formula del centro sinistra
degli anni 60 . Sul terreno economico, esso, dopo le lezioni negative
del dirigismo degli anni 70, il nuovo centro sinistra implicava il
favore per l’economia di mercato, la sua rivalutazione, l’adozione
esplicita dei modelli neocapitalistici. A ciò i partiti laici erano
stimolati anche da una nuova forza politica di sinistra , i radicali, che
erano contrari ad ogni forma di dirigismo ed anticomunisti. Ma il
ritorno al sistema di mercato e il riordino delle finanze pubbliche
erano estremamente difficili, anche perché nella DC, frazionata in
correnti , senza più grandi leader che ne dominassero le forze
centrifughe, era oramai sviluppata la prassi dei “franchi tiratori”, che
utilizzavano la regola parlamentare del voto a scrutinio a voto
segreto. Per quanto riguardava la finanza pubblica, una gestione
coerente ed efficiente, era resa difficile dal fatto che oramai erano
proliferati molti soggetti pubblici , al di fuori del controllo del
bilancio statale . E la legge finanziaria , introdotta con una riforma
del 1978, con l’ambizione di risolvere tale problema, non era idonea
a ciò, mentre si prestava a nuovi permissivismi e complicazioni,
nella politica del bilancio del governo centrale. Anche la riforma
tributaria, entrata in vigore da qualche anno, appariva inidonea e, a
sua volta, bisognosa di ampie riforme. Comunque , l’esperimento del
nuovo centro sinistra fu nel complesso positivo. L’Italia stava
attuando un risanamento economico e finanziario, che , per quanto
incompleto, le consentiva di partecipare al processo di sviluppo
dell’integrazione europea.
TAVOLA 10 ELEZIONI DEL 1983
Anno PIL (lire correnti) PIL (miliardi % crescita PIL Pop.Pop. (migliaia)
PIL pro capit
di lire 1995) Reale (migliaia) (miliardi per mille ab.)
1962 29.000 469.000 8,00 51385 9.11963 33.220 499.000 6.39 51816 9,61964 36.360 516.000 3,40 52159 9,91965 39.120 532.000 3,10 52505 10,11966 39.830 525.000 -0,98 52830 9,91967 43.560 557.000 6,09 53144 10,41968 46.980 589.000 5,74 53490 11,01969 51.700 635.000 7,81 53832 11,81970 67.180 787.000 23,93 54179 14,51971 72.990 811.000 3,04 54646 14,8
Dal 1962 al 1972 l’economia italiana si trasforma in economia
neocapitalistica E si attua lo stato del benessere, in regime di
mercato aperto, sia pure fra contrasti e difficoltà, dovuti alla dura
opposizione del Partito Comunista, sorretto finanziariamente
dall’URS, che provoca agitazioni di massa convulsive- che dal 1968 ,
per un po’ paiono sfuggire dal suo controllo. E’ ovvio che questa
trasformazione neocapitalistica irriti profondamente il regime
sovietico e il gruppo storico di comando del PCI e del sindacato della
CGIL, sua cinghia di trasmissione sul terreno della lotta operaia ,
che, a ragione, temono di perdere le basi del proprio consenso,
proprio mentre si consolida e accresce l’importanza della quota
dell’industria sul Prodotto Nazionale.
COMPOSIZIONE PERCENTUALE DEL PRODOTTO INTERNO LORDO 1951-1961
Anno Agricoltura Industria Servizi Pubblica Amministrazione Grado di apertura
Internazionale
1961 8,7 33,8 39,2 18,3 21,2
1965 8,1 34,2 41,0 16,7 27,0
1970 6,8 36,1 43,0 14,1 35,3
FONTE N. ROSSI, A. SORGATO e G. TONIOLO, I conti economici italiani. Una ricostruzione statistica 1890-1990, Rivista di Storia Economica, 1993. I dati di Rossi-Sorgato-Toniolo per il periodo precedente sottovalutano l’agricoltura e sopravalutano i servizi e la Pubblica Amministrazione rispetto a quelli di Ercolani-Fuà , in quanto basati su diversi indici di prezzi.
VICENDE POLITICHE: IL CENTRO SINISTRA ORGANICO AL POTERE
III Legislatura: (25 Maggio 1958-15 Maggio 1963)
4° Fanfani (21-2-1962—16-5-1963): Coalizione di Governo: DC-PRI-PSDI
IV Legislatura: (16 Maggio 1963-14 Maggio 1968) 1° Leone (21-6-1963—5-11-1963): Coalizione di Governo: DC 1° Moro (14-12-1963—26-6-1964): Coalizione di Governo: DC-PSI-PSDI-PRI 2° Moro (26-7-1964—21-1-1966): Coalizione di Governo: DC-PSI-PSDI-PRI 3° Moro (23-2-1966—5-6-1968): Coalizione di Governo: DC-PSI-PSDI-PRI
V Legislatura: (5 Giugno 1968-24 Maggio 1972) 2° Leone (24-6-1968—19-11-1968): Coalizione di Governo: DC 1° Rumor (12-12-1968—5-7-1969): Coalizione di Governo: DC-PSI-PRI-PSDI 2° Rumor (5-8-1969—17-2-1970): Coalizione di Governo:DC 3° Rumor (27-3-1970—6-7-1970): Coalizione di Governo: DC-PRI-PSU 1° Colombo (6-8-1970—15-1-1972): Coalizione di Governo: DC-PRI-PSI-PSDI-PRI 1° Andreotti (17-2-1972—26-2-1972): Coalizione di Governo:DC Con il quarto governo Fanfani si attua il centro sinistra organico,
con un governo tripartito DC, PSDI, PRI e l’appoggio esterno dei
socialisti.Dopo le elezioni, che vedono la conferma di questa
coalizione, sia pure con arretramenti della DC e del PSI, vi è
dapprima un governo transitorio monocolore DC presieduto dal
presidente della Camera, futuro presidente della Repubblica Leone ,
poi tre governi di centro sinistra con i socialisti , presieduti da Aldo
Moro. Nella successiva legislatura mentre la DC rimane sulle quote
precedenti, i socialisti che si sono riunificati con i socialdemocratici,
perdono rispetto alla precedenti quote dei due partiti . Ciò comporta ,
dopo qualche tempo, una nuova scissione e problemi delicati
all’interno del centro sinistra organico. Inizialmente vi è un governo
monocolore transitorio di Giovanni Leone, poi un governo di centro
sinistra organico presieduto da Mariano Rumor, con la partecipazione
del Partito Socialista Unificato, cui segue un suo monocolore e
ancora un governo Rumor con i socialisti unificati e un governo
Colombo di centro sinistra . Nel 1972 il presidente della Repubblica
Giuseppe Saragat constata l’inesistenza di una maggioranza e
convoca le elezioni. Rimane in carica , per un mese, un governo
monocolore prelettorale Andreotti. Con il governo Colombo del
1970-72 si può dire che termini il centro sinistra organico. Ora
comincerà un periodo di grande instabilità politica, aggravato dalla
instabilità economica, generata dalla crisi petrolifera del 1973, a
seguito della guerra del Kippur, che farà passare di colpo il petrolio
grezzo da 3 dollari il barile a 12. Ma questa è una vicenda successiva
al periodo che esaminiamo.
Che, dal punto di vista politico è abbastanza stabile e lo è
soprattutto nella guida della politica economica, in quanto al
Ministero del Tesoro dopo il socialdemocratico Roberto Tremelloni
che vi rimane sino al giugno 1963, si insedia Emilio Colombo che vi
rimane dal 1963 al 1970 in cui diviene presidente del Consiglio. Al
Tesoro va allora il democristiano Mario Ferrari Aggradi, già
collaboratore di Vanoni che vi rimane sino a quando cade il governo
Colombo e viene formato il monocolore per elettorale di Giulio
Andreotti, in cui al Tesoro torna Emilio Colombo.
MINISTRI DEL TESORO 1962-72 Tremelloni Roberto 21.02.62 21.06.63 Colombo Emilio 21.06.63 06.08.70 Ferrari Aggradi Mario 06.08.70 17.02.72 Colombo Emilio 17.02.72 26.06.72
VICENDE POLITICHE ED ECONOMICHE DEL PERIODO. . Nonostante le critiche e le turbolenze dovute prima al Partito
Comunista poi alle rivolte studentesche ed operaie (queste sotto il
controllo del PCI) , si tratta di uno dei periodo di più alta crescita
dell’economia italiana. Il PIL italiano passa da 433.000 miliardi di
lire 1995 nel 1961 a 811.000 nel 1971 con una crescita dello 87% in
10 anni , pari allo 6,5% annuo composto . L’aumento della
popolazione è del 6% circa soltanto. Pro capite il Pil in questo
periodo aumenta del medio annuo circa del 65% in un decennio. Le
serie statistiche fra il 1969 e il 1970 non sono omogenee. Con la
rettifica relativa al 1970 è emerso un maggior prodotto nazionale del
23 % che si spalma sui vari anni precedenti in modo non noto e che ,
per una parte limitata, si può attribuire anche ad anni precedenti il
decennio in esame. Esso però ragionevolmente appartiene per la
maggior parte a questo periodo. Dunque questo periodo regge bene
al confronto con quello che fu denominato del miracolo economico,
in cui, come si è visto il PIL è cresciuto del 6,7% annuo composto.
Ed ovviamente la crescita percentuale era più facile, perché si partiva
da una base più modesta. Se si considera l’intero periodo di 23 anni
dal 1949 al 1972 che è quello del centro e del centro sinistra , con la
guida democristiana e la partecipazione dei partiti di centro o centro
sinistra, il PIL dell’economia italiana aumenta al tasso composto
del 6,6% annuo . Pro capite l’aumento nei 24 anni di dominio della
maggioranza centrista o di centro sinistra storico della “prima
repubblica” il PIL passa da 4 milioni di lire 1995 a 15,4 con un
aumento di quasi quattro volte ! Un miracolo economico che
nessun’altra nazione europea ha realizzato , nell’ottocento o nel
novecento.
Il debito pubblico che era nel 1961 il 37% del PIL, scende poi nei
primi anni del centro sinistra sino al 33-34% , poi risale , oscillando
però ancora fra il 39 e il 38%, Solo alla fine del periodo del centro
sinistra organico , il debito pubblico prende a salire al 43%. La
ragione di ciò sta nel fatto che si riduce il tasso di crescita del PIL e
questo a parità di deficit , accresce il rapporto fra deficit e PIL e nel
fatto che le entrate subiscono, a un certo punto una brusca flessione
sul PIL, a causa della riforma tributaria , male impostata dalla
Commissione Cosciani . Il nuovo sistema tributario, non è in grado
di seguire la dinamica di crescita della spesa pubblica, che è
espressione delle esigenze economiche e sociali connesse allo
sviluppo economico Per quanto notevole , la dinamica della spesa,
come si nota, rimase sempre entro il tetto del 20% , per tutto il
periodo. Non sarebbe stata certo tale da generare squilibri di
bilancio se le entrate, che erano mano mano arrivate al 18% del PIL
non fossero cadute, per effetto della riforma tributaria, al 15-16% . In
lire 1995 , il debito passa da 165 mila miliardi nel 1963 a 358 mila
nel 1971: in sostanza è più che raddoppiato. Per altro, dato il
modestissimo livello a cui si trovava il rapporto debito/Pil all’inizio
di questo seconda epoca di miracolo economico italiano e data
l’elevata crescita del PIL , il rilevante aumento del debito pubblico
in termini assoluti , anche misurato a prezzi costanti, non dà luogo a
un rapporto fra debito e PIL in sé preoccupante, almeno per tutti gli
anni ‘60 . La situazione subisce un peggioramento repentino al
termine del centro sinistra . Nel 1972 il debito compie un balzo in
avanti di quattro punti percentuali , portandosi al 42%. Con
l’aumento del debito, aumenta l’onore per interessi su di esso, che,
naturalmente, va ad aggravare il deficit della spesa pubblica, rispetto
alle entrate, che era già elevato. L’onere per interessi risulta
accresciuto, a causa dell’elevato tasso di inflazione, che è
conseguenza della conflittualità sindacale: un fenomeno che, fino al
1967, si poteva spiegare con le tensioni del mercato del lavoro,
connesse alla rapida crescita economica, ma dal 1968 ha una
spiegazione sociologica-politica , dovuta all’irrompere, in tutta
Europa, con l’Italia in prima fila, della “contestazione del sistema”
,che investe la scuola, la fabbrica, gli uffici, il sistema capitalistico,
la famiglia , le istituzioni dello stato. La CGIL guida la lotta
sindacale , sospinta dal PCI, ampliando di continuo le sue
rivendicazioni.
Il tasso di inflazione così, nonostante i modesti deficit di bilancio
degli anni del centro sinistra , tende a superare il 6% annuo e a
portarsi , nel 1968 e nel 1969 allo 8% , per arrivare al 9% prima
ancora che esplodesse la spinta inflazionistica internazionale dovuta
al rincaro del petrolio.
DEBITO SETTORE STATALE
DEBIT0/PIL% INDICE PREZZI AL CONSUMO
DEF Entrate PIL % Pil %
SPESE/PIL %
1962 10.220.000 35,24 6,1831 2 16 17
1963 11.020.000 33,17 6,6527 2 16 16 1964 11.830.000 32,53 7,044 2 17 17 1965 13.380.000 34,20 7,3571 4 17 19 1966 15.030.000 37,73 7,5919 5 17 20 1967 16.540.000 37,97 7,8267 3 18 19 1968 18.460.000 39,29 7,9833 4 18 20 1969 19.890.000 38,47 8,1398 3 18 19 1970 22.930.000 34,13 8,5311 5 15 . 19 1971 27.940.000 38,27 9,0007 7 16 20 1972 33.930.000 42,51 9,4703 7 15 21
MODELLI ECONOMICI CHE SI CONTENDONO IL CAMPO IN QUESTO PERIODO In questo periodo in Italia si contendono il campo la formula
dell’economia di mercato con una programmazione conforme al
mercato e con la politica dei redditi, per rendere le politiche sindacali
compatibili con gli obbiettivi di occupazione e sviluppo economico e,
quella dell’economia con programmazione dirigista e la
contestazione del sistema neocapitalista. Questo è un periodo di
intense riforme, alcune deformate dalla spinta rivendicazionista.
L’epoca del centro-sinistra infatti si apre con la Nota aggiuntiva del
Ministro del Bilancio del governo Fanfani Ugo La Malfa del 1962 ,
i cui si enuncia la necessità della programmazione in Italia , al fine
di correggere gli squilibri del processo di crescita e di sorreggerlo
nelle direzioni idonee a accrescere l’occupazione e dare luogo a uno
sviluppo equilibrato. Gli squilibri sono quello fra Nord e
Mezzogiorno, fra consumi privati e quello fra i vari settori produttivi.
Cardine della nuova politica di sviluppo è una politica dei redditi, che
consenta la moderazione salariale, in contropartita del perseguimento
degli obbiettivi di interesse generale , che riguardano in primo luogo
i lavoratori. Inoltre, per la riduzione dello squilibrio fra consumi
privati e impieghi pubblici del reddito, nel campo degli impieghi
sociali e degli investimenti in infrastrutture, è essenziale l’aumento
della pressione fiscale, tramite una idonea riforma tributaria. Per
attuare la programmazione il Ministero del bilancio è trasformato in
Ministero del Bilancio e della Programmazione e viene insediato un
Comitato Nazionale per la programmazione economica. Purtroppo, in
luogo della politica dei redditi si ebbe una accesa conflittualità
sindacale che generò inflazione e sfociò nel “vogliamo tutto” del
1968. Nel dicembre del 1962 fu realizzata la nazionalizzazione
dell’industria elettrica, richiesta dai socialisti come fattore
qualificante della nuova politica di sviluppo dell’impresa pubblica,
Per altro, la nazionalizzazione non fu attuata mediante l’acquisto da
parte delle imprese elettriche del gruppo IRI della maggioranza delle
società per azioni private, come era accaduto poco prima per il
settore telefonico, bensì con l’acquisto dello Stato dalle società
private dei loro impianti e reti elettriche che venivano conferite a una
nuova impresa organizzata come ente statale e non come società per
azioni. L’operazione mentre costò enormi cifre al Tesoro , generando
il bisogno di una politica emissione di titoli pubblici, in cambio dei
nuovi possessi patrimoniali, dava luogo a un ente economico statale
di modello antiquato, poco adatto alla politica di sviluppo
tecnologico e infrastrutturale del settore elettrico che si era
immaginata, mentre la conversione delle ex compagnie elettriche in
imprese manifatturiere generava investimenti finanziari artificiosi
nel comparto chimico e in quello alimentare , che non giovarono
all’economia. Nel 1965 il Ministro del Bilancio del secondo governo
Moro il socialista Antonio Giolitti presentava il programma
economico quinquennale 1965-69 in cui prevedeva il coordinamento
organico degli investimenti pubblici, la riforma della pubblica
amministrazione, la attuazione di un servizio sanitario nazionale e la
riforma del sistema previdenziale e la riforma della legislazione sulle
società per azioni. Prevedeva anche la sottoposizione degli
investimenti privati delle imprese maggiori alla approvazione agli
Uffici Ministeriali per la verifica della loro conformità al
programma. Con questa proposta, che non rientrava nella filosofia
della programmazione conforme al sistema di mercato lanciata da
Ugo La Malfa, si generava un conflitto fra Ministero del Bilancio e
forze economiche , che metteva in crisi il governo. Il piano , per la
sopraggiunta crisi di governo, non veniva approvato. Nel 1967
veniva invece approvato il programma quinquennale di sviluppo
1966-1970 a cura del Ministro del Bilancio socialista Giovanni
Pieraccini, che alla approvazione degli uffici del Bilancio
sottoponeva solo i programmi di investimento delle imprese
pubbliche e che prospettava un ambizioso programma di riforme
urbanistica, sanitaria, tributaria, della scuola superiore e
dell’Università e della Pubblica Amministrazione e rilanciava (ma
vanamente, dato il clima sindacale arroventato che si profilava ) la
politica dei redditi, ai fini di uno sviluppo economico senza
inflazione. Nel 1967 veniva anche lanciato un grosso programma di
edilizia popolare per i lavoratori finanziato con contributi sociali ,
denominato Gescal, Gestione case Lavoratori , quale componente
della riforma urbanistica. Nello stesso anno viene approvato uno
stralcio di riforma urbanistica denominato Legge Ponte. Nel 1968
viene attuata una prima grande riforma del sistema sanitario,
realizzando la trasformazione dei vari ospedali in una rete organi di
ospedali pubblici coordinata, istituendo il Fondo nazionale
ospedaliero per il loro finanziamento e il piano ospedaliero nazionale
per il loro coordinamento. E’ del marzo 1968 la legge Brodolini di
riforma delle pensioni, c che eleva al 65% della retribuzione media
dell’ultimo triennio di attività lavorativa la pensione di anzianità per i
lavoratori che abbiano quaranta anni di anzianità nel lavoro (35 le
donne). Usufruiscono di tale pensione anche coloro che vanno in
pensione a 60 anni di età (55 le donne) indipendentemente dalla
anzianità lavorativa. . La legge viene ben presto deformata,
introducendo anzianità convenzionali, scatti artificiosi di retribuzioni
nei periodi finali, sconti negli anni per avere diritto alla pensione di
anzianità ed altri privilegi. E’ del 20 maggio 1970 la legge che
introduce lo statuto dei lavoratori. Originariamente il suo intento era
quello di garantire i lavoratori dalle discriminazioni politiche, di
sesso, di razza e da forme di sfruttamento e di consentire riunioni
democratiche nelle imprese, Ma in esso venne inserito anche
l’articolo 18, non previsto nel testo originario, che , per ogni unità
aziendale con più di 18 addetti, stabiliva l’obbligo di reintegrazione
nel posto di lavoro non solo dei lavoratori licenziati per motivi
discriminatori, ma di ogni lavoratore per il quale non fosse
dimostrata la giusta causa o il giustificato motivo del licenziamento:
così dando luogo, in pratica, alla impossibilità del licenziamento
anche di lavoratori condannati in primo grado per furto e autori di
molestie sessuali a carico di altri lavoratori o ripetutamente
assenteisti , per cause diverse da malattie o che rifiutassero il
trasferimento ad altro reparto o non partecipassero in modo efficace
ai corsi di aggiornamento etc. E’ del 7 giugno del 1970 la Legge che
attua l’ordinamento regionale, previsto dalla Costituzione,
introducendo le Regioni a Statuto Ordinario, su tutto il territorio
nazionale. La riforma però viene deformata dal fatti che alle Regioni
non vengono assegnate entrate proprie, ma solo fondi sul bilancio
statale , ciò che genera un aggravio di spesa per lo stato, senza una
corrispondente responsabilità delle amministrazioni regionali. Nel
1971 in ottobre viene approvata la riforma tributaria che , in
sostituzione del sistema di imposte dirette reali e personali statali e
locali precedente, introduce l’imposta personale unica sul reddito
delle persone fisiche e l’imposta sulle società e sostituisce l’imposta
generale sul valore aggiunto all’imposta generale sull’entrata dello
stato ed ad alcune imposte di fabbricazione statali minori e le imposte
comunali di consumo. La riforma dovrebbe entrare il 1 gennaio 1973,
ma la sua attuazione slitterà al 1 gennaio 1974. Nel frattempo si
genera il caos negli Uffici finanziari e il gettito fiscale nel 1972 cade
al 15% mentre le spese pubbliche salgono.
SESTO PERIODO: DAL 1973 AL 1993. LA DEMOCRAZIA CONSOCIATIVA E L’ECONOMIA DIRIGISTA. INFLAZIONE E DEBITO PUBBLICO
TAVOLA 1
DINAMICA DEL PIL 1973-1982
Anno PIL (lire correnti)
PIL (miliardi % crescita PIL
Pop.Pop. (migliaia)
PIL pro capite
Di lire 1995) Reale (migliaia) (milioni per abitante0)
1973 96.740 922,39 3 55180 16.830 1974 122.190 975,74 5,4 55645 17.710 1975 138.630 947,19 -2,8 56014 17.100 1976 174.870 1.024,88 8,1 56323 18. 400 1977 214.400 1.070,04 4,2 56599 19.130 1978 253.540 1.128,69 5,4 56829 20.110 1979 309.840 1.203,24 6,8 56999 21.380 1980 387.670 1.241,38 3,1 57140 22.000 1981 464.030 1.261,44 1,6 56536 22.320 1982 543.780 1.270,14 0,73 56742 22.420
LA CONTESTAZIONE DEL SISTEMA NEOCAPITALISTA, LA DECELERAZIONE DELLA CRESCITA.
Nonostante i problemi, l’economia italiana mostra grande vitalità,
anche se la crescita sarà drogata da misure dirigismo bancario,
monetario, valutario e fiscale alla lunga insostenibili .Il PIL ,
misurato in termini reali aumenta soltanto del 37% in dieci anni.
L’incremento medio annuo del PIL , in questa che è l’epoca più
difficile dell’economia e della società civile italiana, dal dopoguerra
in poi, risulta del 3%, che –in ogni caso- si raffronta molto
positivamente con tutti i periodi dell’economia italiana , dall’unità
nazionale in poi, sino a metà del secolo ventesimo. La popolazione
italiana che era di 54.642.000 nel 1972 risulta di 56.742 nel 1982.
L’aumento in 11 anni è soltanto del 10,3% più che nel precedente
periodo. Non ci si sta ancora avviando alla crescita demografica
zero. Pro capite il Pil italiano passa dai 17 milioni circa di lire 1995
del 1972 ai 22 e mezzo del 1982. L’incremento risulta del 32,6%. E’
facile capire che pro capite si tratta di un tasso di poco inferiore al
3% annuo.
COMPOSIZIONE PERCENTUALE DEL PRODOTTO INTERNO LORDO 1951-1990
Anno Agricoltura Industria Servizi Pubblica Amministrazione Grado di apertura
Internazionale
1970 6,8 36,1 43,0 14,1 35,3
1975 6,1 34,8 44,7 14,5 37,1
1980 5,2 35,8 46,1 12,9 40,0
1985 4,9 33,9 48,2 13,0 43,6
1990 4,2 34,3 49,8 11,8 51,4
FONTE : N. ROSSI, A. SORGATO e G. TONIOLO, I conti economici italiani. Una ricostruzione statistica 1890-1990, Rivista di Storia Economica, 1993. I dati di Rossi-Sorgato-Toniolo sottovalutano l’agricoltura e sopravalutano i servizi e la Pubblica Amministrazione
rispetto a quelli di Ercolani-Fuà , per un periodo iniziale in quanto basati su diversi indici di prezzi. Nonostante le difficoltà del periodo, il grado di apertura
internazionale dell’economia aumenta , passando dal 35% al 40% in
un decennio, a causa della crescente integrazione economica
nell’area europea. Il settore della pubblica amministrazione è oramai
giunto a un’alta percentuale sul PIL. Ma questa percentuale non
misura il grado effettivo di presenza di enti pubblici nell’economia,
in quanto si sviluppa sempre più la figura dell’impresa pubblica
industriale, commerciale, finanziaria che svolge attività in perdita,
come se fosse un servizio pubblico. Un migliore indicatore del grado
di intervento del settore pubblico nell’economia è misurato dalla
spesa pubblica sul PIL di cui si vedrà più oltre. Il settore agricolo
subisce un ridimensionamento , connesso alla sua crescente
modernizzazione che comporta lo sviluppo di attività di produzione
di beni e servizi connesse all’agricoltura, ma che strutturalmente
fanno parte del settore industriale e del settore terziario. Questo si
amplia, in misura corrispondente, mentre il settore industriale dopo
una breve fluttuazione rimane sostanzialmente al livello percentuale
degli anni ‘70
VICENDE POLITICHE E POLITICA ECONOMICA DEL PERIODO
TAVOLA 2 I GOVERNI NELLE LEGISLATURE dal 1972 al 1983
VI legislatura: 25 Maggio 1972- 4 Luglio 1976
2° Andreotti (26-6-1972—12-6-1973): Coalizione di Governo: DC-PLI-PSDI 4° Rumor (7-7-1973—2-3-1974): Coalizione di Governo: DC-PSI-PSDI-PRI 5° Rumor (14-4-1974—13-10-1974): Coalizione di Governo: DC-PSI-PSDI 4° Moro (23-11-1974—7-1-1976): Coalizione di Governo: DC 5° Moro (12-2-1976—30-4-1976): Coalizione di Governo: DC
VII Legislatura: 5 Luglio 1976-19 Giugno 1979 3° Andreotti (29-7-1976—16-1-1978): Coalizione di Governo: DC-PLI-PSDI 4° Andreotti (11-3-1978—31-1-1979): Coalizione di Governo:DC-PSI-PRI 5° Andreotti (20-3-1979—31-3-1979): Coalizione di Governo:DC-PSI-PSDI-PRI
VIII Legislatura: 20 Giugno 1979—11 Luglio 1983 1° Cosssiga (4-8-1979—19-3-1980): Coalizione di Governo: DC-PLI-PSDI 2° Cossiga (4-4-1980—27-9-1980): Coalizione di Governo: DC-PSI-PRI
1° Forlani (18-10-1980—26-5-1981): Coalizione di Governo: DC-PSI-PSDI-PRI 1° Spadolini (28-6-1981—7-8-1982): Coalizione di Governo: DC-PSI-PSDI-PRI-PLI 2° Spadolini (23-8-1982—13-11-1982): Coalizione di Governo: DC-PSI-PSDI-PRI 5° Fanfani (1-12-1982—2-5-1983): Coalizione di Governo: DC-PSI-PSDI-PLI TAVOLA 3 MINISTRI DEL TESORO 1972-1982
Malagodi Giovanni 26.06.72 07.07.73 La Malfa Ugo 07.07.73 28.02.74 Colombo Emilio 14.03.74 29.07.76 Stammati Gaetano 29.07.76 10.03.78 Pandolci Filippo Maria 11.03.78 18.10.80 Andreatta Beniamino 18.10.80 01.12.82
A differenza che nei precedenti periodi, al Ministero del Tesoro in
quest’epoca si alternano , nel giro di un decennio, ben sei ministri, di
partiti diversi , con indirizzi diversi, in parte omogenei all’indirizzo,
via via emergente, del compromesso storico e in parte . Il periodo
iniziale vede al Tesoro, il liberale Malagodi, avverso al nuovo
indirizzo, che era invece nei propositi del presidente dl Consiglio
Giulio Andreotti. Gli succede , poi, nel governo Rumor, Ugo La
Malfa, che è invece fautore della nuova formula, cui invano cerca di
dare rigore finanziario. La morte lo coglierà prima che riesca a
sviluppare la sua nuova politica economia , la cui linea rimane
dunque ignota. Gli succede Emilio Colombo, avverso alla nuova
formula. Seguono tre Ministri che sono omogenei o fautori della
formula del compromesso storico. L’Ultimo, Andreatta, opererà,
però, dall’ottobre del 1980 al novembre 1982 , in un mutato orizzonte
politico, in un governo Forlani e poi in due governi Spadolini, che
hanno oramai superato la formula della solidarietà nazionale ,
oltreché quella del compromesso storico. Il governo cadrà per i suoi
dissensi di Andreatta il Ministro delle Finanze socialista Rino
Formica, esponente della linea di Bettino Craxi che di queste
formule è l’avversario più netto e deciso.
STRUTTURE ECONOMICHE E VICENDE DEL PERIODO.
Oramai la contestazione al “sistema” , negli anni ‘70 ha dispiegato le
ali e sta ponendo le radici anche nelle istituzioni. I suoi frutti tossici
non tardano ad emergere. L’Italia entra nel tunnel di una economia
dirigista drogata con alta inflazione e controlli valutari e bancari e
sui prezzi pubblici, la spesa cresce a dismisura, le entrate non
seguono. Il deficit genera un debito in gran parte occulto, che
esploderà nel periodo successivo
. TAVOLA 4
IL DEBITO PUBBLICO NEL PERIODO 1972-1982
DEBITO SETTORE STATALE
DEBITO/PIL DEFICIT /PIL
1972 33930000 42,51 0,7 1973 42480000 43,91 0,8 1974 53710000 43,95 0,7 1975 69060000 49, 81 0,12 1976 85180000 48,71 0,8 1977 109920000 51,26 0,10 1978 144550000 57,01 0,14 1979 175260000 56,56 0,10 1980 212560000 54,83 0,10 1981 267510000 57,64 0,11
TAVOLA 5 PRODUZIONE DI GHISA E ACCIAIO (IN TONNELLATE) 1966 1971 1976 1981 Ghisa 6.258.920 8.536.336 11.630.592 12.260.190 Acciaio 13.638.611 17.451.926 23.446.624 24.777.415
N.CREPAX (2002) Storia dell’industria in Italia, Bologna, Il Mulino Fonte: I conti economici dell'Italia, vol. 1, Una sintesi delle fonti ufficiali 1890-1970, a cura di G.M. Rey, Roma - Bari, 1992; Istat, Annuario statistico italiano, Roma, anni vari.
La produzione siderurgica , per tutto il periodo dagli anni 60 agli
anni 80 subisce una continua espansione, tanto nel settore della ghisa
che in quello dell’acciaio : con un raddoppio di produzione nel primo
e un aumento dell’80 nel settore, a più alto valore aggiunto,
dell’acciaio. Questo incremento si collega allo sviluppo industriale
(in particolare industrie meccaniche e ed edilizia ed infrastrutture), di
cui l’acciaio , in vari settori, costituisce la base.
MODELLI ECONOMICI CHE SI CONTENDONO IL CAMPO IN QUESTO PERIODO Il periodo della solidarietà nazionale , con un indebolimento del
potere di voto della DC e un forte potere di voto del PCI e del PSI,
in quell’epoca di nuovo suo alleato, e’ caratterizzata da un
accresciuto ruolo del settore pubblico nell’economia. Fattori esogeni,
quali la crisi petrolifera, non hanno fatto che rafforzare la tendenza
al dirigismo economico, illustrata nella Tavola In Italia, nella
seconda metà degli anni ’60, come sappiamo, era iniziato un periodo
di profonde riforme istituzionali. In particolare, il sistema
pensionistico pubblico generale- la cosiddetta riforma Brodolini
delle pensioni- era entrata in effetto già nel 1969. Con una
impostazione che collegava i benefici pensionistici, calcolati come
percentuale sulla retribuzione posseduta nell’ultimo periodo al
numero di anni di contributi versati, stabilendo che per avere una
pensione previdenziale minima occorrevano almeno 15 anni di
contributi; e disponendo che con 35 anni di anzianità contributiva si
poteva avere diritto alla pensione di anzianità (quella massima del
65% si godeva dopo 40 anni di lavoro) anche se non era ancora
maturata l’età anagrafica per la pensione di vecchiaia. Negli anni
‘70, il sistema divenne oggetto di continue manipolazioni, con la
creazione di anni di anzianità convenzionali e la determinazione di
nuove basi su cui calcolare la pensione, per accrescere i benefici
pensionistici, senza un preciso rapporto con i contributi versati, senza
preoccupazioni per il problema del finanziamento del futuro deficit
da parte dello stato. Accanto a questa creazione di oneri futuri, che
avrebbe comportato gravosi problemi negli anni ‘80 e ‘90 ed ancora
nel secolo successivo, in relazione al pensionamento di persone i età
ancor giovane, senza rapporto con i modesti contributi versati, vi
furono nuove elargizioni sociali. Il rapporto tra spesa sociale e PIL si
accrebbe , così, negli anni ’70, dall’11.3% del PIL all’inizio del
decennio al 14.8%, alla fine del decennio, senza rapporto con la
dinamica dei contributi sociali o di altre entrate destinate al loro
finanziamento. . Anche le spese per le Regioni , istituite nel 1970,
nel quadro della politica di riforme del centro sinistra, si dilatarono
senza rapporto con le entrate regionali. Nella nuova fase di “equilibri
sociali più avanzati” , non esisteva più il principio del rapporto fra
spese ed entrate, che aveva retto la programmazione di bilancio negli
anni del centro sinistra. Le Regioni aggiungevano i loro nuovi
servizi a quelli dello stato senza entrate corrispondenti, da loro
prelevate sicché le spese di servizi generali dei governi , che nel
1969-70 era il 3,5% del PIL si e’ accresciuta durante gli anni ‘70 del
33%, raggiungendo il 5% all’inizio degli anni 80, mentre le Regioni
non avevano un proprio autonomo sistema di entrate . Come
conseguenza dell’ampliamento dei trasferimenti a imprese pubbliche
ed enti pubblici sia per investimenti che per deficit di esercizio
dovute a gestioni in perdita , la spesa pubblica per “servizi
economici” e’ aumentata dal 5% del PIL nel 1969 al 6.4% all’inizio
degli anni 80. Nello stesso periodo le spese per l’edilizia d’abitazione
economica e popolare (che spesso non andava a favore dei meno
abbienti ma di operai ed impiegati relativamente benestanti , dotati di
maggiore influenza politico-sindacale ) raddoppiavano come
percentuale del PIL, passando dallo 0.7% all’1.4%. Nel 1972 e nel
1973 la spesa pubblica statale era il 21% del PIL mentre le entrate
statali erano solo il 15% del PIL. Nel 1974 la spesa scendeva al 20%
con le entrate al precedente livello sul PIL . Nel 1975, mentre era in
pieno svolgimento l’epoca politica della solidarietà nazionale, con i
comunisti nell’area di governo, guidati da Enrico Berlinguer , la
spesa statale registrava un balzo in avanti enorme, salendo al 27%
del PIL mentre le entrate statali erano solo il 17% del PIL ! L’anno
dopo , con Berlinguer che sosteneva come carattere distintivo del suo
partito la dottrina l’austerità, la spesa pubblica si ridimensionava al
24% del PIL , che era pur sempre una percentuale elevatissima, in
confronto a quelle della fine degli anni ‘60 e , soprattutto, all’introito
delle entrate statali, che era il 18% del PIL. Nel 1977 la spesa
pubblica risaliva al 25% del PIL e nel 1978 balzava al 31% del PIL:
l’incapacità della coalizione di solidarietà nazionale di governare la
spesa doveva essere evidente ad osservatori non prevenuti . Meno
evidente il singolare contrasto fra la dottrina di Berlinguer
dell’austerità e questo comportamento nella pubblica spesa : che
veniva tinto dalla propaganda del PCI e dei suoi fiancheggiatori (è
l’epoca degli “indipendenti di sinistra”) di valenze sociali . Ma dato
il divario fra spese ed entrate statali ( 21% del PIL) si creavano
continui buchi di bilancio,generando debiti che si sarebbero scaricati
sul futuro, in parte direttamente con il debito emesso sul mercato, in
parte in modo indiretto e occulto con quello che la Banca di Italia e
le banche erano costrette a comperare. Al debito occulto contribuiva
anche la politica di interessi sul debito tenuti artificiosamente bassi,
mediante gli obblighi imposti al sistema bancario e alla banca
centrale di acquisto del debito pubblico e mediante i rigidi controlli
valutari, che segregavano il mercato finanziario italiano da quello
estero. Il tutto con una politica di emissioni di debito a breve termine,
che costava all’erario di meno di quello a lungo termine, ma
generava inflazione, essendo- date le sue scadenze- quasi moneta o
moneta. Nel 1979 la spesa scendeva un poco al 29% del PIL, ma
nel 1980 tornava al medesimo livello e nel 1981 arrivava al 33% del
PIL con le entrate al 23%. Ciò che stava accadendo era un
inarrestabile progresso della spesa sul PIL, dovuto ai fattori
strutturali di crescita, che vi si erano innestati negli anni 70 , alla
riduzione del tasso di crescita del PIL che era pressoché dimezzato
rispetto al precedente periodo e perciò , per un rapporto costante fra
spesa e PIL, esigeva una crescita dimezzata della spesa, in valori
assoluti e al mordere della spesa degli interessi sul PIL che
nonostante gli artifici per tenerla bassa, diventava via via più
consistente. Dal 1972 al 1981 la spesa statale e’ aumentata dal 21%
del PIL al 33% del PIL, di ben 12 punti percentuali, pari al 57%.
Solo un punto riguardava le spese in conto capitale. Ma non
accadde un analogo incremento per le pubbliche entrate. Le entrate
statali erano passate dal 16% del PIL nel 1971 al 23% del PIL nel
1981, con un aumento di 7 punti, in percentuale il 43%. Ma le
percentuali su importi diversi sono ingannevoli. Il divario fra entrate
statali e spese statali nel 1971 era di 4 punti, mentre nel 1981 era
salito a 10 punti. Questa era l’eredità che i governi di solidarietà
nazionale quelli successivi di transizione lasciavano al pentapartito,
nel settore del bilancio statale. Il problema delle entrate era ben più
grave di quello delle spese, su cui la letteratura economica si è
soprattutto soffermata. Si può dire infatti che la crescita della spese,
benché irrazionale nelle sue modalità , corrispondeva alle esigenze di
modernizzazione, per la costruzione di uno strato del benessere
coerente con il modello di neocapitalismo avanzato a cui l’Italia
stava pervenendo, pur nei lacci e laccioli del dirigismo neo
mercantilista degli anni ‘ 70. Ma la politica delle entrare era stata
disastrosa, nulla del rigore di Vanoni e Tremelloni vi era rimasto,
nonostante la dottrina dell’austerità sbandierata dal segretario del
PICI Enrico Berlinguer. Nel 1971, come si è visto, era stata
approvata un’ampia riforma tributaria basata sull’imposta personale
progressiva unica , ispirata in gran parte a principi astratti di
perequazione tributaria , in cui però la sostanza era che il gravame
della progressività colpiva essenzialmente i redditi di lavoro dei ceti
medi impiegatizi ed operai . La riforma aveva saldato assieme gli
interessi di grandi operatori economici con la linea operistica del
PCI ( e del PSI allora al suo rimorchio ). La sostituzione
dell’imposta personale unica progressiva sul reddito in luogo delle
imposte reali, affiancate dall’ imposta complementare progressiva
sul reddito , con l’aggiunta di una imposta comunale basata sul
tenore di vita della famiglia riduceva in effetti l’onere per i soggetti
a maggior reddito. Ciò perché l’ imposta personale unica progressiva
non era accompagnata da serie tecniche di accertamento del reddito
globale, nelle forme diverse dal reddito di lavoro dipendente. Anche
la nuova imposta sul valore aggiunto di tipo europeo , destinata a
rimpiazzare il precedente sistema di imposte sugli scambi basate
sull’imposta generale dello stato sulle vendite a ogni fase e sulle
imposte comunali di consumo, fu disegnata in modo astratto, senza
prevedere apposite tecniche di accertamento . La sua applicazione
pratica venne posposta al gennaio del 1974 a causa delle difficoltà
applicative e si rivelò sin dal principio poco efficace. Le entrate
tributarie complessive passarono dal modestissimo 16% del PIL nel
1972-74 al 17% del Pil nel 1975 al 18% nel 1976, al 19% nel 1977,
al 21% nel 1978, per tornare al 20% nel 1979. La crescita era dovuta
precipuamente all’effetto dell’inflazione che accresceva la pressione
delle aliquote nominali a parità di redditi reali: e mordeva soprattutto
sui redditi di lavoro, che davano i quattro quinti del gettito. Solo nel
1980 , con l’avvento del primo ministero delle finanze socialista,
Franco Reviglio , finalmente, arrivarono al 23% e a tale livello
rimasero sino al 1981. Ma nel frattempo , la forbice fra spese ed
entrate aveva generato alti disavanzi e inflazione, con pericolosa
crescita del debito pubblico . Come risultato del deficit e
dell’inflazione la spesa per interessi sul debito pubblico aumentò
dall’1,6% del PIL all’inizio degli anni ’70 al 6.2% del PIL nel 1981.
Va però detto che in parte notevole questa elevata spesa pubblica per
interessi controbilanciava la riduzione di valore dello stock del debito
derivante dalla elevata inflazione. Una volta deflazionata per la
perdita di valore dello stock del debito, la crescita della spesa per
interessi non appariva elevata. D’altra parte , come già si è notato, il
tasso di interesse sul debito pubblico negli anni ‘70 era stato
mantenuto artificialmente a livelli bassi, mediante controlli del
sistema del credito , con obblighi per le banche di comperare quote
del debito pubblico e di razionare il credito al mercato di
conseguenza e obbligo per la Banca centrale di assorbire debito
pubblico che non era stato acquistato sul mercato . Il tutto coronato
da severi controlli sulle esportazioni di valuta. E l’aumento dello
stock del debito nel periodo in esame tuttavia fu molto notevole.
Nel 1971 il rapporto fra debito pubblico e PIL era solo il 38% del
PIL pressa poco come nel 1961. Nel 1972 esso era salito al 43% del
PIL, passava al 44% nel 1973 e nel 1974 , mentre nel 1975 , in
relazione al grosso deficit, balzava al 50%. Nel 1976 scendeva di un
po’, al 49%. , ma nel 1977 si portava al 51%. Un nuovo grande balzo
nel 1978 in cui il debito passa al 57% del PIL, rimanendo su tale
livello anche nel 1979, mentre nel 1980 scendeva al 55%, per risalire
l’anno dopo al 58%. Perciò solo 38% del PIL al 58%: un aumento
di 20 punti percentuali in un decennio. Il rapporto del 58% era un
livello accettabile anche con gli attuali parametri di Maastricht. Ma il
problema era che si era formato un debito occulto , mediante le
misure dirigiste di cui si è visto. Le caratteristiche istituzionali per
abbassare il debito e mantenere il tasso di interesse al prezzo politico
sono descritte nella Tavola 2. Nuove rigidità vennero inserite in
misura crescente nei contratti di lavoro, sia in applicazione del nuovo
Statuto dei Lavoratori, sia a causa della contrattazione collettiva. La
principale forma di rigidità fu dovuta alla nuova formula di scala
mobile , inizialmente applicata solo al salario minimo, poi a tutta la
retribuzione al loro delle imposte indirette , con la conseguenza di
una spinta inflazionistica continua e di un rilevante appiattimento
retributivo. Una politica monetaria permissiva unita a varie forme di
intervento statale sostennero il tasso di crescita del PIL al livello
medio del 3%, malgrado le queste nuove rigidità nei contratti di
lavoro, che generavano una continua spirale fra prezzi-costi del
lavoro e prezzi . Il risultato fu un’inflazione a 2 cifre, che si proiettò
negativamente sul successivo decennio degli anni ’80.
TAVOLA 6
DALL’INFLAZIONE MODERATA DELL’EPOCA CENTRISTA E
DEL CENTRO SINISTRA ALL’INFLAZIONE A DUE CIFRE
DEGLI ANNI ’70 DI CONTESTAZIONE DEL SISTEMA
CAPITALISTICO E DEL RIFORMISMO
1948 5,5536 1949 1,4443 1950 - 1,3609 1951 8,8531 1952 4,0754 1953 1,9097 1954 2,6184 1955 2,7305 1956 4,7398 1957 1,8946 1958 4,5719 1959 - 0,4198 1960 2,5867 1961 2,8402 1962 4,8526 1963 6,9909 1964 5,5973 1965 4,1637 1966 1,9622 1967 1,9611 1968 1,2583 1969 2,7309 1970 4,8384 1971 4,7617 1972 5,3203 1973 9,3950 1974 16,2794 1975 14,6522 1976 14,1793 1977 15,3251 1978 11,0704 1979 13,5968 1980 17,4557 1981 15,7522 1982 14,0480
La Tavola 3 mostra che in Italia, dopo un momento di transitoria
elevata pressione inflazionistica nel 1951, si ebbe sino al 1962 un
periodo di prezzi relativamente stabili, con un tasso di inflazione che
, salvo qualche punta del 4%, oscillava fra sotto il 3%. Nel 1962 si
superò il 4% e successivamente per un triennio si ebbero tensioni
inflazionistiche attorno al 5% . Seguì poi, con la guida di Emilio
Colombo al Tesoro e di Guido Carli alla Banca di Italia, un periodo
di contenimento dell’inflazione che, sino al 1968, l’epoca
dell’autunno caldo di agitazioni sindacai e studentesche, rimase sotto
il 2%. Successivamente, l’inflazione salì gradualmente portandosi
sopra il 5% nel 1972 . La spinta inflazionistica internazionale della
guerra del Kippur che generò il rialzo del prezzo del petrolio di
quattro volte, portò nel 1973 a un’inflazione del 9%. La lotta
all’inflazione nel nuovo indirizzo politico del compromesso storico
non era più una priorità. Nel 1974, in pieno periodo di solidarietà
nazionale, si inaugura l’inflazione a due cifre , un pesante lascito ,
una mina pericolosa che verrà disinnescata solo con il pentapartito .Il
tasso di crescita dei prezzi al consumo, nel 1974 arriva al 16, 3. Nel
1975 viene introdotto il “punto unico di contingenza”, cioè la scala
mobile sui salari che, inizialmente, doveva consentire la politica dei
redditi, ma diventa invece un diritto acquisito, cui si aggiungono le
altre rivendicazioni, una parte delle quali consistono nell’estendere la
scala mobile a ogni sorta di retribuzione e a tutte le componenti della
retribuzioni di base. Non vi è da stupirsi che nel 1976 , 77
l’inflazione sia del 14% e poi del 15%, l’anno seguente si riesce a
contenerla allo 11% . Ma nel 1979 essa si accresce di nuovo
superando il 13% mentre nel 1980 aumenta al 17%. Con grandi
sforzi la si riduce nei due anni seguenti al 15 e poi al 14%, ma è
evidente che essa sarà sconfitta solo con la modifica della scala
mobile, che avrà inizio con il pentapartito, inaugurato con il V
governo Fanfani del dicembre del 1982.
Le interferenze istituzionali nel credito, nei contratti di lavoro, nel
movimento dei capitali con l’estero e nei rapporti fra bilancio
pubblico e Banca Centrale non erano sostenibili nel lungo periodo.
Dalla Tavole 2 di queste Parte da quella simmetrica della Parte
Settima si può vedere come negli anni ‘80 esse dovettero essere via
via modificate
TAVOLA 7
ALCUNE MISURE DIRIGISTE E DI ESPANSIONE DELLO STATO E DEL DEBITO PUBBLICO NEGLI ANNI ‘70
30/11/1969 istituzione di un sistema generale pensionistico a ripartizione 28/01/1970 Istituzione delle “Regioni” che hanno funzioni di spesa autonoma sulla base di finanziamenti statali. 14/11/1970 statuto dei lavoratori: introduce rigidita’ sui contratti di lavoro. 7/10/1971 riforma fiscale con cambiamenti radicali, fra i quali :la creazione dell’imposta personale unica sul reddito ,; la sostituzione dell’imposta generale statale sugli scambi , di alcune imposte di fabbricazione e delle imposte locali di consumo con u a imposta statale sul valore aggiunto; la sostituzione delle imposte locali con trasferimenti decisi annualmente dal governo e dal parlamento. 1974 introduzione di un tetto al credito delle banche al settore di mercato , obbligo della Banca Centrale di acquistare i titoli del debito pubblico non assorbiti dal mercato 25/01/1975 scala mobile generalizzata sui salari con copertura di un ammontare uniforme e successiva estensione della clausola di copertura a tutti i complementi del salario di base 1976 Legge n.159 che introduce controlli e penalità severe sull’esportazione dei capitali. 5/08/1978 Istituzione della legge finanziaria che permette il finanziamento con debito pubblico del deficit per l’ammontare indicato nell’art. 1
Il modello di eurocomunismo
Basato sulla critica della “ società dei consumi “ del filosofo Herbert
Marcuse e sulla e sulla “immoralità del neocapitalismo “ , con la
conseguente dottrina dell’austerità di Enrico Berlinguer (il cui
teorico era l’economista Claudio Napoleoni) esso, in economia, si
basava su un sistema di dirigismo che, per i suoi connotati di
protezionismo e di commistione fra interessi economici di grandi
imprese private e dell’economia pubblica, si poteva denominare
“neomercantilismo” . Fu attuato solo parzialmente , come si è visto
sopra.
SETTIMO PERIODO: DAL 1982 AL 1993. L’INTEGRAZIONE EUROPEA E IL RIENTRO NEL
SISTEMA DI MERCATO TAVOLA 1 IL PIL DAL 1983 al 1992
Anno PIL (lire correnti)
PIL (miliardi % crescita PIL
Pop.Pop. (migliaia)
PIL pro capite
di lire 1995) Reale (migliaia) (miliardi per mille ab.)
1983 633.413 1.290.000 1,6 56929 27,8 1984 725.678 1.334.000 3,4 57080 28,5 1985 813.862 1.370.000 2,7 57202 29,3 1986 900.438 1.432.000 4,5 57291 30,0 1987 984.659 1.495.000 4,3 57399 30,8 1988 1.092.845 1.579.000 5,6 57505 32,0 1989 1.196.807 1.628.000 3,1 57576 32,9 1990 1.320.832 1.687.000 3,6 57746 33,4 1991 1.440.647 1.731.000 2,6 56757 34,5 1992 1.517.598 1.735.000 0,2 56960 34,6 1993 1.563.271 1.711.000 -0,9 57138 34,2
L’ECONOMIA ITALIANA RITORNA AL SISTEMA DI MERCATO , INTERNO E INTERNAZIONALE.
Questo periodo segna il ritorno dell’Italia ai principi dell’economia
di mercato occidentale. Tuttavia, mentre nell’area dei partiti di
governo e nella opposizione di destra (MSI) si confrontano fra loro
formule coerenti con tali principi, con diverso accento sul ruolo dello
stato e del mercato, nell’economia e con diverse visioni delle
relazioni nel rapporto fra mondo del lavoro e imprese od enti privati
e pubblici, alla sinistra dell’area di governo, il PCI , per molto
tempo, rimane orgoglioso della sua diversità. Solo verso la fine di
questo periodo, con la caduta del muro di Berlino e la fine
dell’URSS, esso si convertirà al sistema di mercato, stringendo
spregiudicatamente una alleanza con la grande impresa e la grande
banca: che non è innaturale, data la sua persistente avversione per le
classi sociali della piccola e media borghesia da cui era nato il
riformismo e la sua scarsa simpatia per la piccola e media impresa,
che nasce dalla cultura marxista. Il PIL cresce fra il 1982 e il 1992
cresce del 36,6% al tasso medio annuo del 3,25% e poiché la
popolazione è stazionaria , questo è anche il tasso di crescita del PIL
pro capite. Si tratta di un risultato molto notevole, considerando che
questo è un periodo di riorganizzazione economica, in cui l’Italia
man mano recide i precedenti dirigismi, ma è ancora tormentata da
un lato deficit, che genera un alto debito pubblico, come effetto della
emersione del debito precedentemente occultato nella Banca Centrale
e con i vincoli al sistema bancario.
TAVOLA 2 COMPOSIZIONE % DEL PRODOTTO INTERNO LORDO 1951-1990
Anno Agricoltura Industria Servizi Pubblica Amministrazione Grado di apertura
Internazionale
1975 6,1 34,8 44,7 14,5 37,1
1980 5,2 35,8 46,1 12,9 40,0
1985 4,9 33,9 48,2 13,0 43,6
1990 4,2 34,3 49,8 11,8 51,4
FONTE : N. ROSSI, A. SORGATO e G. TONIOLO, I conti economici italiani. Una ricostruzione statistica 1890-1990, Rivista di Storia Economica, 1993.
L’apporto dell’agricoltura al PIL subisce una ulteriore diminuzione ,
livellandosi su quello dei maggiori paesi industrializzati, con base
agricola importante, l’industria subisce un lieve ridimensionamento
percentuale, dovuto allo sviluppo del decentramento produttivo, il
cosiddetto outsourcing, che comporta lo scorporo dalle imprese
industriali non solo di produzioni di beni, ma anche di servizi, a
monte e a valle del loro processo produttivo. Il servizi del settore
privato si accrescono , in modo che la loro produzione di valore
aggiunto costituisce la metà di quello globale, mentre si riduce
considerevolmente il settore dei servizi della pubblica
amministrazione , che aveva subito nel precedente periodo un
artificioso gonfiamento.
TAVOLA 3 PRODUZIONE DI GHISA E ACCIAIO (IN TONNELLATE) 1981 Ghisa 12.260.190 Acciaio 24.777.415
1986 1991 1995 Ghisa 11.916.398 10.835.232 11.677.789 Acciaio 22.881.951 25.100.622 27.771.106 N.CREPAX (2002) Storia dell’indistria in Italia, Bologna, Il Mulino Fonte: I conti economici dell'Italia, vol. 1, Una sintesi delle fonti ufficiali 1890-1970, a cura di G.M. Rey, Roma - Bari, 1992; Istat, Annuario statistico italiano, Roma, anni vari.
Come si nota, la produzione siderurgica, agli inizi degli anni ’80
subisce un ridimensionamento. Esso è dovuto alle politiche
comunitarie rivolte a eliminare le capacità produttive in eccesso.
Successivamente, nel periodo del pentapartito, si realizzano
riorganizzazioni e privatizzazioni che portano a un consistente
sviluppo della produzione di acciaio, mentre rimane ridimensionata
la produzione, meno nobile, di ghisa.
TAVOLA 4
ANNI TASSO ANNUO DI INFLAZIONE
1983 13,0349 1984 9,5663 1985 7,9218 1986 5,7493 1987 4,4110 1988 4,7232 1989 6,1997 1990 5,7457 1991 6,0281
1992 5,1289
Con il 1983 il tasso di inflazione comincia una rapida discesa dovuta
al disinnesco parziale della scala mobile attuata dal Ministro delle
Finanze del governo Fanfani , Francesco Forte, in cambio di
consistenti riduzioni fiscali e ampliata successivamente dal nuovo
Presidente del Consiglio Bettino Craxi e dal Ministro del Lavoro
Gianni De Michelis (entrambi PSI) , nel quadro della politica dei
redditi. Il tasso di inflazione scende nel 1984 (soprattutto per effetto
della manovra Forte: infatti così come la scala mobile trasmette
l’inflazione dei trimestri a cui si applica a quelli successivi, la sua
riduzione genera una minor trasmissione dell’inflazione dai trimestri
dati a quelli successivi ) al 9,5%. , finalmente sotto le due cifre. Per
effetto della manovra Craxi-De Michelis l’inflazione scende poi al
7,9%nel 1985 e al 5,7% nel 1986, mentre nel 1987, ultimo anno del
governo Craxi essa è oramai al 4,4% e poco sopra tale livello
rimarrà anche nel 1988. Tuttavia essa non è vinta, non basta il
disinnesco della scala mobile a condurre alla stabilità monetaria, se vi
sono altre rigidità nel mercato del lavoro e in altre strutture
dell’economia , come nell’Italia dell’epoca : l’inflazione torna al 6%
nel 1989 e su tale livello oscilla nel 1990 e nel 1991. Nonostante la
grande svalutazione della lira del 1992 l’inflazione, invece, in tale
anno rimane al 5% . Il pentapartito lascia così l’inflazione al livello a
cui la aveva lasciata il centro sinistra nel 1972, ai suoi successori del
“compromesso storico”. Ma ora l’Italia ha firmato, nel 1992, con
Presidente del consiglio il socialista Giuliano Amato e Ministro degli
Esteri De Michelis e Ministro del Tesoro Guido Carli , il Trattato
dell’Unione monetaria Europea di Masstricht, che obbligherà a porre
la stabilità monetaria fra le grandi priorità della politica economica e
sociale.
TAVOLA 5 I GOVERNI DEL PERIODO DEL RITORNO AL MERCATO DEL
PENTAPARTITO 1982-1993
VIII Legislatura: 20 Giugno 1979—11 Luglio 1983 1° Forlani (18-10-1980—26-5-1981): Coalizione di Governo: DC-PSI-PSDI-PRI 1° Spadolini (28-6-1981—7-8-1982): Coalizione di Governo: DC-PSI-PSDI-PRI-PLI 2° Spadolini (23-8-1982—13-11-1982): Coalizione di Governo: DC-PSI-PSDI-PRI 5° Fanfani (1-12-1982—2-5-1983): Coalizione di Governo: DC-PSI-PSDI-PLI
IX Legislatura: 12 Luglio 1983-1 Luglio 1987 1° Craxi (4-8-1983—27-6-1986) : Coalizione di Governo: DC-PSI-PSDI-PRI-PLI 2° Craxi (1-8-1986—3-3-1987) : Coalizione di Governo: DC-PSI-PSDI-PRI-PLI 6° Fanfani (17-4-1987—28-4-1987) : Coalizione di Governo: DC-INDIPENDENTI
X Legislatura: 2 Luglio 1987-22 Aprile 1992 1° Goria (28-7-1987—11-3-1988): Coalizione di Governo: DC-PSI-PSDI-PRI-PLI 1° De Mita (13-4-1988—19-5-1989): Coalizione di Governo: DC-PSI-PSDI-PRI-PLI 6° Andreotti (22-7-1989—29-3-1991): Coalizione di Governo: DC-PSI-PSDI-PRI-PLI 7° Andreotti (12-4-1991—24-4-1992): Coalizione di Governo: DC-PSI-PSDI-PLI TAVOLA 6 MINISTRI DEL TESORO 1980-94
Andreatta Beniamino 18.10.80 01.12.82 Goria Giovanni Giuseppe 01.12.82 29.07.87 Amato Giuliano 29.07.87 22.07.89 Carli Guido 22.07.89 27.06.92 Barucci Pietro 28.06.92 27.04.93 Barucci Pietro 28.04.93 09.05.94
Dal 1982 al 1987 al Ministero del tesoro vi è la guida ferma di
Giovanni Goria, che si può dire il protagonista a livello tecnico del
rientro dell’Italia nel sistema monetario e finanziario europeo,
assieme al governatore della Banca di Italia Carlo Azelio Ciampi,
succeduto allo sfortunato Paolo Baffi nel 1980. Gli succede Giuliano
Amato, che prosegue nella medesima linea, anche perché il
presidente del Consiglio, nel periodo sino al gennaio 1988 è
Giovanni Goria. Ad Amato succede Guido Carli che rimane in carica
per un triennio, realizzando importanti riforme, come la
partecipazione alla formulazione del Trattato dell’Unione Monetaria
di Maastricht, che lui stesso sottoscrisse. Segue, per un biennio
l’economista Piero Barucci che con Amato presidente del consiglio,
prosegue nel solco tracciato da Goria, Amato e Carli, affrontando con
successo anche il difficile momento della caduta del cambio della
lira del 1992. Nonostante l’alternarsi di quattro Ministri del Tesoro ,
per altro, si tratta di una fase di grande continuità, dato che due di
essi sono anche presidenti del Consiglio quando lasciano il Tesoro e
uno è l’ex governatore della Banca di Italia, che ne ha realizzato
l’inserimento pieno nel sistema monetario internazionale, guidandola
dal 1960 al 1975.
STRUTTURE ECONOMICHE E VICENDE DEL PERIODO. Il recupero di potere di voto da parte della DC , la riduzione di quello
del PCI e soprattutto lo spostamento del PSI dalla politica di
sudditanza al PCI a una linea autonoma, sempre più indirizzata a
formule di socialismo liberale, causarono, nella legislatura 1979-
1983 e soprattutto in quella successiva il periodo del governo Craxi,
governi di coalizione fra DC , PSI e partiti laici minori (PRI, PLI e
PSDI) , il cosidetto pentapartito che realizzarono gradualmente
importanti cambiamenti istituzionali nella politica fiscale, in quella
monetaria e in quella del lavoro, accrescendo le entrate, riducendo il
dirigismo del credito e della moneta e abbattendo rigidità nel settore
del lavoro , create negli anni 70. Una importante innovazione ,
attuata nei primi anni ’80, fu il cosiddetto “divorzio” tra Banca
d’Italia e Tesoro, in base al quale la prima non era più obbligata ad
operare come sottoscrittore residuale dei titoli del debito pubblico.
La principale conseguenza immediata del “divorzio” fu l’incremento
sostanziale in termini reali del tasso di interesse, che faceva emergere
il costo effettivo del servizio debito pubblico, sino ad allora nascosto
mediante l’artifizio inflazionistico della sottoscrizione forzata della
Banca Centrale E poiché gran parte del debito pubblico degli anni
‘70 era costituito da titoli di breve termine, il peso del debito
aumentò non solo a causa dei nuovi deficit, ma anche in conseguenza
del finanziamento dei debiti precedenti a tassi di mercato. D’altro
canto, il tasso di crescita del PIL iniziò a declinare. Vari fattori
spiegano tale declino. Un certo ruolo lo hanno avuto le politiche
monetarie correlate ai cambiamenti istituzionali relativi alla gestione
del debito pubblico indicati precedentemente . Il tasso di interesse
superò il tasso di crescita del PIL aggravando l’onere del debito.
La nuova politica monetaria non permissiva fu chiaramente
condizionata dalla scelta dell’Italia nel 1981, di entrare nello SME ,
il sistema di cambi relativamente fissi dell’Unione Europea, nel
1981: cosa che avvenne mediante la concessione all’Italia di far
fluttuare la lira entro una banda provvisoria più larga di quella
ordinaria. Il PCI votò contro tale scelta, che costituiva una chiara
opzione di integrazione nel sistema di mercato europeo. Le linee di
politica economica fra il pentapartito e il PCI si andavano
divaricando e, in particolare si divaricava sempre più la linea del
PSDI guidato da Bettino Craxi , con una impostazione liberal
socialista, dalla linea dirigista dei comunisti.Nella legislatura del
1983-1987, la coalizione DC-PSI divenne dominante, con sostanziale
continuità di governo nell’intero periodo, in cui la guida fu tenuta da
Bettino Craxi. Il maggior evento di politica economica di tale
periodo fu la ricordata abrogazione della scala mobile delle
retribuzioni, nel 1985 e la successiva vittoria del fronte governativo
nel referendum indetto dal PCI e dalla CGIL per la sua
reintroduzione. Altri rilevanti cambiamenti istituzionali hanno avuto
luogo nella seconda metà degli anni 80 in relazione a fattori esogeni
di partecipazione alla nuova fase di integrazione europea, iniziata con
il vertice di Milano, in cui fu varato l’Atto Unico in cui veniva data
vita al “grande mercato unico europeo : la liberalizzazione dei
movimenti valutari con l’estero, l’abrogazione del conto corrente del
Tesoro con la Banca di Italia, l’attuazione della direttiva che
impedisce gli aiuti di stato alle imprese pubbliche e alle banche ,
l’inizio della politica di privatizzazione delle imprese pubbliche .In
prospettiva vi era l’accordo sull’unificazione monetaria europea che
fu approvato nel 1992. Nel 1990 l’Italia e’ così entrata nella banda
stretta dello SME. La marcia dei 30 mila a Torino pone fine al potere
sindacale eccessivo nelle imprese e verso le imprese. L’Italia entra
nel G7. E’ protagonista delle nuove regole del “grande mercato
europeo” con l’Atto Unico al vertice di Milano del 1985 per il cui
varo fu determinante l’azione del presidente di turno dell’Unione
Europea, Bettino Craxi, e del successivo Trattato di Maastricht
dell’Unione Monetaria , cui si comincia a lavorare dalla seconda
metà degli anni ’80. Sono poste così le premesse per un nuovo ciclo
di sviluppo nell’economia globale, ma rimane un pesante onere di
debito pubblico e una pressione fiscale troppo elevata.
TAVOLA 7
LE RIFORME PER IL RITORNO AL SISTEMA DI MERCATO NEL PERIODO DEL PENTAPARTITO 82-92 Marzo 1981 l’Italia entra nella banda larga dello SME. Luglio 1981 Divorzio tra la banca d’Italia e il tesoro circa il ruolo della prima di acquirente residuale di titoli del debito. 1982 aumento e poi abrogazione del tetto del credito delle banche al settore di mercato . 14/2/1984 taglio della scala mobile.
17/2/1986 approvazione da parte dell’Italia dell’Atto unico europeo che introduce nuove regole per un mercato unico europeo libero e non distorto che dovrà completarsi entro il 1992. Gli stati membri che hanno firmato l’atto unico si impegnano all’integrazione monetaria 1986 Italia recepisce la direttiva europea che vieta i sussidi alle imprese pubbliche 1987 liberalizzazione dei ti di capitali con l’estero. 11/3/1988 istituzione del Documento di programmazione economica e finanziaria, per cui, prima della sessione di bilancio, il parlamento approva le linee guida del governo per i successive tre anni e pone un limite al deficit per l’anno successivo 13/8/1988 abolizione del voto segreto in parlamento, tranne per questioni etiche e personali 29/7/1989 abolizione definitiva della scala mobile 12/5/1990 riduzione della riserva obbligatoria delle banche e dell’obbligo di inserire nel loro portafoglio titoli di debito pubblico. 14/5/1990 applicazione della direttiva sulla liberalizzazione completa dei movimenti monetari moneta. 6/1/1990 l’Italia entra nella banda stretta dello SME. 30/7/1990 trasformazione in fondazioni delle banche pubbliche. 20/12/1990 trasformazione in spa soggette al codice civile degli istituti di credi pubblici 1991 abolizione del C/C di tesoreria dello Stato con la banca centrale
8/8/1992 trasformazione di IRI, ENI, ENEL, INA in s.p.a in vista delle privatizzazioni 3/11/1992 viene firmato il trattato di Maastricht sulla moneta unica europea con i conseguenti obblighi su deficit e debito Legge finanziaria del 1993 riforme del sistema sanitario nazionale e del sistema pensionistico pubblico
Torna , dunque, il sistema di economia di mercato , con correzioni da
parte dell’operatore pubblico non distorcenti . Emergono man mano
il tema del recupero della flessibilità del lavoro , quello della riforma
dello stato del benessere e quello delle privatizzazioni. Con le azioni
di politica economica e di riorganizzazione produttiva di questo
periodo sono così gettate le basi per l’entrata dell’Italia nell’Unione
Monetaria Europea, la cui idea venne a maturazione durante la prima
parte degli anni ’80, con la creazione dello SME, il Sistema
Monetario Europeo, che vi preludeva . E, in effetti, la spinta
maggiore alla tenace azione di risanamento degli anni 80 fu data
proprio dalla consapevolezza che era necessario rimettere la casa in
ordine, per potere partecipare a tale Unione Se per la Gran Bretagna
poteva essere possibile rimanere fuori da essa, dato il risanamento
economico operato dalla Tatcher , il prestigio secolare della sterlina,
il legame particolare con gli USA e con le regioni extra europee
dell’ex impero britannico, per l’Italia l’isolamento sarebbe stato
estremamente pericoloso.
TAVOLA 8 DEBITO
SETTORE STATALE
DEBITO/PIL %
DEFICIT/PIL %
Entrate Statali/PIL %
Spese Statali/ PIL %
1982 341.710.000 62,68 13 28 39 1983 432.290.000 68,44 14 28 39 1984 521.190.000 72,10 13 28 39 1985 642.270.000 79,28 15 27 40 1986 750.320.000 83,52 12 28 39 1987 864.170.000 87,93 11 29 39 1988 987.830.000 90,62 11 29 38 1989 1.116.770.000 93,69 11 30 39 1990 1.260.000.000 96,13 10 31 40 1991 1.412.040.000 98,91 10 31 40 1992 1.595.120.000 106,16 10 33 43 1993 1.765.520.000 113,88 10 30 39
Le entrate statali rappresentano sempre meno il totale delle entrate
pubbliche, dato il crescente sviluppo dei contributi sociali
obbligatori. In ogni caso è il divario fra entrate statali e spese statali
che genera il deficit del bilancio. Le spese statali sono, all’inizio del
periodo , il 39% del PIL e su tale percentuale rimangono sino alla
fine del periodo, salvo qualche oscillazione temporanea al 40% e la
punta del 43% del 1992, che è uno dei fattori della crisi valutaria e
della successiva manovra di stabilizzazione. Il deficit all’inizio del
periodo è una quota molto elevata del PIL, come retaggio dell’epoca
del compromesso storico, poi scende al 12, allo 11 e al 10% del PIL.
Occorre notare che su questo deficit pesa sempre di più la spesa per
gli interessi sul debito pubblico, esplosa con il divorzio del Tesoro
dalla Banca di Italia e l’abolizione degli obblighi alle banche di
comperarne. D’altra parte la spesa per interessi è gonfiata dall’alto
livello del tasso di interesse nominale, che incorpora un elevato tasso
di inflazione. Questo, man mano, si riduce, ma poiché il servizio di
interessi sul debito aumenta, l’illusione monetaria derivante
dall’inflazione che rialza il tasso di interesse, ma svaluta l debito
pubblico, dà luogo a un gonfiamento artificioso dl disavanzo. Il
rapporto debito/PIL sale di continuo a causa dell’elevato onere oper
interessi che genera un alto disavanzo. Alla fine del periodo il
rapporto debito PIL è al 113%: una percentuale molto elevata. Ma a
ben guardare un tasso di inflazione del 5%, quando il rapporto
debito/PIL è il 100% , comporta una riduzione del disavanzo pari al
tasso di svalutazione del debito. Dunque, alla fine di questo periodo,
il disavanzo , al netto dell’inflazione, era attorno al 5% :una cifra
ancora elevata, ma su cui gravava la grossa spesa per interessi. Che a
sua volta era resa anomala dall’elevato tasso di interesse reale, che
dipendeva dai timori di inflazione e dal peso elevato del debito sul
PIL. L’ingresso in una unione monetaria, come quella del Trattato di
Maastricht, che comportava una inflazione contenuta sotto il 3% e
un deficit contenuto, anche esso sotto il 3%, poteva consentire di
ridurre il tasso di interesse reale e lucrare, perciò, una riduzione del
deficit reale sotto il 3% senza modificare il rapporto fra la spesa
pubblica e il PIL. Il traguardo, quando fu liquidato il pentapartito, era
vicino. Il frutto era maturo. Ma non si desiderava che fosse il
pentapartito a coglierlo. Tangentopoli, qualsiasi sia stata la sua
origine, al riguardo rese un servizio eccezionale alla coalizione fra
l’ex PCI, diventato PDS e la grande industria, segnatamente i gruppi
Agnelli e De Benedetti, che controllavano la grande stampa
d’opinione (Corriere della Sera, Stampa, Repubblica) e la
Confindustria (che a sua volta ha il Sole 24 Ore), che poteva contare
su rilevanti amicizia in Germania e in Gran Bretagna. Ma ciò
riguarda il successivo periodo.
Frattanto l’Italia era diventata la quinta potenza industriale del
mondo, superando, nel PIL, di poco, la Gran Brettagna, ed il suo
governo, dal tempo dell’ultimo anno della Presidenza Craxi era
entrata nel club dei grandi paesi industriali , il G5.
OTTAVO PERIODO: DAL 1994 AL 2000. IL RISANAMENTO FINANZIARIO INIZIALE E LE
OCCASIONI MANCATE TAVOLA 1
Anno PIL (lire correnti)
PIL (miliardi % crescita PIL
Pop.Pop. (migliaia)
PIL pro capite
di lire 2001) reale (migliaia) (miliardi per mille ab.)
1861 7,784 68621 26328 2,6
1994 1653402 1,996.981 2,2 57269 34,9 1995 1787278 2055370 2,9 57333 35,8 1996 1902275 2077837 1,1 57461 36,2 1997 1987165 2119940 2,0 57563 36,8 1998 2077371 2158328 1,8 57613 37,5 1999 2144959 2193124 1,6 57680 38,0 2000 2257066 2257046 2,9
!
L’ITALIA ENTRA NELL’UNIONE MONETARIA EUROPEA MA NON SA APPROFITTARE DEL GRANDE BOOM DEGLI STATI UNITI Il PIL Italiano che nel 1992 era di 1.971.271 mila miliardi di lire
2001 è arrivato a fine secolo a 2.257.056 mila miliardi di lire, con
una crescita del 14,5% in otto anni , che corrisponde a un tasso di
aumento annuo dello 1,75% soltanto. Poiché la popolazione è rimasta
invariata, questo è anche il tasso di crescita del PIL pro capite. Hanno
pesato su questo basso tasso di crescita gli elevatissimi carichi fiscali
e la loro cattiva distribuzione e il pesante vincolismo del mercato del
lavoro e di quello delle opere pubbliche. In genere , la “seconda
repubblica” negli anni 90 non ha saputo cogliere l’ansia di
rinnovamento che emergeva nella maggioranza del paese. La sfida
del 2000 è di riprendere più alti tassi di crescita, mediante la
rivitalizzazione del mercato.
TAVOLA 2
ANNI TASSO DI INFLAZIONE ANNUO
1993 4,0280 1994 3,7924 1995 5,0800 1996 3,7533 1997 1,7061 1998 1,7632 1999 1,5518 2000 2,4974 2001 2,6101
Il tasso di inflazione era oramai sotto controllo dalla metà degli anni
‘80. E’ stato relativamente facile conseguire quel livello inferiore al
3% che veniva richiesto per l’ingresso , nel 1997, nell’Unione
Monetaria Europea dalle regole del Trattato di Maastricht. L’unico
anno di inflazione fuori norma è il 1995, come prezzo del ribaltone
politico, attuato in conseguenza delle azioni giudiziarie e delle
iniziative della CGIL, contro le politiche di riforma del governo
Berlusconi, di cui fra poco si vedrà.
VICENDE POLITICHE E POLITICA ECONOMICA DEL
PERIODO
TAVOLA 3
I GOVERNI DAL 1992 AL 2000
XI Legislatura: 23 Aprile 1992-17 Maggio 1995
1° Amato (28-6-1992—22-4-1993): Coalizione di Governo: DC-PSI-PSDI-PLI 1 ° Ciampi (28-4-1993—16-4-1994): Coalizione di Governo: DC-PSI-PSDI-PLI 1° Berlusconi (10-5—22-12 –1994): Coalizione di governo :Fi-AN-Lega-Ccd,Udc 1°Dini (17-1-95—17-5-1996): governo “tecnico”, con l’appoggio delle sinistre XII LEGISLATURA :17 MAGGIO 1996- MAGGIO 2001 1°Prodi (17-5-1996---9-10-1998):Coalizione di governo :Pds-Ppi-Ri-Rc-Verdi) 1°D’Alema (22-10-1998---21-4-2000 ):Coalizione di governo:Ds-Ppi-Ri-Udr-Pcdi-Verdi 2° Amato (22 –4-2000—10-6-2001):Coalizione di governo Ds-Ppi-Ri-Udr (dimezzata) -Verdi
Con il primo governo Amato e il governo Ciampi terminano i
governo del pentapartito . Le elezioni, contrariamente alle aspettative
dell’area di sinistra guidata dai DS e dai popolari, sono vinte dalla
coalizione di centro-destra guidata da Silvio Berlusconi. Tuttavia,
mediante iniziative giudiziarie e un grande sciopero contro la riforma
delle pensioni, guidato della CGIL, si attua –con il favore del
presidente della Repubblica Scalfaro - un ribaltone parlamentare,
mediante il passaggio all’opposizione della Lega Nord, turbata da tali
eventi giudiziari e sindacali. Segue a ciò un governo cosiddetto
tecnico appoggiato dalle sinistre, che prepara il terreno alla loro
presa di potere. Nelle elezioni anticipate del 1996, in effetti la
coalizione di sinistra dell’Ulivo , guidata da Romano Prodi, ex
presidente dell’IRI, esponente dell’ala di sinistra DC dossettiana , di
tradizione catto- comunista, con forti appoggi nella Confindustria
controllata dal gruppo Fiat e nel mondo bancario, vince le elezioni.
La nuova coalizione dell’Ulivo per altro si rivela instabile. Prodi
perde il potere nell’ottobre 1998, perché Rifondazione Comunista
non intende più appoggiare il governo. Gli succede come premier il
leder DS D’Alema, con una coalizione in cui vi sono alcuni
transfughi del centro destra, che rimpiazzano Rifondazione
Comunista, con il beneplacito del preside della Repubblica Scalfaro,
oramai avvezzo ai ribaltoni. Anche questo governo entra in crisi e
viene rimpiazzato da un governo Amato, con l’intesa che questi non
sarà automaticamente il leader nella competizione elettorale del
2001.
TAVOLA 4 MINISTRI DEL TESORO 1994-2001
Dini Lamberto 10.05.94 16.01.95 Dini Lamberto 17.01.95 16.05.96 Ciampi Carlo Azeglio (Ministro del Tesoro, del Bilancio e P.E.)
17.05.96 14.05.99
Amato Giuliano (Ministro del Tesoro, del Bilancio e P.E.)
15.05.99 21.04.2000
Visco Vincenzo (Ministro del Tesoro, del Bilancio e P.E.)
22.04.00 10.06.2001
Mentre la breve XI Legislatura vede al Tesoro solo Lamberto DINI,
la successiva legislatura vede l’alternarsi di tre Ministri del Tesoro,
prima Ciampi, autore della grande manovra di bilancio con cui
l’Italia entrò nell’euro, poi Giuliano Amato, nel governo d’Alema e
infine Vincenzo Visco, già Ministro delle Finanze nei due precedenti
governi. Il primo si limitò a una gestione di bilancio ordinaria, senza
affrontare questioni strutturali, mentre il secondo attuò una
espansione della spesa pubblica che fece aumentare il deficit del
2001 e lasciò un grosso disavanzo di cassa in eredità alla
successiva legislatura.
TAVOLA 5
ANNI DEBITO SETTORE STATALE
DEBITO SETTORE STATALE /PIL
DEFICIT GLOBALE/PIL
DEBITO GLOBALE/PIL
1993 1.765,520.000 113 9,50 119,10 1994 1.931.850.000 117 9,20 124,90 1995 2.072.710.000 116 7,70 125,30 1996 2.205.040.000 116 7,10 122,10 1997 2.248.730.000 113 2,70 120,10 1998 2.290.040.000 110 2,80 116,40 1999 2.300.288.000 1,80 114,50
2000 2.348.308.000 0,50 110,60
L’economia italiana ha raggiunto una sua maturità, ma ha perso
alcune componenti caratterizzanti del suo precedente sviluppo, che
avevano un rilevante contenuto tecnologico, in particolare
nell’elettromeccanica, con la crisi dell’Olivetti che non è riuscita ad
affermarsi come impresa elettrica e con la crisi della grande industria
chimica e chimico farmaceutica , a causa di vicende politico-
giudiziarie che la hanno messa in ginocchio e poi distrutta , quando
non è divenuta preda di imprese estere che la hanno svuotata dal suo
contenuto di ricerca e di innovazione , con conseguente
ridimensionamento. E’ poi entrata in grave crisi anche la Fiat auto, a
causa di politiche inadeguate di investimento del gruppo nel settore
auto, mentre esso si diversificava verso la finanza e le industrie di
pubblica utilità, con un eccesso di in debitamente
TAVOLA 6.
Produzione di ghisa e acciaio (in tonnellate) 1966 1971 1976 1981
Ghisa 6.258.920 8.536.336 11.630.592 12.260.190 Acciaio 13.638.611 17.451.926 23.446.624 24.777.415 1986 1991 1995 Ghisa 11.916.398 10.835.232 11.677.789 Acciaio 22.881.951 25.100.622 27.771.106 N.CREPAX (2002) Storia dell’indistria in Italia, Bologna, Il Mulino Fonte: I conti economici dell'Italia, vol. 1, Una sintesi delle fonti ufficiali 1890-1970, a cura di G.M. Rey, Roma - Bari, 1992; Istat, Annuario statistico
italiano, Roma, anni vari.
Nel settore dell’acciaio invece ha giocato un ruolo positivo la
politica di privatizzazione. La produzione siderurgica italiana si era
grandemente accresciuta dall’epoca del miracolo economico in poi,
in relazione allo sviluppo della domanda interna del settore
meccanico, di quello dell’edilizia civile, industriale e commerciale e
delle opere pubbliche, di quello dei trasporti e di industrie varie.
Aveva popi subito un ridimensionamento negli anni ‘80 , in parte in
relazione alle politiche di riduzione delle capacità produttive di base
della siderurgia europea operata dalla Commissione dell’Unione
Europa e in parte per le difficoltà gestionali del gruppo pubblico
facente capo alla Finsider La cessione ai privati delle imprese del
gruppo Finsider e l’uscita di scena di imprese non più economiche
hanno consentito un ritorno all’economicità del settore e un
incremento della produzione al di là dei massimi dell’inizio degli
anni 80, mediante imprese meno grandi ma più efficienti e
specializzate.
Il risanamento finanziario di un paese indebitato ha inizio e si
svolge mediante la destinazione di una parte crescente delle risorse di
entrata del bilancio al pagamento della spesa per interessi, in modo
da evitare che si debba emettere nuovo debito per pagare gli interessi
del vecchio debito. Ora se consideriamo i dati del saldo primario, che
è costituito dal divario fra le entrate e le spese al netto di quelle per
interessi, notiamo che nel 1991 comincia a formarsi un avanzo
.
TAVOLA 7 . RAPPORTO DEFICIT PUBBLICO/PIL NOMINALE E DEFLAZIONATO E TASSO DI CRESCITA DEL PIL
A B
C D E F
Anno PIL
Deficit/PIL %
Inflazione %
Deficit deflazionato/PIL
(Deficit –Deprezzamento del debito)/PIL
Crescita PIL
Reale
Saldo Primario
/PIL
1990 1991 1992 1993 1994 1995 1996 1997 1998 1999 2000
11,0 10,0 9,5 9,4 9,1 7,6 6,57 2,7 2,7 2,2 1,68
6,1 6,4 5,4 4,2 3,9 5,4 3,9 1,7 1,8 1,7 2,59
4,3 3,3 3,3 3,9 4,1 1,1 1,7 0,2 0,4 0,2 +1,3
2.0 1,4 0,8 -0,9 2,2 2,9 0,9 2,0 1,8 1,6 2,9
-1,7 0,1 1,9 2.6 1,8 3,9 4,4 6,7 5,3 4,9
Fonte Ocse
L'avanzo primario fra il 1991 e il 1995 sale via via portandosi sui 4
punti nel 1995. Dunque è sbagliato affermare che l'Italia, quando,
dopo le elezioni del 1996, la coalizione di sinistra cattolica ed ex
comunista, dell 'Ulivo, guidata da Romano Prodi, salì al potere nel
1996 era sull'orlo dell'abisso finanziario. Oramai il risanamento era in
atto. E, togliendo il velo dell'illusione monetaria, il bilancio italiano,
nel 1995, era già giunto a un deficit deflazionato per tenere conto
della svalutazione del debito dovuta all'inflazione5, dello 1,1 per
cento (Tav. 7colonna D). Il deflazionamento del deficit in relazione
alla perdita di valore dello stock del debito, che qui presento, non è
un artificio contabile: riflette il fatto che nell'onere degli interessi è
compresa la perdita di valore dei cespiti del debito. Quindi il dato
della colonna E è il miglior indicatore della effettiva situazione del
bilancio, una volta che sia stata sconfitta l'inflazione, che genera gli
interessi (artificiosamente) alti, volti a compensare la perdita di
valore del capitale dato a prestito. La abrogazione dei meccanismi di
indicizzazione dei salari, che venne a compimento durante la prima
Repubblica e la politica monetaria della Banca d'Italia, sono state
determinanti nel combattere l'inflazione, facendo emergere l'effettiva
situazione del bilancio. Che il risanamento fosse già in atto, quando
la coalizione di sinistra cattolica ed ex comunista andò al governo,
nel 1996, e che l'illusione monetaria impedisse di percepirlo, risulta
anche dalla dinamica del rapporto fra debito e Pil. Questo rapporto
che era nel 1990 del 98%6 salì al 101,5 per cento nel 1991, al 108,7
nel 1992, per portarsi nel 1993, l’ultimo della “prima Repubblica” al
119,1 e al 124,9 nel 1994. Nel 1995 il rapporto debito/Pil si fermò al
125,3Ciò si collega al fatto che l'avanzo primario in tale anno
aumentò di oltre il doppio, così da stabilizzare il rapporto fra debito
globale e PIL . Poiché il bilancio di un anno dipende dalla manovra
finanziaria dell'anno prima, si può affermare che quel sentiero
virtuoso è iniziato con la legge finanziaria del 1994. Nel 1996, anno
di ascesa della sinistra al potere, il rapporto debito/Pil subì un grande
balzo in diminuzione al 122% del PIL , poiché a un avanzo primario
capace di controbilanciare l’incremento del debito, si aggiunsero i
proventi delle privatizzazioni. (Tav. 3, colonna F). La svolta,
insomma, se vi è stata, non si è avuta con l'andata al governo
dell'Ulivo, ma con la finanziaria Berlusconi del 1994.
Il governo Dini, succeduto nel 1995 al governo Berlusconi, a
seguito del ribaltamento della maggioranza parlamentare, con il
consenso del presidente della Repubblica Scalfaro, che non sentì il
bisogno di sciogliere le Camere, continuò, come poteva, la
precedente manovra di stabilizzazione, per un biennio, in attesa di
nuove elezioni. Il suo Dpef per il 1996-1998, fissava per il 1996 un
deficit del 5,8 per cento, mentre per il 1997 lo poneva al 4,4 per
cento. Ma il suo ultimo periodo fu condizionato dalla necessità di
spendere per spianare la strada alla vittoria dell'Ulivo e dalla
impossibilità di frenare la spesa per le pensioni di anzianità. La
promessa di non revisionare i pensionamenti anticipati era alla base
della sua nascita e faceva parte integrante degli impegni della
coalizione del “ribaltone” . La vittoria della sinistra nelle elezioni del
1996 pertanto fu pagata con un notevole peggioramento nei conti
pubblici. Nel giugno 1996, accortosi che il deficit stava tornando al 7
per cento, il premier Prodi incapace – per il peccato originale del
blocco politico-sociale di cui era espressione – di controllo strutturale
della spesa, attuò una manovra di misure correttive, nelle entrate, per
riportare non lontano dal 5,6 il deficit del 1996, programmando al 4,2
per cento quello del 1997 e al 3,3 per cento quello del 1998.
Ipotizzava per l’Italia e la Spagna, l’ingresso nell’unione monetaria,
alla fine del 1998, forse sulla base dei dati di pre-consuntivo del ’98,
immaginando che i partner europei l’avrebbero consentito non
essendo politicamente sostenibile la costituzione di una unione
monetaria europea basata sul mero asse franco-tedesco. Avuta
notizia, che la Spagna – che aveva nel 1996 un deficit del 5,6 per
cento – si apprestava a ridurlo nel ’97 al 2,6 per cento, prodi, per non
rimanere isolato, in contraddizione con la campagna elettorale basata
largamente sull’adesione all’Unione Europea, che gli aveva valso
l’appoggio della grande impresa e della stampa internazionale, decise
di modificare la sua politica, con ulteriori interventi temporanei e di
carattere straordinario, facendo appello alla eccezionale capacità
tecnica del Ministro del Tesoro Ciampi, un grande tecnico che aveva
maturato le sue competenze come governatore della Banca d'Italia e
aveva già contribuito al risanamento finanziario come presidente del
Consiglio del governo del 1993-1994. Ciampi realizzò una grande
operazione di rientro, mediante la manovra del bilancio di cassa, su
un arco triennale, meritevole di essere studiata, come esempio da
manuale, dagli esperti del Fondo monetario e della Banca mondiale.
Tale manovra, in quanto supportata dal divieto di utilizzare somme
già stanziate nel bilancio di competenza, salvo le autorizzazioni del
Tesoro a spendere, dava luogo in larga misura a economie, anche dal
punto di vista dei debiti di spesa, rilevanti per le regole di Maastricht
e, in definitiva, anche secondo i criteri del bilancio italiano di
competenza12. Gli vennero in aiuto anche le operazioni di
manipolazione contabili che l’Unione Europea aveva consentito un
po’ a tutti i paesi membri. A ciascuno faceva comodo una certa
elasticità nella applicazione delle regole di bilancio, vuoi per il
parametro del 3 per cento del deficit, vuoi per quello del
contenimento del rapporto debito/Pil13. Tali manipolazioni furono
ammesse tramite benevole interpretazioni delle regole della
contabilità Sec 1987, rimasta in vigore per l’ingresso nell’unione
monetaria e destinata a spirare subito dopo14.
Il deficit ufficiale del bilancio italiano del 1996 si collocò sul
7% per cento, anziché sul 5,6 per cento previsto, in quanto la
manovra di cassa di Ciampi, che si tramutava in manovra di bilancio
di competenza tramite le autorizzazioni a spendere, privilegiava il
1997 facendo slittare indietro sull’anno precedente e avanti sul
successivo il più possibile di uscite. Anzi il deficit del 1996, in
conseguenza di queste manovre, sarebbe stato del 7,9 per cento se
non si fossero potute utilizzare le norme contabili europee che
consentirono di ridurlo dello 0,8 per cento del Pil15. Si usa misurare il
“balzo prodigioso” del 1997 su tale dato del 1996. ma sarebbe bene
tenere presente che il vero piede su cui misurare il 1997, in termini
macro e il 5,8 per cento di programma del bilancio triennale che
Prodi aveva ereditato. La riduzione dell’inflazione dovuta alla
politica monetaria restrittiva della Banca d’Italia, interpretata
dall’Ulivo come segno di ostilità del Governatore Fazio, agì
favorevolmente per l’ingresso nell’unione monetaria perché consentì
di spezzare, in poco tempo, lo “zoccolo duro” dell’inflazione
portandola sotto il 3 per cento e permise di godere subito di riduzioni
del tasso di interesse.
All'abile manovra per il raggiungimento dei parametri di Maastricht,
per il 1997, del ministro del Tesoro Ciampi impostata in termini di
bilancio di cassa sarebbe dovuta seguire una manovra di
miglioramenti strutturali nella finanza pubblica, :che egli, certo,
avrebbe voluto attuare, se la linea politica della coalizione dell'Ulivo
l'avesse consentito. Invece che tali miglioramenti, si ebbero dei
peggioramenti, anche perché l'elezione di Ciampi alla presidenza
della Repubblica, privò la coalizione dell'unica persona che potesse
porre
con autorevolezza il problema della riforma della spesa
pubblica. Secondo la vulgata messa in circolazione dall'apparato
culturale e propagandistico della coalizione di sinistra
dell'Ulivo, esso, al termine della legislatura 1996-2001, lasciava
, per il nuovo secolo, un "Italia migliore". Questa é un'altra cosa
non vera, se, ovviamente, si considera non già il miglioramento
che il "paese reale" Italia ha saputo realizzare, ma la situazione
delle istituzioni e delle strutture pubbliche, in rapporto a tale
progresso e nel quadro della competitività internazionale.
A differenza che quella precedente, per cui fu merito del
governo Prodi aver fatto entrare l’Italia nell’Unione monetaria
europea con una energica operazione di risanamento (era invece
solo una abile manovra di cassa) , questa tesi però non trova
facile credito, a livello internazionale.
La mediocrità dei risultati nella crescita, nell'occupazione,
nonostante la vigoria imprenditoriale e lo sforzo di investimento
del settore privato;
-il deludente consuntivo circa lo sviluppo del Mezzogiorno
nonostante le risorse disponibili che non si è saputo far
utilizzare da parte delle imprese;
-l'esiguo flusso di investimenti dall'estero in confronto a quello
verso altri paesi dell'Unione Europea;
-gli enormi ritardi infrastrutturali in particolare (ma non solo)
per i grandi collegamenti di un paese che è nel mercato unico e
nella moneta unica europea;
-le carenze pubbliche e gli ostacoli nel settore della ricerca
scientifica;
-le mancate riforme con particolare riguardo al settore
pensionistico, alle liberalizzazioni e alle complicazioni
legislative e burocratiche;
-gli eccessi e gli errori con riguardo alla pressione fiscale
e quelli con riguardo alle regolamentazioni del mercato del
lavoro, al diritto di sciopero nei servizi;
-gli appesantimenti delle autorità preposte ai mercati-
saltano agli occhi a un osservatore minimamente informato.
Stando a tesi di osservatori internazionali come il Financial
Times , che simpatizzavano per la coalizione di sinistra
dell’Ulivo questa mediocrità di risultati troverebbe spiegazione
nel fatto che, "purtroppo", maggioranza era stata minata
dall'instabilità politica, dovuta al succedersi di quattro governi e
tre diversi capi di governo nel quinquennio.Ma ciò rifletteva la
intrinseca confusione ideologica della coalizione di cattolici di
sinistra, ex comunisti , verdi e comunisti sponsorizzati dalla
grande industria
Cosa sarebbe potuto accadere se non vi fosse stato questo
avvicendarsi, data la eterogeneità dell'Ulivo? Il succedersi dei
tre governi è l'espressione dell'intrinseca mancanza di
omogeneità e di sincerità di questa coalizione e del suo vano
tentativo di conciliare, verbalmente, l'inconciliabile, con il
proclamarsi per il mercato, ma nel tenere il controllo dell'Enel e
nell'estenderlo al settore telefonico.
Con il propugnare un mitico "dividendo sociale", ma nel
difendere le pensioni di anzianità a spese di ogni altra
componente delle politiche sociali, in particolare gli assegni
familiari e le indennità per i disoccupati e il loro inserimento nel
mondo del lavoro.
Con il dichiararsi per la libertà di impresa e la piccola impresa,
ma nel sottoporre a 45 permessi la creazione di nuove iniziative
e nel mantenere la tassazione delle società a livelli non lontani
dal 50 per cento.
Col sostenere la de-regolazione e il project financing, ma
nell'adottare la programmazione triangolare nelle politiche di
sviluppo e nel frenare le infrastrutture con l'ecologismo nello
spirito di Seattle.
Con il dichiararsi per la liberalizzazione delle professioni, ma
anche per la riforma sanitaria Bindi ostile alla sanità privata.
Col volere la previdenza integrativa ma anche l'attribuzione ai
sindacati del controllo sui fondi pensione e così via.
Dopo anni di crescita stentata, espressione del ritardo
competitivo che compendia gli errori e le insufficienze di cui
sopra, nel 2000 il Prodotto lordo italiano, grazie a rettifiche
dell'Istat, effettuate ai primi del marzo 2001, è risultato
accresciuto del 2,9 per cento anziché del 2,8 per cento come
nelle stime ufficiali. La Tavola 2 lo mostra in modo evidente.
TAVOLA 8. –
GRADUATORIA EUROPEA DI CRESCITA DEL PIL NEL 2000
Maggiore o eguale al 4%
Maggiore o eguale al 3%
Inferiore al 3%
Irlanda 10,5 Lussemburgo 8,5 Finlandia 5,7 Spagna 4,1 Grecia 4,1
Belgio 3,9 Olanda 3,9 Austria 3,5 Francia 3,3 Portogallo 3,0 Germania 3,0 Gran Bretagna 4,0
Italia 2,9 Danimarca 2,6
Media europea 3,4 Media Eurolandia 3,5
Fonte Eurostat Per altro è possibile che nuove rettifiche del calcolo del PIL
portino la crescita dell’Italia nel 2000 sulla media europea.
Infatti il risultato italiano potrebbe essere migliore se le
rettifiche dell’Istat non si limitassero a quelle compiute nel 2000
sulla base dei nuovi criteri di contabilità nazionale, ma
andassero più a fondo, migliorando la oramai vecchia base di
calcolo della produzione industriale e considerasse le
innovazioni tecnologiche nei settori dei servizi e dell’agricoltura
Le rettifiche in aumento da parte dell'Istat della serie storica del
PIL, dal 1997 in poi, basate su criteri conformi al Sec 1995(il
Sistema europeo di contabilità nazionale), hanno un carattere
particolare, non solo perché si limitano a considerare la nuova
metodologia, ma non considerano i mutamenti di struttura
dell’economia, ma anche per l'incerto margine fra economia
emersa e sommersa, che viene valutata per l'Italia, per quanto
riguarda il fattore lavoro, al 22 per cento2 fra lavoro del tutto
irregolare (di stranieri non residenti, di occupati non dichiarati e
di lavoro in attività irregolari) e doppio lavoro.
Comunque, per il 1997, la revisione Istat, effettuata in tre
riprese, due nel 2000 e una nel marzo 201, è di ben 0,5 punti,
pari a un terzo del tasso di crescita originariamente stimato, che
è passato dallo 1,5 al 2 per cento. La correzione interessa in
particolare il Mezzogiorno. Per il 1998 la correzione, in due
riprese, è di 0,4 punti, pari al 28 per cento della crescita
originaria dell'1,43 . Per il 1999 la correzione (fatta tutta nel
marzo 2001) è di 0,2 punti, pari al 15 per cento, su 1,4 punti di
crescita prima stimata. Per il 2000 la correzione, sempre del
marzo 2001 è ancora di 0,2 punti: su un tasso di crescita del 2,7
per cento, essa rappresenta il 7 per cento. 4.
La performance italiana, dal punto di vista della crescita
del PIL nel quinquennio, stando a questi dati, è sensibilmente
peggiore di quella media europea, che pure non ha certo brillato
per dinamismo: abbiamo registrato infatti una crescita media
annua dello 1,9 per cento contro la media europea del 2,6 per
cento con un ritardo cumulato di circa 3,5 punti di Pil nel
quinquennio. La Spagna ha registrato una crescita annua del 3,5
per cento, dimostrando che, con l'ingresso nell'euro, era
possibile avere una crescita differenziale per un paese con minor
grado di sviluppo di quello delle nazioni europee più avanzate,
pur dopo aver realizzato un processo di riduzione del deficit di
notevole dimensione: cosa che non è accaduta per l'Italia. Ma
abbiamo fatto peggio anche di altre grandi nazioni europee
come la Francia e la Gran Bretagna, che hanno realizzato un
tasso di crescita del Pil 'pari a quello medio europeo. Non a
caso, l'altro stato che ha avuto una crescita inferiore al 2 per
cento medio annuo è stata la Germania con un governo legato al
sindacato da vincoli consociativi impropri, simili a quelli
dell'Italia dell'Ulivo. La nostra inferiorità della crescita non è
compensata da una minore inflazione come in Germania.
L'aumento dei prezzi italiano è stato superiore a quello europeo.
L'Italia ha avuto , rispetto alla media europea, una minore
crescita e una maggiore inflazione.
A livello europeo la crescita è maggiore dell'inflazione sicché il
rapporto di questa a quella è sensibilmente inferiore all'unità,
per l'Italia si ha la situazione inversa con un tasso di inflazione
che supera quello di crescita quasi del 50 per cento. La
Germania ha una bassa crescita, come l'Italia, ma una inflazione
sistematica inferiore
TAVOLA 9 –
INFLAZIONE E CRESCITA
Italia Europa Differenza Tasso di inflazione annuo Tasso di inflazione cumulato Tasso di crescita Rapporto inflazione/crescita
2,56 12,8 1,9 1,42
2 10,0 2,6 0,76
+0,56 +2,8 -0,7 +0,66
Fonte Eurostat
Quando, nel 1996, l'Ulivo prese il potere, il risanamento
finanziario era già in atto. L’Ulivo non ha complessivamente
rafforzato il processo di miglioramento in atto mediante
operazioni di struttura. Non vi è stata una manovra strutturale di
bilancio, ma solo una manovra di ampio respiro nel bilancio di
cassa attuata dall'allora ministro del Tesoro Ciampi, nel 1997.
TAVOLA 10
DISAVANZO DI CASSA (FABBISOGNO) SUL PIL Anno Pil Fabbisogno Fabbisogno/Pil 1990 1991 1992 1993 1994 1995 1996 1997 1998 1999
1.320 1.440 1.517 1.563 1.653 1.787 1.902 1.983 2.067 2.168
159 158 164 169 154 127 142 39 51 22
10,5 11,0 10,8 10,8 9,3 7,1 7,5 1,9 2,5 1,0
Fonte Banca d’Italia per il fabbisogno Dati ISTAT non rettificati per il PIL
Nel bilancio dello Stato i trasferimenti correnti del 1997 agli
enti locali, alle regioni e alla sanità e agli enti previdenziali
risultano 162 mila miliardi contro 217 mila nel 1996 e 223 mila
nel 1998. Una parte di questa operazione si è tradotta in
spostamento di voci di spesa nel bilancio di competenza,
valevoli per i parametri di Maastricht. Ciampi inoltre otteneva
un importante effetto di riduzione del flusso monetario creato
dal bilancio pubblico, così da generare disinflazione e riduzione
nell’emissione di debito pubblico, che generava una riduzione
nel suo tasso di interesse. Grazie anche all’apporto di 21 mila
miliardi di proventi di dismissioni, il fabbisogno delle
amministrazioni pubbliche del 1997 scese di colpo a 39 mila
miliardi contro i 142 mila del 1996 . Nel 1998 il fabbisogno
risalì a 51.700 miliardi, nonostante la riduzione di 17 mila
miliardi di interessi passivi non controbilanciata dalla
diminuzione dei proventi delle dismissioni di 6 mila miliardi da
21 mila a 15 mila. Questa robusta manovra di spostamento
indietro e avanti di pagamenti, riducendo il fabbisogno
finanziario del 1997 con una “operazione shock”, fece emergere
di colpo i dati reali, insiti nella struttura di bilancio, ripulendola
da tutti gli squilibri monetari in essere.
Il grande successo della manovra di cassa di Ciampi, con il suo
effetto shock, fu una battaglia campale di sfondamento, sul tipo
di Vittorio Veneto, resa possibile grazie al grosso sforzo di
risanamento accelerato fra il 1994 e il 1995 e già iniziato dal
1991.
TAVOLA 11
L’AGGIUSTAMENTO DI BILANCIO 1997 DEL 4,8%19 DEL PIL
Fattori non facenti parte della manovra correttiva - rettifiche contabili consentite dalle regole di Maasticht: - riduzione spesa per interessi
Totale
0,8% 2,1
2,9%
Manovra correttiva effettiva - imposte straordinarie - aumenti di entrate ordinarie - riduzione di spesa di capitale
Totale
0,7
0,8% 0,5 2,0
Totale delle operazioni correttive Slittamenti di entrate e spese ad altri esercizi Totale della manovra Peggioramenti reali nella spesa corrente
4,9 0,7% 5,6 0,8
Fonte elaborazioni su dati Banca d’Italia
Nel bilancio del 1997, in cui l’Italia presentava un deficit del
2,7 per cento contro il precedente 6,7 per cento, sale la spesa
corrente al netto degli interessi, peccato originale dell’Ulivo.
Dal punto di vista contabile, il deficit valevole per i
parametri di Maastricht risultò nel 1997 di 53.700 miliardi, pari
al 2,7 per cento del Pil secondo i calcoli di allora. Lo 0,8 per
cento del Pil recuperato con le norme del Sec 87, valide per i
bilanci 1997 ai fini dell’esame per i parametri di Maastricht,
servì a pareggiare l’analogo recupero percentuale dell’anno
precedente. La Banca d’Italia valuta a 0,3 per cento del Pil
l’onere che è stato ribaltato su esercizi successivi per
spostamento ad essi di spese del 199716. Un altro 0,6 di risparmi
di spesa di competenza fu attuato operando sulle spese di
investimento, che si ridussero dal 4,1 per cento dell’anno
precedente al 3,5 per cento. Più difficile è stimare lo
spostamento delle entrate dal 1998 al 1997 ottenuto con
accertamenti di ufficio concentrati a fine 1997. Si può notare
dalla successiva Tavola, che le entrate del 1997 hanno la
“gobba” molto pronunciata rispetto a quelle del 1996 e a quelle
del 1998. Si tratta di 2 punti in più sul 1996 e di 1,6 in più sul
1998. Ciò si spiega solo in parte con al “tassa per l’Europa” e
l’anticipo da parte delle imprese dell’imposta sui Tfr
(trattamenti di fine rapporto) che diedero un contributo
straordinario di 11.400 miliardi pari allo 0,76 per cento del Pil
alle entrate del 199717. Si può valutare in un altro 0,8 l’effetto
degli inasprimenti fiscali adottati nel 199718. Il restante 0,4 per
cento si spiega con lo spostamento alla competenza 1997 di
entrate del 1998. Il disavanzo del 1998 è maggiore, in termini
nominali, di quello dell’anno prima. Ciò sebbene l’esercizio
1998 sconti oltre al pieno dispiegarsi dell’aumento dell’Iva, una
notevole riduzione della spesa per interessi. Ecco così la
manovra per la riduzione nel 1997.
Se si fosse bloccata la spesa corrente, non ci sarebbe stato
bisogno di tassazione straordinaria e sarebbero basati aumenti di
imposte ordinarie della metà. Il ministro del Tesoro Ciampi, di
fronte al dilatarsi della spesa corrente, accettò gli aumenti
fiscali, anche per creare un clima di preoccupazione, per
contenere le spinte a spendere.
Dopo avere usufruito, nel primo periodo della abilità tecnica
di un esperto di finanza della statura di Carlo Azeglio Ciampi,
per una energica manovra di cassa, nel conto di esercizio e nel
conto del patrimonio (tramite privatizzazioni di carattere
finanziario) l’Ulivo non ha saputo mettere a frutto quel
successo.
Alla manovra Ciampi non sono seguite riforme atte a incidere
positivamente nei grandi totali macro-economici del bilancio. Si
potrebbe cercare di argomentare che, per altro, l'Ulivo ha
realizzato riforme "strutturali" di politica economica, che
permettono migliori prospettive future. Anche qui la risposta è
negativa. L'Ulivo, con la sua azione, ha posto l'Italia in una
situazione di inferiorità competitiva, impedendole di usufruire
dei benefici dell'unione monetaria, mentre ne pagava il prezzo,
rinunciando all'autonomia nel cambio. Agli stati europei è
convenuto che l'Italia entrasse nell'unione monetaria. Il fatto che
essa ci si trovi in una situazione di inferiorità competitiva, è un
problema nostro.
. Un governo che non abbia una pura visione monetarista della
politica di bilancio deve saper tenere conto degli effetti sulla
dinamica del PIL della sua azione correttiva, cercando di
iniettare incentivi alle imprese e alla loro competitività
internazionale mentre riduce il disavanzo. Una bassa crescita del
PIL, oltre ché essere in sé indesiderabile, in quanto comporta
riduzione delle prospettive di discesa della disoccupazione, di
diminuzione degli squilibri regionali eccetera, riduce l'efficacia
delle manovre di riduzione del deficit e di diminuzione del
rapporto debito/PIL: ciò in quanto a parità di deficit e di nuovo
indebitamento nell'esercizio, una bassa crescita del PIL
comporta, a parità di deficit, un peggiore rapporto fra deficit e
PIL e una minore riduzione nel rapporto debito/PIL. Il cammino
del risanamento italiano è stato reso difficile dalla bassa crescita
del PIL, negli anni dal 1996 in poi. Il meschino andamento del
PIL non è dovuto a inerzia degli imprenditori italiani, è dipeso
dal fatto che il peso preponderante della manovra di
stabilizzazione è stato attribuito all'aumento della pressione
fiscale, senza incentivi all'economia produttiva, salvo gli sgravi
fiscali per la rottamazione di auto.
In pari tempo, si tagliava la spesa pubblica per investimenti
mentre cresceva la spesa sociale. E si inasprivano le
regolamentazioni, sotto la doppia spinta dell'idea che i divieti e
le complicazioni procedurali servissero a combattere la
corruzione e a migliorare l'ambiente10. La bassa crescita era
pressoché inevitabile, i benefici di un basso tasso d'interesse,
non poterono essere colti.
TAVOLA 12.
DINAMICA DELLA SPESA PUBBLICA DAL ’90 AL 2000 Spesa
corrente senza
interessi PIL
Spesa sociale
PIL
Spesa interessi
PIL
Spesa di
capitale PIL
Pressione fiscale su PIL
Entrate totali
su PIL
A B 1990 1991 1992 1993 1994 1995 1996 1997 1998 1999 2000
2000/95 2000/97
38,7 39,0 39,9 40,8 39,7 37,0 37,6 37,9 37,5 38,1 37,8 +0,8 -0,1
18,2 18,3 19,3 19,5 19,5 16,7 16,9 17,3 17,0 17,3 17,3 +06, +0,0
18,2 18,3 19,3 19,5 19,5 19,2 19,4 19,9 19,6 19,9 19,9 +0,7 +0,0
9,5 10,2 11,5 12,1
11,0 4,1 11,5 11,5 9,4 8,1 6,8 6,2 -5,3 -3,1
5,3 4,8 4,6 4,9 41,7 4,6 3,8 3,5 3,8 3,9 3,9 +0,7 +0,4
39,6 40,6 43,0 44,4 45,7 42,2 42,5 44,6 43,0 43,0 42,8 -0,6 -1,7
42,7 43,8 46,5 48,3
45,6 45,8 48,2 46,6 46,9
46,621
-0,6 1,7
Fonte Banca d’Italia, Statistiche di finanza pubblica nei paesi dell’Unione Europea, anno X, n.68. dicembre 200022
La lievitazione strutturale della spesa corrente si
concentrò inizialmente sulle pensioni. Infatti le prestazioni
sociali nel bilancio consolidato delle amministrazioni pubbliche
sono passate da 298 mila miliardi nel 1995 a 320 mila nel 1996
a 344 mila nel 1997, aumentando dal 16,6 al 17,3 per cento del
PIL. L’aumento del biennio è di 46 mila miliardi, pari a 23 mila
annui, un importo che costituisce sul Pil del 1996 lo 1,2 per
cento e su quello del 1997 un ulteriore 1,16 per cento.
Ma la spesa corrente aumentò anche al di fuori delle
pensioni. Durante la legislatura 1996-2001 sono state approvate
468 leggi di spesa, con un costo triennale cumulato di 173 mila
miliardi, pari a 29 mila annui e un costo a regime di 31 mila
annui, pari a 1,3 punti del Pil del 2000. Il 93 per cento di queste
leggi di spesa è governativi20.
Aumento delle entrate fiscali e delle spese correnti, riduzione
di quelle di investimento. Così si fa quadrare il bilancio,
soffocando crescita e occupazione, secondo i dettami della
“terza via” di tipo germanico.
La dinamica perversa delle spese correnti dell’Ulivo, come
accennato, contiene due componenti. La prima è la pesante
eredità della mancata attuazione della riforma delle pensioni,
scandalo di pensionamenti anticipati, privi di corrispondenza fra
contributi pagati e diritti di pensione. Ciò, oltre che onorare la
cambiale per l’appoggio politico del sindacato, appagava anche
grandi industrie con necessità di ristrutturazione. Inoltre il
prepensionamento accelerava il ricambio nelle Pubbliche
amministrazioni, nelle Ferrovie, nelle Poste eccetera, favorendo
la vocazione nella lottizzazione dell’Ulivo. La seconda
componente della lievitazione della spesa corrente è quella
endemica nella cultura della sinistra, aggravata dalla
eterogeneità dell’Ulivo. E i successivi contenimenti attuati dal
Tesoro valsero solo a frenare il rapporto con il PIL: così dovette
rimanere alta la squilibrata pressione fiscale non bastando, in
assenza di manovre strutturali, il “bonus” della riduzione della
spesa per interessi per ridurre il deficit verso lo zero e per
abbassare verso il 100 per cento il rapporto debito/PIL come
richiesto in sede europea. La grande manovra di cassa doveva
essere la premessa per l’azione strutturale. Ma l’Ulivo cintosi di
alloro si illuse che non ce ne fosse bisogno.
Consideriamo ora, appunto, ciò che è accaduto dal 1997
in poi. Come si nota fra il 1998 e il 2000, la spesa per interessi
si è ridotta ancora di 3,1 punti. Il deficit invece si è ridotto di 1,3
punti soltanto. La pressione fiscale dopo la “gobba” del 1997
del 44,5 per cento sul Pil che comportava un aumento di 2 punti
rispetto all’anno prima, di cui, come si è visto, 1,5 punti erano
effettivi, ritornò ad oscillare sull’elevato livello del 42,8 per
cento, che era già stato raggiunto nel 1993 dal primo governo
Amato. La diminuzione della pressione fiscale dell’enorme 44,5
per cento al 42,8 per cento, pari a 1,7 punti, non basta a togliere
all’Italia una posizione di primato nella pressione fiscale sulle
attività economiche, che, come si vedrà, è fra le cause per cui
noi abbiamo un basso posto nella graduatoria della competitività
economica. Va notato che, dato il minor reddito pro capite
rispetto ad altri paesi industriali, occorrono in Italia aliquote più
alte, a parità di reddito, per dare un dato introito in rapporto al
Pil, cioè un dato livello di pressione fiscale. D’altra parte il
carico fiscale italiano, oltreché elevato, è anche male distribuito.
La spesa sociale, in cui predomina quella per le pensioni
dei lavoratori, rispetto al 1990, in termini omogenei dal punto di
vista della contabilità nazionale, nel 1999 è oramai al 20 per
cento23 con un aumento di 1,8 punti sul Pil rispetto al dato del
1990. Solo la modifica delle serie storiche, derivante
dall’adozione di diversi criteri per il calcolo della spesa sociale,
per cui le prestazioni in natura e i costi di gestione sono passati
ad altre voci24, nasconde ora il fatto che il nostro bilancio è stato
gravato di spese per prepensionamenti fuori misura che l’Ulivo
ha addossato all’Italia, per “risanarla”. Emerge, d’altra parte, in
modo chiaro che la spesa in conto capitale è stata compressa
sistematicamente al disotto del 3 per cento dal 1994 in poi,
risultando diminuita di 0,7 punti anche nei due ultimi esercizi in
cui ha avuto una certa ripresa. Si sarebbe potuto ridurre la spesa
in conto capitale, senza compromettere, ma anzi con un rilancio
degli investimenti infrastrutturali grazie al project financing ed a
estese privatizzazioni. Ma ciò non è stato fatto. D’altra parte, il
contenimento della spesa in conto capitale più che da manovra
deliberata è dipeso dalla lungaggine delle procedure.
Alla fine del suo periodo di governo l’Ulivo lasciava una
spesa corrente, al netto degli interessi, accresciuta rispetto al
1995 La spesa sociale risulta aumentata sul PIL. Accanto ai dati
ufficiali della spesa, vi erano quelli fuori bilancio del disavanzo
sanitario ripianati a posteriori, come “debiti pregressi”, al di
sotto della linea ufficiale del deficit. La pressione fiscale era
salita.
Il “risanamento” attuato dall’Ulivo consiste dunque in un
peggioramento nei grandi aggregati della finanza pubblica
rispetto al 1995, a causa della incapacità non solo di ridurre, ma
anche di “regimare” sugli alti livelli del 1995 la spesa corrente
al netto degli interessi. Il che corrisponde perfettamente al
quadro della coalizione, frammentata e rissosa al suo interno,
legata al corporativismo sindacale, imbevuta di ideologia
dirigista sul lato delle spese e delle entrate. La dimostrazione
finale si è avuta con la manovra di finanza pubblica per il 2001,
con una legge finanziaria di 158 articoli composti spesso di un
numero incredibile di commi (l’articolo 145 dedicato agli “altri
interventi” ha ben 99 commi!), per un complesso di 680.000
battute, corrispondenti a un volume di 290 pagine con interventi
a pioggia un po’ per tutti, senza un disegno di politica
dell’offerta. Questa manovra, che diede luogo a squilibri di
bilancio, nel 2003 sia in competenza che soprattutto in cassa,
attuava alcuni elementi di riduzione della fiscalità ma non
modificava la situazione di eccesso di pressione sulle piccole e
medie imprese, perché questa non era una priorità dell’Ulivo. E
la performance del rapporto debito/Pil che era stata preventivata
viene raggiunta nel 2000 solo grazie alla provvida rivalutazione
statistica del PIL In ogni caso essa non è molto brillante perché
vi è stato un notevole ritardo nelle politiche di privatizzazione
proprio nel periodo del boom della borsa E quelle effettuate, in
larga misura sono state dedicate a sanare debiti pregressi che si
sono di continuo riformati accanto al deficit ufficiale, per la
incapacità o non volontà di controllo dei soggetti decentrati di
cui risponde lo stato. Si tratta di una prassi degenerativa che si è
andata formando dagli anni Settanta in poi in relazione allo
sviluppo della sanità pubblica e alla cattiva gestione di imprese
pubbliche. Nel marzo del 2001, ad esempio, sono stati ripianati
16 mila miliardi di debiti pregressi delle Usl accumulati da Asl e
ospedali sino al 199925. Il fatto che esse persistano contribuisce
a dimostrare quanto poco sia veritiera l’affermazione che
l’Ulivo, nella legislatura che si chiuse nel 2001 ha costruito una
“Italia migliore”. La crescita italiana è avvenuta “nonostante”
questa azione di governo e il suo ritardo ne risente.
Un primo fattore di ritardo, che si è ripercosso sul secolo
seguente. Carenza di infrastrutture e grandi opere.
L’Italia al 2000 ha un posto non buono nella graduatoria
delle dotazioni infrastrutturali e della competitività. Alla fine
del secolo, ’Italia è il sesto paese del mondo per prodotto lordo,
il quarto per tasso di motorizzazione, il quinto per esportazioni e
il sesto per importazione di servizi26, settimo per importazioni
ed esportazioni di beni. E’ l’ottavo per chilometri di strade
ferrate in rapporto al territorio, il nono per sviluppo stradale
rispetto al territorio, il ventiduesimo per tasso di transnazionalità
calcolato in base agli investimenti stranieri diretti, gli occupati
in filiali di imprese straniere e altri indicatori di questa natura27.
Lo squilibrio fra tasso di motorizzazione e tasso di sviluppo
della rete stradale indica un grave ritardo per le infrastrutture
stradali. Esso si spiega con la riduzione dei fondi per le spese di
investimento, il blocco imposto dai verdi a molte opere (come il
raddoppio dell’Autostrada del Sole), con il sistema macchinoso
delle conferenze di servizi quale condizione per l’autorizzazione
ai progetti di nuove opere, con la complicazione delle regole
delle procedure di appalto, che per altro non sono il modo
migliore per combattere la corruzione. Ad esempio,
l’attribuzione alle Regioni della potestà di fare autostrade,
attualmente riservata allo Stato, consentirà di risolvere molti
problemi di ritardi e carenze finanziarie per quanto riguarda la
rete stradale. D’altra parte il ricorso sistematico al project
financing, consentirà di eliminare alla radice il problema della
corruzione negli appalti in quanto l’esecuzione dei lavori è
direttamente a cura delle imprese che si assumono il progetto.
E’ nella matrice dirigista dell’Ulivo che, dunque, si trova la
spiegazione di questa discrasia, che comporta un tasso di gravi
incidenti stradali elevato, perdite di efficienza, di competitività e
di qualità della vita, difficoltà alla crescita a causa della
congestione nelle aree del Nord e a causa del difetto di
comunicazioni in quelle del centro e soprattutto, del
Mezzogiorno. Un rilievo analogo a quello appena fatto per le
infrastrutture stradali vale per la rete ferroviaria, ove lo
squilibrio rispetto al grado di sviluppo economico italiano, nel
2000, contrariamente alle apparenze, è ancora maggiore poiché,
in parte notevole, i chilometri di rotaie di cui al dato globale
riguardano infrastrutture inadeguate e in cattivo stato, che non si
prestano a percorrenze con velocità possibili con i mezzi a
disposizione. Ciò vale in particolare per la rete ferroviaria a Sud
di Roma e, in misura addizionale, per quella a Sud di Napoli.
L’Italia, sino al 2000, non ha realizzato alcun tratto di ferrovia
ad alta velocità ed anche i treni Eurostar non potevano esplicare
le loro velocità per carenza delle infrastrutture e delle
manutenzioni. Eppure si tratta di servizi che, secondo i calcoli
economici confermati dai dati effettivi della domanda, sono in
grado di autofinanziarsi. Si potrebbe cercare di spiegarsi il
ritardo nello sviluppo stradale e autostradale con la scelta di
preferire la “rotaia” alla strada, ma il ritardo addizionale relativo
alla “rotaia” si spiega solo con la preferenza per una politica
ferroviaria basata sul potere sindacale e sulla avversione
culturale alla modernità. Di quest’ultima è chiara espressione la
vicenda del ponte sullo stretto di Messina: per la scelta di un
progetto, dato il veto dei Verdi, non è stato fatto, nel
quinquennio dell’Ulivo, nessun passo avanti, mentre nel
frattempo è stato portato a compimento il Tunnel sotto la
Manica.
Un secondo fattore di ritardo competitivo. Rigidità dei
contratti di lavoro e carenza di istruzione professionale.
La Heritage Foundation classifica l’Italia al
trentaduesimo posto in una graduatoria internazionale
dell’indice di libertà economica, per il 2001, sulla base in
particolare di tre fattori negativi; l’eccesso di pressione fiscale
sulle imprese, le rigidità del mercato del lavoro, le
complicazioni burocratiche. Analoghe valutazioni negative si
trovano anche nei vari indici di competitività economica di
diverse istituzioni finanziarie Lehman e Brothers, che
analizzano i vari paesi dal punto di vista della convenienza ad
investirvi. Questa, considerando 21 paesi industriali, sulla base
di 400 indicatori, pone l’Italia al ventesimo posto, prima
soltanto della Grecia. Considerando i 14 dell’Unione Europea,
gli Stati Uniti, il Giappone e la Svizzera World Economic
Forum ci pone al penultimo posto, prima della Grecia, Merryl
Linch invece ci pone all’ultimo posto. Grande evidenza hanno
in queste classifiche, le carenze italiane, per il settore del lavoro,
in relazione alle rigidità dei rapporti di lavoro e alle carenze
nelle politiche di istruzione professionale e di addestramento dei
disoccupati.. La regolarizzazione di lavoratori stranieri ha fatto
emergere nell’economia ufficiale prestazioni prima sommerse,
contribuendo all’incremento ufficiale dell’occupazione. La
inclusione del lavoro”coordinato e continuativo” nel regime
pensionistico Inps, con (modesti) contributi sociali ha
accresciuto la accuratezza della sua rilevazione; la estensione
della assicurazione infortuni sul lavoro ad attività che in
precedenza non rientravano statisticamente nel lavoro, come le
borse di studio, ha fatto emergere come “lavoratori” percettori
di redditi che prima non erano considerati come tali. Non è
credibile che nel 2000 si siano creati 656 mila nuovi occupati
pari al 3,7 per cento in più, con una crescita del Pil pari al 2,9
per cento: ciò infatti implica una riduzione del prodotto per
addetto, vale a dire della produttività, dello0,8 per cento in un
anno. In un periodo di espansione ciò è assurdo. Trattandosi, in
gran parte, di lavoro part-time è parasubordinato o autonomo,
questo incremento di occupazione è, comunque, la
dimostrazione di come potrebbero migliorare l’occupazione
italiana e presumibilmente la crescita del Pil, liberalizzando le
forme contrattuali flessibili del lavoro, che sono invece
ammesse sono in via eccezionale. Anche prendendo tutti gli
incrementi nella statistica degli occupati come aumenti
dell’occupazione la disoccupazione che l’Ulivo lascia alla fine
della legislatura 1996-2001 è uguale a quella del 1992, anno
terminale della cosiddetta prima Repubblica. Infatti in tale anno
la disoccupazione fu il 10,1 per cento. Nel primo anno
dell’Ulivo, il 1996, la disoccupazione, non rettificata, era lo 11,5
per cento28 e sostanzialmente su tale valore si trovava nel 1999,
essendo allora allo 11,4 per cento. In effetti, la nuova
maggioranza politica, giunta al potere con l’appoggio sindacale,
ne è stata condizionata ritardando il più possibile la adozione
delle liberalizzazioni comunitarie, nel settore del part-time e dei
contratti a termine ed ha evitato la adozione di politiche
regionali differenziate. Ancora alla fine della legislatura non era
stata attuata la direttiva comunitaria sulla liberalizzazione dei
contratti a termine. Ciò ha contribuito a bloccare l’Italia nelle
retrovie dell’Europa, con un tasso di disoccupazione del 10 per
cento differenziale rispetto a quello medio europeo, frattanto
sceso allo 8,3 per cento. A ciò si aggiunge che la percentuale del
2000 della nostra forza lavoro, occupata o disoccupata, sulla
popolazione in età lavorativa del 60 per cento era largamente
inferiore alla soglia del 70 per cento fissata a Lisbona e a
quell’80 per cento che si trova nei paesi anglosassoni e
scandinavi. In particolare in Svezia il 66 per cento delle persone
fra i 55 e i 64 anni lavora, in Italia solo il 33 per cento. Per una
coalizione progressista, aver ridotto la disoccupazione, in un
quinquennio, di un solo 1,5 punto percentuale (350 mila unità),
da un livello come lo 11,5 per cento, mentre rimanevano molto
bassi i tassi di attività per i più giovani, per le donne e per gli
anziani, non era un buon risultato. In seguito, con alcuni
elementi di flessibilità, si è avuto, invece, un elevato aumento di
occupazione, pur con un tasso di crescita del PIL ridotto, a
causa degli avversi fattori internazionali (ma i datori ISTAT
della crescita del PIL del 2001 e 2002 sembrano
sostanzialmente sottovalutati). La modesta riduzione della
disoccupazione che si è verificata nel quinquennio del governo
di sinistra non ha risolta i gravi problemi di carenza di posti di
lavoro e di economia sommersa nel Mezzogiorno. E il dato del
10 per cento di disoccupati, rapportato a quello finale della
prima Repubblica, assieme alle gravi carenze nelle politiche di
istruzione professionale, con particolare riguardo ai disoccupati
cronici, non giustifica l’affermazione che la coalizione di
sinistra al termine della legislatura lasciava, per tale cruciale
aspetto, una “Italia migliore”. Era drammatico che esso
sventolasse come un successo l’aumento che si è verificato negli
occupati di lavoro, perché ciò implicava che esso ritenesse
soddisfacente le rigidità dei rapporti di lavoro. Come se
l’enorme quota di lavoro sommerso e di rapporti cosiddetti
atipici non stesse a dimostrare, assieme alla bassa crescita del
PIL, che quello vigente in Italia negli anni della sinistra al
Eliminato:
potere era un regime monopolistico che privilegiava una parte
della forza lavoro rispetto all’altra.
UN TERZO FATTORE DI RITARDO COMPETITIVO. RITARDO DI PRIVATIZZAZIONE LIBERAZIONI E CAOS DELLE AUTHORITIES.
Non vi è da stupirsi del basso grado di transnazionalità
dell’Italia nel periodo del governo della sinistra alleata della
grande industria e delle grandi banche - che pure si vantava di
“averci fatto entrare in Europa”- considerando le carenze
infrastrutturali, gli eccessi di fiscalità, le complicazioni
regolamentari, le rigidità del mercato del lavoro. Il basso grado
di transnazionalità si collegava al notevole ritardo nelle
liberalizzazioni. Le privatizzazioni sono state compiute
soprattutto per scopi di finanziamento pubblico e beneficio di
operatori privati, non come operazioni di passaggio al mercato
competitivo. Un male- per altro- più europeo che italiano. Le
privatizzazioni non erano state iniziate dai governi dall’Ulivo,
ma in un periodo precedente, con leggi dell’epoca del penta
partito, che hanno cominciato ad operare nel 1994, con la
cessione della prima tranche dell’Imi e dell’Ina per 6600
miliardi al tesoro. Sono andati al Tesoro, nel ’95, la seconda
tranche dei due soggetti finanziari per altri 2200 miliardi e la
prima tranche dell’Eni per 6300. Nel 1996, nelle manovre per la
riduzione del fabbisogno, il ministro del Tesoro Ciampi effettuò
una seconda tranche di cessione di azioni Eni per 9000 miliardi
e una terza di Ina ed Imi per circa 3500. Nel 1997 vi fu, sempre
per il Tesoro, una terza tranche Eni per 13 mila miliardi, cui
seguì nel ’98 un’altra alienazione per altrettanto, sempre nel
quadro della grande manovra di cassa di “rientro” finanziario.
Mentre le due operazioni riguardanti Ina ed Imi, iniziate nel ’94,
sono vere privatizzazioni, in quanto la proprietà della loro
maggioranza passava al mercato, senza alcuna quota azionaria
“aurea” (golden share) nelle mani dello stato, per l’Eni non si è
trattato di una vera privatizzazione: lo stato non solo si è
riservato una quota aurea, ma ha mantenuto la maggioranza
relativa del 30,3 per cento, sicché controlla tutto il consiglio di
amministrazione29. Nel 1997 venne ceduto il nocciolo duro di
Telecom con l’aggiunta di Opv per la quasi totalità del capitale,
una vera privatizzazione: ma l’introito non andò al Tesoro. Esso
fece le cessioni per conto dell’Iri, cui aveva fornito degli
anticipi e man mano girò i maggiori proventi realizzati. Esso
così ebbe quei flussi patrimoniali che hanno evitato di doverlo
dichiarare in dissesto. L’iniezione di denaro a favore dell’Iri che
era stata sino a poco prima gestita dal presidente del Consiglio
Prodi (ma in questo caso non fu posta alcuna questione di
conflitto di interessi)30, fu di 23 mila miliardi nel 1997, cui se ne
aggiunsero altri 4 mila per la cessione di Seat, Aeroporti di
Roma e Banco di Roma (quota Iri), mentre nel 1999 fu
privatizzata, sempre a beneficio dell’Iri la società autostrade per
altri 13 mila miliardi. Il flusso di denaro che l’Iri ottenne è
ingente e gli ha permesso di esistere ancora al termine della
legislatura, sopportando le perdite di Alitalia e di aziende del
gruppo Finmeccanica. Nel 1999 si attuò anche la cessione di
azioni Enel per 35 mila miliardi per il Tesoro: ma il 67,5 per
cento dell’Enel è rimasto allo stato. Esso, anzi, ha effettuato
acquisizioni nel settore delle acque (coerenti con la sua
missione) e nella telefonia (estranee alla sua missione) con
l’acquisto di Wind e Infostrada. Queste operazioni telefoniche
generarono una riduzione del valore delle azioni Enel del 10 per
cento. La cessione di impianti da parte dell’Enel non è stata
ancora attuata nel marzo 2001. Ritardano oltre alla
liberalizzazione elettrica, quella telefonica e del gas. Quanto alle
Ferrovie e alle Poste non si è effettuata alcuna privatizzazione e
le liberalizzazioni sono estremamente limitate. Al termine della
legislatura, rispetto al programma di privatizzazioni stabilito per
il 2000-2001 mancavano 17 mila miliardi.
Frattanto i governi della sinistra avevano dato vita a
innumerevoli autorità indipendenti, agenzie e garanti, senza
curarsi di delimitarne le competenze e di stabilire i rapporti fra
di esse e gli organi di giustizia amministrativa, ossia il Consiglio
di Stato e il Tar, che mantengono intatte le loro competenze,
senza contare la magistratura ordinaria e le Commissioni della
comunità europea. Così si sono verificati conflitti di delibere fra
l’antitrust e l’autorità preposta alle telecomunicazioni e quella
preposta all’energia, e conflitti fra queste autorità e il Consiglio
di stato, e fra esso e il Tar, con conseguenze che disorientano gli
operatori. E le tariffe hanno subito continui rincari, in
particolare nel settore dell’energia.
Un quarto fattore di ritardo. L’eccessiva pressione fiscale
sulle imprese non beneficiarie della DIT e super DIT.
Il governo Prodi in sostituzione dei contributi sanitari
(che avevano una aliquota del 6 per cento31) e di altri tributi
minori, ha creato l’Irap, un’imposta che tassa le imprese e il
lavoro autonomo, con una aliquota del 4,25 per cento non sul
reddito ma sul valore aggiunto, comprensivo, per il costo del
lavoro, dei contributi sociali. A differenza dei contributi sanitari,
l’Irap non è detraibile dal reddito sicché, in alcuni casi, la
pressione sui costi del lavoro per le imprese è aumentata. E’
stata mantenuta al 37 per cento l’Irpeg, cioè l’imposta sulle
società, riducendola solo a fine legislatura al 36, con l’obiettivo
di un’altra riduzione al 35 per cento. Ed è stata introdotta la
Dit32, ovvero l’aliquota ridotta al 19 per cento per i proventi
normali dei profitti reinvestiti, calcolati con un parametro annuo
stabilito discrezionalmente dal ministro delle Finanze. Se si
aggiunge al 37 per cento l’aliquota del 4,25 per cento sui profitti
e sugli interessi passivi, assumendo che questi siano sul capitale
investito la stessa percentuale di profitto, si ha un ulteriore
gravame dell’8,5 per cento, cui va aggiunta l’Ici e qualche
tributo minore (tasse per la Camera di Commercio, per i registri
delle imprese eccetera) per un altro 3 per cento. Si arriva, così,
al 46 per cento al netto dell’onere dell’Irap sui costi del lavoro,
che rappresenta di media un altro 10 per cento. Il totale della
pressione fiscale sulle società e così attorno al 56 per cento,
comprensivo dell’Irap sul costo del lavoro. La Dit dava benefici
soprattutto alle grandi imprese, assieme alle quali era stata
inventata, dalla sinistra, come parziale contraccambio per il
sostegno alla sua presa di potere Dalle indagini di Mediobanca
sui bilanci delle imprese italiane per il 1999 risulta che per le
medie imprese italiane, fra Irpeg, Irap e Ici, il carico fiscale
sugli utili è del 54 per cento, per le grandi del 34 per cento. La
spiegazione di questo divario sta soprattutto nel fatto che per le
grandi società, più che per le medie, entravano in gioco le
aliquote agevolate DIT e per le rivalutazioni dei beni aziendali, .
In sostanza il gravame sul provento delle attività produttive,
prescindendo dall’Irap sui costi del lavoro (che per le società
equivale pressappoco ai contributi sanitari soppressi) per le
società è stato, nella legislatura dell’Ulivo, attorno al 48 per
cento. Dopo la riduzione dell’Irpeg, vi era sempre un gravame
del 43 per cento. Secondo l’allora premier Amato e il ministro
del Tesoro Visco non vi era bisogno di ridurre al 25 per cento
l’Irpeg, come proponeva la Confindustria, cominciando subito
dal Mezzogiorno e procedendo gradualmente per il resto del
paese. Essi dedicarono i bonus della Finanziaria del 2001 ad
altri obiettivi: ritenendo che la pressione fiscale sulle società, in
Italia, fosse corretta e che non vi sia bisogno di altre riduzioni ai
fini della concorrenza fiscale internazionale, in particolare con
riguardo allo sviluppo privato nelle aree meno sviluppate del
paese. L’Italia, avendo vari handicap, dovrebbe tassare i profitti
delle attività produttive di meno, non di più degli altri paesi,
specialmente con riguardo alle medie e piccole imprese che più
soffrono di tali handicap.
Un quinto fattore di ritardo competitivo: le
regolamentazioni oppressive. Il conato delle riforme
Bassanini.
Uno dei vanti dell’Ulivo è costituito dalle norme della
legge Bassanini, rivolte a realizzare misure di decentramento e
di semplificazione amministrativa. Fra queste vi è la creazione
del cosiddetto “sportello unico” per lo svolgimento delle
pratiche burocratiche: che non consiste nella unificazione dei
certificati richiesti dal punto di vista sostanziale del loro rilascio,
ma nel fatto che un funzionario si occupa, per conto
dell’impresa o del cittadino, di chiedere ai vari uffici competenti
tutti i singoli certificati. Si da luogo così a una sorta di “legge di
Parkinson” per cui si moltiplica la burocrazia, aggiungendo ai
diversi burocrati, un ulteriore burocrate con il compito di tenere
i rapporti fra di loro e la controparte privata. Non sembra, per
altro, che questa innovazione abbia molto successo. E’ probabile
che i cittadini preferiscano trattare con i vari uffici, avvalendosi
anziché del burocrate dello “sportello unico”, di agenzie private
che espletano, per loro, tutte le pratiche con i vari uffici.
Anche nel caso del decentramento amministrativo,
consistente nell’assegnazione di certi compiti agli enti locali, si
è seguita la “legge di Parkinson”: essendosi creata una nuova
competenza decentrata, si è creato un organo di coordinamento
fra l’ente decentrante e quello destinatario del decentramento.
Le autocertificazioni sono l’unica “semplificazione
amministrativa” di cui può far realmente vanto il ministro
Bassanini. Però non sono stati ridotti, ma anzi spesso accresciuti
(tanto vi è l’autocertificazione) i documenti che vanno prodotti
“a pena di nullità”. Così ad esempio, un certo numero di persone
viene a trovarsi danneggiato in competizioni concorsuali, perché
ingenuamente non autocertifica il proprio curriculo, supponendo
che basti allegarlo, firmato: mentre, dato il formalismo
dell’autocertificazione, occorre che, per ogni notizia del
curriculo, il dichiarante esplicitamente la autocertifichi e lo
faccia entro il termine ultimo fissato per la sua domanda a pena
di nullità. Il paradosso continua con il fatto che è ammessa
l’autocertificazione del richiedente, non quella dell’ufficio che
riceve la domanda, che potrebbe essere il titolare del rilascio del
certificato in questione. La “semplificazione” dei dirigisti
consiste, nella migliore delle ipotesi, nella sostituzione di un
formalismo snello a un altro, macchinoso. Ma il formalismo
rimane.
La legge (Bassanini) 15 marzo 1997 n. 59 di delega al
governo per il conferimento di funzioni e compiti alle regioni e
agli enti locali, per la riforma della pubblica amministrazione e
per la semplificazione amministrativa, ha dato luogo, nel marzo
2001 a 65 decreti legislativi delegati. La proliferazione di testi
di decreti delegati, aventi valore di legge, sgorganti da questa
legge di “semplificazione” non è ancora terminata.
Nelle politiche per il Mezzogiorno, per i patti territoriali e
i contratti di programma al termine del 2000 si registrava un
tasso di attuazione attorno al 12 per cento; i contratti d’area
avevano uno stato di attuazione del 26 per cento; Agenda 2000,
che comporta 21,6 miliardi di euro della Comunità europea e 30
del governo italiano, era ancora ai nastri di partenza, inceppata
dalle procedure burocratiche. Secondo l’Autorità di vigilanza
dei lavori pubblici, per la realizzazione di un’opera pubblica ci
vogliono 2.410 giorni di media (quasi sette anni), che salgono
per il Mezzogiorno a 2.730 giorni. Per le opere sopra i 10
miliardi salgono a 2.900 giorni, che si elevano a 3.200 giorni
(quasi nove anni). Di questo totale il 21 per cento riguarda la
realizzazione delle opere. Il 31 per cento si consuma nella loro
programmazione, mentre l’espletamento delle procedure
amministrative, secondo il governo di sinistra , oramai
semplificate, richiedeva il 47 per cento dei tempi. Si spiega così
il fatto che in Campania le discariche stessero rendendo la vita
“irrespirabile” in vari comuni a causa dell’accumularsi di rifiuti:
per i quali era stato predisposto da tempo un piano di
smaltimento con impianti di combustione che producono anche
elettricità, accompagnati da altri impianti per la selezione
automatica delle sostanze da non bruciare. Ma tutto ciò tardava
ad essere realizzato, per le complicazioni burocratiche. La
spazzatura aumentava, vicino alle case, come simbolo della
“Italia migliore”, con cui la sinistra terminava la legislatura
1996-2001, con una grande sconfitta elettorale .
Note 1. Così, ad esempio, si legge nel Financial Times del 12 marzo
2000. 2. Dati Svimez per il 1999, pubblicati in Svimez, (2000)
Rapporto 2000 sull’economia del Mezzogiorno, Bologna, il Mulino, p.44.
3 Anch’essa prima nell’aprile 2000, poi nel marzo 2001. 4. L'esame di questo andamento decrescente delle
rettifiche, mostra che si tratta di un lavoro di scavo su dati di base del passato, con riflessi sulla serie successiva.Le ultime rettifiche derivano da una migliore lettura dei dati a suo tempo dichiarati dalle imprese, nelle rilevazioni generali, con conseguenze sulla serie storica successiva, secondo quanto emerge dai comunicati stampa dell’Istat del 1 marzo e 8 marzo 2001. In Germania, nel quadriennio, le correzioni sono di 1,6 punti in meno. Nel complesso le correzioni francesi sono, per il quadriennio 0,1 punti in più, su un aumento del Pil dello 11,6 per cento, pari allo 0,08 per cento. La Spagna ha effettuato 1,3 punti di rettifiche in aumento nel quadriennio, ma esse costituiscono sui 15 punti di crescita del Pil lo 8,6 per cento. Il Regno Unito ha fatto rettifiche di un +1 per cento nel quadriennio, che rispetto ai 10,5 punti di crescita del Pil, costituiscono il 9,5 per cento. L'Italia ha effettuato 1,3 punti di rettifiche in aumento come la Spagna ma sulla crescita di 9 punti del Pil nel quadri
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ennio si tratta del 14,4, per cento. Sarebbe bene che l'Istat si decidesse a spiegare la natura delle sue continue correzioni dei dati del PIL del passato recente e meno recente per consentire di capire i fattori che rendono difficile la valutazione della realtà italiana, in particolare nel rapporto fra economia emersa e sommersa.
5. Con tale termine intendo, come nella contabilità economica delle imprese, il risultato di esercizio al netto della variazione di valore patrimoniale del debito pubblico. Ciò si ottiene togliendo dal saldo dell’esercizio (positivo o negativo), la variazione (di solito diminuzione) di valore dello stock del debito dovuta alla perdita di potere di acquisto della moneta, che si calcola moltiplicando tale stock per quella variazione (nel nostro caso la variazione dell’indice dei prezzi al consumo) e successivamente per il rapporto fra tale debito e il Pil onde sottrarre la perdita di valore capitale dal risultato dell’esercizio, rapportato al Pil.
7. Il dato Banca d’Italia è però 7,1 per cento presumibilmente perché al lordo delle
correzioni consentite dall’Unione Europea, sulla base del vecchio Sec, ancora in vigore. Per gli anni precedenti i dati Banca d’Italia coincidono con i dati Ocse salvo scarti di 0,1 per cento in più, per la serie fra il 1990 e il 1994.
8. Questo è quello ufficiale al netto delle entrate straordinarie per l’asta Umts che, portando il deficit sotto lo 0,5 per cento, consentono comunque al governo di rispettare gli impegni per il deficit del patto di stabilità, relativi al 2000. Probabilmente il vero deficit del 2000 è superiore allo 1,5 per cento.
9. Questo dato è una stima del centro studi Confindustria. 10. Un esempio delle deprecabili conseguenze di ciò è l’aumento dei rifiuti
contaminati nelle discariche, per carenza di impianti per bruciarli, dovuta alle difficoltà di installarli a causa delle complesse procedure urbanistiche e concorsuali e ai pregiudizi ecologici nei loro confronti in relazione alle loro emissioni di polluzioni. Si noti che questi impianti producono energia elettrica alternativa a quella originata dal petrolio.
11. Come è poi accaduto. Cfr. Istituto Monetario Europeo, Rapporto sulla Convergenza, Francoforte, marzo 1998.
12. Ciò in quanto nel nostro bilancio le somme di competenza che non si traducono in impegni effettivi di spesa, ai fini del calcolo del saldo, denominato “indebitamento netto”, quando si tratta di deficit, non fanno parte delle uscite ai sensi della legge generale di bilancio. E quindi le somme stanziate ma non impegnate né impegnabili in quell’anno, in quanto prive di autorizzazione del tesoro a effettuare l’impegno non danno luogo a una uscita effettiva.
13. Esse servirono anche alla Francia, che era al 4 per cento di deficit nel 1996 e si sapeva che sarebbe pervenuta al 3 per cento nel 1997, anche grazie ad alcuni espedienti contabili. Il cammino fu reso più agevole, da altri espedienti contabili consentiti, per la Germania, che nel 1996 aveva un deficit al 3,4, ma un rapporto debito/Pil superiore al 60 per cento da cui non era facile rientrare in un solo anno, dato il peso della Germania Est.
14. Ciò in quanto la nuova contabilità Sec 1995 era successiva al Trattato di Maastricht, che aveva stabilito quei parametri e quindi si riteneva che potesse
320
diventare vincolante solo per l’applicazione di regole successive al ’95, come quelle del Patto di Stabilità adottato con il Regolamento 1466 del 1997.
15. Vedi la Relazione del Governatore della Banca di Italia dell’Assemblea dei partecipanti per il 1997, del 30 maggio 1998, vol. I, pag. 159. Le correzioni in questione sono state stimate in 16 mila miliardi per il 1997 e in 14 mila per il 1996. Sul prodotto lordo di 1.950 mila miliardi del 1997, queste rettifiche sono lo 0,8 per cento.
16. Cfr. Relazione del Governatore della Banca di Italia all’Assemblea per il 1997 del 30 maggio 1998, vol. I, p. 159.
17. Cfr. Relazione del Governatore della Banca di Italia per il 1997, cit. sopra p. 166. 18. L’aumento dello 1 per cento di entrate fiscali, ordinarie si ebbe, presumibilmente,
grazie ai ritocchi Iva entrati in vigore nell’ottobre (0,07 per cento), alla eliminazione di detrazioni dell’Irpef e nell’Irpeg, alla riduzione degli esoneri contributivi nel Sud e all’aumento delle aliquote dei contributi sociali nel settore pubblico e grazie agli effetti della mancata correzione delle aliquote dell’Irpef che diventavano via via più gravose, a causa del mancato adeguamento al mutato potere di acquisto della lira.
19. Con riferimento al deficit del 7,4 per cento del 1996 (ridotto al 6,6 mediante l’adozione dei criteri di Maastricht).
20. Cfr. Il Sole 24 Ore del 10 marzo 2001, p.9 che si basa su elaborazioni della Corte dei Conti e degli Uffici della Commissione Bilancio del Senato.
21. Vedi nota seguente. Non sono considerate le entrate straordinarie Umst. 22. L’aggiornamento al 2000 è fatto con i dati ufficiosi pubblicati da Il Sole 24 Ore .
Non è considerata la rettifica dei Pil del marzo 2000, ma neppure peggioramento del deficit rispetto a quello previsto.
23. Questo dato lo traggo dalla Relazione della Banca di Italia per il 1998, presentata dal Governatore Fazio nel maggio del 1999, in cui si riproducono i dati Istat, per il 1998, ancora elaborati secondo il Sec 1987. Ho aggiunto lo 0,4 al dato del 1998 per avere quello del 1999, perché secondo la nuova serie, basata sul Sec 1995, la spesa sociale dal 1998 al 1999 aumenta dello 0,6 per cento.
24. Forse non si pecca di troppa malizia affermando che questa modifica di regole contabili è servita a tutti i paesi dell’Unione Europea per dare l’impressione ai cittadini di un minore costo del welfare, rispetto a quello che risultava con la precedente metodologia.
25. Cfr. “Il riassetto non trova pace” in Il Sole 24 Ore, 10 marzo 2001, p.9. 26. Viaggi, trasporti, comunicazioni, costruzioni e servizi finanziari. 27. Cfr. S. Cassese, “Un centrosinistra senza più senso critico”, Il Sole 24 Ore, 24
marzo 2001. Il quotidiano, evidentemente timoroso delle reazioni governative, che questo caustico e documentato articolo di uno studioso della fama del Cassese gli poteva provocare, lo ha pubblicato come “lettera”.
28. Nel 1993 la disoccupazione subì una crescita in corrispondenza alla flessione del Pil, sceso di quasi un punto. Nel 1994 vi fu una ripresa con crescita del Pil del 2 per cento, che servì a riassorbire gran parte della cassa integrazione. Nel 1995 la crescita balzò al 2,9 per cento sotto lo stimolo della legge Tremonti, ma ciò non
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bastò a generare una sostanziale diminuzione della disoccupazione. Durante la breve parentesi del governo Berlusconi, l’opposizione inferocita dall’imprevista sconfitta, aveva creato aspre tensioni sindacali. L’instabilità politica derivata dalle successive vicende e la rigidità della linea dei sindacati, influirono negativamente sull’occupazione ufficiale, che l’Ulivo ha trovato nel 1996.
29. Con l’importante conseguenza che non vi è un accesso privato alla conoscenza dei flussi finanziari internazionali pregressi, ad esempio relativi ai rapporti dell’Eni con la Russia nelle forniture di idrocarburi.
30. In relazione al beneficio che il risanamento finanziario dava rispetto a eventuali responsabilità per gestioni pregresse.
31. Sui redditi di lavoro dipendente. Per gli altri redditi, si applicava la tassa per la salute, con una aliquota minore, gravante però su ogni tipo di reddito, tassabile in Irpef.
32. Il termine Dit significa Dual Income Tax, sta per Imposta sul reddito duale che suonerebbe Ird. Si è preferito l’acronimo in lingua inglese, tratto dal gergo fiscale degli Stati Uniti. Viene in mente la canzone di Carosone “Tu vuoi far l’americano”. Ma non è questione di nomi, come si vedrà.
33. In effetti la Confindustria calcola al 54 per cento l’onere fiscale medio sulle società nel 2000.
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