Studi e ricerche
La guerra fredda nella recente storiografia americanaDefinizioni e interpretazioni
Federico Rom ero
Il saggio illustra e discute le più recenti acquisizioni della storiografia diplomatica statunitense sulla guerra fredda. La conclusione del conflitto bipolare ha aperto una nuova stagione di reinterpretazione storiografica che vede riemergere ipotesi consolidate e financo tradizionali ma, al tempo stesso, ne rimescola molti degli approcci e dei caratteri distintivi. Se paiono lontanissime le battaglie tra ortodossi e revisionisti, molti dei loro argomenti tuttavia ritornano a definire il variegato dibattito della storiografia postrevisionista. Ed è difficile ipotizzare che la discussione attuale si stia avviando verso una sintesi interpretativa consensuale. Sembra invece più probabile una ulteriore diversificazione, probabilmente favorita dalla moltiplicazione dei terreni d’indagine (dall’Europa all’Asia ed altri teatri; dal periodo originario della guerra fredda ai decenni successivi della sua ancor inesplorata evoluzione ecc.) e da una maggior flessibilità nell’in- trecciare temi e filoni che una volta definitvano rigidamente degli approcci politico-ideali contrapposti. Anche la palese preminenza del paradigma geopolitico, che negli ultimi anni ha dominato buona parte della letteratura, è temperata da una ricca, pluralistica attenzione ad altre metodologie e schemi concettuali. A titolo di esempio, il saggio discute estensivamente l’opera di Melvyn Leffler, che per molti aspetti racchiude alcune delle principali acquisizioni della storiografia degli ultimi quindici anni, e che quindi serve a evidenziare tanto le linee guida del dibattito attuale quanto alcuni dei suoi possibili sviluppi futuri.
In examining the most recent achievements of the American diplomatic historiography on the Cold War, this essay points out how the end of the bipolar conflict has opened a season of reconsideration that mingles consolidated and even traditional assumptions with new approaches and different appraisals. While the long-running controversy between orthodoxes and revisionists looks largely outdated, quite a few arguments of theirs turn up to redefine the manifold debate of post-revisionist historiography. The present disputes are hardly bound to result in something of a shared interpretation. Rather, a futher diversification is to be expected, as a consequence of both the multiplication of research fields (from Europe to Asia and other strategic theaters; from the origins of the Cold War to the subsequent decades of its so far uninvestigated evolution, etc.) and an increased flexibility in interlocking themes and trends once strictly connected with contrasting ideological outlooks. Even the clear predominance of the geo-political paradigm characterizing most historical literature in recent years is now being tempered with a rich, pluralistic attention to other methodologies and insights. As an example, the A. discusses extensively the work of Melvyn Leffler, which in many a sense embodies some of the most important achievements of today’s historiography and, therefore, helps highlight both the guidelines of the current debate and several predictable developments of tomorrow.
Italia contemporanea”, settembre 1995, n. 200
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Il dibattito odierno
La guerra fredda è finita. Dopo il folgorante biennio 1989-1991, racchiuso tra la caduta del muro di Berlino e il crollo dell’Urss, nessuno contesta questa affermazione. Tuttavia essa è forse l’unica — tra le molte, infinite concezioni e valutazioni relative ai molteplici aspetti della guerra fredda — a registrare unanimità di giudizio. E si tratta comunque di un’unanimità imperfetta, perché non manca, tra gli storici, chi ritiene il termine “guerra fredda” appropriato solo per definire un periodo iniziale, ed assai più breve, dell’antagonismo bipolare. Da vent’anni a questa parte, la storiografia americana non ha più generato una contrapposizione virulenta e adamantina come quella a cui diedero vita le interpretazioni — moralmente inconciliabili, ideologicamente agguerrite e storiograficamente incommensurabili — dei “tradizionalisti” e dei “revisionisti” di una generazione fa1. Ma non per questo si può dire che esista una concordia di fondo. Il dibattito è certo meno aspro e polarizzato. Gli schieramenti esclusivi ed impermeabili di un tempo sono stati rimpiazzati, nell’informe galassia dell’odierno “postrevisionismo”, da alcuni terreni di convergenza, da frequenti incroci o sovrapposizioni di approccio e metodologie, e comunque da un dialogo in cui i vari filoni si distinguono e caratterizzano più per i loro diversi campi e metodi di indagine storiografica che non per la bellicosa contrapposizione
di visioni unilaterali sulle “colpe” della guerra fredda1 2.
E tuttavia le definizioni e le interpretazioni del fenomeno restano molteplici. Lo stesso fondamentale dibattito sulle origini del conflitto bipolare, ed in particolare sulle motivazioni dell’attivismo e del globalismo postbellico degli Stati uniti, resta segnato da diversità profonde di accenti e interpretazioni. E vero, come vedremo, che negli anni ottanta tra gli addetti ai lavori ha progressivamente preso corpo una certa concentrazione sui temi e gli indirizzi interpretativi, di impianto neorealista, che si imperniano sulla centralità degli imperativi della national security. Ma i ripetuti appelli a trasformare questa relativa preminenza di un tipo di approccio interpretativo (peraltro abbondantemente eterogeneo al suo interno) nella vera e propria codificazione di una nuova “sintesi” interpretativa dominante hanno suscitato più che altro diversificazioni, distinguo e dissensi.3 Siamo cioè lontani dall’emergere di una ortodossia riconosciuta e imperante, e questo settore di studi sembra continuare a caratterizzarsi per una fluida pluralità.
È tuttavia ragionevole prevedere che nei prossimi anni si assisterà ad un tentativo — o, più probabilmente, a diversi tentativi paralleli e separati — di rielaborazione concettuale dell’intero periodo e dell’intera tematica della guerra fredda. Per quanto lenta e non sistemaica, l’apertura degli archivi del- l’ex-Urss, infatti, sta procurando dati e ri-
1 Una buona ricognizione di quelle interpretazioni è ancora quella a cura di Elena Aga Rossi, Gli Stati uniti e le origini della guerra fredda (Bologna, Il Mulino, 1985). Per una discussione più aggiornata cfr. Anders Stephanson, The United States, in David Reynolds (a cura di) The Origins o f the Cold War in Europe, New Haven, Yale University Press, 1994, pp. 23-52.2 In proposito, una analisi utilmente informativa, anche se ottimisticamente ecumenica sulla “meravigliosa diversità” e complementarietà dei vari filoni di studi, è quella di Michael Hunt, The Long Crisis in U.S. Diplomatic History: Coming to Closure, “Diplomatic History”, 16, 1, 1992, pp. 115-140.3 Cfr. John L. Gaddis, The Emerging Post-Revisionist Synthesis o f the Origins o f the Cold War, “Diplomatic History”, 7, 3, 1983, pp. 171-204 e, più recentemente, Howard Jones, Randall B. Woods, Origins o f the Cold War in Europe and the Near East: Recent Historiography and the National Security Imperative, “Diplomatic History”, 17, 2, 1993, pp. 251-276, con i relativi commenti di Emily Rosenberg, Anders Stephanson e Barton Bernstein, pp. 277-310. Inoltre cfr. Michael Hogan e Thomas Paterson (a cura di), Explaining the History o f American Foreign Relations, Cambridge, Cambridge University Press, 1991.
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scontri nuovi su cui sicuramente la storiografia americana si soffermerà per veder di volta in volta confermate, falsificate o parzialmente modificate le sue interpretazioni fino ad ora fondate su materiali relativi ai paesi occidentali e, in particolare, agli Stati uniti stessi.
In secondo luogo, la disciplina ha recentemente conosciuto un parziale ma incoraggiante processo di internazionalizzazione, con lo sviluppo di ricerche basate sul confronto tra archivi americani e stranieri, il dialogo con alcune storiografie straniere (britannica e tedesca in particolare, ma non solo), e la crescente integrazione con analisi socioculturali oltre che storiche relative ad altre aree del mondo. Ciò ha introdotto una pluralità di angolazioni ed un ampliamento sistemico dell’analisi che, in una storiografia tradizionalmente criticata per la sua “provinciale” autolimitazione agli aspetti nazionali della politica estera americana4 5, non potrà che portare a modificazioni significative e forse anche profonde.
Infine, è assai probabile che anche per la guerra fredda la storiografia americana passi per quelle fasi di riconsiderazione e revisione che, in passato, ne hanno caratterizzato il rapporto con i grandi conflitti in cui era stato impegnato il proprio paese. Ogni generazione di storici ha sostanzialmente riscritto la storia sia della prima che della seconda guerra mondiale (ma anche del Vietnam e di altre importanti congiunture passate) in stretta relazione con l’evoluzione politica e culturale del dibattito retrospettivo pubblico del paese3. Proprio alla luce della complessa e controversa ridefinizione del proprio ruolo internazionale in cui l’America è oggi impegnata, c’è da aspettarsi che la storiografia sta
tunitense ripercorra nuovamente nei prossimi anni una analoga riscrittura del recente passato, probabilmente stimolata anche dagli incentivi alla rilettura di lungo periodo che vanno sorgendo con ravvicinarsi della fine del secolo.
Sia lo stato della disciplina che il suo forte legame con la contemporaneità inducono quindi a prevedere che stia per aprirsi una nuova stagione di rinnovamento interpretativo, metodologico e, probabilmente, epistemologico. Sarebbe futile lanciarsi in previsioni, soprattutto perché molti dei fattori di mutamento appena accennati hanno una intrinseca imprevedibità. Ma d’altro canto è probabile che le innovazioni che verrano rappresentino un’evoluzione di tendenze presenti, si concentrino su alcuni dei maggiori nodi che già oggi appaiono problematicamente irrisolti e — anche nel caso per ora imperscrutabile di maggiori rotture interpretative — si confrontino comunque prioritariamente con le acquisizioni consolidatesi negli ultimi anni.
Che cosa è una “guerra fredda”?
Se fino a tutti gli anni settanta il lavoro storiografico aveva orbitato quasi totalmente, e talora ossessivamente, intorno alle questioni delle origini e delle responsabilità della guerra fredda, nell’ultimo decennio la gamma degli interrogativi a cui si è cercato di rispondere si è decisamente ampliata. Il problema delle origini e, al suo interno, del ruolo e dell’influenza delle scelte americane, resta un nodo interpretativo precipuo, su cui molti autori a tutt’oggi finalizzano le loro indagini. Ma è una discussione sempre più diversifica-
4 La questione è stata ricorrentemente dibattuta sulla rivista “Diplomatie History” . Si vedano in particolare i seguenti interventi: Sally Marks, The World According to Washington, 11, 3, 1987, pp. 265-282; Geir Lundestad, Moralism, Pre- sentism, Exceptionalism, Provincialism and Other Extravagancies in American Writings on the Early Cold War Era, 13, 4, 1989, pp. 527-545; Michael H. Hunt, Internationalizing U.S. Diplomatic History: a Practical Agenda, 15, 1, 1991, pp. 1- 11.
5 Si veda in proposito l’illuminante lavoro di Jerald A. Combs, American Diplomatic History. Two Centuries o f Changing Interpretations, Berkeley, University o f California Press, 1983.
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ta e attivamente inserita in un contesto concettuale più vasto.
In particolare, inizia a emergere anche tra gli storici il tentativo — Finora praticato soprattutto dagli studiosi di relazioni internazionali — di arrivare a una definizione della natura della guerra fredda, dei suoi caratteri distintivi e quindi anche delle sue principali mutazioni e scansioni cronologiche nell’arco di quattro decenni. La cosa può sembrare banale, eppure fino all’altro ieri la storiografia aveva sostanzialmente evitato di misurarsi con i dilemmi definitorii di una vicenda storica la cui complessa ambivalenza è ben esemplificata dall’ossimoro che tutti spensieratamente usiamo per denominarlo.
Si è trattato della contrapposizione tra due modelli di organizzazione politico-sociale, dell’antagonismo tra sistemi ideologici inconciliabili o della rivalità geostrategica tra due potenze globali? E stata un’epoca di conflittualità a malapena controllata (e largamente esportata nella “periferia” del mondo) o di stabilità internazionale in un ordine bipolare (e nucleare)? In che misura queste diverse dimensioni hanno interagito, si sono mescolate e sovrapposte (e in quali momenti, in quali aree, con che influenza e peso specifico)? A questo tipo di domande gli storici, americani e non, hanno generalmente preferito rispondere con i linguaggi più propriamente storiografici della periodizzazione, della tematizza- zione e, ovviamente, della specificazione degli impulsi, delle cause e delle motivazioni.
La periodizzazione, almeno fino ad oggi, è stata scarsamente controversa. Sono rimaste sostanzialmente inascoltate le suggestioni di chi proponeva di estendere onnicomprensi
vamente il concetto di guerra fredda all’intera contrapposizione tra comunismo e capitalismo, tra rivoluzione sovietica e potenze occidentali, e quindi di datare il sorgere della guerra fredda al 1917.6 È una datazione che ha il pregio di sottolineare la percezione ostile della rivoluzione bolscevica, in America non meno che in Europa, quale elemento di rottura del sistema internazionale; e di evidenziare l’eredità di quella radicata rivalità ideologica che costituirà poi un ottimo terreno di coltura, nel secondo dopoguerra, per l’antisovietismo statunitense7. Ma ha l’evidente, gigantesco difetto di minimizzare il crollo del sistema internazionale negli anni trenta, il conflitto tra fascismi e democrazie, le trasformazioni geopolitiche risultanti dalla seconda guerra mondiale e, più specificamente, la divisione postbellica dell’Europa, il sorgere dei blocchi e la loro rivalità armata dei decenni successivi.
Anche per gli storici di impianto revisionista che, come Walter LaFeber, hanno evidenziato le motivazioni antirivoluzionarie della politica estera americana8, la guerra fredda propriamente intesa riguarda solo i decenni postbellici. Quasi tutta la storiografia accoglie quindi la più assodata periodizzazione 1947- 1989 (o, a seconda delle varianti, 1945-1991). In particolare le interpretazioni di carattere geopolitico, ora prevalenti nella storiografia postrevisionista, possono essere riassunte dalla recente formulazione di Melvyn Leffler: per l’America “l’ostilità ideologica si tradusse in una sensazione di pericolo mortale solo quando le armate sovietiche contribuirono a sconfiggere la Germania nazista e occuparono gran parte dell’Europa orientale. La guerra
6 Deanna Fleming, The Cold War and Its Origins 1917-1960, London, Allen & Unwin, 1961.Sul primo punto si veda il recente studio di David W. McFadden, Alternale Paths: Soviet-American Relations, 1917-
1920, New York, Oxford University Press, 1993; inoltre Gordon N. Levin, Woodrow Wilson and World Politics: America’s Response to War and Revolution, New York, Oxford University Press, 1968, e Arthur S. Link, Woodrow Wilson: Revolution, War and Peace, Arlington Heights, Harlan Davidson, 1979. Sul secondo argomento M.J. Heale, American Anticommunism: Combating the Enemy Within, ¡830-1970, Baltimore, The Johns Hopkins University Press, 1990.8 Cfr. Walter LaFeber, America, Russia and the Cold War, 1945-1990, New York, McGraw Hill, 1991 (ed. or. 1967).
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fredda prese forma quando la sensazione di una rivalità ideologica si fuse con la paura della potenza sovietica”9.
E semmai di maggiore interesse il tentativo, recente ma sicuramente suscettibile di sviluppi ulteriori, di ridefinire il lungo periodo della guerra fredda in base alle sue diverse fasi. Anders Stephanson ritiene che il concetto di guerra fredda sia applicabile con precisione solo al periodo 1947-1962, così da sottolineare un sistema di relazioni improntate a un ostilità di tipo bellico, che nega legittimità al regime avversario e riduce la diplomazia a strumento di guerra psicologica. I fattori conflittuali tipici di ogni sistema interstatale avrebbero in quel periodo assunto la “natura antagonistica” tradizionalmente propria del tempo di guerra. Invece, dopo la crisi di Cuba — con il tacito riconoscimento della reciproca legittimità e delle relative sfere di influenza, il depotenziamento della inconciliabilità ideologica, il primo trattato sugli esperimenti nucleari e l’implicito accordo per il non uso delle armi atomiche — le relazioni tra le superpotenze sarebbero mutate in modi tali da esigere un’altra concettualizzazione. Non è neppure necessario condividere pienamente la caratterizzazione che Stephanson suggerisce per il periodo successivo (“detto brutalmente, un sistema di reciproca convenienza per il controllo egemonico sulle due metà dell’Europa, con la sfera della competizione ridotta alla corsa agli armamenti ed alle manovre nel Terzo mondo”) per accogliere l’utilità di un simile sforzo di precisazione, quanto meno come stimolo a una riflessione sui fattori costitutivi della guerra fredda10 11.
Un mondo diviso tra “two differing ways of life”?
La formula usata dal presidente Truman11, nel marzo 1947, per illustrare il contesto storico in cui doveva applicarsi la sua dottrina di responsabilizzazione internazionale degli Usa in senso antisovietico e anticomunista, riassume l’interpretazione più diffusa della guerra fredda come conflitto insopprimibile tra sistemi economici, politici e sociali non solo diversi ma sostanzialmente incompatibili. E l’interpretazione che tutti i governi, i regimi e gli attori della guerra fredda — dalla Gran Bretagna laburista all’Urss staliniana, dai partiti comunisti a quelli democristiani — usarono pubblicamente per giustificare la propria mobilitazione ed organizzare il necessario consenso. Nel contesto statunitense questa sorta di vulgata dominante sul carattere e le origini dell’antagonismo bipolare trovava radici particolarmente robuste nella tradizionale cultura della missione democratica del paese, nell’universalismo della sua dottrina socioeconomica e, in particolare, nel lascito dell’idealismo wilsoniano. Fino alla metà degli anni sessanta, inoltre, essa fu continua- mente rinfocolata anche dalla dialettica del confronto politico e culturale interno12.
E ovvio che, per la gran parte, questa accentuazione idealizzata dell’antagonismo tra due “modi di vita” era una giustificazione più che una spiegazione del fenomeno. Era la razionalizzazione avanzata da ciascuno dei due campi, ed in particolare dalle opinioni più ortodosse al loro interno, che denunciavano instancabilmente l’intrinseca, aggressiva pericolosità delfavversario (rappre-
9 Melvyn P. Leffler, The Specter o f Communism: the United States and the Origins o f the Cold War, 1917-1953, New York, Hill & Wang, 1994, p. VII.10 A. Stephanson, The United States, cit., pp. 24-25.11 Harry S. Truman, Public Papers o f the President: Harry. S. Truman, Washington DC, Usgpo, 1961-1966, voi. V ili, p. 178.12 Cfr. Robert Dallek, The American Style o f Foreign Policy: Cultural Politics and Foreign Affairs, New York, Knopf, 1983; Michael Hunt, Ideology and U.S. Foreign Policy, New Haven, Yale University Press, 1987, e la più recente discussione in Tony Smith, America’s Mission, Princeton, Princeton University Press, 1994.
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sentata come minaccia sovietica di imporre il comuniSmo in Europa e in Asia o, viceversa, come propensione imperiale del capitalismo americano ad una egemonia mondiale). E anche evidente che queste elaborate demonologie, così fortemente speculari, alimentavano Finfluenza degli intransigenti, dei cold warriors di entrambi i blocchi, e perpetuavano la psicologia deH’alterità, della paura e quindi della mobilitazione collettiva a tempo indeterminato. Una volta trascorsa la fase costituente e più calda della guerra fredda, quella del primo decennio postbellico, esse erano ormai divenute il codice linguistico e concettuale dei rispettivi sistemi politici, si erano indurite in immagini standardizzate che plasmavano in mille modi la coscienza collettiva di un conflitto percepito e vissuto sempre meno come una guerra (con degli scopi definibili, una gamma di ipotizzabili conclusioni e quindi una durata, ancorché non esattamente prevedibile) e sempre più come una condizione permanente e apparentemente immodificabile13.
Al di là della loro strumentalità, ad ogni modo, sotto il profilo storiografico queste visioni della guerra fredda quale portato dell’antagonismo ideologico e sistemico sono a dir poco insufficienti. E non solo per il cruciale problema della periodizzazione, e quindi delle origini dell’antagonismo. Esse spiegano la profondità del conflitto, la radicalità ideologica e la sua penetrante pervasi- vità in ogni fibra delle società coinvolte. Chiariscono anche, in parte, i motivi della sua durata. E forniscono il contesto indi
spensabile per affrontare la questione cruciale delle percezioni reciproche, ovvero di quelle letture dell’avversario e delle sue intenzioni che tanta parte hanno avuto nel definire e precipitare i caratteri del bipolarismo armato. Ma non sono ovviamente in grado di illuminare, e men che meno spiegare, gli aspetti strategici e geopolitici dell’antagonismo, quelli più tradizionalmente pertinenti alla sfera della sicurezza delle nazioni, dell’equilibrio di potenza, delle relazioni diplomatiche. Perché le alleanze militari, la corsa al riarmo inframmezzata da tentativi di distensione, le crisi per Berlino e Cuba ma non per l’Iran, l’Ungheria, o l’Afghanistan? E in quelle aree, come il Medio Oriente, dove il problema non era palesemente il confronto tra comuniSmo e capitalismo, l’antagonismo bipolare cos’era?
Nella storiografia americana, anche il periodo dominato dalla ortodossia più apertamente apologetica delle motivazioni e dei valori della politica statunitense vide la compresenza di interpretazioni fondate sulla minaccia del totalitarismo staliniano insieme ad altre imperniate su considerazioni di carattere geopolitico. Nel secondo dopoguerra gli Usa avevano intrapreso il contenimento non solo, e non tanto, del comuniSmo quanto della potenza dello stato sovietico insediatasi nel centro dell’Europa. L’antagonismo ideologico rendeva più acuto e intrattabile quello che era, in tutto o in parte, un conflitto interstatale per l’equilibrio di potenza14. Ed è proprio questa accentuazione realista delle problematiche del balance of power, e quindi della que-
13 Su queste dinamiche si trovano delle interessanti analisi, per la parte americana, in H.W. Brands, The Devii We Knew: Americans and the Cold War, New York, Oxford University Press, 1993; Tom Engelhardt, The End o f Victory Culture. Cold War America and the Disillusioning o f a Generation, New York, Basic Books, 1995; Matthew S. Hirshberg, Perpetuating Patriotic Perceptions. The Cognitive Function o f the Cold War, Westport, Praeger, 1993; Stephen J. Whitfield, The Culture o f the Cold War, Baltimore, The Johns Hopkins University Press, 1991. Inoltre si vedano gli interventi di Alexei Filitov, Ronald Steel e Ernest R. May nel volume di discussione curato da Michael Hogan, The End o f the Cold War: Its Meaning and Implications, Cambridge, Cambridge University Press, 1992.14 Per il primo tipo di concezioni cfr. Herbert Feis, From Trust to Terror: The Onset o f the Cold War, London, Blond, 1971, e Arthur M. Schlesinger Jr., Origins o f the Cold War, “Foreign Affairs”, 46, October 1967. Per il secondo è emblematica l’opera di Louis J. Halle, The Cold War as History, New York, Harper & Row, 1967.
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stione delle sfere di influenza e, soprattutto, dell’interesse primario alla definizione e alla difesa della sicurezza nazionale, che ora ritroviamo come caratterizzante di buona parte della storiografia postrevisionista.
La critica revisionista, infatti, aveva fatto piazza pulita della presunzione americana di innocenza e disinteresse nell’avvio della guerra fredda. A partire dal cruciale lavoro di William A. Williams essa aveva evidenziato la continuità storica di una cultura dell’espansione economica come risposta ai dilemmi sociopolitici interni dell’America, ed aveva focalizzato la polemica interpretativa intorno alle origini della guerra fredda non più sul ruolo dell’Urss ma su quello degli Stati uniti. Questi, con risorse economiche e strategiche nettamente superiori, dal 1944- 1945 in poi avevano intrapreso la costruzione di un ordine mondiale capitalistico aperto — con una propria marcata centralità di impronta potenzialmente imperiale soprattutto sul terreno commerciale e finanziario — che non poteva che scontrarsi con la difesa sovietica della propria sfera di influenza15. Ma la storiografia revisionista aveva sostanzialmente tralasciato la dimensione geostrategica delle problematiche postbelliche, e della stessa politica statunitense, e largamente ignorato le questioni relative alla sicurezza nazionale, americana come europea: questa si è presto rivelata la sua maggiore vulnerabilità. Nelle sue versioni più radicali il revisionismo aveva analizzato la transizione dalla seconda guerra mondiale al dopoguerra solo alla luce del processo di espansione di un ca-
•pitalismo americano aggressivo e controrivoluzionario: in quel contesto, l’emergente rivalità con l’Urss e le tematiche della sicurezza in
Europa non trovavano quasi posto, né spiegazione16.
L’eterogenea amalgama degli storici postrevisionisti non ha forti caratteristiche unificanti se non quella di tentare di valutare criticamente le ipotesi interpretative sia tradi- zionaliste che revisioniste sulla base di un minor impegno politico-ideologico e di un maggiore empirismo fondato sulla consistente moltiplicazione del materiale archivistico disponibile. Non a caso i postrevisionisti si sono inizialmente tenuti lontani dalla discussione sulle “colpe” della guerra fredda. E per molti aspetti essi hanno fatto proprie alcune fondamentali acquisizioni del revisionismo: che gli Usa fossero ben consapevoli delle loro risorse di potenza e che le usassero, anche in modi indigesti per l’Urss, fin dalla fase finale della guerra; che sul terreno della riorganizzazione dell’economia internazionale, in particolare, gli Usa esercitassero una leadership che emanava da una chiara percezione dei propri interessi nazionali; e che le dinamiche economiche, politiche e culturali della società americana muovessero in direzioni che rendevano difficile, se non impossibile, un accomodamento con gli interessi difensivi primari dell’Urss staliniana. Non a caso nel linguaggio del postrevisionismo sono divenuti pienamente legittimi e ampiamente usati termini come “egemonia americana”, e in taluni casi financo “impero americano”, che in epoca prerevisionista erano semplicemente inconcepibili. La discussione semmai si incentra sulla valutazione, talora comparativa, delle caratteristiche peculiari, dei punti di forza e dei limiti dell’egemonia o, più raramente, del carattere imperiale della presenza postbellica degli Usa nell’arena internazionale17.
15 Oltre a William A. Williams, The Tragedy o f American Diplomacy (Cleveland, World Publishers, 1959), il libro più influente ed emblematico fu probabilmente quello di Lloyd C. Gardner, Architects o f Illusions: Men and Ideas in American Foreign Policy, ¡941-1949, Chicago, Quadrangle Books, 1970.16 Cfr. Gabriel e Joyce Kolko, I limiti della potenza americana, Torino, Einaudi, 1975 (ed. orig. 1972).17 A questo proposito è di particolare importanza e interesse il lavoro di Geir Lundestad, The American “Empire" and Other Studies o f US Foreign Policy in a Comparative Perspective, New York, Oxford University Press, 1990.
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Nei confronti del revisionismo c’è però un marcato distanziamento — più o meno netto o polemico a seconda dei singoli casi, ma comunque sempre abbastanza evidente — sulla centralità di un paradigma di espansionismo economico. Nessuno, tra i postrevisionisti, nega che le élite economiche e politiche statunitensi fossero mosse anche dal proprio interesse a un sistema di mercati aperti e interconnessi. Ma si rigetta l’idea che ciò possa costituire un fattore esplicativo primario per il sorgere della guerra fredda: gli Usa erano meno dipendenti di chiunque altro dal commercio estero; il timore di una depressione interna svanì già nei primi mesi della ri- conversione postbellica; i progetti per un ordine liberista multilaterale non contenevano, di per sé, una valenza inequivocabilmente e universalmente aggressiva; la richiesta di capitali e merci americane accomunava governi europei dalla più diversa conformazione politica; le mosse di Stalin per il controllo unilaterale dell’Europa dell’est precedono il sorgere di una aggressiva diplomazia economica americana. Più di tutto, i postrevisionisti vedono invertito il rapporto di causa-effetto tra considerazioni economiche e motivazioni di carattere strategico: con il Lend Lease, e poi soprattutto con il Piano Marshall, gli Usa usarono leve economiche per raggiungere obiettivi strategici, finalizzando le proprie risorse produttive e finanziarie all’attuazione della politica del contenimento18.
E quindi anche dalla ricorrente, cruciale e inconclusa discussione sulle origini dell’antagonismo bipolare — oltre che dalla analisi della sua evoluzione, delle sue svolte e delle sue tappe — che emerge un diverso approccio alle problematiche della guerra fredda: quel-
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L’ormai lunga stagione del postrevisionismo ha visto un grande ritorno del filone realista della cultura diplomatica e storiografica americana19, in particolare negli studi che riguardano il periodo postbellico, con una preminente focalizzazione sui concetti di equilibrio di potenza e di sicurezza nazionale. L’antagonismo della guerra fredda viene prevalentemente interpretato come la risposta di due potenze intrinsecamente concorrenziali al lascito della seconda guerra mondiale: il vuoto di potere al centro dell’Europa in condizioni di sostanziale (relativa) bipolarità strategica. Stimolate dagli studi di relazioni internazionali e dalla forte accentuazione con cui le fonti documentarie indicano come le preoccupazioni geopolitiche avessero dominato la visione dei policy-makers di Washington (per non parlare di quelli di Londra o Parigi), molte analisi tornano a sottolineare l’incompatibilità delle posizioni sovietiche con quelle americane. E lo fanno spesso in un modo che, sia pure in chiave neorealista, riprende l’enfasi degli studi tradizionalisti.
Alla guerra fredda si è giunti non perché il comuniSmo fosse ideologicamente aggressivo, o perché il regime sovietico fosse, in quanto totalitario, intrinsecamente espansivo, ma perché la politica staliniana di sicurezza era fondamentalmente unilaterale, incapace di compromesso, imperiosa e fomentatrice di insicurezza tra tutti i suoi possibili interlocutori. Il contenimento viene visto non più
18 Questo tipo di argomentazione antirevisionista, che attraversa implicitamente buona parte della letteratura postrevisionista, è sostenuta nella sua forma più netta e decisa da Robert A. Pollard, Economie Security and the Origins o f the Cold War, 1945-1950, New York, Columbia University Press, 1985.19 I riferimenti fondamentali sono George F. Kennan, American Diplomacy 1900-1950, Chicago, University of Chicago Press, 1951 e Hans J. Morgenthau, In Defense o f the National Interest, New York, Knopf, 1951. Nella storiografia, cfr. Robert Osgood, Ideals and Self-Interest in America’s Foreign Relations, Chicago, University of Chicago Press, 1953.
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come una disinteressata difesa della democrazia e della civilizzazione occidentale — l’attuazione di un’egemonia americana e fi- nanco di una sfera di influenza in Europa occidentale è apertamente riconosciuta — ma comunque sempre come risposta ad una intrinseca “minaccia” sovietica. Per ciò che concerne il rapporto con l’Urss la politica americana viene interpretata come fondamentalmente reattiva, e mirata a realizzaree difendere un equilibrio di potenza nel con-
• 20 finente europeo .Il postrevisionismo, tuttavia, non si esau
risce in questa più sofisticata riproposizione neorealista di un indirizzo interpretativo in fondo tradizionale. In primo luogo perché in esso confluiscono indirizzi di ricerca assai diversificati, che contribuiscono a una lettura più sfaccettata e complessa del fenomeno della guerra fredda. C’è innanzitutto un nuovo crescente patrimonio di studi che, intrecciandosi con quelli sulla ricostruzione dell’Europa postbellica, ha modificato e raffinato la conoscenza storica dei rapporti tra potenza egemone americana e suoi alleati, estendendola dal campo diplomatico a quello della società, della cultura, dell’economia e delle vicende politiche interne. Ne emerge un quadro più variegato degli interessi in gioco e delle molteplici tensioni che contribuiscono a dar forma alla realtà della guer
ra fredda, facendo risaltare il ruolo dei governi e delle élite europee nel sollecitare l’impegno strategico americano e nel guidare la ricostruzione negli schemi di cooperazione euroamericana. Sotto il profilo interpretativo ne consegue una enfasi nuova — simboleggiata dai concetti di “egemonia consensuale” (Charles S. Maier) o di “impero su invito” (Geir Lundestad) — sugli aspetti di negoziazione e integrazione flessibile di interessi diversi che furono alla radice della politica americana e della sua capacità egemonica20 21.
A questo hanno dato un particolare contributo gli studiosi che si richiamano alla matrice “corporatista”, i quali, analizzando la proiezione intemazionale dei meccanismi istituzionali, economici e di negoziazione sociale sperimentati in America, hanno grandemente migliorato la nostra comprensione delle radici socioculturali dell’egemonia statunitense. Essi hanno così proficuamente esplorato un terreno d’indagine suggerito dalle concezioni revisioniste, aggiungendovi però una profondità cmciale: lo sguardo si è infatti allargato dalla cultura delle élite alle dinamiche del consenso e della contrattazione sociale, e quindi dei principali gruppi d’interesse, svelando una convergenza ampia della società americana su alcuni dei paradigmi, non solo ideologici, dell’azione internazionale statunitense22.
20 I lavori fondamentali in questo senso sono quelli di John L. Gaddis, The United States and the Origins o f the Cold War, 1941-1947, New York, Columbia University Press, 1972, e Strategies o f Containment: A Critical Appraisal o f Postwar American National Security Policy, New York, Oxford University Press, 1982. Inoltre si veda Vojtech Mastny, Russia’s Road to Cold War: Diplomacy, Warfare and the Politics o f Communism 1941-1945, New York, Columbia University Press, 1979.21 Vi è ormai un vastissimo numero di ricerche in questo campo. Un buon punto di partenza è David Reynolds, (a cura di), The Origins o f the Cold War in Europe, New Haven, Yale University Press, 1994. Inoltre cfr. Terry H. Anderson, The United States, Great Britain, and the Cold War, 1944-1947, Columbia, University of Missouri Press, 1981; Frank Costigliola, France and the United States: The Cold Alliance since World War 11, New York, Twayne, 1992; Jeffrey M. Diefendorf, American Policy and the Reconstruction o f Germany, New York, Cambridge University Press, 1992; Howard Jones, “A New Kind o f W ar”: America’s Global Strategy and the Truman Doctrine in Greece, New York, Oxford University Press, 1989; Bennett Kovrig, O f Walls and Bridges: the US and Eastern Europe, New York, New York University Press, 1991; Richard Kuisel, Seducing the French: The Dilemma o f Americanization, Berkeley: University o f California Press, 1992; Charles S. Maier (a cura di), The Marshall Plan and Germany, New York Oxford: Berg, 1991; Timothy E. Smith, The United States, Italy and Nato, 1947-52, New York, St. Martin’s Press, 1991; Irwin M. Wall, The United States and the Making o f Postwar France, 1945-1954, New York, Cambridge University Press, 1991.22 L’opera fondamentale è quella di Michael Hogan, The Marshall Pian. America, Britain and the Reconstruction o f Western Europe, 1947-1952, Cambridge, Cambridge University Press, 1987. Inoltre cfr. Charles S. Maier, The Politics o f
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E poi sono cresciute a dismisura le ricerche su periodi successivi ed aree geografiche diverse da quella europea degli anni quaranta. Il Medio Oriente, l’Estremo Oriente e, ovviamente, il Vietnam sono ormai non solo argomenti di studi numerosissimi, ma soprattutto fonti per una riflessione articolata sulle molteplici dimensioni della guerra fredda. Quindi sulle diverse implicazioni e applicazioni del contenimento, sulla non scontata e diversificata estensione globale della rivalità bipolare, sull’effettivo intreccio di considerazioni geopolitiche ed interessi economici in scenari ben diversi da quello del “vuoto” europeo del 1945, e tuttavia ad esso legati nelle analisi integrate di Washington come del Cremlino23.
In secondo luogo perché dal postrevisionismo emergono anche filoni interpretativi che, pur con un taglio sempre eminentemente geopolitico, giungono a risultati di maggior equilibrio e complessità analitica, soprattutto quando riescono a incorporare molte delle acquisizioni appena rammentate. E questo in particolare il caso di Melvyn Leffler, la cui recente, monumentale monografia sull’am
ministrazione Truman spicca come il libro più importante degli ultimi anni24. Leffler affronta il cruciale quesito che ha tradizionalmente dato vigore e interesse alla critica revisionista: quello cioè della plausibilità di una attribuzione unilaterale di responsabilità per le origini della guerra fredda all’Urss quando il divario di potenza era, secondo ogni fondamentale parametro, così marcata- mente a vantaggio degli Stati uniti. E le sue risposte, non a caso, non dispiacciono ai revisionisti. Perché egli individua ed esplora una concezione americana della sicurezza nazionale che, già negli ultimi anni della seconda guerra mondiale, postulava un sistema difensivo globalista ed una stabilizzazione del capitalismo internazionale che estendevano gli interessi vitali americani al di là di un perimetro geografico delimitato: sfera d’influenza nell’emisfero occidentale, controllo degli oceani e sistema di basi aeree per il dominio di una frontiera strategica avanzata, accesso alle risorse e ai mercati dell’Europa e dell’Asia, mantenimento della superiorità nucleare.
In quel quadro l’Urss avrebbe quindi po-
Productivity: Foundations o f American International Economie Policy after World War II, “International Organization”, 31, n. 4, 1977; David S. Painter, Oil and the American Century. The Political Economy o fU .S . Foreign Policy, Baltimore, The Johns Hopkins University Press, 1986. Tra i fautori dell’approccio corporatista va ricordato anche Thomas J. McCormick, la cui sintesi America’s H alf Century: US Foreign Policy in the Cold War, Baltimore, The Johns Hopkins University Press, 1989, si allontana tuttavia da quella impostazione per inquadrare il ruolo intemazionale degli Usa in una prospettiva di “world-system economy” vicina alle concezioni di Immanuel Wallerstein.23 Anche qui mi limiterò solo a pochi tra i lavori più significativi: Gordon H. Chang, Friends and Enemies: the United States, China, and the Soviet Union, 1948-1972, Stanford, Stanford University Press, 1990; Bruce Cumings, The Origins o f the Korean War, 2 volt, Princeton, Princeton University Press, 1981-1989; S. Freiberger, Dawn over Suez: The Rise o f American Power in the Middle East 1953-1957, Chicago, Dee, 1992; Mark J. Gasiorowski, US Foreign policy and the Shah: Building a Client State in Iran, Ithaca, Cornell University Press, 1991; Sergei N. Goncharov, John W. Lewis, Xue Litai, Uncertain Partners: Stalin, Mao and the Korean War, Stanford, Stanford University Press, 1993; George Herring, America’s Longest War. The US and Vietnam 1950-1975, New York, Random House, 1986; Gary R. Hess, The United Sta tes’ Emergence as a Southeast Asian Power, 1940-1950, New York, Columbia University Press, 1987; Jon Ko- fas, Intervention and Underdevelopment, Philadelphia, Pennsylvania State University Press, 1989; Bruce Kuniholm, The Origins o f the Cold War in the Near East, Princeton, Princeton University Press, 1982; Diane B. Kunz, The Economic Diplomacy o f the Suez Crisis, Chapel Hill, University of North Carolina Press, 1991; Waiter LaFeber, Inevitable Revolutions: The US in Central America, New York, Norton, 1984; Michael Schaller, The American Occupation o f Japan: the Origins o f the Cold War in Asia, New York, Oxford University Press, 1985; Howard Schonberger, Aftermath o f War: Americans and the Remaking o f Japan 1945-1952, Kent, Kent State University Press, 1989; Marilyn B. Young, The Vietnam Wars 1945-1990, New York, Harper Collins, 1991; Shu Guang Zhang, Deterrence and Strategic Culture: Chinese American Confrontations, 1949-1958, Ithaca, Cornell University Press, 1992.24 Melvyn P. Leffler, A Preponderance o f Power: National Security, the Truman Administration and the Cold War, Stanford, Stanford University Press, 1992.
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tuto trovare una collocazione, proseguendo così la cooperazione tra i grandi, solo in termini fortemente favorevoli a Washington, o per lo meno drasticamente diversi da quelli che Stalin, per quel che ne sappiamo a tut- t’oggi, riteneva indispensabili per la sicurezza sovietica. Nel 1945-1946, quando emersero le prime serie frizioni in relazione all’Europa dell’est e al Mediterraneo orientale, la formulazione sovietica delle proprie priorità di sicurezza (che Leffler non giudica né irragionevoli sotto il profilo geostrategico né intrinsecamente aggressive) fu percepita a Washington come espansiva e destabilizzante. Poiché sfidava una visione americana le cui motivazioni l’amministrazione Truman riteneva pacifiche e difensive, essa fu letta a Washington come deliberatamente ostile. L’esperienza di Monaco e de\Y appeasement verso il totalitarismo, così come il forte pregiudizio ideologico anticomunista, davano forma a una percezione sinistra delle intenzioni sovietiche. Su entrambi i fronti iniziava a operare quel “dilemma della sicurezza”25 al cui schema teorico Leffler si rifà piuttosto apertamente: le mosse difensive di uno degli attori incarnano una minaccia agli occhi dell’altro, e le conseguenti reazioni innescano un circolo vizioso di ostilità, sfiducia e insicurezza.
Gli Usa non temevano una diretta aggressività sovietica, e men che meno un attacco militare, bensì il potenziale rafforzamento geostrategico che Mosca poteva trarre dalle condizioni di instabilità, queste sì immediatamente preoccupanti, che prevalevano nel continente europeo ed in Asia. Poiché l’idea guida del pensiero strategico americano era la necessità di impedire che una potenza, soprattutto se ideologicamente avversa, potesse
ottenere il controllo delle risorse dell’Eura- sia, ciò che spaventava era il vuoto di potere nell’Europa centrale, la prostrazione economica e l’insicurezza politica in Germania e in Giappone, l’instabilità in Francia, in Italia e nel Mediterraneo, i rivolgimenti nazionalisti nel Terzo mondo. I pericoli erano quindi futuri, e richiedevano complesse concatenazioni di eventi per materializzarsi, ma erano troppo grandi per correre il rischio — potenzialmente assai maggiore — dell’inazione.
Per Leffler — che definisce gli statisti americani in primo luogo come “cauti” ed “avvertiti”26 — le varie componenti del contenimento configurano la scelta americana di usare la propria preminenza economica e strategica per impedire che le “co-relazioni di potenza” si invertissero e finissero per scivolare, come su di un piano inclinato, in una direzione favorevole a Mosca. Stabilizzare e integrare l’Europa occidentale, la Germania, il Giappone e la “periferia” del Terzo mondo in un sistema aperto di scambi multilaterali equivaleva a costruire un ambiente favorevole agli interessi e ai valori americani: erigendo stabilità e forza laddove vi erano vuoti di potenza, arginando l’influenza dell’Urss intorno alla sua periferia, e sviluppando quindi il potenziale strategico per superare eventuali sfide politiche e, nel caso peggiore, militari. “La guerra fredda e la divisione dell’Europa erano prospettive deplorevoli, ma ben meno sinistre dei pericoli inerenti ad una contrazione economica, a tendenze autarchiche, ad avanzate del comuniSmo e all’eventuale erosione dell’influenza statunitense nel cuore industriale dell’Eurasia occidentale”27. Il mantenimento di una potenza preponderante divenne il criterio guida per una politica che ac-
25 Si veda Robert Jervis, Richard Ned Lebow, Janice Gross Stein, Psychology and Deterrence, Baltimore, Johns Hopkins University Press, 1985.26 Negli ultimi anni si sono moltiplicati anche gli studi sui principali ideatori della politica americana, ed in particolare sulle premesse culturali delle loro interpretazioni dei problemi dell’Europa postbellica. Un’analisi ricca e suggestiva è quella di John L. Harper, American Visions of Europe: Franklin D. Roosevelt, George F. Kennan, and Dean G. Acheson, New York, Cambridge University Press, 1994.27 M. Leffler, A Preponderance of Power, cit., p. 504.
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cettava di correre dei rischi, dal punto di vista del deterioramento antagonistico delle relazioni con rUrss e dell’impegno di ingenti risorse economiche, politiche e militari, per poter condurre una diplomazia attiva, talora aggressiva, al fine di prevenire l’aprirsi di vuoti di cui l’iniziativa avversaria avrebbe potuto trarre vantaggio.
Il tipo di analisi condotto da Leffler — oltre ad avere il pregio di offrire un’interpretazione più complessa e bilanciata, lontana dai manicheismi così frequenti in questo campo — offre due importanti vantaggi. In primo luogo spezza la contrapposizione concettuale tra cooperazione e antagonismo per suggerire, invece, un’esplorazione dettagliata dell’interazione tra i due approcci, evidenziando i trade-off tra le due possibilità, i prezzi che di volta si è accettato di pagare nell’uno o nell’altro senso. E con ciò fornisce una miglior chiave storiografica per esplorare la dinamica convulsa delle molteplici scelte operate, su vari teatri e con mille interconnessioni, sia a Washington che a Mosca. In secondo luogo rende più comprensibili i legami tra la prima fase della guerra fredda, quella costituente incentrata sull’Europa del 1946-1948, e i momenti successivi che vedono l’antagonismo bipolare estendersi ad altre parti del globo. In particolare rivela il legame tra la visione strategica iniziale americana e la successiva teoria del domino che sarà al centro del ragionamento geopolitico di Washington in Asia e altrove28.
Il problema della credibilità della potenza americana e della sua risolutezza, che sarà ossessivamente al centro delle preoccupazioni di tutte le amministrazioni, fino a culminare nella vicenda vietnamita, non derivava tanto dalle ipotesi previsionali sulle presunte intenzioni sovietiche (o cinesi), e neppure soltanto dalla logica peculiare della deterrenza in epo
ca nucleare, ma era per così dire intrinseca al tipo di strategia americana delineata da Leffler. Se il problema era infatti quello di rimediare a situazioni di instabilità e precarietà, di prevenire le possibilità di scivolamenti neutralisti e nazionalisti che avrebbero offerto possibilità di influenza a Mosca (ad esempio nella Germania nel 1947-1949, o nel Medio Oriente e nell’Indocina nei decenni successivi), e viceversa di riuscire sempre a esercitare una maggiore capacità di attrazione e integrazione, allora la dimostrazione non solo di potenza e disponibilità all’intervento (anche militare), ma in primo luogo della volontà e capacità di assumersi responsabilità egemoniche in una determinata circostanza divenivano elementi cruciali della politica americana. A questo era in primo luogo finalizzata la preponderanza di potenza: consentire agli Usa un margine di vantaggio tale — ad ogni gradino della escalation diplomatica o militare — da rendere possibile l’assunzione di rischi, mantenendo costantemente la disponibilità di più opzioni, così da costringere sempre l’avversario a un serio calcolo dei costi e dei benefici e, soprattutto, da rassicurare alleati ed amici.
Questa interpretazione sembra ampiamente convincente in relazione alle questioni della Germania e dell’Europa postbellica, quando probabilmente vi erano scarsi margini — quand’anche gli Usa avessero articolato la propria strategia con maggior duttilità e fiducia — per un tentativo di rassicurazione e conciliazione degli interessi sovietici. Ma quel “prudente” ricorso alla preponderanza di potenza secondo Leffler trascende poi in insensatezza quando viene rigidamente esteso alla periferia del Terzo mondo. Postulando una diretta interconnessione tra il controllo della periferia e la stabilizzazione delle aree industrializzate, e soprattutto scambiando
28 Cfr. Robert J. McMahon, Credibility and World Power: Exploring the Psychological Dimension in Postwar American Diplomacy, “Diplomatic History”, 15, 4, 1991, pp. 455-472, e Frank Ninkovich, Modernity and Power: A History of the Domino Theory in the Twentieth Century, Chicago, University of Chicago Press, 1994.
La guerra fredda nella recente storiografia americana 409
troppo spesso i movimenti nazionalistici per insorgenze comuniste, i dirigenti americani finirono per credere ad un progetto sovietico di “dominio mondiale” che nascondeva le sostanziali debolezze deH’avversario e che portò a esasperare l’escalation di potenza. Con la globalizzazione del contenimento i due antagonisti si inchiodavano nella spirale del riarmo e nella logica del “dilemma della sicurezza”, che avrebbe perpetuato la guerra fredda in una struttura dalla rigidità apparentemente immutabile.
...ed i suoi limiti
L’interpretazione di Leffler spicca per la sua complessa ed equilibrata architettura, che integra vari approcci e riesce probabilmente a soddisfare storici altrimenti polemicamente distanti29. I revisionisti vi trovano la conferma di una propensione espansivamente glo- balista degli Usa; i corporatisti possono enfatizzare la lettura trumaniana dell’ordine mondiale alla luce degli schemi dell’economia politica americana; i postrevisionisti più tradizionalisti, come John Gaddis, possono concordare sulla dominanza di una visione geopolitica che giustifica il contenimento antisovietico in Europa in nome dell’equilibrio di potenza. Se proprio si vuole andare a ricercare i tratti di una qualche sintesi della storiografia americana non si può che partire da questo libro, che ricongiunge sapiente- mente filoni molto diversi.
Tuttavia non è difficile additare anche le aporie di questa presunta sintesi. Gli attori non governativi finiscono per sparire dietro le quinte, soverchiati da una centralità dello Stato e della sua primaria sfera d’azione, quella della grande strategia geopolitica. E lo stesso accade anche alle dinamiche interne del sistema politico americano, tanto è vero
che una delle critiche più diffuse a Leffler è quella di aver esagerato la continuità e l’uniformità dell’elaborazione strategica dell’am- ministrazione Truman, tralasciando le incertezze, i momenti di conflitto interno e la dialettica tra scelte internazionali e condizionamenti politico-elettorali contingenti.
Soprattutto, la preminenza del paradigma geopolitico richiede qualificazioni e specificazioni. Appare ormai difficilmente contestabile che il momento formativo del conflitto bipolare, il confronto del primo dopoguerra tra le due potenze che si trovarono a occupare lo spazio europeo e a doverne rimodellare il sistema di sicurezza, si sia innescato innanzitutto sul terreno geopolitico. Ma questa categoria, di per sé, riesce difficilmente a spiegare le forme che l’antagonismo ha poi assunto, la sua durata ed estensione, e soprattuto la sua natura di conflitto implacabile, assoluto e non negoziabile. Persino gli studiosi d’impronta più rigidamente realista finiscono prima o poi per ricorrere alle differenze e contrapposizioni ideologico-cultura- li: per spiegare, innanzitutto, le reciproche distorte percezioni — entrambe dominate dal timore di un espansionismo visto come potenzialmente illimitato perché connaturato al sistema economico e politico dell’avversario.
Né può essere sminuita la centralità interpretativa della contrapposizione tra sistemi socioeconomici. Perché essa forniva l’alimento forse primario alla feroce concorrenzialità ideologica; perché costituì il terreno fonda- mentale di organizzazione e consolidamento dei reciprochi blocchi, ovvero di attuazione della strategia del confronto geopolitico; e perché era alla visione e alla proposta socioeconomica che si rifaceva quell’universalismo di entrambi i contendenti che rendeva sostanzialmente non negoziabili le pur cruciali frizioni di carattere geopolitico relative all’as
29 In questo senso vanno anche molte delle recensioni, si veda ad esempio Robert Jervis, The End of the Cold War on the Cold War?, “Diplomatic History”, 17, 4, 1993, pp. 651-660.
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setto dell’Europa prima e di altre aree poi. Con la “rigida territorializzazione dell’ideologia e dell’economia” si trascendevano le possibilità, già di per sé assai limitate, di un normale dialogo diplomatico, e si avviava invece la “simultanea declamazione di due monologhi” che avrebbe reso la guerra fredda un “conflitto per il totale annichilimento simbolico” (e, in aree extraeuropee, anche materiale)30.
Dalla fine all’inizio della guerra fredda
È del resto sintomatico che queste divergenze ed ambivalenze si ripropongano quasi intatte, senza venir risolte, quando si provi a riconsiderarle alla luce del modo e dei motivi per cui la guerra fredda è terminata. Non ha ovviamente un valore solo simbolico il fatto che essa sia finita là dove era cominciata, in Germania ed in particolare a Berlino, con l’abbattimento del muro e la riunificazio- ne tedesca che chiudevano l’epoca della divisione postbellica dell’Europa. Il dato geopolitico sale ancora una volta in primo piano: l’egemonia al centro dell’Europa aveva costituito la principale posta in gioco nell’antagonismo bipolare, e la divisione della Germania ne incarnava l’irrisolta perpetuazione. Soprattutto, a ciò si è arrivati in seguito a un mutamento di strategia dell’Urss, che con Gorbacév ha abbandonato l’idea di una sicurezza sovietica garantita dall’occupazione militare dell’Europa orientale. Lo scioglimento dell’impero sovietico in Europa e il ri
tiro dell’Armata rossa entro i confini del- l’Urss ponevano termine a quel lascito strategico della seconda guerra mondiale intorno al quale era sorto l’antagonismo bipolare31.
Le tesi realiste sulle origini, soprattutto quelle imperniate sulle responsabilità di Stalin nel definire le esigenze di sicurezza sovietiche in chiave inaccettabile agli altri paesi europei ed agli Usa, ne risultano facilmente corroborate. Non è un caso che storici come John Gaddis abbiano tratto dagli eventi conclusivi della guerra fredda un forte stimolo non solo a riconfermare le proprie tesi come ormai storicamente assodate, ma addirittura ad avvicinarsi ulteriormente alla percezione tradizionalista (soprattutto per ciò che riguarda la tragica specificità criminale del regime staliniano, e quindi l’imperativa necessità occidentale di contrastarlo con ogni mezzo, ad esclusione dello scontro bellico diretto)32. Anche tra gli storici la risonanza del consenso pubblico sulla fine della guerra fredda come trionfo dell’Occidente, e del suo impegno quarantennale al contenimento, è piuttosto forte. In particolare, dall’analisi delle fasi e dei fattori conclusivi del conflitto viene tratto un forte incoraggiamento a riaffermare le interpretazioni, fortemente euro- centriche, dei decenni di antagonismo bipolare come un periodo di “lunga pace” tra le grandi potenze, garantito dal meccanismo della deterrenza atomica bipolare33.
La svolta sovietica degli anni ottanta, la “resa” dell’Urss, viene conseguentemente ricondotta alla incessante pressione esercitata dagli Usa, ed in particolare alla scelta reaga-
30 Anders Stephanson, The United States, cit., pp. 50-51. La critica al realismo geopolitico continua anche ad essere serrata dal punto di vista, sia pure assai aggiornato, del revisionismo. Si veda ad esempio Bruce Cumings, "Revising Postrevisionism" or the Poverty of Theory in Diplomatic History, “Diplomatic History”, 17, 4, 1993, pp. 539-69.31 Vale la pena rammentare la centralità di queste stesse, precise questioni nel dibattito forse più lucido sulla razionalità del contenimento, al momento del suo concepimento: quello che impegnò Walter Lippmann, The Cold War, New York, Harper, 1947, e George F. Kennan (“X”), The Sources of Soviet Conduct, “Foreign Affairs”, n. 25, 1947, pp. 566-582.32 Cfr. John L. Gaddis, The US and the End of the Cold War, New York, Oxford University Press, 1992.33 La formulazione più sistematica è quella di John L. Gaddis, The Long Peace: Inquiries into the History of the Cold War, New York, Oxford University Press, 1987, discussa in Charles W. Kegley (a cura di), The Long Postwar Peace: Contending Explanations and Projections, New York, Harper Collins, 1990. Su ruolo e influenza delle armi nucleari
La guerra fredda nella recente storiografia americana 411
niana di prospettare un ulteriore, cospicuo aggravamento finanziario e tecnologico di una corsa agli armamenti in cui l’Urss già faticava a tenere il passo. Una volta acquisite posizioni di cospicuo vantaggio l’amministrazione Reagan si ritrovò singolarmente ben posizionata, e inaspettatamente pronta, per intraprendere quei negoziati da posizione di forza che per tutto l’arco del quarantennio erano stati l’incubo e la chimera degli statisti americani ma che ora, di fronte a un Gorbacèv intimidito dalla prospettiva dello “scudo spaziale” , potevano finalmente com-
•34ptersi .Ma il trionfalismo delle interpretazioni
realiste — che pure indubbiamente contengono elementi fattuali di validità — non può soddisfare in chiave di analisi storica. L’obiettivo originario del contenimento — quel “crollo od ammorbidimento del potere sovietico” auspicato da George Kennan nel 194735 — si è raggiunto, sia pure con ritardo di decenni, ma è lo stesso Kennan a rigettare, in numerosi interventi giornalistici recenti, ogni semplicistico collegamento tra la validità del contenimento e le trasformazioni prodottesi nell’Urss. Il problema è infatti di individuare i fattori che hanno indotto il gruppo dirigente riunito intorno a Gorbacèv alla scelta epocale di chiudere un’era nel potere sovietico, smantellare il proprio impero e abbandonare la competizione antagonistica con l’Occidente. E qui, inevitabilmente, la sfera della competizione tra due sistemi economici
e sociali torna ad essere cruciale. Perché la prospettiva di ulteriormente intensificare la rincorsa militar-tecnologica ha, al massimo, accelerato la constatazione di un ben maggior fallimento del sistema sovietico. Quello derivante dall’incapacità ormai decennale di far transitare l’economia pianificata alla fase postindustriale, di rispondere efficacemente alle tensioni sociali interne, di riaffermare un senso di dinamica vitalità del sistema36. Ovvero di tenere in qualche modo il passo con le trasformazioni dell’economia internazionale e di riuscire quindi a proiettarne all’estero un’immagine credibile e attraente, oltre che forte.
Prima ancora che Reagan intensificasse la pressione militare e diplomatica, l’Urss aveva perso ogni sostanziale capacità di influenza politicoculturale, aveva visto svanire ogni suo ruolo quale modello di sviluppo e di organizzazione sociale. Nella complessa e ancora inesplorata vicenda degli anni ottanta l’Urss non ha solo esaurito il ruolo di super- potenza faticosamente inseguito dal 1945 in poi, essa ha anche perduto e archiviato la sfida storica al capitalismo mondiale lanciata con la rivoluzione del 1917. Tutte le complesse tematiche che si intrecciano nella definizione delle origini e della natura della guerra fredda risultano quindi inseparabili anche nel processo del suo esaurimento.
Per questo in sede storiografica le affermazioni tradizionaliste (momentaneamente trionfanti nella loro consonanza con il discorso politico pubblico) continuano ad esse-
cfr. McGeorge Bundy, Danger and Survival: Choices about the Bomb in the First Fifty Years, New York, Random House, 1988; Charles S. Morris, Iron Destinies, Lost Opportunities: the Arms Race Between the Usa and the Ussr, 1945-1987, New York, Harper & Row, 1988; John Mueller, Retreat from Doomsday: the Obsolescence of Major War, New York, Basic Books, 1989. Inoltre si veda il recentissimo David Holloway, Stalin and the Bomb, New Haven, Yale University Press, 1994.34 Cfr. Samuel F. Wells Jr., Nuclear Weapons and European Security during the Cold War, in M. Hogan (a cura di), The End of the Cold War, cit., pp. 63-76 e David E. Kyvig (a cura di), Reagan and the World, New York, Greenwood Press, 1990. Una interessante analisi della politica estera della presidenza Reagan è quella di Coral Bell, The Reagan Paradox: American Foreign Policy in the 1980s, New Brunswick, Rutgers University Press, 1989.35 George F. Kennan (“X”), The Sources of Soviet Conduct, “Foreign Affairs”, 25 (1947), pp. 566-582.36 Una discussione di questi temi è in Charles S. Maier, I fondamenti politici del dopoguerra, in Storia d'Europa, voi. 1, L’Europa oggi, Torino, Einaudi, 1993, pp. 313-372.
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re robustamente contrastate da interpretazioni ben diverse. Da quelle sempre di stampo realista e geopolitico, ma attente al complesso delle dinamiche intemazionali, che minimizzano l’effetto delle scelte americane sull’evoluzione dell’Urss, e che anzi criticano l’eccessiva dipendenza della politica statunitense dal suo rigido, onnivoro paradigma anticomunista37. A quelle che enfatizzano i costi, sia economici e sociali che politici e morali, pagati dalla società statunitense per un impegno che appare retrospettivamente assai meno inattaccabile vista la sostanziale, intrinseca debolezza deH’Urss38. Fino alle rivisitazioni esplicitamente revisioniste della guerra fredda come un periodo dominato, oltre e forse più che dalla rivalità bipolare, dalle complesse relazioni tra centro e periferia, ed in particolare da un progetto di egemonia statunitense sulle principali risorse mondiali
e, quindi, di controllo delle dinamiche politiche del Terzo mondo39.
È indicativo che il più recente, significativo sforzo di narrazione unitaria della storia delle relazioni internazionali degli Stati uniti (la Cambridge History of American Foreign Relations) comprenda al suo interno autori ampiamente divergenti in fatto di linee interpretative fondamentali. E che sulla guerra fredda, pur sostanzialmente esplorata sotto il profilo statocentrico del conflitto di potenza e del “dilemma della sicurezza”, essa incorpori pienamente anche il grande tema della decolonizzazione40. Lontana ormai dalle guerre di religione, e pur tuttavia sempre pluralmente divisa, la storiografia americana resta attraversata da giudizi e approcci variegati, divergenti ma anche, spesso, complessamente intrecciati.
Federico Romero
37 Cfr. Raymond Garthoff, The Great Transition. American Soviet Relations and the End of the Cold War, Washington D.C., The Brookings Institute, 1994: questa è al momento la più ampia e accurata ricostruzione del decennio finale della guerra fredda.38 Cfr., ad esempio, gli interventi di Ronald Steel, Richard J. Barnett in M. Hogan (a cura di), The End of the Cold War, cit., rispettivamente pp. 103-112 e 113-126.39 Cfr. i contributi di Walter LaFeber, Bruce Cumings, Nikki R. Keddie in M. Hogan (a cura di), The End of the Cold War, cit., rispettivamente pp. 13-20, 87-102 e 151-160.40 Warren I. Cohen, America in the Age of Soviet Power, 1945-1991, in Id. (a cura di), Cambridge History of American Foreign Relations, voi. IV, New York, Cambridge University Press, 1993. Gli autori degli altri tre volumi sono Bradford Perkins (The Creation of a Republican Empire, 1776-1865), Walter LaFeber (The American Search for Opportunity, 1865- 1913) e Akira Iriye (The Globalizing of America, 1913-1945).
Federico Romero (1953) ha studiato aU’Università di Torino. Ha lavorato all’Istituto universitario europeo e alla London School of Economics, ed è ora professore associato di Storia americana all’Università di Bologna. Le sue ricerche hanno riguardato la politica americana nei confronti della ricostruzione postbellica dell’Europa e dellTtalia.