TRACCE DEL CONCORSO A 330 POSTI
Come da tradizione si pubblica lo studio della commissione, reso noto agli allievi il giorno prima
delle prove scritte. Tutte e sei le tracce predisposte dalla commissione in diritto civile e penale
richiamano, in misura maggiore o minore, ciò che si evinceva dallo studio ed era stato segnalato tra
gli argomenti probabili. Più di tutte, però, quella di civile estratta e le due di penale non estratte, una
sui reati tributari e il concorso di norme (ne bis in idem), l’altra sull’ambito di applicazione del
principio di irretroattività con riferimento all’esecuzione delle pene detentive e delle misure
alternative alla detenzione (che verte sull’art. 7 CEDU e sul concetto di pena illegale), entrambe
oggetto della lezione preconcorso. Le tracce di amministrativo, invece, non sono riferibili ad alcun
commissario, verosimilmente perché in commissione non c’erano amministrativisti.
Le tracce estratte di diritto penale ed amministrativo condividono il tema della coercizione
all’adempimento, oggetto della prova finale del corso intensivo del 2016 (“Ingiustizia e autotutela
nei rapporti tra privati, con particolare riferimento all’inadempimento degli obblighi di fare
infungibili”), e di alcuni convegni organizzati da Diritto e Scienza.
Di seguito l’analisi delle tracce estratte. All’interno della trattazione sono evidenziati in rosso i
punti esaminati nella lezione preconcorso, che è la più significativa in questa prospettiva, tenendosi
il giorno prima delle prove scritte.
DIRITTO CIVILE
«Modi acquisto delle servitù prediali. Tratti in particolare il candidato della servitù di mantenere
una costruzione a distanza illegale da altra costruzione o dal confine e della configurabilità della
medesima servitù in caso di immobile costruito abusivamente».
Il tema verte sulle diverse forme giuridiche dell’acquisto di servitù e sui principi che ispirano
ciascuna di esse, con particolare riferimento alla contrapposizione tra fatto (legge), atto
(usucapione), negozio (contratto). Questa distinzione si rifletteva sulla soluzione dei quesiti posti.
Dal punto di vista strutturale, la traccia segue lo schema generale/particolare/particolare, in
cui la divisione tra parte generale e speciale è scandita dal punto, il collegamento tra i due quesiti
della parte speciale è operato con la congiunzione. Secondo un principio più volte illustrato a
lezione, in tracce di questo tipo la distribuzione tra le due parti non dev’essere necessariamente
paritaria (1/2 e 1/2), essendo ammesso uno sbilanciamento a favore della parte generale, che anzi in
questo caso era inevitabile (2/3 e 1/3), attesa la sproporzione tra ampiezza della parte generale ed
ampiezza dei quesiti di ordine particolare.
L’ordine logico di trattazione è verticale:
1. Modi di acquisto delle servitù.
2. Contratto e servitù: le servitù atipiche.
3. La servitù di mantenere una costruzione a distanza illegale da altra costruzione o dal confine.
4. L’ammissibilità della medesima servitù in ipotesi di costruzione abusiva.
1. Modi acquisito delle servitù
La servitù è il rapporto tra fondi vicini appartenenti a proprietari diversi posti al servizio l’uno
dell’altro (art. 1027 c.c.). La sua struttura diverge da quella tipica dei diritti reali di godimento,
poiché consiste non nella mera limitazione di un diritto di proprietà su un bene, ma nella
conformazione di due proprietà. Tuttavia, come gli altri diritti reali di godimento, la servitù è un
diritto su cosa altrui, che conferisce al titolare facoltà che potenziano lo sfruttamento della sua
proprietà, comprimendo quelle del proprietario confinante.
L’art. 1031 c.c. stabilisce che “Le servitù prediali possono essere costituite coattivamente o
volontariamente. Possono anche essere costituite per usucapione o per destinazione del padre di
famiglia”. La norma contiene una tacita classificazione delle tecniche generatrici del diritto,
articolata sul dualismo tra legge e autonomia privata, ossia tra fatto e negozio, rispetto al quale
usucapione e destinazione del padre di famiglia, quali atti giuridici non negoziali, si pongono in
posizione intermedia.
Si procede all’analisi di ciascuna fattispecie.
a) Legge
L’art. 1032 c.c. stabilisce che “Quando, in forza di legge, il proprietario di un fondo ha diritto
di ottenere da parte del proprietario di un altro fondo la costituzione di una servitù, questa, in
mancanza di contratto, è costituita con sentenza. Può anche essere costituita con atto dell’autorità
amministrativa nei casi specialmente determinati dalla legge.
La sentenza stabilisce le modalità della servitù e determina l’indennità dovuta.
Prima del pagamento dell’indennità il proprietario del fondo servente può opporsi
all’esercizio della servitù”.
La ratio dell’istituto è la funzione sociale della proprietà, atteso che le previsioni legali sono
dettate a tutela dell’interesse di terzi e l’imposizione della servitù al privato proprietario si fonda sul
principio di solidarietà. Classico esempio è l’ipotesi di passaggio coattivo di cui all’art. 1051 c.c.
(“Il proprietario, il cui fondo è circondato da fondi altrui, e che non ha uscita sulla via pubblica né
può procurarsela senza eccessivo dispendio o disagio, ha diritto di ottenere il passaggio sul fondo
vicino per la coltivazione e il conveniente uso del proprio fondo”).
La fattispecie costitutiva si fonda sulla situazione di necessità in cui si trova il terzo, ma la
servitù non nasce secondo lo schema norma-fatto-effetto, ossia l’effetto giuridico non si produce
automaticamente al verificarsi nella realtà del fatto contemplato dalla legge, come invece avviene
per i modi legali di acquisto della proprietà. Dalla legge, infatti, scaturisce il diritto alla costituzione
della servitù, la quale nasce solo per effetto del consenso o dell’atto dell’autorità giurisdizionale (o
amministrativa), che ne rappresentano il titolo immediato. La servitù, dunque, nasce secondo lo
schema norma-fatto-potere vincolato-effetto, dove il potere vincolato dalla legge può essere tanto
quello negoziale, quanto quello giudiziale. Più precisamente: in ipotesi di costituzione per contratto
lo schema è norma-fatto-potere sull’an-consenso-effetto; in ipotesi di costituzione per sentenza lo
schema è norma-fatto-potere sull’an-sentenza-effetto.
La convenzione con cui si pone in essere la servitù legale, attuando il diritto scaturito dalla
legge, è un vero e proprio contratto a effetti reali, che, come tale, deve avere tutti i requisiti dei
contratti con cui si costituiscono le servitù prediali. Deve, quindi, farsi per atto scritto (art. 1350, n.
4), anche se le parti non eccedono i limiti della disciplina legale e deve essere trascritta (art. 2643, n.
4). La mancanza della trascrizione renderebbe inopponibile all’acquirente del fondo servente, che
trascriva li suo titolo, la convenzione. Quanto al contenuto, la convenzione deve determinare, oltre
che i fondi, la natura della servitù e le sue modalità. Inoltre deve fissare l’indennità: se questa non è
determinata, la convenzione è nulla per mancanza di causa. È salva, però, la possibilità che la
servitù si voglia concedere senza alcun corrispettivo: in tal caso la convenzione riveste i caratteri
della donazione. Ai fini della costituzione negoziale di una servitù coattiva è necessario che dal
contratto risulti l’intenzione delle parti di dare esecuzione all’obbligo legale, derivandone in
mancanza la costituzione di una servitù volontaria, ancorché il relativo contenuto corrisponda a
quello oggetto di una servitù coattiva. In tal caso non si applicherà la disciplina delle servitù
coattive (opposizione per il mancato pagamento del canone, estinzione per cessazione dei
presupposti in funzione dei quali la legge prevede la servitù), ma quella delle servitù convenzionali
(eccezione di inadempimento per il mancato pagamento del canone, permanenza della servitù
pur nella cessazione delle condizioni in cui era stata contratta).
Qualora l’obbligato non stipuli il contratto, all’avente diritto è concessa azione costitutiva per
ottenere il titolo. La natura dell’azione dipende dall’inquadramento del diritto di ottenere la servitù:
se diritto di pretesa, cui corrisponde l’obbligazione (propter rem) di concludere un contratto,
l’azione costitutiva della servitù ha natura di esecuzione specifica (art. 2932 c.c); se diritto
potestativo, cui corrisponde una posizione di soggezione, l’azione costitutiva della servitù ha natura
costitutiva pura.
b) Negozio
L’art. 1058 prevede che “Le servitù prediali possono essere costituite per contratto o per
testamento”.
Lo schema logico dell’acquisto volontario è norma-potere-effetto.
La differenza tra testamento e contratto è duplice: il testamento è negozio unilaterale tipico, il
contratto è negozio consensuale atipico. Ne deriva che per quest’ultimo lo schema negoziale è più
complesso: il contratto viene ad esistenza ex art. 1321 secondo lo schema norma-accordo-effetto, il
rapporto giuridico si produce secondo lo schema norma-contratto-effetto. Per i negozi tipici la
norma è determinata, per quelli atipici la norma è determinabile. Gli atti contrattuali dunque
operano in una doppia fase: nella prima sono il prodotto dell’esercizio del potere di autonomia
privata; nella seconda sono il fatto da cui sorge il rapporto giuridico tra le parti.
Il contratto
PREMESSA MINORE
Potere
PREMESSA MAGGIORE
Norma
CONCLUSIONE
Effetto
Autonomia negoziale Art. 1321 – 1325 Contratto
PREMESSA MINORE
Fatto
PREMESSA MAGGIORE
Norma
CONCLUSIONE
Effetto
Contratto le norme che regolano il tipo
(o art. 1322)
Rapporto contrattuale
Ciò posto in termini di teoria generale sui modo d’acquisto negoziali, occorre esaminare
distintamente testamento e contratto, soffermandosi su quest’ultimo, attesa la ridotta rilevanza
pratica in questa materia del testamento.
Con il testamento può essere disposto a carico dell’erede (o di un legatario beneficiario della
proprietà di un bene facente parte dell’eredità) tanto il semplice obbligo di costituire la servitù,
quanto direttamente la costituzione. Quest’ultima possibilità si realizza tramite un legato di genere,
in virtù del quale il legatario acquista la servitù nei confronti dell’erede direttamente dal testatore al
momento dell’apertura della successione e, secondo la regola generale che disciplina l’acquisto dei
legati, senza bisogno di accettazione, salvo la facoltà di rinuncia. Qualora, invece della servitù,
fosse disposto nel testamento il semplice obbligo alla sua costituzione, la servitù potrà considerarsi
costituita solo in seguito ad una convenzione fra erede e legatario. Si ricade cosi nell’ipotesi della
costituzione per contratto, rispetto a cui il legato ha la funzione di un titolo preliminare costitutivo
della relativa obbligazione. Che si versi nell’una o nell’altra ipotesi è questione d’interpretazione
della disposizione testamentaria.
Il contratto di servitù può avere natura traslativa, qualora sia trasferita la proprietà del fondo
dominante (la servitù ‘segue’ la proprietà del bene cui si riferisce), o derivativo-costitutiva, quando
la servitù nasce per effetto dell’accordo tra due proprietari. In entrambi i casi rientra nello schema
dell’art. 1376 c.c. ed è retto dal principio del consenso traslativo, per cui il trasferimento o la
costituzione della servitù si verificano contestualmente al perfezionamento del contratto.
Il combinato disposto degli art. 1173 e 1321, confermato dall’art. 1324 c.c. (che estende la
disciplina del contratto agli atti unilaterali tra vivi a contenuto patrimoniale), dimostra che la forma
generale di esercizio del potere negoziale è il contratto e su di esso riposa l’affermazione secondo
cui “il contratto ha forza di legge tra le parti” (art. 1372 c.c.). L’art. 1376 c.c. ne è, dunque, un
corollario, e ciò che occorre spiegare è come sia possibile che anche gli effetti traslativi, come quelli
obbligatori, possano prodursi contestualmente all’accordo.
Se, infatti, è pacifico che il contratto (“accordo per costituire … un rapporto giuridico
patrimoniale”) possa produrre effetti reali (il trasferimento o la nascita di un diritto reale rientrano
nella nozione di “costituzione”), non è scontato che il meccanismo di produzione possa realizzarsi
in via immediata.
Stabilisce l’art. 1376 c.c. che “Nei contratti che hanno per oggetto il trasferimento della
proprietà di una cosa determinata, la costituzione o il trasferimento di un diritto reale ovvero il
trasferimento di un altro diritto, la proprietà o il diritto si trasmettono e si acquistano per effetto
del consenso delle parti legittimamente manifestato”.
Il codice civile prevede la regola del consenso traslativo nei contratti dispositivi, che hanno
cioè ad oggetto la disposizione di un diritto. In tali contratti la volontà è diretta al trasferimento e la
legge la riconosce come tale, assegnando all’accordo immediata efficacia traslativa.
Testualmente l’effetto traslativo, ancorché postuli l’avvenuto perfezionamento del contratto
secondo il modello legale (“legittimamente manifestato”), è riferito al consenso in quanto tale, e
non al contratto, il che accredita la formula del consenso traslativo.
Il consenso traslativo è una fictio iuris: si finge che il trasferimento del diritto avviene
contestualmente al perfezionamento del contratto, anche se tra accordo e produzione dell’effetto
giuridico vi è un ineliminabile spazio logico, che viene percorso dalla causalità giuridica. Si
comprende, allora, perché il principio consensualistico trovi fondamento, oltre che nel dogma
negoziale, nella causa, che deve corrispondere a un tipo traslativo.
Il codice civile all’art. 1325 n. 2), indicando la causa tra i requisiti del contratto, accoglie il
principio di causalità o causalistico del contratto, ossia la necessità che il consenso reciproco delle
parti in ordine al loro programma contrattuale sia sorretto da uno scopo pratico meritevole di tutela
giuridica (art. 1322 c.c.) e lecito (art. 1343 c.c.).
Prendendo le distanze dal giusnaturalismo, il nudo consenso è insufficiente alla costituzione
di un vincolo giuridico, non potendosi lasciare all’arbitrio dei privati la produzione di effetti
giuridici, tanto più di natura reale. La causa è, in definitiva, il parametro di controllo non solo della
compatibilità con l’ordine socio-economico dello schema di interessi perseguito dalle parti, ma,
ancor prima, uno strumento per conferire razionalità ai comportamenti umani, autorizzando i soli
patti rispondenti a uno schema logicamente congruo.
Per snidare l’essenza del concetto di causa occorre seguire un percorso diverso da quello
corrente in letteratura. Il termine causa nell’ordinamento giuridico si riferisce al rapporto di
causalità di cui agli articoli art. 40 e 41 c.p. La causalità indica una relazione tra entità, tanto
materiali (causalità di fatto), quanto normative (causalità giuridica). Per un elementare principio di
coerenza, il legislatore, annoverando la causa fra gli elementi essenziali del contratto, non può
averla intesa in un significato incompatibile con quello appena delineato. L’art. 1321 c.c., nella sua
descrizione linguistica di un fenomeno reale, disegnando l’accordo per costituire un rapporto
giuridico patrimoniale, non si limita ad una qualificazione tecnica dell’accordo, ma ne fissa le
condizioni, tra cui – appunto – la causa, che è ciò che spiega il passaggio dall’accordo agli effetti
giuridici (“per”), È evidente, allora, che nell’ambito dei contratti a effetti reali il passaggio –
immediato – dal consenso all’effetto reale postula una causa idonea a giustificarlo.
Nel contratto costitutivo di servitù, alla causa intesa come sintesi degli interessi reali che le
parti perseguono con il negozio (oneroso o gratuito), si aggiunge la causa della servitù in quanto
tale, ossia l’utilità che trae il fondo dominante (art. 1028 e 1029). L’utilità è la capacità della servitù
di soddisfare un bisogno durevole che inerisca in modo diretto ed oggettivo alla sostanza e alla
destinazione del fondo dominante. Il concetto appare talmente ampio da ricomprendere ogni
elemento che, secondo la valutazione sociale, sia legato da un nesso di strumentalità con la
destinazione del fondo dominante e si immedesimi nel godimento di questo, sicché la maggiore o
minore ampiezza del contenuto della servitù non intacca la sussistenza del suddetto requisito, il
quale sussiste sempre che il particolare vantaggio previsto e disciplinato dalle parti, in rapporto
all’obiettiva situazione dei fondi interessati, sia raggiungibile.
Illuminante è l’illustrazione al § 488 della relazione del Guardasigilli al codice civile:
“Sebbene non si tratti che di un’immagine, la quale raffigura l’aspetto economico del rapporto, più
che di una definizione rispondente al rigore del tecnicismo giuridico, ho preferito, per indicare il
contenuto del diritto di servitù, conservare nell’art. 1027 del c.c. la formula «peso imposto sopra
un fondo» dell’art. 531 del codice del 1865, anziché sostituire l’espressione «limitazione del
godimento di un fondo», proposta nel progetto dalla Commissione Reale (art. 182). In vero, la
parola «peso» esprime con maggiore immediatezza il carattere reale della servitù e soprattutto
pone in risalto il distacco delle vere e proprie servitù prediali dalle limitazioni della proprietà.
Dall’espressione «per uso e l’utilità», adoperata dal codice del 1865, ho eliminato l’accenno
all’uso, essendo il concetto dell’uso ricompreso in quello più ampio e generico dell’utilità. Questa,
come chiarisce l’art. 1028 del c.c., che traduce in formula legislativa un principio non controverso,
oltre che in un vantaggio strettamente economico, può consistere nella maggiore comodità o
amenità del fondo dominante. Aggiunge lo stesso art. 1028 che l’utilità può anche essere inerente
alla destinazione industriale del fondo. La possibilità di costituzione delle così dette servitù
industriali ha però, quale suo presupposto, che l’industria sia collegata al fondo dominante; che,
cioè, questo abbia per sua destinazione specifica di servire a una data industria, di guisa che la
servitù si traduca in un incremento dell’utilizzazione del fondo. Sarebbe infatti alterato lo schema
tradizionale delle servitù prediali se si consentisse di costituire una servitù a favore dì un’azienda
industriale indipendentemente dal legame dell’industria con un determinato immobile. Nell’art.
1029 del c.c. si risolve la questione sulla necessità, o meno dell’attualità dell’utilitas per la
costituzione di una servitù, ammettendosi che questa possa costituirsi per assicurare a un fondo un
vantaggio futuro. Si ammette inoltre la costituzione di una servitù a favore o a carico di un edificio
non ancora costruito o di un fondo da acquistare; ma in questi casi la costituzione non ha effetto se
non dal giorno in cui l’edificio è costruito o il fondo è acquistato”.
In epoca di concezione astratta della causa, come funzione economico-sociale, la nozione
concreta di utilità della servitù restava ben distinta da quella di causa del contratto da cui nasceva.
Oggi, invece, le due nozioni tendono a sovrapporsi, poiché l’interesse pratico dell’acquirente è
quello ad acquisire le utilità che il diritto reale offre, sicché la distinzione sembra poggiare sul dato
strutturale, piuttosto che su quello contenutistico: la causa investe l’intero negozio ed è
rappresentata dall’assetto globale di interessi, che si esprime in uno schema bilaterale (per lo più do
ut des); l’utilità attiene allo specifico interesse che l’acquirente intende soddisfare, aumentando le
potenzialità della sua proprietà immobiliare. Ne discende che il titolo costitutivo della servitù deve
contenere, oltre agli elementi identificativi della stessa (i fondi, il peso imposto sul fondo servente e
la sua estensione), anche la specificazione del vantaggio a favore del fondo dominante.
c) Usucapione e destinazione del padre di famiglia
L’art. 1061 prevede che “Le servitù non apparenti non possono acquistarsi per usucapione o
per destinazione del padre di famiglia. Non apparenti sono le servitù quando non si hanno opere
visibili e permanenti destinate al loro esercizio”.
Il requisito dell’apparenza della servitù si configura come presenza di segni visibili di opere
permanenti obiettivamente destinate al suo esercizio e rivelanti, in modo non equivoco, l’esistenza
del peso gravante sul fondo servente, così da rendere manifesto che non si tratta di attività compiuta
in via precaria, bensì di preciso onere a carattere stabile. La visibilità delle opere destinate
all’esercizio della servitù è un carattere che non sempre si presta ad esemplificazioni puramente
teoriche, ma che deve essere verificato caso per caso, nella realtà sociale specifica, nei costumi,
negli usi e nelle consuetudini propri d’un determinato luogo in un’epoca precisa. Un segno
esteriore, invero, può assumere rilevanza espressiva diversa in condizioni differenti di luogo, di
ambiente sociale, di tempo. La visibilità, poi, deve riferirsi alle opere nel loro insieme, come
inequivoca espressione di una precisa funzione e deve far capo ad un punto d’osservazione non
necessariamente coincidente col fondo servente. Essenziale è che, nel contesto sociale di
riferimento, siano obiettivamente manifeste, per chi possegga il fondo servente, le opere che
materialmente asserviscono il fondo medesimo a quello altrui.
In ragione di quanto precede, apparenti possono essere solo quelle affermative e il possesso
utile per l’usucapione decorrere dal giorno in cui il proprietario del fondo dominante, eseguite le
opere destinate alla loro attuazione, inizi ad esercitarle.
L’usucapione è un modo di acquisto originario della proprietà e dei diritti reali di godimento,
che opera ipso iure, senza che sia necessario l’accordo delle parti o una sentenza, dunque secondo lo
schema norma-fatto-effetto, dove il ‘fatto’ è costituito da due elementi, uno naturale (il tempo),
l’altro umano (il possesso), delineandosi dunque come una fattispecie mista, composta da un fatto e
da un atto giuridico non negoziale.
L’usucapione può essere accertata con sentenza o in sede di mediazione, in virtù del nuovo
l’art. 2643, comma 12bis), secondo cui sono trascrivibili “gli accordi di mediazione che accertano
l’usucapione con la sottoscrizione del processo verbale autenticata da un pubblico ufficiale a ciò
autorizzato”.
Questa disposizione ha sollevato numerosi e delicati problemi, sul piano sistematico, in tema
di tutela dei terzi nella circolazione dei beni immobili. Invero, a differenza degli effetti prodotti
dalla trascrizione della sentenza di accertamento di cui all’art. 2651 c.c. (che ha funzione di mera
pubblicità notizia), gli effetti della trascrizione degli atti elencati nell’art. 2643 c.c. – che riguardano
le vicende relative a beni immobili o a diritti reali immobiliari – sono espressamente disciplinati
dall’art. 2644 e dall’art. 2650 c.c., che regolano la soluzione dei conflitti tra più aventi causa dallo
stesso autore, alla luce del principio della continuità delle trascrizioni.
L’accordo conciliativo, in quanto atto di autonomia privata avente ad oggetto l’accertamento
dei presupposti su cui si fonda l’usucapione, produce effetti preclusivi, rispetto ai fatti accertati,
solo tra le parti e ai loro aventi causa ed è inopponibile ai terzi che vantino titoli trascritti o iscritti
anteriormente alla trascrizione dell’accordo stesso (si pensi all’acquirente da chi appare legittimo
proprietario in base alle risultanze dei registri immobiliari, al titolare di un diritto reale, al creditore
ipotecario e così via). Insomma, mentre alla sentenza dichiarativa consegue l’acquisto del diritto
reale a titolo originario, l’accordo di mediazione è assimilato a una acquisto a titolo derivativo. Il
che peraltro non significa che tale accordo sia produttivo di effetti traslativi: l’accordo accertativo
non ha come effetto l’acquisto per usucapione, ma produce esclusivamente l’effetto preclusivo circa
la sussistenza dei fatti che ne costituiscono il presupposto, i soli che rientrano nella sfera cognitiva e
dispositiva delle parti; l’acquisto del diritto è un effetto legale, che non può che derivare
dall’esercizio del possesso con le modalità e per la durata previste dalla legge. In altre parole,
l’acquisto per usucapione non può mai essere l’effetto di un’attività negoziale, ma è –
essenzialmente – effetto legale della fattispecie tipizzata dal legislatore. La verità è che la disciplina
della trascrizione dell’accordo di mediazione non è in linea con gli effetti sostanziali che
all’usucapione conseguono: l’effetto acquisitivo per usucapione, infatti, in assenza di
un’attribuzione patrimoniale, è intimamente incompatibile con quello traslativo, che è alla base
dell’acquisto derivativo.
L’usucapione delle servitù è data per il possesso ventennale (art. 1158) acquistato in modo
non violento e non clandestino (art. 1163 c.c.). Il requisito dell’apparenza è per sé solo idoneo a
escludere che il possesso si instauri in modo occulto. Il possesso è pacifico quando l’elemento
materiale (c.d. corpus) si è realizzato senza necessità di vincere con la forza l’opposizione altrui. Il
possesso deve essere, altresì, continuo. Non osta a tale requisito il carattere discontinuo della servitù
(es. servitù di passaggio), dovendosi ritenere che l’esercizio periodico di una servitù, se connaturato
al suo contenuto, e non ad atti di interruzione, non implichi perdita del possesso.
Fermo restando che il possesso di servitù è regolato dalla disciplina del possesso in generale,
cui si fa rinvio, esistono due disposizioni specifiche che lo riguardano.
L’art. 1065 c.c. prevede che “Colui che ha un diritto di servitù non può usarne se non a
norma del suo titolo o del suo possesso. Nel dubbio circa l’estensione e le modalità di esercizio, la
servitù deve ritenersi costituita in guisa da soddisfare il bisogno del fondo dominante col minor
aggravio del fondo servente”.
La norma detta i criteri di individuazione del contenuto della servitù, distinguendo tra quelle
in cui esiste un “titolo” formale (negozio o sentenza), e quelle acquistate in virtù del possesso,
chiarendo che per queste ultime esso è conforme al possesso, esplicitando un principio generale
dell’usucapione, secondo cui il diritto usucapito nasce con i tratti con cui è stato di fatto esercitato
nel tempo.
L’art. 1066 c.c. stabilisce che “Nelle questioni di possesso delle servitù si ha riguardo alla
pratica dell’anno antecedente e, se si tratta di servitù esercitate a intervalli maggiori di un anno, si
ha riguardo alla pratica dell’ultimo godimento”.
La norma si riferisce alle controversie aventi ad oggetto non il titolo costitutivo ma l’esercizio
della servitù, assumendo – attesa la variabilità del contenuto delle servitù – a criterio per la
determinazione della situazione possessoria tutelabile non il momento della presunta violazione, ma
la pratica dell’anno antecedente alla medesima, dovendo ricavarsi l’estensione e le modalità del
possesso dal modo in cui si è concretizzata la pratica annuale.
L’art. 1062 c.c. prevede che “La destinazione del padre di famiglia ha luogo quando consta
mediante qualunque genere di prova, che due fondi, attualmente divisi, sono stati posseduti dallo
stesso proprietario, e che questi ha posto o lasciato le cose nello stato dal quale risulta la servitù.
Se i due fondi cessarono di appartenere allo stesso proprietario, senza alcuna disposizione
relativa alla servitù, questa si intende stabilita attivamente e passivamente a favore e sopra
ciascuno dei fondi separati”.
La costituzione per destinazione del padre di famiglia, che si determina non in virtù di una
manifestazione di volontà negoziale ma per la presenza di opere visibili e permanenti destinate
all’esercizio della servitù e che siano rivelatrici dell’esistenza del peso gravante sul fondo servente,
richiede il concorso di due elementi: a) l’esistenza di due o più fondi appartenenti allo stesso
proprietario tra cui, con opere visibili, si sia costituito un rapporto obiettivo di servizio tale da
manifestare l’esistenza di una servitù se i due fondi o le due parti del fondo appartenessero a distinti
proprietari; b) la separazione dei due fondi o delle due parti del fondo per effetto di un atto di
alienazione volontario.
In presenza di tali elementi e in mancanza, all’atto dell’alienazione, di una volontà contraria,
la servitù si intende stabilita ipso iure e a titolo originario. La servitù, dunque, sembra nascere
secondo lo schema norma-fatto-effetto, essendo irrilevante qualsiasi stato psichico umano. È
sostenibile, tuttavia, che la destinazione del padre di famiglia sia un atto giuridico non negoziale,
atteso che la volontà del proprietario condiziona in negativo la sua nascita. La “disposizione relativa
alla servitù” che impedisce la nascita della servitù nonostante lo stato di fatto preesistente, non è
desumibile da fatti concludenti, ma deve rinvenirsi o in una clausola in cui si conviene
espressamente di volere escludere il sorgere della servitù corrispondente alla situazione di fatto
esistente tra i due fondi e determinata dal comportamento del comune proprietario, o in una
qualsiasi clausola il cui contenuto sia incompatibile con la volontà di lasciare integra e immutata la
situazione di fatto che, in forza della legge, determinerebbe il sorgere della corrispondente servitù,
convertendosi in una situazione di diritto o in una regolamentazione negoziale
2. Le servitù atipiche
I principi di tassatività (numero chiuso) e tipicità dei diritti reali1 costituiscono uno dei tratti di
fondo che caratterizzano il modello romanistico-continentale di proprietà. Infatti, con l’avvento
delle codificazioni prende corpo, per reazione al regime proprietario d’impronta feudale dell’antico
regime, un’operazione politico-culturale di grande impatto sul piano giuridico, con riguardo almeno
al continente europeo: all’insegna della nascente proprietà borghese, compattamente concentrata
nelle mani di un solo proprietario (persona fisica), si afferma un’idea paradigmatica di proprietà
1 Il primo principio esprime il divieto, per i privati, di creare altri diritti reali, rispetto a quello già espressamente
disciplinati dalla legge. Il secondo principio evidenzia come sia, di regola, precluso ai privati di modificare la disciplina
legale dei singoli diritti reali.
come forma di appartenenza individuale ed esclusiva, diversamente da quanto accade
nell’esperienza dei paesi di common law.
Nello spirito dei redattori dei codici ottocenteschi la previsione del numero chiuso e della
tipicità dei diritti costituiva il mezzo per:
1) affermare la teoria liberale della proprietà come espressione della signoria dell’individuo,
evitando di gravarla di pesi ulteriori rispetto a quelli espressamente disciplinati dalla legge;
2) tutelare i terzi dalla possibilità di moltiplicazione di situazioni a carattere reale e dei correlativi
doveri di astensione, fonte di incertezza e freno alla circolazione della ricchezza.
Nel codice civile vigente il fondamento normativo della tassatività dei diritti reali di
godimento è stato ricavato dall’art. 1372, comma 2 c.c. e dal principio di tipicità dei negozi
traslativi.
È ben noto che la concezione ottocentesca della proprietà attraversa da tempo una crisi
profonda, in particolare a seguito della progressiva dematerializzazione dell’oggetto della proprietà
e dell’emersione di nuovi diritti parziari. Nel loro complesso, tali fenomeni hanno condotto a far
registrare, con l’attenuazione del carattere assoluto della proprietà, una labilità dei confini tra la
proprietà e gli altri diritti reali e tra essi e i diritti personali, e anche una progressiva evanescenza di
quei motivi, ritenuti di ordine pubblico, che costituivano la principale ragion d’essere di un sistema
Il possibile riconoscimento di diritti reali atipici è stato coevo al riconoscimento di nuove
forme di proprietà privata, sia da parte del legislatore, che dell’autonomia privata, che hanno eroso
il dogma dell’assolutezza.
Sul piano legislativo la teoria degli statuti proprietari, costruiti sulle possibilità giuridica
dell’oggetto del diritto, e la conseguente considerazione per cui la struttura tipica della proprietà si
adatta alla tipologia dei beni e degli interessi che vi insistono, aprono le porte a nuove forma di
proprietà.
Alle tradizionali proprietà conformate – proprietà edilizia, proprietà rurale, proprietà dei beni
culturali ed ambientali, proprietà dei beni di consumo, proprietà intellettuale e industriale – si sono
aggiunte la proprietà tecnologica e la proprietà biologica (cellule staminali, embrioni umani). Su un
altre versante, la conformazione può avvenire incidendo sulla stessa forma del diritto, come nelle
ipotesi di proprietà a tempo2 e di proprietà destinata, già nota all’ordinamento civile in singole
ipotesi, e arricchita da istituti generali, quali il trust e i negozi di destinazione.
Per arginare la moltiplicazione negoziale dei diritti reali si sono evocati il principio di
solidarietà e la tutela del contraente debole dinanzi ai poteri economici.
La protezione del contraente debole, tuttavia, si realizza attraverso strumenti di controllo
dell’autonomia privata (art. 41, comma 2 Cost.), piuttosto che attraverso l’aprioristica limitazione di
negozi a effetti reali (art. 42 Cost.).
2 In ordine all’inquadramento della multiproprietà immobiliare si sono susseguite, almeno tre tesi: una prima per cui
rappresenterebbe un diritto reale atipico, ammissibile in quanto costituisce un istituto volto a soddisfare un interesse
meritevole di tutela e socialmente rilevante; una seconda in base alla quale altro non sarebbe se non una forma sui
generis di comunione; una terza e ultima secondo cui rientrerebbe nella proprietà esclusiva, delimitata – a differenza
della proprietà classica – anche nel tempo (cosiddetta bidimensionalità del bene: spaziale e pure temporale). A seguito
della riforma del Codice del Consumo, dove risiedono le principali norme di riferimento dell’istituto de quo, il richiamo
alla realità cede il passo a un più generico riferimento a un diritto di godimento su un alloggio (cfr. art. 69 cit.). Così
novellando, il legislatore sembra aver voluto sganciare la multiproprietà immobiliare da una collocazione spiccatamente
dominicale, orientandosi per una definizione più neutra che possa, ora, rimandare ai diritti reali (id est, sotto specie di
comunione e di condominio), ora, ai diritti personali di godimento e, in futuro, a schemi atipici forniti dalla prassi
commerciale
La giurisprudenza, pur riconoscendo l’ampia autonomia delle parti di dar vita a nuove forme
di godimento, continua a rimarcare la differenza dal punto di vista sostanziale e contenutistico, del
diritto reale d’uso e del diritto personale di godimento, che proprio in ragione della natura
obbligatoria e non reale del rapporto giuridico prodotto, può essere diversamente regolato dalle parti
nei suoi aspetti di sostanza e di contenuto. Sicché si ribadisce che: «Il principio di tipicità legale
necessaria dei diritti reali si traduce nella regola secondo cui i privati non possono creare figure
di diritti reali al di fuori di quelle previste dalla legge, né possono modificarne il regime. Ciò
comporta che i poteri che scaturiscono dal singolo diritto reale in favore del suo titolare sono
quelli determinati dalla legge e non possono essere validamente modificati dagli interessati»3.
Piuttosto che legittimare la categoria dei diritti reali atipici, si preferisce ridurre la distanza da
essi dei diritti personali, riconoscendo a questi prerogative caratteristiche dei diritti reali, come la
sequela, la tutela aquiliana, la trascrizione.
Fa eccezione proprio la materia delle servitù, dove, al contrario, si riconosce ai privati il
potere di creare servitù atipiche, purché rispettose dei tratti strutturali fissati dall’art. 1027.
Tale conclusione viene giustificata sulla base della mancata predeterminazione dell’utilità:
«Per l’esistenza di una servitù non rileva la natura del vantaggio previsto dal titolo ma il fatto che
esso sia concepito come qualitas fundi in virtù del rapporto, istituito convenzionalmente, di
strumentalità e di servizio tra gli immobili, in modo che l’incremento di utilizzazione che ne
consegue deve poter essere fruito da chiunque sia proprietario del fondo dominante, non essendo
imprescindibilmente legato ad un’attività personale del singolo beneficiario. Entro tali limiti,
qualunque utilità che non sia di carattere puramente soggettivo e che si concretizzi in un vantaggio
per il fondo dominante, in relazione alle caratteristiche e alla destinazione del diritto, può
assumere carattere di realità»4.
Le servitù atipiche sono diffuse in materia urbanistica5 ed edilizia6, e tra queste proprio le
servitù sulle distanze.
3 Cass., sez. II, 26 febbraio 2008, n. 5034 4 Cass, sez. II, 18 marzo 2019, n. 7561, pres. Orilia. 5 Ad esempio, convenzioni di lottizzazione di aree edificabili nelle quali i lottizzanti ricercano strumenti diretti a:
a) limitare e regolare le future costruzioni, anche nei confronti degli ulteriori aventi causa, oscillanti tra le figure delle
obbligazioni e degli oneri reali e quella delle servitù reciproche;
b) imporre, a carico degli attuali e dei futuri proprietari dei lotti, un obbligo, di piantare e mantenere determinati alberi,
attraverso lo schema della servitus amoenitatis causa o vincoli di non edificabilità sulla residua superficie non edificata;
c) regolare le distanze tra i vari edifici facenti parte del complesso lottizzato. 6 Se il regolamento è di natura contrattuale, esso potrà contenere limitazioni alle facoltà d’uso delle singole unità
immobiliari (in deroga al 1138, comma 4, secondo cui il regolamento non può menomare i diritti di ciascun
condomino). Gli obblighi possono avere il più vario contenuto, quale quello di non costruire che a una certa distanza dai
confini o solo in una certa frazione dell’intero «lotto», di destinare parte dell’area a «verde» ovverosia a zona alberata o
privata, di costruire e mantenere strade e marciapiedi privati, di destinare l’edificio (o l’appartamento) esclusivamente a
uso di abitazione ovvero di non destinarlo a certi usi, ecc.
Le limitazioni all’uso delle proprietà immobiliari possono essere fatte in due modi: a) elencando esplicitamente gli usi
non consentiti; b) facendo riferimento ai pregiudizi che un determinato uso può causare. Nel primo caso, il divieto è
espresso a priori, quindi l’utilizzo ipotizzato non potrà essere fatto, se corrispondente ad uno di quelli vietati. Ad
esempio, il regolamento (contrattuale) che vieta di adibire i locali commerciali posti al piano terra dell’edificio ad
attività ristorative. In tal caso, fatta salva l’ipotesi di una deroga concessa (con l’unanimità dei consensi dei condòmini)
dall’assemblea, il proprietario non potrà né direttamente, né indirettamente (es. concedendo in affitto l’unità
immobiliare) destinare il proprio locale a pizzeria, ristorante, trattoria ecc. Nel secondo caso bisognerà sempre valutare
in concreto l’effettiva lesione degli interessi protetti. Per esempio, si potrà dire che sono vietate tutte le attività che
possano recare disturbo alla tranquillità, alla serenità, al riposo delle persone o che comportino odori sgradevoli. In
questo caso, è evidente, che poche attività, quanto meno a priori, possano dirsi lesive di questi interessi.
La giurisprudenza si sofferma in particolare sulle clausole d’uso inserite nei regolamenti
condominiali di natura contrattuale, qualificandole come servitù, in considerazione della circostanza
che il peso imposto sulla res è funzionalizzato all’utilità reciproca, collegata a quella delle altre
unità immobiliari o al godimento delle parti in comune: «La previsione contenuta in un
regolamento condominiale convenzionale di limiti alla destinazione delle proprietà esclusive,
incidendo non sull’estensione ma sull’esercizio del diritto di ciascun condomino, deve essere
ricondotta alla categoria delle servitù atipiche, e non delle obligationes propter rem, non
configurandosi in tal caso il presupposto del dovere di agire nel soddisfacimento d’un
corrispondente interesse creditorio. Pertanto, l’opponibilità ai terzi acquirenti di tali limiti va
regolata secondo le norme proprie della servitù, e dunque avendo riguardo alla trascrizione del
relativo peso, indicando nella nota di trascrizione, ai sensi dell’articolo 2659, comma 1, n. 2, del
Cc e dell’articolo 2665 del Cc, le specifiche clausole limitative, non essendo invece sufficiente il
generico rinvio al regolamento condominiale»7.
3. La servitù di mantenere una costruzione a distanza illegale da altra costruzione o dal
confine.
Il quesito che la traccia pone si riconosce dal termine “mantenere”, che individua la servitù
oggetto di specifica trattazione: riferendosi a una costruzione già esistente, lascia intendere che la
servitù in esame interviene a stabilizzare una situazione di fatto il cui contenuto è analogo a quella
del diritto nascente (l’esistenza di una costruzione a distanza inferiore da quella legale). Ciò implica
che il modo di acquisito della servitù che viene principalmente in rilievo, oltre al contratto, è
l’usucapione. Il tema va affrontato partendo dalla derogabilità o meno della disciplina delle distanze
tra costruzioni (art. 873 c.c.): in primo luogo per inquadrare la deroga nello schema della servitù
prediale; in secondo luogo per valutare l’ammissibilità di una servitù volontaria; infine per
valutarne l’ammissibilità di una servitù per usucapione. Qualora si ritenesse la disciplina delle
distanze inderogabile, il contratto costitutivo di servitù sarebbe nullo per violazione di norma
imperativa e la servitù non nascerebbe, ma la stessa conclusione non sarebbe scontata per
l’usucapione. Le questioni sono state esaminate insieme dalla sentenza n. 4240/2010 della Corte di
cassazione, cui si è uniformata la giurisprudenza successiva, di seguito trascritta.
La questione che viene ora posta alla Corte è tra le più controverse.
E’ noto che nel tempo si sono contrapposte tesi dottrinarie favorevoli alla derogabilità delle
distanze previste dal codice civile o dai Regolamenti e opinioni del tutto contrastanti. La giurisprudenza
ha manifestato nel tempo analoghe divergenze. Giova evidenziare che da molto tempo si afferma che le
disposizioni contenute nei regolamenti comunali edilizi, essendo dettate essenzialmente nell’interesse
generale, a differenza di quelle contenute nel codice civile, trascendono l’interesse meramente
privatistico e non tollerano deroghe convenzionali, le quali, se stipulate, sono invalide anche nei
rapporti interni fra proprietari confinanti. A questi ultimi è consentito soltanto, nel rispetto delle
distanze fra le costruzioni, di accordarsi sulla ripartizione del relativo obbligo (tra le tante: Cass.
6512/80; n. 287/80; 5711/87; 8260/90; 12984/99; n. 237/00; 2117/04; 6170/05). Aderendo al
suggerimento dottrinario secondo il quale dalla soluzione data al problema della derogabilità delle
distanze legali tra edifici dipende la possibilità o meno di far sorgere per usucapione la servitù contraria
7 Cass. sez. II, 18 ottobre 2016, n. 21024 (est. Orilia).
alla distanza legale, la giurisprudenza è pervenuta all’affermazione che deve ritenersi inammissibile
l’acquisto per usucapione di una servitù avente ad oggetto il mantenimento di una costruzione a
distanza inferiore a quella fissata dalle norme inderogabili degli strumenti urbanistici locali, non
potendo l’ordinamento accordare tutela ad una situazione che, attraverso l’inerzia del vicino, determina
l’aggiramento dell’interesse pubblico cui sono prevalentemente dirette le disposizioni violate (Cass.
20769/07). Nel contempo però si continua a stabilire che le norme sulle distanze di cui all’art. 873 c.c.,
dettate a tutela di reciproci diritti soggettivi dei singoli e miranti unicamente ad evitare la creazione di
intercapedini antigieniche e pericolose, sono derogabili mediante convenzione tra privati (Cass.
12966/06) e a riconoscere che nell’ipotesi di alienazione di un immobile realizzato in violazione delle
prescrizioni di cui all’art. 873 cod. civ., il successore a titolo particolare può invocare l’acquisto per
usucapione del diritto (servitù) di mantenerlo a distanza inferiore a quella legale (eventualmente
unendo, in virtù del principio dell’accessione di cui all’art. 1146 cod. civ., comma 2, al proprio possesso
quello del suo dante causa, così Cass. 11131/06; v. anche Cass. 3699/93).
L’ammissibilità di una servitù contraria al rispetto delle distanze legali scaturisce inoltre da quella
giurisprudenza che, nel predicare che “l’actio negatoria servitutis” è azione imprescrittibile”, fa salvi gli
effetti dell’intervenuta usucapione (Cass. 864/00; 867/00; 12241/02) la quale pertanto, si è detto anche
di recente, dà luogo all’acquisto del diritto a mantenere la costruzione a distanza inferiore a quella legale
(Cass. 19289/09).
I risultati ondivaghi cui sono pervenute dottrina e giurisprudenza oggi prevalenti non sono
appaganti. E’ stato già rilevato in dottrina quanto sia illogico ammettere la derogabilità della distanza
minore, di tre metri, prevista dal codice civile, permettendo così il formarsi di intercapedini dannose per
la salute e vietare invece la derogabilità, anche mediante servitù costituita per usucapione, di distanze
maggiori. Ciò avviene sebbene la prescrittività delle norme regolamentari, riconducibili anch’esse alla
categoria delle limitazioni legali alla proprietà, derivi dall’essere integrative della norma del codice civile.
Sembra quindi paradossale che interessi più pregnanti (il rispetto della distanza di tre metri fissato dal
codice) siano per questa via meno difesi rispetto all’interesse a un più armonico e ordinato disegno
urbanistico, che presidia le maggiori distanze di fonte regolamentare, ritenute non assoggettabili a
servitù costituita per usucapione.
Il carattere di tutela di interessi generali che si attribuisce a queste ultime risulta ampliato, nella
sfera dei rapporti privati, da una serie di opinabili considerazioni. In primo luogo si afferma che la
inammissibilità di una servitù contraria alla distanza legale dipende dalla inammissibilità di deroga
convenzionale della normativa sulle distanze. L’affermazione non convince, perchè trascura il ruolo che
ha l’usucapione nei rapporti tra i privati e induce ad affidare ai privati, quali destinatari delle disposizioni
sulle distanze, compiti impropri di vigilanza pubblica.
Correttamente è stato svelato che la distinzione tra derogabilità delle distanze codicistiche e
inderogabilità di quelle regolamentari deriva da una malintesa concezione che liquida il codice civile
come regolatore dei rapporti tra privati e mette le norme regolamentari sul piano della disciplina di
interessi generali, maggiormente cogenti. Superata questa visione, va ricordato che rispetto al progetto
del codice civile è stato soppresso l’art. 62, che prevedeva la non riducibilità delle distanze stabilite dal
codice o dai regolamenti locali “neppure per convenzione tra i vicini”.
Ci si deve allora chiedere, anche in relazione a questa mancata previsione normativa, se vi sia
differenza tra contraddire le regole sulle distanze con accordi tra privati e il riconoscere la possibilità
che per usucapione sorga una servitù in contrasto con la normativa generale. La differenza c’è e può
essere letta su due piani: il primo concerne il meccanismo dell’acquisto dei diritti in forza del decorso
del tempo; il secondo attiene al ruolo che si assegna al rapporto tra privato e pubblica amministrazione
nella difesa delle prescrizioni di rilievo pubblicistico. La usucapibilità del diritto a tenere un immobile a
distanza inferiore da quella legale non equivale alla stipula pattizia di una deroga in tal senso, perchè
risponde all’esigenza ulteriore della stabilità dei rapporti giuridici in relazione al decorso del tempo. Se
dalla norma codicistica o da quella integrativa discende, come comunemente si afferma, il diritto
soggettivo del vicino di pretendere che il confinante edifichi a distanza non inferiore a quella prevista, si
deve ammettere, ove anche si consideri vietata la deroga convenzionale, che l’avvenuta edificazione
(con opere quindi permanenti e visibili), mantenuta con i requisiti di legge per oltre venti anni, dia luogo
al verificarsi dell’usucapione, da parte del confinante, del diritto a mantenere l’immobile a distanza
inferiore a quella legale.
Se così non fosse, si dovrebbe ammettere l’esistenza, nei rapporti tra privati, di una perpetua
instabilità, con la possibilità del vicino di agire in ogni tempo per il rispetto delle distanze. Ciò, si badi,
non si verifica neppure in relazione al diritto di proprietà (cui accede il diritto al rispetto delle distanze),
che può essere usucapito, benché il codice dichiari imprescrittibile la proprietà. E’ stata spiegata da
tempo, a proposito della proprietà, la dissociazione tra effetto estintivo ed effetto acquisitivo in
relazione al decorso del tempo: allo stesso modo opera l’usucapione in relazione al diritto del
confinante di usucapire (nei confronti del vicino) il diritto a mantenere il proprio fabbricato a distanza
inferiore a quella legale.
Per questa via si fa rientrare nella sfera della ordinaria disciplina civilistica il rapporto tra i privati,
senza che ciò infici le facoltà della pubblica amministrazione.
Resta così salva la disciplina pubblicistica e l’osservanza degli standard di qualsivoglia natura che il
legislatore o l’amministrazione abbiano fissato, anche alla stregua, eventualmente, di normativa di fonte
sovranazionale. Ciò che viene meno è la facoltà del singolo di far valere il proprio diritto soggettivo,
attribuitogli in conseguenza della disposizione rispondente all’interesse generale, ma senza assunzione di
un potere privato confondibile con quello dell’amministrazione. Entrambi i soggetti possono
concorrere alla tutela dell’interesse fissato dall’ordinamento, ma ferma rimane la distinzione dei caratteri
tra potere privato e potere pubblico, ciascuno contraddistinto dai limiti generali della categoria cui
appartiene. Ciò giustifica anche il diverso trattamento da riservare da un lato agli accordi di deroga e
dall’altro al meccanismo dell’usucapione; ove quest’ultima operi, resta alla sola P.A. il potere (pubblico)
di agire per conformare la proprietà al modo previsto dal legislatore. Non sono di ostacolo a questa
concezione le possibili frodi prospettate dalla giurisprudenza: si tratta di un inconveniente (dipendente
comunque da un congegno macchinoso e precario) che non giustifica un inquadramento incoerente dei
principi vigenti sui modi di acquisto dei diritti reali e sulla disciplina dei limiti legali della proprietà.
Tantomeno questo inconveniente vale a giustificare la illogica dicotomia tra tutela delle distanze di
fonte codicistica e di fonte regolamentare. Non sarebbero neppure configurabili le temibili diseconomie
esterne (conseguenze negative sul piano della salute e dell’ambiente) che gli studiosi di analisi
economica del diritto rinvengono nella deroga pattizia alle distanze. Altro è infatti incidere sui poteri
pubblici, o consentire una generalizzata derogabilità, il che può cagionare effetti lesivi permanenti
dell’interesse generale tutelato; altro è ammettere che operi il fenomeno dell’usucapione. Esso vale
soltanto a riportare il meccanismo di contemperamento dei diritti soggettivi nell’alveo ordinario
previsto dal legislatore, escludendo la sussistenza, nel circoscritto ambito della proprietà immobiliare, di
diritti soggettivi a tutela rafforzata.
La suprema Corte:
- dà per scontato che la deroga alla disciplina delle distanze tra costruzioni sia compatibile con lo
schema della servitù prediale, posto che essa si sostanzia in un peso imposta al fondo che subisce la
minore distanza per il vantaggio dell’altro fondo, che viene edificato su una porzione maggiore di
quella consentita;
- ritiene che la disciplina sulle distanze sia inderogabile sia nell’ipotesi di fonte regolamentare, sia
nell’ipotesi in cui trovi applicazione diretta l’art. 873, evidenziando l’assurdità della conclusione
secondo cui le norme dettate nei regolamenti edilizi o in altre fonti urbanistiche avrebbero una
rilevanza per l’interesse generale maggiore della fonte primaria, che è norma principale della
materia;
- ritiene che l’inderogabilità non impedisca la costituzione della servitù per usucapione, trattandosi
di fattispecie concettualmente diversa rispetto a quella negoziale e restando salvi i poteri
amministrativi.
La conclusione è convincente, perché – pur senza esplicitarlo – si fonda sulla diversità della
struttura logica delle due fattispecie costitutive: norma-potere-effetto e norma-fatto-effetto.
L’inderogabilità tecnicamente è riferibile alla prima, non alla seconda. Inoltre occorre considerare la
forza del tempo, dimensione del mondo fisico in grado di flettere le categorie normative.
Al fine della determinazione del dies a quo per l’usucapione si deve fare riferimento al
momento nel quale la costruzione è venuta ad esistenza, mercé la realizzazione degli elementi
strutturali ed essenziali, idonei a rivelare anche al titolare del fondo servente l’esistenza di uno stato
di fatto coincidente con l’esercizio della servitù.
Non resta da esaminare che il riferimento della traccia alla “distanza dal confine”, di
significato non immediatamente comprensibile, atteso che il codice civile non fissa alcuna
prescrizione di distanze dal confine, sicché esse sono calcolate in base alla distanza esistente tra le
costruzioni. I problemi si pongono quando uno dei proprietari confinanti costruisca sul confine o a
distanza pari o inferiore alla metà della distanza legale tra le costruzioni, così impedendo all’altro di
edificare su una porzione del suo fondo corrispondente a quella necessaria per avere una distanza
legale dalla costruzione del vicino. Il codice civile si ispira, infatti, al principio della prevenzione
temporale, secondo cui il proprietario che costruisce per primo determina, in concreto, le distanze
da osservare per le altre costruzioni da erigersi sui fondi vicini.
Al preveniente, invero, è offerta la triplice facoltà di edificare:
a) rispettando una distanza dal confine pari alla metà di quella imposta dal codice;
b) sul confine;
c) ad una distanza dal confine inferiore alla metà di quella prescritta.
A fronte della scelta operata dal preveniente, il vicino che costruisce successivamente:
a) deve costruire anch’esso ad una distanza dal confine pari alla metà di quella prevista, in modo da
rispettare il prescritto distacco legale dalla preesistente costruzione;
b) chiedere la comunione forzosa del muro sul confine (art. 874 c.c.) o realizzare la propria fabbrica
in aderenza allo stesso (art. 877 c.c., comma 1); ove non intenda costruire sul confine, è tenuto ad
arretrare il suo edificio in misura pari all'intero distacco legale;
c) chiedere la comunione forzosa del muro e avanzare la propria fabbrica fino ad esso, occupando lo
spazio intermedio, dopo avere interpellato il proprietario se preferisca estendere il muro a confine o
procedere alla sua demolizione (art. 875 c.c.); in alternativa, può costruire in aderenza (art. 877 c.c.,
comma 2) o rispettando il distacco legale dalla costruzione del preveniente.
L’applicabilità di tale disciplina va coordinata con quanto previsto nei regolamenti locali, i
quali possono aumentare le distanze tra le costruzioni o stabiliscano una distanza minima dal
confine.
La questione è stata risolta dalla Sezioni Unite, distinguendo le due ipotesi: «Le norme dei
regolamenti edilizi che fissano le distanze tra le costruzioni in misura diversa da quelle stabilite dal
codice civile, infatti, in virtù del rinvio contenuto nell'art. 873 c.c., hanno portata integrativa delle
disposizioni dettate in materia dal codice civile; e tale portata non si esaurisce nella sola deroga
alle distanze minime previste dal codice, ma si estende all'intero impianto di regole e principi dallo
stesso dettato per disciplinare la materia, compreso il meccanismo della prevenzione, che i
regolamenti locali possono eventualmente escludere, prescrivendo una distanza minima delle
costruzioni dal confine o negando espressamente la facoltà di costruire in appoggio o in aderenza.
Ne discende che un regolamento locale che si limiti a stabilire una distanza tra le costruzioni
superiore a quella prevista dal codice civile, senza imporre un distacco minimo delle costruzioni
dal confine, non incide sul principio della prevenzione, come disciplinato dal codice civile, e non
preclude, quindi, al preveniente la possibilità di costruire sul confine o a distanza dal confine
inferiore alla metà di quella prescritta tra le costruzioni, né al prevenuto la corrispondente facoltà
di costruire in appoggio o in aderenza»8.
4. L’ammissibilità della medesima servitù in ipotesi di costruzione abusiva
Ammessa l’usucapione come modo di acquisto del diritto di mantenere una costruzione a
distanza inferiore a quella legale, l’ultimo quesito è se tale conclusione operi anche nell’ipotesi in
cui l’immobile sia abusivo, perché realizzato senza permesso di costruire o in sanatoria.
La tesi negatrice poggia sulla teoria della ‘contaminazione’, per cui l’illiceità della
costruzione impedisce il verificarsi dell’usucapione di servitù a suo vantaggio, poiché il potere
sanzionatorio in materia edilizia non si estingue con il decorso del tempo9.
Prevale la soluzione positiva, sull’argomento che la disciplina pubblicistica non interferisce
con quella privatistica: «il difetto di concessione edilizia della costruzione esula dal giudizio che
attiene al rispetto della disciplina delle distanze la cui disposizioni attengono alla tutela del diritto
soggettivo del privato e, d’altra parte, tale diritto non subisce alcuna compressione per il rilascio
della concessione stessa, trattandosi di provvedimento amministrativo che esaurisce la sua
rilevanza nell’ambito del rapporto pubblicistico tra l’amministrazione ed il privato che ha
realizzato la costruzione»10.
L’argomento appare semplicistico, come si evince dall’art. 46, comma 1 T.U. edilizia,
secondo cui “Gli atti tra vivi, sia in forma pubblica, sia in forma privata, aventi per oggetto
trasferimento o costituzione o scioglimento della comunione di diritti reali, relativi ad edifici, o
loro parti, la cui costruzione è iniziata dopo il 17 marzo 1985, sono nulli e non possono essere
stipulati ove da essi non risultino, per dichiarazione dell’alienante, gli estremi del permesso di
costruire o del permesso in sanatoria. Tali disposizioni non si applicano agli atti costitutivi,
modificativi o estintivi di diritti reali di garanzia o di servitù”.
Appare essenziale, allora, comprendere la ratio e l’ambito di applicazione della disposizione.
8 Cass. sez. un. 19 maggio 2016, n. 10318. 9 Cons. Stato AP n. 9 del 2017. 10 Cass. sez II, 18 febbraio 2013, n. 3979.
Nella giurisprudenza di legittimità si erano formati due distinti orientamenti sulla natura da
attribuire a questa nullità.
Secondo un orientamento formale, la nullità avrebbe operato solo nel caso in cui nell’atto di
trasferimento non vi fosse stata alcuna menzione del titolo edilizio abitativo, in quanto la nullità
dell’art. 46, comma 1, del Testo unico dell’edilizia era da ricondursi alla famiglia delle nullità
testuali, di cui all’art. 1418, comma 3, del codice civile.
Vi era poi un orientamento sostanziale, secondo cui la nullità dell’atto di trasferimento
avrebbe operato non soltanto in caso di omessa indicazione del titolo edilizia, ma anche nel caso in
cui l’immobile trasferito fosse difforme dai titoli abilitativi. Secondo tale orientamento, la nullità
contenuta nell’art. 46, comma 1, del Testo unico dell’edilizia rappresentava una nullità virtuale, di
cui all’art. 1418, comma 1, del codice civile, quindi l’atto di trasferimento sarebbe stato nullo per
violazione di disposizioni imperative, quali per l’appunto quelle urbanistiche.
Chiamata a risolvere il contrasto tra i predetti orientamenti, la Corte di cassazione a sezioni
Unite ha affermato che «la nullità comminata dall’articolo 46 del D.P.R. 380/2001 e dagli articoli
17 e 40 della legge 47/1985 va ricondotta nell’ambito della nullità testuale del comma 3
dell’articolo 1418 del Cc. Viene in rilievo, pertanto, un’unica fattispecie di nullità che colpisce gli
atti tra vivi ad effetti reali elencati nelle norme che la prevedono, volta a sanzionare la mancata
inclusione in detti atti degli estremi del titolo abilitativo dell’immobile, titolo che, tuttavia, deve
esistere realmente e deve essere riferibile, proprio, a quell’immobile»11.
In presenza della dichiarazione dell’alienante in ordine agli estremi del titolo edilizio, il
contratto è valido anche se la costruzione è difforme dal titolo.
Due i principali argomenti su cui è poggiata la decisione delle Sezioni Unite.
Il primo argomento è di tipo letterale. Sebbene apprezzabile negli intenti, l’interpretazione
sostanziale non trova riscontro testuale nell’art. 46 del Testo unico dell’edilizia, il quale stabilisce la
nullità esclusivamente per l’assenza della dichiarazione dell’alienante relativa al permesso di
costruire e, d’altro canto, la Cassazione ha in più casi sottolineato che le disposizioni che prevedono
la nullità degli atti devono essere considerate di stretta interpretazione, in quanto limitano
l’autonomia privata e la libera circolazione dei beni.
Il secondo argomento contesta invece l’assunto che l’art. 46 del Testo unico dell’edilizia sia
stato posto a tutela delle disposizioni edilizie e urbanistiche. Se così fosse, la nullità sarebbe stata
prevista per tutti gli atti di trasferimento, mentre la norma non si applica agli atti di acquisto mortis
causa e agli atti costitutivi di diritti reali di garanzia o di servitù (e, ai sensi del comma 5, neppure
agli acquisti a seguito di procedure esecutive o concorsuali).
Ciò ha portato le Sezioni Unite a considerare che l’indicazione degli estremi dei titoli non sia
un requisito di validità dell’atto di trasferimento, quanto piuttosto un presidio informativo per
l’acquirente, precisando che la nullità opererà sia in caso di omessa indicazione degli estremi dei
titoli edilizi sia in caso di indicazione mendace. Se infatti il venditore fornisce all’acquirente tutte le
informazioni relative all’immobile, l’acquirente sarà posto nelle condizioni di appurare la regolarità
edilizia e urbanistica del bene.
A conferma dell’operatività della nullità anche in caso di dichiarazione mendace, le Sezioni
Unite hanno sottolineato come la convalida dell’atto di trasferimento prevista dall’art. 46, comma 4,
del Testo unico dell’edilizia è possibile solo nel caso in cui la mancata menzione non sia dipesa
dalla insussistenza del titolo edilizio al momento della stipula dell’atto di trasferimento. Ciò
11 Cass. sez. un. 8230/19.
significa che ai fini della convalida il titolo abilitativo deve esistere e deve riferirsi esattamente a
quell’immobile: l’ipotesi assenza del titolo edilizio non può ricevere una disciplina più favorevole
rispetto a quella di titolo edilizio presente, ma non menzionato nel contratto.
Se invece l’immobile è difforme rispetto al permesso di costruire la sanzione non può essere
la nullità dell’atto di trasferimento: l’interesse pubblico a un ordinato assetto del territorio è
garantito dalle sanzioni amministrative (compresa la demolizione e l’acquisizione gratuita al
patrimonio comunale) e, nei casi più gravi, dalle sanzioni penali previste dall’ordinamento. Le
ragioni dell’acquirente potranno quindi essere tutelate tramite i rimedi civilistici.
Dunque la servitù può essere validamente costituita dai privati anche se l’immobile che se ne
avvantaggia è abusivo, il che non toglie che la servitù di mantenere la costruzione a distanza illegale
non sia ammissibile, per l’ovvia ragione che la mancata comminatoria di nullità per le servitù su
edifici privi del permesso di costruire non può legittimare la violazione della disciplina sulle
distanze (se il contratto costitutivo della servitù di mantenere una costruzione a distanza illegale è
nullo, tale resta se ha per oggetto un immobile abusivo).
La conclusione può apparire contraddittoria, ma è giustificata dalla diversa funzione cui
assolvono il permesso di costruire e la disciplina sulle distanze, nonché dalla circostanza che la
violazione della disciplina sulle distanze attiene direttamente alla servitù, mentre la violazione della
disciplina sui titoli edilizi attiene al bene su cui la servitù è costituita.
Con riferimento, invece, alla servitù costituita per usucapione, la stessa resta ammissibile
anche se relativa a costruzioni abusive, poiché, oltre all’art. 46 T.U. edilizia, vi è da osservare che
l’illiceità della costruzione non elide alcuno degli elementi della fattispecie acquisitiva, ossia il
tempo e il possesso.
Il diritto di servitù consistente nel mantenimento di una costruzione a distanza inferiore di
quella legale può essere costituito anche per destinazione del padre di famiglia.
DIRITTO PENALE
«La responsabilità dell’incaricato alla riscossione di un credito di un terzo mediante violenza
o minaccia».
Il tema verte sulle molteplici qualificazioni giuridiche dell’esattore con metodi illegali di un
credito appartenente a un terzo, che lo ha incaricato si svolgere tale attività (la formulazione della
traccia riferisce la violenza e la minaccia alle modalità con cui eseguire l’incarico, non alle modalità
con cui l’incarico viene affidato, anche se un cenno a questa ipotesi non sarebbe ultroneo).
È un problema di tipo casistico, che presenta una discreta densità concettuale, perché, pur
attenendo ai singoli reati, interessa quattro istituti di parte generale: tipicità, concorso di persone,
concorso apparente di norme (ne bis in idem), rapporto tra diritto civile e penale.
L’ordine logico di trattazione è orizzontale:
1. Inquadramento dell’incarico alla riscossione di un credito mediante violenza o minaccia.
2. Raffronto tra esercizio arbitrario delle proprie ragioni ed estorsione.
3. La responsabilità dell’incaricato in ipotesi di credito lecito.
4. La responsabilità dell’incaricato in ipotesi di credito illecito o inesistente.
1. Inquadramento dell’incarico alla riscossione di un credito mediante violenza o minaccia
L’incarico alla riscossione del credito è un mandato avente ad oggetto il compimento di un
atto giuridico non negoziale (la ricezione del pagamento), normalmente accompagnato da una
procura, affinché il pagamento eseguito al mandatario, in virtù della rappresentanza, determini
l’estinzione del debito. Il mandato in rem propriam (nell’interesse del mandatario), anche se
irrevocabile, non ha efficacia traslativa del credito e resta attratto alla tipicità del mandato, ma non
può essere estinto per revoca, morte o incapacità del mandante.
I riflessi della natura civilistica del mandato sulla qualificazione penalistica della condotta del
mandatario devono essere valutati alla luce della c.d. concezione intermedia del rapporto tra i due
ordinamenti, secondo cui il diritto penale, pur recependole, adatta le categorie civilistiche ai propri
principi.
Assumendo come modello l’ipotesi più lineare, di mandato conferito in nome e per conto
proprio da un privato12 a un terzo per la riscossione di un credito lecito, con la direttiva di operare la
riscossione coattivamente, ossia con l’uso di violenza o minaccia, l’inquadramento penalistico è
quello del concorso di persone nel reato, in cui il mandante realizza un’istigazione a commettere il
reato (art. 115 c.p.), l’incaricato agisce quale autore materiale del reato.
Alla luce della concezione monista del concorso di persone, accolta nel nostro ordinamento
(art. 110 c.p.), i concorrenti rispondono del medesimo reato. La regola opera in modo assoluto,
‘parificando’ le diverse condotte dei concorrenti, solo se il fatto è il medesimo, altrimenti entrano
in gioco le norme che regolano il concorso differenziato, dirette a contemperare il vincolo
concorsuale che unifica le condotte con la diversità fenomenica della partecipazione dei singoli
12 Il ricorso alla forza illegale per la riscossione dei crediti pubblici (di cui sono titolari lo Stato o enti pubblici, trovino
origine da rapporti di diritto privato come di diritto pubblico) appare un’ipotesi remota, anche se non escludibile del
tutto, specie quando l’esattore sia un privato investito di pubbliche funzioni. Ciò perché l’agente pubblico dispone di
mezzi autoritativi, che gli permettono di conseguire il credito coattivamente, senza ricorrere a violenza o minaccia.
dall’altro, disciplinando le situazioni che riguardano uno solo o alcuni di essi e la loro rilevanza
rispetto agli altri concorrenti.
Nel caso in esame il problema si pone perché il mandante e l’esecutore non si trovano nella
stessa posizione: solo il primo è titolare del credito riscosso dal secondo. Questa differenza è
rilevante, poiché la titolarità del credito è requisito dei reati di cui agli art. 392 e 393 c.p., meno
gravi rispetto a quelli configurabili in capo a chi agisce illegalmente per conseguire una somma di
denaro che non gli spetta.
Questo impone di valutare la responsabilità dell’incaricato considerando sia l’estensibilità
della posizione giuridica del mandante, sia no.
Allora, l’ambito della responsabilità ipotizzabile in capo all’incaricato è piuttosto ampia,
comprendendo tutti i reati di violenza e minaccia finalizzati ad ottenere qualcosa e, in particolare,
una somma di denaro.
Realisticamente (sorvolando su ipotesi marginali) nei confronti dell’incaricato potrebbero
configurarsi i reati di:
- violenza privata (art. 610 c.p.);
- esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza sulle cose ovvero con violenza alle persone
(art. 392 e 393 c.p.);
- estorsione (art. 629 c.p.);
- concussione (art. 317 c.p.), qualora l’esattore sia un pubblico ufficiale o incaricato di pubblico
servizio che abusi del potere o delle qualità per ottenere il pagamento del credito13;
- furto aggravato (art. 625, n. 2 c.p.), qualora l’incaricato si impossessi del denaro direttamente,
usando violenza sulle cose ;
- rapina (art. 628 c.p.), qualora l’incaricato si impossessi del denaro direttamente (o con la
collaborazione di vittima in stato di costrizione assoluta), usando violenza sulle persone o minaccia;
- sequestro di persona a scopo di rapina o di estorsione (art. 630 c.p.), qualora l’incaricato privi di
libertà il debitore allo scopo di ottenere il pagamento del credito;
- danneggiamento con violenza alle persone o minaccia (art. 635, comma 1 c.p.), qualora
l’incaricato distrugga o danneggi i beni del debitore, esercitando violenza o minaccia su di lui, al
fine di indurlo al pagamento;
- persecuzione (art. 612-bis c.p.), quando l’incaricato assilli il debitore, minacciandolo
reiteratamente, in modo da procurargli un grave e perdurante stato di ansia e di paura, e indurlo a un
pagamento ‘liberatorio’ dalla pressione persecutoria.
A queste possono aggiungersi le ipotesi in cui l’incaricato esegua la violenza o la minaccia su
persona diversa dal debitore, sia pure al fine di ottenere l’adempimento del credito, nel qual caso
non potrebbe venire in rilievo – qualunque tesi si voglia seguire – il reato di esercizio arbitrario
delle proprie ragioni.
In un elaborato concorsuale, con 8h di tempo a disposizione, si può rinunciare senza patemi a
tutte le ipotesi diverse da quelle più attinenti alla traccia, ossia le prime tre dell’elenco. Le altre
sarebbe già lodevole averle individuate.
Si intuisce, peraltro, come la pluralità dei reati configurabili possa generare molteplici ipotesi
di concorso di norme.
Venendo, dunque, ai reati di violenza privata, esercizio arbitrario delle proprie ragioni ed
estorsione, occorre premettere che il primo non troverà applicazione, prevalendo le altre due figure
13 Sempre che si tratti di crediti di privati, altrimenti si ricade nell’ipotesi menzionata alla nota precedente.
in virtù del principio di specialità. Tuttavia, il 610 c.p. prevale sul 392/3 c.p. quando manchi una
connessione diretta tra la violenza o minaccia e l’esercizio delle proprie ragioni, quando l’agente
ponga in essere distinte condotte aggressive volte a finalità diverse, quando la violenza travalichi
l’attività persuasiva per assurgere a costrizione. In tale ultima ipotesi non è applicabile il 629 perché
difetta l’ingiustizia del profitto.
È d’uopo il raffronto strutturale tra esercizio arbitrario delle proprie ragioni ed estorsione, che
per maggiore affinità viene operato con riferimento all’art. 393.
2. Raffronto tra esercizio arbitrario delle proprie ragioni ed estorsione
L’art. 393 c.p. punisce “chiunque, al fine di esercitare un preteso diritto, e potendo ricorrere
al giudice, si fa arbitrariamente ragione da sé medesimo usando violenza o minaccia alle persone,
è punito, a querela dell’offeso, con la reclusione fino a un anno”.
La norma, collocata tra i reati contro l’amministrazione della giustizia, vieta l’autotutela
privata violenta, punendo il ricorso alla forza nella risoluzione delle controversie. L’interesse
protetto non è, dunque, il monopolio della giurisdizione, ma la pace sociale, unitamente alla
personalità individuale. Il fulcro della fattispecie è, oltre che nel dolo specifico, nella possibilità di
ricorrere al giudice (elemento normativo di matrice civilistica), sicché il reato sussiste quando
l’agente sia convinto di essere titolare di un diritto suscettibile di tutela giurisdizionale, ancorché
questa si riveli infondata. La pretesa arbitrariamente attuata dall’agente deve corrispondere
perfettamente all’oggetto della tutela apprestata in concreto dall’ordinamento giuridico, e non
mirare ad ottenere un’utilità maggiore.
L’art. 629 c.p. punisce “chiunque, mediante violenza o minaccia, costringendo taluno a fare o
ad omettere qualche cosa, procura a sé o ad altri un ingiusto profitto con altrui danno”.
La norma, collocata tra i reati contro il patrimonio, protegge contemporaneamente il
patrimonio e l’autodeterminazione dell’individuo. Il reato è a forma vincolata, articolandosi in una
serie di elementi successivi:
a) la condotta di aggressione alla persona (“mediante violenza o minaccia”);
b) un evento psichico intermedio e il correlato atto dispositivo (“costringendo taluno a fare o ad
omettere qualche cosa”);
c) un duplice evento giuridico finale (“procura a sé o ad altri un ingiusto profitto con altrui
danno”).
I problemi ermeneutici, su cui si registrano soluzioni oscillanti e imperfette, sono tre:
- l’estensione del concetto di minaccia;
- la causalità psichica;
- l’interpretazione degli elementi di matrice civilistica.
Un risultato che sembra consolidato è la diversa ampiezza dei due eventi tipici: mentre
l’ingiusto profitto può avere anche rilevanza non economica, il danno deve consistere in una lesione
patrimoniale, in termini analoghi a quelli descritti dall’art. 1223 c.c. (perdita e mancato guadagno).
L’analisi casistica mostra una tendenza della giurisprudenza a dilatare il concetto di
“minaccia”, inserendovi qualunque prospettazione di danno a beni personali14 o patrimoniali, e
talvolta anche a interessi privi di rilevanza giuridica, indipendentemente dall’ingiustizia del danno,
che invece connota l’evento di profitto e, correlativamente, il dolo.
14 Impostazione pericolosa, perché recepisce passivamente il fenomeno di antropologizzazione del diritto civile, da cui
la nascita – sotto la spinta dell’art. 2 Cost. e delle Carte sovranazionali dei diritti fondamentali – di una molteplicità di
nuovi diritti, spesso privi di base legislativa.
Qualora il male sia rappresentato alla persona offesa come conseguenza dell’esercizio di un
diritto, l’ingiustizia del profitto diventa, però, centrale anche ai fini della qualificazione della
condotta. La prevalente giurisprudenza ritiene che prospettare l’uso di facoltà giuridiche per
conseguire vantaggi estranei allo scopo o all’interesse da esse tutelate integri una minaccia, poiché
il male rappresentato è ingiusto. Questa costruzione si appoggia alla teoria dell’abuso del diritto,
giungendo ad affermare che pretese anche solo sproporzionate rispetto allo scopo per cui il diritto è
attribuito dall’ordinamento giuridico possano costituire minaccia.
In applicazione di tale orientamento si ritiene configuri estorsione la minaccia di un’azione
legale se finalizzata ad un vantaggio ingiusto.
La giurisprudenza di legittimità ha ripetutamente insegnato che la minaccia di adire le vie
legali, pur avendo un’esteriore apparenza di legalità, può integrare l’elemento costitutivo del delitto
di estorsione quando sia formulata non con l’intenzione di esercitare un diritto ma con lo scopo di
coartare l’altrui volontà e conseguire risultati non conformi a giustizia. Altra giurisprudenza ha
specificamente correlato la rilevanza penalistica della minaccia di far valere un diritto all’ingiustizia
o iniquità del vantaggio economico conseguito.
Non costituiscono reato, invece, tanto la prospettazione di un’azione palesemente infondata,
come tale inidonea a condizionare la libertà morale del destinatario, quanto il concreto immediato
inizio dell’azione, posto che l’intervento dell’autorità giudiziaria spezza ogni collegamento
automatico tra l’esito e la discrezionalità di chi agisce e la minaccia è rappresentata
dall’avvertimento di un male, non dalla sua esecuzione.
Parte della dottrina ha criticato questa impostazione, osservando che essa ribalta lo schema
del reato, in cui il profitto ingiusto è la conseguenza della minaccia e non già un suo elemento
costitutivo, rivendicando l’autonomia dei due elementi nella tipicità della fattispecie. Si è anche
rilevato che, paradossalmente, si finirebbe per incriminare chi utilizza, sia pure impropriamente, un
diritto effettivamente esistente, mentre non sarebbe responsabile chi millanti la titolarità di un diritto
inesistente. Infine la categoria dell’abuso del diritto è stata elaborata in riferimento all’esercizio
disfunzionale del diritto e non già alla prospettazione del suo esercizio.
A vivaci dibattiti ha dato luogo anche la figura dell’estorsione contrattuale, ravvisata da una
parte della giurisprudenza nella stessa stipulazione del contratto ottenuta tramite violenza o
minaccia, in cui il danno sarebbe in re ipsa, consistendo nella lesione dell’autonomia privata.
La tesi, oltre a critiche sul piano tecnico, cade in un vizio logico, finendo per far coincidere
l’evento finale con l’evento intermedio (l’atto di disposizione patrimoniale), che ne è la causa.
L’estorsione sarà ravvisabile solo se il contratto è svantaggioso per la vittima della condotta illecita,
configurandosi altrimenti un semplice invalidità civilistica.
L’allargamento dei confini del delitto di estorsione ai casi di titolarità di un diritto implica una
corrispondente riduzione del perimetro del delitto di esercizio arbitrario delle proprie ragioni, il cui
rapporto non è del tutto pacifico in giurisprudenza.
Attualmente prevale la tesi secondo cui i due reati si distinguono quanto:
a) al soggetto attivo, perché soltanto il primo è un reato proprio esclusivo o di mano propria;
b) all’elemento psicologico, perché, nel primo, l’agente persegue il conseguimento di un profitto
nella convinzione non arbitraria, ma ragionevole, anche se infondata, di esercitare un suo diritto,
ovvero di soddisfare personalmente una pretesa che potrebbe formare oggetto di azione giudiziaria;
nell’estorsione, invece, l’agente persegue il conseguimento di un profitto ingiusto, nella piena
consapevolezza della sua ingiustizia.
Questo è l’approdo di un’articolata pronuncia, che ha preliminarmente illustrato il contrasto
tra una tesi ‘oggettivistica’ e una ‘soggettivistica’15.
La suprema Corte rileva come il contrasto sia componibile, poiché le differenze materiali
sono il corollario della diversa finalità perseguita dall’agente, che è il vero tratto distintivo tra le due
fattispecie16.
15 Cass. sez. II, 3 novembre 2016 n. 46288
«Secondo il prevalente orientamento della giurisprudenza di questa Corte […] i delitti di cui agli articoli 393 e 629 c.p.
si distinguono essenzialmente in relazione all’elemento psicologico: nel primo, l’agente persegue il conseguimento di
un profitto nella convinzione ragionevole, anche se infondata, di esercitare un suo diritto, giudizialmente azionabile,
ovvero di soddisfare personalmente una pretesa che potrebbe formare oggetto di azione giudiziaria; nell’estorsione,
invece, l’agente persegue il conseguimento di un profitto, pur nella consapevolezza di non averne diritto. Per ritenere
configurabile il delitto di esercizio arbitrario delle proprie ragioni in luogo di quello di estorsione, occorrerebbe,
pertanto, che l’agente sia soggettivamente - pur se erroneamente, ma plausibilmente - convinto dell’esistenza del
proprio diritto, e che detto diritto riceva astrattamente tutela giurisdizionale.
9.1. Un opposto orientamento valorizza, ai fini della predetta distinzione, la materialità del fatto, affermando che, nel
delitto di esercizio arbitrario delle proprie ragioni, la condotta violenta o minacciosa non è fine a sé stessa, ma è
strettamente connessa alla finalità dell’agente di far valere il preteso diritto, rispetto al cui conseguimento si pone come
elemento accidentale, per cui non può mai consistere in manifestazioni sproporzionate e gratuite di violenza. Pertanto,
quando la minaccia si estrinseca in forme di tale forza intimidatoria e di tale sistematica pervicacia che vanno al di là di
ogni ragionevole intento di far valere un diritto, allora la coartazione dell’altrui volontà è finalizzata a conseguire un
profitto che assume ex se i caratteri dell’ingiustizia. In determinate circostanze e situazioni pertanto, anche la minaccia
dell’esercizio di un diritto, in sé non ingiusta, può diventare tale, se le modalità denotano soltanto una prava volontà
ricattatoria, che fanno sfociare l’azione in mera condotta estorsiva […].
Secondo questo indirizzo, dunque, a fronte di un preteso diritto che sia possibile far valere davanti all’autorità
giudiziaria, ai fini della distinzione tra esercizio arbitrario delle proprie ragioni ed estorsione occorre verificare il grado
di gravità della condotta violenta o minacciosa, con la conseguenza che si rimarrebbe indubbiamente nell’ambito
dell’estorsione, ove venga esercitata una violenza gratuita e sproporzionata rispetto al fine, ovvero se si eserciti una
minaccia che non lasci possibilità di scelta alla vittima (così Sez. VI, n. 32721 del 7 settembre 2010, Hamidovic, rv.
248169)». 16 «9.2. A parere del collegio, il denunciato contrasto di orientamenti è più apparente che reale.
9.2.1. Occorre premettere che, ai fini della risoluzione del problema in esame, non è possibile trarre utili indicazioni
dalla Relazione del Guardasigilli al Re sul progetto del Codice penale, sul punto assolutamente silente.
9.2.2. La materialità dei due reati in questione non appare esattamente sovrapponibile (così Sez. II, n. 11453 del 17
febbraio 2016, Guarnieri, rv. 267123), poiché soltanto ai fini dell’integrazione dell’estorsione necessita il verificarsi di
un effetto di “costrizione” sulla vittima, conseguente alla violenza o minaccia, queste ultime costituenti elemento
costitutivo comune ad entrambi i reati (art. 392 c.p.: “mediante violenza sulle cose”; art. 393 c.p.: “usando violenza o
minaccia alle persone”; art. 629 c.p.: “mediante violenza o minaccia”): all’uopo occorre, secondo la dottrina più recente,
“che vi sia un nesso causale tra la condotta e la situazione di coazione psicologica che costituisce, a sua volta, l’evento
intermedio tra la condotta stessa e l’atto di disposizione patrimoniale che arreca l’ingiusto profitto con altrui danno. Si
tratta di un evento psicologico che deve essere causato direttamente dalla condotta del soggetto attivo del reato: se
l’effetto di coazione trovasse nell’azione o nell’omissione dell’autore solo uno dei tanti antecedenti non potrebbe mai
parlarsi di estorsione. La coazione psicologica si risolve, essenzialmente, nella compressione della libertà di
autodeterminazione suscitata dalla paura del male prospettato”).
9.2.3. Nondimeno, la possibile valenza dimostrativa di tale disomogeneità può agevolmente essere ridimensionata, ove
si pensi che l’effetto costrittivo della condotta estorsiva appare consustanziale proprio alla diversa finalità dell’agente,
che mira ad ottenere una prestazione non dovuta, dalla quale l’agente trae profitto ingiusto, e la vittima un danno;
diversamente, nell’esercizio arbitrario delle proprie ragioni la violenza o minaccia deve mirare ad ottenere dal debitore
proprio e soltanto la prestazione dovuta, come in astratto giudizialmente esigibile.
9.2.4. Sia l’art. 393, comma 3, c.p. che l’art. 629, comma 2, c.p. (in quest’ultimo caso, mediante richiamo dell’art. 628,
comma 3, n. 1 c.p.) prevedono che la pena è aumentata “se la violenza o minaccia è commessa con armi”.
La circostanza aggravante speciale de qua non legittima distinzioni tra armi bianche ed armi da fuoco, ed evidenzia la
possibilità di qualificare come esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza (o minaccia) alle persone,
aggravato dall’uso di un’arma, anche le condotte poste in essere con armi tali da rendere la violenza (o minaccia) di
particolare gravità, e comunque sproporzionata rispetto al fine perseguito, o tale da non lasciare possibilità di scelta alla
vittima (secondo l’id quod plerumque accidit, disarmata). Detto riferimento appare decisivo, atteso che, in quest’ultimo
caso, la condotta dovrebbe sempre integrare gli estremi del più grave delitto di estorsione, il che, per espressa previsione
di legge, non è.
9.2.4.1. Quest’ultima argomentazione non risulta mai esaminata, né quindi validamente confutata, nell’ambito
dell’orientamento riepilogato sub p. 9.1., che si limita tout court a non considerarla».
Prima che sull’elemento psicologico, però, la distinzione verte sul soggetto attivo17.
In ordine all’elemento piscologico la Cassazione richiama l’orientamento quasi unanime della
dottrina, secondo cui il criterio discretivo tra estorsione ed esercizio arbitrario delle proprie ragioni
si fonda sulla finalità perseguita dall’agente: nell’esercizio arbitrario il soggetto attivo, supponendo
di essere titolare di un diritto, agisce con lo scopo di esercitarlo, mentre nell’estorsione l’agente è
consapevole di conseguire un ingiusto profitto.
La sentenza non convince.
La distinzione si apprezza sul piano della tipicità, che nell’art. 393 c.p. si incentra sul
presupposto oggettivo del titolo giuridico (“potendo ricorrere al giudice”), che non è corretto
trasferire all’interno del profilo soggettivo.
Per spiegare l’errore in cui cade la Corte di legittimità è necessario precisare il concetto di
tipicità, che è una delle dimensioni della legalità penale e rappresenta il criterio guida della
creazione normativa e dell’interpretazione dei singoli reati.
Come è noto, nella dottrina maggioritaria e in giurisprudenza il ‘fatto tipico’ non è una mera
somma algebrica degli elementi di fattispecie (oggettivi o, per le correnti di pensiero più recenti,
anche soggettivi). La definizione della tipicità attinge il ruolo che i fatti assumono nell’ordinamento
penale: l’assenza di mediazioni tecniche tra realtà e norma in questo ordinamento implica che la
categoria della tipicità si costruisce sul modello di qualificazione del fatto da parte della norma.
A livello legislativo la configurazione di una fattispecie criminosa avviene attraverso un
procedimento complesso, che muove dalla selezione del fatto penalmente rilevante, poi ne identifica
le componenti essenziali, infine ne fissa la descrizione in termini astratti. La tipicità è, dunque, il
risultato di un’operazione razionale, che risponde anzitutto alle regole che governano il fatto nel suo
dominio di appartenenza, cioè le leggi di natura. Tale premessa è imprescindibile se si vuole che il
fatto concreto trovi corrispondenza nella norma e possa dunque realizzarsi proprio il giudizio di
tipicità, su cui si fonda l’accertamento penale “al di là di ogni ragionevole dubbio”.
17 «9.2.5. A parere del collegio, una prima distinzione tra i reati in oggetto può riguardare il soggetto attivo.
9.2.5.1. Invero, il solo esercizio arbitrario delle proprie ragioni può essere commesso, ai sensi degli artt. 392 e 393 c.p.,
come soggetto agente, unicamente da “chiunque... sì fa arbitrariamente ragione da sé medesimo”: detta espressa
previsione (sin qui non adeguatamente valorizzata dalla dottrina, che si limita a darne una interpretazione meramente
descrittiva, e del tutto trascurata dalla giurisprudenza) impone di ritenere che il solo esercizio arbitrario delle proprie
ragioni (sia con violenza alle cose che con violenza alle persone) rientra, diversamente da quello di estorsione, tra i
cc.dd. reati propri esclusivi o di mano propria, che si caratterizzano in quanto la loro esecuzione implica l’intervento
personale diretto del soggetto designato dalla legge; la condotta tipica oggetto di incriminazione può, quindi, assumere
rilievo penale nell’ambito della norma incriminatrice che la prevede e punisce, soltanto se posta in essere personalmente
da un determinato soggetto attivo.
9.2.5.2. Tale rilievo potrà risultare decisivo nei casi di reati commessi in concorso, poiché, se la condotta tipica di
violenza o minaccia prevista dagli artt. 392 e 393 c.p. è posta in essere da un terzo estraneo al rapporto obbligatorio
fondato sulla pretesa civilistica asseritamente vantata nei confronti della p.o., che agisca su mandato del creditore, essa
potrà assumere rilievo soltanto ex art. 629 c.p., giammai a titolo di esercizio arbitrario delle proprie ragioni.
In tutti gli altri casi, nei quali la condotta tipica è posta in essere da chi agisce per “farsi ragione da sé medesimo”, sarà,
al contrario, configurabile - in ipotesi (e salva la considerazione delle eventuali peculiarità dei singoli casi concreti) il
concorso (per agevolazione, od anche morale) di terzi estranei alla pretesa civilistica vantata dall’agente nei confronti
della p.o. nell’esercizio arbitrario delle proprie ragioni.
9.2.5.3. Quanto appena osservato costituisce conseguenza diretta ed immediata della particolare oggettività giuridica dei
reati di esercizio arbitrario delle proprie ragioni, che sono posti a tutela dell’interesse statuale al ricorso obbligatorio alla
giurisdizione (il c.d. monopolio giurisdizionale) nella risoluzione delle controversie, in riferimento al quale, se può - in
determinati casi (ovvero in difetto della presentazione della querela da parte del soggetto a ciò legittimato) - essere
tollerato che chi ne ha diritto si faccia ragione “da sé medesimo”, non può mai essere tollerata l’intromissione del terzo
estraneo che si sostituisca allo Stato, esercitandone le inalienabili prerogative nell’amministrazione della giustizia».
Sotto tale angolazione la tipicità è correlata ai principi di determinatezza e materialità, i quali
assicurano che la fattispecie penale sia strettamente aderente a ciò che accade in rerum natura,
realizzando pienamente la funzione di garanzia cui presiede la tipizzazione dell’illecito penale: la
determinatezza assicura che i reati siano descritti con precisione e corrispondenti ad episodi di vita
reale, la materialità che essi abbiano un nucleo fenomenico minimo. La tipicità normativa
riecheggia la tipicità sociale: l’immagine di un fatto è nitida agli occhi di chi la guarda nella misura
in cui costui la riconosca nella propria realtà. Il legislatore ha l’onere di studiare questa realtà e
costruire la fattispecie a sua somiglianza, onde consentire l’identificazione della (e nella) norma da
parte dei consociati.
Il principio di tipicità è stato rafforzato con il decreto legislativo 1 marzo 2018 legge n. 21,
che ha introdotto l’art. 3-bis c.p. “Nuove disposizioni che prevedono reati possono essere introdotte
nell’ordinamento solo se modificano il codice penale ovvero sono inserite in leggi che disciplinano
in modo organico la materia”. Non c’è dubbio, infatti, che le fattispecie che meglio realizzano il
principio ti tipicità siano quelle collocate nel codice, per la sua vocazione illuministica e sistematica
(coerenza e completezza), per il rigoroso ordine di classificazione, per l’impiego della rubrica.
Si legge nella relazione ministeriale al Codice Rocco:
« A) Le ripartizioni del codice sono fatte in base a criteri rigorosamente scientifici e conformi alla
più progredita tecnica legislativa. Le norme comuni a tutti i reati sono contenute nel libro I (parte
generale); quelle concernenti i singoli reati (parte speciale) costituiscono i libri II (delitti) e III
(contravvenzioni).
La classificazione dei reati in categorie più o meno vaste (titoli, capi, sezioni) è stata fatta in base
al criterio dell’oggetto giuridico (interesse leso) dei reati medesimi: elemento sistematico
essenziale, col quale soltanto si può evitare l’empirismo di altri sistemi legislativi. La categoria
maggiore (titolo) è costituita in base alla più generica considerazione dell’interesse tutelato (es.
delitti contro la persona): la categoria intermedia (capo) si fonda sopra una specifica
considerazione dell’interesse medesimo (es. delitti contro la libertà individuale), e la categoria
minore (sezione) è formata col criterio di una considerazione ancora più particolare dello stesso
interesse (es. delitti contro la libertà morale).
Si perviene così all’unità elementare (articolo), nella quale l’interesse che qualifica tutta la classe è
considerato in modo del tutto specifico e tale da non consentire ulteriori distinzioni.
B) Ogni articolo del codice è preceduto da una sua propria rubrica, che ne indica sinteticamente il
contenuto: innovazione, questa, che reputo praticamente assai utile.
Queste rubriche, come quelle più generali dei titoli e dei capi, possono avere anche valore
esegetico, nei limiti fissati dalle migliori trattazioni sulla interpretazione delle leggi in generale e
delle leggi penali in particolare, e che qui è superfluo rammentare».
Esiste quindi un preciso legame tra nomi del reato e tipicità penale in prospettiva storica e sul
terreno dell’interpretazione. L’idea poggia sull’assunto che se un reato deve essere denominato non
potrà essere innominabile, e sono innominabili quelli sprovvisti di un disvalore (tendenzialmente)
omogeneo, perciò problematici in punto di tipicità.
La categoria della tipicità è alimentata anche dai principi di necessità, offensività e
frammentarietà. I vincoli nelle scelte di politica criminale, sulla base delle quali si giustifica
l’intervento penale e si selezionano le modalità di aggressione all’interesse tutelato meritevoli di
pena, presiedono all’attività di tipizzazione del legislatore.
Orbene, i reati di “esercizio arbitrario delle proprie ragioni” e di “estorsione” non sono
frammenti di un’unica area, divisi solo dal soggetto attivo e dal dolo, specifici nella prima ipotesi,
generici, nella seconda, ma territori diversi.
Il primo è quello dell’autotutela arbitraria, il secondo è quello della criminalità predatoria o,
peggio, organizzata. Mondi lontani, come lontane sono le cornici edittali della pena, al punto da far
ritenere irrazionale che, in un ordinamento congegnato a sistema, possa elevarsi una distinzione di
matrice puramente soggettiva da disvalori tanto distanti.
Chi agisce per l’esercizio coattivo di un diritto non è del tutto estraneo all’ordine giuridico,
perché la sua pretesa ha un legittimo fondamento, ma ignora uno dei suoi cardini: il divieto dell’uso
della forza. Al contrario, l’estorsore è fuori della civiltà, perché pretende ciò che non merita, e usa
la forza non per rimediare alla mancanza di collaborazione altrui, ma per sopraffarlo.
In teoria dei giochi il secondo comportamento ha un significato totalmente diverso, perché
viola il modello competitivo, mentre il primo è una reazione alla violazione del modello
cooperativo.
3. La responsabilità dell’incaricato in ipotesi di credito lecito
La pronuncia esaminata al paragrafo precedente, inquadrando gli art. 392 e 393 c.p. tra i reati
propri esclusivi o di mano propria, esclude che la condotta dell’incaricato alla riscossione possa
mai integrare il reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni, se non nell’ipotesi in cui presti
assistenza al titolare, il quale agisca personalmente per riscuotere il credito con metodi illegali.
Reati di propria mano sono quei fatti che per essere penalmente rilevanti richiedono la
necessaria esecuzione da parte del soggetto qualificato designato dalla norma. La presenza di questi
reati sta a indicare che la qualifica soggettiva è essenziale perché sussista l’offesa al bene giuridico
tutelato.
Così, ad esempio, i comportamenti sessuali consensuali possono divenire offensivi della
morale familiare e, per questa ragione, punibili soltanto se tenuti da soggetti avvinti da legami di
parentela o affinità (art. 564 c.p.). Dal punto di vista scientifico la ragione per cui la qualifica
soggettiva concentra su di sé l’illiceità del fatto va ravvisata nella particolare incidenza che essa
esprime sulla realtà al cui interno si colloca il fatto incriminato.
Riflettendo sull’esempio dell’incesto, si intuisce come il rapporto sessuale tra consanguinei
evochi già sul piano delle leggi di natura un’anomalia, nel senso che vi è una comunanza di dati
genetici costitutivi degli individui interessati che rende lo schema dell’accoppiamento singolare
rispetto a quello che si realizza tra soggetti privi di un significativo legame familiare, la cui
relazione sessuale è intrinsecamente lecita.
L’incaricato alla riscossione del credito è sprovvisto della qualifica soggettiva prevista dalla
disposizione che incrimina l’esercizio arbitrario delle proprie ragioni, poiché non è titolare del
credito.
Ancorché non lo menzioni esplicitamente, l’assunto della Cassazione si fonda sul postulato
che l’art. 117 c.p. non sia applicabile ai reati propri esclusivi, tesi peraltro condivisa dalla dottrina
maggioritaria.
Senonché l’esercizio arbitrario delle proprie ragioni non è reato proprio esclusivo, posto che
tale nozione si riferisce a quelle fattispecie in cui la qualifica soggettiva è costitutiva della rilevanza
penale e non del titolo giuridico, mentre la fattispecie in esame trova corrispondenza in una figura
comune, poiché, in assenza della qualifica soggettiva, l’agente è punito a titolo di estorsione.
Si applica, dunque, l’art. 117 c.p., che comporta il mutamento del titolo di reato per
l’extraneus, il quale risponde dello stesso reato commesso dal soggetto qualificato.
Non osta a questa conclusione la circostanza che in tal modo si verifichi il passaggio da un
reato più grave a uno meno grave, atteso che la disposizione non presenta alcuna incompatibilità
con tale ipotesi inversa, anzi il secondo comma (“se questo è più grave, il giudice può, rispetto a
coloro per i quali non sussistono le condizioni, le qualità o i rapporti predetti, diminuire la pena”)
la sottintende. Peraltro sarebbe irragionevole escludere l’applicazione del principio sotteso all’art.
117 c.p. quando è chiamato ad operare in bonam partem.
Altra questione è se, ai fini della norma, la qualifica debba essere posseduta da chi compie
l’azione tipica, ovvero possa essere posseduta da uno qualsiasi dei concorrenti.
A favore della tesi estensiva milita la concezione monistica del concorso di persone, per cui è
giuridicamente indifferente la diversità dei ruoli dei singoli partecipi, essendo tutti i contributi
ugualmente tipici rispetto all’unitario reato concorsuale. Propendono per questa soluzione gli autori
che sostengono la teoria della fattispecie plurisoggettiva eventuale, che considera indifferenti le
modalità di completamento della fattispecie attraverso la pluralità dei contributi, con l’unico limite,
derivante dalle singole fattispecie, che, ai fini dell’offensività, possono imporre che la condotta
tipica sia tenuta, interamente o in parte, dal concorrente qualificato. Solo in tali casi, infatti, «il
disvalore d’evento non si esaurisce nella realizzazione di fatti esteriori possibili a chiunque, bensì
assume la propria caratteristica fisionomia solo attraverso lo stretto rapporto personale dell’autore
con il fatto» .
In senso contrario vi è la lettera della legge, la quale riferisce il possesso della qualifica al
“colpevole”, con ciò lasciando intendere che costui vada identificato nel soggetto che pone in essere
la condotta prevista dalla norma incriminatrice. Si afferma, in questo senso, che “colpevole” è solo
colui il quale agisce in modo analogo a come avrebbe agito in presenza di una realizzazione
monosoggettiva del fatto.
Per la giurisprudenza è necessario operare una distinzione a seconda che si tratti di
concorrenti che agiscano come se fossero gli autori esclusivi del fatto criminoso, ovvero di
concorrenti che restino in una posizione subordinata e accessoria: «se l’intraneo rientra nella prima
categoria, si ha mutamento del titolo del reato, altrimenti la qualità di intraneo non determina
alcuna modificazione sulla qualificazione giuridica del fatto»18.
Appare preferibile incentrare il concetto di attività esecutiva sull’idea di signoria o dominio del
fatto, al di là dell’aspetto meramente naturalistico: in questo senso l’extraneus ben potrebbe porre in
essere la condotta materiale, qualora l’intraneus conservi il controllo finalistico dell’azione.
Nel caso in esame questa condizione ricorre, atteso che l’esecutore agisce sulla base di un
mandato, che contiene direttive sulle modalità dell’azione.
In base a questa ricostruzione, dunque, l’incaricato alla riscossione del credito risponderebbe
del reato di cui al combinato disposto degli art. 117-393 c.p. (o 392 c.p.).
Tuttavia, per quanto in precedenza osservato in ordine al rapporto tra esercizio arbitrario delle
proprie ragioni ed estorsione, la tesi non può essere corretta, poiché la peculiarità dell’esercizio
arbitrario non è nella qualifica soggettiva.
Si fa largo in dottrina la tesi secondo cui l’art. 393 non è un reato proprio ma a soggettiva
ristretta, che può essere commesso da tutti e solo coloro che si trovino nella situazione indicata dalla
norma, la cui condotta diverge da quella degli altri soggetti per ulteriori profili, di natura oggettiva,
18 Cass. sez. I, 23 settembre 2008, n. 39292.
in particolare per il presupposto della pretesa giuridica. Pertanto la condotta dell’incaricato in sé
considerata, mancando l’anzidetto presupposto, realizza l’art. 629, con cui può concorrere – ai sensi
dell’art. 81 c.p. – il delitto di cui agli articoli 110-393, poiché l’incaricato contestualmente agisce
quale concorrente di chi è titolare del credito. Secondo l’anzidetta dottrina si tratta, tuttavia, di
concorso apparente, poiché l’estorsione è norma speciale rispetto al delitto di concorso
nell’esercizio arbitrario delle proprie ragioni.
Quest’ultima affermazione non appare corretta, atteso che il criterio di specialità opera in
astratto e, da questo punto di vista, non pare sostenibile che l’estorsione sia figura speciale rispetto
all’altra.
Piuttosto, l’asserito concorso tra i due reati andrebbe valutato alla luce del principio del ne bis
in idem sostanziale, secondo la concezione naturalistica di ‘idem factum’ patrocinata dalla Corte
europea dei diritti dell’uomo in base all’art. 4 del protocollo 7 della Convenzione19 e accolta dalla
Corte costituzionale, la quale ha dichiarato incostituzionale l’art. 649 c.p.p. nella parte in cui
esclude che il fatto sia il medesimo per la sola circostanza che sussiste un concorso formale tra il
reato già giudicato con sentenza divenuta irrevocabile e il reato per cui è iniziato il nuovo
procedimento penale20.
Pur affermando che la nozione europea di ne bis in idem non modifica l’assetto pretorio in
ordine al concorso apparente di norme21, le Sezioni unite della Cassazione hanno fatto applicazione
dell’insegnamento della Corte costituzionale, escludendo il concorso tra i reati di detenzione e porto
illegali in luogo pubblico o aperto al pubblico di arma comune da sparo ex artt. 2,4 e 7 legge 2
ottobre 1967, n. 895, e quelli di detenzione e porto in luogo pubblico o aperto al pubblico della
stessa arma clandestina, ex art. 23, primo, terzo e quarto comma, legge 18 aprile 1975, n. 110,
sull’assunto che il fatto è unico: «la percezione della identità del fatto oggetto delle diverse norme
incriminatrici deve essere affrancato da implicazioni giuridiche e deve involgere solo
l’accadimento storicamente verificatosi, tenuto conto dell’oggetto fisico su cui è caduta l’azione
umana mentre l’interesse tutelato dalle norme incriminatrici è un criterio che per ragioni di
19 Corte EDU 4 marzo 2014, Grande Stevens c. Italia; Corte EDU, Grande Camera, 15 novembre 2016, A e B contro
Norvegia. 20 Corte cost. n. 200 del 2016: «Il fatto storico-naturalistico rileva, ai fini del divieto di bis in idem, secondo l’accezione
che gli conferisce l’ordinamento, perché l’approccio epistemologico fallisce nel descriverne un contorno identitario dal
contenuto necessario. Fatto, in questa prospettiva, è l’accadimento materiale, certamente affrancato dal giogo
dell’inquadramento giuridico, ma pur sempre frutto di un’addizione di elementi la cui selezione è condotta secondo
criteri normativi. Allo stato la Convenzione impone agli Stati membri di applicare il divieto di bis in idem in base ad
una concezione naturalistica del fatto, ma non di restringere quest’ultimo nella sfera della sola azione od omissione
dell’agente. L’identità del “fatto” sussiste – secondo la giurisprudenza di legittimità (Cass. Sez. un. 28 giugno 2005, n.
34655) – quando vi sia corrispondenza storico-naturalistica nella configurazione del reato, considerato in tutti i suoi
elementi costitutivi (condotta, evento, nesso causale) e con riguardo alle circostanze di tempo, di luogo e di persona»
(sentenza n. 129 del 2008).
Ciò detto, questa Corte è obbligata a prendere atto che il diritto vivente, come è stato correttamente rilevato dal
rimettente, ha saldato il profilo sostanziale implicato dal concorso formale dei reati con quello processuale recato dal
divieto di bis in idem, esonerando il giudice dall’indagare sulla identità empirica del fatto, ai fini dell’applicazione
dell’art. 649 cod. proc. pen. La garanzia espressa da questa norma, infatti, viene scavalcata per la sola circostanza che il
reato già giudicato definitivamente concorre formalmente, ai sensi dell’art. 81 cod. pen., con il reato per il quale si
procede. Il nesso di necessità predicato nel diritto vivente tra concorso formale di reati e superamento del ne bis in
idem inevitabilmente reintroduce nel corpo dell’art. 649 cod. proc. pen. profili di apprezzamento sulla dimensione
giuridica del fatto, che erano stati espulsi attraverso l’adesione ad una concezione rigorosamente naturalistica di
condotta, nesso causale ed evento.
Sussiste perciò il contrasto denunciato dal rimettente tra l’art. 649 cod. proc. pen., nella parte in cui esclude la
medesimezza del fatto per la sola circostanza che ricorre un concorso formale di reati tra res iudicata e res iudicanda, e
l’art. 4 del Protocollo n. 7 alla CEDU, che vieta invece di procedere nuovamente quando il fatto storico è il medesimo». 21 Cass. sez. un., n. 20664 del 2017.
garanzia dell’interprete non può rilevare direttamente»22. La suprema Corte si riallaccia
esplicitamente alla pronuncia della Corte costituzionale sul significato di idem factum quale
accadimento materiale affrancato da implicazioni giuridiche.
Analoga impostazione può ravvisarsi nella pronuncia secondo cui «la detenzione nel
medesimo contesto di sostanze stupefacenti tabellarmente eterogenee, qualificabile nel suo
complesso come fatto di lieve entità, ai sensi dell’articolo 73, comma 5, del Dpr n. 309 del 1990,
integra un unico reato e non una pluralità di reati in concorso tra loro»23. La Cassazione affronta il
problema se la cessione unitaria di sostanze stupefacenti di diversa natura, che dà vita a un
concorso di reati (commi 1 e 4 dell’art. 73 TU stupefacenti), possa integrare un unico reato
nell’ipotesi in cui il fatto globalmente inteso possa ritenersi di lieve entità ai sensi del comma 5.
La risposta è affermativa, sul presupposto che la disposizione non considera la differenza
tabellare tra le sostanze stupefacenti. Da questa conclusione si ricava che la concezione naturalistica
del fatto di reato va sempre intesa in un’ottica normativa, ossia di corrispondenza alla fattispecie
incriminatrice: la classificazione tabellare cui rinvia la legge penale vale a specificare l’oggetto
materiale, nel senso di differenziare i vari tipi di stupefacenti ai fini dell’incriminazione. Ma se la
legge ignora questo dato, allora lo stupefacente rileva come genere e il fatto si considera unico
anche se ha per oggetto sostanza eterogenea.
Orbene, in base alla concezione illustrata il fatto di reato è unico se vi è identità dei suoi
elementi costitutivi di natura oggettiva (condotta, causalità, evento), a prescindere dalla
qualificazione oggettiva e nel caso oggetto di traccia ciò che viene addebitato all’esattore è sempre
lo stesso fatto (l’uso di violenza e minaccia per riscuotere il credito vantato da un terzo), ancorché
diversamente qualificato.
Dunque, ancorché sulla base di un ragionamento diverso, la configurazione dell’art. 393 c.p.
come reato a soggettività ristretta conduce a ritenere che l’incaricato alla riscossione risponda solo
del reato di estorsione.
Nessuna delle tesi sin qui riportate è corretta.
Tutte muovono dal postulato che l’incaricato agisce come extraneus, perché estraneo al
rapporto obbligatorio da cui deriva il credito, sicché non gli è riferibile la condotta tipica del delitto
di cui all’art. 393. Senonché, in virtù del mandato conferito, egli assume la ragione di credito del
mandante e agisce nella convinzione di esercitare un diritto per conto del medesimo.
Ciò vale senza dubbio nell’ipotesi di mandato con rappresentanza, che, come anticipato in
esordio, è l’ipotesi normale.
L’effetto tipico della rappresentanza, la quale quando è connessa al mandato ne costituisce il
lato esterno, è indicato dall’art. 1388 c.c., che riassume il risultato definitivo al quale prima del
codice pervennero la dottrina e la giurisprudenza. L’atto giuridico è concluso dal rappresentante, ma
produce direttamente effetto nei confronti del rappresentato: si considera direttamente concluso tra
rappresentato e terzo, i quali vengono a trovarsi immediatamente di fronte con tutti i diritti e gli
obblighi che per entrambi scaturiscono dal negozio. Nel caso di riscossione di somme da parte del
mandatario con rappresentanza, il principio della diretta imputazione al rappresentato degli effetti
dell’atto posto in essere in suo nome dal rappresentante non comporta l’acquisto automatico delle
stesse da parte del mandante in ragione della fungibilità del danaro, che fa di regola identificare nel
detentore materiale di esso il dominus delle somme consegnate.
22 Cass. sez. un., n. 41588 del 2017. 23 Cass. sez. un., n. 51063 del 2018.
Peraltro, la legittimazione del rappresentante a ricevere dal terzo debitore il pagamento, con
efficacia liberatoria nei confronti del rappresentato, non esclude che i rapporti interni con
quest’ultimo siano disciplinati dalle regole del mandato, quale contratto ad effetti obbligatori, da cui
deriva l’obbligo del mandatario di rimettere al mandante, previo rendiconto, le somme riscosse.
In definitiva, l’incaricato alla riscossione che spende il nome del creditore agisce quale alter
ego dello stesso, sicché risponde del medesimo reato di cui risponde il creditore, ai sensi della
norma generale sul concorso (art. 110 c.p.).
La validità di questa conclusione dev’essere verificata alla luce del rapporto tra diritto civile e
diritto penale.
La concezione intermedia, accolta in giurisprudenza24, postula un coordinamento tra
fattispecie civile e fattispecie penale: quando il legislatore utilizza concetti propri di altri
ordinamenti, si presume che abbia avuto come punto di riferimento il significato proprio
dell’ordinamento di provenienza, ma non che lo abbia recepito automaticamente.
Pertanto l’interprete deve muovere dalla nozione dell’elemento nel suo sistema di origine,
inserirla all’interno della norma penale, verificarne il funzionamento, procedere al suo adattamento.
Nel processo di adattamento la categoria giuridica extrapenale deve essere considerata per quella
che è la sua rilevanza di fatto.
Tutta la problematica si sposta sul versante dell’adattamento del concetto, che deve essere
coerente con la ragione che giustifica l’adozione di elementi tecnici da parte del legislatore:
incriminare la realtà fisica in una certa configurazione, cioè per ciò che essa identifica
nell’ordinamento. Allora, l’interpretazione della fattispecie deve mirare a svelare il nesso tra
concetto giuridico ed episodio reale, valutando il significato fenomenico del dato giuridico: alla
giuridicizzazione del fatto operata dal legislatore, corrisponde la fattualizzazione del diritto.
24 Cass. sez. un., n. 37954 del 2011: «Di principio, quando la fattispecie penale utilizza per la designazione di un fatto,
o di un istituto, un «termine» che ha in altro ramo del diritto una propria configurazione «tecnica», dovrebbe presumersi
che anche il diritto penale lo assuma con analogo significato, giacché il diritto richiede certezze e riconoscibilità, e
dunque l’uso di elementi normativi deve conformarsi quanto più possibile ai canoni della determinatezza e tassatività.
Per accogliere ai fini penali una diversa accezione del termine, occorre trovare nella stessa legge penale una ragione,
ovverosia quella che autorevole dottrina definisce «una giustificazione conveniente», per «segni certi», della diversa
accezione. Tali segni, o indicatori, vanno ricercati, secondo le regole generali sull’interpretazione delle leggi, oltre che
nella formulazione della disposizione, nel confronto con altre disposizioni e nella funzione della norma: sulla base, in
altri termini, delle «finalità perseguite dall’incriminazione e del più ampio contesto ordinamentale in cui essa si
colloca», come costantemente ricorda il Giudice delle leggi segnalando la necessità di verificare il rispetto del principio
di determinatezza mediante il ricorso al criterio, altresì, dell’offesa (tra molte: Corte cost., sentenze n. 327 del 2008, n. 5
del 2004, n. 34 del 1995, n. 122 del 1993, n. 247 del 1989; ordinanze n. 395 del 2005, n. 302 e n. 80 del 2004). Non
importa, quindi, il numero dei parametri utilizzati, ma il livello di certezza, e quindi di riconoscibilità, che essi sono in
grado di conferire, oggettivamente e senza contraddizioni, all’individuazione di un significato in tutto o in parte diverso
rispetto a quello adottato nel diverso ramo del diritto.
Non può negarsi, all’inverso, che alcuni termini che hanno uno specifico significato tecnico-giuridico in altra branca del
diritto, siano impiegati nella legge penale attribuendo loro un significato tratto dal «linguaggio comune», fatto proprio e
utilizzato dalla norma penale ai propri fini. Esempi di questa duplicità di accezioni sono per l’appunto tradizionalmente
individuati nell’uso, nelle fattispecie penali, delle locuzioni di «possesso» e «detenzione», di «altruità» e proprietà, per
le quali è opinione risalente e consolidata che esse non designano l’esatto equivalente degli omonimi concetti propri del
diritto civile.
Pure una stabile tradizione interpretativa, esercitata nel rispetto del principio di legalità, può d’altra parte confluire a
conformare le norme assicurando al sistema sanzionatorio quel livello di prevedibilità che, come efficacemente
ricordato dall’Avvocato Generale nella requisitoria odierna richiamando copiosa giurisprudenza della Corte Europea dei
diritti dell’uomo (tra molte: sentenze 5 aprile 2011, Sarigiannis c. Italia; 17 maggio 2010, Kononov c. Estonia; 3
novembre 2009, Sujagic c. Bosnia-Erzegovina), costituisce garanzia sia per i destinatari dei precetti sia per
l’ordinamento obiettivo: anche l’effetto di prevenzione generale degli illeciti presupponendo che il testo normativo sia
uniformemente interpretato e reso così riconoscibile dai consociati».
In tal senso, dunque, il processo di adattamento dei concetti giuridici deve avvenire alla luce
delle categorie scientifiche, piegando la nozione tecnica fino al punto limite consentito dal suo
significato d’origine, per massimizzare il suo valore empirico, utilizzando i concetti giuridici come
mediazioni del fatto storico, e quindi assicurare a quei concetti il massimo grado di prossimità alla
natura, alla realtà, a ciò che è stato fatto.
L’istituto civilistico del mandato con rappresentanza nel sistema penale assume il significato
materiale di una sostituzione nell’attività delittuosa. I principi fondamentali di tipicità e di
personalità impongono di ravvisare nel mandatario la stessa responsabilità del mandante: a seguito
della sostituzione l’incaricato da un lato viene a trovarsi nella situazione tipica descritta dall’art. 393
c.p., dall’altro partecipa al fatto non in veste di terzo, ma di collaboratore.
La conclusione non cambia qualora l’incaricato sia erroneamente convinto di agire per la
riscossione di un credito illecito, in forza dell’art. 49, comma 1 c.p. (reato putativo), il quale, pur
dettato per l’ipotesi in cui l’errore ingeneri il convincimento di commettere un reato, è applicabile
per analogia anche all’ipotesi in cui l’errore ingeneri il convincimento di commettere un reato più
grave di quello realizzato. Anche in questo caso, infatti, l’incaricato agisce quale sostituto del
creditore, ancorché supponendo erroneamente che la sua condotta abbia natura estorsiva e non già
di esercizio arbitrario di un diritto.
L’incaricato risponde invece di estorsione qualora agisca al di fuori delle direttive del
mandante o per il conseguimento di utilità eccedenti il credito. In entrambe le ipotesi la violenza o
minaccia realizzate esorbitano dalle ragioni creditizie e sono pertanto punite a titolo autonomo. La
seconda ipotesi non va confusa con il mandato all’incasso in rem propriam, che attribuisce
all’incaricato la stessa legittimazione del comune mandato, mentre l’interesse rileva solo nei
rapporti interni.
L’incaricato risponde di estorsione anche se il contratto è nullo per ragioni diverse da quelle
che ne determinano la rilevanza penale (illiceità della causa).
4. La responsabilità dell’incaricato in ipotesi di credito illecito o inesistente
La traccia non esplicita questa ipotesi e, poiché in claris non fit interpretatio, se c’è scritto
“credito”, come da vocabolario della lingua italiana, si intende la pretesa vantata dal creditore in un
rapporto obbligatorio. Se la commissione avesse voluto che si trattasse del credito illecito, lo
avrebbe specificato.
Nondimeno, in un tema, accanto agli argomenti centrali esistono quelli complementari, per
cui, tanto più vertendosi in ambito criminale, è corretto trattare del credito derivante da reato (e di
quello inesistente): come la traccia non lo richiede, neppure lo esclude.
Naturalmente non sono questi punti essenziali dell’elaborato, la cui assenza può
compromettere la valutazione, ma lo arricchiscono.
Vuoi che si tratti di credito derivante da reato, vuoi che si tratti di credito inesistente, la
violenza o minaccia per riscuoterlo non integra l’esercizio arbitrario delle proprie ragioni,
difettando il presupposto del reato, ossia la possibilità di rivolgersi al giudice. In nessuna delle due
ipotesi, infatti, il credito è assistito da tutela giurisdizionale, perché illecito o inesistente.
In realtà le due ipotesi non sono identiche.
Se il credito è inesistente, perché senza titolo25 o già estinto26, non vi è spazio per alcuna
interpretazione: l’agente risponde di estorsione.
25 Perché manchi la fonte o questa non sia giuridicamente rilevante (obbligazione naturale).
Se il credito è illecito, poiché formalmente un titolo esiste ancorché invalido (es. usura),
potrebbe venire in rilievo una preliminare indagine civilistica. Senonché, è sufficiente rilevare che
chi è consapevole di porre in essere una condotta per ottenere il soddisfacimento di un profitto
ingiusto, in quanto derivante un titolo illecito, non agisce per tutelare le proprie ragioni, ma
commette estorsione.
I problemi si pongono, invece, se il credito nasce da contratto nullo, ma non illecito, atteso
che l’infondatezza della pretesa non esclude di per sé il presupposto oggettivo dell’esercizio
arbitrario delle proprie ragioni. Non potrebbe dunque applicarsi automaticamente la regola
civilistica quod nullum est, nullum producit effectum, equiparando il credito nascente da contratto
nullo a quello inesistente, dovendosi piuttosto accertare se il vizio da cui il contratto è affetto è di
tale portata da rendere manifestamente infondata l’azione.
In questo come in altri casi27 è ipotizzabile che l’agente sia erroneamente convinto di essere
titolare di un credito azionabile in giudizio.
A tale ipotesi si applica l’art. 47 c.p., trattandosi di errore sul fatto di reato, ancorché causato
da errore di diritto, in particolare l’art. 47, comma 2, atteso che la facoltà di rivolgersi al giudice è
un elemento specializzante. Poiché ai sensi di detta disposizione “l’errore sul fatto che costituisce
un determinato reato non esclude la punibilità per un reato diverso”, l’agente dovrebbe essere
punito per il delitto di estorsione. Può tuttavia obiettarsi che, agendo al fine di esercitare un diritto,
manca il dolo del reato di estorsione, con la conseguenza che deve trovare applicazione la generale
fattispecie di violenza privata.
In senso contrario all’applicabilità dell’art. 47, comma 2 milita l’argomento che la
disposizione, navigando nel principio di colpevolezza, non può operare in malam partem, dovendo
invece trovare applicazione a titolo di analogia l’art. 59, comma 4 c.p., che fa valere una causa di
giustificazione erroneamente supposta come esistente, cui è assimilabile l’ipotesi di erronea
supposizione di un elemento specializzante favorevole, atteso che l’ordinamento mostra di non
attribuire rilevanza solo agli elementi putativi accidentali (circostanze attenuanti: art. 59, comma 3
c.p.). In base a questa ricostruzione l’incaricato risponde del reato di cui all’art. 392/393.
In ipotesi di credito illecito, oltre alla responsabilità a titolo di estorsione, l’incaricato alla
riscossione del credito può incorrere in una responsabilità collegata al reato da cui sorge il credito.
Al riguardo sono configurabili due fattispecie: concorso nel reato base o, in alternativa,
favoreggiamento reale (art. 379 c.p.).
Quest’ultima fattispecie, per espressa previsione di legge, è applicabile, nel caso di aiuto a
taluno ad assicurare il prodotto o il profitto o il prezzo di un reato, solo “fuori dei casi di concorso
nel reato”.
Occorre allora stabilire quando l’attività di riscossione del credito criminoso possa integrare
concorso nel reato. Si tratta, intuitivamente, delle ipotesi in cui il reato da cui scaturisce il credito
non si è già consumato (non essendo configurabile il concorso in un reato esaurito, ancorché i suoi
effetti persistano) e la riscossione del credito sia una delle condotte che lo integrano.
Tali requisiti si trovano nei reati contratto in cui la fase di esecuzione del contratto sia
penalmente rilevante allo stesso titolo della sua stipulazione, ossia quando il reato si perfezioni con
il contratto illecito e si prolunghi sino al pagamento.
26 In presenza di una qualunque delle fattispecie estintive previste dall’ordinamento (adempimento, remissione,
prescrizione, etc.). 27 Laddove la fattispecie estintiva non sia facilmente percepibile dal creditore, come nei casi di adempimento del terzo,
novazione, prescrizione.
Per comprendere il fenomeno occorre accennare alla categoria del reato «a consumazione
prolungata», elaborata con riferimento alle fattispecie di reati contro beni incomprimibili (che, una
volta aggrediti, non sono suscettibili di riespansione alla cessazione dell’illecito), che non si
consumano istantaneamente, in ragione della natura dell’aggressione, la quale si articola in due fasi
distinte, ma tra loro connesse: la prima relativa all’accordo, la seconda diretta ad ottenere il
pagamento del profitto illecito.
L’esempio più pertinente alla traccia è l’usura (art. 644 c.p.), qualora alla promessa segua, a
distanza di tempo, la dazione degli interessi usurari.
Il delitto in questione è stato per lungo tempo qualificato dalla dottrina e dalla giurisprudenza
come reato istantaneo con effetti permanenti. Conseguentemente, la fattispecie si riteneva
consumata al momento della promessa, rispetto alla quale le successive dazioni venivano
considerate come post-factum non punibile. L’orientamento tradizionale è stato tuttavia
progressivamente ripudiato per effetto della riforma operata con la legge n. 108 del 1996, che ha
introdotto l’art. 644-ter c.p., secondo cui “la prescrizione del reato di usura decorre dal giorno
dell’ultima riscossione sia degli interessi che del capitale”. Inizialmente, dal combinato disposto
della norma citata con l’art. 158 c.p. – secondo cui il termine della prescrizione decorre dal giorno
della consumazione e, per il reato permanente, dal giorno in cui la permanenza è cessata – è stato
argomentato che l’usura, nell’ipotesi in cui alla promessa segua in un momento successivo il
pagamento, ha natura di reato permanente.
In tempi più recenti la giurisprudenza ha osservato come il reato di usura possa ricostruirsi
secondo un duplice schema: come fattispecie istantanea, ove risulti integrata dalla dazione di un
unico pagamento che avvenga contestualmente all’accordo; ovvero come fattispecie «a
consumazione prolungata», nel senso che, perfezionatosi il reato in virtù dell’accordo, qualora in
tempi successivi siano effettuati distinti pagamenti, ciascuno di essi differisce nel tempo il momento
di consumazione del reato. Nella ricostruzione del delitto di usura la giurisprudenza ha utilizzato il
modello concettuale elaborato per il delitto di corruzione, disegnato come reato a doppio schema:
accettazione della promessa seguita o non seguita dal ricevimento dell’utilità. Il reato è perfetto già
nel momento dell’accordo illecito, ma si consuma nel momento in cui lo stesso trova esecuzione,
attraverso la dazione del prezzo, eventualmente rateizzata.
Questa tesi appare più corretta di quella tradizionale, che attribuiva alla dazione della
retribuzione valore di post factum non punibile: sul piano formale la ricezione del pagamento entra
nel fatto tipico, sul piano sostanziale essa rappresenta l’esecuzione del contratto illecito, sicché sotto
entrambi i profili non può restare estranea all’incriminazione.
Si tratta, dunque, di una situazione non propriamente assimilabile alla categoria della
permanenza eventuale del reato, ma configurabile secondo una categoria intermedia tra reato
istantaneo e di durata, caratterizzata dallo scollamento tra perfezione e consumazione, questa da
intendersi non tanto come momento di cessazione dell’illecito, ma come fase in cui il reato
raggiunge, tramite una condotta esecutiva, la sua massima gravità concreta, in quello stesso
momento esaurendosi.
Si applica, pertanto, la disciplina del reato permanente, ove compatibile, come in tema di
concorso di persone realizzatosi nella fase compresa tra il perfezionamento e la consumazione, di
cui il caso classico è proprio quello di chi, non avendo preso parte alla pattuizione illecita, provveda
alla riscossione del prezzo.
La giurisprudenza in materia può dirsi consolidata:
- «in tema di usura, qualora alla promessa segua – mediante la rateizzazione degli interessi
convenuti – la dazione effettiva di essi, questa non costituisce un post factum penalmente non
punibile, ma fa parte a pieno titolo del fatto lesivo penalmente rilevante e segna, mediante la
concreta e reiterata esecuzione dell’originaria pattuizione usuraria, il momento consumativo
“sostanziale” del reato, realizzandosi, così, una situazione non necessariamente assimilabile alla
categoria del reato eventualmente permanente, ma configurabile secondo il duplice e alternativo
schema della fattispecie tipica del reato, che pure mantiene intatta la sua natura unitaria e
istantanea, ovvero con riferimento alla struttura dei delitti cosiddetti a condotta frazionata o a
consumazione prolungata (n. 11055 del 1998 Rv. 211610, n. 41045/05 n.34910 del 2008, Rv.
241818). Aderendo allo schema giuridico dell’usura intesa appunto quale delitto a consumazione
prolungata o – come sostiene autorevole dottrina – a condotta frazionata, ne deriva che
effettivamente colui il quale riceve l’incarico di recuperare il credito usurario e riesce ad ottenerne
il pagamento concorre nel reato punito dall’art. 644 c.p., in quanto con la sua azione volontaria
fornisce un contributo causale alla verificazione dell’elemento oggettivo di quel delitto»28.
- «Risponde del delitto di concorso in usura – reato a condotta frazionata o a consumazione
prolungata – il soggetto che, in un momento successivo alla formazione del patto usurario, ricevuto
l'incarico di recuperare il credito, riesce ad ottenerne il pagamento, laddove invece, se il recupero
non avviene, l'incaricato risponde del reato di favoreggiamento personale o, nell'ipotesi di violenza
o minaccia nei confronti del debitore, di estorsione, atteso che in tali casi il momento consumativo
dell’usura rimane quello originario della pattuizione»29.
Il concorso tra (concorso in) usura e (concorso in) estorsione è di natura formale (art. 81,
comma 1 c.p.), poiché gli eventi lesivi sono causati da un’unica azione.
Oltre che nei reati contratto a consumazione prolungata, l’esattore può concorrere nei reati
permanenti la cui tipicità inglobi l’attività di riscossione del credito.
Al riguardo viene in rilievo l’ipotesi che l’incarico alla riscossione con metodi illegali sia
conferito da un’organizzazione di tipo mafioso, nell’ambito dell’attività da essa svolta (il c.d.
pizzo), a un esterno, che ambisca ad entrare nell’organizzazione, come prova cui è subordinata
l’affiliazione.
A tale ricostruzione può obiettarsi che l’intimidazione estorsiva può costituire solo un indizio
della condotta di partecipazione all’associazione, la quale non si compie in un unico atto, ma
postula la messa a disposizione stabile della propria opera.
28 Cass. sez. II, 24 novembre 2017 n. 53479. 29 Cass. sez. V, 24 giugno 2014 n. 42849.
DIRITTO AMMINISTRATIVO
«Delineati i tratti essenziali del giudizio di ottemperanza, si soffermi il candidato sulla
penalità di cui all'art. 114, comma 4, lett. e) del D.L.vo n. 104/2010 (c.d. “astreinte”) e sulla
ammissibilità di una sua revisione nel “giudizio per chiarimenti”».
Il tema, strutturato secondo lo schema generale/particolare/particolare verte su un istituto di
nuovo conio nel nostro ordinamento: la ‘astreinte’, misura di coercizione indiretta di un comando
giurisdizionale, che nel processo amministrativo è collocato nel giudizio di ottemperanza, ossia una
giurisdizione di merito, coinvolgendone dunque la natura e la funzione.
L’ordine logico di trattazione è verticale:
1. Giudizio di ottemperanza.
2. Aspetti teorici della astreinte.
3. La penalità di cui all’art. 114, comma 4, lett. e) CPA.
4. Ammissibilità della sua revisione nel giudizio per chiarimenti.
1. Giudizio di ottemperanza
La materia dell’esecuzione del giudicato nei confronti della P.A. è piuttosto complessa e deve
tener conto da un lato della peculiarità del rapporto intercorrente tra privato e pubblica
amministrazione, dall’altro del principio di separazione dei poteri. La problematica è stata risolta
con l’introduzione del giudizio di ottemperanza, attribuito alla giurisdizione amministrativa di
merito.
Il giudizio di ottemperanza nasce come strumento per l’esecuzione delle sentenze del giudice
ordinario, residuo storico dell’unicità della giurisdizione ordinaria sulle controversie in cui è parte
una pubblica amministrazione. L’art. 112, comma 2, lett. c) CPA stabilisce che l’azione di
ottemperanza può essere proposta per ottenere l’attuazione “delle sentenze passate in giudicato e
degli altri provvedimenti ad esse equiparati del giudice ordinario, al fine di ottenere l’adempimento
dell’obbligo della pubblica amministrazione di conformarsi, per quanto riguarda il caso deciso, al
giudicato”.
Presupposto dell’ottemperanza alle sentenze del giudice ordinario è, dunque, l’obbligo
dell’autorità amministrativa di conformarsi al giudicato, che trova fondamento negli artt. 2 e 4 della
legge 20 marzo 1865, n. 2248, all. E. In particolare, l’art. 4, comma 2 stabilisce che “L’atto
amministrativo non potrà essere revocato o modificato se non sovra ricorso alle competenti
autorità amministrative, le quali si conformeranno al giudicato dei tribunali per quanto riguarda il
caso deciso”.
La disposizione in esame si riferisce alle ipotesi in cui, pur essendo il privato titolare di un
diritto soggettivo, la controversia ha per oggetto un atto amministrativo, non paritetico. In tali
situazioni il giudice ordinario non può annullare, revocare o modificare l’atto illegittimo, di cui ha
avuto cognizione al fine di statuire sulla lesione del diritto soggettivo, tramite la c.d. disapplicazione
impropria. Tuttavia, trattandosi di cognizione principale e non incidentale, l’accertamento sulla
legittimità dell’atto entra nel contenuto del giudicato, obbligando la P.A. a tenerne conto. Il punto di
mediazione tra i limiti ai poteri del giudice ordinario sull’atto – espressione del citato principio di
separazione tra giurisdizione ed amministrazione – e l’efficacia oggettiva della sua sentenza sono
individuati, appunto, dalla norma citata, che lascia alla P.A. la conformazione al giudicato. In tali
casi, ove la P.A. non si adegui al giudicato, il privato non potrà che rivolgersi al giudice
dell’ottemperanza.
Qualora, invece, la controversia non abbia ad oggetto atti – o attività – amministrative, ma
l’azione di diritto comune della P.A. – atti paritetici e meri comportamenti – il giudice ordinario non
avrà alcun limite e le relative sentenze saranno suscettibili di esecuzione forzata in base al codice di
procedura civile. Non essendo il giudizio di ottemperanza alla sentenze del giudice ordinario
circoscritto dalla natura delle controversie decise, anche in tali ipotesi la parte privata potrà optare
per il ricorso al giudice dell’ottemperanza, quale rimedio da potersi esperire in via alternativa
rispetto all’esecuzione disciplinata dal rito ordinario. Peraltro, anche ove la fase della cognizione
non implichi alcun accertamento sulla funzione amministrativa, l’esecuzione forzata civile può
essere problematica o, addirittura, impossibile. Ciò, in particolare, ove l’esecuzione del comando
giurisdizionale comporti attività infungibili, anche se di diritto privato, o l’adozione di veri e propri
atti amministrativi, come accade, ad esempio, in materia di pubblico impiego privatizzato, qualora
l’attuazione di una sentenza ripristinatoria del dipendente interferisca con l’organizzazione
amministrativa.
L’art. 112, comma 2 CPA stabilisce che l’azione di ottemperanza può essere proposta per
ottenere l’attuazione “a) delle sentenze del giudice amministrativo passate in giudicato; b) delle
sentenze esecutive e degli altri provvedimenti esecutivi del giudice amministrativo”, in coerenza al
comma 1, secondo cui “I provvedimenti del giudice amministrativo devono essere eseguiti dalla
pubblica amministrazione e dalle altre parti”. Occorre dunque richiamare le sentenze di
accoglimento del ricorso.
In primo piano viene il giudicato di annullamento, che resta quello di gran lunga prevalente
nella giurisdizione di legittimità. Il suo effetto tipico è quello demolitorio, che comporta la
caducazione, totale o parziale, dell’atto impugnato. L’annullamento del provvedimento impugnato
non arrecherebbe una piena tutela al destinatario di una pronuncia favorevole se ad esso non si
accompagnasse l’effetto preclusivo, ovvero l’obbligo per l’Amministrazione di non assumere il
provvedimento annullato a presupposto di ulteriori atti e l’obbligo di non reiterarlo in termini
identici o equipollenti. Ulteriore corollario dell’annullamento, segnatamente della retroattività, è
l’effetto ripristinatorio, essendo diretta conseguenza dell’eliminazione ex tunc dell’efficacia del
provvedimento l’obbligo di rimuoverne gli effetti medio tempore generatisi, ivi compresi quelli di
ordine materiale. Sull’ente pubblico che ha adottato l’atto impugnato grava, dunque, il dovere di
adeguare lo stato di fatto alla situazione di diritto accertata dalla sentenza.
Se oggetto del giudizio di annullamento è un provvedimento emanato nell’esercizio di una
funzione amministrativa discrezionale, la portata oggettiva del giudicato non è esaurita dall’effetto
demolitorio e da quello preclusivo, atteso che la sentenza non estingue il potere amministrativo, ma
ne conforma il nuovo esercizio. La sentenza di accoglimento del ricorso obbliga l’amministrazione
a rinnovare il potere nel rispetto delle indicazioni contenute nella motivazione e, precisamente, nei
punti in cui sono accolti i motivi proposti con il ricorso. Le argomentazioni sulla cui base il giudice
ha ritenuto fondate le censure di legittimità formulate contro il provvedimento indirizzano l’attività
amministrativa: è l’effetto conformativo.
In tutti i casi in cui le sentenze del giudice amministrativo non siano autoesecutive, ma
richiedano che l’Amministrazione ponga in essere dei nuovi atti o comportamenti in attuazione del
pronunciamento del giudice (tipicamente in materia di interessi legittimi pretensivi), è corretto
parlare di obbligo di ottemperanza della P.A. al giudicato amministrativo.
Tale obbligo sussiste a maggior ragione in relazione alle sentenze che non annullano – o non si
limitano ad annullare – atti amministrativi, ma condannano la pubblica amministrazione al
risarcimento dei danni, al compimento di attività, all’emanazione di determinati provvedimenti. Da
tali pronunce, che hanno natura ordinatoria, sorge l’obbligo di tenere la condotta individuata nel
dispositivo.
In dottrina la natura del giudizio di ottemperanza è controversa, essendo sostenute tre tesi: due
estreme, che lo classificano rispettivamente tra i giudizi di cognizione e quelli di esecuzione; una
terza intermedia, che lo qualifica come giudizio misto, di cognizione ed esecuzione.
Ha prevalso la concezione intermedia30.
In adesione a tale postulato, la giurisprudenza più recente31 ricostruisce la disciplina dell’azione
di ottemperanza non come mera azione di esecuzione della sentenza e/o di altro provvedimento
ad essa equiparabile, ma in virtù del contenuto multiforme della domanda, la quale può essere:
a) rivolta, in generale, a conseguire l’attuazione delle sentenze o altri provvedimenti ad esse
equiparati, del giudice amministrativo o di altro giudice diverso da questi, con esclusione delle
sentenze della Corte dei Conti e del giudice tributario, o, più in generale, di quei provvedimenti di
giudici diversi dal giudice amministrativo per i quali sia previsto il rimedio dell’ottemperanza
(comma 2). L’ampiezza della previsione normativa impedisce di ricondurre la natura dell’azione a
quella di pura esecuzione di una sentenza pronunciata a conclusione di un giudizio di cognizione o
altro provvedimento ad essa equiparato, essendo del tutto evidente la presenza di profili di
accertamento e pronuncia del giudice di natura cognitoria, volti alla migliore conformazione
dell’ulteriore esercizio del potere amministrativo;
b) rivolta ad ottenere la condanna al pagamento di somme a titolo di rivalutazione e interessi
maturati dopo il passaggio in giudicato della sentenza (comma 3, prima parte). In questa ipotesi,
l’azione ha mera natura esecutiva, ed essa è evidentemente attratta dal giudizio di ottemperanza,
stante la natura di obbligazioni accessorie di obbligazioni principali, in ordine alle quali si è già
pronunciata una precedente sentenza o provvedimento equiparato;
c) rivolta ad ottenere il risarcimento dei danni connessi all’impossibilità o comunque alla
mancata esecuzione in forma specifica, totale o parziale, del giudicato o alla sua violazione o
elusione (comma 3, seconda parte). In quest’ultimo caso l’azione non è rivolta all’attuazione di una
precedente sentenza o provvedimento equiparato, ma trova in questi ultimi solo il presupposto
perché un nuovo e distinto comportamento dell’amministrazione, che si presenti inadempiente al
giudicato, renda impossibile il ripristino della posizione soggettiva innanzi pregiudicata dalla stessa
amministrazione (anche) mediante un esercizio illegittimo del potere amministrativo ovvero sia
produttivo di danno. Si tratta di una azione nuova, esperibile proprio perché è l’ottemperanza stessa
divenuta impossibile ovvero ulteriori danni sono derivati alla parte vittoriosa per mancata
esecuzione, violazione o elusione del giudicato, in ordine alla quale la competenza a giudicare è, per
evidenti ragioni di economia processuale e, quindi, di effettività della tutela giurisdizionale,
attribuita al giudice dell’ottemperanza.
30 Ad. Plenaria, n. 2 del 2013: «il giudizio di ottemperanza presenta un contenuto composito, entro il quale convergono
azioni diverse, talune riconducibili alla ottemperanza come tradizionalmente configurata; altre di mera esecuzione di
una sentenza di condanna pronunciata nei confronti della Pubblica Amministrazione; altre ancora aventi natura di
cognizione, e che, in omaggio ad un principio di effettività della tutela giurisdizionale, trovano nel giudice
dell’ottemperanza il giudice competente, e ciò anche a prescindere dal rispetto del doppio grado di giudizio di merito
(principio che peraltro, come è noto, non ha copertura costituzionale)». 31 Cons. Stato, sez. IV, n. 258 del 2013.
Il giudizio di ottemperanza a una sentenza del giudice ordinario ha carattere necessariamente di
cognizione ed eventualmente di esecuzione. Il giudice, infatti, non può prescindere da accertare il
contenuto del giudicato ordinario – atteso che lo stesso non ha direttamente ad oggetto il potere
amministrativo – e verificare se l’Amministrazione si sia conformata, senza però poter dettare
statuizioni integrative. Qualora accerti l’inadempimento, il giudice dell’ottemperanza provvederà
anche all’esecuzione del giudicato.
Se l’ottemperanza riguarda un giudicato amministrativo, necessario è il momento di esecuzione
ed eventuale quello di cognizione. Precisamente, nel caso in cui il giudicato contenga delle
prescrizioni sufficientemente precise e dettagliate, di talché la sua efficacia oggettiva non lasci alla
P.A. margini di discrezionalità, il giudice dell’ottemperanza si limiterà a svolgere attività di
esecuzione. Nel caso in cui il giudicato abbia lasciato alla Pubblica Amministrazione margine di
scelta tra l’adozione di uno o più provvedimenti o comportamenti per la realizzazione del giudicato,
il giudice dell’ottemperanza deve svolgere attività di cognizione, nel merito, per completare la
regola del giudicato.
Tuttavia, anche se il giudicato sia puntuale, un’attività di cognizione in senso lato resta pur
sempre necessaria, onde accertarne il contenuto ed evitare di conferire al ricorrente di meno o di più
di quanto gli spetti. Esiste, inoltre, la possibilità che nel giudizio di ottemperanza si verifichino
ulteriori momenti cognitori, volti all’esame delle sopravvenienze di fatto e di diritto.
Ammessa la possibilità di dettare un contenuto integrativo della pronuncia di cognizione, si è
posto il problema se questo possa concorrere a formare il giudicato.
Al riguardo la giurisprudenza ha elaborato al teoria del c.d. giudicato progressivo, che è stata
cristallizzata da una pronuncia del Consiglio di Stato nella massima composizione: «nell’ipotesi di
azione di annullamento di un provvedimento discrezionale e di azione avente ad oggetto attività
discrezionale non ancora esercitata dall’Amministrazione, si assiste “alla formazione di un
giudicato che contiene una regola incompleta”, senza che il sindacato possa estendersi all’intero
rapporto controverso, posto che ciò costituirebbe uno sconfinamento nel merito amministrativo da
parte del giudice e di conseguenza, un possibile eccesso di potere giurisdizionale»32.
32 Cons. Stato, Ad. Pl,, n. 11 del 2016. Più nel dettaglio in tema di effetti del tempo e delle sopravvenienze sulle
situazioni giuridiche dedotte in giudizio in relazione alla portata precettiva dei giudicati la pronuncia afferm i seguenti
principi:
«a) l’esecuzione del giudicato amministrativo non può essere il luogo per tornare a mettere ripetutamente in discussione
la situazione oggetto del ricorso introduttivo di primo grado, su cui il giudicato ha, per definizione, conclusivamente
deciso; b) l’Amministrazione soccombente a seguito di sentenza irrevocabile di annullamento di propri provvedimenti
ha l’obbligo di ripristinare la situazione controversa, a favore del privato e con effetto retroattivo, per evitare che la
durata del processo vada a scapito della parte vittoriosa; c) questa retroattività dell’esecuzione del giudicato non può
essere intesa in senso assoluto, ma va parametrata alle circostanze del caso concreto ed alla natura dell’interesse
legittimo coinvolto (pretensivo, oppositivo, procedimentale); d) tale obbligo, pertanto, non incide sui tratti liberi
dell’azione amministrativa lasciati impregiudicati dallo stesso giudicato e, in primo luogo, sui poteri non esercitati e
fondati su presupposti fattuali e normativi diversi e successivi rispetto a quest’ultimo; e) nella contrapposizione fra
naturale dinamicità dell’azione amministrativa nel tempo ed effettività della tutela, un punto di equilibrio è stato
tradizionalmente rinvenuto nel principio generale per cui l’esecuzione del giudicato può trovare limiti solo nelle
sopravvenienze di fatto e diritto antecedenti alla notificazione della sentenza divenuta irrevocabile; sicché la
sopravvenienza è strutturalmente irrilevante sulle situazioni giuridiche istantanee, mentre incide su quelle durevoli nel
solo tratto dell’interesse che si svolge successivamente al giudicato, determinando non un conflitto ma una successione
cronologica di regole che disciplinano la situazione giuridica medesima; f) anche per le situazioni istantanee, però, la
retroattività dell’esecuzione del giudicato trova, peraltro, un limite intrinseco e ineliminabile nel sopravvenuto
mutamento della realtà - fattuale o giuridica - tale da non consentire l’integrale ripristino dello statu quo ante che
semmai, ove ne ricorrano le condizioni, può integrare il presupposto esplicito della previsione del risarcimento del
danno, per impossibile esecuzione del giudicato, sancita dall’art. 112 comma 3 Cod. proc. amm.».
Il giudizio di ottemperanza è proponibile tanto nei casi di violazione quanto di elusione del
giudicato, non quando si fanno valere vizi dell’azione amministrativa che esulino dal contenuto del
giudicato.
Non sempre è agevole distinguere tra vizio di eccesso di potere spettante al giudizio di
cognizione e violazione/elusione del giudicato spettante al giudizio di ottemperanza, con il rischio
che, ritenendo erroneamente sussistente la seconda ipotesi, il giudice amministrativo superi i limiti
esterni della giurisdizione amministrativa.
La giurisprudenza ha affermato che il giudizio di ottemperanza si scompone in una triplice
operazione logica di: a) interpretazione del giudicato al fine di individuare il comportamento
doveroso per la pubblica amministrazione in sede di esecuzione; b) accertamento del
comportamento in effetti tenuto dalla medesima amministrazione; c) valutazione della conformità
del comportamento tenuto dall’amministrazione rispetto a quello imposto dal giudicato. Al di fuori
dell’esercizio di tali poteri o in assenza dei relativi presupposti, il giudice amministrativo esorbita
dai limiti del sindacato ammesso33.
Venendo ai poteri del giudice dell’ottemperanza e al quesito specifico che la traccia pone, l’art.
114, comma 4 stabilisce che “Il giudice, in caso di accoglimento del ricorso:
a) ordina l’ottemperanza, prescrivendo le relative modalità, anche mediante la determinazione del
contenuto del provvedimento amministrativo o l’emanazione dello stesso in luogo
dell’amministrazione;
b) dichiara nulli gli eventuali atti in violazione o elusione del giudicato;
c) nel caso di ottemperanza di sentenze non passate in giudicato o di altri provvedimenti, determina
le modalità esecutive, considerando inefficaci gli atti emessi in violazione o elusione e provvede di
conseguenza, tenendo conto degli effetti che ne derivano;
d) nomina, ove occorra, un commissario ad acta;
e) salvo che ciò sia manifestamente iniquo, e se non sussistono altre ragioni ostative, fissa, su richiesta
di parte, la somma di denaro dovuta dal resistente per ogni violazione o inosservanza successiva,
ovvero per ogni ritardo nell’esecuzione del giudicato; tale statuizione costituisce titolo esecutivo”.
La lettera a) raccoglie tutte le tipologie di decisioni che il giudice dell’ottemperanza può
adottare, dall’ordine di dare attuazione al giudicato, variamente articolato, sino alla diretta
emanazione dei provvedimenti in luogo dell’amministrazione. Nei casi in cui adotti misure
ordinatorie, ai sensi della lettera d), può nominare un commissario ad acta per l’ipotesi di
inadempimento nel termine assegnato. In assenza di indicazioni normative, taluni autori
considerano il termine perentorio, con la conseguenza che gli atti adottati dopo la scadenza del
termine, pur non essendo affetti da nullità, possono essere modificati o integrati dal giudice. La
giurisprudenza, invece, ritiene che residua in ogni caso in capo all’amministrazione il potere-dovere
di provvedere; l’unico limite per l’amministrazione è costituito dal rispetto del giudicato e dalla
sindacabilità da parte del giudice dell’ottemperanza.
L’opzione tra le diverse soluzioni possibili deve tener conto che oggi, in base all’art. 34, comma
1, lett. e) CPA, talune misure tipiche dell’ottemperanza, compresa la nomina del commissario ad
acta, possono essere anticipate in sede di cognizione. In tal modo l’ottemperanza acquista un
connotato esecutivo più spiccato, agevolando da subito l’esercizio poteri sostitutivi.
L’ampiezza dei poteri del giudice in sede di ottemperanza non risulta più strettamente
delimitata dal contenuto della pronuncia giurisdizionale che è chiamato ad eseguire.
33 Cass. sez. un., n 5058 del 2017.
Sono espressamente previsti i poteri di dichiarare la nullità degli atti adottati in violazione ed
elusione del giudicato e disapplicare quelli adottati in violazione ed elusione di sentenze non
definitive o altre pronunce giurisdizionali, nonché quello di condannare la parte resistente al
pagamento di una somma di denaro per ogni inadempimento alla sentenza di ottemperanza.
Con riguardo alla possibilità per il giudice di fissare su richiesta di parte, salvo che non sia
manifestamente iniquo e non vi siano ragioni ostative, la somma di denaro dovuta dal resistente per
ogni violazione o inosservanza successiva, ovvero per ogni ritardo nell’esecuzione del giudicato, la
giurisprudenza da tempo ha chiarito che si tratta di una vera e propria penalità di mora (astreinte),
che assolve ad una finalità sanzionatoria e non risarcitoria, in quanto non è volta a riparare il
pregiudizio cagionato dalla non esecuzione della sentenza, ma a sanzionare la disobbedienza alla
statuizione giudiziaria e stimolare il debitore all’adempimento34.
Va considerato, altresì, il potere di condanna al pagamento di somme a titolo di rivalutazione e
interessi maturati dopo il passaggio in giudicato della sentenza o a titolo di risarcimento dei danni
connessi alla mancata esecuzione in forma specifica del giudicato o alla sua violazione o elusione.
Emerge, dunque, come il giudice dell’ottemperanza sia divenuto il «signore dell’esecuzione»,
nel senso che egli è chiamato ad occuparsi di tutte le vicende posteriori alla sentenza di cognizione
che si pongano con essa in conflitto.
Infine, il comma 5 dell’art. 112 prevede che il ricorso può essere proposto anche al fine di
“ottenere chiarimenti in ordine alle modalità di ottemperanza”; ai sensi dell’art. 114, comma 7, se
il ricorso è stato proposto, anche il commissario ad acta può avanzare richiesta di chiarimenti. Si
tratta di una previsione innovativa, che introduce una fase quasi precontenziosa in cui sia
l’amministrazione che il controinteressato possono domandare al giudice l’interpretazione della
sentenza di cognizione, sempre nei limiti della intangibilità del giudicato da eseguire. È stato
chiarito che ricorso in esame non presenta caratteristiche che consentano di ricondurlo, in senso
sostanziale, al novero delle azioni di ottemperanza. Ciò emerge dal lessico usato dal legislatore, il
quale prevede che ad essere utilizzabile in questi casi non è la “azione di ottemperanza”, ma “il
ricorso” introduttivo del giudizio di ottemperanza (cioè l’atto processuale), nonché dalla circostanza
che, a differenza dell’azione di ottemperanza, che è naturalmente esperita dalla parte già vittoriosa
nel giudizio di cognizione o in altra procedura a questa equiparabile, in questo caso il ricorso appare
proponibile anche dalla parte soccombente (e segnatamente dalla Pubblica Amministrazione
soccombente nel precedente giudizio)35.
2. Aspetti teorici della astreinte
Le astreintes sono modelli di coercizione indiretta all’adempimento elaborati nell’esperienza
giudiziaria francese, poi codificati dalla legge.
Consistono in una somma da pagare da parte del debitore inadempiente qualora questo si
rifiuti di ottemperare all’ordine del giudice di eseguire la prestazione dovuta. La somma ingiunta è
valutata non in base al danno subito dall’avente titolo, bensì alla capacità patrimoniale del debitore
inadempiente ed eventualmente da altri parametri come il grado di colpa: questo perché l’astreinte
non è una forma riparatoria, ma un mezzo di coercizione affinché quella prestazione venga
effettuata.
34 Cons. Stato, IV, 31 maggio 2012, n. 3272; 11 giugno 2012, n. 3397; VI, 6 agosto 2012, n. 4523; AP 25 giugno 2014, n. 15. 35 Cons. Stato, Ad. Pl., n. 2 del 2013.
Tale questione ha creato notevoli dibattiti nell’ambiente giuridico francese in quanto i giudici
erano soliti comminare astreintes in base all’entità del danno subito: la Cassazione francese ha
dovuto eliminare ogni dubbio in merito a domande di privati che giudicavano troppo onerosa la
pena comminata in base all’oggetto del contenzioso, stabilendo che non si trattava di una misura
relativa al danno o alla prestazione, ma applicata allo scopo di far adempiere il debitore.
In sede di teoria generale l’astreinte si ricollega al problema dell’adempimento degli obblighi
di fare o di non fare infungibili e coinvolge:
a) profili sostanziali, attinenti alla consolidata nozione di obbligazione come vincolo sul patrimonio
e non sulla persona, messa in crisi dalla categoria dei contratti esistenziali o, più semplicemente,
aventi ad oggetto prestazioni di fare dirette alla tutela di interessi non patrimoniali;
b) profili processuali, attinenti al principio di effettività della tutela giurisdizionale e alla priorità
della tutela in forma specifica36.
L’ordinamento dei privati prevede un sistema intermedio ai fini della coazione di obblighi di
fare e di non fare.
L’art. 2931 c.c. prevede che “se non è adempiuto un obbligo di fare, l’avente diritto può
ottenere che esso sia eseguito a spese dell’obbligato nelle forme stabilite dal codice di procedura
civile”.
L’art. 2933 c.c. stabilisce che “se non è adempiuto un obbligo di non fare, l’avente diritto può
ottenere che sia distrutto, a spese dell’obbligato, ciò che è stato fatto in violazione dell’obbligo.
Non può essere ordinata la distruzione della cosa e l’avente diritto può conseguire solo il
risarcimento dei danni, se la distruzione della cosa è di pregiudizio per l’economia nazionale”.
L’art. 612 c.p.c. stabilisce che “chi intende ottenere l’esecuzione forzata di una sentenza di
condanna per violazione di un obbligo di fare, o di non fare, dopo la notificazione del precetto,
deve chiedere con ricorso al giudice dell’esecuzione che siano determinate le modalità
dell’esecuzione”.
La giurisprudenza ha interpretato queste disposizioni nel senso che, pur essendo ammissibile
una sentenza del giudice civile che condanni il debitore all’adempimento in forma specifica di
obbligo infungibili di fare o di non fare, la sentenza non è suscettibile di essere eseguita nelle forme
contemplate dall’art. 612.
In ragione di tale limitazione il legislatore ha introdotto l’art. 614-bis c.p.c.37, secondo cui:
“Con il provvedimento di condanna all’adempimento di obblighi diversi dal pagamento di somme
di denaro il giudice, salvo che ciò sia manifestamente iniquo, fissa, su richiesta di parte, la somma
di denaro dovuta dall’obbligato per ogni violazione o inosservanza successiva, ovvero per ogni
ritardo nell’esecuzione del provvedimento. Il provvedimento di condanna costituisce titolo
esecutivo per il pagamento delle somme dovute per ogni violazione o inosservanza. Le disposizioni
di cui al presente comma non si applicano alle controversie di lavoro subordinato pubblico e
privato e ai rapporti di collaborazione coordinata e continuativa di cui all’articolo 409.
36 Avvertita sempre più anche nel diritto amministrativo, dove si inizia a parlare di ‘giurisdizione di risultato’, sia per
l’ampio ventaglio di azioni, sia per l’ampliamento del sindacato sulla discrezionalità amministrativa, sia per il
rafforzamento della tutela in forma specifica. 37 I cui precedenti settoriali si ravvisano nelle seguenti disposizioni:
- art. 156, comma 1 legge 22 aprile 1941 n. 633 (tutela del diritto d’autore);
- art. 18 legge 300/1970 (Statuto dei lavoratori);
- art. 124, comma 2 e art. 131, comma 2 d.lgs. 30/2005 (Codice della proprietà industriale);
- art. 140, comma 7 d.lgs. 206/2005 (Codice del consumo).
Il giudice determina l’ammontare della somma di cui al primo comma tenuto conto del valore
della controversia, della natura della prestazione, del danno quantificato o prevedibile e di ogni
altra circostanza utile”.
Trattasi di sanzione pecuniaria applicabile solo su istanza di parte e all’esito di un
procedimento giurisdizionale, definito con una condanna a tenere o ad astenersi dal tenere una
determinata condotta (atteso che per gli altri operano le norme generali sull’esecuzione forzata in
forma specifica, rispetto ai quali l’istituto in esame non avrebbe alcuna funzione aggiuntiva); ne
consegue che presupposto indefettibile è l’esistenza di un provvedimento di condanna e,
procedendo a ritroso, l’esercizio di un’azione volta ad ottenere una tutela che si esplichi nella forma
condannatoria.
L’accessorietà dell’astreinte rispetto alla domanda giudiziale principale aiuta a comprendere
come la sanzione pecuniaria, sebbene diretta a favore del creditore, non assorba la domanda
risarcitoria, né sia una forma di compensazione o di voce del danno subito dal creditore. L’azione di
risarcimento del danno non solo, infatti, ha una propria autonomia che la rende proponibile
congiuntamente o disgiuntamente alla domanda giudiziale principale, ma ha l’innegabile finalità di
ristorare un danno che è anteriore rispetto al processo o che continua a produrre i suoi effetti in
corso di causa; ne deriva che il pregiudizio ristorato è preesistente alla statuizione giudiziale. Al
contrario, l’istituto in argomento, come già anticipato, non è orientato a compensare il danno, ma a
costringere il debitore uscito soccombente dalla procedura giurisdizionale ad uniformarsi alla
decisione del giudice, laddove questi lo abbia condannato ad un fare infungibile o ad un non fare.
Essendo l’inadempimento alla statuizione giudiziale solo un evento futuro ed eventuale al momento
della condanna, la sanzione pecuniaria di cui al provvedimento dell’organo giudicante adito pende
come una spada di Damocle sul capo del debitore, sollecitandolo a non aggravare la propria
situazione.
La distinzione con il risarcimento del danno evoca il rapporto tra astreinte e danni punitivi,
previsti in disposizioni normative sparse38, la cui legittimità nel nostro ordinamento è stata di
recente ammessa in via generale39.
La suprema Corte ha così riassunto la differenza tra i due istituti: «l’astreinte mira
all’adempimento di un obbligo ormai posto all’interno della relazione diretta tra le parti, in quanto
derivante dal provvedimento giudiziale (anche qualora in origine si trattasse di illecito
extracontrattuale) e da adempiersi in futuro; il danno punitivo – ma solo se riguardato come
previsione normativa astratta fra gli strumenti a disposizione del giudice adito – all’adempimento
38 - Art. 12 della legge 8 febbraio 1948 n. 47;
- art. 96, comma 3 del codice di procedura civile;
- art. 26, comma 2 del codice del processo amministrativo;
- art. 709 ter, comma 2, del codice di procedura civile;
- art. 125 del codice della proprietà industriale;
- art. 158 della legge 22 aprile 1941 n. 633;
- art. 187 undecies, comma 2, del testo unico della finanza;
- art. 3-5 del d.lgs.15 gennaio 2016 n. 7. 39 Cass. sez. un., 5 luglio 2017, n. 16601: «Nel vigente ordinamento, alla responsabilità civile non è assegnato solo il
compito di restaurare la sfera patrimoniale del soggetto che ha subìto la lesione, poiché sono interne al sistema la
funzione di deterrenza e quella sanzionatoria del responsabile civile. Non è quindi ontologicamente incompatibile con
l’ordinamento italiano l’istituto di origine statunitense dei risarcimenti punitivi. Il riconoscimento di una sentenza
straniera che contenga una pronuncia di tal genere deve però corrispondere alla condizione che essa sia stata resa
nell’ordinamento straniero su basi normative che garantiscano la tipicità delle ipotesi di condanna, la prevedibilità della
stessa ed i limiti quantitativi, dovendosi avere riguardo, in sede di delibazione, unicamente agli effetti dell’atto straniero
e alla loro compatibilità con l’ordine pubblico».
futuro dell’obbligo generale del neminem laedere o dell’obbligazione contrattuale principale,
restando però il contenuto suo proprio quello di sanzione per il responsabile»40.
La comune funzione deterrente e sanzionatoria porta a ritenere che per le astreintes operino
gli stessi limiti individuati dalle Sezioni Unite per i danni punitivi:
«Così come (cfr p. 5.2) si è detto che ogni prestazione patrimoniale di carattere sanzionatorio
o deterrente non può essere imposta dal giudice italiano senza espressa previsione normativa,
similmente dovrà essere richiesto per ogni pronuncia straniera. Ciò significa che nell'ordinamento
straniero (non per forza in quello italiano, che deve solo verificare la compatibilità della pronuncia
resa all'estero) deve esservi un ancoraggio normativo per una ipotesi di condanna a risarcimenti
punitivi. Il principio di legalità postula che una condanna straniera a "risarcimenti punitivi"
provenga da fonte normativa riconoscibile, cioè che il giudice a quo abbia pronunciato sulla scorta
di basi normative adeguate, che rispondano ai principi di tipicità e prevedibilità. Deve esservi
insomma una legge, o simile fonte, che abbia regolato la materia "secondo principi e soluzioni" di
quel paese, con effetti che risultino non contrastanti con l'ordinamento italiano. Ne discende che
dovrà esservi precisa perimetrazione della fattispecie (tipicità) e puntualizzazione dei limiti
quantitativi delle condanne irrogabili (prevedibilità).
Resta poi nella singolarità di ogni ordinamento, a seconda dell'attenzione portata alla figura
dell'autore dell'illecito o a quella del danneggiato, la declinazione dei risarcimenti punitivi e il loro
ancoraggio a profili sanzionatori o più strettamente compensatori, che risponderà verosimilmente
anche alle differenze risalenti alla natura colposa o dolosa dell'illecito. Presidio basilare per la
analisi di compatibilità si desume in ogni caso dall'art. 49 della Carta dei diritti fondamentali
dell'Unione relativo ai “Principi della legalità e della proporzionalità dei reati e delle pene”. La
sua applicazione comporta, è stato notato anche in dottrina, che il controllo delle Corti di appello
sia portato a verificare la proporzionalità tra risarcimento riparatorio-compensativo e
risarcimento punitivo e tra quest'ultimo e la condotta censurata, per rendere riconoscibile la natura
della sanzione/punizione. La proporzionalità del risarcimento, in ogni sua articolazione, è, a
prescindere da questo disposto normativo, uno dei cardini della materia della responsabilità
civile».
3. La penalità di cui all’art. 114, comma 4, lett. e) CPA
L’art. 114, comma 4, prevede che “Il giudice, in caso di accoglimento del ricorso: […] lett. e)
salvo che ciò sia manifestamente iniquo, e se non sussistono altre ragioni ostative, fissa, su
richiesta di parte, la somma di denaro dovuta dal resistente per ogni violazione o inosservanza
successiva, ovvero per ogni ritardo nell'esecuzione del giudicato; tale statuizione costituisce titolo
esecutivo. Nei giudizi di ottemperanza aventi ad oggetto il pagamento di somme di denaro, la
penalità di mora di cui al primo periodo decorre dal giorno della comunicazione o notificazione
dell'ordine di pagamento disposto nella sentenza di ottemperanza; detta penalità non può
considerarsi manifestamente iniqua quando è stabilita in misura pari agli interessi legali”.
Chiamata a risolvere il contrasto sorto in giurisprudenza circa la possibilità di fare ricorso alle
penalità di mora quando l’esecuzione del giudicato da parte dell’amministrazione soccombente
consista già nel pagamento di una somma di denaro dell’istituto, l’Adunanza Plenaria ha fissato la
natura dell’istituto e il suo rapporto con l’omologo civilistico41.
40 Cass. n. 7613 del 2015. 41 Cons. Stato AP n. 15 del 2014.
Conviene riportare la pronuncia nelle parti essenziali.
Sia l’istituto previsto dal codice del processo amministrativo sia quello contemplato dal codice di
procedura civile sono fortemente innovativi rispetto alla nostra tradizione processuale.
Il legislatore nazionale si è, infatti, mostrato in passato restio all’abbandono dell’ispirazione
liberal-individualistica di matrice ottocentesca, manifestando diffidenza per il recepimento dell’istituto
delle misure coercitive indirette, ritenute una forma di eccessiva ingerenza dello Stato delle libere scelte
degli individui anche in merito all’osservanza, in forma specifica o meno, di un comando giudiziale.
Con l’art. 614-bis cod. proc. civ. e con l’art. 114, comma 4, lettera e, cod. proc. amm., il nostro
ordinamento, conferendo alla misura in esame un respiro generale, ha esibito, quindi, una nuova
sensibilità verso l’istituto delle sanzioni civili indirette, dando seguito ai ripetuti moniti della Corte
Europea dei Diritti dell’Uomo, secondo cui “il diritto ad un tribunale sarebbe fittizio se l’ordinamento
giuridico interno di uno Stato membro permettesse che una decisione giudiziale definitiva e vincolante
restasse inoperante a danno di una parte” (sent. Hornsby c. Grecia, 13/03/1997, e Ventorio c. Italia,
17/05/2011).
Nell’adeguamento dell’ordinamento nazionale al panorama degli ordinamenti più evoluti in
subiecta materia il legislatore ha seguito il modello francese delle cc. dd. “astreintes”, costituenti misure
coercitive indirette a carattere esclusivamente patrimoniale, che mirano ad incentivare l’adeguamento
del debitore ad ogni sentenza di condanna, attraverso la previsione di una sanzione pecuniaria che la
parte inadempiente dovrà versare a favore del creditore vittorioso in giudizio.
Il carattere essenzialmente sanzionatorio della misura, prevista dall’ordinamento francese con
riferimento ad ogni tipo di sentenza di condanna, è dimostrato dal tenore della legge 5 luglio 1972, ove,
all’art. 6, si prevede specificamente che l’astreinte è “indépendante des dommages-intérets”. La natura
giuridica della misura coercitiva indiretta francese, dunque, non è ispirata alla logica riparatoria che
permea la teoria generale della responsabilità civile, dovendosi configurare la sua comminatoria alla
stregua di una pena privata o, più precisamente, di una sanzione civile indiretta. Trattasi, quindi, di una
pena, e non di un risarcimento, che vuole sanzionare la disobbedienza all’ordine del giudice, a
prescindere dalla sussistenza e dalla dimostrazione di un danno. E’ altresì pacifica, nella stessa
prospettiva, la cumulabilità della penalità con il danno cagionato dall’inosservanza del precetto
giudiziale, al pari della non defalcabilità dell’ammontare della sanzione dall’importo dovuto a titolo di
riparazione.
Nel campo dei rapporti amministrativi la legge 8 febbraio 1995 ha poi attribuito anche ai
Tribunaux Administratifs e alle Cours Administraves d’Appel il potere, prima assegnato dal decreto 30
luglio 1963 al solo Conseil d’Etat, di disporre l’astreinte a carico dell’amministrazione inadempiente,
anticipando al momento della pronuncia della sentenza la possibilità di disporre il mezzo di coercizione
indiretta e introducendo un nuovo potere del giudice amministrativo, nei casi in cui l’esecuzione del
giudicato amministrativo comporti necessariamente l’emanazione di un provvedimento dal contenuto
determinato, di ordinare all’amministrazione l’adozione dell’atto satisfattorio e, quando risulti
opportuno, di fissare un termine per l’esecuzione (si veda la disciplina oggi prevista dagli artt. L.911-4 e
911-5 del code de justice administrative).
Norme simili, pur se con modulazioni diverse, sono presenti anche negli ordinamenti tedesco
(c.d. Zwangsgeld) e inglese (c.d. Contempt of Court).
Le Zwangsgeld, in particolare, possono assistere esclusivamente provvedimenti di condanna a
obblighi di fare infungibili o di non fare (come negli ordinamenti rumeno, greco e sloveno) e
consistono in una condanna al pagamento di una somma di denaro (Zwangsgeld/Ordnungsgeld) in
favore dello Stato, con la possibilità di conversione in arresto (Zwangsgeld/Ordnungshaft) nel caso in
cui il debitore non disponga di un patrimonio capiente.
Il Contempt of Court, invece, può, come avviene per le astreintes francesi, essere pronunciato a
fronte della violazione di ogni provvedimento dell’autorità giudiziaria, a prescindere dal suo contenuto,
e consiste in una sanzione pecuniaria da versarsi allo Stato (in alternativa al sequestro di beni) o in una
sanzione detentiva (arrest for the contempt of the court), con facoltà di scelta discrezionale per il
giudice tra la misura patrimoniale e quella limitativa della libertà personale.
3.1. Tutte le misure descritte sono ispirate dalla medesima esigenza di offrire uno strumento di
coazione all’adempimento delle pronunce giurisdizionali.
La breve ricognizione comparatistica effettuata, mettendo in luce l’eterogeneità delle opzioni
abbracciate nei vari ordinamenti circa l’ambito di applicazione delle penalità di mora, consente di
mettere in chiaro che la scelta attuata dall’art. 614-bis c.p.c., al pari di alcuni degli altri ordinamenti
passati in rassegna, di limitare l’astreinte al solo caso di inadempimento degli obblighi aventi ad oggetto
un non fare o un fare infungibile, non deriva da un limite concettuale insito nella ratio o nella struttura
ontologica dell’istituto ma è il frutto di un’opzione discrezionale del legislatore.
4. Si deve, a questo punto, segnalare che la penalità di mora disciplinata dall’art. 114, comma 4,
lett. e, c.p.a. si distingue in modo significativo da quella prevista per il processo civile.
I profili differenziali rispetto all’omologo istituto di cui all’art. 614 bis c.p.c. sono, infatti,
molteplici e di rilevante importanza:
a) mentre la sanzione di cui al 614-bis c.p.c. è adottata con la sentenza di cognizione che definisce il
giudizio di merito, la penalità è irrogata dal Giudice Amministrativo, in sede di ottemperanza, con la
sentenza che accerta il già intervenuto inadempimento dell’obbligo di contegno imposto dal comando
giudiziale;
b) di conseguenza, nel processo civile la sanzione è ad esecuzione differita, in quanto la sentenza che la
commina si atteggia a condanna condizionata (o in futuro) al fatto eventuale dell’inadempimento del
precetto giudiziario nel termine all’uopo contestualmente fissato; al contrario, nel processo
amministrativo l’astreinte, salva diversa valutazione del giudice, può essere di immediata esecuzione, in
quanto è sancita da una sentenza che, nel giudizio d’ottemperanza di cui agli artt. 112 e seguenti c.p.a.,
ha già accertato l’inadempimento del debitore;
c) le astreintes disciplinate dal codice del processo amministrativo presentano, almeno sul piano
formale, una portata applicativa più ampia rispetto a quelle previste nel processo civile, in quanto non si
è riprodotto nell’art. 114, co. 4, lett. e, c.p.a., il limite della riferibilità del meccanismo al solo caso di
inadempimento degli obblighi aventi ad oggetto un non fare o un fare infungibile;
d) la norma del codice del processo amministrativo non richiama i parametri di quantificazione
dell’ammontare della somma fissati dall’art. 614 bis c.p.c.;
e) il codice del processo amministrativo prevede, accanto al requisito positivo dell’inesecuzione della
sentenza e al limite negativo della manifesta iniquità, l’ulteriore presupposto negativo consistente nella
ricorrenza di “ragioni ostative”.
All’esito di questa ricostruzione, la Plenaria affronta la questione posta alla sua cognizione,
risolvendola in senso affermativo: «Nell’ambito del giudizio di ottemperanza la comminatoria delle
penalità di mora di cui all’art. 114, comma 4, lett. e), del codice del processo amministrativo, è
ammissibile per tutte le decisioni di condanna di cui al precedente art. 113, ivi comprese quelle
aventi ad oggetto prestazioni di natura pecuniaria».
Gli argomenti sono di vario ordine: comparativistico, letterale, sistematico, costituzionale,
equitativo42.
L’elaborazione giurisprudenziale dell’istituto è stata completata da una recente pronuncia
della Plenaria43, chiamata a decidere:
a) se e in quali termini sia possibile in sede di “ottemperanza di chiarimenti” modificare la
statuizione relativa alla penalità di mora contenuta in una precedente sentenza d’ottemperanza;
b) se e in che misura la modifica di detta statuizione possa incidere sui crediti a titolo di penalità già
maturati dalla parte beneficiata.
Osserva la Plenaria che l’incertezza in ordine a tale questione risiede nel rapporto tra tali
misure coercitive indirette e gli strumenti processuali attraverso i quali esse sono comminate,
nonché, e soprattutto, nel regime di stabilità delle decisioni che da tali strumenti processuali
promanano, a fronte di un’evoluzione dei fatti non coerente, o comunque, non prevista nella
prognosi giudiziale fatta.
42 Il primo riguarda la necessità di leggere l’istituto in un’ottica comparata: il modello francese infatti ha un’indiscussa
funzione sanzionatoria che è volta a rafforzare l’effettività delle decisioni giurisprudenziali trovando applicazione anche
per le condanne pecuniarie; uguali considerazioni dovrebbero valere per le astreintes italiane.
Questo argomento, secondo la Plenaria, si salderebbe poi con quello letterale: il legislatore nazionale, in sede di
adattamento della conformazione dell’istituto alle peculiarità del processo amministrativo, avrebbe scientemente voluto
estendere il raggio di azione rispetto all’art. 614 bis c.p.c., articolo che non è neppure richiamato, se non nei lavori
preparatori.
Vi sarebbe poi un argomento di ordine sistematico: mentre l’art. 614 bis c.p.c. si calerebbe in un processo in cui, per le
pronunce non attuabili in re, manca una forma di esecuzione diretta e questa deve necessariamente essere colmata con
una tecnica compulsoria quale la coercizione indiretta del debitore, l’art 114 co. 4 lett. e) c.p.a. si inserirebbe in un
processo che prevede la figura del commissario ad acta dotato di poteri sostitutivi a prescindere dalla natura della
sentenza di condanna e ciò attribuirebbe alle astreintes una funzione più marcatamente sanzionatoria.
A ciò si aggiungerebbe anche l’argomento di stampo costituzionale secondo cui i due diversi meccanismi di esecuzione,
lungi dal porre in essere una disparità di trattamento, evidenziano invece un arricchimento del bagaglio delle tutele
normativamente garantite in attuazione dell’art. 24 Cost. in uno con i canoni europei e comunitari richiamati dall’art. 1
c.p.a. Non sarebbe infatti ravvisabile alcuna discriminazione del debitore pubblico per essere soggetto a tecniche di
esecuzione diverse e più incisive rispetto a quelle private. Secondo il Collegio, al contrario, tale differenziazione
sarebbe proprio il «precipitato logico e ragionevole della peculiare condizione in cui versa il soggetto pubblico
destinatario di un comando giudiziale. La pregnanza dei canoni costituzionali di imparzialità, buona amministrazione e
legalità che informano l’azione dei soggetti pubblici, qualificano in termini di maggior gravità l’inosservanza, da parte
di tali soggetti, del precetto giudiziale, in guisa da giustificare la previsione di tecniche di esecuzione più penetranti, tra
le quali si iscrive il meccanismo delle penalità di mora».
A nulla varrebbe, secondo la Plenaria, il richiamo alla “doppia riparazione di un unico danno” di cui in tale modo
verrebbe a beneficiare il creditore: alle astreintes, diversamente da quanto accade per i punitive damages, si può
accedere infatti anche in mancanza del danno o della sua dimostrazione. Sostiene inoltre il Collegio che «la
locupletazione lamentata, frutto della decisione legislativa di disporre un trasferimento sanzionatorio di ricchezza,
ulteriore rispetto al danno, dall’autore della condotta inadempitiva alla vittima del comportamento antigiuridico, si
verifica in modo identico anche per sentenze aventi un oggetto non pecuniario, per le quali parimenti il legislatore, pur
se non attraverso meccanismi automatici propri degli accessori del credito pecuniario (rivalutazione e interessi),
prevede l’azionabilità del diritto al risarcimento dell’intero danno da inesecuzione del giudicato (art. 112, comma 3,
cit), in aggiunta alla possibilità di fare leva sul meccanismo delle penalità di mora. Anche sotto questo punto di vista,
quindi, le sentenze aventi ad oggetto un dare pecuniario non pongono problemi specifici e non presentano
caratteristiche diverse rispetto alle altre pronunce di condanna».
La Plenaria conclude però evidenziando come il legislatore nazionale abbia voluto evitare locupletazioni eccessive o
sanzioni troppo afflittive, inserendo all’art. 114 c.p.a. due diversi limiti all’applicazione dell’astreintes e cioè “la
manifesta iniquità” (prevista anche all’art. 614 bis c.p.c.) e la “sussistenza di altre ragioni ostative” (ipotesi autonoma).
In sostanza, proprio in considerazione della specialità del debitore pubblico, il legislatore avrebbe attribuito al giudice
dell’ottemperanza, nell’ambito della sua ampia discrezionalità, il potere-dovere di verificare di volta in volta la
sussistenza delle circostanze che possano ammettere o precludere (ad es. esistenza di vincoli normativi o di bilancio)
l’applicazione dell’astreinte. 43 Cons Stato AP n. 7 del 2019.
L’analisi muove dal rilievo che, pur dovendosi riconoscere che anche nel giudizio
amministrativo di cognizione possano essere comminate le astreintes ai sensi dell’art. 34, lett. e)
CPA, la sua sede propria è il giudizio di ottemperanza, per le peculiari caratteristiche che – rispetto
all’esecuzione civile – esso possiede.
Ne deriva che la soluzione del problema va ricercata nel rapporto tra astreinte e giudizio di
ottemperanza, in particolare nel rapporto tra le sopravvenienze e la sentenza di ottemperanza che
abbia disposto l’astreinte, innesta su quello, più generale, della natura giuridica della stessa e della
sua attitudine a formare giudicato.
Al riguardo la Plenaria sottolinea la varietà delle statuizioni adottabili dal giudice
dell’ottemperanza e la peculiarità di quelle strumentali (tra cui le astreintes), che, avendo come
unica funzione quella di garantire l’effettività della tutela, si manifestano sensibili alle
sopravvenienze, sicché per esse può ipotizzarsi una modifica nella fase di “chiarimenti”.
4. Ammissibilità della sua revisione nel giudizio per chiarimenti
L’art. 112, comma 5 CPA prevede che “Il ricorso di cui al presente articolo può essere
proposto anche al fine di ottenere chiarimenti in ordine alle modalità di ottemperanza”.
L’art. 114, comma 7 prevede che “Nel caso di ricorso ai sensi del comma 5 dell'articolo 112,
il giudice fornisce chiarimenti in ordine alle modalità di ottemperanza, anche su richiesta del
commissario”.
Ritiene l’Adunanza Plenaria che tutte le volte in cui le misure strumentali – siano esse
surrogatorie, ovvero compulsorie – siano incise, nella loro efficacia, da fatti o circostanze
sopravvenute, esse debbano poter essere ricalibrate dal giudice dell’ottemperanza in modo da
preservarne il predetto nesso di strumentalità.
È il caso, ad esempio, della temporanea o definitiva inesigibilità della prestazione secondo
l’ordinaria diligenza. Ove l’amministrazione deduca che l’adempimento è divenuto
temporaneamente o definitivamente impossibile per causa ad essa non imputabile, la funzione di
stimolo e quella sanzionatoria, proprie dell’astreinte, non avrebbe più ragion d’essere, e ove non
elisa o adeguata, si trasformerebbe in uno strumento di coattivo trasferimento di ricchezza privo di
ogni valida causa, che vieppiù si aggiungerebbe al danno da inesecuzione del giudicato, comunque
risarcibile a prescindere dal requisito soggettivo della colpevolezza (Cons. Stato AP, 12 maggio
2017, n. 2).
L’ordinamento non tollera spostamenti patrimoniali in assenza di una valida causa, e, anche
ove questi siano ab origine consensualmente disposti, prevede l’immanente controllo giudiziario in
guisa da riservare tutela giuridica agli stessi esclusivamente nei limiti dell’interesse che il creditore
aveva all'adempimento (così art. 1384 cc sulla clausola penale) e non oltre; a tutela di un interesse
generale che trascende quello delle parti del rapporto (Cass. sez. un., 13 settembre 2005, n. 18128).
Questo interesse generale non viene meno ove la fonte dello spostamento patrimoniale sia una
sentenza. Certamente non può discorrersi di controllo giudiziario concomitante, posto che nel caso
dell’astreinte è lo stesso giudice a disporre lo spostamento patrimoniale in funzione compulsoria ed
eventualmente sanzionatoria. E’ nondimeno corretto parlare di un ineludibile controllo successivo
ove le sopravvenienze rendano lo sviluppo della condanna nel tempo non più coerente con la sua
funzione (illuminante il raffronto con l’art. 1384 c.c. laddove esso fa riferimento. alla parziale
esecuzione dell’obbligazione principale).
A supporto dell’anticipata conclusione depongono ulteriori elementi, legati alle peculiarità
all’ottemperanza ed alla configurazione normativa del relativo processo.
Può infatti dirsi che la stessa immanenza dell’alternativa surrogatoria, tipica del processo di
ottemperanza, è ragione che porta a concludere circa la possibilità di modifica dell’astreinte, atteso
che l’eventuale nomina del commissario, sempre possibile, è misura la cui applicazione non può che
presupporre il permanere del potere giudiziale di intervenire sul regime della pregressa condanna.
L’insediamento del commissario ad acta, infatti, nella sua duplice veste di ausiliario del
giudice e di organo straordinario dell’amministrazione inadempiente surrogata, priva quest’ultima
della potestà di provvedere, integrando una ipotesi di impossibilità soggettiva sopravvenuta che
rende non più funzionale ed utile l’astreinte, sì da imporne la soppressione ex nunc.
Potrebbe sostenersi che l’inadempimento è pur sempre riferibile all’amministrazione
obbligata che non ha colpevolmente dato seguito alle statuizioni della sentenza, ma il mantenere
l’astreinte, nonostante la nomina di un organo straordinario incaricato di adempiere, farebbe perdere
alla stessa il carattere composito di stimolo e sanzione, lasciando inammissibilmente residuare solo
quest’ultimo in una statuizione claudicante non più sussumibile nella nozione di astreinte.
Insomma, l’esigenza di una modifica dell’astreinte è insita nei principi dell’ordinamento,
nella peculiare configurazione del processo di ottemperanza, ed è il frutto del carattere
necessariamente condizionato della condanna, del novero e della modulazione degli strumenti
attuativi a disposizione del giudice.
Sul versante processuale si rinvengono ulteriori indizi che confermano la tesi. L’esigenza che
il giudice dell’ottemperanza continui a mantenere il governo delle statuizioni di carattere
strumentale è senz’altro a base dalla previsione normativa che espressamente radica in capo al
giudice dell’ottemperanza il potere di conoscere delle questioni inerenti agli atti del commissario ad
acta (art. 114 comma 6 CPA); nonché di quella ulteriore, del pari potenzialmente incidente sugli
strumenti di esecuzione, di fornire chiarimenti in ordine alle modalità di ottemperanza, anche su
richiesta del commissario.
Sono entrambi rimedi, quello del reclamo e dei chiarimenti, che presuppongono una
statuizione giudiziale passata in giudicato e che si innestano nel processo di materiale esecuzione
fornendo alle parti occasione processuale per la discussione anche degli eventuali effetti delle
sopravvenienze.
Ha poi chiarito la Plenaria che la Sezione rimettente perora una riforma con effetto retroattivo
della statuizione, tale da travolgere gli atti di esecuzione forzata nelle more avviati dal creditore
sulla base del titolo esecutivo costituto dall’astreinte.
A ciò osta, non tanto il giudicato, atteso che la statuizione è sicuramente suscettibile di
adeguamento rispetto alle sopravvenienze, quanto l’esigenza di certezza e conseguente stabilità e
irretrattabilità dell’astreinte, indispensabile perché essa possa svolgere efficacemente la sua
funzione compulsoria. È infatti la finalità stessa dell’astreinte, quale misura volta a sollecitare
l’adempimento della statuizione giudiziale, a postularne la stabilità e la irretrattabilità, poiché, a
diversamente ritenere, verrebbe incisa la vincolatività del precetto ausiliario potendo in ogni tempo
la parte soccombente confidare in una sua revisione, peraltro non senza una intuibile proliferazione
di contenzioso.
Quest’ultima è disposta su domanda di parte, all’esito di un giudizio svolto nel pieno
contraddittorio delle parti, sulla base di valutazioni poggianti sugli atti e i documenti di causa, alla
luce di un prognosi informata a parametri necessariamente oggettivi. Dunque non v’è modo per
l’emergere di iniquità “genetiche” se non postulando un doppio grado di giudizio.
Escluso che si possa chiedere e ottenere il mero riesame della statuizione di condanna, sono
piuttosto le sopravvenienze a rivestire un ruolo fondamentale e a segnare il discrimine.
I “chiarimenti” sono la sede naturale ove valutare le sopravvenienze, posto che essi
riguardano proprio le modalità applicative della minaccia, id est la concreta determinazione della
sanzione alla luce del comportamento successivo delle parti e delle sopravvenienze fattuali e
giuridiche. Oggetto pacificamente sussumibile nell’ampio concetto di “modalità d’ottemperanza” di
cui all’art. 112 comma 5 CPA.
La questione che viene sottoposta alla Plenaria è però del tutto peculiare e disvela come,
anche a prescindere dal ricorrere di sopravvenienze, in alcuni specifici e ben circoscritti casi in cui è
del tutto mancata la valutazione di non manifesta iniquità e, a monte, la fissazione di un tetto
massimo cui riferire la valutazione suddetta, sia assolutamente necessario un presidio di garanzia e
controllo del giudice dell’ottemperanza, utile ad evitare che l’evoluzione del meccanismo di calcolo
provochi uno snaturamento dell’astreinte, privandola di ogni collegamento con i parametri oggettivi
di cui agli art. 614 bis e 114 CPA e di fatto trasformandola in un trasferimento coattivo di ricchezza
sine causa.
Ha ancora aggiunto l’Adunanza plenaria che i parametri oggettivi per la sua fissazione
possono ben ricavarsi dall’art. 614-bis c.p.c., archetipo dell’astreinte, esprimente regole e criteri
comunque ricavabili dai principi generali dell’ordinamento, ed in primo luogo, dal principio di
legalità rafforzato, sopra menzionato.
La circostanza che il codice del processo amministrativo, a differenza del codice di procedura
civile, non abbia espressamente fatto riferimento all’art. 614-bis, né previsto, per la determinazione
dell’ammontare della penalità, specifici criteri di collegamento al valore della controversia o al
danno quantificato o prevedibile, limitandosi ad indicare, invece, il limite della “manifesta
iniquità” o del ricorrere di “ragioni ostative”, non deve trarre in inganno, poiché siffatta circostanza
è piuttosto la riprova che l’atteggiamento del legislatore è stato ancora più cauto, nella misura in cui
ha preteso, oltre al rispetto degli ineludibili criteri oggettivi sopra richiamati, connaturati alla stessa
definizione di astreinte ed alla sua valenza anche sanzionatoria, un’ulteriore valutazione di non
manifesta iniquità.
La Plenaria conclude: «è sempre possibile in sede di c.d. “ottemperanza di chiarimenti”
modificare la statuizione relativa alla penalità di mora contenuta in una precedente sentenza
d’ottemperanza, ove siano comprovate sopravvenienze fattuali o giuridiche che dimostrino, in
concreto, la manifesta iniquità in tutto o in parte della sua applicazione.
Salvo il caso delle sopravvenienze, non è in via generale possibile la revisione ex tunc dei
criteri di determinazione della astreinte dettati in una precedente sentenza d’ottemperanza, sì da
incidere sui crediti a titolo di penalità già maturati dalla parte beneficiata. Tuttavia, ove il giudice
dell’ottemperanza non abbia esplicitamente fissato, a causa dell’indeterminata progressività del
criterio dettato, il tetto massimo della penalità, e la vicenda successiva alla determinazione abbia
fatto emergere, a causa proprio della mancanza del tetto, la manifesta iniquità, quest’ultimo può
essere individuato in sede di chiarimenti, con principale riferimento, fra i parametri indicati
nell’art. 614 bis c.p.c., al danno da ritardo nell’esecuzione del giudicato».
Argomentazioni articolate e ben scritte, ma che portano a un esito creativo.
Talvolta basterebbe – se si volesse – applicare il brocardo nomina sunt consequentia rerum:
un luogo definito come di “chiarimenti”, può essere impiegato solo per chiarire («rendere
comprensibile, intelligibile; delucidare»), non anche per modificare.
CONCLUSIONI
La traccia di civile presenta qualche difficoltà esegetica nella parte speciale, ma è abbastanza
semplice. La traccia di penale è di complessità medio-alta e richiede una buona capacità di
ragionamento giuridico. La traccia di amministrativo è stata semplificata dalla Commissione,
tramite precisi riferimenti normativi e addirittura dogmatici (“astreinte”).
Resta confermato il principio di sempre: per superare il concorso contano le capacità e, a
debita distanza, la preparazione. Allenare la seconda è facile, allenare la prima è vincente. E lo si fa
con il metodo scientifico.
Per questo è giusto che chi legge queste righe legga le statistiche dell’anno dopo (la cui
importanza è inversamente proporzionale alla frequenza con cui altri le pubblicano). E, magari,
legga l’identico binomio (analisi tracce e previsioni / statistiche) di tutti i concorsi precedenti.