UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI PAVIA DIPARTIMENTO DI STUDI UMANISTICI
DIPARTIMENTO DI SCIENZE POLITICHE E SOCIALI
DOTTORATO IN STORIA
XXXII CICLO
La “giustizia in transizione” in Italia:
l’esperienza delle Corti d’Assise Straordinarie lombarde
(1945-’50)
TUTOR
Prof.ssa Arianna Arisi Rota
DOTTORANDA
Laura Bordoni
Matricola n° 450281
Anno accademico 2018/2019
1
La “giustizia in transizione” in Italia:
l’esperienza delle Corti d’Assise Straordinarie
lombarde (1945-’50)
Indice p. 1
Indice delle abbreviazioni p. 3
Introduzione p. 5
Capitolo 1 La “giustizia in transizione” p. 21
1.1 Il dibattito internazionale e nazionale p. 21
1.2 I provvedimenti legislativi adottati in Italia p. 35
Capitolo 2 Il funzionamento delle CAS lombarde p. 43
2.1 Un censimento dei processi p. 43
2.2 Processi e condanne: il volto duro delle CAS p. 47
2.3 Il fallimento della giustizia: l’amnistia Togliatti ma non solo p. 74
2.4 Un confronto con le CAS di altri territori p. 91
Capitolo 3 Il Commissariato alla Giustizia e le CAS p. 98
3.1 La figura di Aurelio Becca p. 98
3.2 Le funzioni del commissariato p. 102
3.3 Limiti e criticità p. 104
3.4 Una questione “collaterale”: la situazione carceraria p. 110
3.5 «Un’epurazione necessaria ma impossibile» p. 116
3.6 Un reato frequente: il collaborazionismo “economico” p. 121
3.7 Studi legislativi e proposte di riforma p. 125
3.8 Le reazioni dell’opinione pubblica p. 130
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Capitolo 4 Il caso Basile: p. 134
l’ex capo della provincia di Genova a processo (1945-’50)
4.1 Una memoria “divisa” p. 134
4.2 La figura di Carlo Emanuele Basile (1885-25 aprile 1945) p. 137
4.3 Prima delle CAS: il tentativo di deferimento all’Alta Corte di Giustizia p. 141
4.4 CAS e Cassazione a confronto p. 142
4.5 I magistrati: tra politica, cultura, mentalità p. 155
4.6 Manifestazioni e scioperi p. 163
4.7 Il “problema definitorio” del fascismo p. 170
Capitolo 5 La punizione dei capi della provincia in Lombardia p. 173
5.1 Fascisti della prima ora p. 173
5.2 L’interpretazione della “presunzione di colpevolezza” p. 177
5.3 Tra odio e benevolenza p. 189
5.4 Dati biografici e processuali p. 193
Capitolo 6 Il caso Donegani: p. 217
la scarcerazione del presidente della Montecatini (luglio ‘45)
6.1 L’imprenditore geniale p. 217
6.2 La figura di Guido Donegani p. 222
6.3 Una strana scarcerazione p. 225
6.4 Proteste p. 237
6.5 I collaborazionisti economici: qualche considerazione p. 241
Appendice documentaria p. 248
Bibliografia p. 266
Fonti d’archivio p. 266
Fonti a stampa coeve p. 269
Fonti legislative p. 269
Storiografia p. 271
Sitografia p. 285
Filmografia p. 288
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Indice delle abbreviazioni
ACC Allied Control Commission
ACNA Azienda Colori Nazionali e Affini
ACS Archivio Centrale dello Stato
ANPI Associazione Nazionale Partigiani d’Italia
AS Archivio di Stato
BN Brigate Nere
CAS Corte d’Assise Straordinaria
CASREC Centro di Ateneo per la Storia della Resistenza e dell’Età Contemporanea
CGIL Confederazione Generale Italiana del Lavoro
Cln Comitati di Liberazione Nazionale
Clnai Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia
Clnl Comitato di Liberazione Nazionale Lombardia
C.P. Codice Penale
C.P.M.G. Codice Penale Militare di Guerra
DISSGeA Dipartimento di Scienze Storiche, Geografiche e dell’Antichità - Università
degli studi di Padova
Dl Decreto legislativo
Dll Decreto legislativo luogotenenziale
DPR Decreto del Presidente della Repubblica
GAP Gruppi d’Azione Patriottica
GNR Guardia Nazionale Repubblicana
ILSREC Istituto Ligure per la Storia della Resistenza e dell’Età contemporanea
INSMLI Istituto Nazionale per la Storia del Movimento di Liberazione in Italia
IPSREC Istituto Pavese per la Storia della Resistenza e dell’Età contemporanea
4
IRSML FVG Istituto regionale per la storia del Movimento di Liberazione nel Friuli-
Venezia Giulia
ISRT Istituto Storico della Resistenza in Toscana
ISSREC Istituto Sondriese per la Storia della Resistenza e dell’Età contemporanea
ISTORECO Istituto per la Storia della Resistenza e della Società Contemporanea in
provincia di Reggio Emilia
Mgg Ministero di Grazia e di Giustizia
MSI Movimento Sociale Italiano
MVSN Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale
NAW National Archives Washington
Odg Ordine del giorno
OVRA Organizzazione per la Vigilanza e la Repressione dell’Antifascismo
PAI Polizia dell’Africa Italiana
PCI Partito Comunista Italiano
PdA Partito d’Azione
PFR Partito Fascista Repubblicano
PNF Partito Nazionale Fascista
PSUI Partito Socialista Unitario Italiano
RD Regio Decreto
RSI Repubblica Sociale Italiana
SAP Squadre d’Azione Patriottica
Sepral Sezione provinciale dell’alimentazione
SS Schutzstaffeln
UDI Unione Donne Italiane
UPI Ufficio Politico Investigativo
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Introduzione
Questa tesi si occupa dell’esperienza delle Corti d’Assise Straordinarie lombarde,
tribunali preposti alla punizione dei reati di collaborazionismo, attivi tra il maggio 1945
e il dicembre ’47. Essa si inquadra in una ricerca, attualmente in corso e di respiro
nazionale, che si muove tra due filoni di indagine storiografica, diversi ma profondamente
interconnessi: quello dei crimini di guerra fascisti e quello della cosiddetta “resa dei conti
col fascismo”. La categoria a cui si fa riferimento per lo studio del tema è quella della
Transitional Justice: oggetto di notevole dibattito in tutto il mondo, essa viene adottata,
infatti, in relazione a quei processi giudiziari e amministrativi che hanno luogo nel corso
di una transizione politica, in genere da un regime autoritario a uno democratico, e che
hanno come duplice scopo quello di punire i responsabili dei regimi precedenti, in modo
da rendere giustizia alle vittime, e quello di promuovere una pacificazione interna, tale da
consentire la ricostruzione civile e morale della società.
Il primo capitolo della tesi funge da prologo ed è strutturato in due parti: nella prima si
prende in esame il dibattito internazionale e nazionale sulla Transitional Justice, con un
resoconto schematico dei più significativi contributi scientifici sviluppati sul tema; nella
seconda parte, invece, si espone, in sintesi, il contenuto dei principali provvedimenti
legislativi adottati in Italia per la punizione del fascismo e del collaborazionismo.
Spiccano per importanza, tra questi ultimi, il Decreto legislativo luogotenenziale 22 aprile
1945 n. 142, che istituì le CAS, e la cosiddetta “amnistia Togliatti” del 22 giugno ‘46,
principale causa, secondo alcuni storici, del fallimento della giustizia verso i fascisti1.
Dall’analisi della storiografia italiana emerge come finora non sia stata prestata
sufficiente attenzione alle CAS lombarde, decisamente meno indagate rispetto ad altre
corti, come quelle piemontesi, venete e liguri. A voler essere più precisi, si registrano
indagini su singole CAS (Milano, ad esempio), ma manca una rassegna d’insieme, in
grado di rendere conto del numero complessivo dei processi e delle sentenze, nonché
delle analogie e delle differenze tra corti appartenenti ad uno stesso territorio.
Il secondo capitolo, dedicato all’illustrazione del funzionamento delle CAS in Lombardia,
cerca di “rimediare” a questo vuoto storiografico, coniugando ai contributi di storia locale
1 M. Franzinelli, L’amnistia Togliatti. 1946: colpo di spugna sui crimini fascisti, Milano, Feltrinelli, 2016
6
finora elaborati le nuove acquisizioni derivanti dalla lettura dei fondi archivistici delle
CAS, da poco finalmente disponibili alla consultazione.
Dopo aver fornito alcuni dati di carattere generale e quantitativo (come il numero dei
procedimenti, il numero degli imputati, ecc.), ci si sofferma su alcuni dei processi più
significativi celebrati dalle corti lombarde, sia singoli che collettivi: si prendono in esame
le sentenze e, attraverso le cronache giudiziarie locali, le impressioni dell’opinione
pubblica rispetto all’andamento della giustizia, nonché le requisitorie di alcuni magistrati
impegnati nel ruolo di Pubblico Ministero.
Una delle principali acquisizioni di questa analisi circoscritta a livello regionale è che – a
nostro parere – non si possa attribuire esclusivamente all’“amnistia Togliatti”
l’insuccesso della giustizia verso i collaborazionisti. Piuttosto, sembra più corretto dire
che fu una combinazione di fattori a determinare la scarsa efficacia delle sentenze emesse
dalle CAS lombarde. La tempistica, innanzitutto, sembra giocare un ruolo cruciale
nell’andamento della giustizia, confermando la tesi secondo cui i giudizi fossero stati –
pur con alcune eccezioni – più severi nei primi mesi di lavoro delle corti e poi
progressivamente più blandi, per via della graduale attenuazione dell’ondata di violenza.
Ma l’analisi mette in luce anche la presenza, all’interno delle corti, di una serie di carenze
e debolezze “costitutive”, che minarono alla base la possibilità di condurre un’opera
incisiva di punizione dei crimini fascisti: l’elaborazione di sentenze da parte di giudici
popolari che avevano poca o nessuna cognizione in materia di diritto, ad esempio, rese il
rinvio a giudizio da parte della Suprema Corte di Cassazione una pratica assai frequente,
consentendo agli imputati di essere processati più tardi, in climi decisamente più
favorevoli e con la possibilità di vedersi applicare gli sconti previsti dall’amnistia2.
2 T. Rovatti, Politiche giudiziarie per la punizione dei delitti fascisti in Italia. La definizione di un immaginario normalizzatore in “Contemporanea”, fasc. 254, 2009, p. 81-2: «In una prima fase, che è possibile identificare con i primi sei mesi di attività, l’indirizzo generale di giudizio delle corti si dimostra spesso inflessibile, implicando la comminazione frequente della pena di morte e dell’ergastolo [...] L’onda lunga della violenza di guerra e la diffusa e intensa ansia di giustizia che pervade il Paese nei primi mesi dopo la Liberazione [...] si riflette infatti nella severità delle condanne pronunciate dai tribunali in questa prima fase. La rigidità di giudizio espressa nelle sentenze di primo grado esaurisce però presto la propria capacità d’azione: la scelta di un giudizio in due tempi, che contempla la possibilità per l’imputato di ricorrere in appello attraverso una Sezione speciale della Corte di cassazione senza l’attuazione di un’adeguata epurazione della magistratura, la possibilità della componente togata di moderare il giudizio delle corti facendo improprio uso delle proprie competenze professionali e soprattutto - con il passare dei mesi - la forza normativa del limitato orizzonte di giudizio adottato determinano un netto ribaltamento delle condizioni iniziali fino a giungere a un sostanziale azzeramento dei giudizi espressi in primo grado».
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Nell’ultima parte del capitolo, valendosi della documentazione sulle CAS conservata nel
fondo del Ministero di Grazia e Giustizia all’Archivio Centrale dello Stato3, lo sguardo si
estende all’intera penisola, nel tentativo di effettuare un primo confronto tra l’esperienza
delle corti lombarde e quella delle altre regioni.
L’originalità della presente indagine, tuttavia, risiede soprattutto nella scelta di utilizzare
una fonte finora poco considerata negli studi sulla giustizia in transizione, basati
principalmente – se non esclusivamente – su fondi giudiziari, e, cioè, le carte del
Commissariato alla Giustizia del Comitato di Liberazione Nazionale Lombardo. Queste
ultime offrono una visuale in parte diversa e nuova rispetto a quella dei personaggi
“protagonisti” all’interno dei tribunali: cioè, imputati, magistrati, avvocati4. Quella del
commissario alla Giustizia lombardo, infatti, è una figura, in un certo senso, “esterna”
alle aule giudiziarie, il cui approccio ai problemi giuridici, tuttavia, grazie alla laurea in
giurisprudenza e all’esercizio della professione di avvocato, risulta caratterizzato da una
consapevolezza decisamente superiore rispetto a quella dei “non addetti ai lavori”. Si
tratta, inoltre, di una personalità spiccatamente antifascista, rappresentante delle forze
democratiche del Paese, e portatrice quindi di precise istanze di speranza e di
rinnovamento.
Aurelio Becca è uno dei grandi protagonisti della tesi: commissario alla Giustizia del Cln
lombardo dall’aprile ‘45 sino ai primi mesi del ’46, egli fu preposto al controllo e alla
gestione della giustizia in Lombardia nella prima fase del difficile secondo dopoguerra.
Sul Commissariato alla Giustizia finora è stato scritto poco o nulla, sebbene non
manchino le fonti su cui indagare: si pensi soltanto al notevole fondo conservato presso
l’archivio dell’Istituto Nazionale Ferruccio Parri5. Più difficoltoso, invece, risulta
certamente ricostruire la vita di Becca e il lavoro di quest’ultimo dopo la parentesi al
commissariato: a tal proposito, infatti, le fonti sono molto più scarne e soprattutto
risultano disperse in vari archivi, tra Bologna, Roma e Firenze6.
3 ACS, Fondo Mgg, Gabinetto, Archivio Generale, Affari Diversi 1925-1983, b. 9, fasc. 38 4 L’idea di studiare i personaggi protagonisti all’interno dei tribunali è in G. Focardi - C. Nubola (a cura di), Nei tribunali. Pratiche e protagonisti della giustizia di transizione nell’Italia repubblicana, Bologna, il Mulino, 2015 5 INSMLI, Fondo Clnl, sottoserie Commissariato alla Giustizia. Il fondo è articolato in otto fascicoli: Corrispondenza del commissariato; Denunce, Segnalazioni, Pratiche di epurazione; Corte d’Assise Straordinaria; Carceri; Relazioni sulla giustizia; Leggi e decreti; Organi giudiziari; Varie. 6 AS di Bologna, Archivio della Questura di Bologna 1872-1983, Gabinetto, Persone Pericolose per la sicurezza dello Stato 1872-1983, Radiati 1872-1983, b. 14; Archivio storico online,
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Il primo nonché unico ad occuparsi dell’attività di Becca a Milano dopo la Liberazione
fu, verso la metà degli anni Settanta, Gaetano Grassi, che, intuendo l’importanza del
lavoro svolto dal commissario, individuò alcune significative linee di ricerca per futuri
studi. Grassi scriveva, a conclusione dell’articolo, che il suo voleva essere «oltre che un
atto di omaggio alla figura morale e civile di Becca, una proposta di lavoro su uno dei
temi meno studiati e più interessanti della storia recente del nostro Paese: la magistratura
italiana nel passaggio dal regime fascista all’ordinamento democratico»7.
Nemmeno l’attenzione prestata finora ai commissariati – si diceva – è stata molta: a tal
riguardo per la Lombardia si segnalano soltanto i contributi di Pierangelo Lombardi sul
Commissariato all’Agricoltura e alla Scuola, iscritti all’interno di un’indagine volta alla
ricostruzione della parabola dei Cln nella regione lombarda8. Un vuoto storiografico
curioso, dal momento che, come è stato osservato, il capitolo dei commissariati appare in
assoluto, a chi intenda ripercorrere la vicenda dei comitati di liberazione, «uno fra i più
interessanti»9.
I commissariati lombardi costituiscono un unicum all’interno del panorama dei
commissariati nazionali, sia, come è stato evidenziato, per la loro «diffusa articolazione
tecnica, non priva di efficienza e di funzionalità»10, sia per essere stati sottoposti –
diversamente da quanto previsto dagli accordi Medici-Tornaquinci – al controllo politico
dei delegati del comitato11. Creati «allo scopo di integrare il Cln della Lombardia nella
sua opera di governo e di amministrazione nel territorio della Regione e di costituire gli
organismi tecnici della Giunta consultiva regionale»12, essi svolsero a partire dagli ultimi
giorni dell’aprile ‘45 un’attività complessa e notevole, che venne riconosciuta dagli stessi
Università di Bologna, Archivi degli studenti, fasc. 5058; ACS, Ministero dell’Interno, Direzione Generale Pubblica Sicurezza 1861-1981, Divisione Affari Generali e Riservati. Uffici dipendenti dalla sezione prima 1894-1945, Fascicoli personali 1894-1945, b. 426, n. 25427; Archivio storico CGIL, Archivio Confederale; ISRT, Fondo Piero Calamandrei, Quarta serie, fasc. Aurelio Becca 7 G. Grassi, Documenti sull’attività di Aurelio Becca a Milano nel periodo successivo alla Liberazione in «Rivista giuridica del lavoro e della previdenza sociale», fasc. 1-2, 1974, pp. 5-20 8 Pane e lavoro. Il Commissariato all’Agricoltura e alla Alimentazione del Cln della Lombardia e Da commissario alla scuola in Lombardia a direttore degli archivi dell’Insmli: Mario Bendiscioli, storico “militante” della Resistenza in P. Lombardi, L’illusione al potere. Democrazia, autogoverno regionale e decentramento amministrativo nell’esperienza dei Cln (1944-45), Milano, Franco Angeli, 2003, pp. 175-224 9 P. Lombardi, L’illusione al potere, op. cit., p. 175 10 Ibidem 11 Su questo punto si veda: G. Grassi - P. Lombardi (a cura di), Democrazia al lavoro. I verbali del Cln lombardo (1945-1946), vol. 1, Firenze, Felice Le Monnier, 1981, pp. 27-28 12 Ivi, p. 69
9
ufficiali anglo-americani e che, sebbene non fosse riuscita a frenare l’inesorabile processo
di esautoramento dei poteri a cui i Cln dovettero andare incontro nei mesi successivi,
tuttavia rappresentò un primo significativo elemento di prova delle forze politiche
all’indomani della Liberazione13.
Tali indicazioni, unite alla scarsità di indagini sul tema, hanno convinto a riprendere le
fila del discorso di Grassi su Becca e la sua attività a Milano nel periodo successivo alla
Liberazione, al fine di esplorare, attraverso le carte del commissariato, la “transizione”
nel caso lombardo.
La lettura delle carte del fondo mira a rispondere ad alcuni quesiti precisi. Ad esempio:
quali furono le principali questioni che il commissario si trovò a fronteggiare nella
gestione della giustizia verso i collaborazionisti? Che tipo di risposte furono pensate e/o
messe in pratica per far fronte ai problemi? E, ancora: in che misura fu possibile garantire
il buon funzionamento della giustizia straordinaria? Quanto rimase soddisfatta la
popolazione dei processi? Dunque, nel terzo capitolo si prova a ricostruire, adottando il
punto di vista del commissario Becca, i limiti, le criticità e i problemi incontrati nella
predisposizione delle misure giudiziarie verso i collaborazionisti. Ma si cerca anche di
illuminare gli sforzi effettuati dal commissariato – in unione ai Cln – per assicurare i
colpevoli alla punizione e garantire una ricostruzione del Paese su base democratica.
Dalle carte emerge il contesto complesso in cui le CAS si trovarono ad operare, tra
carenze umane e materiali, fragilità legislative, mancata epurazione della magistratura e
delle forze di Pubblica Sicurezza, debole coesione del fronte ciellenista, pressioni
politiche internazionali. All’indomani della fine della guerra il dibattito lombardo fu però
soprattutto dominato da due clamorose vicende processuali, aventi per protagonisti
personaggi di grande rilievo politico: Carlo Emanuele Basile, capo della provincia di
Genova, e Guido Donegani, presidente della Montecatini.
Quella di Basile è una figura che finora non è mai stata approfonditamente studiata: il
nome dell’ex capo della provincia di Genova appare ovviamente molto spesso nei
contributi molteplici di storia locale – curati soprattutto dall’Istituto Ligure per la storia
della Resistenza e dell’Età contemporanea – sulla guerra civile e sulla Resistenza nel
13 Ivi, p. 30
10
genovesato14, ma manca ancora una ricostruzione esaustiva della vita del personaggio, né
si è esaminata nel dettaglio la specifica vicenda processuale terminata la guerra15.
Ci sono però ovviamente anche altre buone ragioni per cui si ritiene che tale indagine sia
originale, soprattutto in uno studio sulla giustizia in transizione in Italia. Intanto bisogna
dire che la vicenda giudiziaria di Basile è quanto di più strano e complicato potrebbe
esserci. Dopo l’annullamento della sentenza di Milano, infatti, l’ex capo della provincia
di Genova fu processato altre svariate volte – a Pavia, a Venezia, a Napoli e a Perugia –
prima di essere definitivamente scarcerato nel ‘50, a seguito dell’applicazione
dell’amnistia Togliatti. L’intero iter giudiziario fu accompagnato da accese proteste,
manifestazioni di piazza, scioperi della classe operaia, dibattiti in seno al mondo politico
e tra il mondo politico e la magistratura, a cui giornali locali e nazionali dell’epoca diedero
ampio spazio. Si tratta, quindi, di un caso politico-giudiziario di grande clamore
mediatico e caratterizzato da una peculiare estensione temporale e geografica, che dà
modo di esplorare e mettere a confronto CAS operanti in tempi e luoghi diversi, nonché
di sondare la dialettica tra le CAS e la Suprema Corte di Cassazione.
Secondariamente, la vicenda di Basile consente di valutare quale fosse stata
l’applicazione concreta da parte delle corti dell’art. 1 del Dll 22 aprile 1945 n.142, ovvero
della cosiddetta “presunzione di colpevolezza”, un concetto che, come già è stato
osservato dalla storiografia, per quanto «rapidamente relativizzato, osteggiato e, infine,
scavalcato dalla prassi giudiziaria delle stesse corti di merito», costituì un primo tentativo
di «offrire una definizione politica in grado di circoscrivere il reato di collaborazionismo
14 Si vedano, ad esempio: M. E. Tonizzi - P. Battifora (a cura di), Genova 1943-1945. Occupazione tedesca, fascismo repubblicano, Resistenza, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2015; G. Gimelli, La Resistenza in Liguria. Cronache militari e documenti, Roma, Carocci, 2005; M. Calegari, Comunisti e partigiani. Genova 1942-1945, Milano, Selene Edizioni, 2001; A. Gibelli, Genova operaia nella Resistenza, Firenze, Nuova Italia, 1968 15 Per la sentenza pronunciata dalla CAS di Milano e il clamore suscitato nel mondo politico e nell’opinione pubblica, si veda: L. Bordoni, La sentenza Basile e il dibattito sul funzionamento delle Corti d’assise straordinarie lombarde in C. Nubola - P. Pezzino - T. Rovatti (a cura di), Giustizia straordinaria tra fascismo e democrazia. I processi presso le Corti d’Assise e nei tribunali militari, Bologna, il Mulino, 2019, pp. 57-70. In merito alla tortuosa vicenda processuale si può ricavare qualche informazione anche dall’intervista fatta a Basile da Silvio Bertoldi (intervista in cui la ricostruzione dei fatti operata da Basile è caratterizzata da un tono ovviamente apologetico): S. Bertoldi, La guerra parallela. 8 settembre 1943-25 aprile 1945, Milano, Sugar, 1963, pp. 182-194. Altri cenni all’opera dispiegata da Basile quale capo della provincia di Genova si trovano in: G. Bocca, Storia dell’Italia partigiana settembre 1943-maggio 1945, Bari, Laterza, 1966, p. 234; G. Pansa, Guerra partigiana fra Genova e il Po. La Resistenza in provincia di Alessandria, Bari, Laterza, 1967, p. 112 ss.; R. Canosa, Storia dell’epurazione in Italia: le sanzioni contro il fascismo 1943-1948, Milano, Baldini & Castoldi, 1999, pp. 196-99; M. Franzinelli, L’amnistia Togliatti, op. cit., 184-6
11
e di fissarne dall’alto i caratteri dominanti e le figure di rilievo»16. Non è certo una novità
che quasi tutti coloro che avevano rivestito cariche politiche – ministri, capi della
provincia, direttori di giornali politici ecc – fossero stati assolti o avessero potuto godere
del beneficio di amnistia17. Ma con quali motivazioni furono espressi questi giudizi?
Quali logiche presiedettero alle scelte dei giudici? Se finora ci si è limitati a considerare
l’“esito” delle sentenze, sembra giunto il momento di esplorare il “contenuto” di queste
ultime, che potrebbe dirci molto di più rispetto all’effettivo funzionamento delle corti18.
Per giunta, nel panorama delle cariche politiche previste dall’art. 1, quella del capo della
provincia nello specifico è una figura che finora è stata ben poco considerata, a dispetto
del ruolo cruciale rivestito all’interno della Repubblica Sociale Italiana e dunque delle
responsabilità assunte rispetto ai crimini commessi durante la guerra civile: basti qui
ricordare soltanto che furono i capi della provincia a ordinare le deportazioni di operai in
Germania e a convocare i tribunali militari straordinari che condannarono a morte
detenuti politici; né si può dimenticare il fatto che i corpi delle Brigate Nere e della
Guardia Nazionale Repubblicana fossero impiegati proprio agli ordini dei capi delle
province.
16 T. Rovatti, Tra giustizia legale e giustizia sommaria. Forme di punizione del nemico nell’Italia del dopoguerra in Nei tribunali, op. cit., p. 22 17 Si veda M. Franzinelli, L’amnistia Togliatti, op. cit. e in particolare il capitolo III, “Amnistia plenaria”, alle pagine 141-250 18 Già Achille Battaglia aveva insistito sull’importanza di studiare le sentenze per comprendere una società in transizione. A. Battaglia, Giustizia e politica nella giurisprudenza in Dieci anni dopo 1945-1955. Saggi sulla vita democratica italiana, Bari, Laterza, 1955, p. 319: «Per comprendere veramente che cosa accada in una società durante un periodo di crisi – quando un nuovo ordinamento giuridico si sostituisce o tenta di sostituirsi all’antico – poco giova l’esame delle sue leggi, e molto di più quello delle sue sentenze. Le leggi emanate in questo periodo ci dicono chiaramente quali siano state le volontà del ceto politico dirigente, i fini che esso si proponeva di raggiungere, le sue aspirazioni e le sue velleità. Le sentenze ci dicono anche quale sia stata la sua forza, o la sua capacità politica, e in che modo la società abbia accolto la sua azione, o abbia resistito». Più di recente, l’invito a spostare l’asse dell’analisi storica dagli esiti ai contenuti delle sentenze è venuto da Leonardo Pompeo D’Alessandro, che, studiando la CAS di Milano, ha osservato: «si ritiene opportuno esaminare le sentenze non tanto, o non solo, rispetto all’esito (metodo fino ad ora prevalso), ma anche rispetto al loro contenuto. Si intende mostrare attenzione, cioè, ai giudizi più politici e di valore, sugli uomini e sul periodo storico, che il testo ci restituisce. Da questo angolo visuale, le sentenze ci possono dire molto del tipo di giustizia e del periodo in cui le corti operarono, ma anche sui magistrati che le presiedettero, consentendoci di giungere a considerazioni meno tranchant e più sfumate – tuttavia non meno problematiche – sulle loro attività (L. P. D’Alessandro, Per uno studio delle sentenze della Corte d’Assise Straordinaria di Milano. Il giudizio sulla Repubblica sociale italiana e sulla sua classe dirigente in Giustizia straordinaria tra fascismo e democrazia, op. cit., p. 50)
12
A fronte dei gravissimi capi di accusa a carico dei capi della provincia, ci si chiede perché,
allora, la punizione di questa categoria di colpevoli sia risultata, negli esiti, fallimentare.
E, cioè, ci si domanda quale sia stato il giudizio delle corti verso i capi della provincia, se
siano state le CAS ad assolvere tali imputati oppure se il lavoro di queste ultime sia stato
vanificato in seguito dalla Suprema Corte di Cassazione.
La lunga e complicata vicenda processuale di Basile viene ricostruita nel quarto capitolo
intrecciando una pluralità di fonti: innanzitutto il voluminoso incartamento giudiziario
conservato presso l’Archivio di Stato di Perugia, ma anche l’eterogenea documentazione
– tra cui carte processuali e stampa – raccolta presso l’Istituto Ligure per la storia della
Resistenza e dell’Età contemporanea, nonché i fascicoli personali dei magistrati
impegnati nel ruolo di P.M. nei processi Basile, attualmente versati nell’Archivio
Centrale dello Stato19.
Nel quinto capitolo, invece, si analizzano i processi di tutti i capi della provincia sottoposti
a giudizio dinanzi alle CAS in Lombardia per verificare come, a livello regionale, tale
carica fosse stata punita nel secondo dopoguerra. Si prenderanno dunque in esame i
fascicoli processuali e le sentenze a carico di Oscar Uccelli, Mario Bassi, Piero Parini,
Rino Efrem Parenti, Rodolfo Vecchini, Dante Maria Tuninetti e molti altri ancora. Tale
operazione effettuata sulla scorta dei fondi archivistici lombardi apre anche alla
possibilità di ricostruire profili biografici diversi – molti dei quali finora mai studiati –
nonché, ovviamente, di ripercorrere e approfondire gli episodi di violenza avvenuti in
Lombardia dopo l’8 settembre ‘43.
Alla base dell’interesse per il caso Donegani vi è invece la seguente questione di carattere
politico-giuridico: come venne punito dalle CAS il reato di collaborazionismo
economico? Come si vedrà dall’analisi delle carte del commissariato, i casi di
collaborazionismo economico furono tutt’altro che infrequenti nella regione lombarda e
la punizione, soprattutto dei grandi industriali che avevano collaborato col tedesco
19 AS di Perugia, Fondo Corte di Assise di Perugia, Processi penali, b. 83, fasc. 1013; ILSREC, Fondo Raccolta di documenti su esponenti e memorie della Resistenza ligure (già Fondo Dv), Fondo Cln regionale della Liguria e provinciale di Genova nel periodo post-liberazione, Fondo Raccolta di documenti sull’organizzazione e l’attività politica dei Cln e dei partiti antifascisti liguri (già fondo AP), Fondo Gimelli Giorgio; «l’Unità» (1945); ACS, Fondo Mgg, (1851-1983), Gabinetto (1927-1976), Archivio Generale, Affari Diversi, 1925-1983, b.21; Fondo Mgg, Ufficio superiore personale e affari Generali (fino al 1970) (1860-1949), Ufficio Secondo (1860-1970), Magistrati, fascicoli personali 1860-1970, IV° versamento 1950-1970
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invasore, causò alle corti non pochi problemi, principalmente a causa del
doppiogiochismo prestato durante la guerra civile.
Ma non mancarono altre difficoltà. Già il Clnai, che, per primo in una nota del dicembre
‘43 aveva richiamato l’attenzione sugli industriali che dopo l’8 settembre si erano posti
«con zelo al servizio delle autorità tedesche», aveva sottolineato la necessità di punire i
magnati anche per il sostegno dato al regime durante il ventennio20. «Questi signori hanno
fatto la loro fortuna attraverso il fascismo e l’autarchia» – si legge nello stesso comunicato
– «e nel fascismo hanno sempre coperto importanti cariche politiche e sindacali. Gli
italiani non dimenticheranno i loro nomi!»21
Nel caso degli industriali, si impose, dunque, per le CAS, il problema di punire,
contemporaneamente ai crimini di collaborazionismo, anche quelli di fascismo, e cioè di
fare i conti non solo e semplicemente con il governo di Salò, ma con il regime fascista
nel suo complesso.
Va detto che allo stato attuale mancano indagini sui processi ai collaborazionisti
economici. Alcune figure di grandi industriali – come quelle di Giovanni Agnelli, Franco
Marinotti, Agostino Rocca e Vittorio Valletta, solo per fare qualche nome – sono state
esaminate, ma solo all’interno di studi più ampi dedicati all’epurazione e che – anche per
la lunga impossibilità di accedere alle fonti giudiziarie – non si sono occupati nello
specifico dei processi a questa particolare categoria di imputati22. Tali studi hanno tuttavia
il merito di aver spiegato e messo in evidenza gli elementi che permisero a industriali e
manager – più o meno dichiaratamente fascisti – di scampare alle sanzioni epurative e, in
molti casi, di riacquisire nell’Italia repubblicana le posizioni occupate precedentemente:
il sostegno degli Alleati e delle forze conservatrici interne, le responsabilità della
20 G. Grassi (a cura di), “Verso il governo del popolo”, Atti e documenti del Clnai 1943/1946,
Milano, Feltrinelli, 1977, p. 111 21 Ibidem 22 Si vedano: R. Canosa, Storia dell’epurazione in Italia, op.cit.; D. Roy Palmer, Processo ai fascisti, 1943-1948: storia di un’epurazione che non c’è stata, Milano, Rizzoli, 1996; S. Setta, Profughi di lusso. Industriali e manager di Stato dal fascismo all’epurazione mancata, Milano, Franco Angeli, 1993. Giovanni Agnelli fu presidente della FIAT. Per una biografia di Agnelli si veda V. Castronovo, Giovanni Agnelli, Torino, UTET, 1971. Franco Marinotti fu presidente e amministratore delegato della Snia Viscosa, Agostino Rocca direttore amministrativo delle officine Ansaldo e Dalmine, Vittorio Valletta direttore generale e amministratore delegato della FIAT, braccio destro di Agnelli.
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magistratura, la scarsa efficacia della stessa legislazione antifascista23, la strategia
trasformistica (o “doppio gioco”) adottata dagli industriali24.
Tali indagini hanno anche constatato l’atteggiamento ambivalente assunto dalla classe
operaia rispetto all’epurazione del padronato industriale. A tal proposito, Luigi Ganapini
ha osservato, ad esempio, che l’epurazione viene «clamorosamente disattesa in primo
luogo nelle aziende industriali, soprattutto quando essa dovrebbe investire i vertici della
dirigenza» e che ciò non avviene per interventi esterni: «sono anzi le maestranze stesse a
farsi zelatrici del ritorno del padrone in fabbrica»25.
Acquisizioni importanti queste, da cui partire per studiare e sviscerare le peculiarità dei
processi alle CAS rispetto ai provvedimenti attivati nei confronti degli esponenti del
grande capitale italiano da altri organismi giudiziari, quali l’Alto Commissariato per la
Sanzioni contro il fascismo o l’Alta Corte di Giustizia.
Il caso Donegani è originale per diversi aspetti. Innanzitutto, come per Basile, anche su
Donegani manca una biografia. Fatta eccezione per qualche scritto di stampo apologetico
e tra l’altro datato – come quello di Andrea Damiano del ‘5726 – infatti, sul presidente
della Montecatini non possediamo molte informazioni. La vicenda giudiziaria successiva
23 Osserva, ad esempio, Setta in Profughi di lusso, che la legislazione antifascista avrebbe
rappresentato «un aperto invito al pentitismo di comodo» (p.76). Con tale espressione Setta fa riferimento, in particolare, all’art. 7 del Dll 27 luglio 1944 n. 159, che prevedeva una serie di discriminanti, nel caso in cui il colpevole avesse, prima dell’inizio della guerra, preso posizione ostile al fascismo e/o partecipato alla lotta contro i tedeschi. Secondo Setta tale articolo costituiva una «scappatoia», confermata dai successivi dl del 4 agosto 1945 e del 9 novembre (conosciuto come “legge Nenni”), i quali «inserivano l’ulteriore ancora di salvezza della “scarsa attività politica svolta” e della “comprovata capacità tecnica e amministrativa”». 24 Idem, p. 13: «Stretti tra tedeschi e “repubblichini”, alleati e partigiani, gli esponenti della
grande borghesia industriale e finanziaria dovevano dispiegare tutte le sottili arti della propria tradizionale diplomazia per sopravvivere ai difficili eventi. Poche appaiono, come è stato notato, le aperte scelte di campo a favore dei nazifascisti o della Resistenza. Nella maggioranza dei casi essi cercarono unicamente di “destreggiarsi”, formalmente collaborando con tutte le parti di quella guerra di religione tra fascismo ed antifascismo che stava insanguinando l’Italia. Abbondano infatti, come vedremo, i documenti sull’acquiescenza degli industriali alle direttive tedesche e sulla loro cordialità con le autorità della Rsi, come pure quelli sulla loro sotterranea solidarietà con le forze della Resistenza e con gli angloamericani: un atteggiamento di doppio gioco, insomma, che spesso scatenerà contro di loro l’ira fascista come quella partigiana. Ma pur con drammatici incidenti, tipo l’arresto, essi supereranno brillantemente la prova». 25 L. Ganapini, Alle origini della normalizzazione: l’operato della Commissione centrale economica del Comitato di liberazione nazionale Alta Italia (primavera-autunno 1945) in Ganapini, Pozzobon, Mari, Guizzi, Santi, Rugafiori, Sapelli, La ricostruzione nella grande industria. Strategia padronale e organismi di fabbrica nel Triangolo 1945-1948, Bari, De Donato Editore, 1978, p. 75 26 A. Damiano, Guido Donegani, Firenze, 1957. Il lavoro reca in appendice la Lettera di commiato dell’Ing. D. ai lavoratori e agli azionisti della Montecatini
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alla Liberazione è quasi sottaciuta27 e, laddove l’episodio della scarcerazione venga
accennato, esso appare avvolto nel mistero: Domenico Roy Palmer, ad esempio, nel suo
volume magistrale sul processo ai fascisti, scrive che, dopo la consegna di Donegani da
parte degli Alleati agli italiani, «cominciarono a mettersi in moto, per vie misteriose,
influenti personaggi della classe dirigente del paese» e che, dopo una assai «dubbia»
scarcerazione per ordine del Procuratore Generale della Corte Straordinaria del capoluogo
lombardo, Donegani «come molti altri scomparì a Milano tra la folla e riparò in Svizzera».
In margine, lo studioso statunitense recupera un’ipotesi, avanzata allora dagli ambienti di
sinistra, che però non viene sottoposta al vaglio delle fonti giudiziarie: «i comunisti
ritenevano che [...] vi fossero collusioni tra la polizia e l’uomo che aveva architettato la
scarcerazione, un certo professor Narbone, il quale, durante i colloqui relativi al rilascio
di Donegani si era rivolto al questore dandogli sempre del tu»28.
Oltre dunque a gettare le basi per la costruzione di un percorso biografico, si prova a
sciogliere i nodi di questa singolare vicenda giudiziaria allo scopo di esplorare alcune
dinamiche sottese al funzionamento della giustizia straordinaria in Lombardia. E, in parte,
diverse da quelle generalmente studiate. Il caso Donegani sembra in effetti prestarsi – più
che a un esame del processo in sé – a un’analisi della fase precedente – quella
dell’istruttoria – in cui vennero a muoversi attorno all’imputato una pluralità di soggetti:
Clnai, Prefettura, Alleati, Questura, Arma dei Carabinieri, Procura Generale della CAS.
La documentazione su Donegani conservata all’interno del fascicolo personale del
magistrato Carlo Druetti e nel fondo dei National Archives of Washington in copia
all’Archivio Centrale dello Stato è alla base dell’indagine esposta nel sesto capitolo29.
Non si limita, comunque, la ricerca al caso Donegani che è sui generis. Sempre all’interno
dell’ultimo capitolo, infatti, si esplora anche qualche sentenza particolarmente
27 Un accenno alla collaborazione con i tedeschi si trova in F. Amatori, Montecatini: un profilo storico in F. Amatori - B. Bezza (a cura di), Montecatini 1888-1966, Capitolo di storia di una grande impresa, Bologna, il Mulino, 1990. A p. 57, ad esempio, Amatori scrive: «La vera cesura provocata dalle vicende della guerra sembra essere l’allontanamento dalla guida dell’azienda di Donegani, i cui ultimi anni sono molto amari. Arrestato e poi rilasciato dai tedeschi nel marzo del ‘44, è di nuovo arrestato dagli inglesi nel maggio del ‘45 e dopo la scarcerazione nel luglio successivo, è colpito da mandato di cattura del Cln che gli addebita l’attivo sostegno al regime. Vive quindi per circa un anno, fino al proscioglimento, in clandestinità, e muore in stato di grave deperimento psico-fisico nell’aprile del 1947». 28 D. Roy Palmer, Processo ai fascisti, op. cit., p. 219 29 ACS, Fondo Mgg, Magistrati, fasc. pers., b. 202, 70742; Allied Control Commission - Allied Military Government, Italy, Region n. 11 - Lombardia - Legal, Milano Province, n. 785029
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significativa a carico di altri industriali processati in Lombardia, ad esempio Mario
Console. Anche qui, come per Basile, si cerca di capire quale sia stato il ruolo svolto dalle
CAS e, in particolare, quale contributo sia stato dato dalle corti rispetto alla memoria del
collaborazionismo industriale.
Benché molto diversi tra loro, sia il caso Basile che quello Donegani permettono di
approfondire alcune questioni di particolare rilevanza. La prima ha a che fare con la
“continuità dello Stato”. Innanzitutto, rispetto alla magistratura. Lo studio delle figure dei
magistrati impegnati nei diversi processi a Basile e nell’istruttoria a carico di Donegani
aggiunge, infatti, un ulteriore tassello agli studi sulla storia della magistratura che, grazie
alla disponibilità di nuove fonti, stanno provando a rileggere le scelte dei giudici alla luce
non più soltanto della “politicizzazione”, ma anche della particolare mentalità dei
magistrati, connotata in senso nazionalista e classista. Esso muove anche dal tentativo di
comprendere quanto un giurista singolo possa agire in maniera impattante sulle sentenze
e, cioè, in che misura i magistrati, amministrando la giustizia, possano scrivere la storia30.
Il caso Donegani, nello specifico, consente poi di valutare la “continuità dello Stato”
anche rispetto alle forze di Pubblica Sicurezza. Già diversi studi, a partire da quelli di
Mimmo Franzinelli fino a quelli più recenti di Davide Conti, hanno evidenziato come
l’intero comparto di Pubblica Sicurezza fosse stato tra i più fascistizzati nel corso del
Ventennio e che l’epurazione anche in questo settore fosse stata perseguita in forma assai
blanda; non a caso molti dei principali conniventi della dittatura fascista, nel dopoguerra,
sarebbero stati reintegrati ai loro posti di comando: basti qui citare il caso emblematico
di Guido Leto, capo della polizia politica fascista dal ‘38 al ‘45, che nel ‘51 avrebbe
ottenuto la nomina a Direttore Tecnico delle Scuole di Polizia31.
Del resto, nel variegato panorama della giustizia contro i fascisti il malfunzionamento
delle forze di Pubblica Sicurezza si era palesato ben prima della scarcerazione di
30 Viene qui in mente l’intervento di G. Focardi Giudicare storie amministrando giustizia? La magistratura e i processi per collaborazionismo al convegno “Cercare giustizia. L’azione giudiziaria in transizione”, Trieste, 15-16 dicembre 2016, a cura di IRSML FVG. Per la “continuità” relativamente alla magistratura si veda, innanzitutto: G. Neppi Modona, La magistratura e il fascismo in G. Quazza (a cura di), Fascismo e società italiana, Torino, Einaudi, 1973, pp. 125-181. Tra i lavori più recenti, si segnalano soprattutto quelli di G. Focardi (si rimanda per una bibliografia più approfondita alla nota 53) 31 M. Franzinelli, I tentacoli dell’OVRA. Agenti, collaboratori e vittime della polizia politica fascista, Torino, Bollati Boringhieri, 1999
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Donegani con la misteriosa fuga di Mario Roatta32. Il generale, noto soprattutto per essere
stato durante gli anni del regime capo del Servizio Informazioni Militare nonché
comandante della Seconda Armata italiana in Croazia, nel gennaio ‘45 era stato sottoposto
a processo dinanzi all’Alta Corte di Giustizia per “aver contribuito con atti rilevanti a
mantenere in vigore il regime fascista”. Nonostante le gravissime accuse pendenti a suo
carico, a marzo Roatta era riuscito a fuggire dall’ospedale militare in cui si trovava,
secondo la stampa inglese grazie alla complicità di alcuni Carabinieri e all’acquiescenza
del loro comandante, Taddeo Orlando. La fuga aveva avuto – data la notorietà del
personaggio – una vasta eco in tutto il Paese: a Roma, in particolare, era scoppiata una
imponente manifestazione popolare di protesta, nel corso della quale avevano fatto
capolinea bandiere e cartelli con slogan eloquenti come “Morte ai fascisti criminali”,
“Ripulite l’esercito, i carabinieri e la polizia”, “Morte a Roatta e ai suoi complici”.
Rispetto al caso Roatta, è stato osservato anche che il particolare ruolo chiave ricoperto –
di firmatario e garante delle clausole armistiziali – valse al generale, a dispetto delle
accuse di crimini fascisti, la protezione e il sostegno da parte delle forze anglo-americane.
E, in generale, la storiografia sull’epurazione ha evidenziato che sebbene gli Alleati,
formalmente, non fossero mai venuti meno all’impegno di defascistizzare il Paese,
tuttavia, nella pratica agirono per salvare personalità che avrebbero potuto essere utili alla
stabilizzazione o alla ricostruzione economica dell’Italia33.
Ci si può chiedere, allora, se tali considerazioni valgano anche per i casi Basile e
Donegani. Più in generale: quale fu il ruolo esercitato dagli Alleati rispetto ai processi?
L’esame delle due vicende giudiziarie permette in questo senso di approfondire anche le
influenze della politica internazionale – e non sono nazionale – rispetto alle misure
giudiziarie adottate in Italia verso i collaborazionisti.
L’ultima questione riguarda la ricezione dei processi da parte dell’opinione pubblica. Si
tratta anche in questo caso di un aspetto finora poco indagato. In generale, la storiografia
si trova concorde nel ritenere che all’inizio (soprattutto nei primi sei mesi di lavoro delle
CAS) da parte della popolazione ci fosse stato un grande interesse verso i processi e che,
in seguito, invece, tale attenzione fosse andata scemando, un po’ perché man mano che
ci si allontanava dalla guerra affievolivano – come è normale – i ricordi dei crimini subiti,
32 Sulla vicenda di Roatta si veda: L. Bordoni, Il caso Roatta. Londra ed i crimini di guerra
italiani: dalle accuse all’impunità (1943-1948), Roma, Odradek, 2017 33 D. Roy Palmer, Processo ai fascisti, op. cit., p. 202
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un po’ per l’eccessiva lentezza dei processi, che fu fonte di scoraggiamento per molti.
Opinioni più discordi emergono invece in merito alla percezione dell’efficacia o meno
dei processi: se alcuni studi hanno evidenziato la capacità delle CAS di arginare la
violenza dando una soddisfazione immediata di giustizia alla popolazione, altre indagini
hanno ridimensionato questa tesi, constatando invece una sostanziale incapacità delle
corti, anche all’inizio, di soddisfare la popolazione, creando anzi, come già ebbe ad
osservare Achille Battaglia nel suo celebre saggio del ‘55, un notevole turbamento per il
Paese34.
Le reazioni esplose a seguito della sentenza Basile nel giugno ‘45 e della scarcerazione
di Donegani a luglio dello stesso anno, ricostruite grazie alla stampa coeva locale e
nazionale, suggeriscono l’esistenza di un quadro complesso e per molti aspetti anche
inedito. Intanto, perché in entrambi casi si assistette non semplicemente allo scoppio di
singoli e localizzati malumori, ma allo scatenarsi di vere e proprie mobilitazioni di piazza,
che coinvolsero decine, centinaia, migliaia di persone. Con una risonanza mediatica –
data la notorietà degli imputati e la gravità dei crimini commessi – non circoscritta a
livello locale – provinciale e regionale – ma estesa a tutto il panorama nazionale.
Poi perché queste mobilitazioni di piazza videro in prima linea la classe operaia.
Quest’ultima scese a protestare in solidarietà con i lavoratori che erano stati fatti deportare
dal governo di Salò in collaborazione col tedesco invasore. Ma anche a rivendicare
congiuntamente alla punizione dei criminali fascisti un principio di giustizia sociale, sia
contro i padroni fascisti che per vent’anni l’avevano sfruttata, sia in nome di un
miglioramento delle condizioni socioeconomiche. Queste proteste, cioè, sono ricche di
sfumature e rivelano l’esistenza di dinamiche e conflitti di lungo corso, preesistenti alla
guerra civile.
34 M. Elisabetta Tonizzi - C. Dogliotti, La Corte d’assise straordinaria di Genova e Chiavari (1945-1948). Il contesto e l’attività giudiziaria in Giustizia straordinaria tra fascismo e democrazia, op.cit., pp. 177-208. A. Battaglia, Giustizia e politica nella giurisprudenza in Dieci anni dopo 1945-1955., op. cit. p. 343: «Il tentativo di trattenere sul terreno legalitario la insurrezione popolare contro il neofascismo, e di placarne le acque con sentenze penale, fu illusorio e controproducente. I processi che continuarono a svolgersi per lungo periodo di tempo furono soltanto nuovi incentivi di turbamento e violenza. La esposizione degli imputati alla folla che invadeva le aule, la rievocazione continua dei più terrificanti episodi della guerra civile, il racconto delle nefandezze effettivamente verificatesi, e di quelle che aggiungevano testimoni talvolta insinceri, e sempre appassionati, mantennero il Paese in uno stato di tensione che si sarebbe più rapidamente placato se all’esplosione effettivamente verificatasi al nord non fossero poi seguiti i processi».
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L’analisi delle reazioni dell’opinione pubblica, dunque, è in grado di restituire uno
spaccato complesso e problematico dei sentimenti del popolo italiano nel secondo
dopoguerra, scisso tra l’ansia di vendetta e il desiderio di normalità, tra lo sguardo al
passato e la proiezione verso il futuro, ma anche dotato, dopo vent’anni di dittatura, della
possibilità di scendere in piazza e far sentire la propria voce: un elemento non affatto
scontato e segnale, forte, della nascente democrazia.
Non va dimenticato nemmeno che fu proprio a partire dai casi Basile e Donegani che si
andò sviluppando in seno al Commissariato alla Giustizia e al mondo politico un
significativo dibattito sulla necessità di migliorare la legislazione predisposta verso il
fascismo.
Dunque, i casi Basile e Donegani possono essere visti come emblemi di un
malfunzionamento della giustizia e della “continuità dello Stato”. Al contempo, però, essi
costituiscono una preziosa occasione per valutare i tentativi di riscatto e di rinnovamento
messi in atto dalle forze democratiche in un contesto certo non dei più facili. Ed è
soprattutto per questo che si pensa valga la pena di studiare questi episodi: non tanto per
trovare conferma di “quello che già si sa”, ovvero l’epurazione mancata e il fallimento
dei processi verso i collaborazionisti, quanto per rispondere all’interrogativo da cui questo
progetto di ricerca origina: è vero che in Italia non c’è mai stato alcuno sforzo di resa dei
conti con i collaborazionisti? Oppure sarebbe meglio dire che c’è stato in questo senso un
tentativo – se pur fragile e minato da mille difficoltà – che ha dovuto misurarsi, fino ad
esserne annullato, con la tenace persistenza nei gangli istituzionali, di uomini e idee
appartenenti al vecchio regime?
È per far riemergere questa “storia sepolta” che è utile guardare ai processi Basile e
Donegani, analizzando e mettendo a confronto i giudizi espressi dalle diverse CAS e dalla
Cassazione, ma anche prestando attenzione ai movimenti di tutti gli altri soggetti che
andarono a comporre il complesso mosaico della giustizia in transizione in Italia.
Nel complesso, si osserva che la tensione tra “giustizia legale” e “giustizia politica” fu
tratto costitutivo del funzionamento delle CAS lombarde, strette tra la necessità di
normalizzare il Paese, da un lato, e soddisfare l’ansia di vendetta delle vittime dei crimini
fascisti, dall’altro. In questo senso, la dialettica tra CAS e Cassazione che animò la curiosa
vicenda processuale di Basile mostra, meglio di qualunque altra, la difficoltà di conciliare
20
le istanze contrastanti che scaturiscono all’interno di una società nella prova di una
difficile e impegnativa transizione.
Inoltre, le condanne pronunciate da alcune CAS e il conseguente effettivo
riconoscimento, in sede processuale, delle responsabilità della RSI, unite agli sforzi del
Commissariato alla Giustizia per assicurare i colpevoli alla punizione, evidenziano la
necessità di sfumare la tesi della “mancata resa dei conti col fascismo”, per restituire,
rispetto ai percorsi della giustizia italiana del secondo dopoguerra, un quadro un po’ più
mosso e variegato.
21
Capitolo 1 La “giustizia in transizione”
1.1 Il dibattito internazionale e nazionale
Verso la metà degli anni Novanta, i fatti sanguinosi accaduti in Rwanda e in Bosnia
rinnovarono a livello internazionale la sensibilità per il rapporto tra giustizia e politica:
sulla spinta di quegli eventi si giunse alla codificazione di un nuovo sistema penale per la
punizione dei crimini contro l’umanità e si avvertì, in seno al mondo accademico,
l’urgenza di riflettere su come le democrazie allora emergenti in varie parti del mondo –
Sudafrica, Europa centrale e orientale, America latina – potessero “fare i conti” con i
precedenti regimi dittatoriali.
L’opera in tre volumi di Neil J. Kritz, Transitional Justice: How emerging democracies
Reckon with Former Regimes, pubblicata nel ‘95, fissò la categoria della transitional
justice quale oggetto di studio scientifico: essa infatti fu la prima ad esaminare, in una
prospettiva insieme giuridica, politica e filosofica, una serie di transizioni politiche
occorse dalla Seconda guerra mondiale in avanti, nel tentativo di rispondere ad alcune
cruciali questioni: come può una società reintegrare e far coesistere pacificamente i
responsabili e le vittime del precedente regime? Come può soddisfare
contemporaneamente l’esigenza di giustizia e la necessità di riconciliazione?35
Ufficialmente definita dal Segretario Generale delle Nazioni Unite come “l’intera gamma
dei processi e dei meccanismi associati ai tentativi di una società di venire a patti con
un’eredità di abusi commessi su larga scala, al fine di accertare le responsabilità,
soddisfare la giustizia e raggiungere la riconciliazione”36, sulla transitional justice si è
andato sviluppando nel corso degli ultimi vent’anni – anche per la notevole ampiezza
della definizione – un fecondo dibattito, che ha coinvolto studiosi di diverse discipline –
dai giuristi agli antropologi, dai filosofi agli storici – e che ha visto sorgere in tutto il
mondo appositi istituti e team di ricerca, come l’“International Center of Transitional
35 N. J. Kritz, Transitional Justice. How emerging Democracies reckon with Former Regimes,
Washington D.C., United States Institute of Peace Press, 1995 36 https://www.un.org/ruleoflaw/files/S_2011_634EN.pdf
22
Justice” (ICTJ), il “Transitional Justice Institute” (TJI) e l’“Oxford Transitional Justice
Research” (OTJR)37.
Benché la letteratura scientifica sul tema sia sterminata, non si possono non citare almeno
– per il loro ruolo pionieristico – gli studi pubblicati nei primi anni Duemila dalla giurista
Ruti Teitel e dall’antropologo Jon Elster: rispettivamente, Transitional Justice e Closing
the Books: Transitional Justice in Historical Perspective38. Alla prima si deve un modo
del tutto innovativo di guardare alla giustizia penale nei periodi di cambiamento politico
radicale: Teitel propose infatti l’idea che la giustizia nelle transizioni rivestisse un ruolo
«costitutivo e straordinario» e a partire da questa tesi coniò successivamente la fortunata
formula di transitional justice come «narrativa liberale», attribuendo ai processi una
funzione di liberalizzazione39. Al secondo spetta invece il merito di avere, per primo,
studiato la transitional justice in una prospettiva storica, nel tentativo di descrivere e
spiegare le analogie e le differenze nei modi in cui, dopo la transizione ad un sistema
politico nuovo, le diverse società chiudono i conti con il passato. Elster esplorò anche gli
elementi e i meccanismi che caratterizzano la transitional justice: la struttura, gli attori
(colpevoli e vittime), i vincoli (politici ed economici), il ruolo delle emozioni (rabbia,
indignazione e desiderio di vendetta), la relazione con la memoria degli eventi e, infine,
il ruolo centrale della politica nei processi di democratizzazione.
Negli anni successivi, il mondo accademico e in particolare i giuristi provarono a
rileggere e a perfezionare il concetto, anche alla luce dei più recenti processi di
globalizzazione: nel 2014 il volume pubblicato da Teitel, Globalizing Transitional
Justice, rappresentò in questo senso un significativo turning point nelle ricerche, per la
sua capacità di fornire, guardando a diversi contesti e in un’ottica interdisciplinare, un
resoconto complessivo dell’elaborazione concettuale del tema40.
Al giorno d’oggi la categoria continua ad essere sempre più studiata, sebbene non
manchino posizioni molto diverse tra loro. Un punto notevolmente discusso, ad esempio,
37 https://www.ictj.org/about; https://www.ulster.ac.uk/research/institutes/transitional-justice-
institute; https://www.law.ox.ac.uk/research-subject-groups/oxford-transitional-justice-research 38 R. Teitel, Transitional Justice, Oxford, Oxford University Press, 2000; J. Elster, Chiudere i conti. La giustizia nelle transizioni politiche, Bologna, il Mulino, 2008 (ed. orig. Closing the Books. Transitional Justice in Historical perspective, Cambridge, 2004) 39 R. Teitel, Giustizia di transizione come narrativa liberale in M. Flores (a cura di), Storia, verità, giustizia. I crimini del XX secolo, Milano, Bruno Mondadori, 2001, pp. 262-277 40 Idem, Globalizing transitional justice. Contemporary Essays, Oxford, Oxford University Press, 2014
23
è il rapporto tra la democrazia e la transitional justice: secondo alcuni studiosi non è
corretto includere la democrazia tra gli scopi normativi costitutivi della transitional
justice in quanto non tutte le società considerate “in transizione” condividono l’obiettivo
della democrazia; anzi, è stato ribattuto come proprio i meccanismi della giustizia di
transizione possano essere utilizzati e piegati per rafforzare ideologie illiberali e
consolidare il potere di regimi autoritari41.
In generale, il dibattito internazionale odierno riflette la mancanza di un consenso rispetto
alla definizione della transitional justice e alla conseguente possibilità di applicare la
categoria a esperienze di transizione diverse: già Elster, a tal proposito, aveva osservato
come fosse impossibile elaborare una teoria generale della giustizia di transizione, per via
della molteplicità e varietà dei contesti, e le varie definizioni via via proposte negli ultimi
anni sulla rivista “The International Journal of Transitional Justice” hanno complicato
ulteriormente la questione42.
Nella storiografia europea degli ultimi anni è in atto un notevole fermento di ricerche. In
Francia, ad esempio, gli studi sulla justice transitionelle si sono andati moltiplicando,
sebbene già sul finire degli anni Ottanta gli storici francesi si siano confrontati sui temi
della giustizia post-bellica e dell’epurazione, in una prospettiva soprattutto di storia
sociale: importanti in questo senso sono stati i lavori condotti da Henry Rousso sulla
syndrome de Vichy43 e da Fabrice Virgili sulle femmes tondues, studi che, più di recente,
sono stati recuperati per rileggere e riscoprire il ruolo delle donne in Europa44. Né è
mancata l’attenzione per la magistratura, in un’ottica sia giuridica che storica: si pensi, ad
esempio, al lavoro collettaneo sui giudici di Vichy, pubblicato poco tempo fa a cura di
Jean Paul Jean, che ha ricostruito le sanzioni amministrative e giudiziarie messe in campo
contro i magistrati, nonché il ruolo svolto dai giudici nei processi ad alcuni dei più
importanti responsabili di crimini contro l’umanità durante la Seconda guerra mondiale,
come Klaus Barbie, Paul Touvier, Maurice Papon45.
41 Per il dibattito sul rapporto tra democrazia e transitional justice si veda il recente lavoro della filosofa C. Murphy, The conceptual foundations of Transitional Justice, Cambridge, Cambridge University Press, 2017, pp. 31-2 42 https://academic.oup.com/ijtj 43 H. Rousso, Le syndrome de Vichy. De 1944 à nos jours, Paris, Le Seuil, 1987 44 F. Virgili, La France «virile»: des femmes tondues à la Libération, Paris, Payot et Rivages,
2000; J. Le Gac - F. Virgili, L’Europe des femmes XVIIIe-XXIe siècle, Perrin, 2017 45 J. P. Jean (a cura di), Juger sous Vichy, juger Vichy, Paris, La documentation française, 2018
24
Analogamente, anche per la Germania sono comparsi studi sulla magistratura impegnata
nei processi ai criminali nazisti (anche recentissimi, come quello a carico di John
Demjanjuk conclusosi nel 2011), nel quadro delle ricerche in merito alla cosiddetta
Vergangenheitsbewältigung (“resa dei conti col passato”)46.
Il lavoro del 2014 curato da Nico Wouters, Transitional Justice and Memory in Europe
(1945-2013), ha provato a dare conto dei molteplici sforzi storiografici avviati in tutta
Europa, riunendo una serie di saggi incentrati su casi di studio geografici e temporali
diversi: dalla Germania Ovest alla Francia, dopo la Seconda guerra mondiale, dalla
Spagna al Portogallo, dopo la fine, a metà degli anni Settanta, delle dittature di Franco e
di Salazar, dall’Ungheria alla Polonia, dopo il crollo del muro di Berlino. L’autore ha
inteso suggerire con ciò la possibilità di avviare una comparazione tra le differenti
esperienze di transizione europee, prestando uno sguardo, in particolare, all’impatto della
transitional justice sui processi di costruzione delle memorie47.
All’interno della rassegna curata da Wouters è significativo che non figuri il caso italiano:
ciò riflette il fatto che nel nostro Paese, l’utilizzo della transitional justice – tradotta
generalmente come “giustizia di transizione” – per inquadrare la giustizia nel secondo
dopoguerra, sia notevolmente tardivo rispetto al quadro internazionale: basti pensare che
nell’ambito giuridico il primo lavoro organico sul tema è solo del 2013, mentre in quello
storico addirittura del 201548.
Cionondimeno, nel campo degli studi storici il concetto di “transizione” è stato molto
dibattuto in anni passati. Diversi studiosi, a cominciare da Claudio Pavone, hanno messo
in guardia dall’uso del concetto di “transizione” – così come mutuato dalle teorie
politologiche degli anni Ottanta e Novanta – per comprendere i processi storici: ad
esempio, nella sua Prima lezione di storia contemporanea, Pavone osservò che gli storici
ricorrono al concetto di “transizione” per «trarsi d’impaccio», quando si trovano di fronte
alla difficoltà di periodizzare «le lente metamorfosi e le lunghe gestazioni [...] per la
46 Un magistrato verso cui si è rinnovata una grande attenzione è Fritz Bauer, Pubblico Ministero nel processo di Francoforte tra il 1963 e il 1965. Si veda, ad esempio, C.K. Martin Chung, Against Loveless Judging: Fritz Bauer and Transitional Justice in Postwar Germany in “International Journal of Transitional Justice”, 2018, 12, pp. 9-25. Anche il cinema ha dimostrato interesse verso Bauer: si pensi ai film recenti Il labirinto del silenzio. Reg. Giulio Ricciarelli. Good Films, 2014 e Lo stato contro Fritz Bauer. Reg. Lars Kraume. Cinema, 2015 47 N. Wouters (a cura di), Transitional Justice and Memory in Europe (1945-2013), Cambridge, Intersentia, 2014 48 G. Fornasari, Giustizia di transizione e diritto penale, Torino, Giappichelli Editore, 2013; G. Focardi - C. Nubola (a cura di), Nei tribunali, op. cit.
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compresenza in esse di cose che stentano a morire e di cose che stentano a nascere»
correndo però così il rischio «di trasformare l’intera storia in una lunghissima transizione,
dall’alfa dell’inizio all’omega della pienezza dei tempi»49. Riprendendo queste
osservazioni, Luca Baldissara ha ribadito come il concetto di transizione tenda a
privilegiare il “cambiamento” e la “rottura”, piuttosto che la “continuità”, e rischi perciò
di compromettere una corretta lettura dei processi storici, mettendo in risalto soprattutto
il momento del passaggio e sacrificando invece l’attenzione per la dialettica tra le
persistenze e le innovazioni50.
È anche per questo che, in riferimento alla giustizia adottata in Italia nel secondo
dopoguerra, alcuni studiosi hanno suggerito che sarebbe meglio usare il termine “una
giustizia in transizione”, anziché “giustizia di transizione”, così da rimarcare come il
sistema giudiziario ideato nei confronti dei collaborazionisti in Italia non sia stato
qualcosa di meramente transitorio, scollegato dal flusso degli eventi circostanti, ma sia
stato semmai il prodotto di una dialettica incessante tra due forze opposte, l’una rivolta al
passato e l’altra proiettata verso il futuro: l’esigenza di punizione dei responsabili dei
crimini durante la guerra civile da un lato, e la necessità di ricostruzione politica,
economica e sociale del Paese, dall’altro51. Il dibattito sulla giustizia in transizione in
Italia verte essenzialmente su se e quanto quest’ultima sia stata effettivamente in grado di
rispondere alle istanze contrastanti provenienti dalla società nel difficile passaggio post-
bellico dal fascismo alla democrazia.
Negli ultimi anni, anche su impulso del vivace dibattito internazionale, si è iniziato a
registrare nel nostro Paese un cospicuo numero di ricerche storiografiche sulla giustizia
in transizione, che hanno attinto a settori di studio già avviati e particolarmente fecondi,
come quello della “continuità dello Stato” o quello delle stragi nazi-fasciste52. Sono stati
49 C. Pavone, Prima lezione di storia contemporanea, Roma-Bari, Laterza, 2007, p. 153 50 L. Baldissara, Sulla categoria di “transizione”, “Italia Contemporanea”, n. 254, marzo 2009 51 Della questione si è dibattuto in occasione del seminario “Tra storia e diritto. Giustizie di transizione tra guerra e dopoguerra: un bilancio delle ricerche in corso”, Padova, 29 novembre 2016, a cura di CASREC in collaborazione con DISSGeA e Scuola di Cultura Costituzionale. Ad impiegare la formula di “giustizia in transizione” è, ad esempio, Leonardo Pompeo D’Alessandro, in Per uno studio delle sentenze della Corte d’assise straordinaria di Milano, art. cit., p. 31 52 Sulla “continuità dello Stato” si veda, C. Pavone, Alle origini della Repubblica: scritti su
fascismo, antifascismo e continuità dello Stato, Torino, Bollati Boringhieri, 1999. Per quanto riguarda lo studio delle stragi nazi-fasciste, è da segnalare l’avvio, nel 2009, del progetto per la costruzione di un “Atlante delle stragi nazi-fasciste in Italia”. Le indagini hanno permesso di censire oltre 5000 episodi, che sono stati inseriti in una Banca Dati (si veda il sito:
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così condotti (e si stanno tuttora conducendo) censimenti quantitativo-statistici – sulle
Corti d’Assise Straordinarie e ordinarie, ad esempio – ma anche indagini prosopografiche
– sui magistrati, sugli avvocati, e su altri soggetti protagonisti a vario titolo della giustizia
nell’Italia post-bellica e spesso a lungo trascurati dalle indagini, come le vittime o le
donne collaborazioniste53 – nè sono mancate riletture della nota e controversa “amnistia
Togliatti”54.
Anche sul versante giuridico, il panorama degli studi è molto fluido: sono in corso, ad
esempio, importanti progetti di ricerca in prospettiva comparata sull’elaborazione della
memoria nei differenti paesi europei, come il Memory Laws in European and
Comparative Perspective (MELA), a cui per l’Italia partecipa l’università di Bologna
sotto il coordinamento di Emanuela Fronza55.
In sede storiografica, se per un verso la moltitudine di queste ricerche è stata motivata
dall’apertura di fondi archivistici a lungo esclusi dalla consultazione (si pensi solo alle
carte delle CAS o ai fascicoli personali dei magistrati), per un altro verso essa è scaturita
dall’esigenza di andare a colmare un “buco nero” della giustizia verso il fascismo. Gli
studi condotti sull’epurazione in Italia nel corso degli anni Novanta da Romano Canosa,
Hans Woller, Domenico Roy Palmer, infatti, hanno certamente messo in luce aspetti
fondamentali della resa dei conti con il fascismo, ma non hanno comprensibilmente
esaurito – data la vastità del fenomeno e l’impossibilità di accedere ad alcune fonti – la
http://www.straginazifasciste.it/). I risultati del lavoro sono stati raccolti in: G. Fulvetti - P. Pezzino (a cura di), Zone di guerra. Geografie di sangue. L’Atlante delle stragi naziste e fasciste in Italia (1943-1945), Bologna, il Mulino, 2017 53 Per i magistrati, si vedano soprattutto i lavori di G. Focardi, Arbitri di una giustizia politica: i magistrati tra la dittatura fascista e la Repubblica democratica in G. Focardi - C. Nubola (a cura di), Nei tribunali, op. cit., pp. 91-134 e I magistrati tra fascismo e democrazia: uno sguardo alla”periferia” toscana in F. Tacchi (a cura di), Professioni e potere a Firenze tra Otto e Novecento, Milano, Franco Angeli, 2012, pp. 201-223. Per gli avvocati, si segnala: F. Tacchi, Difendere i fascisti? Avvocati e avvocate nella giustizia di transizione in G. Focardi - C. Nubola (a cura di), Nei tribunali, op. cit., pp. 51-90. Per una ricostruzione attenta alle vittime, si veda: L. Allegra, Gli aguzzini di Mimo. Storie di ordinario collaborazionismo (1943-’45), Torino, Zamorani, 2010. Per le donne collaborazioniste, infine, si vedano: C. Nubola, Fasciste di Salò. Una storia giudiziaria, Bari, Laterza, 2016; R. Cairoli, Dalla parte del nemico. Ausiliarie delatrici e spie nella Repubblica Sociale italiana, Milano-Udine, Mimesis, 2013; F. Gori, I processi per collaborazionismo in Italia. Un’analisi di genere in “Contemporanea”, 2012, n.4, pp. 651-672 54 M. Franzinelli, L’amnistia Togliatti, op. cit. 55 Si tratta di un progetto di ricerca interuniversitario finalizzato a condurre un’indagine comparata sulle leggi di memoria nel contesto europeo: http://www.dsg.unibo.it/it/ricerca/memory-laws-in-european-and-comparative-perspective-mela
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complessità e la problematicità della questione56. E del resto non mancò da parte di quegli
stessi studi la consapevolezza di tale mancanza: fu proprio Woller il primo ad intuire che,
al fine di «diradare la nebbia» che ancora circondava la resa dei conti con il fascismo,
occorreva compiere una serie di ricerche di «carattere locale e regionale», consultando i
documenti degli archivi regionali, gli atti dell’Istituto per la storia del movimento di
Liberazione in Italia, gli atti del Foreign Office e delle forze armate alleate, nonché quelli
delle Corti d’Assise ordinarie e straordinarie, delle procure e della Cassazione57.
Sulla scorta di queste riflessioni, le ricerche in corso, unendo gli sforzi storiografici
compiuti negli anni Novanta e nei decenni precedenti all’esame delle nuove fonti
giudiziarie a disposizione, stanno cercando di rileggere e di scomporre i percorsi epurativi
e giudiziari messi in campo verso il fascismo e il collaborazionismo, al fine di
approfondire e, in un certo senso, fare un salto, dal punto di vista interpretativo, rispetto
alla tesi – ormai consolidata – della “mancata epurazione”.
Un aspetto che si cerca di chiarire attraverso lo studio della “giustizia in transizione” è il
discorso sulla memoria del fascismo. Già è stata più volte rimarcata dalla storiografia la
persistenza, rispetto al regime fascista e alla Repubblica Sociale Italiana, di una memoria
parziale, “divisa” e di certo fortemente edulcorata: ad esempio, i numerosi studi condotti
sui crimini di guerra italiani commessi all’estero – in Africa e nei Balcani – hanno messo
in evidenza come i mancati processi ai criminali di guerra italiani abbiano finito per
ostacolare la comprensione delle logiche di fondo delle occupazioni fasciste, favorendo
un esteso processo di auto-assoluzione nazionale, che ha trovato esemplificazione nella
fortuna del mito degli “italiani brava gente”58. Analogamente, l’assenza di processi nei
confronti dei responsabili di antisemitismo – si pensi, ad esempio, agli autori del
“Manifesto degli scienziati razzisti” o ai giuristi che presiedettero ai lavori del Tribunale
della Razza – ha fatto sì che si sottacessero a lungo le responsabilità italiane nella Shoah,
56 R. Canosa, Storia dell’epurazione in Italia, op. cit., H. Woller, I conti con il fascismo: l’epurazione in Italia, 1943-1948, Bologna, il Mulino, 1997 e D. Roy Palmer, Processo ai fascisti, op. cit. 57 H. Woller, I conti con il fascismo, op.cit., p. 15 58 Sul mito degli “italiani brava gente” o “buon italiano”, si vedano, ad esempio: F. Focardi, Il
cattivo tedesco e il bravo italiano. La rimozione delle colpe della seconda guerra mondiale, Roma-Bari, Laterza, 2013; D. Conti, L’occupazione italiana dei Balcani. Crimini di guerra e mito della “brava gente” (1940-1943), Roma, Odradek, 2008; A. Del Boca, Italiani brava gente? Vicenza, Neri Pozza Editore, 2005
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oscurando una pagina di storia del Paese che perfino le leggi di memoria elaborate in anni
recenti non sembrano avere voluto recepire59.
Ci si sta chiedendo, allora, nelle ricerche sulla giustizia in transizione quanto e come le
politiche giudiziarie adottate complessivamente in Italia nel secondo dopoguerra abbiano
contribuito ad una mancata definizione del fascismo e del collaborazionismo.
Nel 2015 il volume collettaneo a cura di Cecilia Nubola e Giovanni Focardi, nato da un
progetto dell’Istituto storico italo-germanico di Trento sull’età di transizione, ha
rappresentato un primo decisivo punto sullo stato dell’avanzamento delle ricerche in
Italia. Nell’introduzione al lavoro, la giustizia in transizione viene collocata
temporalmente tra il ‘43 e il ‘55 e definita come quella giustizia «che assunse
caratteristiche specifiche in Italia, accompagnando la transizione dal regime fascista al
regime repubblicano» e che «si attuò attraverso l’insieme delle leggi speciali e dei
provvedimenti amministrativi di epurazione, i tribunali e i processi attuati prima contro
gli ex fascisti di Salò e poi nei confronti dei partigiani, e attraverso le misure di clemenza
(amnistie e provvedimenti di grazia)»60.
L’opera, partendo dal tribunale quale luogo fisico in cui si concretizzò l’amministrazione
della giustizia in transizione, si è contraddistinta nel panorama storiografico per
l’attenzione rinnovata – e in parte nuova – al processo in quanto tale, ai soggetti
protagonisti dei processi (imputati, avvocati, giudici e vittime), alle dinamiche interne,
alle influenze politiche e culturali in grado di condizionare le sentenze e i provvedimenti
di clemenza, nel tentativo di comprendere il ruolo esercitato dalla giustizia politica nella
costruzione dell’Italia repubblicana.
I numerosi convegni, seminari e incontri, promossi sulla scia della pubblicazione di quel
lavoro, hanno visto gli storici, spesso con la consulenza di esperti del diritto – professori,
avvocati, magistrati – alle prese con questo fondamentale interrogativo.
59 Si fa qui riferimento alla legge 20 luglio 2000, n. 211, Istituzione del “Giorno della memoria” in
ricordo dello sterminio e delle persecuzioni del popolo ebraico e dei deportati militari e politici italiani nei campi nazisti in «Gazzetta Ufficiale», 31 luglio 2000, n. 177, nella quale ancora una volta la tendenza autoassolutoria del popolo italiano è testimoniata emblematicamente dall’assenza della parola “fascismo”. Per la persecuzione degli ebrei in Italia, si vedano i lavori di M. Sarfatti, ad esempio Gli ebrei nell’Italia fascista. Vicende, identità, persecuzione, Torino, Einaudi, 2000 e di G. Israel, Il fascismo e la razza: la scienza italiana e le politiche razziali del regime, Bologna, il Mulino, 2010 60 G. Focardi - C. Nubola (a cura di), Nei tribunali, op. cit., p. 7
29
Nel quadro degli studi in corso sulla giustizia in transizione italiana le Corti d’Assise
Straordinarie (CAS), istituite poco prima della Liberazione per punire i reati di
collaborazione con i tedeschi, occupano un posto speciale, per via della loro particolare
natura ibrida – politica e giuridica insieme – e per la considerevole attività esercitata su
tutto il territorio italiano: benché manchi ancora un quadro organico, si stima infatti che
tra il maggio ‘45 e il dicembre ‘47 esse abbiano giudicato qualcosa come tra le 15000 e
le 20000 cause.
Del tema, per la verità, ci si cominciò a occupare già a partire dalla seconda metà degli
anni Settanta, quando un gruppo di giuristi torinesi, coordinato da Guido Neppi Modona,
iniziò ad esaminare, anche sotto il profilo storico, la produzione giurisprudenziale di
questi organi, rilevandone l’importanza nel quadro della giustizia penale. La ricerca
guidata da Neppi Modona raffrontò i lavori della giustizia ordinaria con quelli della
giustizia straordinaria in Piemonte, rilevando come i magistrati piemontesi avessero
dimostrato nel complesso una certa dose di severità nei confronti dei collaborazionisti61.
Nei decenni successivi e in particolare negli anni Novanta, poi, fiorirono diverse ricerche
di stampo locale62, e anche all’interno delle monografie sul processo epurativo dispiegato
in Italia tra il ‘43 e il ‘48, non mancarono dei riferimenti all’azione giudiziaria esercitata
da questi organi. Le ricerche sul tema iniziarono però a moltiplicarsi a partire dagli anni
Duemila e cioè, quando, grazie alla apertura dei fondi archivistici, gli storici si resero
conto che avrebbero potuto usare la documentazione prodotta dalle CAS per ricostruire e
rileggere una serie di tematiche storiografiche cruciali per la comprensione della storia
italiana ed europea e sulle quali, a partire dagli anni Novanta, si era avviato un processo
di arricchimento metodologico e conoscitivo, favorito dal superamento della Guerra
Fredda e dal venire meno delle ragioni che avevano accompagnato la divisione bipolare
61 AAVV, Giustizia penale e guerra di liberazione, Milano, Franco Angeli, 1984 62 Si vedano, ad esempio: A. Berschegg, La Corte d’assise straordinaria di Venezia, M.
Cassandrini, La Corte d’assise straordinaria di Verona, F. Maistrello, La Corte d’assise
straordinaria di Treviso in Processi ai fascisti: 1945-1947. Venetica: annuario degli Istituti per la
storia della Resistenza di Belluno, Treviso, Venezia e Verona, Verona, 1998; V. Flamigni - C.
Albonetti, La Corte Straordinaria e Speciale d’Assise di Forlì (13 giugno 1945-4 ottobre 1947) in
A. Daltri, Cesena e Forlì dalla guerra alla ricostruzione, Cesena, Il Ponte Vecchio, 1995, pp.
175-187 e A. Manicardi, Processo ai collaborazionisti, le corti straordinarie d’Assise di Bologna,
Modena e Reggio Emilia (1945-1947), Tesi di laurea, relatore Alberto Preti, Università degli
studi di Bologna, 1996
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della politica, della cultura e delle società: i collaborazionismi, le guerre civili, le
Resistenze63.
Le indagini del nuovo millennio si sono così concentrate sull’utilizzo delle CAS come
lenti attraverso cui leggere i crimini commessi dai fascisti durante la guerra civile e in
questo senso esse hanno aggiunto un prezioso tassello sia allo studio delle stragi nazi-
fasciste in Italia – ribadendo l’esistenza di un autonomo stragismo di matrice fascista –
sia allo studio della Resistenza – riscoprendo volti e nomi di persone, fino ad allora
sconosciute, che avevano combattuto attivamente per la libertà del Paese.
Per un altro verso, alle CAS si è guardato anche sulla spinta di un rinnovato interesse per
il rapporto tra violenza e costruzione della legalità nel secondo dopoguerra: in questo
senso diversi studiosi hanno posto l’accento sulla funzione di normalizzazione svolta da
questi tribunali, capaci di contenere e incanalare su un piano legale, in un contesto post-
bellico segnato da un’onda lunga di violenza, l’ansia popolare di vendetta64.
Più discussa invece è stata l’effettiva capacità di queste corti di elaborare un giudizio
complessivo sul fascismo e sul collaborazionismo: secondo alcuni studiosi, i numerosi
processi istruiti in aule traboccanti di popolo assolsero alla funzione di «lezioni di storia
patria», stimolando su più livelli una riflessione sul fascismo65, nell’espletamento di quel
ruolo di «teatro pedadogico» che Mark Osiel attribuisce ai processi della giustizia post-
bellica66; secondo altri, invece, le CAS furono sostanzialmente inefficaci nel restituire
all’opinione pubblica «un’immagine complessiva della violenza fascista» e quindi nel
delineare «un giudizio pubblico di lungo periodo in relazione alle responsabilità politiche
della precedente classe dirigente»67.
63 Per un riassunto delle riflessioni più recenti su queste tematiche, si veda: D. D’Amelio - P. Karslen (a cura di), Collaborazionismi, guerre civili e Resistenze in “Qualestoria”, anno XLIII n.2, dicembre 2015 e, in particolare, per il caso italiano, il saggio ivi contenuto di L. Ganapini, Collaborazionismi, guerre civili, Resistenze: il caso italiano, pp. 13-32 64 Sulla violenza si veda: M. Dondi, La lunga liberazione: giustizia e violenza nel dopoguerra italiano, Roma, Editori Riuniti, 1999. Più recente il convegno “1945-’46. Violenza e costruzione della legalità”, Modena-Reggio Emilia, 7-9 aprile 2016, a cura di Istoreco, Istituto Storico di Modena, Istituto Parri di Bologna, in collaborazione con INSMLI e col contributo della regione Emilia-Romagna e della Fondazione Cassa di Risparmio di Modena. Sulla funzione delle CAS come strumento normalizzatore si veda il saggio di T. Rovatti, Politiche giudiziarie per la punizione dei delitti fascisti in Italia, art. cit. 65 H. Woller, I conti con il fascismo, op. cit., p. 421 66 M. J. Osiel, Politica della punizione, memoria collettiva e diritto internazionale in L. Baldissara - P. Pezzino (a cura di), Giudicare e punire, Napoli, L’ancora del Mediterraneo, 2005, pp. 105-117 67 T. Rovatti, Politiche giudiziarie per la punizione dei fascisti, art. cit., p. 77
31
Negli ultimi anni la mole sempre più cospicua degli studi sulle CAS, promossi da vari
Istituti della Resistenza – soprattutto in Piemonte, Liguria e Friuli – , e da ricercatori
singoli sparsi sul territorio italiano – ha reso necessario un coordinamento delle ricerche,
che potesse finalmente restituire un quadro complessivo dell’azione giudiziaria intrapresa
contro l’ex nemico fascista a livello nazionale e, al tempo stesso, individuare specificità
territoriali della “punizione legale” e procedimenti di particolare rilievo68. Da qui, nel
2016, è nata l’idea dell’Istituto Nazionale Ferruccio Parri, in collaborazione con
l’Associazione Nazionale Partigiani d’Italia, di promuovere una ricerca di carattere
nazionale sulle CAS, finalizzata a censire le corti attive sull’intero suolo italiano e ad
effettuare, attraverso una scheda di rilevamento delle sentenze, una prima ricognizione
dell’esperienza di questi tribunali. I dati raccolti da questo lavoro, coordinato da Paolo
Pezzino, sono confluiti in una Banca Dati online, liberamente consultabile e pensata
specificamente dagli ideatori come un work in progress e come uno strumento di
ricerca69.
Nel convegno svoltosi a Trento nel dicembre 2017 si sono analizzati i risultati della
ricerca sulle sentenze delle CAS e, al tempo stesso, si è cominciato a dare uno sguardo
anche agli altri tribunali che si sono occupati di crimini fascisti e nazisti, in particolare i
68 Si pensi ai lavori condotti sulle CAS liguri sotto la supervisione di Elisabetta Tonizzi e quelli, in anni più recenti, sulla CAS di Trieste sotto la supervisione di Anna Maria Vinci. Per i lavori in Liguria, si veda, ad esempio: P. P. Rivello, Il “caso Engel”. Incertezza delle risposte “nazionali” ai criminali di guerra in La Corte penale internazionale. Storia e prospettive, in “Storia e Memoria”, 2003/1, pp. 173-84. Sulla CAS di Trieste e sulle CAS friulane in generale, si vedano i lavori di Fabio Verardo e Irene Bolzon. F. Verardo, I processi per collaborazionismo in Friuli. La Corte d’Assise Straordinaria di Udine (1945-1947), Milano, Franco Angeli, 2018; I. Bolzon - F. Verardo, Profittatori di guerra. I crimini contro gli ebrei nei processi della Corte d’Assise Straordinaria di Trieste (1945-1947) in “Contemporanea”, 4/2018, pp. 533-558. Sono da poco stati pubblicati anche gli atti del convegno di Trieste del 2016 promosso dall’IRSML: Cercare giustizia. L’azione giudiziaria in transizione. Atti del convegno internazionale (Trieste, 15-16 dicembre 2016), IRSML Friuli-Venezia Giulia, 2018. Si segnala poi sulla CAS di Milano il lavoro di L. Reggiori, Collaboratori e collaborazionisti a Salò: i processi per collaborazionismo nelle sentenze della Corte d’Assise Straordinaria di Milano (1945-1947), Tesi di dottorato in storia contemporanea, Relatore Luca Baldissara, Università di Pisa, 2014 69 La Banca Dati è consultabile al sito: http://www.straginazifasciste.it/cas/. Attualmente sono state inserite nella Banca i dati relativi a oltre 3200 (3230) tra sentenze emesse dalle CAS e dalle Sezioni Speciali di Corte d’Assise operanti nelle province di Milano, Monza, Lodi, Pavia (sezioni di Pavia, Vigevano, Voghera), Genova, Treviso, Udine, Belluno, Verona, Perugia, Viterbo, Rieti, Roma, Latina e Frosinone. Sono state altresì inserite sentenze per reati di collaborazionismo emanate dalle Corti d’Assise ordinarie di Perugia, Viterbo, Rieti, Roma, Cassino, Latina e Frosinone tra il 1944 e il 1951. Si è contribuito al progetto inserendo le sentenze pronunciate dalla CAS di Pavia e dalle sezioni di Vigevano e Voghera.
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tribunali militari alleati e i tribunali militari italiani70. Le riflessioni maturate in occasione
di quell’incontro hanno dato vita al volume Giustizia straordinaria tra fascismo e
democrazia. I processi presso le Corti d’assise e nei tribunali militari, pubblicato
nell’aprile 201971.
Le indagini fin qui sviluppate hanno messo in luce una serie di aspetti e problemi – alcuni
più specifici alla giustizia in transizione italiana, altri ravvisabili in altre esperienze di
giustizia in transizione – che intervennero a plasmare e a limitare, ciascuno in misura più
o meno forte, il lavoro delle Corti d’Assise Straordinarie.
Un primo dato emerso, specifico alla giustizia in transizione italiana, riguarda l’estrema
varietà temporale e spaziale dei processi. Le CAS, estendendo i propri lavori dal maggio
’45 sino al dicembre ’47, in tutta Italia, operarono infatti in tempi e luoghi molteplici,
connotati da atmosfere politiche e sentimenti popolari radicalmente diversi. Lo spazio
condizionò in maniera profonda i processi, innanzitutto dal punto di vista numerico: i
dibattimenti furono ben più numerosi al Nord, poco frequenti nel Centro Italia e quasi del
tutto assenti nelle regioni meridionali. Sul piano della ricezione dell’opinione pubblica,
poi, si può facilmente intuire quanto potesse essere diverso un processo svoltosi a Milano
nel giugno ‘45, in un territorio ancora sanguinante per le ferite recenti, da uno celebrato,
per esempio, a Napoli nel ‘47, più lontano sia temporalmente che geograficamente dagli
orrori della guerra civile. I numerosi episodi di protesta, sfociati spesso in vera e propria
violenza, che diverse indagini sulle CAS hanno registrato, testimoniano eloquentemente
la forte tensione popolare che accompagnò i dibattimenti e che, molto spesso, fu tale da
rendere necessario il rinvio a giudizio per legittima suspicione72.
Del resto, la natura ibrida delle proteste popolari – in cui spesso alla richiesta di punizione
dei crimini di collaborazionismo si mescolarono denunce sociali nei confronti degli ex-
padroni – ha confermato l’esistenza di dinamiche complesse, preesistenti alla guerra
civile, e variabili in base ai contesti spaziali73.
70 Giustizia straordinaria tra guerra e dopoguerra. Tribunali speciali e tribunali militari, Trento, 11-12 dicembre 2017, a cura di Istituto Storico Italo Germanico - Fondazione Bruno Kessler, Istituto Nazionale Ferruccio Parri, Fondazione Museo Storico del Trentino 71 C. Nubola - P. Pezzino - T. Rovatti (a cura di), Giustizia straordinaria tra fascismo e democrazia, op. cit. 72 Sull’ansia di giustizia della folla e alcuni episodi di violenza ad essa connessi si veda: T. Rovatti, Tra giustizia legale e giustizia sommaria. Forme di punizione del nemico dell’Italia nel dopoguerra in G. Focardi - C. Nubola (a cura di), Nei tribunali, op. cit., pp. 15-49 e, in particolare, 23-33 73 Idem, Tra giustizia legale e giustizia sommaria, art. cit., p. 49
33
Soprattutto il fattore temporale ha rappresentato secondo la storiografia un fondamentale
discrimine nel lavoro delle CAS, all’interno del quale si è distinta una fase iniziale –
coincidente con i primi sei mesi di attività e caratterizzata da una severità di giudizio – e
una fase successiva – connotata da una linea punitiva più blanda – nella quale si assistette
via via al progressivo reinserimento di una giustizia penale, nata su presupposti politici,
nella legalità. Tale capovolgimento avvenne primariamente per effetto dell’intervento
della Suprema Corte di Cassazione: organo non sottoposto precedentemente a epurazione,
quest’ultima ebbe la tendenza a concedere larghi sconti di pena quando non addirittura ad
assolvere gli imputati, facendo leva sulle incongruenze o debolezze delle sentenze
elaborate da giudici popolari, spesso privi della pur minima cognizione in materia di
giurisprudenza74.
La mancata epurazione della magistratura è stata valutata come una delle cause principali
del fallimento dei processi verso i collaborazionisti in Italia e del resto la carenza di
giudici affidabili è – per usare il gergo adottato da Elster – un “vincolo” piuttosto
frequente all’interno della giustizia in transizione: si pensi, ad esempio, all’ostruzionismo
esercitato dal sistema giudiziario tedesco nella Germania del secondo dopoguerra nei
confronti della messa in stato d’accusa dei criminali nazisti75. Nel caso italiano la
magistratura era stata fascistizzata nel corso del Ventennio e, a dispetto degli impegni
presi per la defascistizzazione del Paese, non venne mai sottoposta ad epurazione, a causa
della forte caratterizzazione tecnica del corpo e quindi dell’impossibilità di rimpiazzare i
magistrati. Studi recenti hanno comunque suggerito di provare a spiegare le scelte dei
giudici guardando, oltre al processo di politicizzazione – ormai ben noto – anche alla
Si fa riferimento anche alle riflessioni di Irene Bolzon sulla CAS di Trieste: I. Bolzon, La Corte d’Assise Straordinaria di Trieste: profili dei collaborazionisti e delle comunità in transizione al convegno “Cercare giustizia. L’azione giudiziaria in transizione”, Trieste, 15-16 dicembre 2016, a cura di IRSML Friuli-Venezia Giulia Trieste. 74 Scrive T. Rovatti in Politiche giudiziarie per la punizione dei delitti fascisti in Italia, art. cit., pp. 81-2: «In una prima fase, che è possibile identificare con i primi sei mesi d’attività, l’indirizzo generale di giudizio di tali corti si dimostra spesso inflessibile, implicando la comminazione frequente della pena di morte e dell’ergastolo [...] La rigidità di giudizio espressa nelle sentenze di primo grado esaurisce però presto la propria capacità d’azione: la scelta di un giudizio in due tempi, che contempla la possibilità per l’imputato di ricorrere in appello [...] la possibilità della componente togata di moderare il giudizio delle corti facendo improprio uso delle proprie competenze professionali e soprattutto [...] la forza normativa del limitato orizzonte di giudizio adottato determinano un netto ribaltamento delle condizioni inziali fino a giungere a un sostanziale azzeramento dei giudizi espressi in primo grado». Sull’orientamento assolutorio della Cassazione si veda anche M. Franzinelli, L’amnistia Togliatti, op. cit., pp. 26-34 75 J. Elster, Chiudere i conti, op. cit., pp. 296-7
34
particolare mentalità della magistratura, connotata in senso fortemente classista e
nazionalista76.
A condizionare il funzionamento delle CAS e, in generale, le politiche giudiziarie adottate
in Italia, infine, sono stati individuati fattori politici di carattere sia internazionale che
nazionale. Da un lato, come è noto, le politiche italiane a partire dall’8 settembre furono
fortemente influenzate dagli Alleati, che durante l’occupazione ebbero come obiettivo
prioritario la stabilizzazione del Paese e, in seguito, con il progressivo emergere della
Guerra Fredda, quello di consolidare l’Italia all’interno del blocco occidentale77. Tale
obiettivo strategico fu intercettato e condiviso già dalla fine del ‘45 dai governi presieduti
da De Gasperi, che impressero una decisa svolta in senso moderato alla politica italiana,
con riflessi importanti sul piano della punizione dei delitti fascisti: le leggi e i decreti
emanati soprattutto a partire dal ’46 influenzarono infatti in maniera irreversibile anche i
giudizi espressi nei confronti dei numerosi collaborazionisti condannati dalle CAS,
spesso diminuendo considerevolmente le pene comminate o addirittura garantendo il
ritorno in libertà di diversi criminali fascisti.
Dall’altro lato, la scarsa efficacia della giustizia in transizione fu determinata da una
debolezza intrinseca alla politica nostrana, che si presentava notevolmente frammentata
e divisa al suo interno rispetto ad una serie di scelte da adottare in merito al futuro del
Paese. La variegata progettualità politica esistente dietro la giustizia in transizione,
nonché il fatto che i Cln fossero stati progressivamente esautorati dei loro poteri e ridotti
ad organi puramente consultivi78, costituirono per le forze antifasciste un ostacolo
76 Ha osservato ad esempio G. Focardi in I magistrati tra fascismo e democrazia, op. cit., p.
204: «L’incontro tra la magistratura e il fascismo fu abbastanza lineare. Del resto, i magistrati erano in larga maggioranza espressione della galassia politica liberale, connotata soprattutto in senso conservatore e nazionalista. Diversi giudici nominati ai vertici delle Corti di Appello erano poi membri del Senato Regio. Salvo un gruppo minoritario, la netta maggioranza dei magistrati si schierò in modo palese, colpita favorevolmente da chi sembrava impersonare la difesa attiva e convinta delle istituzioni dello Stato e delle sue prerogative. Si aggiunga il fatto che diversi magistrati erano piccoli proprietari terrieri e furono tra i primi ad opporsi, nella temperie politica dei primi anni ‘20, alla firma di patti colonici che finivano per peggiorare le loro rendite di proprietari assenteisti». 77 D. Ellwood, L’alleato nemico. La politica dell’occupazione anglo-americana in Italia 1943-1946, Milano, Feltrinelli, 1977; E. A. Rossi, Una nazione allo sbando. L’armistizio italiano del settembre 1943 e le sue conseguenze, Bologna, il Mulino, 1993; Idem, L’inganno reciproco. L’armistizio tra Italia e gli anglo-americani del settembre 1943, Roma, Ministero dei Beni Culturali, 1993 78 Sulla parabola dei Cln si veda: P. Lombardi, L’illusione al potere, op. cit. e Idem, I Cln e la ripresa della vita democratica a Pavia, Milano, La Pietra, 1983
35
all’elaborazione di una linea coerente e unitaria rispetto alla punizione del fascismo e del
collaborazionismo.
1.2 I provvedimenti legislativi adottati in Italia
Gli aspetti finora elencati interagirono sullo sfondo di un quadro legislativo notevolmente
complesso, di cui già i contemporanei non mancarono di sottolineare limiti e criticità: si
pensi, ad esempio, alle riserve espresse da alcuni giuristi rispetto all’adozione del reato di
“collaborazionismo” per il caso italiano, o alla “irretroattività della legge”, che animarono
il dibattito all’interno del mondo giuridico dell’epoca79.
La punizione dei delitti di collaborazionismo in Italia venne approntata da due testi di
legge fondamentali, il Decreto Legislativo Luogotenenziale 27 luglio 1944 n.159, sulle
Sanzioni contro il fascismo, e il Decreto Legislativo Luogotenenziale 22 aprile 1945
n.142, sull’Istituzione di Corti straordinarie di Assise per reati di collaborazione con i
tedeschi80, rispetto ai quali negli anni seguenti vennero apportate dal legislatore modifiche
e venne affiancata, a partire soprattutto dal ‘46, una lunghissima serie di provvedimenti
di clemenza, che condizionarono in maniera decisiva gli esiti dei procedimenti.
Il Decreto Legislativo Luogotenenziale 27 luglio 1944 n.159, sulle Sanzioni contro il
fascismo, fu licenziato dal primo governo Bonomi a guerra ancora in corso. Considerato
la pietra miliare della legislazione speciale verso il fascismo in Italia, esso abrogò l’intero
corpo delle disposizioni penali emanate a tutela delle istituzioni e degli organi politici
fascisti e, richiamando alcune norme di legge del codice Zanardelli del 1889 e del codice
Rocco del 1930, delineò, per la prima volta, i caratteri delle diverse figure di reato
imputabili ai fascisti e le relative pene. L’articolo 2, richiamandosi al reato di “alto
tradimento di Stato”, sanzionato dal codice Zanardelli, prevedeva l’ergastolo e, nei casi
di più grave responsabilità, la pena di morte per i membri del governo fascista e i gerarchi
a cui fossero imputabili precise responsabilità nell’annullamento delle garanzie
costituzionali, nella distruzione delle libertà popolari e nell’instaurazione del regime.
79 Si vedano, su questi temi: G. Vassalli - G. Sabatini, Il Collaborazionismo e l’amnistia politica nella giurisprudenza della Corte di Cassazione, Roma, Edizioni La Giustizia Penale, 1947; A. Battaglia, Giustizia e politica nella giurisprudenza in Dieci anni dopo 1945-1955, op. cit. 80 Dll 27 luglio 1944, n.159, Sanzioni contro il fascismo, in «Gazzetta Ufficiale del Regno d’Italia», serie speciale, 29 luglio 1944, n. 41; Dll 22 aprile 1945, n. 142, Istituzione di Corti Straordinarie di Assise per reati di collaborazione con i tedeschi, supplemento ordinario alla «Gazzetta Ufficiale del Regno d’Italia», 24 aprile 1945, n. 49
36
L’articolo 3, invece, considerava una serie diversificata di tipologie di reato, ritenute
minori rispetto alle precedenti ma compiute precedentemente al 25 luglio ‘43:
Coloro che hanno organizzato squadre fasciste le quali hanno compiuto atti di violenza o
di devastazione, e coloro che hanno promosso o diretto l’insurrezione del 28 ottobre 1922
sono puniti secondo l’art. 120 del Codice penale del 1889.
Coloro che hanno promosso o diretto il colpo di Stato del 3 gennaio 1925 e coloro che
hanno in seguito contribuito con atti rilevanti a mantenere in vigore il regime fascista
sono puniti secondo l’art. 118 del Codice stesso.
Chiunque ha commesso altri delitti per motivi fascisti o valendosi della situazione politica
creata dal fascismo è punito secondo le leggi del tempo.
L’articolo 5 sanzionava l’attività illecita fascista posteriore alla caduta del regime e all’8
settembre 1943, richiamando a tale scopo i reati di collaborazionismo, cioè le norme
relative ai delitti contro la fedeltà e la difesa militare dello Stato previste dagli articoli 51,
54 e 58 del Codice Penale Militare di Guerra del ‘4181, straordinariamente applicate in
questa specifica contingenza anche agli imputati civili:
Chiunque, posteriormente all’8 settembre 1943, abbia commesso o commetta delitti
contro la fedeltà o la difesa militare dello Stato, con qualunque forma di intelligenza o
corrispondenza o collaborazione col tedesco invasore, di aiuto o di assistenza ad esso
prestata, è punito a norma delle disposizioni del Codice penale militare di guerra. Le pene
stabilite per i militari sono applicate anche ai non militari.
Il decreto sanciva percorsi giudiziari differenti a seconda della maggiore o minore gravità
delle imputazioni: gli imputati ritenuti “eccellenti” – quali i membri del governo fascista
e i gerarchi – erano chiamati a giudizio davanti ad un organo speciale istituito
appositamente a Roma e formato da un presidente e da otto alti magistrati – l’Alta Corte
di Giustizia (art. 2) – mentre gli imputati di reati minori erano affidati alla competenza
81 Gli articoli 51, 54 e 58 sono ricompresi nel libro III, Dei reati militari, Titolo II, Dei reati contro la fedeltà e la difesa militare dello Stato. L’art. 51 sanziona l’“Aiuto al nemico”, l’art. 54 l’“Intelligenza o corrispondenza con il nemico”, l’art. 58 l’“Aiuto al nemico nei suoi disegni politici”. Gli art. 51 e 54 prevedono l’applicazione della pena di morte, che, nel caso in cui l’intelligenza o la corrispondenza non abbiano prodotto danno, può essere commutata in una pena inferiore, mentre l’art. 58 stabilisce la reclusione da dieci a vent’anni.
37
della magistratura ordinaria – Corti d’Assise, Tribunali e Pretori – sebbene con una
rilevante modifica nella composizione delle Corti d’Assise, all’interno delle quali
vennero chiamati a comparire, in sostituzione dei due precedenti assessori, due magistrati
e cinque giudici popolari estratti a sorte da appositi elenchi di cittadini di condotta morale
e politica illibata (art. 4)
Complessivamente, l’opera dell’Alta Corte di Giustizia è stata valutata dalla storiografia
fallimentare, per l’incapacità di elaborare un giudizio scevro da compromissioni politiche
sulla classe dirigente fascista82; e del resto la debolezza di questo organismo risultò palese
già in occasione di uno dei primi processi istituiti, all’inizio del ‘45, che vide fuggire uno
dei principali imputati, il generale Mario Roatta83.
Pochi giorni prima della Liberazione, il secondo governo Bonomi emanò il Decreto
Legislativo luogotenenziale 22 aprile 1945 n.142, che istituì le Corti d’Assise
Straordinarie. Il nuovo testo di legge, pensato per contenere la giustizia sommaria
nell’onda lunga della violenza della guerra ed evitare la promulgazione di un parallelo
progetto legislativo di diretta derivazione resistenziale – di stampo più radicale84 –,
apportò modifiche sostanziali al decreto precedente, introducendo una giustizia
straordinaria e temporanea rappresentata, appunto, dalle CAS. Tali organi speciali furono
dichiarati competenti a giudicare coloro che, posteriormente all’8 settembre, avessero
commesso i delitti contro la fedeltà e la difesa militare dello Stato, previsti dall’articolo 5
del decreto legislativo Luogotenenziale 27 luglio 1944 n. 159, con qualunque forma di
intelligenza o collaborazione col tedesco invasore e di aiuto o di assistenza ad esso
prestata (art. 1), nonché i reati contemplati dall’articolo 3 del DLL n.159, commessi da
82 Scrive, ad esempio, Toni Rovatti, in Politiche giudiziarie per la punizione dei delitti fascisti, art. cit., p. 80: «L’ambiziosa esperienza dell’Alta corte di giustizia si rivela di fatto un’utopia giuridica fallimentare, incapace di portare in giudizio personalità di rilievo e di superare il potere residuale delle connivenze che hanno legato durante gli anni del regime l’esperienza fascista alla monarchia e alle alte gerarchie dell’esercito». 83 Si veda: L. Bordoni, Il caso Roatta, op. cit. 84 Un primo progetto di legge per la punizione del nemico fu diffuso dal Clnai ai Comitati di liberazione regionali e provinciali già il 16 agosto 1944: il testo, dal titolo Norme per il funzionamento delle Corti d’Assise, prevedeva l’istituzione, nell’immediata fase post-insurrezionale, di una giustizia penale d’emergenza, politica, che potesse con processi rapidi e severi fare da argine alla violenza popolare. Questo principio trovò espressione compiuta nel Decreto sui poteri giurisdizionali del Clnai, emanato il giorno della Liberazione, e che differiva dal decreto n. 142 su alcuni aspetti fondamentali, come l’ammissibilità di costituzione di parte civile (Titolo VI, art. 29, comma c) e l’impossibilità di impugnare le sentenze della corte (Titolo VI, art. 30). Si veda: G. Grassi (a cura di), “Verso il governo del popolo”, op. cit., pp. 157-9; 324-8
38
chi fosse imputato di reati previsti nell’articolo precedente (art. 2). Di fronte alle CAS,
dunque, furono chiamati a comparire quanti si fossero resi responsabili di reati specifici,
quali stragi, rappresaglie, rastrellamenti, arresti e omicidi indiscriminati, torture, furti,
saccheggi, delazioni ecc., compiuti in collaborazione con i tedeschi a danno dei partigiani,
ma anche chi, subordinatamente ad aver collaborato con l’invasore, avesse, ad esempio,
organizzato squadre fasciste o contribuito con atti rilevanti a mantenere in vigore il regime
fascista.
Al fine di meglio definire la competenza di giudizio, il decreto introdusse specifiche
presunzioni di responsabilità, cioè indicò una serie di cariche e di attività, svolte
successivamente all’instaurazione della Repubblica Sociale Italiana, di per sé sufficienti
a definire l’automatico rinvio a giudizio degli imputati: ministri o sottosegretari di stato
del sedicente governo della RSI o cariche direttive di carattere nazionale nel partito
fascista repubblicano, presidenti o membri del tribunale speciale per la difesa dello stato
o dei tribunali straordinari istituiti dal predetto governo ovvero vi abbiano sostenuto la
pubblica accusa; capi di provincia o segretari o commissari federali od altre equivalenti;
direttori di giornali politici; ufficiali superiori in formazione di camicie nere con funzioni
politico-militari (art.1).
La straordinarietà delle CAS fu definita da una serie di prerogative. Innanzitutto, dal
decentramento territoriale: le CAS furono istituite in ogni capoluogo di provincia, con
possibilità da parte del presidente di istituire con decreto sezioni delle corti predette (art.
3). Poi, dalla composizione mista, in parte togata, in parte popolare: le CAS furono
dichiarate composte da un presidente – nominato dal Primo presidente della Corte
d’Appello competente, fra i magistrati di grado non inferiore a quello di Consigliere di
Corte d’Appello – e da quattro giudici popolari – estratti a sorte da elenchi compilati dai
Cln provinciali (art. 6). Infine, dalla durata temporanea, fissata a sei mesi dall’entrata in
vigore del decreto (art. 18).
La storiografia ha evidenziato come la giustizia straordinaria espressa dalle CAS fosse il
frutto di un compromesso tra le istanze di giustizia più radicali derivanti dagli ambienti
resistenziali e le aspirazioni più moderate provenienti dal governo del Sud, alle quali la
legislazione contro il fascismo formulata precedentemente non era riuscita a dare una
risposta soddisfacente85. Se, infatti, il decentramento territoriale e la presenza di una
85 T. Rovatti, Tra giustizia legale e giustizia sommaria, art. cit., p. 21
39
componente popolare maggioritaria, espressione diretta dei Cln, all’interno delle corti,
furono pensati per dare una risposta immediata al bisogno di giustizia della popolazione,
la presenza della componente togata – se pur minoritaria – all’interno delle stesse corti
e la possibilità di ricorrere in appello attraverso una Sezione speciale della Corte di
Cassazione (art. 16)86 rifletterono la volontà da parte del legislatore di attenuare e, in un
certo senso, fare da contraltare alla giustizia politica, delegando il giudizio di merito sui
collaborazionisti alla magistratura87.
I provvedimenti legislativi relativi alla punizione dei collaborazionisti elaborati nei mesi
successivi alla Liberazione, esaurita per la maggior parte l’ansia di vendetta, parvero
interpretare il progressivo orientamento del Paese e dei governi verso la normalizzazione.
Già il decreto 5 ottobre 1945 n. 625, sulle Modificazioni alle norme sulle sanzioni contro
il fascismo, sanzionato dal governo Parri, introdusse delle modifiche profonde alle norme
sulle sanzioni contro il fascismo, nel tentativo di accelerare i lavori della macchina
giudiziaria e concludere in breve tempo i processi politici: esso unificò infatti in tutto il
territorio dello Stato gli organi per la procedura e la repressione dei delitti fascisti (art. 1)
e cioè attribuì la competenza fino a quel momento ripartita tra Alta Corte di Giustizia,
Corti d’Assise Straordinarie, Corti d’Assise Ordinarie e Tribunali militari, alle sole Corti
d’Assise Straordinarie, che furono soppresse e trasformate in Sezioni Speciali delle Corti
di Assise (art.3); esso sancì, inoltre, l’abolizione dell’Alta Corte di Giustizia, che restava
in funzione esclusivamente per l’espletamento dei giudizi di decadenza dei senatori (art.
1)88.
Fu però il provvedimento 22 giugno 1946 n.4, Amnistia e indulto per reati comuni, politici
e militari, più comunemente noto come “amnistia Togliatti”, a determinare una decisiva
inversione di rotta nella punizione dei crimini di collaborazionismo89. Presentato nella
86 A Milano fu istituita una sezione speciale provvisoria della Corte di Cassazione, poi abolita con il Dll del 5 ottobre 1945, n. 625, Modificazioni alle norme sulle sanzioni contro il fascismo. In caso di annullamento con rinvio, la Corte di Cassazione determinava a quale Corte d’Assise Straordinaria dovesse essere rimesso il giudizio. I motivi del ricorso dovevano essere presentati entro tre giorni dal deposito della sentenza. 87 Si fa riferimento all’intervento di Fulvio Cortese, Leggere le sentenze delle CAS: problemi speciali per decisioni speciali? in occasione del convegno “Giustizia straordinaria tra guerra e dopoguerra. Tribunali speciali e tribunali militari”. Fulvio Cortese spiega la dialettica CAS/Cassazione come uno scontro tra giustizia politica ed esigenza di razionalizzazione. 88 Dll 5 ottobre 1945, n. 625: Modificazioni alle norme sulle sanzioni contro il fascismo, in «Gazzetta Ufficiale del Regno d’Italia», 13 ottobre 1945, n. 123 89 Dll 22 giugno 1946, n. 4: Amnistia e indulto per reati comuni, politici e militari, in «Gazzetta Ufficiale del Regno d’Italia», 23 giugno 1946, n. 137
40
relazione introduttiva da Togliatti come necessario per «un rapido avviamento del Paese
a condizioni di pace politica e sociale»90, esso venne sfruttato per modificare o – in molti
casi – ribaltare completamente i giudizi espressi in primo grado dalle CAS: infatti, benché
il decreto prevedesse una serie di cause ostative all’applicazione dell’amnistia (art. 3)91,
la magistratura superiore applicò molto estensivamente il provvedimento, non solo,
quindi, nei confronti di imputati di reati minori – rispetto ai quali il decreto poteva anche
costituire una misura opportuna – ma anche nei confronti di diversi alti gerarchi e
criminali fascisti, che poterono beneficiare di un notevole sconto di pena se non
addirittura della liberazione. L’amnistia Togliatti si configurò, dunque, come uno snodo
cruciale nella gestione della giustizia post-bellica, sebbene il giudizio storiografico su di
essa non sia ancora affatto concorde: per alcuni storici, il provvedimento promosse
effettivamente la pacificazione, così come annunciato negli intenti del suo estensore; altri,
invece, sono dell’idea che esso abbia suggellato il definitivo fallimento dell’epurazione,
dando un «colpo di spugna» alle responsabilità fasciste92. Certo è comunque che
l’amnistia concessa da Togliatti fu estremamente precoce, soprattutto se si tiene conto del
fatto che in altri paesi europei analoghi provvedimenti furono concessi solo diversi anni
più tardi (in Germania e in Francia nel ‘51, ad esempio).
90 M. Franzinelli, L’amnistia Togliatti, op. cit., pp. 309-312 91 Art. 3: “È concessa amnistia per i delitti di cui agli articoli 3 e 5 del decreto legislativo luogotenenziale 27 luglio 1944, n. 159, ed all’art. 1 del decreto legislativo luogotenenziale 22 aprile 1945, n. 142, e per i reati ad essi connessi a’ sensi dell’art. 45, n. 2, Codice procedura penale, salvo che siano stati compiuti da persone rivestite di elevate funzioni di direzione civile o politica o di comando militare, ovvero siano stati commessi fatti di strage, sevizie particolarmente efferate, omicidio o saccheggio, ovvero i delitti siano stati compiuti a scopo di lucro”. 92 La tesi del “colpo di spugna” è stata sostenuta da Franzinelli e, in anni passati, dallo storico
britannico D. Mack Smith, che nel suo libro La storia manipolata, considera l’amnistia un’occasione mancata sul piano conoscitivo. (D. Mack Smith, La storia manipolata, Roma-Bari, Laterza, 1998, pp. 27-28: «La nuova repubblica democratica sorta dopo il 1945 ha avuto enormi vantaggi in confronto al regime del periodo fascista, e uno di questi consisteva nel fatto che avrebbe dovuto essere molto più difficile occultare la corruzione che non sotto una dittatura. Dopo la sconfitta di Mussolini si era inizialmente diffusa una certa aspettativa in merito alla possibilità di far luce su alcuni eventi precedenti e di impedire, quindi, che si riaffermasse il sistema di corruzione che aveva così pesantemente contribuito a deteriorare l’immagine del regime agli occhi dell’opinione pubblica. Invece, a differenza di quanto è accaduto in qualche altro Paese retto in precedenza da un regime di tipo fascista, fu concessa velocemente un’amnistia, valida per la maggior parte dei delitti spesso atroci compiuti nel ventennio anteriore al 1945, giacché altrimenti sarebbero state coinvolte troppe persone e forse gran parte dell’apparato statale avrebbe dovuto essere sostituita. Una conseguenza di questa amnistia è rappresentata dal fatto che essa ha determinato una consistente lacuna negli annali della storia, una lacuna facilmente comprensibile, ma che ha lasciato nell’oblio diverse lezioni utilizzabili per l’avvenire del Paese»).
41
Del resto, l’amnistia Togliatti non fu nemmeno l’unico provvedimento di clemenza
promulgato in Italia. Si è anzi calcolato che, complessivamente, tra il ‘44 e il ‘59, in Italia
siano stati concessi qualcosa come 24 provvedimenti di clemenza, tra amnistie, condoni,
grazie e liberazioni condizionali, che di fatto finirono per annullare gli sforzi effettuati
dalla gigantesca macchina giudiziaria messa in moto in Italia tra CAS e Tribunali Militari.
Emblematico fu il caso del maresciallo Rodolfo Graziani, ministro della guerra della RSI,
che nel ’50 venne condannato per collaborazionismo a 19 anni, ma che, grazie a vari
condoni, tornò in libertà dopo pochi mesi93.
Nel frattempo, nelle contrapposizioni determinate dalle logiche della Guerra Fredda, i
giudici non applicarono l’amnistia Togliatti altrettanto estensivamente nei confronti dei
partigiani, verso i quali anzi si scatenò un vero e proprio accanimento giudiziario, con la
riesumazione di processi archiviati del ‘45-’46 o la revoca di sentenze istruttorie che
avevano prosciolto gli imputati94.
In questo paradossale e grottesco processo di ribaltamento tra carnefici e vittime, le CAS
cessarono di operare nel dicembre ‘47 e nel gennaio ‘48 la loro competenza fu trasferita
alle Corti d’Assise ordinarie95. Intanto l’entrata in vigore della Costituzione, il 1° gennaio
’48, abrogando la pena di morte, bloccò la possibilità di condanna alla pena capitale96.
I processi contro i collaborazionisti continuarono a svolgersi ma, dopo la promulgazione
dell’ultima grande amnistia – promossa dal ministro guardasigilli Antonio Azara – e della
legge sulla liberazione condizionale – entrambe entrate in vigore nel dicembre ‘5397 –,
pochissimi tra coloro che erano stati condannati dalle CAS continuarono a rimanere in
carcere.
La questione della punizione del collaborazionismo si esaurì definitivamente tra il ‘53 e
il ‘56, in un contesto che vide, parallelamente, l’archiviazione giudiziaria delle atrocità
93 Sul caso Graziani si veda F. Colao, I processi a Rodolfo Graziani. Un modello italiano di
giustizia di transizione dalla Liberazione all’anno Santo in G. Focardi - C. Nubola, Nei tribunali, op. cit., pp. 169-220 94 Per i processi ai partigiani, si veda: M. Ponzani, L’offensiva giudiziaria antipartigiana nell’Italia repubblicana (1945-1960), Roma, Aracne Editrice, 2008 95 Dll 12 aprile 1946, n. 201, Testo delle disposizioni per la punizione dei delitti fascisti e per la repressione di alcune attività fasciste in «Gazzetta Ufficiale», 27 aprile 1946, n. 98 96 Dl 22 gennaio 1948, n. 21, Disposizioni di coordinamento in conseguenza dell’abolizione della pena di morte in «Gazzetta Ufficiale», 5 febbraio 1948, n. 29 97 DPR 19 dicembre 1953, n. 922, Concessione di amnistia e indulto in «Gazzetta Ufficiale», 21 dicembre 1953, n. 292; Legge 18 dicembre 1953, n. 920, Delegazione al Presidente della Repubblica per la concessione di amnistia e indulto in «Gazzetta Ufficiale», 21 dicembre 1953, n. 292
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perpetrate dai tedeschi in Italia e dei crimini di guerra commessi dagli italiani in Africa e
nei Balcani98.
Qualche dato numerico per rendere conto più precisamente della portata del fenomeno: i
processi per collaborazionismo riguardarono circa 43000 cittadini, 23000 dei quali furono
amnistiati in fase istruttoria e 14000 liberati con formule varie; i condannati in via
definitiva furono 5928 (34 in contumacia); la pena capitale, inflitta a 259 imputati, ebbe
esecuzione in 91 casi. Dell’impatto combinato di amnistia, indulto e grazia beneficiarono
5328 fascisti: 2231 in modo totale, 3363 in parte. All’inizio degli anni Cinquanta,
rimanevano in carcere 266 detenuti e i 334 latitanti si erano rifatti in gran parte
un’esistenza in America latina, rifugio per tanti criminali nazi-fascisti dopo la guerra99.
98 Sull’archiviazione dei crimini di guerra commessi dai tedeschi in Italia si veda M. Franzinelli, Le stragi nascoste. L’armadio della vergogna: impunità e rimozione dei crimini di guerra nazifascisti 1943-2001, Milano, Mondadori, 2002; per quanto riguarda l’archiviazione dei crimini di guerra italiani, D. Conti, Criminali di guerra italiani. Accuse, processi e impunità nel secondo dopoguerra, Roma, Odradek, 2011 99 M. Franzinelli, L’amnistia Togliatti, op. cit., p. 259
43
Capitolo 2 Il funzionamento delle CAS lombarde
2.1 Un censimento dei processi
In conformità a quanto previsto dal Dll 22 aprile 1945 n. 142, anche in Lombardia furono
attivate le Corti d’Assise Straordinarie per la punizione dei reati di collaborazionismo.
Nella regione lombarda furono attive in tutto nove Corti d’Assise Straordinarie: a Milano,
Como, Pavia, Sondrio, Varese, Brescia, Cremona, Mantova e Bergamo. Accanto a queste
– istituite nei capoluoghi di provincia – vennero aggiunte, per un’opera più efficace nelle
province maggiormente estese e con più abitanti alcune sezioni, così come previsto
dall’art. 3 del decreto n. 142: a Lecco (per Como), a Vigevano e Voghera (per Pavia) e a
Busto Arsizio (per Varese); a Milano, caso unico, furono create cinque sezioni speciali,
con sede tre a Milano, una a Lodi e una a Monza.
Le CAS di Milano, Como, Pavia, Sondrio e Varese, localizzate nella Lombardia
occidentale, facevano capo al distretto di Corte d’Appello di Milano, mentre Brescia,
Cremona, Mantova e Bergamo, dislocate nella parte orientale della regione, a quello di
Brescia.
In generale, le CAS lombarde iniziarono ad operare verso la metà di maggio del ‘45,
prolungando i propri lavori sino agli ultimi mesi del ‘47. La prima sentenza fu pronunciata
dalla CAS di Brescia il 25 maggio. Più tempo invece ci volle alla CAS di Sondrio per il
primo verdetto, emanato solo l’11 giugno. Perlopiù, i processi si conclusero tra novembre
e dicembre ‘47; fecero eccezione la CAS di Mantova, che ultimò i propri lavori già a fine
marzo, e la CAS di Sondrio, che chiuse i battenti verso metà giugno. Le sezioni attivate
in città diverse dai capoluoghi di provincia iniziarono a lavorare più tardi e furono chiuse
prima: ad esempio, la CAS di Pavia emise la prima sentenza il 4 giugno ‘45 e l’ultima il
17 novembre ‘47, mentre le sezioni di Voghera e Vigevano pronunciarono le prime
sentenze rispettivamente il 16 luglio e il 17 agosto ‘45, e le ultime il 16 ottobre ‘46 e il 9
ottobre ‘46100.
100 Non è stato possibile identificare le date precise di inizio e di fine dei lavori delle CAS di Como e di Varese perché non indicate nei relativi inventari.
44
Prima sentenza pronunciata (1945)
Brescia 25 maggio
Milano 29 maggio
Cremona 30 maggio
Bergamo 1° giugno
Mantova 4 giugno
Pavia 4 giugno
Sondrio 11 giugno
Ultima sentenza pronunciata (1947)
Mantova 31 marzo
Sondrio 11 giugno
Pavia 17 novembre
Bergamo 24 novembre
Brescia 28 novembre
Cremona 9 dicembre
Milano (?) dicembre
45
Complessivamente, furono 2300 i procedimenti definiti con sentenza dalle CAS
lombarde: di questi, il numero più alto si ebbe a Milano, con 884, e il più basso a Cremona,
con 104101.
CAS N. procedimenti
definiti con sentenza
Milano 884
Pavia 335
Como 315
Brescia 210
Bergamo 180
Sondrio 150
Mantova 122
Cremona 104
Totale 2300
Il totale di collaborazionisti processati fu di 3626: anche qui il numero più alto si registra
a Milano, con 1225 imputati, seguito a molta distanza dai 463 di Pavia (di cui 235
processati a Pavia, 126 a Voghera e 102 a Vigevano); solamente 205, invece, furono i
collaborazionisti processati a Sondrio.
101 Non è stato possibile identificare il numero di procedimenti definiti con sentenza presso la CAS di Varese in quanto non specificato nell’inventario.
46
CAS N. collaborazionisti
processati
Milano 1225
Pavia 463
Como 359
Brescia 336
Bergamo 299
Mantova 267
Varese 258
Cremona 214
Sondrio 205
Totale 3626
La componente femminile risulta nettamente minoritaria: dei 3626 collaborazionisti
processati, infatti, solamente 309 furono donne. Di queste, ben 151 vennero processate a
Milano e solo 7 a Mantova.
CAS N. donne processate
Milano 151
Pavia 29
Como 28
47
Varese 26
Brescia 25
Sondrio 18
Bergamo 15
Cremona 10
Mantova 7
Totale 309
2.2 Processi e condanne: il volto duro delle CAS
Uno dei primi atti per la costituzione delle CAS fu la nomina dei presidenti, dei Pubblici
Ministeri e dei giudici popolari, questi ultimi estratti a sorte da elenchi compilati dai Cln
provinciali. I documenti raccolti nei fondi delle CAS di alcune province – Sondrio e
Cremona –, nonché le carte della Commissione di Controllo Alleata per la provincia di
Pavia, ci permettono di avere un’idea dell’avvio dei lavori. A Sondrio, ad esempio, a
procedere all’estrazione dei giudici popolari, venne chiamato il 19 maggio il presidente
Ostilio Zezza, assistito dal Pubblico Ministero Giuseppe Monai102. Successivamente, il 2
giugno il Cln provinciale inviò al tribunale una rosa di 94 candidati, precisando la
difficoltà a nominarne di più: segnale eloquente di una carenza del personale che da lì a
pochi mesi si sarebbe rivelata, come si vedrà più avanti, cronica103. Oltre ai giudici
popolari, anche i magistrati scarseggiavano, tanto che in taluni casi, come a Pavia, fu
necessario ricorrere in via eccezionale alla nomina di alcuni avvocati, per non rischiare
102 AS di Sondrio, Fondo CAS di Sondrio, b. 13, Corte Straordinaria di Assise di Sondrio, Verbale di estrazione a sorte dei Giudici Popolari per le udienze della quindicina, 19 maggio 1945 103 Ivi, Rapporto n. 80 del Cln per la Provincia di Sondrio al presidente del Tribunale di Sondrio, 2 giugno 1945
48
che l’ufficio del P. M. rimanesse vuoto104. Se i P.M. erano magistrati o avvocati, molto
più variegata era la composizione socioprofessionale dei giudici popolari: a Cremona, ad
esempio, tra i nomi elencati l’8 maggio dal Cln provinciale figuravano medici, impiegati,
industriali e operai105.
Dall’inizio e sino al dicembre ‘45 la scelta dei giudici popolari e togati e, in generale,
l’andamento dei processi in tutta la Lombardia, vennero attentamente monitorati dagli
Alleati, ai quali settimanalmente gli uffici del P.M. istituiti presso le CAS erano tenuti ad
inviare prospetti contenenti i nomi degli accusati, un ragguaglio sui particolari
dell’accusa, il luogo e la data del processo e il verdetto della Corte106. Agli uffici del P.M.
spettava anche il compito di inviare periodicamente dei resoconti complessivi sui lavori
delle CAS ai Procuratori Generali (rispettivamente di Milano e di Brescia), che a loro
volta erano incaricati di trasmettere le informazioni al Ministero di Grazia e Giustizia a
Roma107.
Gli Alleati vollero essere informati soprattutto delle condanne a morte e delle reazioni
della popolazione ai processi. Ufficialmente, essi dichiararono di non voler interferire nel
lavoro delle CAS; una delle frasi più ricorrenti che si trova a tal proposito è infatti la
seguente: «Mentre questi Tribunali stanno adempiendo alla loro funzione di applicazione
del diritto italiano seguendo la procedura italiana in un regime di libertà, è norma costante
del Governo Militare Alleato di non ingerirsi nel loro funzionamento108». Tuttavia, in
alcune circostanze le forze anglo-americane intervennero, esprimendo la necessità di
prestare cautela rispetto alle sentenze comminate. Fu quanto accadde, ad esempio, per
l’ex capo della provincia di Pavia Dante Maria Tuninetti, condannato dalla CAS pavese
a 24 anni di reclusione: il 4 ottobre ‘45, il rappresentante del Governo Militare Alleato
104 IPSREC, Fondo ACC, bobina 4, 2202 Special Courts of Assise, in copia dai NAW, Decreto del Procuratore Generale presso la Corte d’Appello di Milano, 16 maggio 1945 105 AS di Cremona, Tribunale di Cremona, Fondo CAS di Cremona, b. 2428, Circolari, Elenco lista dei giudici popolari per la Corte Straordinaria d’Assise di Cremona 106 AS di Sondrio, Fondo CAS di Sondrio, b. 13, Telegramma “Special Courts of Assize” del commissario Provinciale J. J. Vogel al P.M. G. Monai, 4 giugno 1945 Si veda anche, per un modello del prospetto: AS di Cremona, Tribunale di Cremona, Fondo CAS di Cremona, b. 2428, Statistica giudiziaria penale, Adempimenti per il Comando Alleato 107 AS di Sondrio, Fondo CAS di Sondrio, b. 13, Telegramma n. 750 “Esito dei procedimenti” della Procura Generale presso la Corte d’Appello di Milano all’Ufficio del P.M. presso la CAS di Sondrio, 1° giugno 1945 Si veda anche, per un modello del prospetto: AS di Cremona, Tribunale di Cremona, Fondo CAS Cremona, b. 2428, Statistica giudiziaria penale, Adempimenti per il Comando Alleato 108 IPSREC, Fondo ACC, bobina 4, 2202 Special Courts of Assise, in copia dai NAW, Telegramma del delegato provinciale Bayliss alla signora F. Albo, 12 ottobre 1945
49
fece presente che tra l’opinione pubblica la sentenza era considerata «troppo severa» e
che dunque era necessario che la Suprema Corte di Cassazione vagliasse «attentamente»
il caso prima di confermare la sentenza109. Un episodio di questo genere potrebbe far
pensare che le sentenze preoccupassero gli Alleati innanzitutto per i loro risvolti sul piano
dell’ordine pubblico. Come si vedrà più avanti, però, esaminando nel dettaglio alcuni casi,
anche fattori di altro tipo motivarono un’ingerenza nei percorsi della giustizia.
I primi processi istituiti a poche settimane dalla Liberazione videro sfilare alla sbarra
imputati di particolare rilievo e molto noti alla popolazione, come ministri, prefetti,
questori, commissari federali, direttori di giornali politici, ufficiali superiori in formazioni
di camicie nere con funzioni politico-militari: insomma, quanti avevano rivestito le
cariche elencate all’art. 1 del Dll 22 aprile 1945 n. 142. A Milano, ad esempio, il primo
processo celebrato fu quello a carico di Guido Buffarini Guidi, ministro dell’Interno della
Repubblica Sociale Italiana, imputato assieme ai capi della provincia di Milano Oscar
Uccelli e Carlo Riva. A Pavia invece la Corte d’Assise Straordinaria inaugurò i propri
lavori processando il direttore del giornale fascista «Il Popolo Repubblicano», Cesare Cis,
e il commissario Federale dei fasci repubblicani di Pavia, Dante Cattaneo. A Brescia tra
i primi a comparire a giudizio vi fu il questore Manlio Candrilli, mentre a Sondrio nel
mese di giugno vennero processati, tra gli altri, il capo della provincia Rino Efrem Parenti,
il questore Antonio Pirrone e il generale delle Forze Armate repubblicane Onorio Onori.
Fu soprattutto nei primi sei mesi di lavoro – da settembre a dicembre – che le CAS
dispiegarono le loro maggiori energie, celebrando anche i grandi processi collettivi agli
esecutori di rastrellamenti e repressioni antipartigiane, come i membri della Sichereits di
Pavia o quelli della Banda Resmini di Bergamo, alle spie e anche ai responsabili dei
sequestri dei beni a danno degli ebrei. Anche in seguito, comunque, non mancarono
processi di grande richiamo, conclusisi con pene decisamente severe: si pensi, ad
esempio, al processo ai ventotto responsabili di “Villa Merli” a Cremona, celebrato
soltanto nell’aprile ‘46.
In questa prima parte del capitolo verranno elencati alcuni dei processi maggiormente
significativi celebratisi in Lombardia, singoli o collettivi, a carico di imputati diversi –
per età, sesso, provenienza, occupazione, status militare, rapporti con la RSI e i tedeschi
ecc. –, ma accomunati dal rigore delle sentenze comminate. Alcune di esse, soprattutto
109 Ivi, Telegramma del delegato provinciale Bayliss alla CAS, 4 ottobre 1945
50
quelle pronunciate entro i primi sei mesi dopo la Liberazione, furono effettivamente
eseguite, altre, come si vedrà più avanti, sarebbero state mitigate o addirittura annullate
da vari fattori, tra i quali il sopraggiungere dell’amnistia Togliatti. A prescindere dagli
sviluppi successivi dei procedimenti, ciò che importa qui evidenziare, tuttavia, è il fatto
che da parte delle CAS vi fosse stato uno sforzo per punire i crimini di collaborazionismo
e di fascismo e per restituire all’opinione pubblica un’immagine complessiva della
violenza fascista: per questo motivo, nell’esame dei vari casi, si cercherà di guardare non
solo agli esiti, ma anche ai contenuti delle sentenze.
Il processo a Buffarini Guidi fu sicuramente uno dei primi e più importanti celebrati a
carico dei vertici della Repubblica di Salò, che a Milano e non sul piccolo comune del
lago di Garda pose la sede del suo quartier generale. Tale specificità fece sì che anche
molti altri personaggi della classe dirigente della RSI venissero processati nel capoluogo
lombardo: Angelo Tarchi (ministro dell’Economia), Giampietro Domenico Pellegrini
(ministro delle Finanze), Carlo Emanuele Basile (sottosegretario all’Esercito), per
limitarci a qualche nome.
Buffarini Guidi era un fascista noto in tutta Italia. Nato a Pisa il 17 agosto 1895, si era già
distinto negli anni Venti per essere stato uno tra i principali organizzatori delle squadre
fasciste della città natale, dove in seguito era divenuto anche, nell’ordine, sindaco,
podestà e segretario federale. Era stata però la nomina a sottosegretario dell’Interno, l’8
maggio ‘33, a renderlo decisamente influente, consentendogli di estendere un controllo
capillare su tutte le province tramite la nomina di prefetti a lui fedeli. Nella famosa seduta
del Gran Consiglio del luglio ‘43 aveva votato a favore di Mussolini e, dopo l’8 settembre,
era stato nominato ministro dell’Interno della RSI. Denunciato dal Clnai come criminale
di guerra già nel settembre ‘44, dopo la Liberazione era stato finalmente catturato dai
partigiani nei pressi di Como, mentre cercava invano di varcare la frontiera110.
Nel testo della sentenza si legge che da ministro dell’Interno Buffarini Guidi aveva
disposto, in rappresaglia all’uccisione del commissario federale di Milano Aldo Resega,
la costituzione di alcuni Tribunali Militari Straordinari, che avevano condannato a morte
partigiani e antifascisti detenuti per motivi politici del tutto estranei all’omicidio del
110 Non esiste una biografia ufficiale di Guido Buffarini Guidi. Per un resoconto riassuntivo della
sua vita e della sua attività, si faccia riferimento alla voce nel Dizionario Biografico degli Italiani: http://www.treccani.it/enciclopedia/guido-buffarini-guidi_%28Dizionario-Biografico%29/. Si veda anche M. Missori, Gerarchie e statuti del PNF: Gran Consiglio, Direttorio Nazionale, Federazioni provinciali: quadri e biografie, Roma, Bonacci, 1986, p. 179
51
fascista111. Pertanto, imputato di avere commesso il delitto contro la fedeltà e la difesa
militare dello Stato previsto dall’art. 5 del Dll 27 luglio 1944 n. 159 in relazione all’art. 1
del Dll 22 aprile 1945 n. 142, egli fu condannato, ai sensi dell’art. 51 C.P.M.G., alla pena
di morte mediante fucilazione nella schiena. La sentenza venne eseguita poche settimane
dopo, il 10 luglio.
Se l’esito del giudizio è certamente un primo dato importante in sé – perché emblematico
della linea punitiva rigorosa adottata dalle CAS nei primi mesi di giudizio – sembra però
opportuno, ai fini di comprendere meglio le logiche sottese al funzionamento della
giustizia verso i collaborazionisti, andare ad esaminare quelle che furono le motivazioni
addotte dall’imputato e dai giudici. Negli interrogatori, Buffarini Guidi aveva spiegato
che i suoi ordini per la costituzione di Tribunali Militari Straordinari traevano
legittimazione da una circolare precedentemente diramata da Mussolini alle autorità civili
e militari: l’ex ministro degli Interni, cioè, aveva provato, a dimostrare che non era sua la
responsabilità delle uccisioni dei detenuti politici, ma che egli, semplicemente, si era
limitato ad eseguire un “ordine superiore”. La stessa strategia era stata peraltro seguita
dal capo della provincia Uccelli, il quale, a sua volta, aveva cercato di scaricare la colpa
dei reati addebitatigli proprio sul suo superiore, ovvero il ministro Buffarini Guidi.
In entrambi i casi, comunque, i giudici non accolsero le difese degli imputati e
affermarono l’efficacia della presunzione di colpa, fissando di quest’ultima, così come
stabilita dall’art. 1 del Dll 22 aprile 1945, una prima e importante interpretazione
giuridica:
Presunzione assoluta, che non ammette prova contraria, come si evince dall’espressione
“in ogni caso” usata dal legislatore. Perché la creazione e l’organizzazione di uno stato
repubblicano fascista vengono considerate dalla legge in esame quale mezzo escogitato
per meglio servire agli interessi dell’invasore; e quindi certe determinate cariche e
funzioni in esso ricoperte ed esplicate, sono per se stesse, indipendentemente dal modo
in cui siano state esercitate, considerate come manifestazione di collaborazionismo112.
È vero che tale lettura, nel caso di Uccelli, sarebbe stata completamente ribaltata nei mesi
successivi dalla Suprema Corte di Cassazione (come si vedrà, infatti, quest’ultima
111 AS di Milano, Fondo CAS di Milano, Sentenze, vol. 1, Sentenza 1/45, 29 maggio 1945 112 Ibidem
52
avrebbe accolto il ricorso dell’imputato rinviando il giudizio alla Sezione Speciale della
Corte d’Assise di Brescia), ma essa risulta comunque importante perché testimonia lo
sforzo della CAS di Milano di riconoscere e definire un crimine di matrice fascista, quale
fu la costituzione del Tribunale Militare Straordinario. Emergono, dunque, e vengono
definite la responsabilità e l’autonomia dei vertici del regime di Salò:
Al sistema brutale, prettamente teutonico del massacro di innocenti tratti a caso dai campi
di concentramento se ne andava così sostituendo, od aggiungendo, un altro di marca
italiana, escogitato da menti perfide ed astute come quella del Buffarini Guidi: quello di
compiere rappresaglie su persone detenute per motivi differenti, imbastendo a loro carico
un simulacro di processo che doveva invariabilmente terminare con delle condanne a
morte e ammantare di legalità apparente una tragica ed inconfessabile realtà, che soltanto
un termine può esprimere adeguatamente: omicidio premeditato113.
Quella contro Buffarini Guidi è anche una sentenza – lo si evince ad esempio
dall’espressione «menti perfide e astute» – dal carattere palesemente duro e sprezzante,
che rivela l’esistenza da parte dei componenti della corte di un forte sentimento di rancore
nei confronti dell’imputato.
Toni e contenuti analoghi a quelli del verdetto emesso verso l’ex-ministro dell’Interno
sono ravvisabili in molte altre circostanze. Essi furono adottati, ad esempio, dalla CAS di
Brescia nei confronti dell’ex-questore della città Candrilli: imputato di avere collaborato
col tedesco invasore offrendo a quest’ultimo ospitalità ed aiutandolo in vario modo,
perseguitando patrioti, fornendo liste di ostaggi, procedendo o dando ordine di procedere
a rastrellamenti di giovani da inviare in Germania coattivamente, dando la caccia a coloro
che si volevano sottrarre al servizio militare della sedicente RSI, seviziando e facendo
seviziare persone, Candrilli venne infatti definito dai giudici «un uomo violento, brutale
e volgare» e dalla «natura essenzialmente criminale», la quale si manifestò
principalmente «nella lotta contro gli antifascisti e i patrioti»114. Si legge, a conclusione
del ragionamento:
113 Ibidem 114 AS di Brescia, Fondo Corte di Assise Speciale di Brescia, Sentenze, 4/45, 13 giugno 1945
53
Questa fu l’opera criminale svolta dal novembre 1943 all’aprile 1945 da questo uomo
abbruttito da una insana e nefanda ferocia e nella quale sfogò la sua smania di
persecuzione contro gli antifascisti e contro i patrioti e nella quale non si può non
ravvisare la sua responsabilità per il delitto di collaborazione contestatogli [...]
Il Candrilli, eseguendo i rastrellamenti che avevano per risultato le retate di migliaia di
giovani da inviare in Germania e da arruolare nell’esercito repubblicano, nel perseguitare
ed arrestare i patrioti, veniva a favorire le operazioni militari del tedesco invasore [...] che
era il nemico del legittimo Stato italiano [...] Per questo delitto la pena adeguata è quella
di morte che non può essere evitata da nessuna attenuante, perché l’attività del Candrilli
ha sparso tanto orrore e tanto strazio di molte giovani vite da non destare nessuna pietà,
ma deve essere colpito dalla severa giustizia punitiva con la più grave sanzione che essa
può infliggere115.
L’accento posto sui crimini dispiegati contro i patrioti – rastrellamenti, persecuzioni,
arresti ecc. –, molto presente in diverse altre sentenze emanate dalle CAS nei primi tempi
di attività, rappresenta anche un proposito di legittimazione della lotta partigiana.
Nei primi mesi dopo la Liberazione, l’opera delle CAS in Lombardia sembra accolta
perlopiù con estremo favore dalla popolazione. I quotidiani locali e i resoconti giudiziari
dei processi pubblicati nella tarda primavera e nell’estate ‘45, ove consultabili, ci
riportano l’immagine di una popolazione festante, a tratti commossa, di fronte alle
sentenze di condanna emesse dalle corti. Basta scorgere qualche titolo della Cronaca
Giudiziaria di Sondrio o delle Cronache dell’Oltrepò, per esempio, per rendersi conto
dell’odio diffuso covato nei confronti dei fascisti e del sentimento generale di sollievo di
fronte alla pronuncia della reclusione o perfino della pena capitale.
Sulla Cronaca Giudiziaria di Sondrio, curata da Francesco Forte, si legge ad esempio il
27 giugno: La Sassella vendicata: l’ex-generale Onori condannato a morte116. Onori era
stato imputato dalla CAS di Sondrio di collaborazionismo col tedesco invasore per aver
esercitato il comando della Brigata Nera Garibaldi, per aver in seguito assunto i pieni
poteri sulle forze repubblicane della Valtellina onde permettere che nella Valle si
accentrassero tutti i residui e gli esponenti della RSI e per aver ordinato gli incendi della
Sassella e di Triasso. In questi due piccoli centri abitati poco distanti da Sondrio, il 6
115 Ibidem 116 La Sassella vendicata: l’ex-generale Onori condannato a morte in «Cronaca Giudiziaria della Corte di Assise Straordinaria di Sondrio», 27 giugno 1945
54
aprile ‘45, poche settimane prima della Liberazione, si era consumata una delle violenze
fasciste più gravi tra quelle ricordate dal popolo valtellinese: la fucilazione di tre giovani
del posto, di cui uno scelto dal padre tra due fratelli, ad opera di alcuni reparti
repubblichini, guidati dagli ufficiali della Brigata Nera “Gatti” (Renzo Cazzola, Giacomo
De Angelis e Canova), in rappresaglia per l’uccisione di alcuni militi della Brigata Nera
“Garibaldi”. Il sentimento di rabbia verso Onori era tale che nella Cronaca si legge che
quando il P.M. Monai ebbe terminato la sua arringa chiedendo per l’ex generale la pena
di morte mediante fucilazione nella schiena, il pubblico proruppe in applausi così forti da
mettere in condizioni il presidente della corte di minacciare di far sgomberare l’aula117.
Stessa cosa accadde il 31 luglio durante il processo al “criminale”, “assassino” e
“incendiario di Triasso”, De Angelis, in cui le deposizioni dei testimoni dell’incendio di
Triasso crearono un’atmosfera particolarmente “eccitata”. E non poteva che essere tale,
ascoltando le parole dei sopravvissuti. Aveva spiegato ad esempio Ferdinando
Dell’Agostino, padre di una delle vittime: «Mio figlio tornava dal lavoro quando, arrivato
a Triasso, fu preso, messo al muro e fucilato. Io arrivai sul luogo dopo che lo avevano
ammazzato; mi imbattei nel De Angelis il quale cinicamente mi disse: “Adesso è andata
così, un’altra volta ammazzeremo tutti e bruceremo tutte le case”». Anche Ferruccio Melè
aveva rivelato dei particolari raccapriccianti: «Il De Angelis, alla donna che gli porgeva
del vino rispose: “non ho sete di vino ma di sangue”. Ne scelse e poi ne fucilò tre. Lui fu
il primo a sparare»118.
In questi processi la collera popolare sembra trovare un “sollievo”, se così si può definire,
solo alla pronuncia della sentenza di morte e a fronte degli interventi di Monai, che
assume, nella veste di P.M., quasi un ruolo di portavoce del pensiero del popolo,
esprimendo il complesso miscuglio di sentimenti – rabbia, dolore, ansia di giustizia – che
comprensibilmente agitavano una popolazione dilaniata dalla guerra civile. «Non so che
dire di fronte a tanta efferatezza: la responsabilità è molto grande; era egli dimentico di
essere italiano fra italiani, fratello tra i fratelli. Non ha voluto sentire neppure la voce di
un padre. Ha freddamente preparato l’eccidio ed avuto cura di tutto tranne dell’amor
patrio», commentò il P. M. riferendosi a De Angelis, e concluse perentorio:
«Associandomi al desiderio del popolo che, questa volta, anche se non sempre, ha
117 Ibidem 118 L’incendiario di Triasso condannato a morte in «Cronaca Giudiziaria della Corte di Assise Straordinaria di Sondrio», 31 luglio 1945
55
ragione, chiedo la pena capitale»119. Durante il processo a Onori, Monai «si accalora in
un parlare alto e toccante» ma chiarisce anche «che tutto il suo accanimento non deve
essere ricercato in odio personale, bensì in un principio di giustizia cui egli desidera non
venire meno»120. La tensione tra giustizia politica e giustizia legale sembra trovare tutta
la sua piena espressione nella figura di questo P.M., che si sforza di agire secondo
giustizia ma che, al tempo stesso, sembra non poter fare a meno di condividere il diffuso
sentimento popolare.
Episodi simili e anche con reazioni più gravi si verificarono presso la CAS di Voghera,
dove vennero processati i responsabili dei crimini di guerra commessi nell’Oltrepò
pavese, come i membri della famigerata Sichereits Abteilung, più comunemente nota
presso la popolazione come “Sicherai” o “Battaglione Fiorentini”121. Formalmente
dipendente dall’Armata Liguria ma di fatto polizia speciale alle dirette dipendenze delle
SS tedesche, la Sichereits era un nucleo di circa 200 elementi, nato nel dicembre ‘43 a
Voghera, inizialmente incaricato di svolgere un’opera di repressione politica. Già a
partire dalla primavera ‘44, però, con il trasferimento a Varzi, essa assunse un compito di
repressione sistematica e di ostacolo alla formazione di nuovi nuclei ribelli nell’Oltrepò,
andando progressivamente ad affinare e perfezionare, con la creazione di un ufficio
politico e di una squadra volante, una vera e propria “politica del terrore”. Dopo un nuovo
trasferimento, questa volta a Broni, nell’Hotel Savoia, la Sichereits giunse all’apice della
violenza durante l’inverno ‘44-’45, rendendosi responsabile di una lunghissima serie di
eccidi, sevizie e rastrellamenti, che causarono la morte di almeno 132 persone. Già dopo
la Liberazione e prima dell’entrata in funzione della CAS, i partigiani avevano
119 Ibidem 120 Il parlare alto e toccante del P.M. Monai in «Cronaca Giudiziaria della Corte di Assise Straordinaria di Sondrio», 27 giugno 1945 121 Per l’opera dispiegata dalla Sichereits nell’Oltrepò pavese, si veda P. Lombardi, Un tremendo urlo di dolore. La Sichereits a Broni, Broni, ANPI, 1986 e i numerosi lavori di F. Bernini, uno tra tutti: Nel sangue fino alle ginocchia. La guerra civile nell’Oltrepò pavese, 1943-1945, Casteggio, Voghera, Varzi, CDL Edizioni, 1999. Per un inquadramento della S. nel contesto della guerra civile e del neofascismo pavese, si veda M. A. Arrigoni - M. Savini, I nemici in casa: rastrellamenti, repressione e Resistenza in provincia di Pavia, 1943-1945, Varzi, Guardamagna, 2015; G. Guderzo, L’altra guerra: neofascisti, tedeschi e partigiani, popolo in una provincia padana: Pavia 1943-1945, Bologna, il Mulino, 2002 e P. Lombardi, I giorni di Salò: tedeschi e neofascisti a Pavia 1943-45 in “Annali di storia pavese”, fasc. 12-13, 1986, pp. 55-70. Sul processo alla S. si può leggere il saggio di M. Scala, La resa dei conti della Sicherai in “Bollettino della Società Pavese di Storia Patria”, Como, Litografia New Press, 1996, pp. 442-479. Infine, per le polizie speciali attive in generale in Italia, si può fare riferimento a S. Bertoldi, Salò: vita e morte della Repubblica Sociale Italiana, Milano, Rizzoli, 1976 e a G. Pansa, Il gladio e l’alloro: l’esercito di Salò, Milano, Mondadori, 1991
56
provveduto a catturarne e fucilarne il capo, Felice Fiorentini, non prima però di averlo
messo in una gabbia per trascinarlo come fosse una belva per le strade dell’Oltrepò (ma
anche, stando a quanto raccontano alcuni testimoni, per proteggerlo dalla violenza della
popolazione).
Il processo ad alcuni dei principali capi e gregari della banda – le “iene di Fiorentini”,
così come vennero definiti sulla «Provincia Pavese»122 – si aprì nella tarda estate ‘45. Gli
imputati erano in tutto nove: Felice Fiorentini, Pier Alberto Pastorelli, Lino Michelini,
Alfonso Amet, Enrico Bertolino, Arturo Baccanini, Benito Bertoluzzi, Lamberto Masini,
Ivo Vatteroni. I testi d’accusa erano tanti, 137, e il numero di persone che affollò la
piccola aula del tribunale di Voghera ancora di più, come testimonia una fotografia
pubblicata dalle Cronache dell’Oltrepò.
Le imputazioni delineate a carico dei nove dalla CAS erano molteplici: omicidi,
rastrellamenti, repressione antipartigiana, persecuzione politica, saccheggio, stupro,
spionaggio, incendio. Uno dei fatti più gravi contestati era avvenuto a Cicognola dove
sette partigiani erano stati trucidati. Ma tanti altri ancora erano i nomi dei paesini che
erano stati macchiati dalle atrocità della banda, come Montù Beccaria, Barbianello,
Torrazza Coste, Broni, Corvino San Quirico, Castelletto di Branduzzo, Pozzol Groppo.
Complessivamente, la CAS di Voghera nel corso del dibattimento calcolò che le vittime
dei crimini, tra partigiani, civili e persino un parroco di paese, fossero state almeno 49; di
qualcuno, non si era nemmeno potuto identificare il nome.
Una storia difficile da credere, se si pensa anche che prima dello scoppio della guerra
civile, quasi tutti gli imputati (fatta eccezione per Amet che era maresciallo delle SS)
erano state persone apparentemente comuni: Fiorentini, ad esempio, era stato un
ingegnere, direttore della ferrovia Voghera-Varzi, mentre Pastorelli, ex-seminarista,
aveva insegnato alle scuole elementari. Stupisce anche l’età ridotta di alcuni di essi: oltre
ai maturi, come Fiorentini che era nato nel 1894, nello stato maggiore della Sichereits
figuravano infatti anche giovani poco più che maggiorenni, come Bertolino e Bertoluzzi
(e, addirittura, erano minorenni alcuni gregari della banda che furono condannati in altri
processi, come Gildo Mori, Luigi Alessandrini, Aldo Dell’Acqua)123.
122 Le jene di Fiorentini alla sbarra di fronte alle più tremende accuse: ferro, fuoco e sangue in «La Provincia Pavese», 22 agosto ‘45 123 Mori, Alessandrini, Dell’Acqua erano nati nel ‘27 o ‘28. Furono processati dalla CAS di Voghera assieme a Livio Campagnolo, Luciano Serra e altri il 9 ottobre ‘45, con l’imputazione di
57
Nome e cognome Data di nascita Luogo di nascita
Felice Fiorentini 2/8/1894 -
Pier Alberto Pastorelli 18/8/’13 Varzi (Pv)
Lino Michelini 7/3/’13 Borgo Priolo (Pv)
Alfonso Amet - -
Enrico Bertolino 13/1/’24 Ponte di Piave (Tv)
Arturo Baccanini 14/12/’15 Romagnese (Pv)
Benito Bertoluzzi 18/11/’23 Oderzo (Tv)
Lamberto Masini - La Spezia
Ivo Vatteroni - Carrara
Risulta allora tanto più difficile spiegare il compimento di atti così orrendi. Nel suo
memoriale Pastorelli raccontò di aver aderito alla RSI perché credeva con ciò di fare del
bene diretto al popolo e di fare da cuscinetto tra i tedeschi e gli italiani. Pastorelli spiegò
anche di essere entrato a far parte della Sichereits per combattere quelli che lui riteneva
“criminali”, cioè i ribelli armati in montagna, provando a scaricare la responsabilità dei
fatti più efferati commessi dalla banda sul colonnello Fiorentini124. Una versione a cui la
folla assiepata al dibattimento sembrò non credere minimamente: «Quando Pastorelli
viene invitato dal Presidente ad uscire dalla gabbia per essere interrogato» scrisse il
cronista «possiamo nettamente intendere le urla e le invettive che accompagnano il suo
passaggio lungo il corridoio esterno che immette nell’aula»125. La popolazione ascoltò
con attenzione e vivamente commossa il racconto dei parenti delle vittime, come quello
omicidi plurimi e occultamento di cadaveri (AS di Pavia, Fondo CAS di Pavia, Vol. 3, Sentenza 22/45). 124 Cronache dell’Oltrepò, Documentario n. 1, Voghera, Officina d’arti grafiche di Boriotti e Zolla,
1945, pp. 57-70 125 Ivi, p. 36
58
del padre di Franco Brichetti: «D. - Vostro figlio era stato partigiano? R. - No, mai. D: -
Perché l’ànno ucciso? R.: - Non lo so. Im ml’han ciapà e l’an masà». O quello, altrettanto
commovente, di Federico Bergognoni, a cui pure avevano ammazzato il figlio e che viene
sbeffeggiato dagli assassini: «Vennero a casa nostra dopo l’esecuzione e ci chiesero da
mangiare. Mentre stavano mangiando uno di loro disse: “C’è giù un prete che dorme”. Si
riferivano a mio figlio che era stato ucciso126». Le deposizioni dei seviziati non erano
meno raccapriccianti. «La testimonianza di Edilio Mazzati reduce da Mauthausen
costituisce una nota singolare per le condizioni pietose in cui egli si trova ed il racconto
che udiamo dalla sua bocca delle atrocità subite nella camera di tortura di via Scarabelli»
osservò il cronista. «Egli asserisce perfino che due donne, una bionda e una bruna,
tentarono di cucirgli la bocca. Pastorelli entrò allorché egli era stato legato con le braccia
ritorte all’indietro. Gli disse: “Questi vincoli sono troppo lenti, bisogna che te li stringa
io”»127.
Ascoltati per quattro giorni i testimoni, l’ultima udienza del dibattimento ebbe al centro
la requisitoria del P.M., Salvatore Giallombardo128. Magistrato giovane (era nato nel 1911
a Pantelleria), Giallombardo aveva combattuto come tenente di fanteria sul fronte
occidentale nel giugno ‘40, venendo decorato al valor militare e con croce al merito di
guerra. Nell’agosto ‘42 era stato nominato pretore aggiunto e destinato alla procura di
Casteggio, nell’Oltrepò pavese, e dal maggio al dicembre ‘45 esercitò le funzioni di P.M.
presso la CAS di Pavia e la sezione di Voghera, dimostrando, come si legge nelle note
biografiche all’interno del suo fascicolo personale, «doti di intelligenza e di capacità non
comuni, eccezionale operosità e speciale attitudine per le investigazioni le più complesse
e difficoltose». La sua opera, così «appassionata, intelligente e proficua», gli valse un
elogio dal Ministero di Grazia e Giustizia. Benché iscritto al PNF dal ‘35 e definito nei
documenti dei prefetti «di sentimenti favorevoli al regime fascista» – come del resto erano
tutti i magistrati dell’epoca – nel corso della guerra civile Giallombardo si era mostrato
ostile alla RSI, prodigandosi a raccogliere quante più possibili prove che potessero un
giorno servire non solo e semplicemente a fare giustizia contro i responsabili della
126 Ivi, p. 41 127 Ivi, p. 42 128 ACS, Fondo Mgg 1851-1983, Ufficio Superiore personale e affari Generali (fino al 1870) (1860-1849), Ufficio Secondo (1860-1970), Magistrati, fascicoli personali 1860-1970, IV versamento 1950-1970, b. 817, n. 85588
59
Sichereits, ma anche e, cosa altrettanto importante, a restituire all’opinione pubblica
un’immagine complessiva della violenza dispiegata dalla banda nell’Oltrepò pavese.
L’impegno civile del magistrato e la consapevolezza del delicato e alto ruolo a cui fu
chiamato a rispondere, si ravvisano sin dalle prime parole dell’arringa:
Questo è il processo dello stato maggiore della Sichereit da una parte (Fiorentini - Amet
- Pastorelli - Michelini) e dei più feroci gregari dall’altra. Essi furono i principali attori
della più spaventosa guerra civile che si svolse in Italia. Possiamo affermare con sicurezza
che la nostra zona ad opera loro fu martoriata come nessun’altra nel resto della
penisola129.
La figura di Giallombardo sembra molto simile a quella di Monai, P.M. a Sondrio, per la
sua empatia nei confronti della popolazione presente al processo, sentimento unito al
tempo stesso allo sforzo di adempiere ai principi del “giusto processo”.
Al momento della sentenza, cinque imputati erano già deceduti (Fiorentini, Amet,
Bertolino, Masini, Vatteroni); per tutti gli altri quattro il 25 agosto fu comminata la pena
di morte mediante fucilazione nella schiena, in applicazione dell’art. 51 e/o 54 del
C.P.M.G.130
Il processo alla Sichereits è interessante per varie ragioni. Innanzitutto perché è
emblematico della giustizia verso la “manovalanza” della RSI, duramente condannata e
punita, diversamente da quanto sarebbe accaduto a molti dei vertici o quadri intermedi
della RSI, rinviati a giudizio e in seguito beneficiari di amnistie e altri vari provvedimenti
di clemenza: invano, dopo la sentenza del 25 agosto, Pastorelli, Michelini, Baccanini e
Bertoluzzi si sarebbero appellati alla sezione della Corte di Cassazione di Milano, in
quanto il ricorso sarebbe stato rigettato e la pena capitale eseguita il 28 marzo 1946.
In secondo luogo, perché il processo ci dice molto rispetto al grado di terrore estremo in
cui la popolazione dell’Oltrepò pavese visse costantemente dopo l’8 settembre e quindi
ci lascia intuire perché in una provincia sebbene non tra le più grandi della Lombardia si
fosse tenuto il maggior numero di processi verso i collaborazionisti, secondo solo a
Milano. La difficoltà di giudicare l’eccezionale gravità dei crimini perpetrati tra il ‘43 e
129 Cronache dell’Oltrepò, Documentario n. 1, op. cit., p. 52 130 AS di Pavia, Fondo CAS di Pavia, vol. 3, 11/45, 27 agosto 1945
60
il ‘45, e tra l’altro da coloro che fino a poco tempo prima erano stati vicini di casa, amici
o addirittura parenti, fu avvertita in tutta la sua portata già dai contemporanei:
Storia della Sikerheitz: una storia che difficilmente potrà essere scritta, soprattutto
difficilmente potrà essere compresa in tutto il suo orrore; a volta a volta che questi
processi si svolgono, che i primi documenti vengono alla luce, ne appaiono alcuni
brandelli orribilmente macchiati di sangue. Una storia che è un tremendo urlo di dolore,
in cui si assommano le testimonianze di ogni sentimento umano calpestato, di ogni più
sacro diritto leso, di ogni ingiuria che l’uomo può fare al suo simile131.
Il processo alla Sichereits non fu comunque l’unico processo “collettivo” alla violenza
celebrato in Lombardia. Basti pensare al processo a Milano ai superstiti della famigerata
banda di Pietro Koch, responsabili a “Villa Triste”, in via Paolo Uccello, di indicibili
torture132 o al processo, uno dei più lunghi a Brescia, agli agenti e responsabili della
squadra politica della locale Questura, conclusosi con una lunga serie di condanne133.
Alla CAS di Bergamo uno dei primi processi istituiti fu quello contro alcuni gregari della
“Compagnia O.P.”, un distaccamento della GNR guidato dal famigerato Aldo Resmini e
composto da circa 180 uomini134. Giovanissimi erano gli imputati, di età compresa tra i
23 e i 17 anni, tutti provenienti da Bergamo o provincia: Francesco Capelli, Pietro
Bagattini, Giuseppe Ferrari, Arnaldo Cortesi, Benedetto Marelli e Giancarlo Boles.
131 Cronache dell’Oltrepò, Documentario n. 1, op. cit., pp. 35-6 132 AS di Milano, Fondo CAS di Milano, Fascicoli processuali (1945-1947), Processo Koch (1944-1946). Per una storia della banda Koch, si veda: M. Griner, La banda Koch: il reparto speciale di polizia 1943-1944, Torino, Bollati Boringhieri, 2000 133 AS di Brescia, Fondo Corte di Assise Speciale di Brescia, Sentenze, Sentenza 9/45, 11 luglio 1945. Gli imputati erano in tutto quindici: Sciabica Pietro, Cosentino Domenico, Spinelli Remo, Quartararo Gaetano, Spinelli Guido, Speciale Salvatore, Speciale Calogero, Poma Olindo, Napoli Giuseppe, Romagnoli Idolo, Di Sabbato Vinicio, Luciani Nicola, Rottini Carlo, Oteri Andrea, Biagioni Enzo. Cinque di essi furono condannati a morte ma nessuna pena di morte sarebbe stata eseguita. Si veda anche: R. Anni, I processi per collaborazionismo presso la Corte d’Assise Straordinaria di Brescia (1945-1946) in “La Resistenza bresciana”, vol. 15, 1985, pp. 69-76 134 Sulla Compagnia e i processi a carico dei suoi membri, si veda: A. Caponeri, La banda
Resmini nelle sentenze della Corte Straordinaria d’Assise di Bergamo, Bergamo, Il filo di Arianna, 2008
61
Nome e cognome Data di nascita Luogo di nascita
Francesco Capelli 15/8/1922 Capizzone (Bg)
Pietro Bagattini 8/9/1925 Bergamo
Giuseppe Ferrari 28/11/1923 Bergamo
Arnaldo Cortesi 8/8/1928 Bergamo
Benedetto Marelli 22/6/1926 Rocca del Colle (Bg)
Giancarlo Boles 25/4/1925 Bergamo
Tutti furono chiamati a rispondere all’imputazione di aver collaborato con il tedesco
invasore, per aver partecipato ad azioni di rastrellamento contro patrioti in numerose
località dell’Italia settentrionale e centrale, in cooperazione con militari tedeschi, elementi
delle Brigate Nere, della Milizia forestale e dell’ex esercito repubblicano. Oltre a questo,
Francesco Capelli fu imputato anche del delitto di omicidio, ai sensi dell’art. 575 C.P.,
per avere, valendosi della situazione creata dal fascismo, cagionato per futili motivi la
morte di una civile, Piera Covelli. Come la Sichereits, anche la Compagnia O.P. aveva
dispiegato con sistematicità una politica di feroce repressione, tanto da essere appellata
dai giudici della CAS «terrore e obbrobrio della bergamasca»135.
La Corte stabilì che tutti gli imputati fossero colpevoli del delitto di collaborazionismo
punibile ai sensi dell’art. 51 C.P.M.G. Tuttavia, in questo caso, i giudici valutarono anche
che fosse opportuno concedere le attenuanti generiche consentite dall’art. 2 del Dll 14
settembre 1944, n. 288136, in considerazione della «giovanissima età» di alcuni imputati
135 AS di Bergamo, Tribunale di Bergamo, Fondo Corte d’Assise Sezione Speciale, Sentenze, Sentenza 3/45, 2 giugno 1945 136 Dll 14 settembre 1944, n. 288, Provvedimenti relativi alla riforma della legislazione penale in «Gazzetta Ufficiale del Regno d’Italia», 9 novembre 1944, n. 79. L’art. 2 del decreto introdusse l’art. 62-bis, che recitava: «Il giudice, indipendentemente dalle circostanze previste nell'articolo 62, può prendere in considerazione altre circostanze diverse, qualora le ritenga tali da giustificare una diminuzione della pena. Esse sono considerate in ogni caso, ai fini dell'applicazione di questo capo, come una sola circostanza, la quale può anche concorrere con una o più delle circostanze indicate nel predetto articolo 62. Ai fini dell'applicazione del primo comma non si tiene conto dei criteri di cui all'articolo 133, primo comma, numero 3), e secondo comma, nei casi previsti dall'articolo 99, quarto comma, in relazione ai delitti previsti dall'articolo
62
e conseguente inesperienza della vita» che, si legge nella sentenza, «facilmente li rese
succubi della nefasta propaganda e del chiamo morale ed intellettuale fascista»137. Grazie
alla concessione delle attenuanti la pena, di cui all’art. 51 C.P.M.G., per Bagattini, Ferrari,
Marelli e Boles venne degradata, a norma dell’art. 65 c.p., in quella di venticinque anni
di reclusione. Ad Arnaldo Cortesi, che era nato nel ‘28, oltre alle attenuanti generiche
venne concessa anche la diminuente dell’età minore degli anni diciotto e maggiore dei
quattordici, ai sensi dell’art. 98 C.P., riducendo la sua pena ad anni quindici di reclusione.
Nessuna attenuante, invece, venne prevista per Francesco Capelli, nato nel ‘22, che venne
condannato alla pena di morte mediante fucilazione nella schiena. «La Corte si dichiara
convinta», si legge nella sentenza,
che il Capelli, che era in divisa ed in presenza di due ragazze, ebbe, operando, l’intenzione
di uccidere il suo avversario, a ciò ridotto dalla sua ormai angusta abitudine di violenza e
di sopraffazione contro chiunque non si inchinasse supino dinanzi alla sua autorità di
milite e di componente della famigerata abominevole banda Resmini138.
Nome e cognome Attenuanti Pena
Francesco Capelli - Pena di morte
Pietro Bagattini generiche art.62 bis C.P. Venticinque anni di
reclusione
Giuseppe Ferrari generiche art.62 bis C.P. Venticinque anni di
reclusione
Arnaldo Cortesi generiche art.62 bis+98 C.P. Quindici anni di reclusione
Benedetto Marelli generiche art.62 bis C.P. Venticinque anni di
reclusione
Giancarlo Boles generiche art.62 bis C.P. Venticinque anni di
407, comma 2, lettera a), del codice di procedura penale, nel caso in cui siano puniti con la pena della reclusione non inferiore nel minimo a cinque anni». 137 AS di Bergamo, Tribunale di Bergamo, Fondo Corte d’Assise Sezione Speciale, Sentenze,
Sentenza 3/45, 2 giugno 1945 138 Ibidem
63
reclusione
Dunque, una sentenza, quella della CAS di Bergamo emessa il 2 giugno ‘45, dura ed
estremamente severa, che riconobbe le atrocità commesse nella bergamasca dai gregari
della banda Resmini e che volle rispondere all’esigenza di giustizia della popolazione ma
che, al tempo stesso, in uno sforzo di razionalità, cercò anche di “venire incontro” agli
imputati, giovanissimi, aprendo per loro la possibilità di un ritorno nella società civile.
La diminuente della minore età fu sempre concessa dalle CAS, anche quando la sua
applicazione risultò probabilmente da un punto di vista morale più difficoltosa, per
l’eccezionale gravità dei crimini commessi dagli imputati. È il caso ad esempio della
giovanissima Laura Albera, processata dalla Corte d’Assise Speciale di Voghera il 25
maggio ‘46. Nata appena nel ‘26 a Novi Ligure, in provincia di Alessandria, la ragazza
aveva militato nella Brigata Nera “Pippo Astorri” di Piacenza. Chiamata a giudizio, la
“belva del pavese”, come veniva definita dalla popolazione locale, fu imputata di una
lunga sequela di crimini, come omicidi, rastrellamenti, repressioni antipartigiane e
torture, compiuti ai danni di ben 17 persone tra partigiani e civili, soprattutto nella località
di Montù Beccaria. Secondo i testimoni era stata la Albera stessa a dirigere e a compiere
le violenze. Tra i vari fatti addebitati, compariva anche il concorso all’uccisione dello
studente Ettore Del Monte139. La Corte di Voghera condannò la brigatista
complessivamente a trent’anni di reclusione, ai sensi dell’art. 51 C.P.M.G., con la
concessione delle attenuanti a norma dell’art. 65 C. P. e della diminuente dell’età minore
a norma dell’art. 98 C.P., non prima però di aver affermato:
[...] questa ragazza, scappata di casa per sete di avventura e di delitto, non soltanto non
ha dimostrato di meritare l’applicazione delle attenuanti generiche ma ha dato prova,
nell’esecuzione di ogni fatto, di tale crudeltà e di tal grado di bassezza morale da essere
collocata fra i più volgari delinquenti. Nella sostituzione della pena di morte, comminata
dall’accennato art. 51, con quella della reclusione dai 24 ai 30 anni, per ragione dell’età
inferiore ai diciotto anni, sembra quindi di dover applicare quest’ultima nel suo grado
massimo140.
139 Sui crimini commessi dalla Albera, cfr. U. Scagni, La Resistenza e i suoi caduti tra il Lesima
e il Po, Varzi, Guardamagna, 2000, pp. 405 e ss. 140 AS di Pavia, Fondo CAS di Pavia, vol. 3, Sentenza 49/46, 25 maggio 1946
64
Anche Luciana Gandini, processata dalla CAS di Voghera per avere, con la sua opera di
delazione, cagionato la morte di alcuni partigiani, era minorenne. Nella sua arringa,
l’avvocato Umberto Sampietro, che era stato antifascista e aveva subito il carcere, si
sforzò di ragionare secondo un principio di giustizia. «[...] la lotta fu sopportata per
difendere la dignità dell’uomo e non per calpestarla, per chiedere giustizia e non
vendetta», osservò, proseguendo: «Guai, o giudici, se non compiremo giustizia. Per che
cosa avremo lottato? Occorre essere cauti nel giudicare i nostri nemici di ieri, affinchè la
passione non faccia velo alla giustizia141».
Quello della delazione era un reato di collaborazionismo particolarmente frequente, molto
praticato dalle donne: basti pensare che a Pavia, ad esempio, su 29 donne processate esso
venne contestato in ben 15 casi. La delazione era un delitto particolarmente inviso alla
popolazione, che guardava infatti alle donne spie con un misto di rabbia e disgusto,
deplorandole per aver tradito la Patria, spesso, proprio come nel caso di Luciana Gandini,
cagionando la cattura o la morte di partigiani.
Va detto che gli studi sui processi alle collaborazioniste hanno rilevato come nei giudizi
emessi dalle CAS nei confronti delle donne predominassero dei fortissimi e radicati
pregiudizi di genere, a dimostrazione di quanto il sistema giudiziario dell’epoca fosse
permeato di una visione maschilista e patriarcale; peraltro, la scarsa attenzione prestata a
lungo dalla storiografia alle donne, nonché la fissazione nell’immaginario collettivo di un
idealtipo di collaborazionista – e cioè quella di una donna di dubbia moralità, amante del
lusso e del denaro, prostituta dei tedeschi e impegnata soprattutto nell’attività spionistica
– hanno contribuito ad oscurare a lungo una corretta comprensione del collaborazionismo
femminile, che, come ha dimostrato Francesca Gori studiando i fascicoli processuali delle
corti di Firenze, Genova e Torino, risulta in realtà molto più sfaccettato rispetto agli
stereotipi dominanti142.
141 Cronache dell’Oltrepò, Documentario n.1, op.cit., p. 21 142 F. Gori, I processi per collaborazionismo in Italia, art. cit., p. 655-656: «La ricerca nei fascicoli processuali ha rivelato infatti una costellazione di esperienze diversificate rispetto agli stereotipi dominanti [...] Per comprendere appieno l’esperienza delle donne italiane deve essere effettuata dunque, a mio avviso, un’operazione di contestualizzazione multipla delle vicende personali all’interno delle categorie dell’occupazione tedesca, della guerra civile, della guerra totale, ma anche all’interno delle dinamiche delle relazioni di genere».
65
Laura Berio, spia e delatrice al servizio delle SS e dell’UPI di Pavia, responsabile della
deportazione in Germania di numerosi antifascisti, fu condannata nel marzo ‘47 dalla
locale Sezione Speciale della Corte d’Assise a ben 22 anni di reclusione, con parole
durissime e sprezzanti, che sembrano viziate in effetti da luoghi comuni sul genere
femminile: «una spia prezzolata che si è addossata per lucro e per la sfrenatezza di
godimento, senza luce altruistica, le responsabilità almeno morali di tante disgrazie e
lutti143». La Berio, amnistiata nel ‘49 dopo 18 mesi di reclusione, sarebbe tornata alla
ribalta della cronaca quasi cinquant’anni dopo, quando un giornalista de «La Provincia
Pavese» si sarebbe accorto che la donna viveva da decenni tranquilla e indisturbata a
Torino, sotto falso nome: l’odio covato nei suoi confronti da chi la ricordava era ancora
molto144.
Sfogliando le Cronache dell’Oltrepò il risentimento verso le delatrici e l’esistenza di
stereotipi sulle spie e in generale sulla figura femminile nel mondo giudiziario ed extra-
giudiziario trova ancora di più conferma: le donne processate alla CAS di Voghera –
Luciana Gandini, Antonietta Bertoletti, Liliana Marigioli, Ada Desperati, Delmina
Boldratti, Fanny Fugazza, Piera Covini, Claudia Roveda – sono descritte infatti sia dalla
popolazione che dai giudici come donne dai facili costumi, amanti dei tedeschi o di
sgherri della Sichereits. Si legge, nell’introduzione al processo di Claudia Roveda,
collaboratrice e spia della Brigata Nera di Pavia e dei tedeschi:
I processi femminili rivestono certamente un carattere di maggior interesse per quel tanto
di ambiguo e di indecifrabile che la psicologia della donna aggiunge al fatto criminale
[...]
Bisogna aver vissuto in Voghera ai tempi della repubblica quando bisognava camminare
in via Emilia strisciando lungo i muri col sospetto di essere visti dagli agenti della brigata
della guardia o di qualche altra maledetta organizzazione, per comprendere l’odio e il
desiderio di vendetta per quelle donne che, dei repubblicani, erano le amanti e in grazia
di ciò giravano sicure a bordo di macchine, frequentavano locali semideserti ed
imperavano insomma su quel regno di gente spaurita. In questo clima e in questo
ambiente bisogna giustificare tali processi. E l’aver fatto la spia rientra appunto in quella
143 AS di Pavia, Fondo CAS di Pavia, Vol. 2, Sentenza 158/47, 3 agosto 1947 144 La spia che tradì e visse due volte in «La Provincia Pavese», 16 maggio 1997
66
mentalità di spaventevole leggerezza per cui il salvare od il perdere la vita di un uomo
dipende dal momentaneo capriccio, dall’estro bizzarro di donne come lei145.
Anche un avvocato come Sampietro si lasciò sopraffare da considerazioni moralistiche,
quando si trovò di fronte a Piera Covini, imputata di aver fornito alla polizia germanica
informazioni sul movimento patriottico, cagionando la cattura e l’uccisione di sei
partigiani. «Egli dipinge una Piera Covini corrotta e corruttrice, sottolinea come lo sdegno
e le imprecazioni della folla valgano più che le sue stesse parole», scrisse il cronista146.
Molte donne imputate di delazione furono assolte per insufficienza di prove, ma altre
furono condannate a pene piuttosto severe, ai sensi dell’art. 58 C.P.M.G. Emilia Keller,
ad esempio, processata a Sondrio nell’agosto ‘45 per avere contribuito, in accordo con la
madre e una spia dell’UPI, Achille Parlanti, all’uccisione di due partigiani a Caiolo nel
settembre ‘44, fu condannata a 13 anni e 4 mesi di reclusione147. A conferma dell’odio
nutrito verso di lei dalla popolazione valtellinese, il titolo della “Cronaca Giudiziaria” di
Sondrio quel giorno fu: Ospiti graditi in gabbia148.
Comunque, anche in Lombardia non tutte le donne processate dalle CAS furono spie: si
è già visto il caso di Laura Albera, autrice in prima persona di rastrellamenti e torture, che
conferma l’esistenza di volti molteplici del collaborazionismo femminile.
Scorrendo le carte delle CAS lombarde si nota poi che la delazione non fu un reato
prettamente femminile e che non sempre le spie agirono singolarmente: il processo ai
responsabili di Villa Merli alla CAS di Cremona, ad esempio, testimonia l’esistenza di
una vera e propria rete organizzata di spionaggio attiva nel piccolo centro della bassa
pianura padana e composta sia da donne che uomini. Sede dell’UPI della GNR dall’estate
‘44 alla Liberazione e posta sotto il controllo del Ras Roberto Farinacci, Villa Merli era
qualcosa di molto simile alla famigerata Villa Triste a Milano: un luogo di torture, assurto
a simbolo della violenza dispiegata dalla RSI contro partigiani e civili, ma anche crocevia
di spie e delatori di ogni sorta. Data la fama sinistra, il processo a Villa Merli fu uno dei
più grossi celebratisi a Cremona (e in tutta la Lombardia) nel dopoguerra. Apertosi
nell’aprile ‘46, vide infatti imputate ben 28 persone tra uomini e donne di tutte le età,
145 Cronache dell’Oltrepò, Documentario n. 2, op. cit., p. 24 146 Ivi, p. 33 147 AS di Sondrio, Fondo CAS Sondrio, b. 1, Sentenza 11/45, 27 agosto 1945 148 Ospiti graditi in gabbia in «Cronaca Giudiziaria della Corte di Assise Straordinaria di Sondrio», 29 agosto 1945
67
provenienti prevalentemente da Cremona ma anche da altri centri di tutta Italia: c’erano,
ad esempio, ragazzi come Enrico Ronca di Cremona e Anna Maria Pes di Roma, nati
rispettivamente nel ‘23 e nel ‘24, ma anche uomini più maturi, come Guido Tessaroli di
Malagnino, un piccolo comune della provincia cremonese, nato nel 1898. Tra le cinque
donne processate la maggioranza (4 su 5) era costituita da ragazze, di età compresa tra i
ventisei e i vent’anni all’epoca dei fatti contestati.
Nome e cognome Data di nascita Luogo di nascita
Rino Puerari 1/1/1921 Cremona
Mario Brambilla 2/2/1900 Bettola (Cr)
Enzo D’Ippolito 8/9/1894 Nicastro (Cz)
Camillo Leoni 13/1/1909 Modena
Mario Pirali 6/5/1918 Cremona
Giordano Desideri 11/1/1911 Mulke (Germania)
Paride Olivieri 8/4/1908 Zibello (Pr)
Angelo Faravelli 29/7/1911 Canneto Pavese (Pv)
Giuseppe Frattini 19/5/1903 -
Agostino Bonaldi 6/5/1915 Cremona
Alceste Lorenzi 23/8/1918 Pistoia
Walter Paoli 26/3/1913 Cremona
Enrico Ronca 26/3/1923 Cremona
Guido Tessaroli 7/11/1898 Malagnino (Cr)
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Rosolino Visigalli 25/8/1920 Cremona
Remo Scappaticci 23/9/1923 Aquino (Fr)
Osvaldo Rotola 4/2/1914 Trecase (Na)
Michele Cappelli 17/3/1918 Napoli
Carlo Fumagalli 13/8/1918 Monza
Nicola Lepore 17/10/1921 Napoli
Franco Motti 3/1/1909 Trani
Aldo Quaranta 19/6/1912 Roma
Maria Buricchio 13/9/1919 Radicofani (Si)
Anna Maria Pes 21/5/1924 Roma
Giuseppina Pietrobelli 12/7/1924 Pozzaglio (Cr)
Maria Corbellini 26/7/1906 Piacenza
Maria Anelli 6/6/1920 Ostiano (Cr)
Ermanno Betti 31/7/1920 Cremona
I ventotto erano accusati del delitto di cui all’art. 1 del Dll 22 aprile 1945 n.142, per avere,
successivamente all’8 settembre ‘43, collaborato col tedesco invasore, chi svolgendo al
servizio dell’UPI attività di spionaggio in danno di patrioti, chi operando arresti, ricerche
e persecuzioni di patrioti e di antifascisti. I fatti più gravi comunque vennero addebitati a
Enzo D’Ippolito e a Rino Puerari. D’Ippolito fu accusato di aver svolto attività di
spionaggio prima al servizio delle Brigate Nere di Crema causando la cattura di otto
prigionieri alleati e l’arresto di sei civili sospetti di favoreggiamento, poi al servizio
dell’UPI di Cremona che delle sue informazioni si avvalse per operare arresti, ricerche e
69
perquisizioni di patrioti e di antifascisti a Cremona e a Milano. Più compromessa ancora
era la posizione di Puerari, accusato, oltre al fatto di aver svolto attività di spionaggio ai
danni di patrioti nelle cui file aveva precedentemente militato, anche di aver cagionato la
morte di uno di essi, Alceste Ferrari.
Il rapporto steso dalla Questura di Cremona – recentemente ritrovato e divenuto oggetto
di una pubblicazione letteraria locale149 – ricostruisce nel dettaglio l’attività persecutoria
messa in campo complessivamente dall’UPI della città e che si era dispiegata soprattutto
nei confronti dell’organizzazione militare Ghinaglia150. Nel testo si fornisce un ritratto
particolareggiato per ciascuno dei vari imputati, di cui si tende a porre in risalto la
devianza morale. Si legge ad esempio rispetto a Puerari e a D’Ippolito:
Il Puerari, che militava nella formazione partigiana Ghinaglia, la quale non offriva altro
che sofferenze, pericoli e privazioni [...] nel novembre ‘44 passò sfacciatamente all’U.P.I.
di Cremona, che gli assicurava di vivere con larghezza, senza eccessive fatiche; il
D’Ippolito, d’altro canto, che era abituato a trarre i mezzi di sostentamento dal delitto,
come può desumersi dal suo certificato penale, o del vizio facendo al giuoco o sfruttando
le donne, o come informatore dell’O.V.R.A. [...] trovò la cosa più naturale e
corrispondente alle sue inclinazioni, di porre la sua opera non disinteressata al servizio
del famigerato U.P.I. di questa città [...]
Secondo il commissario Giuseppe Montalto, Puerari ed Ippolito erano le figure più
caratteristiche dell’UPI, poiché avevano «tradito in modo sistematico e su vasta scala la
Patria esclusivamente per fine di lucro».
149 B. Caffi, “Per quanto ch’io soffra nel morire”. Villa Merli. Il dossier ritrovato, Cremona, Edizioni Fantagrafiche, 2017 150 Ferruccio Ghinaglia, nato a Casalbuttano in provincia di Cremona il 27 settembre 1899, fu una figura di rilievo del socialismo e poi del comunismo cremonese. Studente di medicina, allievo del collegio Ghislieri di Pavia, fu il primo segretario, a soli 22 anni, della Federazione comunista pavese. Fu ucciso da una squadra fascista a Borgo Ticino il 21 aprile 1921. Al suo nome, durante la Resistenza, venne intitolata la formazione garibaldina operante sul territorio della provincia cremonese. Per un profilo di F. Ghinaglia cfr. C. Ancona, Ferruccio Ghinaglia e il primo comunismo pavese in “Rivista storica del Socialismo”, f. 12, gen.-apr. 1961, pp. 189-207. Si veda anche G. Azzoni - G. Carnevali - A. Locatelli - E. Serventi (a cura di), Pietre della memoria: i caduti cremonesi nella Resistenza (1943-1945): cippi, lapidi, monumenti, Cremona, ANPI, 2010, pp. 67-8. Per un inquadramento storico dell’organizzazione militare Ghinaglia, invece, si veda: G. Azzoni (a cura di), Fuori dalla zona grigia. Protagonisti e vicende della guerra di Liberazione nell’archivio dell’ANPI di Cremona, Cremona, ANPI, 2014, pp. 82-130 e E. Fogliazza - G. Agosti - M. Coppetti, I cremonesi nella Resistenza, Cremona, Amministrazione Provinciale, 1985, pp. 49-52
70
I giudici della CAS recepirono questa idea del tradimento verso il Paese, comminando
pene estremamente severe, anche in considerazione del fatto che il processo fu celebrato
abbastanza tardi. Puerari e D’Ippolito furono condannati a morte mediante fucilazione
nella schiena ai sensi dell’art. 51 C.P.M.G. Grazie alla concessione di alcune attenuanti,
più lievi furono le pene fissate per gli altri imputati, comprese tra i 25 e i 9 anni di
reclusione. Quattro donne furono assolte per insufficienza di prove151.
Nome e cognome Imputazioni Esito processo di primo
grado
Rino Puerari art. 1, 22 aprile 1945 n.142;
art. 5, 27 luglio 1944 n.159;
art. 51 C.P.M.G.
Pena di morte e confisca dei
beni
Mario Brambilla art. 1, 22 aprile 1945 n.142;
art. 5, 27 luglio 1944 n.159;
art. 51 C.P.M.G.
25 anni di reclusione e
confisca della metà dei beni
Enzo D’Ippolito art. 1, 22 aprile 1945 n.142;
art. 5, 27 luglio 1944 n.159;
art. 51 C.P.M.G.
Pena di morte e confisca dei
beni
Camillo Leoni art. 1, 22 aprile 1945 n.142;
art. 5, 27 luglio 1944 n.159;
art. 58 C.P.M.G.
20 anni di reclusione e
confisca dei beni
Mario Pirali art. 1, 22 aprile 1945 n.142;
art. 5, 27 luglio 1944 n.159;
art. 58 C.P.M.G.
-
Giordano Desideri art. 1, 22 aprile 1945 n.142;
art. 5, 27 luglio 1944 n.159;
art. 58 C.P.M.G.
18 anni di reclusione e
confisca della metà dei beni
151 AS di Cremona, Tribunale di Cremona, Fondo CAS di Cremona, b. 2428, Sentenze, 19/46, 21 maggio 1946
71
Paride Olivieri art. 1, 22 aprile 1945 n.142;
art. 5, 27 luglio 1944 n.159;
art. 58 C.P.M.G.
-
Angelo Faravelli art. 1, 22 aprile 1945 n.142;
art. 5, 27 luglio 1944 n.159;
art. 58 C.P.M.G.
18 anni di reclusione e
confisca della metà dei beni
Giuseppe Frattini art. 1, 22 aprile 1945 n.142;
art. 5, 27 luglio 1944 n.159;
art. 58 C.P.M.G.
-
Agostino Bonaldi art. 1, 22 aprile 1945 n.142;
art. 5, 27 luglio 1944 n.159;
art. 58 C.P.M.G.
12 anni e 6 mesi di reclusione
e confisca della metà dei beni
Alceste Lorenzi art. 1, 22 aprile 1945 n.142;
art. 5, 27 luglio 1944 n.159;
art. 58 C.P.M.G.
12 anni e 6 mesi di reclusione
e confisca della metà dei beni
Walter Paoli art. 1, 22 aprile 1945 n.142;
art. 5, 27 luglio 1944 n.159;
art. 58 C.P.M.G.
20 anni di reclusione e
confisca dei beni
Enrico Ronca art. 1, 22 aprile 1945 n.142;
art. 5, 27 luglio 1944 n.159;
art. 58 C.P.M.G.
8 anni e 4 mesi di reclusione e
confisca della metà dei beni
Guido Tessaroli art. 1, 22 aprile 1945 n.142;
art. 5, 27 luglio 1944 n.159;
art. 58 C.P.M.G.
20 anni di reclusione e
confisca dei beni
Rosolino Visigalli art. 1, 22 aprile 1945 n.142;
art. 5, 27 luglio 1944 n.159;
art. 58 C.P.M.G.
8 anni e 4 mesi di reclusione e
confisca della metà dei beni
Remo Scappaticci art. 1, 22 aprile 1945 n.142 12 anni e 6 mesi di reclusione
72
Osvaldo Rotola art. 1, 22 aprile 1945 n.142 16 anni e 8 mesi di reclusione
e confisca dei beni
Michele Cappelli art. 1, 22 aprile 1945 n.142 -
Carlo Fumagalli art. 1, 22 aprile 1945 n.142 8 anni e 4 mesi di reclusione e
confisca della metà dei beni
Nicola Lepore art. 1, 22 aprile 1945 n.142;
art. 5, 27 luglio 1944 n.159;
art. 58 C.P.M.G.
18 anni di reclusione e
confisca della metà dei beni
Franco Motti art. 1, 22 aprile 1945 n.142;
art. 5, 27 luglio 1944 n.159;
art. 51 C.P.M.G.
20 anni di reclusione e
confisca della metà dei beni
Aldo Quaranta art. 1, 22 aprile 1945 n.142;
art. 5, 27 luglio 1944 n.159;
art. 51 C.P.M.G.
20 anni di reclusione e
confisca della metà dei beni
Maria Buricchio art. 1, 22 aprile 1945 n.142 Assoluzione per insufficienza
di prove
Anna Maria Pes art. 1, 22 aprile 1945 n.142 Assoluzione per insufficienza
di prove
Giuseppina Pietrobelli art. 1, 22 aprile 1945 n.142 Assoluzione per insufficienza
di prove
Maria Corbellini art. 1, 22 aprile 1945 n.142;
art. 5, 27 luglio 1944 n.159;
art. 58 C.P.M.G.
8 anni e 4 mesi di reclusione e
confisca della metà dei beni
Maria Anelli art. 1, 22 aprile 1945 n.142 Assoluzione per insufficienza
di prove
Ermanno Betti art. 1, 22 aprile 1945 n.142;
art. 5, 27 luglio 1944 n.159;
9 anni di reclusione e 1200 L
di multa e confisca della metà
73
art. 58 C.P.M.G.
art. 646 C.P.
dei beni
Benché non fosse stata prevista dalla legislazione speciale verso il fascismo una
fattispecie di reato relativa alla persecuzione degli ebrei, alcuni studiosi hanno rilevato
come qualche Corte avesse lavorato anche su questo argomento, processando più che
altro quanti avevano compiuto opera di delazione a danno di ebrei o proceduto al
sequestro di beni appartenenti a persone di razza israelita152. Si è anche osservato che
l’attenzione dispiegata dalle CAS verso il sequestro dei beni ebraici potrebbe essere
ricondotta al fatto che tale questione era una di quelle su cui il governo di Salò aveva
legiferato in maniera più chiara, col decreto legislativo del 4 gennaio ‘44153. Certo è che
la celebrazione di processi di questo genere – la cui incidenza comunque deve essere
ancora esaminata per varie province e regioni – permette di rivedere parzialmente la tesi
secondo cui in Italia non vi sia mai stata un’azione penale nei confronti dei responsabili
di reati a danno degli ebrei. L’azione penale promossa dalle CAS – benché in diversi casi
conclusasi con l’applicazione da parte delle corti della pena minima e quand’anche
successivamente annullata dai vari provvedimenti di clemenza – rivela infatti un primo
sforzo di inquadrare i crimini nei confronti degli ebrei e di renderne conto pubblicamente.
In Lombardia un caso di questo tipo venne trattato dalla CAS di Mantova in occasione
del processo al capo della provincia Angelo Cesare Bracci. Quest’ultimo fu chiamato a
giudizio con l’accusa di avere collaborato col tedesco invasore per avere, rivestendo la
carica di capo della provincia, disposto tra le altre cose provvedimenti di sequestro e di
152 Si fa riferimento agli interventi di Andrea Martini e di Toni Rovatti in occasione del seminario “La giustizia e il secondo dopoguerra: prospettive di ricerca tra Francia e Italia” tenuto all’Università di Bologna il 25 febbraio 2019. Si veda anche A. Martini, I processi per collaborazionismo nel Lazio (1944-1951). Risanare le ferite e pacificare una comunità in Giustizia straordinaria tra fascismo e democrazia, op. cit., pp. 145-176. Nel saggio si legge, ad esempio, del caso di Giuseppe Rossano, sottoposto a processo il 7 marzo ‘45 dalla I Sezione della Corte di Assise di Roma con l’accusa di aver denunciato il suo socio in affari Alberto Benigno alle autorità tedesche e alla PAI in quanto ebreo. La Corte ritenne Rossano colpevole dell’arresto di Benigno e condannò l’imputato a 12 anni di reclusione. Martini ha anche osservato che a Roma dei 188 imputati coinvolti in procedimenti riguardanti fatti di persecuzione razziale, 95 (ovvero, il 50,5%) furono ritenuti colpevoli. Nel 70, 5% dei casi le condanne furono ridimensionate da provvedimenti di condono. 153 Dl del Duce 4 gennaio 1944-XXII, n. 2, Nuove disposizioni concernenti i beni posseduti dai
cittadini di razza ebraica. Il testo integrale del decreto si può leggere sul sito della Fondazione CDEC: http://www.cdec.it/home2_2.asp?idtesto=185&idtesto1=647&son=1&figlio=558&level=9
74
confisca dei beni a carico di persone di razza israelita. Bracci, primo collaborazionista in
assoluto processato davanti alla CAS di Mantova, fu condannato il 4 giugno ‘45 ai sensi
dell’art. 58 C.P.M.G. a 18 anni di reclusione e all’interdizione perpetua dai pubblici uffici.
Nel suo caso, la corte elencò una serie di fatti specifici di collaborazione, tra cui figurava
anche la confisca dei beni appartenenti a cittadini di razza ebraica. Nella formulazione
della sentenza, però, i giudici dimostrarono di non ritenere questo aspetto una specifica
aggravante: essi infatti dichiararono che di fronte alla presunzione di colpevolezza era
irrilevante che un capo di provincia avesse commesso atti specifici di collaborazione,
poiché «la legge ritiene, come d’altronde è indiscutibile ed evidente, che sia
collaborazione il solo fatto di avere disimpegnato la carica di capo della provincia»154.
Più avanti si esaminerà nel dettaglio l’applicazione della presunzione di colpevolezza nei
confronti dei capi della provincia, ma quello che per ora si vuole osservare è il fatto che
in questo caso la confisca dei beni degli ebrei fosse stata riconosciuta dalla CAS di
Mantova come un fatto specifico di collaborazione. Oltre a questo, grazie ai lavori svolti
dalla CAS di Mantova è possibile anche avere un’idea di come e quanto il decreto varato
da Mussolini nel ‘44 fosse stato applicato effettivamente a livello provinciale: all’interno
del fascicolo processuale relativo all’imputato, infatti, è possibile leggere ad esempio un
elenco dei nominativi delle persone ebree a cui furono confiscati i beni, in totale 32, tra
uomini e donne155.
2.3 Il fallimento della giustizia: l’“amnistia Togliatti” ma non solo
Già a pochi giorni dalla promulgazione dell’amnistia Togliatti in seno all’opinione
pubblica si espressero dubbi e incertezze sulla possibilità che il provvedimento potesse
effettivamente servire alla pacificazione del Paese. Sulla «Provincia di Sondrio»,
qualcuno scrisse il 1° luglio ‘46:
Di fascisti meritevoli di carcere ce ne sono stati parecchi soprattutto nelle alte sfere.
Probabilmente la maggior parte di costoro beneficerà di quest’ultima amnistia e ritornerà
154 AS di Mantova, Fondo CAS di Mantova, vol. 23, Sentenza 1/45, 4 giugno 1945 155 Ivi, b.1, fasc. 1
75
a star bene dopo un periodo detentivo che avrebbe potuto essere molto molto più lungo.
La stessa cosa si può dire, in parte, per quanto si riferisce agli ex fascisti repubblichini
[...]
L’amnistia avrà il potere di far uscire dal carcere ad una ad una figure insignificanti e
loschi impresari trafficanti, sporchi delatori ed accaniti persecutori, uomini in buona fede
e volgari mestatori senza coscienza.
Ci chiediamo allora se questa mano simbolicamente tesa ad altri Italiani, a fratelli, verrà
accolta con sincera comprensione per camminare insieme finalmente uniti o se invece
non rimanga che da pensare che nulla, neppure l’avvenire così incerto e difficile, neppure
la sensazione di sentirsi così soli a sopportare le amare conseguenze della guerra perduta,
nulla di tutto questo varrà a ridare una vera, intima pace interna a questo nostro troppo
travagliato e prostrato popolo156.
Tali previsioni sembrarono effettivamente rivelarsi corrette. Già il 4 luglio ‘46 il
Procuratore Generale presso la Corte d’Appello di Milano faceva presente che numerosi
quesiti e incidenti erano stati provocati in località periferiche da scarcerazioni per
amnistia di criminali fascisti157.
Nell’agosto ‘46, nelle prime relazioni sull’amnistia inviate dai prefetti di tutta Italia a
Togliatti, spuntarono diversi nomi di collaborazionisti che, amnistiati, avevano prodotto
nel pubblico lombardo «impressioni e commenti sfavorevoli»: 31 a Mantova, 20 nei
comuni limitrofi a Milano (Monza, Carate Brianza, Giussano, Sovico, Bovisio, Desio,
Lodi, Cervignano D’Adda, Codogno, S. Rocco al Porto, Cassano D’Adda, Cernusco sul
Naviglio), 20 a Cremona, 7 a Como, 22 a Bergamo, 17 a Varese, 9 a Sondrio, 12 a
Pavia158. Nel caso di Cremona, tra i nomi degli amnistiati figuravano anche molti dei
responsabili di Villa Merli: Mario Pirali, Michele Cappelli, Enrico Ronca, Walter Paoli,
Franco Motti, Agostino Bonaldi.
In generale, comunque, negli elenchi erano compresi perlopiù membri della GNR o delle
BN, quasi tutti fascisti della prima ora, come Umberto Treccani a Mantova, iscritto al
156 Amnistia manovra politica? in «La Provincia di Sondrio», 1° luglio 1946 157 AS di Sondrio, Fondo CAS di Sondrio, b. 13, Telegramma n. 2008/1946 “Amnistia per crimini fascisti” della Procura Generale presso la Corte d’Appello di Milano ai Procuratori presso i tribunali e agli uffici del P.M. presso le Sezioni Speciali delle Corti d’Assise del Distretto della Corte di Appello di Milano, 4 luglio 1946 158 ACS, Ministero dell’Interno 1814-1986, Direzione Generale Pubblica Sicurezza (1861-1981), Sezione Servizi informativi e speciali SIS (1946-1948), Sezione confino politico (1926-1949), b. 254
76
PNF dal ‘21, squadrista, Marcia su Roma e sciarpa littorio, o Enrico Tagliabue a Monza,
iscritto al PNF sin dal ‘19, squadrista, Marcia su Roma, sciarpa littorio, «uno dei più
ferventi fascisti della Brianza», o Emilio Tenca a Cremona, da sempre «un fascista
convinto e fanatico e ritenuto elemento fazioso e violento». La stragrande maggioranza
di individui con simili precedenti politici induce a pensare che il risentimento della
popolazione espresso nei loro confronti non fosse riconducibile unicamente ai crimini
commessi tra il ‘43 e il ‘45, ma che fosse di più ben lunga data e ascrivibile alle violenze
dispiegate dalle squadracce nei primi anni Venti. Tale odio, peraltro, era così forte da
sfociare spesso in atti di violenza contro gli ex criminali. Si legge, ad esempio, nel caso
di Pietro Vercesi di Montù Beccaria, rimesso in libertà dalle carceri giudiziarie di
Voghera:
La notizia della scarcerazione ha suscitato il malcontento generale in quella popolazione
dalla quale il Vercesi è malvisto e odiato siccome ritenuto uno dei principali delatori e
provocatori degli atti inconsulti commessi a danno di varie famiglie del luogo da reparti
nazifascisti.
Nella sua qualità di squadrista avrebbe commesso nei primi anni del fascismo atti di
violenza contro persone di idee politiche diverse.
Ricoprì in Montù Beccaria la carica di segretario politico e quella di Ispettore di zona,
usando in ogni circostanza prepotenza.
Dopo l’8 settembre aderì al pseudo governo della r.s.i. e si iscrisse al p.f.r. [...]
Per l’odio che la popolazione ha contro di lui il suo eventuale ritorno nel comune di Montù
B. provocherebbe incidenti e potrebbe mettere a repentaglio la sua incolumità
personale159.
Il caso di Gaspare Anelli in provincia di Pavia sembra suggerire anche l’esistenza di una
dinamica di scontro di classe oltre a quella di guerra civile. Ex segretario del fascio a
Redavalle, un piccolo paesino nell’Oltrepò pavese, e proprietario di uno stabilimento di
laterizi situato nella medesima località, Anelli fu amnistiato dalla Sezione Speciale della
Corte d’Assise di Milano tra lo sconcerto della popolazione, che ancora nel ‘48 lo
159 Ivi, b. 255
77
rammentava non solo come un «acceso collaborazionista» ma anche come «un oppressore
dei suoi stessi operai»160.
Capitò anche che la violenza della folla si scagliasse contro i P.M. e gli avvocati difensori.
A Voghera, ad esempio, alla lettura della sentenza che applicava l’amnistia a Carlo
Carena, imputato di rastrellamenti, repressione antipartigiana, persecuzione politica,
delazione, saccheggio e altri crimini, la popolazione esplose di rabbia: «Insulti,
imprecazioni, grida di protesta. Ma ciò non fu tutto. Quando l’avv. Sampietro che aveva
fatto da rappresentante l’accusa, uscì, la folla lo circondò ed egli a stento potè evitare
gravi conseguenze»161.
Come in tutta Italia, anche in Lombardia l’amnistia Togliatti del 22 giugno ‘46 venne
applicata molto estensivamente, garantendo un notevole sconto di pena o addirittura la
libertà per molti collaborazionisti “eccellenti”, che precedentemente erano stati
condannati a pene detentive importanti o addirittura alla pena di morte. Del beneficio di
amnistia, ad esempio, poterono godere, come si vedrà più avanti dettagliatamente, tutti
coloro che avevano ricoperto la carica di capo della provincia in Lombardia, nonostante
il ruolo di elevata responsabilità esercitata. Anche importanti generali o ufficiali superiori
in formazioni di camicie nere con funzioni politico-militari conobbero la stessa sorte: a
Pavia, ad esempio, una tra le più clamorose amnistie fu quella concessa a Vitale Giroldi,
informatore delle SS tedesche, capitano della Brigata Nera “Alfieri” e comandante della
squadra volante “Cesare Forni” del presidio di Mede. Imputato di una lunghissima
sequela di crimini (23 erano addirittura i capi di imputazione!), Giroldi era stato
condannato nel settembre ‘45 dalla CAS di Vigevano alla pena di morte, ma la Sezione
Speciale della Corte d’Assise di Pavia nel luglio ‘46 gli concesse il beneficio di
amnistia162. Al questore di Imperia e di Pavia Ermanno Durante, definito nelle carte
giudiziarie un «fascista fervente», andò ancora meglio: imputato nell’ottobre ‘46 di
omicidio, rastrellamento, repressione anti-partigiana, persecuzione politica, persecuzione
razziale, delazione, furto, tortura e di un’altra altrettanto lunga serie di reati comuni, tra
160 IPSREC, Fondo Antifascismo nella provincia di Pavia, in copia dall’ACS, b. 12, serie 9, Raccomandata della Prefettura di Pavia al Ministero dell’Interno, 11 febbraio 1948 161 Conseguenze dell’amnistia. A Voghera la folla aggredisce Pubblico Ministero e Difesa in «La
Provincia Pavese», 12 luglio 1946 162 AS di Pavia, Fondo CAS Pavia, vol. 4, 117/46, 4 settembre 1945
78
cui truffa, si vide condonare, grazie all’applicazione del D.P. 22 giugno ‘46, ben un terzo
della pena, fissata inizialmente a venticinque anni di reclusione163.
Spesso, comunque, l’applicazione dell’amnistia in sede di rinvio a giudizio fu resa
possibile dalla “debolezza”, se così si può definire, di alcune sentenze, debolezza dovuta
spesso alla combinazione di una scarsa conoscenza del diritto da parte dei giudici popolari
e dell’uso sapiente di alcuni cavilli giuridici da parte dei giudici togati per ottenere
l’annullamento delle sentenze dalla Suprema Corte di Cassazione. Capitò cioè che
quest’ultima rinviasse a giudizio certi processi semplicemente perché le sentenze espresse
in primo grado dalle CAS presentavano dei difetti di motivazione, relativamente ad
esempio alla confisca dei beni o alla concessione delle attenuanti generiche. È chiaro che,
di fronte a fatti particolarmente gravi di imputazione, come un omicidio, tali difetti di
motivazione potevano apparire al pubblico come quisquiglie (e, da qui, il forte
risentimento popolare nei confronti di taluni processi rinviati); tuttavia la loro
contestazione era in effetti in punta di diritto del tutto legittima e – tenuto conto
dell’atmosfera turbata in cui si svolsero alcuni dibattimenti subito dopo la Liberazione –
avrebbe anche potuto fornire in linea teorica un’ulteriore garanzia di un giusto processo.
L’impressione generale però è che i difetti di motivazione venissero “sfruttati” come
pretesti per ritardare i procedimenti, consentendo l’applicazione del D.P. 22 giugno ‘46.
Nel processo ai responsabili dell’eccidio di Caselle Landi, celebrato presso la Sezione
Speciale della Corte d’Assise di Lodi nel novembre ‘45, ad esempio, tutti gli imputati
furono rinviati a giudizio dalla Suprema Corte di Cassazione alla Sezione Speciale della
Corte d’Assise di Pavia per alcuni difetti di motivazione sulla confisca dei beni o in ordine
alla concessione di attenuanti varie. Vero è che a Pavia alcune pene furono confermate
(in particolare, le tre condanne a morte) ma c’è anche da dire che, su 11 imputati, grazie
all’applicazione dell’amnistia Togliatti, ben 6 di essi poterono beneficiare del condono di
un terzo della pena, e uno addirittura di quasi tutta la pena.
Nome e cognome Condanna Sentenza del
ricorso
Giudizio di rinvio
Alessandro Midali Pena di morte Annullamento con Conferma della pena
163 Ivi, vol. 2, 133/46, 4 ottobre 1946
79
rinvio per difetto di
motivazione sulla
confisca dei beni
Vittorio Lombardi 20 anni di reclusione Annullamento con
rinvio per difetto di
motivazione sulla
confisca dei beni
Condono di ⅓ della
pena per effetto del
D.P. 22/6/’46
Sante Magnozzi Pena di morte Annullamento con
rinvio per difetto di
motivazione sulla
confisca dei beni
Conferma della pena
Mario Ravazzoli Pena di morte Annullamento con
rinvio per difetto di
motivazione sulla
confisca dei beni
Conferma della pena
Guido Gorla 20 anni di reclusione Annullamento con
rinvio per difetto di
motivazione sulla
confisca dei beni
Condono di ⅓ della
pena per effetto del
D.P. 22/6/’46
Attilio Cremascoli 25 anni di reclusione Annullamento con
rinvio per difetto di
motivazione sulla
confisca dei beni e
sulla concessione
dell’attenuante di
cui all’art. 26
C.P.M.G.
Condono di ⅓ della
pena per effetto del
D.P. 22/6/’46
Bruno Umberto
Marca
8 anni e 4 mesi Annullamento con
rinvio per difetto di
motivazione sulla
confisca dei beni e in
Concessione
attenuante art. 114
C.P., 6 anni di
reclusione di cui 5
80
ordine all’attenuante
di cui all’art. 114
C.P.
condonati per
effetto del D.P.
22/6/’46
Alessio Affetti 25 anni di reclusione Annullamento con
rinvio per difetto di
motivazione sulla
confisca dei beni
Condono di ⅓ della
pena per effetto del
D.P. 22/6/’46
Giordano Bruno
Tidor
25 anni di reclusione Annullamento con
rinvio per difetto di
motivazione sulla
confisca dei beni e in
ordine alla richiesta
delle circostanze
attenuanti generiche
Condono di ⅓ della
pena per effetto del
D.P. 22/6/’46
Amedeo Colombo 20 anni di reclusione Annullamento con
rinvio per difetto di
motivazione sulla
confisca dei beni
Condono di ⅓ della
pena per effetto del
D.P. 22/6/’46
Luciano Zanotti 25 anni di reclusione Annullamento con
rinvio per difetto di
motivazione sulla
confisca dei beni
Conferma della pena
Dell’amnistia Togliatti la popolazione lombarda contestò anche il fatto che, a fronte
dell’eccessiva larghezza con cui il provvedimento veniva concesso a rei di delitti di
collaborazionismo e fascismo, non vi fosse un’applicazione del beneficio altrettanto larga
e celere nei confronti dei partigiani. Già l’11 luglio ‘46, ad esempio, un telegramma del
Procuratore Generale di Milano agli uffici del P.M. presso le Sezioni Speciali di Corte
d’Assise del distretto, denunciava che «da varie parti» pervenivano «numerose et vivaci
81
proteste per mancata ammissione beneficio amnistia o ritardata applicazione per elementi
partigiani»164.
Sebbene all’amnistia Togliatti sia stata (giustamente) attribuita una grande importanza
nel contesto della giustizia post-bellica verso i fascisti, tuttavia non sarebbe del tutto
corretto imputare esclusivamente ad essa il fallimento dei processi per collaborazionismo
e, dunque, fare del 22 giugno ‘46 una data spartiacque tra un prima caratterizzato da un
funzionamento delle corti del tutto “positivo” e un dopo del tutto “negativo”. La realtà fu
molto più complessa e le ripartizioni temporali si rivelarono decisamente meno nette.
Le CAS furono chiamate, lo si è già detto, a dare una risposta all’ansia di vendetta
invocata dalla popolazione, incanalando, per così dire, tale sentimento su un piano legale
per evitare forme di violenza sommaria. Non sempre però le CAS riuscirono
contemporaneamente a soddisfare la popolazione e a muoversi nella piena legalità. Alcuni
processi celebrati già nei primi mesi dopo la Liberazione si rivelarono fallimentari – nel
senso che non riuscirono ad appagare l’esigenza popolare di giustizia – per tutta una serie
di carenze e di debolezze, si potrebbe dire, “costitutive”, delle corti. Lo si vedrà bene
analizzando i casi Basile e Donegani scoppiati a Milano nell’estate ‘45.
Allo stesso tempo, c’è da osservare che molti processi si rivelarono fallimentari – nel
senso che non furono dei processi “giusti” – o perché i giudici espressero delle sentenze
illogiche (si vedrà la sentenza pronunciata verso Basile dalla CAS di Pavia, ad esempio),
o perché l’atmosfera in cui si svolsero le udienze fu turbata, costringendo a rinviare i
dibattimenti per legittima suspicione. Fu questo il caso di Cazzola, uno dei responsabili
della strage della Sassella a Sondrio, il cui processo, come si vedrà, venne trasferito
proprio per tale motivo dalla CAS di Sondrio alla Sezione Speciale della Corte d’Assise
di Bergamo. In alcuni casi la violenza non rimase solo temuta ma si sprigionò
effettivamente con conseguenze devastanti: fu quanto accadde, alla CAS di Brescia,
all’imputato Ferruccio Sorlini, ufficiale della GNR, che addirittura rimase ucciso durante
l’udienza, per un colpo di mitra sparato da un carabiniere165. Del resto, studi condotti su
164 AS di Sondrio, Fondo CAS di Sondrio, b. 13, Telegramma n. 2088/1946 “Applicazione amnistia a favore di partigiani” della Procura Generale presso la Corte d’Appello di Milano ai Procuratori della Repubblica e agli uffici del P.M. presso le Sezioni Speciali delle Corti d’Assise del Distretto della Corte d’Appello di Milano, 11 luglio 1946 165 M. Franzinelli, L’amnistia Togliatti, op. cit., p. 53
82
CAS di altre regioni hanno dimostrato come tali episodi fossero tutt’altro che infrequenti,
nell’onda lunga della violenza del dopoguerra166.
Infine, c’è da dire che a partire dai primi mesi del ‘46 all’interno delle Sezioni Speciali
delle Corte d’Assise lombarde cominciò ad affermarsi un nuovo orientamento
giurisprudenziale: le corti, cioè, andarono progressivamente attenuando la severità dei
giudizi iniziali, spesso perché recepirono le indicazioni della Suprema Corte di
Cassazione, improntate generalmente a una tendenza assolutoria. Di ciò si giovarono
molti imputati di rilievo che, probabilmente, se fossero stati processati nei primi mesi
dopo la Liberazione, sarebbero stati condannati a diversi anni di reclusione o addirittura
alla pena di morte, ma, dati i tempi lunghissimi delle istruttorie, a volte riuscirono a farsi
processare soltanto molto tardi, in un clima politico radicalmente mutato e ben più
indulgente nei confronti dei fascisti.
Se il processo all’ex ministro dell’Interno Guido Buffarini Guidi è, come si è visto,
emblematico della prima fase dei lavori delle CAS, improntata a estremo rigore e intrisa
di passioni, il processo a Piero Pisenti, ex ministro della Giustizia della RSI, giunto a
celebrazione solo nell’estate ‘46, rispecchia pienamente una vera e propria inversione di
rotta della giustizia verso i collaborazionisti, all’insegna di un rovesciamento eclatante
delle categorie fascismo/antifascismo. Gerarca fedelissimo al Duce nel ventennio, poi tra
i principali artefici del sistema giudiziario collaborazionista, nonché firmatario assieme a
Mussolini e Graziani dei bandi che comminavano la pena capitale a renitenti e partigiani,
Pisenti era stato catturato dai partigiani già il 21 aprile ‘45, ma per via di una laboriosa
istruttoria poté essere processato davanti alla Sezione Speciale della Corte d’Assise di
Bergamo solo nel luglio ‘46167. L’esito del procedimento fu qualcosa di incredibile:
assoluzione con formula piena per non aver commesso il fatto168. Come potè un ministro
della RSI ottenere un giudizio del genere? Soprattutto in considerazione del fatto che
166 Si veda, ad esempio, il saggio di Andrea Martini sul processo al Battaglione Muti presso la CAS di Padova: in questo caso la folla si scagliò sugli avvocati difensori degli imputati. A. Martini, Giustizia di transizione. Il processo al Battaglione Muti, in “Contemporanea”, 2/2017, pp. 213-238 167 Su Pisenti esiste una biografia, di carattere però apologetico: M. Meneghini, Piero Pisenti, Portogruaro, Edizioni Nuovo Fronte, 1990. Per una sintesi biografica si veda la voce nel Dizionario Biografico degli Italiani curata da Giuseppe Parlato: http://www.treccani.it/enciclopedia/piero-pisenti_%28Dizionario-Biografico%29/ 168 AS di Bergamo, Tribunale di Bergamo, Fondo Corte d’Assise Sezione Speciale, Sentenze, Sentenza 60/46, 17 luglio 1946
83
l’aver ricoperto la carica di ministro costituiva una presunzione di colpevolezza ai sensi
dell’art. 1 del Dll 22 aprile 1945 n. 142?
I giudici della Sezione Speciale della Corte d’Assise di Bergamo elaborarono un
ragionamento molto sottile e complesso, fornendo un’interpretazione “nuova” della
presunzione di colpevolezza, e, si potrebbe dire, del tutto “opposta” rispetto a quella
precedentemente delineata dalle CAS (si pensi alla sentenza comminata verso l’ex capo
della provincia di Mantova Bracci) in forza di una sentenza della Suprema Corte di
Cassazione emessa in data 31 gennaio ‘46, secondo la quale il reato di collaborazionismo
andava escluso per mancanza di dolo se l’ufficio o l’incarico fosse stato esplicato col
proposito di nuocere ai nazifascisti.
Il primo passaggio di questo ragionamento fu che non fosse possibile richiamarsi alla
presunzione di colpevolezza stabilita dall’art. 1 del Dll 22 aprile 1945 n. 142, in quanto
Pisenti si era rifiutato di prestare giuramento alla RSI e che, pertanto, l’imputato non
poteva essere considerato ministro (benché avesse effettivamente esercitato tale
funzione), «ma soltanto capo dell’Amministrazione della Giustizia della Repubblica
Sociale Italiana»! Ecco il passaggio chiave:
[...] poiché il rifiuto di giurare da parte di chi è nominato ministro impedisce che egli
giuridicamente e costituzionalmente possa essere considerato investito di tale carica
consegue che la norma penale dell’art. 1 del DLL 22 aprile 1945 n. 142, la quale fonda la
presunzione di colpevolezza, non può essere richiamata contro il Pisenti. E per la ragione
che trattandosi di presunzione sarebbe necessario che la qualità sulla quale questa si fonda
corrispondesse ai requisiti giuridico-politici che le sono propri. Né vale obiettare che il
Pisenti benché non abbia giurato ebbe ad esercitare in effetti le funzioni di ministro
assumendone anche il nome, perché, a parte che l’esercizio di una funzione può essere
assunto anche da chi non è titolare della qualità alla quale essa inerisce, egli è certo che
le leggi eccezionali e straordinarie sono di strettissime interpretazioni e non consentono
estensione analogica. E nessuno può constatare tale carattere alla norma suindicata. In
conclusione, pertanto, a parere della Corte, il Pisenti non può essere considerato ministro,
ma soltanto capo dell’Amministrazione della Giustizia della repubblica sociale169.
169 Ibidem
84
I giudici spiegarono che «tale controsenso costituzionale [...] potè verificarsi perché
quell’agitato momento della nostra vita nazionale segnò il trionfo dell’irrazionale in ogni
manifestazione di essa». Come a dire: tutto potè succedere dopo l’8 settembre, anche che
uno nominato ministro non fosse poi stato un ministro.
La Corte precisò anche che, in generale, l’eventuale applicazione della presunzione di
colpevolezza non costituiva un criterio automatico, «dato che è regola costantemente
proclamata da oltre un secolo che la giustizia penale non ammette mai presunzioni iuris
et de iure», e quindi, di fronte a qualcuno che aveva dispiegato un incarico o ricoperto
una carica tra quelle previste dall’art. 1, si rendeva necessario che il giudice acclarasse
«la maggiore o minore intensità dell’attività collaboratrice spiegata da costui nel caso
concreto». E nel fare questo, secondo i giudici, bisognava «sforzarsi di mettersi nei panni
in cui si trovava colui che ha commesso ciò che si chiama il suo crimine e il suo delitto».
Nel caso in esame, per la corte Pisenti fu una sorta di eroe. Quest’ultimo, infatti, si legge
nella sentenza, aveva assunto la carica cercando di mantenere la giustizia al di sopra e al
di fuori del partito, di impedire l’ingerenza in quest’ultima dei tedeschi, di assicurare
l’indipendenza e l’unità morale e spirituale della magistratura ordinaria, di contrastare
l’illegalità e gli eccessi degli estremisti del partito e dei nazisti, di controllare la polizia
reprimendone gli abusi: un compito, nel suo complesso, «arduo e ponderoso», che il
ministro della Giustizia, anzi, il capo dell’Amministrazione della Giustizia, aveva svolto
«con perseverante indomito e intrepido coraggio e con grave suo rischio personale», come
provava il fatto che fosse stato incluso in un elenco di persone da deportare in Germania
e come confermavano le numerose testimonianze deposte a favore dell’imputato da
«magistrati, avvocati di grido, prelati, uomini di colore e di ogni tendenza politica» che
avevano esaltato «con parole commosse e riconoscenti questa opera immane di bene
compiuta da Pisenti».
L’apice dell’assurdità comunque si toccava con la constatazione che Pisenti avesse
rappresentato «l’antifascismo nel seno stesso del governo della repubblica» e che fosse
stato «antitedesco», «odiatore della dottrina e della pratica fascista ispirata al mito
sorelliano della violenza», nonché, dulcis in fundo, «assertore costante della fraternità fra
gli italiani al di sopra e al di fuori di ogni dissenso di idee e di credi politici».
85
Tutto ciò valeva per i giudici a dimostrare che Pisenti avesse assunto l’incarico col
proposito di nuocere ai nazi fascisti e che, dunque, in forza della sentenza della Suprema
Corte di Cassazione, non si fosse reso responsabile di collaborazione col tedesco invasore.
La “nuova” interpretazione della presunzione di colpevolezza sarebbe stata sfruttata,
come si vedrà più avanti nel dettaglio, per concedere l’amnistia agli ex capi della
provincia, ma quello che si vuole osservare qui è che nel caso del ministro Pisenti essa
consentì addirittura all’imputato di essere assolto, consentendo, di fatto, una piena
reintegrazione nella società civile come se nulla fosse successo. Pisenti avrebbe trascorso
il resto della sua vita esercitando la professione forense a Pordenone. Prima di morire, nel
1980, avrebbe lasciato alle stampe, come tanti altri suoi compagni, un memoriale, Una
Repubblica necessaria (RSI), in cui avrebbe difeso l’operato della Repubblica Sociale
Italiana170.
Molti altri imputati “eccellenti” ottennero nel ‘46 l’assoluzione. Si pensi al caso del
generale Gastone Gambara, processato nell’ottobre ‘46 dinanzi alla Sezione Speciale
della Corte d’Assise di Brescia. Nato a Imola nel 1890, Gambara era stato uno dei
principali esponenti della politica militaristica mussoliniana: già combattente nella Prima
Guerra mondiale, aveva infatti preso parte nel corso del Ventennio alla guerra d’Etiopia,
alla guerra civile spagnola, all’occupazione militare della Jugoslavia, ottenendo la
promozione a generale di corpo d’armata, e alla guerra in Africa. Nel corso
dell’occupazione militare della Slovenia, in particolare, si era reso responsabile di
numerosi crimini di guerra, tra cui la deportazione di civili nel famigerato campo di
concentramento di Arbe171, e dopo l’8 settembre era fuggito da Roma lasciando la capitale
preda dell’assalto tedesco. In seguito, confermata la propria adesione alla RSI, era stato
nominato da Graziani capo di Stato Maggiore dell’Esercito Repubblicano, carica che
aveva mantenuto fino alla sua sostituzione con Renato Ricci. Nel ‘45 era stato preso
prigioniero dagli Alleati e internato nel campo di concentramento di Coltano, cosa che
non aveva reso possibile alla giustizia italiana procedere nell’immediato contro di lui.
Imputato finalmente nell’ottobre ‘46 del delitto di cui agli art. 5 Dll 27 luglio 1944 n. 159,
1 Dll 22 aprile 1945 n. 142 e 51 C.P.M.G. per avere collaborato col tedesco invasore dopo
l’8 settembre 1943 ricoprendo la carica di capo di stato maggiore dell’esercito
170 P. Pisenti, Una repubblica necessaria (RSI), Roma, Giovanni Volpe Editore, 1977 171 D. Conti, L’occupazione italiana dei Balcani, op. cit., p. 67
86
repubblicano fascista e per avere in tale qualità organizzate le forze armate repubblicane
dando direttive ed ordini per il loro impiego a favore dell’esercito germanico, Gambara
fu sorprendentemente assolto per non aver commesso i fatti contestatigli172. Anche in
questo caso i giudici elaborarono una sentenza sotto molti aspetti assurda. Secondo la
corte, infatti, l’accusa di aver organizzato forze armate repubblicane non poteva
addebitarsi a carico dell’imputato, in quanto, in realtà, come stavano a dimostrare alcuni
documenti tra cui il “Bollettino Informazioni sulla situazione dell’Italia occupata”, la
costituzione delle forze armate repubblicane era iniziata soltanto dopo la destituzione di
Gambara dall’incarico e, pertanto, veniva a mancare «il substrato obiettivo e giuridico del
primo elemento accusatorio».
Ciò posto, era evidente per i giudici che anche la seconda accusa a carico dell’imputato
fosse inconsistente, poiché, se era vero che il Gambara non aveva organizzato forze
armate repubblicane, allora non poteva essere «che antitetico il concetto di avere posto
quelle forze alla mercè del tedesco, facendole impiegare nell’esercito germanico».
La corte del resto non si limitò a dimostrare l’inconsistenza delle accuse a carico
dell’imputato, ma, in modo simile a quanto era stato fatto già a Bergamo per Pisenti, quasi
magnificò Gambara, mettendone in risalto i sentimenti antitedeschi e l’opera svolta a
favore... dei partigiani!
Il Gambara nutriva e manifestava odio per i tedeschi [...] perciò cercava di sabotarne
l’opera aiutando tutti coloro la cui azione costituiva opera demolitrice della nefasta
condotta della sbirraglia germanica [...] Là dove si erano costituite organizzazioni a scopo
squisitamente patriottico, segreto, là egli aveva cercato di preparare uomini di salda fede
italiana, che in ogni modo aiutava. E protesse ufficiali e soldati e sottrasse alla cattura o
alla deportazione persone che a lui erano state raccomandate [...]173.
Una sentenza del tutto stupefacente, che, unita alla mancata persecuzione penale per i
crimini di guerra commessi in Jugoslavia e per la mancata difesa di Roma l’8 settembre,
avrebbe consentito a Gambara non solo di poter vivere tranquillamente in tutta libertà il
resto della sua vita, ma anche di essere reintegrato nel ‘52 nell’Esercito Italiano.
172 AS di Brescia, Fondo Corte di Assise Speciale di Brescia, Sentenze, Sentenza 174/46, 4
ottobre 1946 173 Ibidem
87
Non tutti gli imputati comunque beneficiarono di una clemenza assoluta. Verso alcuni di
essi, il giudizio espresso dalle corti, benché giunto abbastanza tardi, fu tutt’altro che
favorevole. È il caso di Cazzola, uno dei principali esecutori materiali, come già visto,
della strage della Sassella a Sondrio, il cui processo si aprì alla Sezione Speciale della
Corte d’Assise valtellinese solo nel luglio ‘46. «È un peccato» – si legge sulla «Provincia
di Sondrio» – «che un simile triste individuo debba solo ora, a più di un anno di distanza
dalla fine del periodo “nero” delle sue gesta, trovarsi faccia a faccia con la giustizia,
peccato perché qualche mese addietro il processo avrebbe vissuto in una atmosfera più
viva». «Ad ogni modo» – prosegue l’articolo – «il ricordo dei suoi delitti e soprusi non
è certo passato dalla mente di tutti i valtellinesi e quelle persone che sono state
disgraziatamente oggetto delle sue azioni delittuose ben sapranno dire davanti alla corte
la loro parola d’accusa174». Nato a Cosio nel ‘18, Cazzola era stato in Jugoslavia fino all’8
settembre ‘43, alla guida di un reparto misto di Ustascia e Arditi. Rientrato in Italia, dal
giugno ‘44 al settembre dello stesso anno aveva ricoperto la carica di comandante della
formazione anti-ribelli di Morbegno, compiendo una lunga sequela di crimini:
rastrellamenti, sevizie, incendi, furti, saccheggi, omicidi. Tanto era l’odio covato dalla
popolazione nei suoi confronti, che la corte ritenne necessario, al fine di evitare incidenti,
rinviare il giudizio per legittima suspicione alla Sezione Speciale della Corte d’Assise di
Bergamo. Qui il 19 maggio ‘47, il “terrore della Valtellina”, come veniva chiamato dai
quotidiani locali, venne condannato a trent’anni di reclusione, con il condono di un terzo
della pena e l’estinzione di alcuni reati per amnistia: una sentenza nel complesso
straordinariamente severa, in considerazione anche del periodo in cui fu emanata.
Durissime le parole dei giudici:
Il Cazzola è un tipico esponente di questa categoria di individui, che sovvertendo tutti i
valori sociali ed umani fecero dell’amor di patria pratica al delitto, dell’eroismo sfogo
bestiale della più inumana ferocia sovvertitrice di tutte le leggi di guerra. Anche il Cazzola
fa parte di quella nobile schiera d’eroi che percuotevano i cadaveri e i fanciulli, puntavan
le armi contro le donne e i cittadini inermi, uccidevano e seviziavano prigionieri in
violazione delle più elementari leggi di guerra, Più che suggestionati dal tumulto di
174 Alla Corte Straordinaria d’Assise. Cazzola risponderà in «La Provincia di Sondrio», 8 luglio 1946
88
passioni scatenatesi in Italia dopo l’8 settembre 1943, essi appaiono al contrario coloro
che tale suggestione determinarono e diffusero nelle masse175.
Un trattamento quello riservato a Cazzola, come si può vedere, molto diverso rispetto a
quello concesso agli esponenti delle élites politica e militare, come Pisenti e Gambara, e
che, per la sua particolare durezza, sembra affine alle sentenze emanate dalle CAS nel
primo periodo della loro attività. Incredibile come la stessa corte di Bergamo usi due pesi
e due misure: nel caso di Pisenti i giudici affermarono, magnanimi, che bisognasse
«mettersi nei panni» di chi subì la guerra civile; nel caso di Cazzola, invece, addebitarono
all’imputato stesso la ragione dello scatenarsi del «tumulto di passioni» dopo l’8
settembre176.
Oltre al tempo, dunque, in questo caso fu lo status sociale differente degli imputati a
determinare giudizi tra loro molto diversi. Diversamente da Cazzola, infatti, Pisenti potè
beneficiare di numerose testimonianze a suo favore, deposte anche da personaggi illustri
e molto importanti (il magistrato Domenico Riccardo Peretti Griva, solo per fare un
nome).
Anche l’orientamento delle Sezioni Speciali delle Corti d’Assise verso quanti si fossero
resi responsabili di delazione o sequestro dei beni a danno degli ebrei iniziò a mutare ben
prima della promulgazione dell’amnistia Togliatti. Emblematico di questo cambiamento
fu il processo a Giovanni Bocchio, che aveva ricoperto la carica di capo della provincia
di Mantova prima di Bracci, e che, come quest’ultimo, era imputato di avere collaborato
col tedesco invasore per avere, tra le altre cose, disposto la confisca di beni appartenenti
ad ebrei. Come nel caso di Bracci, anche all’interno del fascicolo processuale di Bocchio
si trovano gli elenchi dei nominativi degli ebrei verso i quali era stato predisposto il
provvedimento di sequestro, peraltro ben più folti di quelli stesi dal suo successore: un
primo elenco conta infatti addirittura 224 persone e un altro 124177. Tuttavia, diversa fu
la pena comminata l’11 marzo ‘46 dalla Sezione Speciale della Corte, grazie anche alla
175 AS di Bergamo, Tribunale di Bergamo, Fondo Corte d’Assise Sezione Speciale, Sentenze, Sentenza 14/47, 19 maggio 1947 176 Bisogna anche tenere presente il fatto che la composizione della corte giudicante variò. Nel caso di Pisenti, i componenti furono Gastone Artina (come presidente), Emilio Bettega, Battista Taschini, Carlo Rolla, Guido Tadini, Pietro Bianchi e Antonio Leidi (come giudici popolari). Al processo Cazzola, invece, furono presidente Francesco Giraldi e giudici popolari Renato Miceio, Vincenzo Navarro, Guido Mandelli, Antonio Bianchi, Arturo Gavazzeni, Ottone Lelogni. 177 AS di Mantova, Fondo CAS di Mantova, b. 12, fasc. 16
89
concessione delle attenuanti di cui agli articoli 62 bis e 144 del C.P.: cinque anni di
reclusione, interdizione perpetua dai pubblici uffici e confisca di un terzo dei beni. Il
motivo di tale disparità di trattamento va ricercato nel ragionamento addotto dai giudici,
i quali, rispetto alla questione del sequestro dei beni ebraici, osservarono che in effetti
Bocchio aveva, «come tutti gli altri prefetti dell’Italia controllata dai tedeschi», seguito
«le leggi del suo tempo», e dunque egli non fu nient’altro che un «succube», chiamato ad
ubbidire ad «organi superiori»178. Parimenti, la corte pose l’accento sul fatto che Bocchio
non avesse dimostrato «alcuna particolare iniziativa personale e accanimento o spirito
fazioso nel commettere i fatti sopra elencati»; anzi, secondo i giudici, questi ultimi furono
«subiti, in conseguenza delle mansioni assunte dall’imputato» e a cui Bocchio «non aveva
avuto il coraggio di ribellarsi». Un altro punto su cui la corte insistette molto fu l’attività
di salvataggio e protezione esercitata da Bocchio, a favore di antifascisti, giovani e diverse
altre persone, che provava in definitiva l’animo «generoso, altruista, obiettivo, onesto»
dell’imputato.
Anche qui, due pesi e due misure da parte della stessa corte: se nel giugno ‘45 la CAS di
Mantova aveva emesso una pena molto dura nei confronti del capo della provincia Bracci,
riconoscendo il sequestro dei beni ebraici quale reato di collaborazionismo, nel marzo ‘46
la stessa corte si rivelò molto più “comprensiva” nei confronti del capo della provincia
Bocchio, minimizzandone le responsabilità ai danni degli ebrei e al tempo stesso
evidenziandone le opere buone dispiegate in molte altre circostanze.
Resta ovviamente da chiarire se l’evoluzione della CAS di Mantova rispetto alla
questione del sequestro di beni ebraici rifletta un trend nazionale oppure se sia un unicum
nel panorama italiano. In mancanza di un quadro completo di questo tipo di processi, ci
si limita a fare due considerazioni generali. La prima è che probabilmente il tentativo di
“salvataggio” degli italiani responsabili di crimini nei confronti degli ebrei fu in un certo
senso favorito dalla stessa legislazione predisposta contro il fascismo, in quanto l’art. 5
del Dll 27 luglio 1944 n.159, così come venne formulato, intendeva punire i delitti contro
lo Stato e cioè i delitti contro l’interesse pubblico, mettendo dunque in secondo piano
l’impatto della condotta criminosa nei confronti del singolo. Questo andò chiaramente a
scapito degli ebrei.
178 Ivi, vol. 23, Sentenza 16/46
90
In secondo luogo, è da osservare che il meccanismo di oscuramento delle responsabilità
italiane verso le persone di razza ebraica a favore dell’esaltazione di episodi di bontà degli
italiani verso gli ebrei – che in taluni casi effettivamente ci furono – fu lo stesso utilizzato
dal governo italiano nel medesimo periodo per scagionare quanti, tra generali e soldati,
erano stati accusati di aver commesso crimini di guerra in Jugoslavia: sono da leggere in
questo senso ad esempio le “Note relative all’occupazione italiana in Jugoslavia”, redatte
già nell’estate ‘45 dall’Ufficio Informazioni dello Stato Maggiore dell’Esercito179. La
mancata predisposizione di una legislazione ad hoc nei confronti dell’antisemitismo si
innestò, dunque, in un panorama volto ad accreditare e diffondere quanto più possibile a
livello internazionale l’immagine di un “buon italiano”, al fine di rimarcare le differenze
rispetto all’ex alleato tedesco e ottenere condizioni più favorevoli per il Paese in vista
della Conferenza di pace del ‘47180.
Su queste basi legislative e in questo contesto politico, la CAS di Mantova agli inizi provò
ad operare, abbozzando, con gli strumenti di cui era dotata, un tentativo di azione penale.
In seguito, però, essa si conformò allo spirito del tempo, lasciando che il mito degli
“italiani brava gente” prendesse il sopravvento sull’accertamento delle responsabilità
italiane nella stagione antisemita.
Del resto, la costruzione di un’immagine del buon italiano in contrapposizione a quella
del cattivo tedesco sembra ravvisarsi in molte altre sentenze: emblematiche in questo
senso quelle pronunciate verso il ministro Pisenti e il generale Gambara, ma anche, come
si vedrà più avanti, quelle emesse verso gli industriali collaborazionisti, come Donegani.
Il consolidamento di tale mito, dunque, pare trovare terreno fertile all’interno delle corti
predisposte alla punizione dei crimini di collaborazionismo in Lombardia, che, se
all’inizio, come si è visto, si sforzarono di inquadrare i crimini commessi dalla RSI, col
tempo e per il concorso di fattori politici interni ed esterni finirono poi per contribuire alla
fissazione di un’immagine complessivamente edulcorata della violenza fascista.
179 C. Di Sante (a cura di), Italiani senza onore. I crimini in Jugoslavia e i processi negati (1941-
1951), Verona, Ombre Corte, 2005, pp. 171-204 180 Sul tema si veda, ad esempio, D. Conti, Criminali di guerra italiani, op. cit.
91
2.4 Un confronto con le CAS di altri territori
Come si è detto all’inizio, non solo il tempo, ma anche la geografia condizionò
l’andamento dei processi verso i collaborazionisti. Quali furono le analogie e le differenze
tra le CAS operanti in Lombardia e le CAS attive in altri territori?
Complessivamente, le corti lombarde furono tra le CAS italiane quelle che celebrarono il
numero di processi maggiore, assieme alle corti emiliane, piemontesi, venete e liguri. Ciò
fu ovviamente dovuto all’esperienza della guerra civile, che, segnando i territori
dell’Italia settentrionale e centro-settentrionale in misura decisamente più forte rispetto a
quanto accadde nel Centro e del Sud, si trovò a dover tener conto dell’ansia di giustizia
della popolazione nei confronti dei responsabili di crimini di collaborazionismo.
Inizialmente la situazione delle corti settentrionali e centro settentrionali sembra piuttosto
omogenea, almeno per quanto riguarda i disagi incontrati nell’espletamento dell’attività.
Il 30 giugno ‘45 una prima riunione tra i vari presidenti delle Corti d’Appello dell’Italia
settentrionale e la Commissione di Controllo Alleata fece il punto rispetto al
funzionamento delle CAS istituite nel Nord Italia, evidenziando alcuni problemi comuni,
come la carenza di magistrati, la scarsa applicazione dell’art. 10 del Dll 22 aprile 1945
(vale a dire, l’assunzione da parte degli avvocati designati dai Cln delle funzioni di
Pubblico Ministero), il ricorso da parte dei condannati a morte ad espedienti per ritardare
il corso della giustizia181. Altre difficoltà segnalate nel primo periodo di attività delle CAS
erano l’eccessiva lentezza dei processi e la mancanza di un coordinamento nazionale
rispetto ad alcune pratiche legislative, ad esempio l’iter procedurale per la domanda di
grazia. Vi erano, poi, dei dubbi circa l’applicazione del reato di collaborazionismo: ad
esempio, ci si chiedeva se il solo fatto di essere stato un membro del PFR oppure di aver
appartenuto all’esercito repubblicano costituisse in sé un reato182.
Col tempo, però, tra le varie corti del Nord e Centro-nord cominciarono a palesarsi delle
disparità, soprattutto in termini di regolarità e velocità dei processi. Si considerino, per
181 ACS, Mgg, Gabinetto, Archivio Generale, Affari Diversi 1925-1983, b. 9., fasc. 38, Riunione tenuta in Milano il 30.6.1945 per esaminare questioni concernenti le Corti d’Assise Straordinarie 182 Ivi, fasc. 1, ins. 2, Promemoria sull’incontro del 5 luglio 1945 tra il Ministro della Giustizia e i membri della Sottocommissione legale
92
un quadro generale, i prospetti relativi al funzionamento delle corti per il bimestre marzo-
aprile 1946183:
Corte di Appello Num. processi pendenti
presso le Sezioni Speciali di
Corte d’Assise
Num. processi pendenti
presso gli uffici di P.M.
Ancona 63 244
L’Aquila 21 108
Bari 1 14
Bologna 429 1374
Brescia 79 553
Cagliari 0 97
Catania 1 3
Catanzaro 4/5 4
Firenze 100 1575
Genova 104 798
Messina 0 (Le corti non funzionano ancora
per mancanza di processi di loro
competenza).
8
Milano 263 3627 (di cui 2140 presso il
solo ufficio di Milano)
Napoli 3 48
Palermo 0 (Le Sezioni Speciali non sono
ancora state istituite perché non è
4
183 Ibidem
93
pervenuto alcun processo).
Perugia 14 71
Potenza 1 7
Roma 98 657
Torino 244 2131
Venezia 186 3631
Totale 1610 15474
Come si vede, i processi nei territori del Sud Italia furono pochissimi e, in alcuni casi,
come a Cagliari e a Palermo, addirittura assenti. Tra le corti del Centro si registra una
quantità più elevata di processi, con il picco a Roma, che rappresenta un unicum nel
panorama nazionale per l’istituzione abbastanza tardiva delle CAS184.
Le Sezioni Speciali di Corte d’Assise del distretto di Milano risultano essere quelle con
il più alto numero di processi pendenti, dopo la Sezione Speciale di Corte d’Assise del
distretto di Bologna, nonché quelle con la quantità maggiore di procedure in corso di
istruzione presso gli uffici di P.M., di poco inferiore a quella delle Sezioni Speciali di
Corte d’Assise del distretto di Venezia. Da notare anche è l’alto numero di processi
pendenti presso il solo ufficio di P.M. della corte di Milano. Il rapporto che accompagna
le segnalazioni al funzionamento delle CAS evidenzia una forte difficoltà delle corti del
primo distretto lombardo a procedere prontamente, a causa di una serie di fattori, in parte
contingenti – come l’avvicinarsi delle elezioni amministrative – in parte “cronici”, come
la carenza di personale tecnico e i disordini della situazione carceraria:
184 Si veda, per uno studio delle Corti d’Assise Straordinarie e ordinarie nell’Italia centrale, A. Martini, I processi per collaborazionismo nel Lazio (1944-1951) in Giustizia straordinaria tra fascismo e democrazia, op. cit. e «Il diavolo nel cassetto». Collaborazionismi e procedure di giustizia in Italia, Tesi di Dottorato, relatore A. Gissi, Università Orientale di Napoli, 2017. Per un focus sui processi celebrati nella capitale, si veda: Idem, Il punto di vista della capitale. I processi penali contro i collaborazionisti e i gerarchi fascisti in I. Bolzon - F. Verardo (a cura di), Cercare giustizia, op.cit., pp. 119-141 e A. Osti Guerrazzi, “Il passo dei repubblichini”. Processi politici ed epurazione a Roma in «Roma moderna e contemporanea”, 21, 2013, 1-2, pp. 181-205
94
La impossibilità di tenere udienze nei giorni prossimi alle elezioni amministrative, i noti
perturbamenti verificatisi in alcuni stabilimenti carcerari con il conseguente trasferimento
di detenuti in altre case di pena lontane dalle sedi delle Sezioni, la mancanza, per talune
sezioni, dei presidenti supplenti e, infine, la riluttanza dei giudici popolari a partecipare
alle udienze di quelle sezioni aventi sede in località diversa dal capoluogo hanno
notevolmente ridotto la l’attività delle Sezioni Speciali di Corte di Assise di questo
distretto durante lo scorso bimestre185.
Ben diversa è la situazione delle corti del distretto di Brescia, il cui servizio, si legge nel
rapporto, «procede regolarmente e con ritmo costante», anche, evidentemente, per un
numero di processi pendenti non eccessivo.
Complessivamente, le altre Corti d’Appello italiane maggiormente interessate dai
processi – Bologna, Torino e Venezia – offrono un quadro migliore rispetto a quello delle
corti del distretto di Milano. Per Bologna, ad esempio, si legge che «il lavoro svolto può
dirsi soddisfacente se si tiene conto della importanza di alcuni processi definiti», per
Torino che il servizio «procede regolarmente» e per Venezia che tutte le sezioni speciali
del distretto «hanno atteso diligentemente al loro lavoro».
Più simile al caso di Milano è, per certi aspetti, il caso dei due uffici di P.M. di La Spezia
e Imperia, del distretto di Genova, per i quali si legge che «il lavoro ha proceduto a
rilento» a causa «della esiguità del numero dei funzionari e delle difficoltà che si
incontrano per il sollecito disbrigo delle istruttorie, rappresentate dalle grandi distanze»,
oltre che per «gravi incidenti» occorsi al presidente della Sezione di Imperia.
Abbiamo quindi nella prima metà del ‘46 situazioni più o meno differenti tra le varie CAS
del Nord e Centro-nord italiano, rispetto alle quali le corti del distretto di Milano risultano
essere quelle più sfavorite. Queste ultime hanno un andamento molto diverso, peraltro,
dalle corti dell’altro distretto lombardo, quello di Brescia.
Il problema più grosso per le corti del distretto di Milano era rappresentato innanzitutto
dall’altissimo numero di processi gravanti sulle sole sezioni di Milano. Tuttavia,
scorrendo le carte di altre corti del medesimo distretto, ci si accorge che anche altri
territori non furono esenti da problematiche simili a quelle del capoluogo milanese. Nella
185 ACS, Mgg, Gabinetto, Archivio Generale, Affari Diversi 1925-1983, b. 9., fasc. 38, fasc. 2, Segnalazioni riguardanti il funzionamento delle Sezioni Speciali di Corte di Assise e dei relativi uffici di P.M. durante il bimestre marzo-aprile 1946, 19 giugno 1946
95
provincia di Sondrio, ad esempio, il congestionamento delle carceri fu uno dei disagi
maggiori incontrati nella gestione della giustizia: già il 9 luglio ‘45, il direttore delle
carceri giudiziarie della città, Mario Finiguerra, scriveva al Ministero della Giustizia che,
al fine di «evitare gravissimi inconvenienti con situazioni dispiacevoli», era «necessario
disporre per uno sfollamento di detenuti»186. Sempre a Sondrio si registrarono timori
rispetto al fatto che taluni individui reclusi, potessero in qualche modo “sobillare” la
popolazione carceraria, generando ulteriori disordini. Fu il caso, ad esempio, del generale
Onori, che venne trasferito dalle carceri di Como a quelle di Sondrio. «Se l’Onori si è
reso pericoloso in quel carcere, organizzatore di tentativi di evasione in massa di
detenuti», osservava Finiguerra, «molto più pericoloso è invece in queste carceri ov’è
conosciuto da tutta la popolazione detenuta per la maggior parte suoi militi dipendenti
dalle brigate nere»187.
Anche a Pavia la situazione carceraria – nelle prigioni al Castello Visconteo – era tesa,
tanto che nel luglio ‘45 il corpo di guardia del castello venne destituito e il direttore e il
vicedirettore delle carceri furono arrestati. Nei mesi seguenti vi sarebbe stata anche
un’inchiesta sulla Questura per presunte irregolarità nelle pratiche istruttorie188.
In generale, comunque, in tutte le corti lombarde la situazione carceraria si rivelò difficile:
un telegramma del Ministero dell’Interno, fatto circolare ancora il 2 maggio ‘46 dal
Procuratore di Milano a tutti i Presidenti di Sezione Speciale di Corte d’Assise e ai
dirigenti gli uffici del P.M. presso le stesse Sezioni, definì l’eccessivo affollamento dei
detenuti «particolarmente preoccupante»189; toni simili furono adottati anche dal Primo
presidente della Corte d’Appello di Brescia, che il 13 maggio ‘46 osservò l’insorgenza di
186 AS di Sondrio, Fondo CAS di Sondrio, b. 13, Rapporto “Sfollamento di detenuti” del Direttore
delle Carceri Giudiziarie di Sondrio al Ministero di Grazia e Giustizia, Sondrio, 9 luglio 1945 187 Ivi, Rapporto “Condannato Onori. Situazione detenuti in genere” del Direttore delle Carceri Giudiziarie di Sondrio al Procuratore del Regno e al Presidente della Corte d’Assise Straordinaria, 2 ottobre 1945 188 P. Lombardi, I Cln e la ripresa della vita democratica a Pavia, op. cit., pp. 175-6: «Con il trascorrere delle settimane, il numero dei prigionieri radunati nei locali del Castello Visconteo e del Liceo scientifico dopo la Liberazione è cresciuto a dismisura. L’affollamento, l’insufficienza dei già scarsi mezzi a disposizione, il rallentamento dell’esame istruttorio delle pratiche provocano un diffuso malumore e le prime critiche sull’operato della Questura. La presunta priorità concessa al vaglio dei casi di detenuti più in vista, concorre ad alimentarle. Nell’opinione pubblica si diffonde l’impressione di favoritismi e corruzioni, che il disordine e l’anarchia di certi uffici contribuisce certamente a giustificare». 189 AS di Sondrio, Fondo CAS Sondrio, b. 13, Telegramma n. 1434/13/68/1946 “Carceri giudiziarie” della Procura Generale presso la Corte d’Appello di Milano ai Presidenti di Sezione di Corte d’Assise, ai Dirigenti gli uffici del P.M. presso le Sezioni di Corte d’Assise, 2 maggio 1946
96
numerosi tumulti negli stabilimenti carcerari, dovuti al ritardo, «talora notevolissimo»,
col quale i processi, specialmente politici, venivano portati al dibattimento dopo la
sentenza di rinvio a giudizio190.
Ci si può chiedere allora: perché, date problematiche analoghe iniziali, in Lombardia
l’applicazione della giustizia verso i collaborazionisti si rivelò poi più lunga e laboriosa?
In che misura vari fattori – carenza del personale tecnico, sovraffollamento delle carceri,
confusione legislativa – influirono sull’esito dei processi? E, ancora, che tipo di rimedi si
cercò di porre in atto per far fronte alla situazione di difficoltà e di disordine? Infine,
avrebbe potuto avere un esito più soddisfacente la giustizia verso i collaborazionisti se
alcuni di questi problemi fossero stati risolti?
In una valutazione complessiva dei processi celebrati dalle Corti d’Assise Straordinarie
in Lombardia si ritiene necessario esaminare anche questi aspetti, alcuni dei quali, per il
loro essere in un certo senso “collaterali” al funzionamento delle CAS, sembrerebbero a
prima vista marginali, ma in un contesto in cui occorreva che la giustizia fosse prima di
tutto veloce per risultare efficiente – anzi, la velocità era requisito imprescindibile – essi
probabilmente furono molto più importanti di quanto si potrebbe credere. La tempistica,
come già detto più volte, fu cruciale. Né bisogna dimenticare che il settore giudiziario
interagisce con altri ambienti – la politica, la società, l’economia – che intervengono a
condizionarlo e che esso condiziona a sua volta, e quindi può essere utile, anche nel caso
in esame, andare a vedere ciò che successe parallelamente ai dibattimenti all’esterno,
fuori dai tribunali. Ciò, non solo per sondare limiti e criticità dei processi verso i
collaborazionisti, ma anche per ricostruire quello che fu, all’esterno delle aule giudiziarie,
il dibattito sulle misure della giustizia in transizione e scorgere in esso progetti, idee e
tentativi avanzati per un “buon” funzionamento della giustizia. Bisogna esaminare, cioè,
i motivi che causarono il fallimento dei processi verso i collaborazionisti, ma anche ciò
che, all’interno della giustizia in transizione, fu “positivo” e che – in un contesto diverso
– avrebbe probabilmente portato a un esito complessivo più soddisfacente.
Nel tentativo di esplorare a tutto tondo la giustizia in transizione in Lombardia, si
abbandonano allora provvisoriamente i fascicoli processuali e le sentenze delle CAS, per
190 AS di Cremona, Tribunale di Cremona, Fondo CAS di Cremona, b. 2428, Circolare n. 338 “Sollecita trattazione dei giudizi per reati politici innanzi le Corti d’Assise” del Primo Presidente della Corte d’Appello di Brescia ai Presidenti delle Sezioni Speciali di Corte d’Assise, 13 maggio 1946
97
prendere in esame le carte del Comitato di Liberazione Nazionale Lombardo e guardare
così alla questione anche da una prospettiva diversa, di tipo politico. Nel prossimo
capitolo si analizzeranno le problematiche affrontate, nonché le principali proposte
formulate dal commissario alla Giustizia del Cln regionale, nello sforzo di dare corso
effettivo alle misure giudiziarie verso i collaborazionisti.
98
Capitolo 3 Il Commissariato alla Giustizia e le CAS
3.1 La figura di Aurelio Becca
Nato a Rimini il 13 febbraio 1896, Aurelio Becca nel ‘18 si laureò in giurisprudenza
all’università di Bologna, con una tesi dal titolo “Le imposte dirette in Italia durante la
guerra (1914-1917)”191.
Finito il conflitto, nel ‘19 si congedò dall’Esercito nel quale si era arruolato volontario e
proprio nel capoluogo emiliano cominciò a svolgere la professione forense e a dedicarsi
intensamente all’attività politica, tanto da divenire in breve tempo uno dei più noti e
influenti animatori del Partito Socialista Unitario Italiano: nel ‘23, infatti, venne nominato
segretario del locale gruppo del partito e fu altresì prescelto come rappresentante al
Congresso dei Socialisti Unitari, celebratosi a Milano l’11 e il 12 novembre di quello
stesso anno. Parallelamente, divenne anche uno dei fiduciari del PSUI per la provincia di
Bologna, nonché corrispondente, per qualche tempo, de “Il Mondo”, il quotidiano politico
fondato da Giovanni Amendola nel ‘22 e soppresso dal regime fascista nel ‘26192.
Sin dagli inizi, per i suoi sentimenti antifascisti, Becca venne posto sotto stretta
sorveglianza dalla Questura di Bologna, che lo inserì nell’elenco degli oppositori politici
della provincia al fine di vigilarne costantemente ogni mossa, dalla corrispondenza alla
richiesta della tessera ferroviaria.
Nel gennaio ‘25, si scontrò con un fascista molto noto nel bolognese – un certo Giovanni
D’Ormea – che da tempo lo perseguitava per le sue idee politiche, e nel marzo ‘29 ebbe
un diverbio piuttosto acceso presso la Corte d’Appello di Venezia con il celebre avvocato
– guarda caso futuro difensore di innumerevoli fascisti eccellenti – Francesco
Carnelutti193.
191 Archivio storico online Università di Bologna, Archivi degli studenti, fasc. 5058 192 Sul sito della Biblioteca di Storia Moderna e Contemporanea di Roma è possibile consultare
gli articoli digitalizzati del quotidiano: http://digiteca.bsmc.it/?l=periodici&t=Mondo%28Il%29# 193 Francesco Carnelutti (1879-1965) fu un avvocato e accademico italiano. Grande studioso di diritto civile, prese parte anche ai lavori preparatori del Codice di Procedura Civile del ‘42, ma la sua attività di ricerca si indirizzò verso campi molteplici del diritto, sfociando in opere particolarmente importanti per la giurisprudenza quali la celebre Teoria generale del diritto, pubblicata nel ‘40. Nel secondo dopoguerra, fu difensore in diversi processi a carico di fascisti illustri, come l’ex ministro della Guerra della RSI Rodolfo Graziani.
99
Fatta eccezione per queste due segnalazioni di rilievo, tuttavia, già nel ‘23 Becca – come
si legge in un rapporto della Questura di Forlì inviata al prefetto di Bologna – «pur
mantenendosi fermo nelle sue idee politiche e di sentimenti ostili verso il fascismo», non
diede più segni di «attività sovversiva»194, tanto che nel ‘32 il suo nome venne rimosso
dall’elenco dei sovversivi della provincia e dallo schedario politico della Questura di
Milano.
Il nome di Becca figurava naturalmente anche nel Casellario Politico Centrale, da cui
venne radiato però solo nel ‘41195.
Dopo aver lavorato per qualche anno tra Bologna e Milano, nel ‘31 Becca si trasferì
definitivamente nel capoluogo lombardo, insediando il proprio studio professionale in via
Durini 26. Purtroppo, non possediamo informazioni circa la sua attività negli anni Trenta
e durante la Seconda guerra mondiale; sappiamo però che – lasciati i socialisti – aderì al
partito comunista. Fu infatti il PCI a nominarlo nell’aprile ‘45 commissario alla Giustizia
del Cln lombardo, carica che mantenne sino ai primi mesi del ‘46, congiuntamente a
quella di delegato dell’Alto commissario per l’epurazione nella provincia di Milano.
Nella veste di commissario Becca si distinse – come si vedrà – per l’impegno dispiegato
nell’assicurazione alla giustizia dei colpevoli di crimini di collaborazionismo e per la
formulazione di alcuni interessanti progetti legislativi in materia di sanzioni verso il
fascismo, nonché per gli studi sulla riforma della previdenza sociale e dei codici di diritto
e di procedura penale.
Dopo l’esperienza al commissariato, l’avvocato antifascista si impegnò nel mondo del
sindacato, svolgendo attività di consulenza legale per conto della Confederazione
Generale Italiana del Lavoro. Presso l’archivio storico della CGIL restano conservate
diverse tracce della sua attività, come la gestione della questione dei licenziamenti per
ragioni politiche di coloro che lavoravano presso le banche di interesse nazionale e le
Per un resoconto biografico, si veda la voce redatta da Francesco Tarello nel ‘77 per il Dizionario Biografico degli Italiani: http://www.treccani.it/enciclopedia/francesco-carnelutti_(Dizionario-Biografico)/ Sulla difesa di Graziani nello specifico si veda: Floriana Colao, I processi a Rodolfo Graziani, art. cit. 194 AS di Bologna, Archivio della Questura di Bologna 1872-1983, Gabinetto, Persone Pericolose per la sicurezza dello Stato 1872-1983, Radiati 1872-1983, b. 14, Raccomandata n. 628 del prefetto di Bologna al Ministero dell’Interno, 28 febbraio 1929 195 ACS, Ministero dell’Interno, Direzione Generale Pubblica Sicurezza 1861-1981, Divisione Affari Generali e Riservati. Uffici dipendenti dalla sezione prima 1894-1945, Fascicoli personali 1894-1945, b. 426, n. 25427
100
proposte per una riforma della legge di Pubblica Sicurezza e in materia di assicurazioni e
di previdenza sociale. Nel ‘49 Becca cominciò anche a raccogliere documenti sulla
repressione antisindacale, che confluirono in un fascicolo intitolato “Libro nero”196.
Negli stessi anni Becca ebbe contatti con il gruppo dei “Giuristi democratici” e, in
particolare con Ugo Natoli197, con il quale fondò, sempre nel ‘49, la «Rivista giuridica
del lavoro e della previdenza sociale»: a quest’ultima, ancora oggi imprescindibile punto
di riferimento per gli studi di diritto del lavoro, furono invitati a collaborare eminenti
giuristi, tra cui Piero Calamandrei198.
Uno degli obiettivi della rivista, come specificò Becca in una missiva inviata al celebre
avvocato, era quello di «promuovere una riforma della procedura delle controversie del
lavoro», che giungevano da tempo in gran numero alla CGIL da vari centri d’Italia199.
Nel promemoria allegato alla lettera Becca constatava infatti l’esistenza, soprattutto
nell’Italia meridionale, di «una notevole disfunzione delle Preture nei giudizi del lavoro»,
cosa che recava «danni gravissimi alla classe lavoratrice»200.
Secondo Becca, «al diffuso marasma in tema di giurisdizioni del lavoro» si poteva porre
rimedio «non solo con l’aumentare il numero dei Magistrati e dei Cancellieri che vi sono
addetti [...] ma anche con una radicale riforma della procedura affinché il processo del
lavoro» fosse reso, con sue parole, «più rapido, meno costoso, più vicino al lavoratore201».
Nella corrispondenza con Calamandrei, preziosa testimonianza di una sinergia e di una
grande intesa tra i due giuristi, nonché di un entusiasmo condiviso nell’elaborazione di
iniziative di notevole interesse politico e sociale (si cita qui soltanto l’idea di proporre
una discussione pubblica sul volume Processo e Democrazia202), risulta ben evidente la
particolare attenzione di Becca verso il diritto sindacale. Emblematica è, a tal proposito,
196 Archivio storico online CGIL, Archivio Confederale, Segreteria generale. Atti e
corrispondenza, Confederazione generale italiana del lavoro, Attentati alle libertà sindacali, b. 9 197 Ugo Natoli (1915-1992) fu partigiano, collaboratore di Togliatti, magistrato, professore ordinario, nonché membro del primo Consiglio superiore della magistratura. Si occupò soprattutto di diritto del lavoro e di diritto civile. 198 Si veda il sito https://www.ediesseonline.it/rgl/ 199 ISRT, Fondo Piero Calamandrei, Quarta serie, fasc. Aurelio Becca, Lettera di A. Becca a P. Calamandrei, 20 aprile 1949 200 Ivi, Promemoria sulle controversie individuali del lavoro, allegato alla lettera del 20 aprile
1949 201 Ibidem 202 P. Calamandrei, Processo e Democrazia, Padova, Cedam, 1954. L’opera, una delle ultime scritte da Calamandrei, raccoglie una serie di conferenze tenute nel ‘52 dal celebre giurista, nonché padre costituente, alla facoltà di Legge dell’Università Nazionale del Messico.
101
una lettera dell’agosto ‘50, in cui Becca suggerì a Calamandrei di pubblicare sulla rivista
una serie di saggi critici relativi al testo della nuova legge sindacale, «materia più attuale
e più interessante che possa immaginarsi»203.
Né, naturalmente, sarebbe potuto mancare il contributo di Becca a «Rassegna Sindacale»,
la rivista della CGIL fondata nel ‘55 da Giuseppe Di Vittorio. Suo fu, ad esempio,
l’articolo Sul diritto di recesso ad nutum e necessità di regolare legislativamente il
licenziamento, apparso già sul secondo numero della rivista assieme ad altre firme
importanti, come quelle di Renato Bitossi, Vittorio Foa, Emilio Sereni204.
La sensibilità verso la classe lavoratrice fu una cifra distintiva e costante dell’operato di
Becca: non a caso essa orientò – condizionandola in maniera decisiva – anche la guida al
Commissariato alla Giustizia: come si vedrà, Becca ebbe un occhio di riguardo per tutti
quei casi giudiziari nei quali risultava coinvolta (e danneggiata) la classe operaia. E, forse,
fu proprio dall’esperienza maturata quale commissario alla Giustizia che tale sensibilità
si fece ancora più forte.
Benché oggi sia stata quasi del tutto dimenticata, quella di Becca fu una figura di grande
caratura morale. Antifascista (sin dagli inizi), profondo studioso e conoscitore del diritto,
benché molto umile e discreto, Becca ha lasciato un’impronta significativa sia nel campo
degli studi che in quello della vita politica e civile. Non fu, dunque, un intellettuale
rinchiuso nella “torre d’avorio”, anzi: con grande energia egli si prodigò per la diffusione
della conoscenza del diritto e per la promozione dei diritti dei lavoratori e, ancora prima,
per un compito tanto grave e importante quale fu la resa dei conti con il fascismo in Italia.
Quando morì, il 19 novembre ‘73, l’allora segretario generale della CGIL, Luciano Lama,
ne ricordò le doti di valoroso combattente antifascista, di insigne giurista, di difensore
della causa dei lavoratori205.
203 ISRT, Fondo Piero Calamandrei, Quarta serie, fasc. Aurelio Becca, Lettera di A. Becca a P.
Calamandrei, 29 agosto 1950 204 Rassegna Sindacale, sessant’anni fa il primo numero in «Rassegna Sindacale», 15 dicembre 2015 (https://www.rassegna.it/articoli/rassegna-sindacale-sessantanni-fa-il-primo-numero) 205 Ė morto il compagno Aurelio Becca in «l’Unità», 20 novembre 1973
102
3.2 Le funzioni del commissariato
L’attività del Commissariato alla Giustizia era stata preceduta, prima del 25 aprile, da
un’intensa e vasta opera del Comitato di Liberazione Nazionale Avvocati e Magistrati.
Composto in un primo tempo da un magistrato e da quattro avvocati, e in seguito da due
magistrati apolitici e da cinque avvocati rappresentanti i partiti antifascisti, il Cln
Avvocati e Magistrati aveva provveduto nel periodo pre-insurrezionale a “gettare le basi”
per una prima gestione della giustizia, tra le altre cose studiando i problemi
dell’applicazione della legge sull’epurazione, predisponendo la nuova organizzazione dei
servizi giudiziari, promuovendo la costituzione della Commissione di Giustizia206.
Un lavoro prezioso e di cui potè beneficiare il Commissariato alla Giustizia, entrato in
funzione subito dopo l’insurrezione e distintosi immediatamente come uno dei più attivi,
tanto che nel breve periodo di vita della Giunta di governo fu all’iniziativa del
commissario alla giustizia che si dovettero gli unici atti effettivi di governo, prima
dell’arrivo degli angloamericani e del conseguente instaurarsi dell’amministrazione
militare207. Appena costituito, il commissariato a cui Becca venne posto a capo provvide
in effetti ad emanare alcune ordinanze urgenti, relative ad esempio alla proroga dei
termini legali208 e alla dirigenza della magistratura (uno dei primi atti ufficiali del
commissariato fu appunto la designazione del Primo presidente della Corte d’Appello di
Milano e del Procuratore Generale, scelti nelle persone di Aldo Cartasegna e Giuseppe
Ciaccia)209.
Una volta insediatosi il Governo Militare Alleato, il Commissariato alla Giustizia ne
divenne organo consultivo, cooperando con esso e con la Magistratura per la costituzione
delle Corti d’Assise Straordinarie, e relativi uffici del P.M., a Milano e in tutti gli altri
capoluoghi di provincia appartenenti al distretto della Corte d’Appello. A Milano, la
prima sezione della Corte d’Assise Straordinaria si inaugurò il 23 maggio, cioè a 19 giorni
di distanza dall’entrata in vigore del Dll 22 aprile 1945 n. 142. Ma non fu solo delle CAS
206 INSMLI, Clnl, b. 60, fasc. 220, cartellina n. 35, “Relazioni”, Relazione sull’attività del Commissariato alla Giustizia, s. d. 207 G. Grassi, Documenti sull’attività di Aurelio Becca a Milano nel periodo successivo alla liberazione, art. cit., p. 13 208 INSMLI, Clnl, Decreti del Cln lombardo, b. 2, fasc. 13, Decreto per la proroga dei termini
legali, 28 aprile 1945 209 Ivi, Decreto per la designazione dei magistrati, 28 aprile 1945
103
che il commissario si occupò. In una prima relazione sul funzionamento del
Commissariato alla Giustizia, Becca spiegò che il commissariato aveva svolto svariati
compiti: aveva provveduto a richiedere la sospensione dall’ufficio del personale
epurando; vigilato il servizio delle carceri giudiziarie e suggerito qualche provvedimento
diretto a migliorare le condizioni generali del servizio; prestato la sua assistenza alla
costituzione delle più importanti commissioni della provincia di Milano (tra cui quella di
Epurazione); applicato le leggi di Roma alle province, promuovendone la conoscenza
presso il pubblico; rappresentato al governo di Roma e a quello Alleato alcune fra le
principali esigenze della Lombardia nel campo legislativo e proponendo anche alcuni
provvedimenti; cooperato con gli ordini professionali per la costituzione delle regolari
rappresentanze degli stessi e per la formazione delle Commissioni di Epurazione; svolto
opera di conservazione degli archivi del cessato Ministero della Giustizia; fiancheggiato
l’opera dei funzionari dell’ordine giudiziario e del Governo Militare Alleato per ciò che
concerneva il funzionamento della giustizia in Lombardia; esercitato tutta la sua
influenza, sia al centro che in periferia, affinché venissero ristabilite, al più presto,
condizioni di legalità e di ordine210.
L’attività del Commissariato alla Giustizia fu, come del resto quella di tutti gli altri
commissariati, tutt’altro che trascurabile. In una relazione riassuntiva approntata nel
novembre ‘45, Becca osservò che il commissariato aveva saputo colmare «il vuoto
determinato nella Lombardia dalla carenza del potere statale e non ovviata
sufficientemente dalla presenza del Governo Militare Alleato»211. Un lavoro non del tutto
privo di ombre però, anzi: il commissario precisò infatti che i compiti erano stati svolti
«in modo imperfetto e approssimativo, data la esiguità dei mezzi a disposizione» e che,
anche per questo motivo, l’influenza dell’ufficio si era esercitata «più che nell’ambito
regionale, in quello provinciale»212. Deficit che, secondo il commissario, era necessario
colmare prospettando per il commissariato una futura attività «ispettiva» ed «estesa
effettivamente a tutta la Regione»213.
210 Ivi, b. 60, fasc. 220, cartellina n. 35, “Relazioni sulla giustizia”, Relazione sull’attività del Commissariato alla Giustizia, s.d. 211 Ivi, Relazione sulla futura attività del Commissariato alla Giustizia, 15 novembre 1945 212 Ibidem 213 Ibidem
104
Andando ad esaminare nel dettaglio l’operato di Becca, ci si accorge in effetti di quante
difficoltà avesse incontrato il commissariato nell’espletamento della sua funzione e, in
particolare, nella messa in atto della giustizia verso i collaborazionisti. E si capisce,
dunque, perché non sarebbe del tutto corretto individuare alla base del
“malfunzionamento” delle CAS una sola causa. Molteplici furono, in realtà, le ragioni
che concorsero a determinare una situazione non favorevole o, in taluni casi, del tutto
ostile all’adempimento della giustizia. Da un lato vi furono motivi politici, legati al fatto
che moltissimi giudici, avvocati, addetti giudiziari, benché fascisti, fossero rimasti, anche
dopo il crollo del regime, nelle loro posizioni. Si tratta della famosa questione
dell’“epurazione mancata”: punto su cui si tornerà più avanti. Quello che si vuole
sottolineare ora è il fatto che, in aggiunta alla questione della mancata defascistizzazione
dell’apparato giudiziario, a compromettere seriamente l’efficienza dell’amministrazione
della giustizia intervennero anche cause minori e, in un certo senso, più “banali”. Del
resto, già altri studi non hanno mancato di evidenziare che quello del Commissariato alla
Giustizia e degli altri commissariati fosse stato un lavoro profondamente condizionato da
questioni contingenti, le quali costrinsero ad occuparsi dei bisogni più immediati,
impedendo, di fatto, il verificarsi di quel profondo rinnovamento progettato e auspicato
all’indomani della Liberazione214.
Come già osservato da Grassi, le carte del commissariato forniscono in questo senso
notizie interessanti anche su svariati aspetti economico-sociali del periodo iniziale della
ricostruzione in Lombardia, aiutando ad inquadrare il difficile momento storico in cui la
resa dei conti con il fascismo si sarebbe dovuta attuare.
3.3 Limiti e criticità
Sin dai suoi primi passi, il Commissariato alla Giustizia si trovò a dover affrontare una
serie di questioni, imputabili principalmente alla distruzione umana e materiale che la
guerra aveva provocato e che influirono non poco sul regolare funzionamento della
giustizia e, in particolare, sull’attività delle Corti d’Assise Straordinarie. Penuria di
214 P. Lombardi, L’illusione al potere, op. cit., p. 154
105
magistrati e in generale del personale addetto ai servizi giudiziari, disordine nel
funzionamento degli organi giudiziari, carenza di fondi: furono soltanto alcuni dei
problemi che il commissario alla Giustizia si trovò quotidianamente a denunciare e che
provò, con i mezzi che aveva a disposizione, a risolvere.
Tali problematiche si palesarono già a maggio nella composizione degli uffici del P.M.,
quando in diverse città, per la carenza di magistrati, fu necessario ricorrere alla nomina
di avvocati (possibilità prevista, come si è visto, dal Dll 22 aprile 1945 n. 142): a Pavia,
ad esempio furono chiamati a far parte dell’ufficio del P.M. ben dieci avvocati, oltre alle
persone precedentemente nominate215. In altri casi, alcuni avvocati furono chiamati a
prestare servizio in più uffici del P.M. contemporaneamente: fu quanto accadde, ad
esempio, a Salvatore Mirabile e a Giuseppe Cavallotti, nominati componenti sia
dell’ufficio del P.M. della CAS di Como che di quello di Milano216.
Non era comunque solo l’insufficienza di magistrati ad essere registrata, ma anche quella
di giudici popolari. Come si è visto nel capitolo precedente, in alcune province lombarde
non fu possibile procedere alla nomina di un numero congruo: era difficile, del resto,
trovare anche in questa circostanza cittadini che rispondessero al requisito di “illibata
condotta politica e morale”. Scrisse Becca in una lettera del 29 settembre ‘45 indirizzata
al ministro di Grazia e Giustizia: «I 75 nominati ai sensi della legge 22 aprile sono
insufficienti perché (a parte che taluni di essi sono risultati irreperibili per varie cause)
non si riesce – ben spesso – specie nei sorteggi supplementari ad estrarre il numero
necessario perché l’urna è vuota217»!
La frequente mancanza di magistrati o, come in questo caso, di giudici popolari, rallentò
– come è ovvio – il lavoro delle CAS. Fu quello che capitò a Monza, ad esempio, dove, a
causa dell’impossibilità di nominare dei giudici popolari, la CAS si trovò costretta a
rinviare i processi218.
L’indigenza fu in effetti il secondo grande problema a cui il commissariato si trovò di
fronte. O, meglio, di cui l’attività del commissariato patì le conseguenze. Dopo la guerra,
215 INSMLI, Clnl, b. 60, fasc. 218, Decreto del Procuratore Generale presso la Corte d’Appello di Milano, 16 maggio 1945. I dieci avvocati nominati furono: Italo Sinforiani, Felice Zucca, Enzo Varini, Aligi Fieschi, Attilio Morini, Carlo Arbasino, Mario Vittorio Pelizza, Italo Zuffardi, Mario Botto, Gianrico Baglioni. 216 Ivi, Decreto del Procuratore Generale presso la Corte d’Appello di Milano, 9 maggio 1945 217 Ivi, Lettera di A. Becca al ministro della Giustizia, 25 settembre 1945 218 Ivi, Lettera di G. Benzola al commissario alla Giustizia, 15 gennaio 1946
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la situazione economica della Lombardia era, come già rilevato da una lunga serie di
studi, disastrosa: mancavano i generi alimentari, imperversava la borsa nera e i salari non
erano adeguati al costo della vita reale219. Questa situazione fu causa di malumori,
scioperi e, più in generale, di tensioni sociali in seno alla popolazione. La stampa locale
ci restituisce un quadro molto duro di quegli anni. Scriveva ad esempio «La Provincia
Pavese» nel giugno ‘46, a seguito di alcuni tumulti a Mortara contro il “sistema degli
ammassi”: «anche in provincia di Pavia la situazione alimentare è diventata difficilissima,
diremmo quasi disperata, tanto che non si sa se si potrà arrivare alla fine del mese con la
consueta razione di pane»220. Disagi che trovano conferma anche nelle relazioni dei
prefetti. «Negli ultimi giorni del mese si è manifestata nella zona di Zerbolò (Lomellina)
una agitazione di contadini e braccianti, estesa in un primo momento anche alle mondine
e ai mungitori, allo scopo di ottenere miglioramenti economici» – si legge in una relazione
prefettizia sempre del giugno ‘46221.
Analogamente, anche nella provincia di Sondrio – tradizionalmente dedita all’agricoltura
e all’allevamento – il secondo dopoguerra fu caratterizzato da una diffusa povertà e da un
altissimo tasso di disoccupazione, che costrinsero molti contadini ad emigrare verso aree
più “ricche” della pianura lombarda, quali il lodigiano o il varesotto222.
Tutto ciò colpì anche chi lavorava nel settore giudiziario. Già il 23 maggio, in una seduta
del Cln lombardo, il commissario fece presente come le retribuzioni per chi lavorava nei
tribunali fossero del tutto «insufficienti al fabbisogno della vita»223. Né, del resto, era una
situazione denunciata solo da Becca: ancora in agosto il capo dell’ufficio del P.M. della
CAS di Milano Carlo Druetti lamentò che il lavoro svolto da tutto il personale fosse
219 Per un resoconto della situazione economica della Lombardia nel dopoguerra si vedano i lavori di E. Tortoreto, Le condizioni economiche di Milano nel 1945 e la politica dei prezzi del Clnai in «Rivista storica del socialismo», 1958, 3, pp. 310-328 e Lotte agrarie nella Val Padana nel secondo dopoguerra 1945-1950 in «Movimento operaio e socialista», luglio-dicembre 1967, 3-4, pp. 225-288 220 Tumulto al mercato di Mortara in «La Provincia Pavese», 13 giugno 1946. L’articolo è citato da P. Lombardi in I Cln e la ripresa della vita democratica a Pavia, op. cit., p. 141 221 IPSREC, Fondo Ministero dell’Interno, Direzione Generale Pubblica Sicurezza, in copia dall’ACS, Relazione sulla situazione politico-economica della provincia di Pavia: giugno 1946 222 Un primo resoconto della situazione economica nella Valtellina degli anni immediatamente successivi alla guerra si trova nel saggio di Franca Lorrai Fassin, Le condizioni economiche della Valtellina nel primo dopoguerra in Valtellina e Valchiavenna 1945-’48: Economia politica cultura, Istituto Sondriese per la storia della Resistenza e dell’Età contemporanea, Quaderno n. 4, 2001, pp. 35-52 223 G. Grassi - P. Lombardi (a cura di), Democrazia al lavoro, op. cit., p. 180
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«grave, pesante e retribuito inadeguatamente»224. A ottobre, Luigi Gurgo, presidente della
Corte d’Appello di Pavia, scrisse una lettera accorata a Odoardo Pini, giudice popolare
della CAS di Milano, lamentandosi per l’assenza di una indennità speciale di fronte ad un
lavoro «così grave e straordinario» quale era quello svolto in seno alle CAS225.
Tale disagio, ovviamente, non potè non generare moti di protesta, scioperi, con
conseguente turbamento dell’ordine pubblico. Ma ebbe anche riflessi significativi sul
funzionamento della giustizia. «La Cancelleria della Sezione Speciale della Corte di
Cassazione in Milano ha necessità urgente di assumere una impiegata e di fare spese di
ufficio che non le sono consentite da mancanza assoluta di fondi» annotò Becca il 23
luglio, spiegando: «Per tale carenza di mezzi, il servizio della Cancelleria è gravemente
ostacolato: numerose sentenze non possono essere eseguite perché non c’è nessuno che
possa farne gli estratti, inviarli all’ufficio esecuzione ecc.»226.
Le criticità erano rese più acute dallo stato di indigenza in cui versavano anche altri
settori. La mancanza di alloggi da destinare ai magistrati – che il più delle volte non erano
residenti nella città in cui erano chiamati ad operare, ad esempio – influì non poco sul
funzionamento della giustizia. Ostilio Zezza, primo pretore di Milano e presidente della
CAS di Sondrio era privo di una casa a Milano, dove risiedeva con la famiglia. «Occorre
assolutamente mettere a posto questo degno magistrato che, senza alloggio come si trova,
non può servire alla giustizia come vorrebbe», scrisse Becca al commissario
all’Alimentazione Salvatore Aldisio227. Ma casi analoghi – di magistrati senza dimora –
si contano in gran numero nella corrispondenza di Becca con il Commissariato Alloggi.
Il che generò una situazione paradossale, in quanto le corti di Milano necessitavano di
magistrati e di cancellieri, ma poi la città non era in grado di fornire a questi ultimi alloggi
sufficienti. «Avremmo bisogno di far venire a Milano una ventina di Magistrati ed
altrettanti Cancellieri allo scopo di colmare i vuoti paurosi che esistono nel personale
dell’Ordine Giudiziario», scrisse Becca al prefetto Lombardi nel dicembre ‘45,
«senonché, vi è il gravissimo ostacolo degli alloggi per tali funzionari e per le loro
224 INSMLI, Clnl, b. 59, fasc. 216, Lettera del Capo dell’ufficio del P.M. presso la CAS di Milano C. Druetti al Cln della Lombardia, 3 agosto 1945 225 Ivi, Lettera di L. Gurgo a O. Pini, Milano, 12 agosto 1945 226 Ivi, Lettera di A. Becca al Procuratore Generale presso la Corte d’Appello di Milano, 23 luglio
1945 227Ivi, Lettera di A. Becca al commissario Alloggi di Milano, 13 settembre 1945
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famiglie, non essendo possibile persuadere soprattutto i Magistrati (che sono inamovibili)
a lasciare le loro sedi per venire a fare i “senzatetto” a Milano!»228
Tra le cause individuate dal commissario Becca alla base della scarsa efficacia della
giustizia vi erano anche alcune difficoltà nell’applicazione pratica delle leggi speciali nei
confronti del fascismo e del collaborazionismo (Dll 27 luglio 1944 n. 159 e 22 aprile 1945
n. 142), difficoltà generate da una certa “debolezza” della legislazione e in parte acuite
dal contesto di deficit materiali e umani di cui si parlava prima.
Già nelle prime settimane di attività, ad esempio, il commissario segnalò l’impossibilità
per le CAS di procedere verso quanti fossero imputabili di delitti fascisti o comunque di
delitti comuni commessi avvalendosi di qualità fasciste o commessi per motivi fascisti,
ma non altresì di delitti di collaborazionismo229. Il punto è di estrema rilevanza. Come si
è visto, il decreto n. 142 puniva i reati di fascismo solo se commessi da chi fosse imputato
di atti di collaborazionismo230 e, dunque, coloro che risultavano imputati di reati di
fascismo ma non altresì di collaborazionismo, venivano a trovarsi in una situazione
“indefinita” dal punto di vista legislativo. Si trattava di un esempio eloquente di quella
disorganicità della legislazione predisposta contro il fascismo e il collaborazionismo –
già evidenziata dalla storiografia – che, impedendo la possibilità di giudicare i delitti
fascisti in forma autonoma, minò la possibilità di restituire all’opinione pubblica le
responsabilità del governo di Salò231. Becca, intuita l’assurda vacatio legis, propose che
l’ufficio del P.M. – una volta verificata l’inesistenza di delitti di collaborazionismo –
trasmettesse per competenza gli atti o all’Alta Corte di Giustizia a Roma o alla Procura
228 Ivi, Lettera di A. Becca al prefetto di Milano, 3 dicembre 1955 229 Tra i reati fascisti vi erano: l’aver organizzato squadre fasciste, che avevano compiuto atti di violenza e di devastazione, l’aver promosso o diretto l’insurrezione del 28 ottobre 1922, l’aver promosso o diretto il colpo di stato del 3 gennaio ‘25, l’aver in seguito contribuito con atti rilevanti a mantenere in vigore il regime fascista. 230 Si consideri l’art. 2: «Le Corti straordinarie di Assise sono competenti a giudicare anche reati contemplati dall'art. 3 del decreto legislativo Luogotenenziale 27 luglio 1944, n. 159, commessi da chi sia imputato di reati previsti nell'articolo precedente». 231 Osserva Rovatti in Politiche giudiziarie per la punizione dei delitti fascisti in Italia, art. cit., p. 77: «La normativa straordinaria per la sanzione dei crimini fascisti emanata in Italia il 22 aprile 1945 [...] appare sul piano globale disorganica e, di conseguenza, inefficace al fine di codificare una tipologia generale relativa alle specifiche fattispecie di reato in grado di restituire all’opinione pubblica un’immagine complessiva della violenza fascista; inadatta dunque – come ogni altra forma di giustizia penale – a delineare un giudizio pubblico di lungo periodo in relazione alle responsabilità politiche della precedente classe dirigente nei sanguinosi conflitti del passato appena trascorso».
109
del Regno territorialmente competente, in ottemperanza a quanto previsto dagli articoli 1
e 2 del decreto 1944 n. 159232.
La giustizia verso i responsabili di collaborazionismo fu resa difficile, poi, anche dal fatto
che spesso risultava impossibile o comunque molto arduo stendere specifici atti di accusa
nei confronti di talune persone, in assenza di prove e/o testimoni. Soprattutto verso coloro
che erano stati inquadrati nelle formazioni armate era difficile provare se, nel corso dei
rastrellamenti, essi avessero anche effettivamente e personalmente ucciso o catturato
partigiani o comunque commesso atti di violenza contro la popolazione. Così pure
accadeva per coloro che avevano ricoperto cariche quali quelle di fiduciario politico o di
commissario prefettizio: solitamente le denunce erano basate su semplice presunzione e
pure in questi casi era difficile accertare se l’imputato avesse più o meno denunciato alle
Autorità nazifasciste i renitenti alla leva o gli appartenenti al movimento clandestino del
luogo. Ne conseguiva che, in sede di giudizio, molti venissero assolti per insufficienza di
prove. La questione fu al centro di una lettera dell’avvocato Franco Occhini, impegnato
quale P.M. presso la CAS di Milano, che nel luglio ‘45 sollecitò Becca a proporre una
modifica legislativa che attribuisse maggiori poteri ai giudici:
Quid juris in questi casi che ho citato sommariamente a solo scopo indicativo? Deve il
P.M. rinviare a giudizio sapendo a priori che il più delle volte la Corte assolverà per
insufficienza di prove? Evidentemente no. D’altra parte l’archiviazione del procedimento
non risponderebbe ai fini della Giustizia e porrebbe in circolazione individui socialmente
e politicamente pericolosi.
Sorge così la necessità di dare al Giudice più ampi poteri e di liberarlo dalle pastoie di
una legge purtroppo imperfetta. è desiderio di tutti che vengano apportate le seguenti
aggiunte:
1° Rinvio al tribunale ordinario dei casi di particolare tenuità sostituendo agli art. 51, 54,
58 del Codice Penale Militare di Guerra la reclusione da 1 a 10 anni [...]
2° Estensione dell’applicabilità dell’art. 205 del Codice Penale per cui in caso di
necessaria archiviazione per i motivi predetti, il Giudice abbia la possibilità di ordinare
con lo stesso provvedimento con cui ordina la trasmissione degli atti d’archivio
232 INSMLI, Clnl, b. 60, fasc. 218, Lettera di A. Becca al Procuratore Generale del Regno, 16 giugno 1945
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l’applicazione delle misure di sicurezza sostituendo alla denominazione confino quella di
Campo di Concentramento233.
Anche Becca avvertì tale problema e, come di consueto, propose un rimedio semplice ma
concreto: quello di affiggere, in tutte le sedi degli uffici di P.M. presso le CAS, gli elenchi
di quei detenuti politici per i quali mancavano le prove di colpevolezza, con invito al
pubblico di fornire – qualora possibile – informazioni234.
Un ultimo accenno va alla difficoltosa applicazione dell’art. 9 del Dll 27 luglio 1944 n.
159, e cioè della procedura di confisca dei beni a vantaggio dello Stato di coloro che
avevano tradito la Patria ponendosi spontaneamente ed attivamente al servizio degli
invasori tedeschi. Più che alla fragilità della legislazione, in questo caso l’impasse era
dovuto in parte alla difficoltà tecnica nell’identificare il patrimonio degli imputati – che
spesso riuscivano ad occultare i propri beni o ad intestarli ai congiunti (fu il caso
soprattutto, come si vedrà, degli industriali collaborazionisti) – in parte alla cronica
mancanza di sequestratari235.
3.4 Una questione “collaterale”: la situazione carceraria
Come si è visto nel capitolo precedente, diverse province lombarde si trovarono a dover
fare i conti con un generale malfunzionamento delle carceri e, in particolare, con il
problema del sovraffollamento di detenuti, dovuto all’enorme mole di procedimenti
istruiti dalle CAS.
In Lombardia, e specialmente nella provincia di Milano, il controllo e la gestione delle
carceri costituirono per il commissario Becca una delle sfide maggiori assieme alla
costituzione delle CAS. A partire dalle criticità delle prigioni, in seno al commissariato
lombardo si svilupparono riflessioni che si inserirono in un ampio dibattito politico
nazionale su quali dovessero essere i caratteri e gli obiettivi della detenzione carceraria
nella nuova Italia democratica, rispetto all’ideologia e alla prassi del passato regime.
233Ivi, Lettera dell’avv. F. Occhini ad A. Becca, 26 luglio 1945 234 Ivi, Lettera di A. Becca al Procuratore Generale del Regno, 4 luglio 1945 235 Ivi, Lettera di A. Becca al Procuratore Generale della Corte di Appello di Milano, 26 giugno 1945
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Tra le carceri più importanti – per storia e dimensione – di tutta la Lombardia è certamente
S. Vittore a Milano236. Occupato durante la dominazione nazi-fascista dalle SS tedesche,
dopo il 25 aprile il carcere era stato teatro di un’insurrezione di alcuni detenuti politici;
in seguito, ripristinato l’ordine, i suoi raggi erano stati spartiti tra l’amministrazione
italiana e quella anglo-americana. Come le altre prigioni lombarde, anche quella di S.
Vittore era afflitta dal sovraffollamento, tanto che già a metà maggio ‘45 il numero dei
prigionieri era di gran lunga superiore alla capienza dello stabile (3630 rispetto a 1994)237.
La situazione all’interno della prigione era abbastanza caotica: basti dire che nei confronti
di molti detenuti – per la maggior parte catturati dalle formazioni dei Volontari della
libertà – non era stato compilato alcun verbale o rapporto informativo, da cui si potesse
desumere il motivo dell’arresto238. Molti, dunque, potevano trovarsi in stato di arresto
ingiustificatamente. Ma non erano solo questi i problemi. Le relazioni approntate da
Becca, dai direttori che si susseguirono alla guida del carcere e dai comandanti, ci
restituiscono uno scenario impietoso di S. Vittore nei mesi successivi alla Liberazione,
caratterizzato da una generale fatiscenza dello stabile – gravemente danneggiato durante
la guerra e poi mal ricostruito – e soprattutto dalla mancanza nonché dalla diffusa
corruzione del personale. Senza appello le parole di Vasco Coratti, comandante del
carcere dal 1° settembre ‘45, che attribuì il disordine di S. Vittore «totalmente,
esclusivamente, al personale tutto compresi i graduati, veri e propri capi di una vasta
associazione a delinquere, di cui ne fanno parte anche alcuni elementi detenuti fascisti e
comuni»239.
Notevoli erano anche le preoccupazioni rispetto all’utilizzo indiscriminato delle armi da
fuoco all’interno del carcere, fonte di diversi incidenti. Secondo il direttore Attilio Tonini,
il servizio che veniva espletato dalla polizia ausiliaria era «andato peggiorando di giorno
in giorno, precipitosamente, per l’assoluta mancanza di disciplina della maggioranza
degli agenti e purtroppo anche di molti ufficiali» ed era soprattutto «preoccupante l’uso
inconsiderato delle armi che [poteva] portare a gravi conseguenze nonché l’esautorazione
236 In proposito una ricca documentazione è in INSMLI, Clnl, b. 60, fasc. 219 237 Ivi, Lettera “Carceri Giudiziarie di Milano” del Procuratore Generale della Corte d’Appello di
Milano alla Commissione Alleata di Controllo e al commissario alla Giustizia, 17 maggio 1945 238 Ivi, Lettera “Detenuti giudicabili”, del Procuratore Generale della Corte d’Appello di Milano al Comando di Piazza, 13 giugno 1945 239 Ivi, Rapporto del Maresciallo Maggiore Comandante V. Coratti al prefetto della provincia di Milano, 3 settembre 1945
112
di tutto il personale, Direttore compreso, che [era] praticamente alla mercè degli agenti di
polizia240.
La situazione non migliorò nei mesi successivi. Ancora l’8 febbraio ‘46, Becca inviò al
Ministero di Grazia e Giustizia un rapporto ben poco confortante:
La struttura antiquata di tutto il fabbricato di questo carcere è abbastanza nota a codesto
Ministero [...]
Nei meandri sotterranei si trovano tuttora cumuli ingenti di materiali vari, di terre e
pietriccio.
Da tanti anni nel fabbricato del carcere non viene eseguito non dico un lavoro di riforme,
rispondente ai dettami della moderna scienza e tecnica penitenziaria, ma non è stata
neppure effettuata alcuna riparazione più o meno organica e razionale [...]
Le riparazioni eseguite in malo modo ed il numero considerevole dei detenuti che sono
stati necessariamente ristretti in certi raggi (900 per raggio circa) in attesa che venissero
riparati gli altri raggi, hanno favorito la rottura ed il deterioramento di tanto materiale. I
lavori di riparazione hanno proprio lasciato molto a desiderare [...]
Sta di fatto che, dato il numero dei detenuti, 3000 circa, ristretti in 4 raggi [...] la sicurezza
e l’ordine lasciano molto a desiderare [...]
A questo ha contribuito la inettitudine del personale di custodia, vecchio e nuovo, e la
deficienza dei sottufficiali sia per numero che per qualità241.
Quello di indigenza e corruzione fu un tragico connubio che di fatto consentì a molti
detenuti – come denunciato da varie relazioni – di evadere, andando a vanificare i giudizi
espressi dai tribunali (CAS e non solo). Fu quanto successe ad esempio nel caso dei due
prigionieri, Carmelo Lanzafame e Salvatore Floresta, che, «approfittando della libertà che
ancora godono tutti i detenuti di poter girare da una cella all’altra, ed anche da un raggio
all’altro, sia per la mancanza delle serrature alle celle degli attuali 4 raggi [...] e sia per la
non praticità del servizio degli agenti ausiliari» – scrisse il direttore Tonini il 1° ottobre
‘45 – riuscirono ad evadere dal carcere alla fine di settembre ‘45242. Ma la lista di coloro
240 Ivi, Lettera del Direttore delle Carceri A. Tonini al questore di Milano, 8 ottobre 1945 241 Ivi, Breve relazione sulle carceri giudiziarie di S. Vittore dai giorni dell’insurrezione ad oggi del direttore delle carceri giudiziarie di Milano A. Tonini al Ministero di Grazia e di Giustizia, alla procura Generale del Regno di Milano, al commissario alla Giustizia A. Becca, 8 febbraio 1946 242 Ivi, Rapporto sull’evasione di n. 2 detenuti, del direttore delle carceri giudiziarie di Milano A. Tonini al Maresciallo Capo Di Candia, Milano, 2 ottobre 1945
113
che evasero è decisamente lunga: il 1° novembre Coratti segnalò la fuga di ben 15
detenuti243. Né ad evadere furono solamente sconosciuti o detenuti di poco conto: tra i
fuggitivi figura niente meno che Giampietro Domenico Pellegrini, ex ministro delle
Finanze della RSI, che era stato condannato dalla CAS di Milano a trent’anni di
reclusione244.
I problemi delle carceri lombarde erano ravvisabili anche nelle altre carceri d’Italia245.
Emblematica la rivolta scoppiata nel carcere di Regina Coeli a Roma nel luglio ‘45: essa
fu così violenta che fu necessario ricorrere all’intervento dei carri armati e all’uso di armi
automatiche per evitare evasioni di massa246. In generale, dunque, la disastrosa situazione
carceraria fu negli anni successivi alla Liberazione una vera e propria «spina nel fianco»
per l’amministrazione della giustizia247.
Nel ‘47, le morti di alcuni detenuti, a seguito di brutali percosse da parte di alcuni agenti
di custodia nelle carceri di Regina Coeli e di Poggioreale a Napoli, furono soltanto la
punta dell’iceberg di una lunga fila di violenze che imposero all’attenzione
dell’Assemblea Costituente la questione del sovraffollamento delle carceri e delle
precarie condizioni di vita dei prigionieri, nonché delle generali difficoltà di governo e di
funzionamento degli istituti penitenziari a livello nazionale. Il dibattito sulle carceri non
era secondario ed era tanto più importante per un Paese come l’Italia che era appena uscito
dalla dittatura e stava avviando i suoi primi passi verso la democrazia. Lo stato delle
carceri era in un certo senso la cartina al tornasole della trasformazione democratica
dell’Italia. Da più parti politiche ci si rendeva conto che in una democrazia non era
ammissibile che, ad esempio, in un carcere dalla capienza di 1500 persone – come quello
di Poggioreale – fossero reclusi 4000 detenuti; né soprattutto si poteva accettare che si
usassero all’interno delle carceri gli stessi metodi, violenti, adottati in precedenza dal
fascismo. Il carcere doveva essere semmai un luogo di rieducazione, finalizzato al
243 Ivi, Rapporto sull’evasione di n. 15 detenuti, del comandante del Carcere V. Coratti al Ministero di Grazia e di Giustizia, 1° novembre 1945 244 ACS, Mgg, Gabinetto, Archivio Generale, Affari Diversi, fasc. 38 “Corti d’Assise
Straordinarie”, b. 37 245 Sulle cronache carcerarie di quegli anni si veda: G. Neppi Modona, Carcere e società civile in Storia d’Italia, vol. V, I documenti, Torino, Einaudi, 1973, p. 1977 ss. 246 L’episodio della rivolta nel carcere di Regina Coeli è citato in un saggio di Neppi Modona incentrato sull’esperienza di Togliatti al Ministero di Grazia e Giustizia: G. Neppi Modona, Togliatti guardasigilli, in A. Agosti (a cura di), Togliatti e la fondazione dello Stato democratico, Milano, Franco Angeli, 1986, pp. 285-321 247 Idem, p. 300
114
reinserimento del detenuto nella società. L’urgenza di promuovere una pronta riforma
della situazione carceraria fu al centro di un’interrogazione parlamentare promossa, a
partire dai fatti di Poggioreale, dall’onorevole Sandro Pertini nel dicembre ‘47:
Il fascismo era un movimento di violenza e non poteva logicamente evitare che si
compissero atti di violenza, soprattutto quando questi erano consumati in danno di
detenuti politici. C’era un’omertà, la quale arrivava fino alle ultime guardie carcerarie.
Ma io mi stupisco che questo avvenga nella nostra Repubblica, in pieno regime
democratico.
Noi questo non dobbiamo permettere nel modo più assoluto e dobbiamo far sì che la
riforma si compia soprattutto in questo senso e che non resti lettera morta sulla carta [...]
Oggi la persona umana non è rispettata. Questo lo si deve al fascismo, che ha fatto della
violenza una norma di vita del popolo italiano; lo si deve anche alla guerra che, come
tutte le guerre – e noi lo sappiamo e per questo le combattiamo con tanta tenacia – ridesta
gli istinti primordiali e la bestia trionfa sull’uomo. Appunto per questo, se noi vogliamo
veramente rinnovare il costume morale e politico del popolo italiano, dobbiamo fare di
tutto perché la persona umana debba essere rispettata. Questo concetto deve stare alla
base della Repubblica e della democrazia e questo concetto deve essere tutelato dalla
legge248.
La visione del carcere come luogo deputato alla rieducazione del condannato ispirò anche
l’operato di Becca. Nelle sue carte, il commissario dimostrò un’attenzione costante verso
i problemi sociali che derivavano dal malfunzionamento delle carceri. Soprattutto verso i
giovani e i giovanissimi condannati per crimini di collaborazionismo Becca dispiegò una
particolare sensibilità. Si è visto nel capitolo precedente come le CAS lombarde
applicassero nei confronti dei minorenni il principio della minore età, riducendo in
maniera più o meno considerevole le pene previste dalla legge e consentendo, a taluni, di
evitare il carcere. Tuttavia, nonostante l’applicazione di tale principio, il numero dei
giovanissimi che finivano negli istituti penitenziari era decisamente alto: basti pensare
che nel luglio ‘45 presso il solo educatorio minorile di Corso Vercelli si trovavano reclusi
248 Assemblea Costituente, Seduta di mercoledì 19 novembre 1947, Interrogazione parlamentare di Sandro Pertini, pp. 2180-1
115
oltre duecento minorenni delle classi 1927-1928249. Becca riteneva, come scrisse in una
lettera al Procuratore Generale della Corte d’Appello di Milano, che alcuni dei reclusi,
specialmente giovani, si dovessero considerare come «vittime di una perniciosa
propaganda» e che avrebbero potuto presentare «possibilità di un ravvedimento». Per
questo si mosse in loro favore, chiedendo, ad esempio, che negli interrogatori i P.M.
ricavassero «elementi di segnalazione e di discriminazione»250.
Le riflessioni di Becca rispetto alle carceri e la grande attenzione dispiegata dal
commissario verso i problemi sociali ad esse connessi, rivelano la tensione vissuta, da chi
amministrava la giustizia in transizione, tra la necessità di punire da un lato e quella di
ricostruire dall’altro. Ci si rendeva conto, cioè, che occorreva procedere penalmente verso
quanti si erano resi responsabili di reati di collaborazionismo, però c’era anche la
consapevolezza che ad un certo punto la stragrande maggioranza dei condannati – fatta
eccezione per quelli che avevano commesso reati particolarmente gravi e che dovevano
essere pertanto, in base alla legge allora in vigore, condannati a morte o all’ergastolo –
dovesse essere reintegrata in qualche modo nella società, per contribuire alla ricostruzione
e permettere al Paese di voltare pagina.
Certo a noi può apparire scontata l’idea che i detenuti debbano essere trattati come
“persone umane” – per dirla con Pertini – ma, per un popolo che era appena uscito da una
guerra civile e da vent’anni di «diseducazione», probabilmente lo era molto meno. Il
difficile passaggio di costruzione della democrazia passò anche dalla ricezione di questo
assunto. Il commissario alla Giustizia diede, in materia, un importante contributo,
preoccupandosi non solo di denunciare le situazioni di cattivo funzionamento delle
carceri, ma anche predisponendo misure concrete per rendere più accettabile la situazione.
In una lettera del 10 agosto ‘45 indirizzata al segretario personale di Togliatti, Massimo
Caprara, Becca, constatando quanto fosse difficile trovare persone «nostre» e al tempo
stesso dotate di competenze tecniche, propose quattro provvedimenti d’urgenza: 1) creare
immediatamente campi di concentramento per sfollare il carcere; 2) eseguire urgentissimi
lavori di sicurezza nel carcere; 3) inviare guardie carcerarie per integrare il
deficientissimo numero di quelle che vi erano attualmente, e soprattutto per risanare la
249 INSMLI, Clnl, b. 60, fasc. 218, Lettera del Procuratore Generale della Corte d’Appello di Milano ad A. Becca, 17 luglio 1945 250 Ivi, Lettera al Procuratore Generale della Corte d’Appello di Milano dal commissario alla Giustizia A. Becca, 2 luglio 1945
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dilagante immoralità e indisciplina che vi regnava; 4) coinvolgere direttamente magistrati
e cancellieri per accelerare le istruttorie, in quanto i ritardi in questo campo costituivano
uno dei maggiori elementi di indisciplina e malumore fra i carcerati251.
3.5 «Un’epurazione necessaria ma impossibile»
«Quanto alla epurazione… sunt lacrimae rerum!» scriveva Becca a Natoli nel marzo
‘46252.
La mancata defascistizzazione degli apparati statali – magistratura e forze di Pubblica
Sicurezza in primis – fu una delle questioni più spinose per il commissariato, sin
dall’inizio della sua attività. L’amministrazione brulicava di fascisti. Lo si vede
scorrendo, all’interno della cartella sull’epurazione, le numerose segnalazioni verso
avvocati o magistrati che, chiamati a lavorare nelle CAS – come avvocati difensori o
come P.M. – si scoprì avessero assunto la tessera del PNF o, addirittura, svolto
propaganda fascista dopo l’8 settembre. Giambattista Migliore, Pietro Longhi, Cesare De
Bernardis: sono solo alcuni dei nomi che emergono dalle carte. Soprattutto all’inizio,
quando ancora non era così chiara la gravità della penuria di personale, Becca richiese
per i casi più eclatanti la sospensione dall’incarico. «L’avvocato Pietro Longhi, addetto
al P.M. presso la Corte d’Assise Straordinaria di Lecco, risulta essersi iscritto al p.f. in
occasione del delitto Matteotti il 26 giugno 1924 e ha fatto, poi, parte della Commissione
Reale fascista» osservò ad esempio in un rapporto dell’ottobre ‘45 al Procuratore
Generale. «Tali qualità, e più di tutte la prima, rendono il Longhi assolutamente inidoneo
all’ufficio di P.M. e pertanto prego la S.V. di volere, previa se del caso inchiesta, revocare
la nomina conferita allo stesso»253.
Perfino la scelta del direttore delle carceri di S. Vittore a maggio fu difficile per via della
conclamata fede fascista di alcuni dei papabili candidati. Gli Alleati proposero che a
dirigere l’istituto fosse, per via delle rinomate competenze tecniche, Aldo Ghedini, che
251 Ivi, Lettera di A. Becca a M. Caprara, 10 agosto 1945 252 Ivi, b. 59, fasc. 216, Lettera di A. Becca a U. Natoli, Ministero della Giustizia, 26 marzo 1946 253 Ivi, Lettera di A. Becca al Procuratore Generale presso la Corte d’Appello del Regno, 3 ottobre 1945
117
già aveva ricoperto l’incarico dal febbraio all’agosto ‘44. Becca però fece presente che
tale nomina avrebbe potuto creare «una cattiva impressione nell’opinione pubblica», per
via dei precedenti trascorsi fascisti del personaggio: a quanto pare, infatti, quest’ultimo
non solo era stato molto amico del famigerato magistrato Antonio Albertini (colui che,
per aver assolto Mussolini e i suoi complici nel processo Matteotti, aveva fatto una
sfavillante carriera durante il Ventennio) ma, alla precedente guida del carcere di S.
Vittore non si era nemmeno mai curato di alleviare le condizioni dei detenuti politici, a
carico dei quali, da parte dei tedeschi e dei fascisti venivano praticate le più crudeli
torture254.
Il discorso sulla magistratura è assai complesso. Dalle carte del commissario apprendiamo
che in Lombardia vi fosse non solo – come già visto – una carenza “quantitativa” di
magistrati, ma anche “qualitativa”. Becca riflettè sulla questione a seguito dello scoppio
di un caso politico-giudiziario di grande risonanza mediatica, che vide coinvolto l’ex capo
della provincia di Genova nonché sottosegretario alla guerra della RSI Carlo Emanuele
Basile255. Quest’ultimo venne processato davanti alla CAS di Milano verso la metà del
giugno ‘45 con l’accusa di aver cagionato la deportazione di un grandissimo numero di
operai in Germania; tuttavia, nonostante il capo di imputazione gravissimo, riuscì ad
ottenere, grazie alla concessione delle attenuanti generiche, un notevole sconto di pena,
tanto da essere alla fine condannato a soli vent’anni di reclusione.
La vicenda scosse profondamente l’opinione pubblica, soprattutto quella lombarda e
ligure, tanto che il giorno stesso della proclamazione della sentenza esplosero violente
manifestazioni di piazza e una delegazione di operai si recò alla sede del Cln lombardo
per chiedere che il giudizio verso Basile venisse rivisto, perché «senza una vera
epurazione», osservarono gli operai «non si può tirare avanti e se noi vogliamo costruire
una vera e giusta democrazia ci devono essere degli individui veramente democratici»256.
Il giorno successivo alla sentenza il Clnai intervenne nella questione, approvando un
ordine del giorno in cui chiese al governo «una immediata revisione delle leggi punitive
dei reati fascisti» e anche la Segreteria della Federazione provinciale milanese del partito
254 Ivi, Lettera di A. Becca al Sig. Cap. Daly, Direzione della Pubblica Sicurezza, 21 maggio
1945 255 L. Bordoni, La sentenza Basile e il dibattito sul funzionamento delle Corti d’assise straordinarie lombarde, art. cit. La vicenda Basile sarà dettagliatamente esaminata nel capitolo successivo. 256 G. Grassi - P. Lombardi (a cura di), Democrazia al lavoro, op. cit., pp. 250-1
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socialista convocò una riunione per discutere il senso di delusione provocato nel Paese
dalla mancata epurazione e dalle difficoltà economiche dovute al mancato adeguamento
dei salari ai prezzi crescenti257.
Una protesta, dunque, quella verso la sentenza Basile, che appare quale espressione
eloquente di un particolare momento storico, caratterizzato in effetti da un profondo
malessere: quest’ultimo scaturiva sia dalla crisi economica, che dalla mancata epurazione
in seno agli organi giudicanti, rivelatisi alla prova dei fatti incapaci di «valutare
abbastanza i misfatti di un criminale di guerra»258.
Becca intervenne nella questione con una disamina lucida e disincantata della situazione
della magistratura, disamina che resta quale preziosa riflessione di un attivo testimone
contemporaneo rispetto alla situazione dell’epoca. Il commissario riconosceva il fatto che
la magistratura fosse sostanzialmente un corpo “infettato” dal fascismo; al tempo stesso,
però, ben intuiva anche che, data la sua fortissima caratterizzazione tecnica, fosse molto
difficile rimpiazzare figure essenziali per il suo funzionamento:
Sono andato al palazzo della giustizia sorpreso dalla strabiliante notizia dell’assoluzione
del criminale di guerra, che tutti noi conosciamo e che ha nome Basile […] Voi non
conoscete realmente l’andamento della magistratura, della giustizia […] Esso è una
macchina vecchia, logora, è una macchina che purtroppo ha subito anch’essa l’infezione
del fascismo […] Un fenomeno che non permette subito di fare totali cambiamenti; è un
fatto che non si possono formare in poco tempo dei competenti poiché la magistratura è
regolata da leggi immense […] In questo ambiente è impossibile portare di colpo una
rivoluzione, specialmente per noi che siamo distanti dal governo, il quale fra l’altro non
interferisce sempre bene, e che abbiamo gli alleati […]259
257 Spontanea manifestazione di popolo contro la sentenza Basile in «Corriere della Sera», 17 giugno 1945. Ecco il testo completo dell’odg del Clnai: «Il Clnai, riunitosi in seduta straordinaria, in seguito alla sentenza emanata nei confronti del traditore e criminale Basile, partecipe del senso di inquietudine diffusosi nell’opinione pubblica dopo tale sentenza ed interprete della volontà generale che nessun criminale nazifascista sfugga alla condanna adeguata alle proprie responsabilità, si impegna a richiedere al Governo una immediata revisione delle leggi punitive dei reati fascisti, così da renderle più rispondenti ad una giustizia rapida e integrale, anche in rapporto alla particolare situazione creatasi nell’Italia settentrionale per il prolungarsi dell’oppressione nazifascista. Nella certezza che l’opera della Giustizia, premessa indispensabile della ricostruzione del Paese, sarà condotta fino in fondo con il dovuto rigore, invita la popolazione a contenere l’espressione del proprio risentimento e a riprendere disciplinatamente la propria attività». 258 G. Grassi - P. Lombardi (a cura di), Democrazia al lavoro, op. cit., pp. 250-1 259 Ivi, p. 252
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Becca, insomma, era pienamente consapevole del fatto che ad essere stati “fascistizzati”
non fossero solo quei magistrati che avevano aderito in maniera convinta e plateale al
regime, bensì tutti coloro che avevano costruito la propria carriera durante il Ventennio e
che, dunque, si erano trovati a dover acquisire – più o meno convintamente – la tessera
del PNF. Ed era altrettanto consapevole, dunque, che solo una riforma profonda e
strutturale della magistratura avrebbe potuto ovviare allo stato di grave disagio in cui
versava la macchina giudiziaria, ma che per il momento era giocoforza servirsi degli
uomini a disposizione. Con non minore efficacia descrissero la situazione le parole di
Pietro Saraceno, secondo cui quella della magistratura era «un’epurazione necessaria ma
impossibile»260.
Del resto, i magistrati togati non erano l’unico elemento di fragilità all’interno della Corte
d’Assise Straordinaria. Anche i giudici popolari, quelli cioè che avrebbero dovuti essere
scelti dai Cln con il requisito dell’“illibata condotta morale” si mostrarono inaffidabili.
Non solo perché molti di essi erano “infettati” dal fascismo, come i colleghi togati, ma
anche per via delle loro scarse competenze tecniche di cui, come si è visto nel capitolo
precedente, poterono spesso giovarsi i professionisti – magistrati e avvocati – per ribaltare
gli esiti delle sentenze. Tale debolezza strutturale della corte fu, assieme alla
fascistizzazione della magistratura, una delle principali cause del “fallimento” del
processo Basile, secondo Becca:
Vi dirò ora come sono composte le Corti d’assise straordinarie. C’è un presidente, ci sono
quattro giudici popolari che hanno la parità di diritto col presidente. Come sono stati
nominati questi quattro giudici popolari? In questo modo. Noi abbiamo chiesto ai cinque
partiti che costituiscono il Cln di fare ciascuno un numero uguale di candidati, estratti tra
le file dei combattenti per la libertà, cioè partigiani, ex partigiani o almeno partecipanti
alla lotta contro i nazifascisti. Su centocinquanta nomi il presidente ne ha scelti
settantacinque non so con quale criterio. Di questi settantacinque ogni volta ne vengono
estratti quattro, più un supplente e così talvolta può accadere che vengano scelti degli
individui buoni a nulla. Fin dal primo giorno mi sono accorto che la giuria di turno in
questa quindicina è debolissima, come pure il presidente. E così si combinano i guai.
260 P. Saraceno, I magistrati italiani tra fascismo e repubblica: brevi considerazioni su un'epurazione necessaria ma impossibile, “Clio”, n. 1, 1999, pp. 65-109
120
Infatti nel processo Basile si sono arrestati dinanzi a due medaglioncini al valore che
erano stati conferiti a questo criminale con decreto 1920 […]261
Né Becca fu l’unico a sollevare la questione dell’incompetenza dei giudici popolari.
«Nota nominativa di elementi da far inserire quali giudici popolari, sperando che altri ne
possano essere iscritti, ma che siano veri», osservò Odoardo Pini nell’ottobre ‘45, «in
modo che la società abbia dei giudici degni di questo nome e rispondano in modo assoluto
al compito a noi affidato per l’epurazione, perché fino a oggi non funziona»262.
Non fu, comunque, solo la mancata epurazione della magistratura ad avere conseguenze
nefaste per il buon funzionamento della giustizia verso i collaborazionisti. Anche la
mancata epurazione delle forze di Pubblica Sicurezza ebbe delle ripercussioni altrettanto
negative.
All’interno della polizia, soprattutto, la fascistizzazione del personale fece sentire i propri
effetti deleteri mescolandosi a deficit materiali e di personale e ad una corruzione
dilagante e assai grave. In una relazione stesa il 31 agosto l’avvocato Francesco Vacca
faceva presente a Togliatti che la Questura non funzionava «in modo assoluto»: diverse
erano, ad esempio, le scarcerazioni per l’archiviazione delle pratiche, a causa dei tempi
lunghi degli interrogatori263.
Il malfunzionamento della Questura emerse con particolare evidenza in un caso scoppiato
a poche settimane di distanza da quello Basile, e che vide protagonista un personaggio
molto noto al Paese intero: Guido Donegani, il potente presidente dell’azienda chimica
Montecatini. Quest’ultimo, dopo la Liberazione, era stato catturato su denuncia del Clnai
che lo accusava di aver collaborato col tedesco invasore e di aver contribuito con atti
rilevanti a mantenere in vigore il regime fascista. Nonostante i gravi capi d’imputazione,
verso la metà del mese di luglio Donegani venne scarcerato per mancanza di denunce a
suo carico: era sparito dalla Questura, infatti, il faldone contenente i documenti necessari
all’istruttoria.
La scarcerazione scatenò – come già accaduto per la sentenza Basile – l’indignazione
della popolazione e in particolare degli operai della Montecatini, che scioperarono in
261 G. Grassi - P. Lombardi (a cura di), Democrazia al lavoro, op. cit., p. 253 262 INSMLI, Clnl, b. 60, fasc. 218, Lettera di O. Pini ad A. Becca, ottobre ‘45 263 Ivi, b. 59, fasc. 216, Lettera di F. Vacca a P. Togliatti, 31 agosto 1945
121
segno di protesta264. Sulla scandalosa vicenda il Clnai si espresse in una seduta del 18
luglio, imputando alla Questura la «responsabilità politica, morale e burocratica
dell’accaduto» e individuando in seno a quest’ultima «un’associazione che ci è nemica»
e «che fa di tutto per impedire che la polizia funzioni bene»265.
In una relazione sul funzionamento della giustizia approntata qualche giorno dopo, anche
Becca denunciò la corruzione della Questura, oltre che «il cattivo funzionamento
dell’organo inquirente» e, in particolare, del capo dell’ufficio del P.M., il consigliere
Druetti266.
Il caso Donegani fu certamente quello che destò più clamore – data la rilevanza del
personaggio – ma non mancarono altrettanto misteriose e discusse sparizioni di
documenti, fondamentali ai fini dell’istituzione delle istruttorie. Fu il caso, ad esempio,
dei fascicoli raccolti dal Cln aziendale della Società Breda, che contenevano le liste degli
operai che erano stati inviati in Germania su ordine del dirigente Aldo Vicini. «Poiché
purtroppo sono palesi le manovre tendenti a proteggere e a salvare determinati individui
che devono rispondere di fronte al popolo italiano di gravi delitti», osservò preoccupato
il prefetto Lombardi, «temiamo che tale sparizione non debba ascriversi ad un
incomprensibile smarrimento d’ufficio, ma bensì ad una colpevole sottrazione che non
può essere tollerata»267.
3.6 Un reato frequente: il collaborazionismo “economico”
Tra le carte del commissariato uno dei reati di collaborazionismo che appare più
frequentemente è quello di tipo “economico”. Oltre a quelli di Donegani e di Vicini,
affiorano infatti diversi nomi di grandi industriali accusati di aver collaborato col tedesco
invasore, come quello di Giovanni Battista Caproni: il famoso “Conte di Taliedo”,
ingegnere aeronautico, imprenditore, nonché pioniere dell’aviazione nazionale, a cui sono
264 Lo scandalo Donegani. Il prefetto ci dichiara di aver appreso la notizia da “l’Unità” - Che succede in Questura? - Il “dossier” sul magnate scomparso - Agitazioni alla “Montecatini” in «l’Unità», 17 luglio 1945. Al pari della vicenda Basile, anche il caso Donegani verrà ampiamente analizzato nel capitolo sesto. 265 G. Grassi (a cura di), “Verso il governo del popolo”, op.cit., pp. 400-2 266 INSMLI, Clnl, fasc. 220, b. 35, Relazione sul funzionamento della giustizia, 20 luglio 1945 267 Ivi, b. 60, fasc. 218, Lettera del prefetto R. Lombardi ad A. Becca, 29 agosto 1945
122
tuttora dedicati un museo e un aeroporto, nonché numerose vie a Trento, Milano e
Varese268.
Ma nel novero di coloro che avevano prestato una forma di collaborazionismo economico
figurano anche personalità “minori”, conosciute più che altro a livello locale, come
Ernesto Porrino, a capo di una ditta di autotrasporti nel biellese, o Mario Console, alla
guida di due fabbriche di carta nel milanese: la Console & C. e la I.N.C.A.
Punire gli industriali che avevano collaborato col tedesco invasore era uno degli obiettivi
che il Clnai si era prefissato sin dal dicembre ‘43269, ma la messa in pratica di tale
proposito fu tutt’altro che semplice. Grazie alla larga disponibilità dei mezzi a
disposizione e alle amicizie altolocate, infatti, gli industriali riuscirono generalmente a
scampare alla giustizia: alcuni, nonostante le ammonizioni del Clnai, ripararono oltre
frontiera270; altri – come Donegani e Vicini – inquinarono o fecero sparire le prove della
loro colpevolezza; altri ancora – come Porrino – corruppero a suon di mazzette i giudici
e/o i (finti) partigiani, così da ottenere testimonianze favorevoli nel corso dei processi.
Particolarmente complicato, poi, fu il sequestro degli enormi beni ricavati ai danni della
nazione e che spesso gli imputati cercarono astutamente di occultare intestandoli ai
congiunti prossimi: fu quanto fece, ad esempio, Console271.
Emblematica della difficoltà a procedere penalmente verso gli industriali
collaborazionisti è una missiva inviata a Emilio Sereni da un anonimo, dopo l’assoluzione
di Porrino da parte della CAS di Biella. «Questo losco e prepotente individuo» – si legge
– «è stato assolto a Biella dall’accusa di collaborazionismo! Tutta la popolazione di Biella
è rimasta indignata per tale verdetto. Se vi fu un collaborazionista dei tedeschi e della
Repubblica questo Porrino ne è stato certamente il più bel campione». Prosegue la lettera:
«La sua collaborazione è stata così evidente, fatta così alla luce del sole, così
268 Il museo e l’aeroporto intitolati a Caproni si trovano entrambi a Trento. 269 Il 29 dicembre ‘43 il Clnai aveva richiamato l’attenzione, con una “nota urgente”, sul problema della punizione dei grandi industriali che, dopo l’8 settembre, avevano iniziato a collaborare col tedesco invasore. In seguito, il 26 ottobre del ‘44, aveva istituito presso ogni Comitato regionale una commissione per l’epurazione della dirigenza economica, «con particolare riguardo a quella industriale e finanziaria». Si veda: G. Grassi (a cura di), “Verso il governo del popolo”, op.cit., p. 111 e p. 199 270 Il 17 gennaio ‘45 il Clnai aveva inviato una mozione al ministro d’Italia a Berna contro l’espatrio in Svizzera dei fascisti e dei “finanziatori del fascismo”. Si veda: Idem, p. 236 271 INSMLI, Clnl, b. 60, fasc. 218, Lettera di A. Becca all’ufficio del P.M. presso la CAS di Milano, 11 agosto 1945
123
spudoratamente ostentata da farsene un vanto, che la popolazione si è chiesta: “ma se non
hanno condannato il Porrino dove andremo a finire in tema di giustizia?»272
L’anonimo autore della lettera individuava due ragioni alla base dell’assoluzione.
Innanzitutto, la corruzione di alcuni partigiani, di cui veniva tratteggiato un quadro ben
poco lusinghiero: «I partigiani poi, che ormai è notorio, si comperano e si vendono: tutto
dipende dalla cifra in gioco», osservò. Essi, aggiunse, «si sono benevolmente prestati a
testimoniare e a tumultuare nell’aula del tribunale, a favore del Porrino. Ė ormai accertato
che il Porrino ha comperato a mezzo di svariati milioni la testimonianza di questi pseudo
patrioti, il cui intervento intimidatorio è stato semplicemente nauseante ed
inopportuno»273.
In secondo luogo, la strategia del “doppiogioco”, adottata dopo l’8 settembre. Porrino –
e come lui avevano fatto molti altri industriali – aveva collaborato sì col tedesco invasore,
ma contemporaneamente – in previsione del fallimento della guerra – aveva
sovvenzionato i partigiani. «Anche i sassi della città di Biella» – si legge sempre nella
missiva inviata a Sereni – sapevano che Porrino aveva dispiegato attività
collaborazionistica, mettendo a disposizione dei tedeschi gli autocarri italiani che aveva
in riparazione, ed era altrettanto noto che lo stesso Porrino, «per assicurarsi le spalle,
aiutava (e ci teneva a farlo sapere dandovi massima divulgazione) i partigiani (già a lui i
milioni lucrati sugli Italiani, coll’aiuto tedesco, gli piovevano nelle tasche) in modo da
prepararsi un alibi se il nazi-fascismo fosse crollato»274.
Non sempre però le scarcerazioni o le assoluzioni degli industriali collaborazionisti
furono deprecate dalla popolazione. Leggendo le carte del commissariato si scopre che
anzi assai spesso gli operai, durante i processi, si fossero schierati dalla parte dei loro
padroni. Un dato curioso, ma neanche troppo, a ben pensarci: la difesa del padrone non è
da leggere tanto come un atto di “ringraziamento” per aver aiutato i partigiani durante la
guerra civile, quanto come un mero (ma tutto sommato comprensibile) tentativo di difesa
del proprio posto di lavoro, che sarebbe andato perduto se il padrone fosse finito in carcere
e l’azienda avesse chiuso i battenti.
Emblematica fu la vicenda di Caproni: mentre era in corso presso la CAS di Milano
un’istruttoria a carico del patron dell’industria aeronautica, un gruppo di operai della sua
272 Ivi, Lettera di “un amico” a E. Sereni, 10 agosto 1945 273 Ibidem 274 Ibidem
124
ditta si presentò dinanzi all’ufficio del P.M., chiedendo con fare minaccioso di revocare
l’ordine di cattura, in quanto la presenza del padrone all’interno dello stabile era
«indispensabile» e le accuse mosse inconsistenti, essendo Caproni «innocente»275.
Un atteggiamento ambivalente, dunque, quello della classe operaia: se nei confronti
dell’assoluzione di Porrino la popolazione insorse insoddisfatta (e per la scarcerazione di
Donegani, come si vedrà, addirittura si diffusero a macchia d’olio scioperi in tutto il Nord
Italia), nel caso di Caproni le maestranze non solo non protestarono, ma si schierarono
compatte dalla parte del padronato industriale.
A partire dalla vicenda Caproni Becca individuò una profonda stortura nel sistema
giudiziario. In una lettera a Sereni del novembre ‘45, mise a fuoco i termini del problema:
«Lo stato indubbiamente ha la funzione di amministrare rigidamente la legge penale: ma
come provvede ai casi (come questo) nei quali l’applicazione della legge penale provoca
un turbamento economico che investe intere masse di lavoratori?»276
Intuito che quello del doppiogiochismo fosse divenuto un vero e proprio lasciapassare per
l’impunità e, anzi, per usare parole sue, una vera e propria «forma di ricatto contro lo
Stato», già nell’ottobre del ‘45 il commissario scrisse al sottosegretario all’Industria Ivan
Matteo Lombardo suggerendo un rimedio: l’istituzione di un ente speciale che potesse
assumere la gestione delle aziende sequestrate e provvedere al loro finanziamento277.
Come si vede, anche questa volta Becca mostrò una particolare sensibilità verso la classe
lavoratrice, cercando di tutelare gli operai ma al tempo stesso di garantire un corretto
esercizio della procedura giudiziaria.
275 Ivi, Lettera di A. Becca alla Camera del Lavoro di Milano, 10 agosto 1945 276 Ivi, Lettera di A. Becca al presidente del Cln Lombardia E. Sereni, 29 novembre 1945 277 Ivi, Promemoria di A. Becca al sottosegretario all’Industria I. M. Lombardo, 7 ottobre 1945
125
3.7 Studi legislativi e proposte di riforma
Il commissariato non rimase inerte nei confronti delle CAS e, in generale, del
malfunzionamento della giustizia. Quella assunta da Becca fu semmai una «costante
posizione di denuncia» come già ebbe a osservare Grassi. «Egli non si limitava a
registrare attentamente, ma passivamente, i fatti di ogni giorno: la sua azione [...] era di
controllo, ma anche di stimolo a nuove iniziative sociali»278.
Tali considerazioni appaiono del tutto appropriate alla luce dell’analisi delle relazioni
sulla giustizia e dei progetti legislativi che Becca approntò nella veste di commissario alla
Giustizia della Lombardia e che, nella complessiva vicenda del commissariato, si
configurano agli occhi di chi scrive come una delle pagine più stimolanti da studiare, sia
perché permettono di “toccare con mano” che cosa significò “progettare” la giustizia in
transizione nel caso lombardo, sia perché aprono alla possibilità di indagare varie
questioni oltre a quella della punizione del collaborazionismo279.
Il famoso schema di provvedimento integrativo della legislazione sulla punizione dei
delitti fascisti e nazisti, presentato da Becca nel luglio ‘45 e già ricordato da Grassi,
costituisce probabilmente – come si vedrà – l’apice e il cuore dell’elaborazione legislativa
del commissario, ma tante e in ambiti molteplici furono in realtà le proposte avanzate dal
commissario che sarebbe difficile elencarle qui tutte. Si pensi soltanto, per fare qualche
esempio, alle proposte di riforma dei codici di diritto e di procedura penale, o della
previdenza sociale (alla quale, come si è visto Becca, si sarebbe dedicato soprattutto in
seguito, in veste di consulente della CGIL). Progetti diversi, dunque, ma accomunati tutti
da un carattere, o, per usare le parole del commissario, da «un’indole pratica», volta cioè
a dare una pronta risoluzione ai problemi più urgenti. «Non è il caso», scrisse ad esempio
Becca, nello schema di riforma dei codici di diritto e di procedura penale, «di intavolare
discussioni di filosofia e di diritto, come si sarebbe sempre tentati a fare in tema di pene
e misure di sicurezza, pena di morte [...] ecc. È invece il caso di prospettare quei pochi
punti ove occorre e si sente profondamente il bisogno di modifiche immediate e subito
accettabili in via preliminare»280.
278 G. Grassi, Documenti sull’attività di Aurelio Becca, art. cit., p. 17 279 INSMLI, Clnl, b. 60, fasc. 220 280 Ivi, Schema di alcune proposte essenzialmente pratiche per modificare poche norme dei codici di diritto e di procedura penale, 21 maggio 1945
126
Rispetto alla punizione del collaborazionismo è senz’altro utile una riflessione. Becca era
consapevole del fatto che i problemi incontrati nella gestione della giustizia verso i
collaborazionisti dipendessero da fattori plurimi, non ascrivibili soltanto e semplicemente
alle debolezze del Dll 22 aprile 1945 n.142, così come aveva ben presente che l’enorme
numero di processi gravanti sulle CAS avesse delle ricadute negative sull’intera macchina
giudiziaria: «è quasi dappertutto impossibile», osservava in una lettera a Caprara l’8
settembre ‘45, «ottenere un normale funzionamento delle Corti d’Assise ordinarie in
quanto il personale giudiziario che ad esse dovrebbe essere adibito è completamente
assorbito dal lavoro delle Corti d’Assise Straordinarie»281. Inoltre, gli appunti mossi dal
commissario rispetto al malfunzionamento della giustizia traevano certo spunto
dall’analisi di un territorio circoscritto quale era quello lombardo, ma senza che tale
esame perdesse di vista il contesto nazionale in cui il territorio era inserito e dal quale lo
stesso veniva, ovviamente e profondamente, condizionato. Si pensi alla questione della
magistratura, ad esempio: la carenza di magistrati era un problema certo specifico della
Lombardia e del Nord Italia, ma anche – se pure in misura minore rispetto alla regione
lombarda – nazionale, ed era da tempo esistente (si era posto già al termine della Prima
guerra mondiale!) E infatti la riforma della magistratura era – Becca lo intuì molto bene
– «universalmente sentita dai Magistrati e dal popolo». Tutto questo per dire che le
relazioni sulla giustizia e i progetti legislativi approntati dal commissario presuppongono
una visione a trecentosessanta gradi della giustizia e riflettono una consapevolezza
dell’esistenza di problemi, si potrebbe dire, “strutturali” al sistema giudiziario italiano,
rispetto ai quali la giustizia in transizione fu costretta a misurarsi (e, verso i quali, in una
certa misura, la giustizia italiana continua a confrontarsi ancora oggi: si pensi alla tanto
invocata rapidità dei processi!).
Becca era convinto che quello della magistratura fosse un problema «delicatissimo»,
rispetto al quale si sarebbe dovuto svolgere «un ampio e meditato dibattito»: occorrevano,
infatti, modifiche profonde, quali «un ordinamento più agile, un vaglio di uomini più
nuovo e lungimirante, un miglioramento sensibile delle condizioni economiche per
evitare la corruttela e l’esodo dei migliori»282. Se non era possibile procedere
nell’immediato a una riforma strutturale del corpo della magistratura, era però possibile
281 Ivi, b. 59, fasc. 216, Lettera di A. Becca a M. Caprara, 8 settembre 1945 282 Ivi, b. 60, fasc. 220, cartella n. 36 “Studi legislativi”, Promemoria “Provvedimenti urgenti per la magistratura”, s.d.
127
– e necessario – secondo Becca, applicare alcuni «provvedimenti urgenti», che potessero
almeno parzialmente lenire lo stato di grave indigenza e caos in cui versava la macchina
giudiziaria. Tra le carte del commissario si leggono così diverse proposte, semplici ma
concrete, come quella di riempire i posti vacanti nelle preture ricorrendo alla nomina di
laureati in legge, giovani avvocati e Procuratori Legali, o quella di ridurre la competenza
nonché il numero dei tribunali, in quanto, si legge, «è troppo comune e grave il fatto che
molti piccoli tribunali non possono materialmente funzionare per difetto di Giudici. E le
conseguenze sugli interessi della popolazione sono gravi e notevolissime»283.
Analogamente, per ovviare a carenze all’interno delle segreterie e delle cancellerie
giudiziarie, Becca proponeva di bandire concorsi regionali aperti ai laureandi284.
Collegato alla riforma della magistratura è il discorso sulle Corti d’Assise Straordinarie.
Le considerazioni di Becca rispetto alle CAS nascevano certamente dalla constatazione
di un diffuso disordine e di un malfunzionamento generale, ma la molla che spinse il
commissario a mettere mano urgentemente ad una modifica profonda della legislazione
speciale verso i fascisti fu lo scoppio a Milano, a poche settimane di distanza l’uno
dall’altro, dei casi Basile e Donegani. Nei prossimi due capitoli si ricostruiranno nel
dettaglio queste singole storie – che si è convinti siano emblematiche della vicenda della
giustizia in transizione in Lombardia – ma quello che ora si vuole sottolineare è il fatto
che fu proprio a partire da queste due vicende che Becca si decise ad elaborare uno schema
di provvedimento integrativo alla punizione dei delitti fascisti, costituito da cinque articoli
e trasmesso al governo a fine luglio ‘45:
Art. 1 La Corte straordinaria di Assise, anche se decida in sede di rinvio dalla Cassazione,
nel pronunciare sentenza di assoluzione, qualora ritenga l’imputato socialmente o
politicamente pericoloso, ne ordina l’assegnazione ad una casa o ad una colonia di lavoro
per un periodo da due a dieci anni. Contro questo provvedimento non è ammesso alcun
gravame.
Art. 2 La medesima facoltà compete alla sezione speciale della Corte di Cassazione
qualora cassi senza rinvio la sentenza della Corte d’assise straordinaria.
283 Ibidem 284 INSMLI, Clnl, b. 60, fasc. 220, cartella n. 36 “Studi legislativi”, Promemoria “Proposte per la cancelleria e segreterie giudiziarie, s.d.
128
Art. 3 La medesima facoltà compete al PM in sede istruttoria ove ritenga archiviare il
processo. Contro questo provvedimento è ammesso appello entro cinque giorni dalla sua
notifica alla Corte d’Assise che decide in camera di consiglio con provvedimento non
soggetto a gravame.
Art. 4 In caso di applicazione della misura di sicurezza, non può essere ordinata la
scarcerazione di chi è stato prosciolto od assolto.
Art. 5 Il presente decreto non annulla né modifica gli altri provvedimenti legislativi che
concernano le misure di sicurezza a carico di individui politicamente o socialmente
pericolose285.
Le linee guida di tale progetto sono individuabili per la maggior parte in una relazione –
una delle più importanti tra quelle conservate all’interno del fondo del commissariato –
che Becca inviò il 20 luglio al Ministero di Grazia e di Giustizia286. In questo testo, Becca
recuperò tutte le denunce, le richieste, le idee pervenute nel corso dei quasi tre mesi di
lavoro alla guida del commissariato, mettendo a fuoco con grande accuratezza e lucidità
le principali ragioni alla base del malfunzionamento delle CAS: la carenza quantitativa e
qualitativa dei magistrati e dei cancellieri (personale «scarso e notevolmente inquinato da
22 anni di fascismo», per usare le sue parole), il numero «enorme» dei processi, la
struttura stessa della Corte d’Assise, caratterizzata da «gravi inconvenienti». Per ciascuno
di questi problemi, Becca individuò un possibile rimedio. Relativamente alla carenza di
personale, ad esempio, propose che venissero inviati al Nord magistrati e cancellieri e che
si procedesse all’apertura di qualche concorso che consentisse ai pretori di accedere ai
tribunali. Ben più articolata, invece, era la proposta di riforma della CAS: quest’ultima
era basata sul principio di distinzione tra delinquenti fascisti «specifici» e delinquenti
fascisti «generici» ed era finalizzata a sfoltire l’enorme numero dei processi in corso,
nonché a garantire una celebrazione adeguata dei processi contro i maggiori delinquenti.
Ecco il passaggio più significativo della relazione:
Occorre – a mio avviso – fare due grandi categorie dei colpevoli fascisti: una che
comprenda i delinquenti generici, per così dire di bassa forza, dichiarando costoro non
285 Ivi, cartella n. 35, “Relazioni”, Progetto di decreto per l’integrazione della legislazione sulla
punizione dei delitti fascisti, allegato alla lettera di A. Becca al Clnai, 31 luglio 1945 286 Ivi, Relazione sul funzionamento della giustizia in Lombardia, s.d.
129
punibili penalmente e solo assoggettabili a misure di polizia [...]; la seconda che
comprenda i delinquenti specifici da affidare alla potestà punitiva delle Corti. Solo in tal
modo si potrebbero istruire e celebrare adeguatamente i processi contro i maggiori
delinquenti; chè, sino a quando l’organo giudiziario rimarrà oppresso dalla schiacciante
zavorra dei processi di second’ordine, non sarà possibile eseguire bene il lavoro serio con
la conseguenza che molti grossi colpevoli sfuggiranno al castigo o ne riceveranno uno
inadeguato mentre vi saranno molti casi di eccessiva punizione dei colpevoli287.
Un terzo rimedio suggerito da Becca in una relazione successiva sul funzionamento della
giustizia in Lombardia consisteva in una riforma della legge di amnistia288. Un progetto
in questo senso era già stato proposto precedentemente dal Clnai, che aveva presentato
l’amnistia come «un coraggioso colpo di spugna [...] giustificato soprattutto di
imprescindibili ragioni di indole pratica»289. Anche secondo Becca era necessaria una
«larga ed incondizionata amnistia» per i reati, anche annonari, commessi prima del 25
aprile: «si vuole un provvedimento che elimini realmente il ponderoso arretrato di
processi penali che grava sulla Magistratura che è ormai impossibilitata ad esaurirli»,
ebbe ad osservare. «Una amnistia fino a 3 anni non risolverebbe affatto il problema:
occorre che sia elevata sino a 5 anni almeno, come già proposto con un progetto da tempo
in mani del Ministro»290.
Becca avrebbe sostenuto la necessità di un provvedimento di amnistia per eliminare
l’ingorgo di pratiche penali anche in seguito: poche settimane prima della promulgazione
dell’amnistia Togliatti, avrebbe infatti scritto a Caprara, evidenziando l’urgenza di
concedere un’amnistia per tutti i reati punibili fino ad un massimo di dieci anni di
reclusione291. Non era comunque solo una considerazione “pratica” a far propendere
Becca verso l’amnistia, ma anche il fatto che fosse stata appena proclamata la Repubblica
e che quindi fosse necessaria una pronta pacificazione.
Come si vede, dunque, quello di Becca fu un tentativo concreto di “migliorare” la
legislazione predisposta per la punizione del reato di collaborazionismo, rendendo
quest’ultima più veloce ed efficiente. Non si può dire cosa sarebbe successo se queste
287 Ibidem 288 Ibidem 289 Ivi, Relazione sullo schema di decreto di amnistia, s.d. 290 Ivi, Relazione sul funzionamento della giustizia in Lombardia, s.d 291 Ivi, cartella n. 36, “Studi legislativi”, Lettera da A. Becca a M. Caprara, 7 giugno 1946
130
modifiche fossero state accolte dal Ministero di Grazia e di Giustizia: avrebbero
realmente migliorato la situazione? Quello che è certo è che gli studi legislativi approntati
dal commissario ci mostrano i problemi e le sfide incontrati quotidianamente nella
gestione della giustizia anche verso i collaborazionisti e rappresentano dunque una fonte
importante da esaminare per comprendere che cosa sia stata effettivamente la giustizia in
transizione nel caso lombardo. Inoltre, tali carte restano a testimoniare l’impegno del
commissariato guidato da Becca per garantire una giusta pena nei confronti di chi aveva
commesso reati di collaborazionismo. A prescindere dal giudizio più o meno negativo
che si può attribuire all’operato delle CAS, dunque, le intenzioni e le azioni del
Commissariato alla Giustizia rimangono una prova fondamentale del travagliato processo
di transizione verso forme democratiche di gestione del sistema giudiziario.
3.8 Le reazioni dell’opinione pubblica
I documenti del fondo commissariale ci restituiscono, altresì, alcune impressioni
dell’opinione pubblica – prevalentemente milanese ma non solo – rispetto all’andamento
della giustizia, che vanno ad integrare il quadro finora tratteggiato dalle cronache
giudiziarie e dai giornali locali.
La punizione dei collaborazionisti – come si è visto – era esigenza vivamente sentita dalla
popolazione e, in particolare, da coloro che avevano patito le angherie di quanti avevano
collaborato col tedesco. Non stupisce, perciò, che, soprattutto nelle prime settimane di
attività, alla sede del commissariato giungesse una grande quantità di lettere, intrise di
rancore e desiderio di giustizia. Si legge, ad esempio, in una missiva del 7 maggio firmata
da “una vittima politica”:
Propongo che sia resa nota al pubblico (con congrua anticipazione) la data in cui verranno
celebrati i processi a carico dei delinquenti fascisti che hanno approfittato delle cariche
loro affidate dal deprecato regime per far male al prossimo e si sono così conquistate per
ottenere vantaggi che non avrebbero mai potuto ottenere in tempi normali. Ciò perché le
vittime, precisando le cattiverie patite, possano mettere in grado il corpo giudicante di
applicare ai colpevoli il giusto castigo292.
292 Ivi, b. 60, fasc. 218, Lettera di “una vittima politica” ad A. Becca, 7 maggio 1945
131
La pressione della popolazione perché venisse fatta giustizia fu una delle maggiori fonti
di inquietudine per il commissariato, preoccupato che la folla inferocita potesse
compromettere sia la celebrazione dei dibattimenti secondo il principio del “giusto
processo” sia la tenuta dell’ordine pubblico. I timori di Becca erano pienamente fondati.
Il 14 giugno alcuni Cln aziendali di Milano scrissero al Cln lombardo minacciando che,
nel caso di mancata persecuzione dei criminali nazifascisti, le masse stesse avrebbero
provveduto a riparare «l’offesa alla giustizia»293. In agosto, l’ufficio del P.M. di Monza
segnalò a Becca che il ritardo nella celebrazione dei pubblici dibattimenti e nel completo
funzionamento del campo di concentramento avrebbe potuto causare «qualche disordine»
presso la popolazione: «potrebbe cioè capitare – si legge – che cittadini dal temperamento
un po’ troppo caldo di fronte alla constatazione che alcun processo è stato celebrato si
facciano promotori di attacchi al campo di internamento per fare giustizia sommaria sui
duecento internati»294. Ancora, il 3 ottobre ‘45 in una mozione sul funzionamento della
giustizia il Cln avvocati avrebbe fatto presente a Becca «le intemperanze del pubblico»
sia in istruttoria che nel dibattimento, auspicando che fossero evitate e represse «le
incomposte manifestazioni della folla nelle aule giudiziarie», al fine di evitare che
l’esercizio della difesa potesse essere in qualche modo ostacolato o minacciato295.
Come si è già visto, non mancarono in effetti episodi spiacevoli di aggressioni ad avvocati
o a imputati. Consapevole dell’importanza delle reazioni dell’opinione pubblica, Becca
mostrò di tenere in grande considerazione tutto ciò che avrebbe potuto “aizzare” la folla
alla violenza. Alla notizia della soppressione della Sezione Speciale della Corte di
Cassazione a Milano, ad esempio, il commissario osservò che tale provvedimento sarebbe
stato «assai deplorato dalla opinione pubblica» la quale lo avrebbe considerato come «un
grave passo indietro nella repressione dei reati fascisti296». E, per lo stesso motivo,
insistette sul problema della disparità di trattamento tra detenuti poveri e detenuti ricchi
293 Ivi, Lettera dei Cln aziendali della Soc. An. Carlo de Micheli e Tessitura al Cln della Lombardia, 14 giugno 1945 294 Ivi, Lettera del magistrato dirigente A. Buzzelli al Primo Presidente della Corte d’Appello di Milano, 11 agosto 1945 295 Ivi, b. 59, fasc. 216, cartella n. 5. “Pratiche: avvocati”, Mozione del Cln avvocati sul
funzionamento della giustizia, 3 ottobre 1945 296 Ivi, Lettera di A. Becca a M. Caprara, 3 ottobre 1945
132
da parte della Questura, tema che emerse con particolare gravità in occasione del caso
Donegani297.
A volte comunque l’impegno del commissario per gestire la situazione non fu sufficiente
e capitò che la rabbia della folla sfociasse in vere e proprie manifestazioni di piazza, dai
tratti talora violenti: fu quanto successe, come si vedrà, nei casi Basile e Donegani.
La mancata epurazione, l’estrema povertà umana e materiale, le fragilità della
legislazione predisposta nei confronti del fascismo, concorrendo tutte insieme a rendere
più difficile il lavoro delle CAS, ebbero come tragica conseguenza quella di generare
nella popolazione un diffuso e pericoloso sentimento di sfiducia rispetto alle autorità
giudiziarie e quindi una sensazione di scoraggiamento rispetto alla possibilità che i
crimini commessi durante la guerra civile e anche prima, nel corso del Ventennio,
venissero effettivamente puniti. Al popolo lombardo, i processi apparvero in molti casi
inutili, fallimentari.
Per farsene un’idea, basta leggere le numerose denunce giunte al commissariato rivolte
alla CAS di Lodi. Quest’ultima fu accusata di essere – come si legge in un documento
approntato da un Cln aziendale locale, «eccessivamente benevola coi criminali fascisti
sottoposti al suo giudizio», anche per il fatto che in taluni casi non furono chiamati a
deporre nemmeno i denuncianti298. Il commissario regionale all’Assistenza, Giuseppina
Palumbo, riportando una mozione dell’UDI di Lodi al prefetto di Milano, rimarcò a Becca
il fatto che molti noti fascisti e denunciatori di patrioti venissero assolti con formula piena
perché il fatto non costituiva reato299. Uno dei casi più gravi in questo senso fu quello
riguardante l’ex vice federale di Milano, Vianello. Fascista fanatico, squadrista, sciarpa
littorio, quest’ultimo non solo fu assolto davanti alla CAS di Lodi, ma ottenne anche elogi
sperticati per i suoi atti di anti-collaborazionismo, tanto che già l’istruttoria si era conclusa
con la richiesta di concedere all’imputato addirittura una medaglia al valore. Ettore
Ranzani, membro del PdA, presente al processo in qualità di giudice popolare, constatò
297 Osservò Giuseppe Brusasca nella seduta del Clnai del 18 luglio: «È impressione della popolazione che vi sia disparità di trattamento fra i piccoli e i grandi incriminati: questi ultimi, vedi Donegani, vengono esaminati in fretta mentre vi sono migliaia di arrestati che stanno da settanta giorni in carcere e non sono ancora stati interrogati». Si veda: G. Grassi (a cura di), “Verso il governo del popolo”, op. cit., pp. 400-2 298 INSMLI, Clnl, b. 60, fasc. 218, Ordine del giorno del Comitato della A.N.P.I. F. lli Biancardi, 14 ottobre 1945 299 Ivi, Telegramma del commissario Regionale all’Assistenza G. Palumbo ad A. Becca, 8 gennaio 1946
133
amareggiato in una lettera indirizzata a Becca il fatto che durante il processo non si
fossero approfonditi gli episodi portati dai testi d’accusa, come quello del sindaco di Lodi,
che aveva spiegato come un partigiano fosse stato seviziato a sangue di fronte a Vianello.
La riflessione conclusiva racchiude tutto il disappunto verso un sistema giudiziario che,
agli occhi di questo giudice popolare, appare eccessivamente severo nei confronti dei
giovani – vittime della propaganda – e invece decisamente troppo indulgente verso chi –
come Vianello – aveva supportato i metodi violenti del fascismo sin dagli inizi:
Egregio Presidente, sono spiacente dover affermare che tale procedura è discutibile, e che
mentre per tanti poveri ragazzi, colpevoli di essere non abbastanza scaltri e di essere nati
e cresciuti nel clima fascista, di essersi trovati più che altro coinvolti nella tragedia
impreparati politicamente e spiritualmente, dovranno scontare condanna talvolta dure. I
veri responsabili della tragedia italiana vengono riabilitati. Tutto questo non è bello, non
è degno della nostra civiltà, e le assicuro, ci lascia profondamente addolorati300.
300 Ivi, Lettera del giudice popolare E. Ranzani al Presidente del Cln Lombardia E. Sereni, 22 marzo 1946
134
Capitolo 4:
Il caso Basile: l’ex capo della provincia di Genova a processo (1945-’50)
4. 1 Una memoria “divisa”
Colui che mi ha fatto questo racconto, nella sua villetta di Stresa, è il barone Carlo
Emanuele Basile, già sottosegretario alla Difesa della Repubblica Sociale Italiana, già
prefetto repubblicano di Genova. Nessuno fu più condannato a morte di lui, trascinato più
volte di lui davanti al plotone di esecuzione, legato alla sedia fatale. Nessuno più di lui
udì nelle aule dei tribunali le parole con cui i giudici destinano alla pena capitale; e l’urlo
della folla, le invettive di un pubblico turbolento ed esasperato che minacciava di
travolgere le forze dell’ordine, per farsi giustizia da solo. Nessuno infine, tra quanti si
schierarono con Mussolini e nelle file di Salò, concentrò su di sé – nel caldo delle passioni
dell’aprile ‘45 – una vampata così bruciante di risentimenti, di desiderio di vendetta, di
odio. Al punto da esserne inseguito per le Corti di Assise di tutta Italia, in una angosciosa
alternativa di sentenze che alla pena di morte facevano seguire l’assoluzione e a questa,
per il gioco dei ricorsi, una nuova condanna capitale. Con una incertezza della vita, del
domani, del proprio destino, da distruggere la resistenza nervosa ed il controllo di sé di
qualsiasi essere umano301.
Così il giornalista Silvio Bertoldi, nel suo libro La Guerra parallela, introduce l’intervista
a uno dei personaggi della storia del fascismo repubblicano meno studiati: Carlo
Emanuele Basile. Siamo nel ‘63, a poco meno di vent’anni di distanza dalla fine della
guerra civile: il quasi ottantenne barone Basile è un uomo libero, vive tranquillo nella sua
sontuosa villa di Stresa, si dedica alla politica militando nelle file del Movimento Sociale
Italiano, pubblica romanzi e scrive assiduamente per il «Secolo d’Italia». Nel passaggio,
Bertoldi assume un tono grave, quasi solenne: mostra un misto di rispetto e di
compassione verso l’uomo che gli sta di fronte. Appena accennati sono gli incarichi di
sottosegretario alla Guerra della RSI e di capo della provincia di Genova: nella
presentazione del barone Basile tutta l’attenzione è rivolta ai processi, come se in questi
ultimi si potesse riassumere l’intera vita del personaggio. Bertoldi, anche attraverso la
martellante ripetizione della parola “nessuno” all’inizio di ogni frase, racconta di questa
301 S. Bertoldi, La guerra parallela, op. cit., p. 183
135
vicenda processuale come di un vero e proprio calvario, acuito dal clima di odio, di
risentimento e di violenza dilagante in Italia nel secondo dopoguerra. Quello che ne esce,
in sostanza, è il ritratto di un uomo che è stato perseguitato dalla giustizia e che, con
grande coraggio ed estrema pazienza, ha “resistito” alle storture di una macchina
giudiziaria profondamente inefficace e parziale.
Subito dopo, il racconto di Basile aggiunge a questo tassello – l’accanimento giudiziario
nel dopoguerra – quello dell’opera “buona” svolta dopo l’8 settembre. Per la storiografia,
quello che Basile dice nell’intervista non è in realtà nulla di originale: si tratta di
un’apologia, le cui linee-guida sono già state ampiamente riscontrate nelle memorie di
altri fascisti repubblicani. Non è nuova, ad esempio, l’argomentazione secondo cui i
fascisti repubblicani si siano impegnati a mitigare i rigori dell’occupazione tedesca,
svolgendo così un’opera di tutela del popolo italiano:
Sono stato accusato di aver ordinato fucilazioni. Lo nego. Non ho mai firmato una
condanna a morte in vita mia. Sono stato accusato di essere entrato nei tribunali dove si
giudicavano partigiani e di avere imposto ai giudici sentenze capitali. È semplicemente
assurdo. Colui che mi accusò fu clamorosamente smentito al processo. Una sola volta
sono intervenuto nel corso di un giudizio, ed è stato per ottenere che in un tribunale di SS
che giudicavano otto italiani, colti in flagrante delitto di spionaggio, sedesse anche un
magistrato del mio Paese, a garanzia degli imputati. Due dei quali, infatti, grazie a ciò
poterono salvarsi.
Quanto all’accusa di aver fatto deportare in Germania gli operai dell’Ansaldo, dirò solo
che il povero Piaggio, il grande industriale, depose per iscritto che su trentamila lavoratori
pretesi a Genova dalle autorità tedesche, io ero riuscito a consegnarne solamente 1400, di
cui 400 volontari; mentre Milano ne diede dodicimila e Torino circa diciassettemila302.
Né è inedita la “tattica” di mettere in risalto le azioni “buone” dei fascisti italiani – come
il salvataggio di ebrei – in contrapposizione alle azioni “cattive” dei nazisti tedeschi: «E
chi ospitò in Prefettura, a proprio rischio, un professore universitario di matematica e la
sua famiglia, perseguitato dai tedeschi perché aveva la moglie ebrea?»303.
302 Ivi, pp. 188-9 303 Ivi, p. 190 Si vede all’opera lo stereotipo del “bravo italiano e cattivo tedesco”. Per uno studio del tema, si veda: F. Focardi, Il cattivo tedesco e il bravo italiano, op. cit.
136
Nel complesso, quello di Basile è il “solito” discorso volto a rovesciare l’accusa di
collaborazionismo in nome di una presunta difesa della Patria. Tale tesi, qualificando i
fascisti repubblicani come veri “patrioti”, ha portato, nel tempo, alla costruzione di una
vera e propria «memoria differenziata» della RSI304.
L’immagine di Basile quale “vittima della giustizia” emersa dall’intervista di Bertoldi
contrasta decisamente con quanto osservato dal commissario alla Giustizia Becca, il quale
– come si è visto – definendo senza mezzi termini Basile un «criminale di guerra» aveva
sì denunciato il sistema giudiziario italiano, ma non per un accanimento ingiustificato
verso l’ex capo della provincia di Genova, quanto per la pronuncia nei suoi confronti di
una sentenza eccessivamente benevola, viziata da alcune fragilità dovute a una
legislazione ben predisposta verso non poche forme di collaborazionismo305.
La raffigurazione di Basile quale “difensore della Patria” appare del tutto opposta anche
al giudizio espresso da Sandro Pertini, che il capo della provincia di Genova conosceva
molto bene, anche per essere stato segnato personalmente dalla tragedia delle
deportazioni operaie. Proprio ricordando il fratello, deportato su ordine di Basile e morto
nel campo di Flossenbürg, nel ’47, davanti all’Assemblea Costituente, l’onorevole
socialista non esitò a definire Basile, da poco amnistiato, «un collaborazionista che ha
fatto fare dei rastrellamenti [...] uno strumento cosciente nelle mani dei nazisti, che allora
dominavano la Liguria»306.
La contrapposizione tra le due “visioni” di Basile (vittima della giustizia/criminale
impunito, patriota/collaborazionista) riemerse in modo particolarmente emblematico
nell’estate del ‘60, a quindici anni di distanza dalla fine della guerra. Il Movimento
Sociale Italiano aveva appena votato la fiducia al governo di Fernando Tambroni e, forte
dell’appoggio di quest’ultimo, aveva convocato il suo congresso nazionale a Genova, per
il 3 e 4 luglio. Non è chiaro da chi fosse stata diffusa, ma sta di fatto che la notizia secondo
cui a presiedere il congresso – organizzato, tra l’altro, vicino al sacrario dei caduti
partigiani – sarebbe stato Basile, fece riesplodere una fortissima rabbia nella città
medaglia d’oro della Resistenza: il 30 giugno uno sciopero generale paralizzò
304 F. Germinario, L’altra memoria. L’Estrema Destra, Salò e la Resistenza, Torino, Bollati Boringhieri, 1999, p. 8 305 G. Grassi - P. Lombardi (a cura di), Democrazia al lavoro, op. cit., p. 252 306 Scritti e discorsi di Sandro Pertini, 1, 1926-1978, Roma, Presidenza del Consiglio dei Ministri. Dipartimento per l’informazione e l’editoria, 1992, pp. 157-159
137
completamente il capoluogo ligure e si scatenarono violenti disordini che causarono quasi
200 feriti307. A seguito della vicenda, il congresso del MSI venne annullato e il governo
Tambroni fu costretto a dimettersi, ma i fatti di Genova del 30 giugno ‘60 rimasero a
segnalare un problema eloquente di elaborazione della memoria del fascismo, della
guerra, della RSI. «Ma perché» – osservò Pertini in una nuova interrogazione
parlamentare – «dobbiamo nuovamente sentirci mobilitati per rigettare i responsabili di
un passato vergognoso e doloroso, i quali tentano di tornare alla ribalta?»308
Ė difficile muoversi in un contesto di questo tipo. Ci si trova di fronte, infatti, a un caso
palese di memoria “divisa”: Basile fu un patriota, vittima della giustizia post-bellica
italiana o un criminale fascista rimasto impunito? Di certo è che la memoria della RSI –
della quale Basile fu senza dubbio un personaggio di spicco – è memoria del Paese e come
tale essa dovrebbe essere reintegrata a pieno titolo nella storia d’Italia, al riparo da un uso
pubblico della storia che molto facilmente può sfociare in semplificazioni e mitizzazioni:
rischi che, in effetti, sembrano essere ancora più in agguato laddove – come in questo
caso – ci si trovi di fronte a personaggi un po’ misteriosi e dalle vicende enigmatiche, mai
dipanate appieno o comunque finora non analizzate storiograficamente. In questo senso,
la ricostruzione della vicenda processuale di Basile dà modo anche di esplorare e svelare
le dinamiche di elaborazione memoriale del fascismo e del collaborazionismo nell’Italia
repubblicana.
4.2 La figura di Carlo Emanuele Basile (1885-25 aprile 1945)
Carlo Emanuele Basile nacque a Milano nel 1885. Figlio di un nobile, che era stato anche
prefetto a Milano per 11 anni nonché senatore del Regno, si laureò in Giurisprudenza nel
1909 all’Università di Torino e poi, attratto dagli studi letterari e dall’opera dannunziana
in modo particolare, in Lettere nel 1913. Nel corso della sua lunga vita, Basile fu avvocato
e scrittore, ma soprattutto soldato e fascista convinto.
307 I feriti nei gravi tumulti di Genova saliti a 180 tra agenti e dimostranti in «Corriere della Sera», 1°luglio 1960. Sui fatti di Genova del giugno ’60 si veda, ad esempio, A. Parodi, Le giornate di Genova, Roma, Editori Riuniti, 2010 (1ª ed. 1960); F. Gandolfi, A Genova non si passa! Milano, Edizioni Avanti, 1960 e L. Radi, Tambroni trent’anni dopo: il luglio 1960 e la nascita del centrosinistra, Bologna, il Mulino, 1990, pp. 105-129 308 Scritti e discorsi di Sandro Pertini, op. cit., pp. 481-492
138
Interventista, si arruolò come volontario nella Prima guerra mondiale, dopo che i due
fratelli minori, Ferdinando e Umberto, erano morti in battaglia. Sul campo, grazie alle
battaglie di Pozzuolo del Friuli – in cui rimase gravemente ferito – e del Piave, si
guadagnò tre medaglie al valore e la promozione da soldato a tenente309.
Tornato dalla guerra, Basile creò nella provincia di Novara le prime sezioni
combattentistiche e divenne rappresentante della Federazione Combattenti di Novara, di
cui mantenne la presidenza per diciannove anni.
Nel frattempo, partecipò alla guerra in Etiopia come comandante di bande irregolari, alla
guerra civile spagnola in qualità di carrista e, scoppiata la Seconda guerra mondiale, a
tutta l’azione condotta sul fronte occidentale inquadrato nel Corpo d’Armata corazzato.
Sul versante politico, nel corso del Ventennio ricoprì una lunga sequela di incarichi, di
carattere sia locale che nazionale: fu sindaco e quindi podestà di Stresa per ventun anni,
Consigliere Nazionale per quindici anni e cioè per tre legislature, ispettore dei Fasci
all’Estero e quindi segretario dei Fasci Generali all’Estero per nove anni, segretario
federale dal ‘25 al ‘31 in ben tredici province, tra cui Torino, Alessandria, Novara,
Vercelli, Reggio Emilia, Zara, Gorizia, Agrigento, Caltanissetta.
In uno dei suoi memoriali, Basile rivendicò a sé il merito di avere sempre dimostrato, in
quest’ultima veste, grande magnanimità nei confronti degli avversari politici: «È forse
vano ma è certo intima soddisfazione per il sottoscritto il potere [...] dichiarare che in
tredici province non un solo avversario di qualsiasi partito potrebbe [...] comprovargli un
solo atto che non fosse umanamente e disciplinarmente giustificabile»310. Tali
affermazioni non trovano riscontro né nella cruenta battaglia dispiegata a capo delle
squadre d’azione a Novara contro gli antifascisti né nella parentesi come ispettore dei
Fasci all’Estero a Parigi, tutta contrassegnata dalla ricerca spasmodica e quasi ossessiva
di esuli, definiti sprezzantemente in un rapporto del ‘27 «la canaglia intellettualoide che
ci disonora in Parigi»311.
Dopo l’8 settembre, Basile confermò la propria fedeltà al Duce, convinto che quello di
Mussolini fosse stato un «miracoloso salvamento» e disgustato dal modo in cui il regime
309 Si fa riferimento alla battaglia di Pozzuolo del Friuli (29-30 ottobre 1917), parte della ritirata di Caporetto, e alla cosiddetta “prima battaglia del Piave” (13-26 novembre 1917). 310 AS di Perugia, Fondo Corte di Assise di Perugia, Processi penali, b. 83, fasc. 1013,
Memoriale di C. E. Basile, 30 aprile 1945 311 Ivi, Rapporto di C. E. Basile a Mussolini, 2 gennaio 1927
139
era caduto, «e cioè per colpa precipua di coloro che Mussolini aveva premiato al di là di
ogni merito e che avrebbero ogni mattina [...] dovuto ringraziare il capriccio della sorte
che li aveva portati a tale altezza e che invece avevano tradito nella forma più vile ed
ignominiosa»312. Rispetto alla decisione di collaborare con i Tedeschi precisò anche:
«nella mia coscienza di uomo mi aveva offeso il modo in cui eravamo stati staccati dai
Tedeschi che erano stati fino all’8 settembre nostri alleati. Avevo combattuto con loro a
fianco a fianco e visto spargere il sangue in comune»313.
Si può immaginare che Basile fosse molto stimato da Mussolini se quest’ultimo decise di
nominarlo capo della provincia di Genova e, in seguito, dalla fine del giugno ‘44,
sottosegretario di Stato per l’Esercito della RSI. Si trattava di cariche importanti, delicate
e molto difficili.
A Genova, nel tentativo di sedare i numerosi scioperi operai e le azioni terroristiche dei
GAP e dei SAP, nonché di fornire ai tedeschi “braccia per il Reich”, Basile dispiegò
metodi brutali: con l’ausilio del questore Arturo Bigoni (a lui in seguito succeduto nella
carica di capo della provincia) e del capo della Squadra Politica Giusto Veneziani, fece
convocare tribunali militari speciali, ordinò fucilazioni di detenuti politici e dispose
deportazioni in massa di operai314. Tra le azioni più famigerate di cui Basile è ritenuto
responsabile la storiografia annovera la Läuseharke (letteralmente “il pettine dei
pidocchi”) – una retata attuata nel giugno ‘44 in sinergia con i comandi tedeschi e nella
quale oltre 1400 lavoratori delle fabbriche Siac, S. Giorgio, Piaggio e Cantiere Ansaldo
furono prelevati, caricati su vagoni e inviati al lager di Mauthausen – e il cosiddetto
“eccidio del Turchino” del maggio ‘44, in cui, in rappresaglia ad un attentato gappista,
furono fucilati dalle SS 42 prigionieri politici da tempo rinchiusi nelle carceri di Marassi
e 17 partigiani catturati nel rastrellamento della Benedicta315.
312 Ivi, Memoriale di C. E. Basile, 30 aprile 1945 313 Ivi, Interrogatorio dell’imputato C. E. Basile, 30 aprile 1945 314 Arturo Bigoni, combattente della Grande Guerra e console della Milizia, fu questore di Forlì,
prima di giungere a Genova nel gennaio ‘44. Dopo la guerra, fu condannato a morte dalla CAS di Genova ma in seguito venne amnistiato. Giusto Veneziani, fuggito da Genova dopo la Liberazione, il 3 maggio ‘45 venne riconosciuto da un partigiano da lui stesso seviziato: arrestato, fu giustiziato alcuni giorni dopo. Si veda: M. E. Tonizzi - P. Battifora (a cura di), Genova 1943-1945, op. cit., p. 63 315 Sulla Läuseharke si veda: M. E. Tonizzi - P. Battifora (a cura di), Genova 1943-1945, op. cit., p. 57; per l’eccidio del Turchino, G. Gimelli, La Resistenza in Liguria, volume primo, op.cit., pp. 155-6
140
I numerosi bandi contro gli scioperi, dagli accenti minacciosi e sprezzanti, sono
testimonianze eloquenti dell’attività collaborazionista dispiegata a Genova: «É mio
dovere di Capo» – tuonava Basile in un bando del ‘43 – «avvertire ciascuno che, qualora
la situazione non si normalizzi immediatamente, non frapporrò tempo ad agire col
massimo rigore. E in tal caso, come purtroppo spesso accade, le vittime si conteranno più
numerose fra gli innocenti che nelle file dei colpevoli»316.
Ma la fede fascista di Basile è provata anche dagli articoli scritti per il «Corriere della
Sera» – in cui viene espresso disprezzo verso l’armistizio e prefigurata, grazie alle “nuove
armi” germaniche, la vittoria dell’Asse317 – nonché dai numerosi discorsi, tenuti da
sottosegretario di Stato per l’Esercito, quasi apocalittici e tutti traboccanti di razzismo e
di odio verso gli Alleati e i partigiani. Valga, a titolo esemplificativo, lo stralcio di questa
orazione tenuta al teatro Odeon a Milano nel novembre ‘44:
Io non vi dico di esultare: ma di resistere, di volere, di durare, di perdurare. I sintomi della
delusione avversaria sono manifesti. S’erano illusi quei negroidi di dilagare sulla pianura
padana tutto travolgendo, mentre dalle montagne sarebbero discesi gli eroi-banditi in
folcloristico corteo quali salvatori della patria conculcata dal risorto fascismo e avrebbero
sfilato sotto il balcone del Quirinale, dove il re spergiuro avrebbe come un automa
risposto alle grida e ai saluti [...] Vedo certi ordigni che, mamma mia, falciano gli uomini
come papaveri. Vedo nel cielo certe meteore che gli astronomi non hanno ancora
battezzato. Mamma mia, è la fine del mondo. Parole che non dico per ischerzo. L’ora del
redde rationem e del dies irae si approssima. E sarà tremenda318.
316 ILSREC, Fondo Gimelli, 2/22, Bando del prefetto Basile ai tranvieri genovesi contro lo sciopero del 27.11.1943 317 Si legge, ad esempio, nell’articolo dal titolo Macchine e uomini: «Alludo all’impiego da parte germanica delle nuove armi [...] Ma bisogna riflettere che non si è che all’inizio di tale impiego, di cui si misurerà tutta la tremenda decisiva portata quando sarà compiuto tra le truppe l’addestramento necessario e quando ogni soldato germanico sarà munito di tali ordigni [...] Tutto ciò è noto agli “Alleati” i quali vorrebbero bruciare le tappe per giungere alla meta e cioè alla vittoria primi… e cioè prima che l’industria guerresca germanica abbia munito di tali mortiferi utensili i suoi eroici operai. Che il lungo-barbato Tempo, con la falce tra le ossute ginocchia e la clessidra a lato, questa volta s’è alleato all’Asse, che ne apprezza grandemente l’alta protezione. Durare è per l’Asse sinonimo di vincere». 318 “Ritorneremo”. Ardente appello del sottosegretario Basile alla cittadinanza milanese e ai profughi di guerra in «Corriere della Sera», 20 novembre 1944
141
4.3 Prima delle CAS: il tentativo di deferimento all’Alta Corte di Giustizia
Basile venne catturato dai partigiani il 25 aprile, sulla strada da Milano a Monza. Portava
con sé una valigia contenente valute estere e banconote italiane per un valore di 30
milioni, accompagnate dalla dichiarazione: “se mi dovesse accadere qualche disgrazia
prego di consegnare tutto alla segreteria particolare del duce”319. Nell’intervista a
Bertoldi, Basile racconta che i partigiani provarono a sparargli ma che, già di fronte al
plotone, un ufficiale partigiano, un suo ex subalterno che in Africa Orientale aveva salvato
dal tribunale militare, intervenne a sospendere l’esecuzione. In seguito – prosegue –
sopraggiunsero gli Alleati che lo trasferirono nelle carceri di Roma e, all’inizio di maggio,
si inaugurò a Milano il primo processo320. Si trattò di un prologo decisamente curioso e
fortunato, che consentì all’ex capo della provincia di Genova di avere salva la vita.
In concomitanza allo svolgimento del processo milanese, però, vi fu un altro importante
passaggio, non ricordato da Basile, ma che, grazie al voluminoso fascicolo conservato
presso l’Archivio di Stato di Perugia, può essere ricostruito. Prima di essere condannato
dalla CAS di Milano, l’ex capo della provincia di Genova fu oggetto dell’attenzione
dell’Alto commissario aggiunto per le Sanzioni contro il fascismo, Saverio Gabriotti321.
Quest’ultimo, il 29 maggio ‘45, in considerazione dell’«eccezionale gravità dei fatti»
addebitati al Basile, dispose l’avocazione del giudizio all’Alta Corte di Giustizia,
spiccando un mandato di cattura nei confronti dell’imputato322. Il processo presso
l’organo istituito a Roma per la punizione dei gerarchi fascisti, però, non sarebbe mai
avvenuto, in quanto l’ordine di deferimento venne consegnato “tardi” dagli Alleati,
creando un conflitto di competenza con la CAS di Milano che nel frattempo aveva già
emesso nei confronti di Basile il suo giudizio. Scrisse il Procuratore Generale di Milano
il 4 luglio ‘45: «la ordinanza di avocazione non risulta giunta alla Corte di Assise
Straordinaria. La ordinanza porta la data del 29 maggio 1945 e dal Comando Alleato essa
319 AS di Perugia, Fondo Corte di Assise di Perugia, Processi penali, b. 83, fasc. 1013,
Particolari sulla cattura di C. E. Basile, 3 giugno 1945 320 S. Bertoldi, La guerra parallela, op. cit., pp. 185-6 321 Saverio Gabriotti, Sostituto procuratore del Regno addetto all’Alto Commissariato per la punizione dei delitti fascisti, nel 1984 sarebbe stato insignito Cavaliere di Gran Croce Ordine al Merito della Repubblica Italiana (https://www.quirinale.it/onorificenze/insigniti/15294) 322 AS di Perugia, Fondo Corte di Assise di Perugia, Processi penali, b. 83, fasc. 1013, Disposizione dell’Alto commissario Aggiunto di avocazione del procedimento penale contro C. E. Basile al giudizio dell’Alta Corte di Giustizia, 29 maggio 1945
142
venne trasmessa a questo ufficio di Procura Generale solamente il 25 giugno
successivo»323.
Non è chiaro se tale ritardo nella consegna fosse imputabile esclusivamente agli Alleati o
a qualche altro agente, né se fosse stato un ritardo volontario, finalizzato ad ostacolare il
deferimento del caso Basile all’Alta Corte di Giustizia, oppure involontario, da ascrivere
al disordine e alla negligenza generali.
Quello che è certo comunque è che il ritardo nella consegna dell’ordine di avocazione
all’Alta Corte di Giustizia affidò le sorti di Basile al giudizio delle Corti d’Assise
Straordinarie.
4.4 CAS e Cassazione a confronto
La lunga e complicata vicenda processuale di Basile iniziò a Milano nel giugno ‘45 e,
passando per Pavia, Venezia e Napoli, si concluse definitivamente a Perugia nel giugno
‘50. Furono cinque anni esatti di processi – tra Nord, Sud e Centro Italia – in mezzo ai
quali vi fu anche l’apertura di un’istruttoria da parte della Procura di Genova.
Basile fu imputato
di avere, posteriormente all’8/9/’43, mediante collaborazione col tedesco invasore e
prestando ad esso aiuto ed assistenza come capo della provincia di Genova prima e come
sottosegretario alla Guerra poi, presso il Ministero della Difesa Nazionale della cosiddetta
Repubblica Sociale Italiana, ed assumendo poi gravi responsabilità con il fare deportare
in Germania operai della provincia di Genova in numero sempre maggiore, e pubblicando
su «Il Corriere della Sera» il 20 ed il 31/10/1944, il 17/2 e 21/3/1945 articoli sprezzanti
l’armistizio dell’8/9/’43, commesso il delitto contro la fedeltà e la difesa militare dello
Stato previsto dal D.L.L. 27/7/1944 n. 159 in relazione all’art. 1 del D.L.L. 22/4/1945 n.
142 e punito ai sensi dell’art. 51 Cod. Pen. Mil. di guerra in relaz. alla prima ip. del cpv.
3°) dell’art. 1°) citato324.
323 Ivi, b. 83, fasc. 1013, Lettera dal Procuratore Generale presso la Sezione Speciale della Corte di Cassazione di Milano all’Alto commissario per le Sanzioni contro il fascismo, 21 giugno 1945 324 AS di Milano, Fondo CAS di Milano, Sentenze, vol. 1, Sentenza 25/45, 15 giugno 1945
143
Di seguito, si riporta sinteticamente il percorso giudiziario a carico dell’ex capo della
provincia di Genova:
Data e luogo Organo giudicante Esito
15 giugno 1945,
Milano CAS
20 anni di reclusione, con diminuente
dell’art. 26 C.P.M.G.
Ricorso promosso dal P.M.
27 luglio 1945,
Milano
Sezione Speciale
della Corte Suprema
di Cassazione
Rinvio a giudizio dinanzi alla Sezione
Speciale della Corte d’Assise di Pavia
25 gennaio 1946,
Pavia
Sezione Speciale
della Corte d’Assise
Pena di morte
Ricorso promosso dagli avvocati
difensori
8 giugno 1946,
Roma
Corte Suprema di
Cassazione
Rinvio a giudizio dinanzi alla Sezione
Speciale della Corte d’Assise di
Venezia
Aprile 1947,
Venezia
Sezione Speciale
della Corte d’Assise
Richiesta di rinvio a giudizio da parte
degli avvocati difensori
144
2 maggio 1947,
Roma
Corte Suprema di
Cassazione
Rinvio a giudizio per legittima
suspicione alla Sezione Speciale della
Corte d’Assise di Napoli
29 agosto 1947,
Napoli
Sezione speciale
della Corte d’Assise
Estinzione del reato per amnistia
2 settembre 1947,
Genova
Sezione speciale
della Corte d’Assise
Richiesta di rinvio a giudizio da parte
degli avvocati difensori
14 dicembre 1949,
Roma
Corte Suprema di
Cassazione
Rinvio a giudizio per legittima
suspicione dinanzi alla Corte d’Assise
di Perugia
6 giugno 1950,
Perugia
Sezione Speciale
della Corte d’Assise
Passaggio in giudicato
Ricorso promosso dal P.M.
19 dicembre 1950,
Roma
Suprema Corte di
Cassazione Rigetto del ricorso
145
La tabella, oltre a rendere palese l’estrema varietà di tempi e di luoghi coinvolti nella
vicenda processuale, mette in evidenza la notevole difformità dei giudizi espressi dalle
corti della penisola: questi ultimi vengono talora parzialmente cambiati, talora ribaltati in
toto, talora confermati, in un contesto di incessante dialettica tra le CAS e la Suprema
Corte di Cassazione. Se tale dialettica è in un certo senso “positiva” (essendo la possibilità
di ricorso prevista dalla legislazione una garanzia del “giusto processo”), tuttavia nel caso
Basile il meccanismo di botta e risposta tra CAS e Cassazione appare protrarsi
eccessivamente nel tempo, raggiungendo dei livelli talmente schizofrenici che – se di un
accanimento giudiziario nei termini espressi dalla pubblicistica non è corretto parlare –
tuttavia è del tutto evidente che nel corso del lungo procedimento qualcosa non funzionò.
In generale, si è già detto che sull’elaborazione dei giudizi delle CAS in parte influirono
il mutare dei tempi (e, quindi, delle atmosfere politiche) nonché la geografia (cioè, la
maggiore o minore distanza territoriale dal luogo dove i crimini erano stati commessi),
ma certo da soli questi fattori non possono bastare a spiegare l’andamento così altalenante
e a tratti assurdo della giustizia nel caso Basile. Il variare dei tempi e degli spazi sembra
semmai una diretta conseguenza dei continui ricorsi, annullamenti delle sentenze, rinvii
a giudizio, causati da dinamiche ben più complesse.
L’analisi di Becca ha permesso in questo senso di individuare già un primo importante
elemento, ovvero la fragilità della struttura della Corte d’Assise Straordinaria, così come
concepita dal decreto 22 aprile 1945 n. 142. Becca aveva spiegato che i giudici popolari
e il presidente della CAS di Milano erano debolissimi e, infatti, nel caso Basile, essi si
erano arrestati «dinanzi a due medaglioncini al valore», consentendo all’imputato di
scampare alla pena di morte325.
Ma, è corretto valutare la sentenza di Milano come una sentenza totalmente fallimentare?
Se dal punto di vista della popolazione si può dire che essa lo fu certamente – come si
vedrà – in realtà, anche in considerazione dei successivi sviluppi del procedimento, il
giudizio dovrebbe forse essere più equilibrato. In effetti, i giudici della CAS di Milano si
limitarono ad applicare ciò che la legge del tempo prevedeva, ovvero la diminuente per
gli atti di valore in guerra. Ma soprattutto – ed è la cosa più importante – essi riconobbero
Basile colpevole del delitto di collaborazionismo ascrittogli: ciò significa che la CAS di
325 G. Grassi - P. Lombardi (a cura di), Democrazia al lavoro, op. cit., p. 253
146
Milano, se pur concedendo una pena attenuata, riconobbe ed applicò le leggi speciali
verso il fascismo e il collaborazionismo. Si legge nella sentenza:
[la Corte] dichiara colpevole Basile Carlo Emanuele del reato a lui ascrittogli ed, in
concorso della diminuente per atti di valor militare, lo condanna alla reclusione per anni
venti, lo condanna, altresì, alle spese di giudizio e tasse di sentenza ed ordina la confisca,
a vantaggio dello Stato, dei suoi beni326.
Dunque, se è vero che quel giudizio non appagò l’ansia di vendetta del popolo, non si può
però dire che dal punto di vista giuridico fosse stato un completo fallimento, anche perché
il ricorso promosso dal P.M. e successivamente accolto dalla Sezione Speciale della
Cassazione di Milano, riguardò esclusivamente la questione della concessione o meno
della diminuente, non contestando quello che era il “contenuto” della sentenza327.
Del resto, che il fallimento o il successo della giustizia non possano misurarsi
esclusivamente sulla base del grado di soddisfazione dell’opinione pubblica è ben
illustrato da quanto accadde nel capoluogo pavese nel gennaio ‘46. Se la Sezione Speciale
della Corte d’Assise di Pavia, per la popolazione, comminò una sentenza “giusta” – la
pena di morte – è da rilevare che in realtà quella corte non rispettò minimamente i principi
del “giusto processo”. Innanzitutto, perché motivò il giudizio verso Basile in maniera del
tutto illogica e irrazionale, facendo leva sulle emozioni piuttosto che sulla razionalità. Si
consideri questo passaggio, emblematico:
[...] la Corte non ritiene che le due medaglie di bronzo al valore da lui riportate nella
guerra 1915-1918 o il fatto che egli discenda da famiglia di patrioti (i suoi due fratelli
sono caduti nella stessa guerra 15-18 e suo padre, siciliano, favorì l’impresa dei Mille, fu
prefetto di Milano e senatore del Regno) possono valere ad attenuare la sua responsabilità,
nemmeno sotto il profilo delle circostanze attenuanti generiche. Basile è stato inflessibile
verso i patrioti Italiani ed oggi la Corte è inflessibile verso di lui. I giudici popolari, che
del popolo che ha sofferto sono l’espressione più diretta, hanno del popolo sentito il grido
326 AS di Milano, Fondo CAS di Milano, Sentenze, vol. 1, Sentenza 25/45, 15 giugno 1945 327 AS di Perugia, Fondo Corte di Assise di Perugia, Processi penali, b. 83, fasc. 1013, Sentenza della sezione della Suprema Corte di Cassazione, 27 luglio 1945
147
al presente dibattimento, anche attraverso le rumorose manifestazioni del pubblico
genovese accorso ad assistere328.
Secondariamente, la corte si rifiutò di ascoltare il teste Enrico Trinchieri, viceprefetto di
Genova nell’epoca in cui era capo della provincia Basile, con la considerazione che tale
testimonianza non fosse «essenziale», non essendo Trinchieri prefetto. Tale elemento,
unito alle precedenti considerazioni dei giudici pavesi, fu un altro eloquente segnale di
uno “scavalcamento” delle regole del diritto.
In questo caso, l’intervento della Suprema Corte di Cassazione, che rinviò il giudizio alla
Sezione Speciale della Corte d’Assise di Venezia, si configurò – come ha osservato il
giurista Fulvio Cortese329 – come un tentativo di razionalizzare, di ricondurre su un piano
di equilibrio una sentenza priva di «ogni elemento di logica e di giustizia». Si spiega nella
sentenza dell’8 giugno ‘46:
Alle argomentazioni della difesa la Corte (di Pavia) si è limitata a rispondere [...] che la
deposizione del Trinchieri non è stata ritenuta essenziale anche perché il teste non è un
prefetto ma un viceprefetto. Tale risposta non ha alcun senso logico se si pensi che si
trattava di stabilire non se la deposizione fosse essenziale, ma soltanto se essa fosse
necessaria e utile ai fini del giudizio, e quando si consideri ancora che, per valutare
l’utilità della deposizione medesima, nessun criterio poteva fornire la carica di prefetto o
di vice prefetto del teste. Tutto ciò dimostra che la Corte ha finito col commettere un atto
di sostanziale ingiustizia per non essersi attenuta al criterio prudenziale di cui sopra e dà
un certo fondamento all’asserzione della difesa in udienza che il tenore inconcludente
dell’ordinanza attribuisce ad essa il colore di una anticipata e non ponderata condanna
[...]330
Quello della Cassazione fu, dunque, un intervento in un certo senso “salvifico”, perché
andò a ripristinare la legalità. Viceversa, quello pronunciato dalla Sezione Speciale della
328 AS di Pavia, Fondo CAS di Pavia, Vol. 2, Sentenza 66/46, 25 gennaio 1946 329 Si fa riferimento all’intervento Leggendo le sentenze delle CAS: problemi speciali per decisioni speciali? tenuto in occasione del convegno “Giustizia straordinaria tra guerra e dopoguerra. Tribunali speciali e tribunali militari” presso la Fondazione Bruno Kessler a Trento l’11 e il 12 dicembre 2017. 330 AS di Perugia, Fondo Corte di Assise di Perugia, Processi penali, b. 83, fasc. 1013, Sentenza della Suprema Corte di Cassazione, 8 giugno 1946
148
Corte di Assise di Pavia fu un giudizio mosso da un desiderio di regolare conti in sospeso
piuttosto che dal rispetto di una corretta prassi giuridica. E forse si può dire che quella,
sì, fosse stata una sentenza realmente fallimentare. In effetti, guardando alle evoluzioni
successive del complessivo procedimento a Basile, la sentenza pavese appare come un
clamoroso “autogol”. Non solo perché gli avvocati difensori riuscirono a rinviare
nuovamente il processo e, dunque, a giovarsi di climi più benevoli verso i
collaborazionisti, ma soprattutto perché Basile, a partire da quel giudizio ingiusto, ebbe
buon gioco nell’iniziare ad accreditarsi di quell’immagine di “vittima”, di “perseguitato”
del sistema giudiziario italiano, di “martire”, un’immagine che – come si è visto – col
passare del tempo si sarebbe insinuata nell’opinione comune e, ampiamente cavalcata
dagli ambienti neofascisti, avrebbe ostacolato una corretta lettura delle responsabilità del
capo della provincia e, in generale, della RSI.
Al processo di Venezia, il comune di Genova, nella persona del sindaco Giovanni Tarello,
e alcuni familiari delle vittime si costituirono parte civile. L’atmosfera in aula, ancora a
distanza di ben due anni, era tesissima: basti pensare che durante il dibattimento la madre
di uno dei partigiani fucilati su ordine dell’ex capo della provincia si scagliò sulla gabbia
dove era rinchiuso Basile, al grido di “Assassino, hai fatto uccidere mio figlio!”, e potè
essere fermata solo grazie all’intervento di alcuni astanti331.
Il fatto più grave però fu l’aggressione ad uno degli avvocati difensori dell’imputato.
L’occasione diede modo alla difesa di chiedere una rimessione del giudizio, per legittima
suspicione. Il rinvio fu accolto dalla Suprema Corte di Cassazione che trasferì
nuovamente il processo, questa volta alla Sezione Speciale della Corte d’Assise di
Napoli332.
Anche in questo caso, quindi, la Cassazione intervenne a ripristinare il diritto, sebbene
questa volta il rinvio si rivelasse doppiamente vantaggioso per l’imputato. Esso, infatti,
non solo consentì di dilatare ulteriormente i tempi del procedimento, ma anche di
trasferire quest’ultimo in una corte geograficamente molto lontana dal luogo dove
l’imputato aveva commesso i crimini e tra l’altro al Sud, una circostanza sicuramente di
non poco conto.
331 Il terzo processo Basile alle Assise speciali di Venezia in «Corriere della Sera» e Un triste periodo di vita genovese rievocato alle Assise di Venezia in «Il Secolo XIX», 22 aprile 1947 332 AS di Perugia, Fondo Corte di Assise di Perugia, Processi penali, b. 83, fasc. 1013, Sentenza della Suprema Corte di Cassazione, 2 maggio 1947
149
La concessione a Basile dell’amnistia Togliatti nell’agosto ‘47 da parte della Sezione
Speciale della Corte d’Assise di Napoli fu un esito quasi “scontato”, considerando che a
quella data già molti altri collaborazionisti, anche eccellenti, erano riusciti ad ottenere il
beneficio. Lo stralcio finale della sentenza – «sembra alla Corte che ragioni di equità e di
giustizia richiedono che sia concessa anche a lui l’amnistia, di cui hanno beneficiato tanti
altri, che non si trovavano in migliori condizioni»333 – non fu però l’unica motivazione
con cui a Basile fu accordato il beneficio. Andando a leggere il testo della sentenza, è
possibile individuare, infatti, un ragionamento molto più articolato, in forza del quale i
giudici partenopei riuscirono a “scavalcare” la causa ostativa dell’“elevata funzione di
direzione civile o politica o di comando militare” stabilita dall’art. 3 del decreto 22 giugno
1946 n. 4334.
Innanzitutto, i giudici si richiamarono ai «principi affermati dalla Corte Suprema in
numerose decisioni», cioè ai giudizi espressi in precedenza dalla Suprema Corte di
Cassazione nei confronti di alcuni eminenti collaborazionisti, tra cui ex capi della
provincia. Una delle sentenze ricordate fu quella pronunciata il 1°luglio ‘46 nei confronti
dell’ex capo della provincia di Pavia, Dante Maria Tuninetti335. Si consideri il seguente
passaggio chiave:
[...] non basta l’esercizio della carica di prefetto per l’esclusione dall’amnistia, ma occorre
indagare, caso per caso se, per effetto dell’occupazione del tedesco invasore, vi sia stata
o meno menomazione della sua autonomia politico-amministrativa. In caso affermativo,
vien meno l’estremo delle elevate funzioni [...]336
Analogamente, venne citato il giudizio pronunciato il 27 marzo ‘47 nei confronti dell’ex
capo della provincia di Milano Oscar Uccelli (inizialmente condannato, come si è visto,
a trent’anni di reclusione). La sentenza a carico di Uccelli aveva affermato:
333 Ivi, Sentenza della Corte di Assise di Napoli, 29 agosto 1947 334 Per il testo integrale si veda: M. Franzinelli, L’amnistia Togliatti, op. cit., p. 313 335 Sulle figure dei capi della provincia e sui processi nel dopoguerra si veda il prossimo capitolo. 336 AS di Perugia, Fondo Corte di Assise di Perugia, Processi penali, b. 83, fasc. 1013, Sentenza della Corte di Assise di Napoli, 29 agosto 1947
150
[...] non sussiste esclusione dall’amnistia nel caso specifico di un prefetto che abbia
dovuto chiedere la convocazione di tribunali straordinari, che ha emesso condanne a
morte per rappresaglie di fascisti uccisi, se egli non è stato libero in tale convocazione e
se ha fatto tutto il possibile per ridurre il numero delle vittime [...]337
Secondo i giudici napoletani nell’esperienza di Basile quale capo della provincia di
Genova si potevano ravvisare entrambe le circostanze individuate dalle sentenze
Tuninetti e Uccelli, cioè la “menomazione dell’autonomia politico-amministrativa” e
l’“assenza di volontà liberamente determinata”, essenzialmente perché «a Genova, come
altrove» – si legge nella sentenza – «imperavano i Tedeschi e ben poco potevano le
autorità italiane». In forza di questo assunto, i giudici smontarono anche l’accusa più
grave rivolta a Basile, quella di aver deportato maestranze operaie, osservando piuttosto
il tentativo di mitigare la durezza degli ordini tedeschi. Essi affermarono, infatti: «si ha
quindi la prova sicura che dette deportazioni non furono potute evitare perché avvenute
in seguito ad uno sciopero (dal Basile sempre sconsigliato, per non fornire pretesto ai
tedeschi) e che comunque furono da lui ridotte al minimo possibile»338.
Oltre al ricorso alle sentenze della Cassazione, per concedere l’amnistia i giudici
napoletani provvidero anche a fornire una ricostruzione completa della personalità
dell’imputato, che sembra essere tutta indirizzata a mettere in risalto le qualità “positive”
di Basile. Infatti, pur ammettendo preliminarmente che «indubbiamente» egli fosse stato
«un fervente fascista ed un alto gerarca», essi recuperarono l’elemento – già presente
nella sentenza della CAS di Milano – delle medaglie al valore ricevute dall’imputato per
la Grande Guerra ed elencarono una lunghissima lista di buone azioni dispiegate da
quest’ultimo durante il Ventennio e l’occupazione tedesca, tra cui salvataggi di partigiani,
militari, civili e anche ebrei. Conclusero i giudici: «tenendo presenti tali insegnamenti
nonché tutte le risultanze di sopra esposte, da essi emerge che il Basile, se pur fervente
fascista, è stato più che altro un idealista, appartenente a famiglia con tradizioni
patriottiche, ed egli stesso è stato un valoroso»339.
Dalla sentenza napoletana emerge dunque una particolare interpretazione del ruolo dei
capi della provincia e della RSI: un’interpretazione secondo cui la Repubblica Sociale
337 Ibidem 338 Ibidem 339 Ibidem
151
Italiana non avesse avuto alcun margine di potere o di iniziativa, essendo totalmente
soggetta al volere dei tedeschi, e che quindi la responsabilità di tutto – anche dei crimini
di guerra – fosse da imputare ad essi. Inoltre, insistendo sulle medaglie al valore ottenute
da Basile nonché sugli interventi a favore di nemici e avversari, la corte napoletana
accreditò e restituì dell’ex capo della provincia una figura di “buon italiano” e di “fascista-
patriota”.
Alla luce di tutto questo, si può dire che la sentenza napoletana contribuì alla costruzione
di quella memoria differenziata della RSI di cui si parlava all’inizio. Ed è da notare che,
in questo senso, l’operato della corte napoletana si distinse profondamente da quello delle
corti del Nord: i giudici napoletani non negarono che Basile fosse stato un
collaborazionista, però diedero del collaborazionismo una lettura del tutto opposta a
quella che era stata data dai giudici di Milano e di Pavia. Si metta a confronto tale lettura
con queste parole significative dei giudici della CAS di Pavia: «[...] Basile assume a
Genova la carica col proposito di collaborare col tedesco con tutta lealtà e con tutte le
forze agendo però in modo di mostrare agli italiani che egli non è un servo del tedesco e
che la neo repubblica fascista, di cui egli è il più alto esponente in luogo, sia una realtà,
una forza». E, ancora: «egli non si è mai sognato di interpretare la sua funzione come un
necessario cuscinetto fra il prepotente teutonico e gli sventurati italiani; ha governato
Genova quasi si trattasse di una città straniera, senza umanità, senza pietà»340.
É da osservare che, nel processo di ribaltamento della categoria del “collaborazionismo”
attuato dai giudici napoletani, il discorso sulla Prima guerra mondiale assunse una
rilevanza centrale: se per la CAS di Milano l’aver acquisito delle medaglie al valore
semplicemente poteva giustificare una diminuente della pena – così come previsto dal
Codice Penale Militare di Guerra – per la corte di Napoli, invece, esso divenne la ragione
in virtù della quale rovesciare l’accusa di aver collaborato con i tedeschi e dimostrare di
essere veri patrioti. In fondo, nel caso Basile i giudici napoletani fecero proprio un
paradosso, alimentato da quel mito della Grande Guerra che era stato elaborato dal
fascismo in un’ottica di legittimazione del regime341. Un paradosso riassumibile nei
termini seguenti: come si può definire collaborazionista – nel senso di antipatriottico – un
340 AS di Pavia, Fondo CAS di Pavia, Vol. 2, Sentenza 66/46, 25 gennaio 1946 341 Sul mito della Grande Guerra e sul suo utilizzo in chiave strumentale da parte del regime fascista si veda M. L. Salvadori, L’Italia e i suoi tre stati. Il cammino di una nazione, Bari, Laterza, 2011 e M. Baioni, Le patrie degli italiani. Percorsi nel Novecento, Pisa, Pacini, 2017
152
imputato che nel ‘15-’18 ha combattuto nella guerra patriottica per eccellenza – l’ultima
guerra del Risorgimento, contro i Tedeschi – e che, addirittura, ha ottenuto per questo
medaglie al valore?
É evidente poi che tutto questo discorso pone le basi anche per un altro meccanismo
inquietante: quello, di segno opposto, della delegittimazione della lotta partigiana.
I tentativi di ricorrere contro l’amnistia concessa a Basile si rivelarono vani. Subito dopo
la pronuncia della sentenza napoletana, alcuni parenti delle vittime di Basile si riunirono
per denunciare l’ex capo della provincia, per alcuni reati di omicidio e di
collaborazionismo commessi tra il dicembre ‘43 e il marzo ‘44, non contemplati nei
precedenti dibattimenti: la convocazione di un tribunale militare straordinario che nel
dicembre ‘43 aveva condannato a morte Armando Maffei e Renato Livraghi; la
convocazione di un tribunale militare straordinario che nel gennaio ‘44, quale
rappresaglia all’uccisione di due ufficiali tedeschi, aveva condannato a morte otto
persone, tra cui il professor Dino Bellucci; la convocazione di un tribunale provinciale
che nel marzo ‘44 aveva condannato a morte Giacomo Buranello, primo comandante dei
GAP genovesi342.
Sulla base delle nuove denunce, la procura di Genova, nella persona del giudice istruttore
Francesco Paolo Altobelli, aprì una nuova istruttoria a carico di Basile e, in seguito,
ordinò il rinvio a giudizio di quest’ultimo dinanzi alla Corte di Assise di Genova. Si trattò
dell’ultimo, strenuo tentativo del capoluogo ligure di portare a processo il suo capo della
provincia. Ma anche questa volta, il corso della giustizia fu tutt’altro che lineare. Se una
prima istanza di rimessione del processo da parte di Basile fu respinta dalla Cassazione,
a seguito della costituzione di diverse parti civili, la possibilità di vedere l’ex capo della
provincia di Genova condannato andò via via sfumando, lasciando spazio a
considerazioni di carattere più politico che giudiziario. «Purtroppo il caso Basile
rappresenta l’ipotesi tipica in cui si inscena una sovrapposizione politica su di una
manifestazione giudiziaria» – ebbe ad osservare l’avvocato difensore Annibale
Angelucci343 – «Solo un ambiente che, per la sua lontananza dal focolaio ove più accesa
342 AS di Perugia, Fondo Corte di Assise di Perugia, Processi penali, b. 83, fasc. 1013, Denuncia contro C. E. Basile al Procuratore della Repubblica di Genova, 2 settembre 1947 343 Annibale Angelucci, uno degli avvocati di Basile, difese altri fascisti illustri. Proprio mentre era in corso l’istruttoria a Genova a carico di Basile, ad esempio, era impegnato a Roma nel processo per il delitto Matteotti, processo che vedeva imputati Francesco Giunta e Filippo Filippelli. Anche l’altro avvocato di Basile, Paolo Toffanin, fu difensore di fascisti responsabili di
153
è la passione politica, possa non preoccuparsi della reazione, recriminazione illegittima
ed ingiustificata contro una libera espressione di giustizia, è ambiente indicato a
giudicare»344.
Il clima di tensione del capoluogo ligure diede a Basile una nuova occasione per
consolidare l’immagine di “vittima” e per rivendicare il diritto ad essere giudicato altrove:
Il mio destino ha un suo particolare ed incredibile marchio. Dopo cinque giudici, io sono
ancora giudicabile. A Napoli ritenevo di essere alla fine del mio calvario giudiziario ed
invece, malgrado il verdetto dei giudici popolari che mi applicarono l’amnistia Togliatti,
sono ripiombato nella tristezza del carcere. [...] quando io penso a Genova purtroppo io
debbo pensare come ad una nemica; per un’incomprensibile deviazione dello spirito
popolare, forse artificiosamente alimentata da ingannevole propaganda di pochi,
malgrado il mio grido costante, sincero, irresistibile di protesta, Genova, questa città per
la cui salvezza ho offerto tante volte la mia vita, non ha voluto e non vuole ascoltarmi e
comprendermi.
Come potrà giudicarmi?345
Ancora una volta, con la motivazione del “legittimo sospetto”, il 14 dicembre ‘49 la
Suprema Corte di Cassazione rinviò il giudizio346.
L’ennesimo processo si aprì nella tarda primavera del ‘50 presso la Corte d’Assise di
Perugia e vide sfilare a difesa di Basile una serie di esponenti illustri del fascismo
repubblicano, come Angelo Tarchi, Piero Pisenti, Renzo Montagna. Tutti descrissero
Basile come una persona mite e impegnata a salvaguardare gli operai italiani. «Il prefetto
Basile fu costantemente preoccupato di far sì che gli operai di Genova fossero trattati
bene, avessero lavoro, e di evitare che fossero trasferiti in Germania», osservò, ad
esempio, l’ex ministro dell’Economia della RSI, che nel frattempo era stato amnistiato347.
Molti dei testi d’accusa, invece, o per ragioni economiche o per motivi di salute, non
poterono raggiungere il capoluogo umbro. Scrisse, ad esempio, la vedova di Amedeo
gravi crimini, come Carlo Scorza, che nel luglio ‘25 a capo di una squadraccia aveva aggredito e ferito a morte Giovanni Amendola. 344 AS di Perugia, Fondo Corte di Assise di Perugia, Processi penali, b. 83, fasc. 1013, Brevi note di accompagno di documenti in favore dell’istanza di rimessione presentata da C. E. Basile, 27 settembre 1948 345 Ivi, Lettera di C. E. Basile alla Corte Suprema di Cassazione, 14 settembre 1948 346 Ivi, Sentenza della Suprema Corte di Cassazione, 14 dicembre 1949 347 Ivi, Deposizione di A. Tarchi a favore di C. E. Basile, s.d.
154
Lattanzi al presidente della Corte d’Assise, che «per ragioni finanziarie» non le era
«assolutamente possibile sostenere le spese di viaggio e di soggiorno a Perugia»348.
I giudici della Corte d’Assise di Perugia insistettero sulla “cosa giudicata”. Ecco il
passaggio chiave del ragionamento:
[...] Senza bisogno di ricercare la definizione esatta del reato di collaborazionismo, se
cioè sia un reato complesso e permanente ovvero unico a fatti plurimi, ossia una pluralità
di atti quali manifestazioni della stessa attività, e di fare lunghe dissertazioni sul carattere
e sulla estendibilità della cosa giudicata, appare chiaro che nella fattispecie si sia ormai
formato un giudicato, che impedisce a questa Corte d’Assise di occuparsi delle
imputazioni oggi rivolte al Basile, in quanto essa dovrebbe riesaminare se le cause
ostative (omicidi), eliminate dalla Corte di Napoli, invece esistessero, con l’eventuale
conseguenza di sentenziare che l’amnistia, da lei applicata, fosse invece inapplicabile349.
In conclusione, la corte dichiarò «non doversi procedere contro Basile Carlo Emanuele
perché l’azione penale non poteva essere esercitata, ostandovi la cosa giudicata» ed
ordinò che Basile fosse rimesso in libertà, se non detenuto per altra causa.
Complici un’atmosfera politica totalmente cambiata e la celebrazione del processo in un
territorio geograficamente lontano dal luogo dove i crimini contestati erano stati
commessi, i giudici della Sezione Speciale della Corte d’Assise di Perugia consacrarono
la definitiva impunità per l’ex capo della provincia di Genova.
Inutile il ricorso promosso dal P.M.: la Suprema Corte di Cassazione a dicembre si
espresse per il rigetto, chiudendo una volta per sempre il lungo capitolo del procedimento
Basile350.
348 Ivi, Lettera da I. Lattanzi al Presidente della Corte d’Assise di Perugia, 6 giugno 1950 349 Ivi, Sentenza della Corte d’Assise di Perugia, 16 giugno 1950 350 Ivi, Sentenza della Corte Suprema di Cassazione, 19 dicembre 1950
155
4.5 I magistrati: tra politica, cultura, mentalità
I magistrati impegnati nei processi a Basile e di cui si è potuto esaminare il rispettivo
fascicolo personale sono Ettore Acerra, Nicandro Siravo e Armando Carlevaris,
rispettivamente P.M. a Pavia, Napoli e Perugia351.
Su Giovanni De Matteo, P.M. alla CAS di Milano e citato da Becca quale «giovane
valorosissimo sostituto procuratore»352 non abbiamo purtroppo molte notizie, non
essendo stato ancora versato il suo fascicolo nell’Archivio Centrale dello Stato. Sappiamo
però che De Matteo era un magistrato giovane all’epoca dei processi alle CAS – era infatti
nato nel 1912 ad Aquilonia, in provincia di Avellino –, che era entrato in servizio nel ‘39
e che era andato in pensione tra il ‘69 e il ‘71 (ciò probabilmente spiega anche perché il
suo fascicolo si trovi ancora al dicastero)353. Inutile dire che tali dati non sono
assolutamente sufficienti a ricostruire un profilo completo del personaggio; tuttavia, essi
aiutano quantomeno a evidenziare qualche differenza rispetto al profilo degli altri tre
magistrati.
Dall’analisi delle carte del Ministero di Grazia e di Giustizia, di Acerra, Siravo e
Carlevaris emergono profili biografici decisamente simili. Innanzitutto, per quanto
riguarda l’età e la provenienza geografica. Si tratta di magistrati, infatti, che
(diversamente da De Matteo) sono nati tutti negli anni Ottanta o Novanta dell’Ottocento
e che, quindi, al momento dei processi a Basile, pur essendo ancora abbastanza “giovani”,
hanno già alle spalle una consolidata carriera. Inoltre, come De Matteo, provengono tutti
dal Sud Italia. Acerra era nato a Caivano, un piccolo paese in provincia di Napoli, nel
1896, ed era divenuto giudice nel ‘28. Siravo, invece, era di Venafro, provincia di
Campobasso, ed era entrato in magistratura nel ‘20. Carlevaris, infine, era nato a
Campobasso il 22 settembre del 1899 ed era stato promosso a magistrato nel ‘30.
351 ACS, Fondo Mgg, Ufficio superiore personale e affari Generali (fino al 1970) (1860-1949), Ufficio Secondo (1860-1970), Magistrati, fascicoli personali 1860-1970, IV° versamento 1950-1970, b. 210, n. 70788, n. 82157, n. n. 85944 352 G. Grassi - P. Lombardi (a cura di), Democrazia al lavoro, op. cit., p. 254 353 Si ringrazia per le informazioni biografiche su De Matteo Giovanni Focardi. Focardi accenna a De Matteo anche in Arbitri di una giustizia politica, art. cit., pp. 208-9. De Matteo scrisse nel ‘93 un’opera biografica dal titolo Vita a rischio di un magistrato. Da Piazzale Loreto a via Fani, Cinisello Balsamo, Edizioni Paoline, 1993
156
Dunque, i più giovani – Acerra, Carlevaris e De Matteo – erano entrati in magistratura
durante il Ventennio, mentre Siravo, più anziano, poco prima. Tutti, comunque, avevano
fatto carriera durante il fascismo.
Tra i percorsi di vita di Acerra, Siravo e Carlevaris balza poi subito all’occhio un altro
elemento comune, assente ovviamente per ragioni anagrafiche nella biografia di De
Matteo: e, cioè, il fatto di aver partecipato alla Prima guerra mondiale. Acerra e Siravo,
più anziani, avevano prestato servizio come ufficiali, venendo decorati, rispettivamente,
della medaglia d’argento e della Croce di Guerra al valor militare; Carlevaris, uno dei
“ragazzi del ‘99”, aveva invece partecipato alla Grande Guerra come soldato di leva.
Acerra e Carlevaris erano stati richiamati al fronte anche durante la Seconda guerra
mondiale: il primo nel ‘40 col grado di capitano dei bersaglieri e poi nuovamente nel ‘41
col grado di maggiore addetto ai Tribunali di Guerra della Quarta Armata; il secondo nel
’41, quale capitano di fanteria di complemento con funzioni di sostituto avvocato militare
presso il Tribunale militare di guerra della Seconda Armata in Croazia.
Complessivamente, dunque, si tratta di figure caratterizzate da esperienze analoghe – la
partecipazione alla Grande Guerra (fatta eccezione per De Matteo), l’acquisizione di
medaglie al valore, l’avvio e/o il consolidamento della carriera durante il fascismo. Ora –
ci si chiede – in che misura un simile background influì sulla condotta assunta da questi
magistrati, chiamati nel ruolo di P.M. all’interno delle CAS? L’aver avuto un vissuto
simile significò automaticamente l’adozione di scelte uguali anche nei processi verso i
collaborazionisti? E, nello specifico, quale fu la posizione assunta rispetto all’imputato
Basile?
Innanzitutto, è da osservare che i giudizi espressi dai “superiori” rispetto al lavoro svolto
nelle Corti d’Assise Straordinarie da questi tre magistrati sono tutti positivi. Si legge, ad
esempio, nel fascicolo di Acerra, che il magistrato nelle Corti d’assise pavesi «dimostrò
sempre grande equilibrio e grande tatto e riuscì a portare a termine in modo lodevole e
con generale plauso dei processi gravissimi»354.
Relativamente all’attività svolta presso la Sezione Speciale della Corte di Assise di
Campobasso, si legge che Siravo «seppe arrecare un contributo assai apprezzato per le
sue requisitorie serene ed equilibrate, che da tutti – non esclusi gli avversari – raccolsero
354 ACS, Fondo Mgg, Ufficio superiore personale e affari Generali (fino al 1970) (1860-1949), Ufficio Secondo (1860-1970), Magistrati, fascicoli personali 1860-1970, IV° versamento 1950-1970, b. 210, n. 70788
157
consensi ed ammirazione, essendo sempre esse ispirate alle norme di legge, interpretate
con sano criterio di diritto e di umanità»355.
Anche, infine, di Carlevaris, si evidenzia «l’opera di efficace collaborazione, per il
raggiungimento dei fini di giustizia, fornita [...] nella discussione di gravi processi in
Assise», ma soprattutto, si ricorda «la fierezza» e «l’energia spiegata» nel salvare alcuni
importanti documenti processuali nel mandamento di Sora durante l’occupazione nazi-
fascista356.
L’analisi delle requisitorie dei processi a Basile mette, tuttavia, in evidenza significative
differenze di approccio tra i tre magistrati. Di Acerra, purtroppo, non è stato possibile
reperire l’arringa, ma alcuni punti nevralgici del discorso sono ricavabili dalla stampa:
egli definì quella di Basile un’«anima cinica, perversa e violenta» e paragonò l’attività
politica dell’ex capo della provincia a quella di un «fascista fanatico», non mancando di
ricordare gli ordini di deportazione degli operai in Germania, nonché l’eccidio del
Turchino357.
Di carattere analogo fu la requisitoria di Carlevaris al processo di Perugia: quest’ultimo
sostenne la volontarietà dell’azione del Basile circa gli omicidi con l’aggravante della
meditazione ed escludendo che l’ex capo della provincia avesse agito in stato di necessità;
pertanto chiese di condannare Basile a trent’anni di reclusione, in concorso delle
attenuanti generiche358. Non solo: in seguito, pronunciata la riconferma dell’amnistia, si
impegnò a fare ricorso, chiedendo che la Cassazione annullasse con rinvio la sentenza
della Sezione Speciale della Corte d’Assise di Perugia359.
Due discorsi, dunque, quelli di Acerra e di Carlevaris, da cui emerge molto chiaramente
il riconoscimento dei reati di collaborazionismo commessi da Basile e il tentativo di
infliggere all’imputato una giusta condanna.
355 Ivi, b. 514, n. 82157 356 Ivi, b. 879, n. 85944 357 Movimentato inizio del processo Basile e Basile condannato a morte dalle assise
straordinarie di Pavia in «Corriere della Sera», 25 e 26 gennaio 1946 358 AS di Perugia, Fondo Corte di Assise di Perugia, Processi penali, b. 83, fasc. 1013, Requisitoria di A. Carlevaris alla quinta udienza del processo Basile, 15 giugno 1950 359 Ivi, Motivi del ricorso per Cassazione proposto dal P.M. contro la sentenza della Corte d’Assise di Perugia in data 16 giugno 1950, 13 luglio 1950
158
La requisitoria di Siravo fu di tutt’altro tipo, come già chiarito dal magistrato stesso
all’inizio del discorso: «Le richieste del P.M. a Napoli, invece, saranno molto diverse»360.
L’arringa di Siravo conteneva tutti gli elementi che poi sarebbero stati accolti dalla corte
di Napoli: l’attribuzione della responsabilità dei crimini ai tedeschi e al questore Bigoni,
i tentativi del capo della provincia di mitigare gli ordini germanici, la bontà delle azioni
dispiegate dal Basile, prima e durante l’occupazione tedesca. Si consideri qualche
passaggio, significativo:
Vi dico chiaro il mio pensiero, il quale è come il succo di tutto il processo: a Genova, tra
i tedeschi che spadroneggiavano ed il fascio repubblicano e, più ancora il famigerato
questore Bigoni, che gli avevano preso la mano, il Basile ha fatta della retorica e della
eloquenza!361
Il suo è un collaborazionismo più ideologico che di fatto, tanto che di fronte ai ben diversi
sistemi nazifascisti la sua sensibilità morale gli vieta di collaborare in quei sistemi e si ha
la prova di sforzi fatti da lui per mitigare almeno la insuperabile azione tedesca362.
Orbene, se Basile fosse stato quel feroce aguzzino che poi si è creduto rappresentare, con
le esigenze tedesche, gli ordini del governo, le azioni energiche del questore Bigoni,
quanto più alto sarebbe stato il numero dei deportati! Invece i proclami, le lusinghe, le
parole grosse, perché si lavorasse e non si scioperasse, furono dirette allo scopo, in gran
parte raggiunto, di non dare pretesto ai tedeschi per deportazioni in massa363.
La requisitoria di Siravo fu oggetto di aspre contestazioni, soprattutto per via di alcune
affermazioni del magistrato che non vennero trascritte sui verbali d’udienza ma furono
messe ben in luce da tutta la stampa che seguì il processo Basile. Egli sostenne, infatti,
che le leggi eccezionali per le sanzioni contro il fascismo fossero state una mostruosità e
che la magistratura del Nord nel giudicare i fascisti avesse subito interferenze estranee e
avesse perciò compiuto non opera di giustizia, bensì di vendetta.
360 ILSREC, Fondo Dv 25, b. 3 “Denunce, processi a carico di nazi-fascisti”, Il processo Basile in «Oratoria» (in fotocopia), s.d., p. 508 361 Ivi, p. 515 362 Ivi, p. 523 363 Ibidem
159
Il 19 novembre ‘47 gli onorevoli socialisti Pertini, Gaetano Barbareschi e Vannuccio
Faralli presentarono un’interrogazione parlamentare per chiedere al ministro di Grazia e
Giustizia quali provvedimenti intendesse prendere nei confronti di tali affermazioni.
Nell’interrogazione Pertini sostenne che in Siravo l’animo politico avesse preso il
sopravvento su quella che era la coscienza del giudice e che ciò non potesse essere
tollerato in una democrazia. «Ecco la ragione di questa nostra interrogazione, perché se
per caso noi lasciassimo, come sotto il fascismo, che la Magistratura venga inquinata dalla
passione politica», concluse, «essa non farebbe più opera di giustizia, ma farebbe opera
di vendetta, compirebbe atti di favoritismo ed allora mancherebbe una delle garanzie più
sicure, perché veramente le libertà democratiche possano consolidarsi in Italia»364.
La magistratura, comunque, fu contestata sin dall’inizio del procedimento Basile. Subito
dopo la sentenza di Milano, alcuni magistrati si erano sentiti in dovere di intervenire per
puntualizzare il dissenso dimostrato dalla magistratura rispetto al fascismo, ma anche per
sottolineare l’urgenza di non fomentare nella popolazione un sentimento di sfiducia verso
la giustizia, che avrebbe potuto essere deleterio per la ricostruzione democratica del
Paese. Aveva scritto, ad esempio, un magistrato anonimo su «l’Unità»: «I magistrati però
non possono né debbono restare a lungo sotto il peso delle accuse contro di essi lanciate.
Non lo consente la loro alta missione, soprattutto oggi che ad essi si chiede una così vitale
partecipazione alla lotta contro i residui del fascismo365».
L’idea che la magistratura fosse oggetto di continui attacchi e che la politica interferisse
nelle funzioni dei magistrati fu al centro di una lunga lettera dell’avvocato Giovanni
Napolitano, pubblicata sul settimanale «La Giustizia» all’indomani della sentenza
napoletana di amnistia a Basile. In solidarietà con il collega Siravo, Napolitano sferrò un
attacco alla stampa denunciando una mancanza di rispetto e di difesa dell’istituto
giudiziario e sostenendo che il caso di Basile venisse in qualche modo strumentalizzato
politicamente dalle forze di sinistra del Paese per creare disordini: «Proteste e clamori
della piazza o delle masse, lavoratrici, reali o pubblicitari, non sono un fenomeno di
spontanea suggestione [...] e il più semplice spettatore e lettore avverte intuitu il loro
carattere di fatti tendenziosi e mosse di manovra»366. Un pensiero condiviso anche da altri
364 Scritti e discorsi di Sandro Pertini, op. cit., p. 159 365 INSMLI, Clnl, b. 60, fasc. 218, Il caso Basile e la magistratura, s. d. 366 ACS, Mgg, (1851-1983), Gabinetto (1927-1976), Archivio Generale, Affari Diversi, 1925-1983, b. 21, Silenzio intorno alla magistratura oltraggiata in «La Giustizia», 30 settembre 1947
160
giornali come «Parola Nuova»: «La corte di Napoli non ha fatto che obbedire alla legge
voluta dal capo dei comunisti italiani. È deplorevole quindi che le masse operaie italiane
siano oggi sobillate dal partito comunista» – si legge in un articolo del 7 settembre – «Ma,
più che deplorevole, è grave che si permetta che la magistratura sia vilipesa quando dà
segno di quella indipendenza che tutti le riconoscono necessaria per il suo ministero»367.
La polemica sorta intorno alla sentenza di amnistia pronunciata dal magistrato Siravo
chiama in causa il tema della fascistizzazione della magistratura, denunciato da Becca già
nell’estate ‘45, e individuato dalla storiografia come uno degli elementi più significativi
della “continuità dello Stato”368. Ma evidenzia anche molto bene quell’attrito di lungo
corso esistente tra la magistratura e il Partito Comunista Italiano, attrito che,
nell’immediato dopoguerra, rese particolarmente difficili i rapporti tra il ministro
guardasigilli Togliatti e i magistrati. Spiega Neppi Modona, in proposito:
[...] un ministro della giustizia comunista era difficilmente accettabile da una casta chiusa
e per sua natura conservatrice quale era la magistratura che usciva dal ventennio fascista;
per chi istituzionalmente svolgeva il ruolo di tutore dell’ordine, della legalità e della
continuità giuridica, il PCI incarnava tuttora il simbolo della eversione e del disordine.
In questa atmosfera un rapporto di sospetto, di sfiducia e di incomprensione legava a
doppio filo Togliatti ed i magistrati, posto che lo stesso Togliatti ebbe in più di una
occasione a manifestare riserve, se non veri e propri pregiudizi, per la casta dei giuristi in
quanto tali, intesi come ceto unitario, senza sfaccettature, senza distinguere all’interno
della categoria i giuristi conservatori da quelli progressisti369.
Tornando alla requisitoria di Siravo, sembrano emergere alcuni altri aspetti meritevoli di
riflessione. Si consideri, ad esempio, questo passaggio:
La motivazione di una delle medaglie per atto di valore compiuto a Pozzuolo del Friuli il
30 ottobre 1917 desta in me un ricordo particolare. Basile, volontario di guerra, era
367 Ivi, Il confino di Basile in «Parola Nuova», 7 settembre 1947 368 La storiografia sul tema è molto ampia. Si veda, ad esempio, il pionieristico studio di G. Neppi Modona, La magistratura e il fascismo in G. Quazza (a cura di), Fascismo e società italiana, op. cit. Tra i lavori più recenti, si segnalano E. Bruti Liberati, Magistratura e società nell’Italia repubblicana, Roma-Bari, Laterza, 2018 e G. Scarpari, Giustizia politica e magistratura dalla Grande Guerra al fascismo, Bologna, il Mulino, 2019 369 G. Neppi Modona, Togliatti guardasigilli in A. Agosti (a cura di), Togliatti e la fondazione dello stato democratico, op. cit., p. 290
161
ufficiale nei Lancieri e con gravissimo rischio, alla testa del suo plotone, per difendere
l’ingresso del paese contro l’incalzante nemico, caricò ripetutamente le migliatrici
avversarie con slancio ed ardimento singolari, finché, avendo il cavallo ucciso, rimase
travolto nella caduta di esso.
Si era nei giorni della disfatta di Caporetto, che le più recenti sventure della nostra Patria
non possono far dimenticare completamente; e le divisioni di cavalleria ed i bersaglieri,
nel settore della seconda Armata in disfatta, contendevano al nemico il terreno palmo a
palmo per dar tempo di preparare la difesa del Piave. Ero allora anche io ufficiale di
Cavalleria e ricordo che il 30 ottobre passai per Pozzuolo del Friuli poche ore prima dello
scontro sanguinoso ed ivi incontrai e salutai i commilitoni dei reggimenti di Genova e
Novara, i quali, “eroicamente sacrificatisi”, come poi disse il bollettino di Cadorna,
furono in questo additati con le altre truppe alla riconoscenza della Nazione370!
Questa parte dell’arringa è particolare e si distingue dal resto del discorso, perché Siravo
si lascia andare ad un ricordo personale: la partecipazione alla Grande Guerra. Il fatto,
vissuto dal magistrato in gioventù, sembra essere ricordato con un misto di nostalgia e
soprattutto di orgoglio e di fierezza. L’impressione è che Siravo, nell’aula giudiziaria, si
stia rivolgendo con queste parole proprio a Basile, coinvolgendolo nel ricordo di
un’esperienza vissuta insieme, epica e tragica al tempo stesso. Esperienza di fronte alla
quale tutto ciò che è venuto dopo – il fascismo, l’8 settembre, l’occupazione tedesca, la
guerra civile – sembra svanire, lasciando posto esclusivamente ad una considerazione di
pura etica militare, svincolata completamente dal contesto:
La parte civile contrasta con il beneficio dell’attenuante perché Basile compì gli atti di
valore nella guerra contro i tedeschi – mentre ora ha collaborato con i tedeschi – E che
significa questo? Il militare ha il dovere di combattere il nemico, quale che sia, ed il valore
è sempre valore371.
Siravo, cioè, in questo passaggio sta vedendo in Basile non il fascista, non il capo della
provincia, non il sottosegretario alla Guerra della RSI, ma solo ed esclusivamente il
soldato che, come lui, ha combattuto nella Prima guerra mondiale e come lui ha sofferto.
370 ILSREC, Fondo Dv 25, b. 3 “Denunce, processi a carico di nazi-fascisti”, Il processo Basile
in «Oratoria» (in fotocopia), s.d., p. 526 371 Ibidem
162
Ed è naturale, quindi, che senta nei suoi confronti una fortissima affinità e nutra un moto
di profonda riconoscenza.
Pare, dunque, piuttosto naturale che questo sentimento possa aver contribuito in qualche
modo a condizionare il giudizio complessivo del magistrato nei confronti dell’imputato.
Il richiamo alla comune esperienza concorre senz’altro ad influenzare le scelte del
magistrato alla luce di quel mito della Grande Guerra che, elaborato e strumentalizzato
dal fascismo, aveva sublimato una delle più grosse tragedie dell’umanità in un’esperienza
rigeneratrice, fondativa, unificante.
Quello di Basile è solo un caso tra mille, ma certo può indurre a qualche considerazione
sulla magistratura. C’è da dire in proposito che non tutti i magistrati furono fascisti, ma
che certo alcuni lo furono; che all’interno delle CAS vi fu chi, come Acerra e Carlevaris,
per quanto avesse fatto carriera nel Ventennio e non potesse essere definito propriamente
un magistrato “resistente”, tuttavia provò ad adempiere ad un principio di giustizia (e, in
questa rosa, va probabilmente aggiunto anche De Matteo); che altri, invece, come Siravo,
incarnarono appieno quella continuità col fascismo che ostacolò e, in ultima istanza,
consentì di garantire l’impunità ad uno dei criminali fascisti più responsabili. Ma anche
che, oltre alla politicizzazione, sulle scelte dei magistrati influirono elementi culturali, di
mentalità, di formazione giuridica.
Un’ultima considerazione: la “continuità dello Stato” traspare anche dalle successive
evoluzioni delle carriere dei magistrati analizzati. Infatti, chi avrebbe fatto più “carriera”
tra i tre sarebbe stato proprio Siravo, che sarebbe diventato presidente di Sezione della
Corte d’Appello di Napoli e presidente di Sezione della Suprema Corte di Cassazione.
Ciò, del resto, stupisce poco se si considera che anche altri magistrati – ben più
apertamente fascisti – sarebbero giunti ad analoghi alti livelli. Si pensi solo al caso di
Gaetano Azzariti che, presidente del Tribunale della Razza, avrebbe ricoperto, già a
partire dal governo Badoglio, degli incarichi di rilievo, fino ad essere nominato nell’Italia
repubblicana presidente della Corte costituzionale372.
372 Gaetano Azzariti (1881-1961), giurista e politico, nel ‘38 fu tra i firmatari del “Manifesto della razza”. A dispetto di ciò e della presidenza ricoperta all’interno del Tribunale della Razza, sin dal crollo del fascismo ebbe incarichi di rilievo. Il 25 luglio ‘43 fu nominato ministro di Grazia e Giustizia nel primo governo Badoglio e, dal giugno ‘45 al luglio ‘46, collaborò col ministro di Grazia e Giustizia Palmiro Togliatti. Nel ‘55 fu nominato dall’allora presidente della Repubblica Giovanni Gronchi giudice costituzionale e due anni dopo divenne presidente della Corte costituzionale. Nel ‘70 a Napoli gli venne intitolata una via, che nel 2015 è stata rimossa per far spazio al ricordo di Luciana Pacifici, una bimba ebrea morta nel febbraio ‘44 a soli otto mesi su
163
L’aver ottenuto l’amnistia a favore di un personaggio giudicato tra i più grandi criminali
di guerra fascisti, insomma, non avrebbe inficiato minimamente la carriera di Siravo che,
ancora al momento del pensionamento, nel ‘59, sarebbe stato ricordato dall’allora
ministro della Giustizia democristiano Guido Gonella come uno «fra i magistrati
migliori», nonché «meritevole di ogni lode per la profonda dottrina e per la non comune
esperienza profuse in pregevolissimi lavori giudiziari»373.
4.6 Manifestazioni e scioperi
Il caso politico-giudiziario creatosi attorno a Basile riscosse un grande clamore mediatico,
dal Nord al Sud Italia, e fu seguitissimo dalla popolazione, la cui rabbia per la controversa
vicenda processuale sembrò trovare dei “portavoce” dapprima nei Cln e poi, soprattutto
a partire dalla sentenza di amnistia, nella CGIL.
Le reazioni alla sentenza milanese scoppiate nel capoluogo lombardo sono state già
illustrate, ma la condanna di Basile a vent’anni ebbe una significativa risonanza anche
altrove. A Bergamo, ad esempio, il primo congresso del Cln votò all’unanimità una
mozione in cui chiese «un rinnovamento delle leggi sull’epurazione e la repressione dei
delitti fascisti in modo da rendere impossibile il ripetersi di casi Basile»: un auspicio in
linea con la proposta di Becca di inasprire la legislazione predisposta verso i
collaborazionisti374.
un vagone diretto ad Auschwitz (Napoli cancella il giudice antisemita in «Il Mattino», 7 ottobre 2015). Sulla controversa figura del magistrato si veda: M. Boni, Gaetano Azzariti: dal Tribunale della Razza alla Corte Costituzionale in «Contemporanea», 4/2014 ottobre-dicembre, il Mulino, pp. 577-608. Anche gli altri tre magistrati facenti parte del Tribunale della Razza, Antonio Manca, Giovanni Petraccone e Giuseppe Lampis ottennero incarichi prestigiosi nell’Italia repubblicana: Manca e Lampis divennero componenti della Corte costituzionale, mentre Petraccone venne eletto nel ‘46 vicepresidente dell’associazione nazionale magistrati e, in seguito, presidente di sezione della Cassazione. Sulla vicenda cfr.: E. Bruti Liberati, Magistratura e società nell’Italia repubblicana, op. cit. 373 ACS, Fondo Mgg, Ufficio superiore personale e affari Generali (fino al 1970) (1860-1949), Ufficio Secondo (1860-1970), Magistrati, fascicoli personali 1860-1970, IV° versamento 1950-1970, b. 879, Lettera del ministro di Grazia e Giustizia G. Gonella al Presidente della Corte d’Appello di Napoli N. Siravo, 30 settembre 1959 374 IPSREC, Fondo Cln provinciale clandestino, Mozione votata all’unanimità al primo congresso di Cln della provincia di Bergamo, 17 giugno 1945
164
Fu però soprattutto in Liguria e a Genova che si ebbero i moti di contestazione più accesi.
La stampa e in modo particolare «l’Unità» registrarono accuratamente quanto accadde375.
Il giorno successivo alla proclamazione della sentenza, gli operai dei vari stabilimenti
colpiti dagli ordini di deportazione di Basile – Ansaldo, S. Giorgio, Giulio Campi –
scioperarono in segno di protesta e le vie del centro di Genova si riempirono di
manifestanti. Da tutta la Liguria giunsero proteste sottoscritte da vari soggetti e
associazioni: partigiani, UDI, Fronte della Gioventù, deportati superstiti. Nel frattempo,
il sindaco di Genova Vannuccio Faralli definiva «una mostruosità» quanto accaduto e
tutti i prefetti della Liguria inviavano al Ministero dell’Interno e al Ministero della
Giustizia dei telegrammi in cui si facevano interpreti della «profonda indignazione» della
popolazione genovese e invocavano «severità» e «giustizia»376.
La situazione era molto tesa: il popolo genovese minacciava di farsi giustizia da solo. Su
«l’Unità» del 17 giugno, nella rubrica dedicata alle “Voci dalla città” si legge, ad esempio:
«Noi vogliamo Basile a Genova, e qua processarlo, perché altrimenti saremmo capaci di
andarlo a prendere ed allora succederanno dei fatti gravi, molto gravi» o, anche,
«Chiediamo a gran voce non vendetta, ma giustizia, e se non avremo soddisfazione di
quello che chiediamo, noi, uomini di parola, compiremo quello che la giustizia reazionaria
ci nega»377. Intanto Basile veniva definito “mostro”, “fucilatore”, “torturatore”,
“traditore”, “criminale”, “sadico”378.
Della rabbia della popolazione genovese si fece interprete il Cln della Liguria, che il 26
giugno trasmise al Clnai un ordine del giorno accompagnato da alcuni brani di manifesti
fatti affiggere da Basile durante la sua gestione della provincia. La lettera riassumeva in
modo inequivocabile il giudizio senz’appello della popolazione genovese nei confronti
dell’ex capo della provincia:
Basile, infatti, è stato, in Genova, il collaborazionista, il fascista repubblicano, il
reazionario per eccellenza. Crediamo che in nessuna altra provincia nessun prefetto abbia
fatto quello che Basile ha fatto a Genova. Deportazioni di operai, fucilazioni di detenuti
375 Hanno condannato a Basile a vent’anni! e Volontà di giustizia e ordine popolare rispondono al tentativo reazionario di “provocazione” e di salvataggio del fascismo in «l’Unità», 16 e 17 giugno 1945 376 ILSREC, Fondo Cln 25, b. 25, fasc. 9-10, Telegramma dai prefetti della Liguria al ministro di Giustizia 377 Tutta la città ne parla in «l’Unità», 17 giugno 1945 378 Ibidem
165
politici, prelevamenti e fucilazioni in massa di ostaggi, rastrellamenti i più feroci, da lui
voluti ed attuati, sono il più grave e crudele aspetto del suo collaborazionismo ad oltranza
e a tutti i costi. È con lui che la inquadratura della polizia politica si è costituita dopo l’8
settembre, è attraverso la sua costante cura che essa ha assunto quella virulenza della
quale tante famiglie in lutto hanno subito le conseguenze379.
Odio che culmina con la considerazione secondo cui «per tali fatti (e cioè prescindendo
da quello che ha fatto dopo la sua partenza da Genova) Basile ha meritato cento e cento
volte la pena di morte»380.
In questo frangente, i sentimenti dell’opinione pubblica vennero intercettati dal Cln
regionale, che cercò, mentre chiedeva giustizia, di placare gli animi della folla, ben
consapevole del fatto che quest’ultima fosse «già profondamente turbata dalla
insufficienza delle leggi e dalla maniera tutt’affatto blanda colla quale le stesse vengono,
in genere, applicate nei confronti delle figure fasciste preminenti»381.
In effetti, la stessa operazione di “argine” ai rischi di violenza incontrollata era stata fatta
da Becca che, al termine del suo discorso agli operai giunti in delegazione al Cln
lombardo, aveva garantito che la giustizia all’interno delle CAS avrebbe fatto il suo corso:
«Però non dubitate – assicurò ai suoi interlocutori – che per questo ci sono dei rimedi ed
io ho già cominciato a rimediare: 1) facendo dimettere [...] il Presidente e i quattro giurati
[...]; 2) ricorso in Cassazione; 3) vigilanza sulla Corte di Cassazione [...] 4) L’ultimo
rimedio [...] è proprio quello dell’epurazione [...]»382.
Si può vedere, dunque, come nel caso Basile. sia il Commissariato alla Giustizia,
organismo “tecnico” del Cln lombardo, sia il Cln ligure, pur schierandosi “dalla parte del
popolo”, cercano di tenere a freno le incomposte manifestazioni e le ricorrenti minacce
della folla, faticosamente contenute nell’alveo della legalità. Essi, dunque, vengono ad
assumere una funzione fondamentale, garantendo un punto di equilibrio tra quell’ansia di
vendetta e quell’esigenza di giustizia in cui si misura tutta la partita della giustizia in
transizione. Del resto, il ruolo dei Cln è ancora più straordinario se si tiene conto del fatto
che esso viene garantito proprio mentre è in corso il declino di questi organismi
379 ILSREC, Fondo Ap, 3, Lettera dal Cln ligure al Clnai, 26 giugno 1945 380 Ibidem 381 Ibidem 382 G. Grassi - P. Lombardi (a cura di), Democrazia al lavoro, op. cit., pp. 253-4
166
resistenziali. È, anzi, quasi paradossale il fatto che i Cln rivestano un compito così
importante e delicato proprio nel momento in cui, in effetti, stanno via via perdendo tutti
i loro poteri.
Analizzando le reazioni al caso Basile, non si può non notare che a schierarsi in prima
linea nelle proteste fu la classe operaia. Rispetto al tema sembra opportuno fare qualche
considerazione. Già si è esaminata la protesta della delegazione di operai al Cln lombardo
e già si è anche osservato come quella protesta fosse emblematica di un disagio
complesso, in cui alla rabbia per il fallimento dell’epurazione e della giustizia verso i
collaborazionisti si sovrapponeva un malcontento per la difficile situazione economica.
I processi a Basile furono seguitissimi dalla classe lavoratrice. Molti furono gli operai che
presenziarono anche fisicamente nelle aule giudiziarie, sia come testimoni dei fatti, sia
come semplici spettatori, allo scopo di partecipare, dare conforto ai parenti, esprimere
una solidarietà – anche in quanto “classe” – nei confronti di coloro che erano stati fatti
deportare da Basile: soprattutto quando venne celebrato il dibattimento a Pavia, anche per
via della maggiore vicinanza geografica ai luoghi dei crimini, in centinaia furono gli
operai che accorsero da Genova ad assistere al dibattimento383.
L’agitazione della classe operaia esplose più forte e intensa dopo la sentenza di Napoli384.
Decine allora furono le proteste pervenute al Ministero di Grazia e Giustizia dalle
maestranze operaie, soprattutto del Nord Italia: da Vicenza, Venezia, Savona, Paderno
Dugnano, La Spezia, Saronno, Pavia, Torino, Torre Annunziata, Modena e molti altri
centri ancora si levarono cori unanimi di disapprovazione per l’amnistia concessa al
«torturatore dei lavoratori genovesi»385. A Milano e Monza, come già accaduto nel giugno
‘45, in tutti gli stabilimenti venne sospesa per un’ora ogni attività lavorativa386.
Il 30 agosto la Camera del Lavoro di Genova proclamò lo sciopero generale.
383 Stamane la Corte d’Assise straordinaria inizierà il processo contro Basile in «La Provincia Pavese», 25 gennaio 1946: «Le udienze si annunciano burrascose. È segnalata da Genova la partenza di un treno carico di operai che vengono ad assistere al dibattito». 384 Si consideri qualche titolo apparso su «l’Unità»: Il fucilatore Basile è da ieri in libertà, 30 agosto 1947, Sciopero generale a Genova e fermento in tutta Italia, 31 agosto 1947, Sciopero a Milano per lo scandalo Basile, 2 settembre 1947. 385 ACS, Mgg, (1851-1983), Gabinetto (1927-1976), Archivio Generale, Affari Diversi, 1925-1983, b.21, Telegramma dalla Camera di Lavoro di Pavia al Ministero di Grazia e di Giustizia, 1° settembre 1947 386 Ivi, Rapporto dal Comando Generale dell’Arma dei Carabinieri al Ministero di Grazia e Giustizia, 2 settembre 1947
167
Lo sciopero generale – si legge nel manifesto dal testo emblematico – che si accompagna
alla spontanea manifestazione di sdegno di tutti i lavoratori e dei cittadini genovesi contro
una sentenza negatrice della giustizia, vuol essere l’espressione di protesta contro un fatto
che, già grave di per se stesso, è l’indice di una risorgente reazione che tende ad annullare
le conquiste democratiche del popolo italiano. I supplizi, le torture, le deportazioni dei
patrioti, tutto ciò che rappresenta l’aristocrazia del sacrificio compiuto per liberare il
popolo italiano dalla oppressione e dalla tirannide, non possono non sprigionare dal
sentimento del popolo stesso una manifestazione di cordoglio e di protesta [...] La Camera
del Lavoro, facendosi interprete dei sentimenti del popolo lavoratore genovese ha deciso
di dichiarare lo sciopero generale per oggi a partire dalle 9.30 fino alla mezzanotte. I
lavoratori e la popolazione tutta compostamente accoglieranno questa decisione col senso
del nostro tradizionale civismo387.
Tra i vertici della CGIL si discusse se fosse il caso di invitare le masse a cessare
l’agitazione oppure di proclamare lo sciopero generale. Alla fine, anche in considerazione
del fatto che il Governo si era già espresso a favore di un nuovo arresto per Basile e
probabilmente per non fare precipitare una situazione già tesissima, i membri del
Comitato Esecutivo, riunitosi il 30 agosto d’urgenza, autorizzarono le manifestazioni già
stabilite, ma decisero di soprassedere alla disposizione di sciopero generale388. Qualche
giorno dopo, spiegò così Di Vittorio l’intervento della CGIL:
A coloro i quali ci chiedono quale titolo abbia la CGIL per intervenire in una questione
del genere, rispondiamo che quando un organo qualsiasi dello Stato offende così
profondamente il senso di giustizia del popolo, fino al punto di portare milioni di
lavoratori ad esprimere la loro indignazione con l’attuazione spontanea di uno sciopero
generale completo come quello di Genova; e quando tale indignazione è così diffusa nelle
masse popolari del Paese da portare numerose Camere del Lavoro – con votazione
unanime di tutte le correnti – a chiedere alla CGIL lo sciopero generale, è molto evidente
che la CGIL non può disinteressarsi.
387 L’ex prefetto Basile “fermato” per misure di ordine pubblico in «Corriere della Sera», 31 agosto 1947 388 Archivio storico online CGIL, Archivio confederale, Organi statutari, Comitato esecutivo, Verbali del Comitato esecutivo, Verbale del 30 agosto 1947: Situazione dopo l’assoluzione del prefetto Basile
168
In regime di libertà, il popolo ha il diritto di manifestare il suo sentimento su tutti gli atti
che toccano la sua sensibilità. Il C.E. della CGIL, con voto unanime di tutti i suoi membri,
intervenendo, come è intervenuto, nella questione, ha interpretato i sentimenti dei suoi 7
milioni di iscritti e dell’enorme maggioranza del popolo italiano. Esso ha compiuto il suo
dovere389.
Il pericolo di una crisi nazionale era stato comunque avvertito così concretamente da
costringere perfino l’allora ministro della Giustizia Giuseppe Grassi a intervenire nella
questione: quest’ultimo, subito dopo le imponenti manifestazioni, si era rivolto al
Procuratore Generale della Repubblica presso la Corte di Appello di Napoli, chiedendo
di «esaminare con attenta cura» la possibilità di proporre ricorso per Cassazione contro
la sentenza della Corte di Assise Speciale con la quale era stato assolto Basile, essendo la
pubblica opinione «gravemente turbata» dall’accaduto390.
Alcune considerazioni emergono dall’analisi di queste proteste. La prima è che si trattò
sicuramente di manifestazioni complesse, in cui si andarono intrecciando varie istanze, di
natura giuridica, economica, politica, sociale. Inizialmente, nelle proteste dei lavoratori
si mescolarono non solo rabbia per il malfunzionamento della giustizia e malcontento per
i salari troppo bassi, il mercato nero, l’alto costo della vita, ma anche desideri di reale
rinnovamento, in senso politico e sociale. Il discorso di Pertini agli operai genovesi
all’indomani della sentenza di Milano pronunciata nei riguardi di Basile sembra incarnare
questo composito insieme di aspirazioni, in cui l’auspicato «taglio netto col passato»
viene a significare non solo «un’epurazione veramente radicale», ma anche l’avvento di
una «repubblica» e di una «democrazia progressiva», nella quale attuare una serie di
misure a favore della classe lavoratrice, come la socializzazione delle imprese, la riforma
agraria, la soluzione del problema delle case e della ricostruzione391. In questo senso, le
proteste degli operai nei confronti di Basile sembrano diventare anche l’occasione per
rivendicare, da parte della classe operaia, uno spazio all’interno della nuova vita
democratica del Paese.
389 Sciopero a Milano per lo scandalo Basile in «l’Unità», 2 settembre 1947 390 ACS, Mgg, (1851-1983), Gabinetto (1927-1976), Archivio Generale, Affari Diversi, 1925-1983, b. 21, Raccomandata dal Ministro Grassi al Procuratore Generale della Repubblica presso la Corte d’Appello di Napoli, 1° settembre 1947 391 Il compagno Pertini ai genovesi. L’unità proletaria garantisce la democrazia in «l’Unità», 8 luglio 1945
169
L’esame delle successive proteste rivela tuttavia altri aspetti. Col passare del tempo,
progressivamente, si osserva che le aspirazioni per un radicale rinnovamento sociale
lasciarono il posto a considerazioni più disincantate, disilluse, in cui a farla da padrone
era lo sdegno per il neofascismo risorgente, ufficialmente ricomparso a partire dalla
fondazione del MSI alla fine del ‘45. «La sentenza oggi emessa è stata definita la
“vergogna del foro napoletano”. Ed è una vergogna, perché la conclusione della causa
non è il risultato di una obiettiva valutazione dei fatti. In Castel Capuano, in questi giorni,
si aveva netta l’impressione che questo non fosse un processo normale» – si legge in un
articolo apparso su «l’Unità» dopo la pronuncia dell’amnistia nel ‘47 – «In questo
processo, mentre accanto al sindaco di Genova e all’avv. Ferri, c’era gente silenziosa,
desiderosa soltanto che la giustizia avesse libero corso, d’altra parte, accanto a Basile ed
agli avvocati, si sono affaccendati tutti i capi e gli “scagnozzi” del neofascismo
napoletano [...]»392.
Tale disillusione fu anche il riflesso di una debolezza delle forze antifasciste, le cui
divisioni – nel clima di Guerra Fredda incipiente – si traducevano anche nella incapacità
di mantenere una linea coerente e unitaria rispetto alla punizione del fascismo. É da
osservare che, una volta esaurita la forza del ciellenismo, solo i socialisti continuarono a
muoversi, come si è visto, perché venisse fatta giustizia nei confronti dell’ex capo della
provincia. Nessun altro partito si impegnò o si spese in questa direzione. A lottare per gli
operai, gli antifascisti, i partigiani fatti uccidere da Basile rimasero, in effetti, in pochi:
rimase soprattutto Pertini, che aveva il cuore a Genova.
In questo senso, l’indagine sul caso Basile conferma anche il sopravvento di
quell’esigenza di “normalizzazione” che, anche per il progressivo consolidarsi del clima
di Guerra Fredda, venne ad imporsi in cima all’agenda politica nazionale.
Un’ultima considerazione, più “positiva”, riguarda il fatto che le manifestazioni di piazza,
gli scioperi operai, le denunce sulla stampa possono essere letti come il segnale di una
democrazia nascente, in fase di costruzione.
Il caso Basile, catalizzando le tensioni dell’opinione pubblica e scatenando proteste
perfino dopo la sentenza della Corte d’Assise di Perugia393 – giunta decisamente “tardi”,
392 Il fucilatore Basile è da ieri in libertà in «l’Unità», 30 agosto 1947 393 Ancora il giorno della sentenza di Perugia vi furono pubbliche manifestazioni a Genova, Milano e altri centri del Nord Italia. L’ANPI inviò un telegramma di protesta all’allora presidente della Repubblica Luigi Einaudi e al sostituto Procuratore Generale Carlevaris, in cui si leggeva:
170
quando la questione della punizione del collaborazionismo era ormai sulla strada della
definitiva archiviazione – fu davvero un caso emblematico. Lungi dal garantire una
pacificazione, dunque, si deve semmai dire che i processi delle CAS all’ex capo della
provincia di Genova tracciarono e, anzi, esasperarono fratture già esistenti in seno alla
società italiana, tra popolazione, magistratura, forze politiche.
Le tensioni scaturite dalle sentenze di Milano e di Pavia, in particolare, mostrarono la
difficoltà di conciliare l’istanza di legalità con la richiesta di “giustizia esemplare”
invocata a gran voce dalla popolazione: infatti, nel caso milanese, la sentenza, formulata
in maniera ineccepibile sotto il profilo giuridico, fu aspramente contestata dall’opinione
pubblica perché percepita non adeguata ai crimini commessi dall’imputato; viceversa, nel
caso pavese, la sentenza fu accolta con giubilo popolare, ma lasciò adito a perplessità in
quanto a correttezza giuridica.
Di certo, il caso Basile non esaurisce la problematicità della questione della giustizia in
transizione in Italia, ma restituisce senza dubbio uno spaccato significativo di quella
storia, mostrando che – come ebbero ad osservare alcuni giornali dell’epoca – non può
esserci pacificazione senza giustizia394.
4.7 Il “problema definitorio” del fascismo
Si può aggiungere anche che il caso Basile sembra confermare quello che è stato definito
come «un tema fondamentale [...] all’interno del processo di transizione italiano» e, cioè,
«un problema definitorio del passato fascista»395. Su questo punto è opportuno fare una
precisazione. In realtà, come si è visto, da parte delle CAS di Milano e di Pavia vi furono
– sebbene in seguito vanificati dall’intervento dell’amnistia – un riconoscimento e una
condanna dei crimini di collaborazionismo commessi da Basile. Quella che mancò del
tutto, invece, fu una resa dei conti con le responsabilità assunte e le attività dispiegate
«dopo l’infame sentenza che assolve il massacratore Basile si segnala il profondo turbamento dell’opinione pubblica; e mentre si prende atto del fermo atteggiamento accusatore della S.V. in nome della legge e della giustizia si esprime la certezza che si impugnerà la sentenza perché sia resa giustizia alle vittime dell’assassino» (La sentenza Basile. Il ricorso del P.M. e la causa per danni in «La Stampa», 20 giugno 1950) 394 L’amnistia a Basile è un insulto per l’Italia in «La Voce», 30 agosto 1947 395 Cfr. P. Caroli, Che cosa è il fascismo? Prove di confronto con il passato. Dalle Corti d’assise straordinarie al disegno di legge Fiano in Giustizia straordinaria tra fascismo e democrazia, op. cit. p. 126
171
dall’imputato durante il Ventennio, la quale avrebbe potuto innescare una riflessione, più
ampia ed estesa al di fuori delle aule giudiziarie, su che cosa fosse stato il fascismo, chi
fossero stati i fascisti e quali fossero state le loro azioni: ad esempio, il fatto che Basile
avesse guidato squadre d’azione a Novara all’inizio degli anni Venti non concorse a
formare oggetto di imputazione dinanzi ai giudici delle CAS396.
Anzi, talvolta, come alla Corte d’Assise di Napoli, la condotta tenuta da Basile nel corso
della sua vita – e, quindi, per tutto il Ventennio – fu ritenuta encomiabile e richiamata dai
giudici per sostenere la rettitudine e la probità dell’imputato. In questo senso, sembra
quasi che il solo biennio ’43-’45 venga percepito come una “parentesi”, sopraggiunta
dopo un Ventennio percepito in sostanziale continuità con le vicende italiane precedenti.
In generale, comunque, da parte di tutte le corti, venne completamente rimossa la
partecipazione di Basile alla vita del fascismo, il suo essere uno degli esponenti più
significativi nonché uno dei principali promotori e sostenitori del regime. Ad essere
considerata e, dunque, giudicata fu, esclusivamente, l’azione commessa dopo l’8
settembre. Anche le proteste popolari, del resto, confermano, in un certo senso, questa
“distorsione”, essendo dominate dalla contestazione verso ciò di cui Basile si era reso
responsabile in qualità di capo della provincia di Genova e mai, invece, come esponente
di primo piano del partito fascista.
Si potrebbe pensare che l’urgenza di lenire le ferite più recenti e dare una soddisfazione
immediata all’ansia di vendetta facesse passare in secondo piano la necessità di elaborare
un giudizio critico sul Ventennio, non escludendo che il rifiutare di fare i conti con il
fascismo fosse anche dettato dalla volontà di evitare il confronto con un passato
imbarazzante e vergognoso: un passato che oltretutto, all’indomani delle trattative di pace
del ‘47, avrebbe messo gli italiani agli occhi dell’opinione pubblica internazionale in una
posizione scomoda e, di sicuro, molto poco vantaggiosa. Uno scenario che aiuta a
comprendere meglio la scelta politica di insabbiare i crimini di guerra commessi dagli
396 AS di Perugia, Fondo Corte d’Assise di Perugia, b. 83, fasc. 1013, Rapporto a carico di C. E. Basile all’Alto Commissariato Aggiunto per la punizione dei delitti del fascismo, 29 maggio 1945: «Carlo Emanuele Basile partecipò sin dall’inizio alla lotta fascista. Memorabili sono rimaste le sue gesta nella provincia di Novara, dove egli, a capo di squadre di azione, condusse una cruenta battaglia contro i fascisti del luogo».
172
italiani397, la strutturazione di una legislazione verso il fascismo poco efficace, nonché la
scarsa determinatezza del testo del provvedimento dell’amnistia Togliatti398.
Considerati il contesto generale e il già di per sé difficile compito di valutare i reati di
collaborazionismo, viene spontaneo chiedersi se queste corti potessero effettivamente
elaborare un giudizio anche sul Ventennio.
Comunque, a prescindere dalla questione se fosse ragionevole o meno demandare tale
incombenza alle CAS, è certo che il disagio nel fare i conti con un recente passato di cui
tutti – giudici in primis – erano stati più o meno attivi protagonisti, bloccò la ricerca della
verità e impedì – come le “memorie divise” a proposito di Basile testimoniano –
l’elaborazione di una narrazione comune sul fascismo399.
In questo senso, è forse proprio nella mancata definizione del fascismo e della sua natura
che deve essere ravvisato il principale fallimento della transizione italiana: un fallimento
le cui radici risiedono in una questione assai più profonda delle fragilità legislative o delle
pressioni politiche internazionali, e che riguarda i problemi di autoanalisi e di
autorappresentazione del popolo italiano.
397 Sull’insabbiamento dei crimini di guerra italiani nel cosiddetto “armadio della vergogna” cfr. M. Franzinelli, Le stragi nascoste, op. cit. e F. Giustolisi, L’armadio della vergogna, Roma, Nutrimenti, 2010. Ad essere “sepolti” furono anche i crimini di guerra commessi dalle truppe d’occupazione in Africa e nei Balcani: sul tema, si veda, ad esempio, D. Conti, Criminali di guerra italiani, op.cit. 398 Sulla questione si veda, almeno: G. Vassalli - G. Sabatini, Il collaborazionismo e l’amnistia politica nella giurisprudenza della Corte di Cassazione, op. cit. 399 Sul concetto di verità, cfr. P. Caroli, Che cosa è il fascismo? art. cit., pp. 126-7: «Non ci si riferisce a una verità storica che debba essere accertata necessariamente e in maniera definitiva per il tramite di una sentenza penale, bensì a una verità storica complessa e oggetto di costante ricerca; un concetto provvisorio e sfaccettato di verità, compatibile con un sistema democratico».
173
Capitolo 5 La punizione dei capi della provincia in Lombardia
5.1 Fascisti della prima ora
Le biografie dei capi della provincia sono molto simili tra loro400. Un dato comune è
senz’altro quello anagrafico: i capi della provincia lombardi, infatti, fatta eccezione per
Mario Bassi, Innocente Dugnani e Vittorino Ortalli (più giovani) e Carlo Riva (più
anziano), sono tutti nati negli anni Novanta dell’Ottocento. Ciò significa che, allo scoppio
della guerra civile, la maggioranza di essi ha un’età che si aggira tra i quaranta e i
cinquant’anni.
Più varia è invece la provenienza geografica: tre sono nati nel Sud Italia, cinque nel
Centro e altrettanti cinque nel Nord.
Quanto alla composizione socio-professionale, essa non è molto variegata: la
maggioranza dei capi della provincia, infatti, è laureata in legge, ha il titolo di avvocato e
svolge, dunque, la professione forense o quella di prefetto. Dei laureati, l’unico a non
avere studiato giurisprudenza è Rodolfo Vecchini, capo della provincia di Pavia e poi di
Bergamo, che ha conseguito la laurea in ingegneria civile. Giovanni Bocchio e Angelo
Cesare Bracci, a guida della provincia di Mantova, sono ufficiali di carriera e partecipano
ad alcune delle più importanti guerre del regime fascista: in Etiopia, in Spagna e nei
Balcani. Dugnani e Rino Parenti, capi della provincia di Brescia e di Sondrio, sono gli
unici che non hanno frequentato l’università e svolgono, rispettivamente, la professione
di geometra e di commesso di negozio401.
400 Non si è qui esaminata la figura di Emilio Grazioli, in quanto, benché capo della provincia di Bergamo dall’ottobre ‘43 al maggio ‘44, egli fu processato dinanzi alla CAS di Torino. Qui, il capo della provincia di Bergamo e, successivamente, di Ravenna e di Torino, fu condannato a cinque anni e quattro mesi di reclusione per collaborazionismo (si veda: M. Franzinelli, L’amnistia Togliatti, op. cit., p. 345). Grazioli non fu mai processato invece per i crimini di guerra commessi in Jugoslavia, in qualità di Alto commissario della provincia di Lubiana dal ‘41 (su questo aspetto si veda: D. Conti, L’occupazione italiana dei Balcani, op.cit., pp. 49-51). Degli altri che rivestirono la carica di capo della provincia in Lombardia e, cioè, di Gasparo Barbera, Franco Scassellati, Renato Celio, Giuseppe Ristagno, Eduardo Pallante, Pietro Giacone, Enzo Savorgnan di Montaspro, non si è trovata traccia nella documentazione conservata nei fondi delle CAS lombarde. (Per l’elenco completo di tutti i capi della provincia si è fatto riferimento a M. Missori, Governi, alte cariche dello Stato, alti magistrati e prefetti del Regno d’Italia, Roma, Ministero per i Beni Culturali e Ambientali, 1989). È possibile che tali personaggi siano stati processati in altre regioni (come Grazioli) oppure che i rispettivi incartamenti giudiziari siano andati perduti. Barbera fu capo della provincia di Brescia, Scassellati e Celio di Como, Ristagno e Pallante di Cremona, Giacone e Savorgnan di Varese. 401 Si veda la tabella num. 1 al paragrafo 5.4
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Essendo per la maggior parte nati nell’ultimo decennio dell’Ottocento, quasi tutti i capi
della provincia considerati hanno preso parte alla Prima guerra mondiale, ottenendo
medaglie al valore402.
Un altro elemento sicuramente degno di nota è il fatto che tutti i capi della provincia siano
fascisti della prima ora: tutti, infatti, si sono avvicinati al fascismo presto, molti
guadagnandosi i brevetti di squadrista e di Marcia su Roma, nonché, talvolta, il titolo di
sciarpa littorio. Tutti hanno fatto carriera nel Ventennio, divenendo esponenti di spicco
del ceto politico fascista. Parenti, ad esempio, benché inizialmente semplice gregario
della squadra d’azione “La Volante”, assurge alla prestigiosa carica di segretario federale
di Milano; Piero Parini, dopo la parentesi giornalistica a «Il Popolo d’Italia», fa una
brillante carriera al Ministero degli Esteri, rivestendo, tra gli altri, gli incarichi di
Segretario Generale dei Fasci all’Estero e di Direttore Generale degli Italiani all’Estero;
Oscar Uccelli è tra i fondatori e più attivi promotori del fascio a Perugia; Vecchini opera
nel mondo del sindacato fascista ed è segretario federale ad Ancona e in diverse città
d’Italia. Particolarmente simile alla carriera di Basile è quella di Dante Maria Tuninetti
che, come il capo della provincia di Genova, è dapprima segretario federale, a Torino, e
quindi ispettore dei Fasci all’Estero, a Vienna403.
Dai numerosi documenti conservati all’interno dei fascicoli processuali – memoriali,
lettere, interrogatori – emergono anche i giudizi dei capi della provincia rispetto alle
vicende politiche più significative della storia d’Italia recente, come l’avvento del
fascismo, il crollo del regime, l’8 settembre.
L’ascesa al potere di Mussolini è considerata da tutti molto positivamente. Si vedano, ad
esempio, le parole di Dugnani, che, nell’esprimere rincrescimento per non aver potuto
partecipare alla Grande Guerra – definita «guerra di liberazione» –, scrive nel suo
memoriale che all’epoca Mussolini esercitava un «grande fascino» sugli studenti,
apparendo quale «campione dell’interventismo italiano». «Quando nel 1919
incominciarono in Italia agitazioni a sfondo anarchico e aventi per piattaforma
l’avversione alla guerra vittoriosa da poco conclusa e l’odio contro gli interventisti» –
spiega – «Mussolini, che in quell’epoca insorse nuovamente contro coloro che erano stati
neutralisti, apparve a noi come l’uomo della situazione. Di qui la nostra adesione ai fasci
402 Si veda la tabella num. 2 al paragrafo 5.4 403 Si veda la tabella num. 3 al paragrafo 5.4
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di combattimento che ritenevamo fossero la diga contro il disordine e la difesa di Vittorio
Veneto»404. Analoghe le riflessioni di Parenti: «Mi iscrissi al partito fascista nel 1919 sia
per difendere la vittoria che il nostro esercito era riuscito a conseguire dopo immani
sacrifici, sia perché fra i fascisti c’erano i migliori combattenti»405.
Le adesioni al fascismo repubblicano dopo l’8 settembre vengono sempre motivate
dall’intenzione di salvaguardare gli italiani e mitigare i rigori dell’occupazione tedesca.
Racconta, ad esempio, Tuninetti, che, prima di giungere a Pavia, assunse la guida della
provincia di Novara: «Partii così per Novara proponendomi di svolgere opera di
pacificazione, evitare scontri tra italiani, assicurare tranquillità e serenità alle
popolazioni406». Anche Vecchini chiarisce che ha assunto l’incarico di capo della
provincia di Pavia «con sentimento di italiano preoccupato delle sorti del proprio paese a
seguito dell’occupazione tedesca» e spiega che sin dal primo momento ha cercato di
difendere gli interessi degli italiani della provincia «in modo da evitare ed attenuare i
disagi e i guai, conseguenti all’occupazione tedesca»407.
Alcuni imputati, tuttavia, dichiarano di accettare l’incarico di capo della provincia solo
perché costretti. Singolare è il caso di Bracci, che il 26 luglio ‘43 ha strappato la tessera
del Partito ed è stato per questo messo sotto inchiesta: «Dovetti ricorrere a ogni mezzo
per salvarmi da provvedimenti di terrore; la mia azione veniva controllata e siccome negli
ambienti fascisti [...] si commentava aspramente il mio caso ottenni di conferire con l’ex
ministro Buffarini il quale mi promise il suo appoggio». Continua: «Nel mese di febbraio
del 1944» – egli continua – «venni consigliato di accettare la nomina a prefetto e ritenni
di aderire [...] perché in tal modo mi sarei creata una particolare situazione nei confronti
dell’inchiesta»408. Anche altri, comunque, pur non in posizioni “scomode” come quella
di Bracci, dichiarano di essere stati obbligati ad assumere l’incarico. «Chiarisco però che
fu il ministro Buffarini ad obbligarmi di riprendere la carica di prefetto. Io avrei preferito
404 AS di Brescia, Fondo Corte di Assise Speciale di Brescia, vol. 7, fasc. 379/45, Memoriale di I. Dugnani, s.d. 405 AS di Sondrio, Fondo CAS di Sondrio, b. 1, fasc. 7, Processo verbale di interrogatorio di R. Parenti, 4 maggio 1945 406 M. Scala, L’ultimo prefetto fascista di Pavia: Dante Maria Tuninetti in «Bollettino della
Società Pavese di Storia Patria», Como, Litografia New Press, 1994, p. 318 407 AS di Bergamo, Tribunale di Bergamo, Fondo Corte d’Assise Sezione Speciale, fasc. 30, Interrogatorio dell’imputato R. Vecchini, 7 giugno 1945 408 AS di Mantova, Fondo CAS di Mantova, b.1, fasc. 1, Esposto del Gen. A. C. Bracci, ex prefetto di Mantova, 28 aprile 1945
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vivere in pace e non interessarmi più di politica», dice Parenti nel suo interrogatorio409.
Anche per Dugnani, capo della provincia di Brescia, l’adesione al PFR non è liberamente
accettata, ma «imposta»410.
Decisamente controverso è il rapporto con i tedeschi. Con questi ultimi, alcuni capi della
provincia dichiarano di aver avuto dei conflitti. Bracci, ad esempio, scrive di un «grave
dissidio» sorto tra di lui e il comandante tedesco della piazza: «Erano noti gli approcci da
me compiuti per creare un “modus vivendi” con le formazioni partigiane e così le mie
proteste al Governo per la distruzione e i saccheggi compiuti da parte di truppe tedesche
che a mia insaputa entravano in provincia», osserva. «Ho impedito fucilazioni ed il mio
intervento fu pronto e deciso anche quando tale atto voleva dire rischio per la propria vita
di fronte agli ordini delle truppe di occupazione»411.
Altri capi della provincia, invece, si professano addirittura antitedeschi, rivendicando
azioni di sabotaggio ai danni del comando germanico e, quindi, un atteggiamento “anti-
collaborazionista”. Parini, ad esempio, spiega che a Milano, già da podestà, la sua fu «una
vera e propria opposizione ai tedeschi» e che, in seguito, accettò la carica di capo della
provincia «con l’intendimento di ostacolare e sabotare i tedeschi che erano in Italia»412.
Analogamente, Bassi asserisce di essere stato, sia nella provincia di Milano che in quella
di Varese, «fieramente ed apertamente antitedesco», osteggiando le requisizioni di merci
e impedendo l’invio di lavoratori italiani in Germania»413.
Alcuni capi della provincia arrogano a sé il merito di essersi opposti, in nome dell’ordine,
anche alle angherie perpetrate dalle pseudo-polizie, bande e reparti speciali della RSI.
«Ho lottato [...] per frenare gli eccessi e lo strapotere della Muti, delle Brigate Nere e
della X Mas» – commenta Bassi riferendosi alla sua attività a Milano – «facendomi
409 AS di Sondrio, Fondo CAS di Sondrio, b. 1, fasc. 7, Processo verbale di interrogatorio di R. Parenti, 4 maggio 1945 410 AS di Brescia, Fondo Corte di Assise Speciale di Brescia, vol. 7, fasc. 379/45, Memoriale di I. Dugnani, s.d. 411 AS di Mantova, Fondo CAS di Mantova, b.1, fasc. 1, Esposto del Gen. A. C. Bracci, ex prefetto di Mantova, 28 aprile 1945 412 AS di Varese, Tribunale di Varese, Fondo CAS, fasc. 10, Interrogatorio dell’imputato P.
Parini, s. d. Sull’attività di Parini quale capo della provincia di Milano, cfr. M. Griner, La «pupilla» del Duce. La Legione autonoma mobile Ettore Muti, Torino, Bollati Boringhieri, 2004, pp. 108-110. Per un resoconto generale della vita di Parini si veda, invece, la voce redatta da Elisabetta Colombo nel 2014 per il Dizionario Biografico degli Italiani: http://www.treccani.it/enciclopedia/piero-parini_(Dizionario-Biografico)/ 413 AS di Milano, Fondo CAS di Milano, Fascicoli processuali (1945-1947), b. 53, fasc. 231/1946, Memoriale di M. Bassi, 28 febbraio 1945
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persino promotore, presso elementi della Resistenza, per la costituzione di una milizia
volontaria apolitica di sicurezza, la quale avrebbe dovuto, se l’attuazione del mio progetto
avesse avuto luogo, sostituire le formazioni fasciste che spadroneggiavano in Milano»414.
Un ultimo aspetto su cui tutti i capi della provincia insistono è la ridotta capacità d’azione
delle forze e dei rappresentanti italiani. Interrogato sulla sua attività in Valtellina, Parenti
risponde: «Tutti sanno che pur avendo la buffa qualifica di prefetto capo di provincia non
si poteva avere ingerenza alcuna sui comandi della GNR e tanto meno dei famigerati
uffici politici [...] Tutta la mia opera era, come è noto, controllato dal comando germanico,
che di fatto comandava»415.
5.2 L’interpretazione della “presunzione di colpevolezza”
Dei tredici capi della provincia esaminati, otto furono processati dinanzi alle CAS entro
l’ottobre ‘45: di questi, fatta eccezione per Carlo Riva che venne assolto per aver ricoperto
la carica prima dell’instaurazione della Repubblica Sociale Italiana416, tutti gli altri –
Bracci, Vittorino Ortalli, Parenti, Attilio Romano, Tuninetti, Uccelli, Vecchini – furono
condannati a pene comprese tra la pena di morte e dieci anni di reclusione. Due – Uccelli
e Ortalli – furono rinviati a giudizio dinanzi ad altre CAS lombarde, rispettivamente ai
primi di ottobre del ‘45 e nel settembre ‘46.
Gli altri cinque capi della provincia – Bassi, Bocchio, Dugnani, Vincenzo Oliveri, Parini
– furono processati tra la fine di ottobre ‘45 e il gennaio ‘47. Di questi ultimi, solo Parini
fu rinviato a giudizio dinanzi ad una nuova corte lombarda. Considerando anche il
secondo processo ad Ortalli, i giudizi emessi in questo secondo arco di tempo oscillarono
tra gli otto e i tre anni di reclusione. A Dugnani fu estinto il reato per amnistia e a Bassi
venne quasi del tutto condonata la pena della reclusione.
414 Ibidem. Sui rapporti controversi di Bassi con le bande e le polizie speciali attive a Milano si
veda: M. Griner, La «pupilla» del Duce, op. cit., pp. 110-113 415 AS di Sondrio, Fondo CAS di Sondrio, b. 1, fasc. 7, Processo verbale di interrogatorio di R. Parenti, 4 maggio 1945 416 Nel caso di Carlo Riva, che aveva rivestito la carica di capo della provincia a Milano dall’8 a fine settembre, la corte dichiarò: «non si può dire che valga per lui la presunzione di collaborazione col tedesco invasore [...] perché le funzioni di prefetto (o di capo della provincia) vennero dal Riva esercitate “anteriormente” all’instaurazione della cosiddetta Repubblica Sociale Italiana. Il primo atto ufficiale di governo in cui appare menzione dello “Stato Nazionale repubblicano” è infatti il decreto del duce del fascismo 8 ottobre 1943 (Gazz. Uff. 22 ottobre n. 247) riflettente la sfera di competenza ed il funzionamento degli organi di governo» (AS di Milano, Fondo CAS di Milano, Sentenze, vol. 1, Sentenza 1/45, 29 maggio 1945)
178
Complessivamente, comunque, nell’arco di un paio d’anni, tutti i capi della provincia
furono scarcerati, o a seguito di assoluzione o per effetto dell’applicazione dell’amnistia
Togliatti417.
Considerando esclusivamente gli esiti dei processi, si possono fare due prime
considerazioni. La prima è che quanti avevano rivestito la carica di capo della provincia
in Lombardia furono effettivamente processati dalle CAS lombarde, secondo quanto
disposto dall’art. 1 del Dll 22 aprile 1945 n. 142; la seconda è che, di fronte al medesimo
capo d’imputazione, la linea punitiva delle CAS sembra evolversi: fu più severa nei primi
mesi di attività – tanto che addirittura venne comminata una condanna a morte – e
progressivamente più blanda nei mesi successivi, sino a sfociare nell’applicazione
dell’amnistia Togliatti. Come spiegare tale difformità di giudizio?
Andando a leggere i testi delle sentenze, ci si accorge che furono date dai giudici
interpretazioni molto diverse del principio della “presunzione di colpevolezza”. Nelle
sentenze emesse nella prima fase temporale (maggio-settembre ‘45) predomina l’idea
secondo cui l’assunzione della carica di capo della provincia costituisca di per sé una
manifestazione di collaborazionismo e che, in quanto tale, essa sia di per sé punibile. Si
considerino, ad esempio, alcuni stralci delle sentenze pronunciate dalla CAS di Milano
nei confronti di Uccelli il 28 maggio e dalla CAS di Mantova nei confronti di Bracci il 4
giugno:
Presunzione assoluta, che non ammette prova contraria, come si evince dall’espressione
“in ogni caso” usata dal legislatore. Perché la creazione e l’organizzazione di uno stato
repubblicano fascista vengono considerate dalla legge in esame quale mezzo escogitato
per meglio servire agli intenti dell’invasore; e quindi certe determinate cariche e funzioni
in esso ricoperte ed esplicate sono per se stesse, indipendentemente dal modo in cui siano
state esercitate, considerate come manifestazione di collaborazionismo418.
Di fronte a così fatta presunzione è irrilevante salvo che agli effetti della commisurazione
della pena, che un capo della provincia successivamente alla instaurazione della
cosiddetta repubblica sociale italiana abbia fatto atti specifici di collaborazione volta chè
417 Si veda la tabella num. 4 al paragrafo 5.4 418 AS di Milano, Fondo CAS di Milano, Sentenze, vol. 1, Sentenza 1/45, 29 maggio 1945
179
la legge ritiene, come d’altronde è indiscutibile ed evidente, che sia collaborazione il solo
fatto di aver disimpegnato la carica di capo della provincia419.
Nell’elaborazione del giudizio verso Uccelli e Bracci contò anche l’aver assunto «più
gravi responsabilità» e, cioè, l’aver commesso atti specifici di collaborazione, ma quello
su cui ora si vuole porre l’accento è piuttosto il fatto che, a prescindere da quello che
l’imputato avesse compiuto, le CAS espressero una condanna in ragione della carica
ricoperta. Emblematico il caso di Ortalli, a carico del quale, pur non essendo emersi
«elementi seri di collaborazione col tedesco invasore», la CAS di Cremona sentenziò il
30 maggio «la pena minima stabilita dall’art. 58 del C.P.M.G., e cioè dieci anni di
reclusione», in quanto l’imputato venne ritenuto «colpevole del delitto previsto dall’art.
1 Dll aprile 1945 n. 142»420.
Nella seconda fase temporale (ottobre ‘45-gennaio ‘47) e, in misura crescente dopo la
promulgazione del decreto 22 giugno 1946 n. 4, invece, la lettura secondo cui la carica di
capo della provincia costituisse di per sé manifestazione di collaborazionismo lasciò
posto alla constatazione per cui il capo della provincia fosse, nei fatti, una figura del tutto
priva di potere e margine d’azione e, dunque, non classificabile tra quelle figure dotate di
«elevate funzioni politiche e militari», che l’articolo 3 del decreto a firma di Togliatti
aveva indicato doversi escludere dall’applicazione del amnistia. Ad esempio, nel
dicembre ‘46 i giudici della Sezione Speciale della Corte d’Assise di Brescia sostennero
che Dugnani nell’esercizio della sua carica non fosse stato autonomo, avendo dovuto
sottostare ad ordini superiori:
essendo Brescia il capoluogo della provincia nella quale risiedeva Buffarini, e nella quale
svolgeva direttamente la sua attività di ministro dell’interno, tutte le funzioni di direzione
e di responsabilità venivano assorbite dagli organi superiori, ai quali il prefetto era tenuto
ciecamente ad obbedire421.
419 AS di Mantova, Fondo CAS di Mantova, vol. 23, Sentenza 1/45, 26 maggio 1945 420 AS di Cremona, Tribunale di Cremona, Fondo CAS di Cremona, b. 2428, Sentenze 1945, Sentenza 31/45, 21 settembre 1945 421 AS di Brescia, Fondo Corte di Assise Speciale di Brescia, Sentenza 178/46, 10 dicembre 1946
180
La corte concludeva, pertanto, che «il solo fatto di aver rivestito la carica di capo della
provincia» non potesse portare all’esclusione del beneficio di amnistia, «in quanto in
realtà quella carica era stata spogliata di ogni e qualsiasi autonomia di direzione»422.
Lo stravolgimento nell’interpretazione della figura e delle funzioni del prefetto della RSI
sembra trovare origine da specifici orientamenti della Corte Suprema di Cassazione.
Quest’ultima, infatti, già prima della promulgazione dell’amnistia Togliatti, aveva
dispiegato un atteggiamento benevolo nei confronti dei capi della provincia,
minimizzando le responsabilità e, anzi, stravolgendo concetto e immagine del
collaborazionismo. Già nella sentenza pronunciata il 4 giugno ‘46 nei confronti di Ugo
Leonardi, capo della provincia di Parma condannato dalla locale CAS a otto anni e quattro
mesi di reclusione, ad esempio, la Cassazione aveva rilevato che l’aver rivestito la carica
di capo della provincia non comportava «una meccanica applicazione della norma», (cioè,
dell’art. 1 del Dll 22 aprile 1945 n. 142), in quanto il giudice aveva sempre il dovere di
indagare, anche di fronte ad un presunto colpevole, se sussistevano cause che ne
escludessero la imputabilità o la punibilità423. A tal proposito, i giudici avevano ricordato
che il colpevole potesse essere dichiarato non punibile qualora risultasse che nella lotta
contro i tedeschi si fosse particolarmente distinto con atti di valore (art. 7 Dll 27 luglio
1944 n. 159) oppure che avesse accettato ed esercitato la carica perché costretto dalla
necessità di salvarsi dal pericolo attuale di un danno grave alla persona (art. 54 C.P.)424.
Richiamandosi anche all’art. 2 del Dll 9 novembre 1945 n. 702 in materia di
422 Ibidem 423 ACS, Corte Suprema di Cassazione (1882-1973), Sezioni Penali (1923-1968), Sentenze della seconda sezione penale in udienza pubblica, 1946, 931/46, Sentenza 974, 4 giugno 1946 424 Dll 27 luglio 1944 n. 159, art. 7: «Per i reati previsti nel presente titolo, la pena può essere ridotta fino ad un quarto, e alla pena di morte o dell'ergastolo può essere sostituita la reclusione non inferiore a cinque anni: a) se il colpevole, prima dell'inizio della presente guerra, ha preso posizione ostile al fascismo; b) se ha partecipato attivamente alla lotta contro i tedeschi. Se ricorrono le circostanze attenuanti generiche, previste dal Codice penale del 1889, alla pena di morte o all'ergastolo è sostituita la reclusione per trent'anni e le altre pene sono diminuite di un sesto. Il colpevole potrà essere dichiarato non punibile, se nella lotta contro i tedeschi si sia particolarmente distinto con atti di valore». C.P. art. 54, Stato di necessità: «Non è punibile chi ha commesso il fatto per esservi stato costretto dalla necessità di salvare sé od altri dal pericolo attuale di un danno grave alla persona, pericolo da lui non volontariamente causato, né altrimenti evitabile, sempre che il fatto sia proporzionato al pericolo. Questa disposizione non si applica a chi ha un particolare dovere giuridico di esporsi al pericolo. La disposizione della prima parte di questo articolo si applica anche se lo stato di necessità è determinato dall'altrui minaccia; ma, in tal caso, del fatto commesso dalla persona minacciata risponde chi l'ha costretta a commetterlo».
181
epurazione425, i giudici avevano osservato che sarebbe stato «sommamente ingiusto»
colpire con sanzione amministrativa o, addirittura, con sanzione penale, chi, non solo non
aveva collaborato, ma aveva dato «tangibili ed irrefutabili» prove di non aver voluto
collaborare426. «È il caso di Leonardi Ugo che esponendo a gravi rischi la propria persona,
liberò le notabilità detenute come ostaggi, sottrasse i renitenti di leva alla morte, mise alla
porta il federale, favorì i partigiani e protesse la popolazione dai soprusi e dalle violenze
dei nazi-fascisti» – aveva concluso la Cassazione – «dimostrando così di aver voluto, in
realtà, sotto le mentite spoglie di prefetto della Repubblica, seguire le direttive del
legittimo governo d’Italia»427. All’inizio di giugno ‘46 il capo della provincia di Parma
era stato assolto perché il fatto addebitatogli non era previsto dalla legge come reato.
La promulgazione dell’amnistia Togliatti a fine giugno ‘46 non fece che incentivare la
deriva assolutoria della Cassazione nei confronti dei capi della provincia: i giudici, infatti,
nel considerare la possibilità di applicazione del beneficio, misero a punto una serie di
ragionamenti volti ad escludere che l’“elevatezza delle funzioni” fosse da annoverare tra
le cause ostative alla concessione dell’amnistia428.
Per gli avvocati difensori dei capi della provincia, la sentenza pronunciata il 1° luglio ‘46
nei confronti di Tuninetti – già richiamata nell’analisi del caso Basile – divenne un vero
e proprio punto di riferimento per garantire ai propri assistiti la scarcerazione: non a caso
425 Dll 9 novembre 1945 n. 702, Epurazione delle pubbliche Amministrazioni, revisione degli albi delle professioni, arti e mestieri ed epurazione delle aziende private in «Gazzetta Ufficiale del Regno d’Italia», 13 novembre 1945, n. 136, art. 2: «Sono dispensati dal servizio, anche se inamovibili, i dipendenti delle Amministrazioni pubbliche, a qualunque categoria, gruppo o grado appartengano, la cui incompatibilità alla permanenza in servizio risulti dal fatto di avere, dopo l'8 settembre 1943: a) prestato servizio militare o civile alle dipendenze del tedesco invasore; b) aderito al partito repubblicano fascista; c) prestato servizio volontario nelle formazioni militari del governo della sedicente repubblica sociale italiana, o, col grado di ufficiale, in quelle del lavoro organizzate dal governo stesso; d) partecipato a rastrellamenti o ad esecuzioni sommarie e di condanna ordinate dai nazi-fascisti o svolto opera di delazione a favore di questi ultimi; e) esercitato funzioni di capo della provincia o di questore per nomina del sedicente governo della repubblica sociale, ovvero di presidente, di pubblico accusatore, o di membro dei tribunali speciali o straordinari istituiti dal detto governo; f) abbandonato la propria sede per seguire e servire il governo fascista; g) svolto opera specifica di collaborazione con i tedeschi o con la sedicente repubblica sociale italiana. Non si fa luogo a dispensa quando le attività dopo l'8 settembre 1943 siano state svolte a seguito di coercizione o allo scopo di danneggiare l'azione dei tedeschi o del governo che solo apparentemente si serviva». 426 ACS, Corte Suprema di Cassazione (1882-1973), Sezioni Penali (1923-1968), Sentenze della seconda sezione penale in udienza pubblica, 1946, 931/46, Sentenza 974, 4 giugno 1946 427 Ibidem 428 Cfr.: L’amnistia politica in Il collaborazionismo e l’amnistia politica nella giurisprudenza della Corte di Cassazione, op. cit., pp. 535-40
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essa si ritrova riprodotta all’interno di molti dei fascicoli processuali esaminati. Nei
confronti di Tuninetti, condannato dalla CAS di Pavia a ventiquattro anni di reclusione, i
giudici della Cassazione ritennero di dover applicare il beneficio dell’amnistia, con la
motivazione che, nella situazione civile e politica creatasi in Italia dopo l’8 settembre, il
capo della provincia non avesse poteri effettivi sul territorio e che, quindi, le sue funzioni,
benché in linea teorica annoverabili tra quelle di direzione civile o politica, nella realtà
fossero prive di qualunque efficacia:
Non che essa pensi sia possibile disconoscere, in linea teorica, che le funzioni del prefetto
siano da porsi tra le più elevate, civili o politiche: per la vigente legge comunale e
provinciale il prefetto è la più alta autorità dello Stato nella provincia ed il rappresentante
diretto del potere esecutivo. Al prefetto fa capo tutta la vita della provincia, che da lui
riceve impulso coordinazione e direttive [...] Ma si deve anche riconoscere che nella
situazione civile e politica dianzi accennata nel territorio soggetto alla repubblica sociale
ed ancor più per l’effetto da parte del tedesco invasore la realtà ha potuto essere ed è stata
in molti casi ben diversa nel senso di una menomazione più o meno accentuata secondo
le circostanze della autonomia politico amministrativa, del prefetto, si da far dubitare che
le sue funzioni meritino in ogni caso di essere collocate fra quelle di direzione civile o
politica [...] Donde la necessità ai fini dell’applicazione della stessa di un’indagine, caso
per caso, sulla concreta situazione di fatto e di diritto in cui il prefetto ha agito [...] Tale
Corte ritiene che il solo fatto dell’esercizio della carica di prefetto non porti all’esclusione
dell’amnistia429.
Il deciso ribaltamento nell’interpretazione della categoria del collaborazionismo, invece,
fu attuato con la sentenza Bracci del 27 luglio ‘46, che annullò senza rinvio il giudizio
perché il fatto non era preveduto dalla legge come reato. Bracci era stato condannato con
sentenza del 4 giugno ‘45 dalla CAS di Mantova a 18 anni di reclusione per avere, nella
sua qualità di capo della provincia di Pesaro e poi di Mantova, commesso una serie di atti
specifici di collaborazionismo, tra cui la precettazione di operai per l’invio in Germania
e la costruzione di un cimitero germanico. Secondo la Cassazione, la corte di Mantova
aveva applicato erroneamente l’art. 1 del Dll 22 aprile 1945 n. 142, per due motivi.
429 ACS, Corte Suprema di Cassazione (1882-1973), Sezioni Penali (1923-1968), Sentenze della seconda sezione penale in udienza pubblica, 1946, 931/46, Sentenza 1134, 1°luglio 1946
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Innanzitutto, la CAS non aveva tenuto conto del fatto che Bracci avesse accettato la carica
di capo della provincia perché «costretto»:
Ora, che la presunzione in esame abbia carattere assoluto, è stato ripetutamente affermato
da questo Supremo Collegio, ma è altresì certo ed è stato riconosciuto in altri casi da
questo Supremo Collegio, che esula l’elemento psicologico del reato di collaborazione,
sia pure soltanto presunta, quando l’accettazione della carica o l’esplicazione della
funzione, da cui la penale responsabilità dovrebbe direttamente dipendere, non sia stata
volontaria, ma coatta, o comunque la carica sia stata accettata con preordinato proposito,
poi attuato, di non esercitare funzioni o di esercitarle solo in senso contrario alla
collaborazione col nemico tedesco [...]
In sostanza il Bracci assunse la carica di capo di provincia perché costretto dalla necessità
di salvarsi dal pericolo di gravi danni alla persona, non altrimenti evitabili430.
In secondo luogo, i giudici mantovani avrebbero omesso – sempre secondo la Cassazione
– di considerare le azioni dispiegate dal Bracci in senso antitedesco, nonché le
testimonianze deposte a suo favore da personaggi di rilievo, come l’avvocato Tommaso
Solci, esponente di spicco dell’antifascismo mantovano, nominato prefetto della città alla
Liberazione. Si trattava di elementi che, secondo la Cassazione, provavano che l’attività
del capo della provincia fosse stata, in realtà, «anti-collaborazionista»:
[...] l’opera, effettivamente svolta dal Bracci, fu diretta nonostante qualunque contraria
apparenza, a danneggiare l’azione dei tedeschi ed a servire la causa della Liberazione;
come tale non può qualificarsi collaborazionista, ai sensi dell’art. 1 del decreto 22 aprile
1945, ma addirittura anti-collaborazionista431.
In forza di questi ragionamenti la corte concludeva che la carica di capo della provincia
era stata assunta ed esercitata dal Bracci «solo in funzione di tutela dei diritti della
cittadinanza, nei confronti del tedesco invasore» e, dunque, dichiarava l’accusa a carico
di quest’ultimo «priva di fondamento»432.
430 AS di Mantova, Fondo CAS di Mantova, b.1, fasc. 1, Sentenza 27 luglio 1946 431 Ibidem 432 Ibidem
184
A coronare il processo di ridimensionamento delle responsabilità del capo della provincia,
infine, intervenne la sentenza pronunciata il 6 settembre ‘46 nei confronti di Vecchini,
precedentemente condannato dalla CAS di Bergamo a tredici anni e quattro mesi per il
reato di collaborazionismo, a quattro anni e 1000 Lire di multa per peculato, a quattro
anni e 5000 Lire per il reato di ricettazione. In questo caso i giudici della Cassazione
sentenziarono che fosse possibile applicare il beneficio dell’amnistia ai capi della
provincia qualora non risultasse a carico di questi ultimi una concreta attività
collaborazionistica:
[...] le funzioni, le quali importano un’ipotesi di responsabilità presunta, non possono
valere altresì quali cause di esclusione soggettiva dall’amnistia: bisogna, invece,
accertare, caso per caso, se le persone indicate nel decreto 22 aprile 1945 abbiano
partecipato a fatti concreti di aiuto politico o militare al nemico, in modo da assumere le
più elevate responsabilità previste dalla legge speciale433.
Le sentenze Tuninetti, Bracci e Vecchini, emesse dalla Cassazione nell’estate ‘46, e la
sentenza Dugnani, emessa dalla Sezione Speciale della Corte d’Assise di Brescia nel
dicembre dello stesso anno, rivelano un contenuto del tutto opposto a quello delle
sentenze emesse dalle CAS lombarde nei primi mesi dopo la Liberazione. È forse più
giusto individuare una divergenza di giudizio nei confronti dei collaborazionisti, dunque,
non tanto tra CAS e Cassazione, quanto tra CAS da un lato, e Sezioni Speciali di Corte
d’Assise e Cassazione dall’altro: anche all’interno delle stesse corti preposte alla
punizione del collaborazionismo, infatti, andarono maturando nel corso del tempo
indirizzi assolutori, certamente influenzati dalle mutate atmosfere politiche e dal nuovo
orientamento giurisprudenziale della Cassazione, incline, sin dagli inizi dei lavori, a
svuotare di significato politico la carica del capo della provincia e a ribaltare – come ha
osservato Franzinelli – il principio della presunzione di colpevolezza in quello della
«presunzione di opposizione»434.
433 AS di Bergamo, Tribunale di Bergamo, Fondo Corte d’Assise Sezione Speciale, fasc. 30, Sentenza 6 settembre 1946 434 M. Franzinelli, L’amnistia Togliatti, op. cit., p. 142: «Il regime di Salò fu interpretato dalla
Cassazione come “repubblica necessaria”, guidata da elementi null’altro desiderosi che del riscatto patriottico e della protezione delle popolazioni. Alla presunzione di collaborazione con i tedeschi si sostituì la presunzione di opposizione. L’articolo 3 dell’amnistia, che escludeva dai benefici di legge le “persone rivestite di elevate funzioni di direzione civile o politica o di
185
Non tutte le sezioni speciali di Corte d’Assise, comunque, minimizzarono le
responsabilità del capo della provincia o proposero una lettura alternativa del concetto di
“collaborazionismo”. Il giudizio di sei anni e otto mesi di reclusione pronunciato dalla
corte di Milano nei riguardi di Bassi nel gennaio ‘47, benché di fatto annullato per effetto
dell’applicazione dell’art. 9 lettera c) del decreto presidenziale 22 giugno 1946 n. 4435,
scaturì dalla decisione dei giudici di escludere l’imputato dal beneficio di amnistia, con
la motivazione che quest’ultimo avesse rivestito la carica di capo della provincia e, in tale
qualità, esercitato un’attività non meramente amministrativa, ma «politica»:
Egli non può, tuttavia, beneficiare dell’amnistia concessa dall’art. 3 del decreto
presidenziale 22 giugno 1946 n. 4, essendo innegabile che debbano considerarsi funzioni
elevate di direzione civile e politica quelle inerenti alla sua carica di capo della provincia
e da lui effettivamente esercitate per circa otto mesi a Varese e per ugual tempo a Milano.
Nell’esplicazione di tali funzioni egli non si limitò, infatti, a prestare l’opera sua nel
campo dell’economia e dell’ordine pubblico per la tutela dei singoli contro i pericoli della
guerra o, nel campo amministrativo per la vigilanza sul funzionamento degli enti pubblici
o delle aziende commerciali e industriali; ma, valendosi dei poteri di ampia
discrezionalità dei quali era investito, svolse anche attività varia di natura politica,
essenzialmente diretta in molti casi, come si è visto, ad assecondare le direttive della
Repubblica Sociale Italiana o ad agevolare, così, il conseguimento dei fini perseguiti dal
tedesco al quale la repubblica fascista era asservita436.
Quella emessa nei confronti di Bassi è, dunque, una sentenza che, benché perlopiù
simbolica dal punto di vista dell’esito, rivela però il perdurante sforzo effettuato da alcune
comando militare”, fu elegantemente aggirato in quanto l’assunzione di cariche direttive nella RSI venne ritenuta l’esito di “volontà nettamente anticollaborazionista” e dunque fattore di “esclusione dal reato”. Si ipotizzò insomma un colossale doppio gioco da parte di personaggi schierati in apparenza con il Terzo Reich ma in realtà suoi nemici giurati. Chi prestasse fede alle sentenze della Corte suprema, dovrebbe riscrivere la storia del 1943-45 e presentare nella veste di avversari dell’occupazione nazista i capi della RSI, in luogo dei partigiani». 435 Ivi, p. 314: «Art. 9. Condono e commutazione di pena per reati politici. Fuori dei casi di
amnistia di cui agli articoli 1, 2 e 3 per i delitti politici e per i delitti ad essi connessi a’ sensi dell’articolo 45 n. 2, del Codice di procedura penale, si applicano le norme seguenti: a) la pena di morte è commutata in quella dell’ergastolo, salve le eccezioni disposte per l’amnistia dall’articolo 3; b) la pena dell’ergastolo è commutata in quella della reclusione per trenta anni; c) le altre pene detentive, se superiori a cinque anni, sono ridotte di un terzo; ma in ogni caso la riduzione non può essere inferiore a cinque anni; le pene detentive non superiori a cinque anni sono interamente condonate: d) le pene pecuniarie sono interamente condonate». 436 AS di Milano, Fondo CAS di Milano, Sentenze, Sentenza 10/47, 21 gennaio 1947
186
corti provinciali per punire i responsabili del reato di cui all’art. 1 del Dll 22 aprile 1945
n. 142.
Del resto, nemmeno l’intervento della Cassazione dovrebbe essere valutato in maniera
univoca. Come già emerso dall’analisi del caso Basile, se in linea generale la Cassazione
fu indulgente nei confronti dei collaborazionisti, talvolta i giudici togati intervennero per
equilibrare, razionalizzare, ricondurre nell’alveo della legalità alcune sentenze
eccessivamente severe, viziate dal clima acceso del secondo dopoguerra e, quindi,
ingiuste. Nel caso Uccelli, ad esempio, la Cassazione nel giugno ‘45 annullò il giudizio
espresso dalla CAS di Milano e rinviò il giudizio alla CAS di Brescia, in quanto
all’imputato non erano state concesse le circostanze attenuanti generiche, ai sensi
dell’articolo 62 bis C.P.437 Secondo la Cassazione, i giudici non avevano tenuto conto
della «volontà realmente manifestata dall’Uccelli, subito dopo la prima convocazione del
primo Tribunale straordinario, di lasciare la carica di prefetto» e soprattutto avevano
omesso di considerare «alcuni elementi processuali inerenti alla condotta dell’Uccelli che
non dovevano essere trascurati per una valutazione integrale della personalità
dell’imputato e della condotta da lui tenuta posteriormente all’8 settembre 1943 e durante
la carica di Capo della Provincia di Milano»438. I giudici bresciani, chiamati ad esprimersi
sul punto ai primi di ottobre del ‘45, pur non disconoscendo l’intensità dell’azione
delittuosa dispiegata dall’imputato, ritennero in effetti di dover applicare nei confronti
dell’Uccelli le circostanze attenuanti generiche, degradando la pena di morte a quella di
trent’anni di reclusione439.
Analogamente, nel caso Parini, i giudici della Cassazione accolsero il ricorso
dell’imputato contro la sentenza della CAS di Milano, non essendo stata concessa
all’imputato – decorato al valore per la Grande Guerra – la diminuente di cui all’articolo
26 C.P.M.G.440
Nell’esame delle sentenze pronunciate dalle CAS nei confronti dei capi della provincia
merita senz’altro una riflessione la punizione dei crimini contemplati dall’articolo 3 del
Dll 27 luglio 1944 n. 159. Dei tredici capi della provincia considerati, cinque – Parenti,
437 Si veda la nota 136 438 AS di Brescia, Fondo Corte di Assise Speciale di Brescia, b. 4, Sentenza 15 giugno 1945 439 Ivi, Sentenza 2 ottobre 1945 440 AS di Varese, Tribunale di Varese, Fondo CAS di Varese, fasc. 10, Sentenza 25 maggio 1946
187
Parini, Tuninetti, Uccelli e Vecchini – furono imputati, oltre che di avere collaborato col
tedesco invasore, di avere organizzato squadre fasciste che negli anni Venti avevano
compiuto atti di violenza o di devastazione o di aver contribuito con atti rilevanti a
mantenere in vigore il regime fascista. Tre di essi – Parini, Tuninetti, e Vecchini –
vennero assolti, rispettivamente per non aver commesso il fatto, per insufficienza di prove
e per non essere reati i fatti addebitatigli; gli altri due – Parenti e Uccelli – furono invece
condannati entrambi alla pena della reclusione per dieci anni, ai sensi dell’articolo 120
del Codice Penale del 1889441 (nel caso di Uccelli, la pena di dieci anni di reclusione per
avere organizzato a Perugia squadre di azione fascista nel dopoguerra fu dichiarata dalla
corte di Milano assorbita nella pena di morte).
Si può dunque constatare che, anche rispetto ai crimini contemplati dall’art. 3, in alcuni
casi le CAS applicarono la legislazione speciale, comminando una pena detentiva. In altri,
invece, esse non riuscirono ad esprimere una condanna. In parte, la causa della mancata
giustizia in questo ambito fu da ascrivere alla difficoltà dell’accusa di reperire prove
sufficienti. Del resto, tale problematica costituì un ostacolo anche per la punizione del
reato di collaborazionismo, confermando quelle criticità nell’istruzione dei processi
rilevate dal commissario Becca. I giudici della CAS di Cremona, ad esempio,
pronunciando la sentenza a vent’anni di reclusione per collaborazionismo ai sensi dell’art.
58 C.P.M.G. a carico di Romano, lamentarono il fatto che non fosse stato possibile «fare
opera di vera e sana giustizia». Ciò perché all’esame della corte era stato presentato «un
quadro monco ed incompleto della personalità dell’imputato», benché fosse «noto» che
tale personaggio, avesse «spadroneggiato» per oltre un anno nella città di Cremona,
nonché commesso «ogni sorta di abusi e soverchierie» agli ordini di Farinacci e del
comando germanico. «Se si fosse ricostruita l’attività di questo rinnegato italiano [...]
sarebbero emersi fatti di collaborazione, costituenti se non altro intelligenza e
corrispondenza col tedesco, i quali avrebbero potuto essere comprovati con i documenti
esistenti in Prefettura e con la testimonianza di probi cittadini» – concludevano i giudici
441 C. P.1889, art. 120: «Chiunque commette un fatto diretto a far sorgere in armi gli abitanti del
Regno contro i Poteri dello Stato è punito con la detenzione da sei a quindici anni. Se la insurrezione sia avvenuta, chi la promosse o diresse è punito con la detenzione per un tempo non inferiore ai diciotto anni. Chi solamente vi partecipò è punito con la detenzione da tre a quindici anni».
188
cremonesi – «e questa corte non assetata di vendetta, ma assolutamente animata dal
desiderio di far giustizia avrebbe potuto erogare al giudicabile una pena adeguata»442.
Altre volte, tuttavia, più che la mancanza di prove, si ravvisa nei giudizi delle corti la
tendenza a spoliticizzare mansioni e attività dispiegate durante il Ventennio e, anzi, a
presentare l’opera svolta anteriormente all’8 settembre dagli imputati come qualcosa di
positivo, di benefico, di prestigioso per la Patria. Nella sentenza pronunciata verso Parini
dalla CAS di Milano il 27 ottobre ‘45, ad esempio, i giudici negarono il carattere
“politico” delle cariche rivestite dall’imputato, concludendo che Parini non avesse affatto
contribuito con atti rilevanti a mantenere in vigore il regime fascista, ma avesse piuttosto
mantenuto alto all’estero il prestigio della Nazione:
Quale capo-redazione de «Il Popolo d’Italia» per i servizi esteri, egli aveva [...] funzioni
di semplice osservatore [...] non risulta in alcun modo che l’opera sua, del tutto
circoscritta al settore giornalistica affidatogli [...] abbia notevolmente influito sulla
diffusione all’estero della cosiddetta “dottrina fascista” e sullo sviluppo dell’azione
propagandistica condotta dal partito in Italia [...]
Nella carica di Segretario dei Fasci all’Estero, Parini esplicava mansioni di carattere
prevalentemente amministrativo quale funzionario di Stato [...] In fatto risulta che il
Parini esercitò detta carica senza prevenzioni politiche, giovando indistintamente a
fascisti e a non fascisti, ad ariani e ad ebrei, solo animato dal proposito di tutelare i diritti
e gli interessi dei connazionali oltre frontiera [...]
Non si può, dunque, affermare che nelle diverse cariche ricoperte anteriormente all’8
settembre 1943 o in alcune di esse, egli si sia comportato in modo da tener viva, da
rafforzare imponendola anche ai dissenzienti, l’autorità del regime fascista [...] ma è
giusto riconoscere, in base alle testimonianze raccolte, che abbia, piuttosto, sempre e
soltanto contribuito a mantenere alto, all’estero, il prestigio della Nazione443.
Nelle sentenze di alcune CAS, dunque, non sono solo la carica di capo della provincia e,
più in generale, il governo della RSI, ad essere privati della caratterizzazione politica e a
venire appiattiti su una dimensione prettamente amministrativa. Ma lo è anche
l’immagine del ventennale regime fascista, i cui esponenti vengono presentati non come
442 AS di Cremona, Tribunale di Cremona, Fondo CAS di Cremona, b. 2428, Sentenza 31/45,
21 settembre 1945 443 AS di Milano, Fondo CAS di Milano, Sentenze, Vol. 3, Sentenza 261/45, 27 ottobre 1945
189
membri di un partito, assertori di una specifica ideologia politica, ma come funzionari al
servizio dello Stato italiano. Ed è del tutto evidente che in questi casi i giudici, sia delle
CAS che della Cassazione, scrissero una storia completamente diversa da quella che in
seguito ci ha restituito la storiografia. Tale disarmonia nella ricostruzione della guerra
civile e del ventennio è sicuramente una prova della difficoltà e dell’imbarazzo di fare i
conti con ciò che il fascismo era stato e aveva fatto.
5.3 Tra odio e benevolenza
Contro le sentenze pronunciate nei confronti dei capi della provincia, non si verificarono
clamori mediatici, manifestazioni di piazza, scioperi operai, paragonabili per numero,
intensità e durata a quelli scatenati dalle sentenze Basile. Nei casi dei capi della provincia,
le rivendicazioni di giustizia rimasero circoscritte ai territori dove i crimini erano stati
commessi e furono perlopiù avanzate dai parenti delle vittime. A chiedere, ad esempio,
al presidente della CAS di Milano che Bassi dovesse essere «giudicato severamente»,
affinché i colpiti avessero almeno «il conforto della comprensione da parte della
Giustizia», fu Giacomo Canevari, padre di un ragazzo diciottenne che nel marzo ‘45 era
stato ucciso barbaramente da banditi della Muti444.
Un dato interessante è rappresentato dal fatto che talvolta nelle proteste sorte nei confronti
dei capi della provincia il rancore per i reati compiuti durante la guerra civile si mescola
all’odio per i crimini fascisti commessi durante il Ventennio. Nel luglio ‘45 un cittadino
di Brescia indirizzò alla Questura una lettera dal titolo “Che cosa si fa a Brescia? Cosa si
aspetta a fare giustizia?” in cui riversò tutto il suo disappunto per il fatto che Dugnani,
«prototipo del fascista» e «squadrista della prima ora», fosse ancora in libertà. Dugnani –
spiegò – «Acquistò benemerenze bastonando e soprattutto facendo bastonare, sempre in
molti contro pochi, persone colpevoli soltanto di pensarla diversamente. Vilipese anche
la dignità umana costringendo ad ingoiare olio ed altre porcherie!». Oltre alle violenze
perpetrate a capo delle squadre d’azione all’inizio degli anni Venti, nella lettera si
accennava anche all’arricchimento illecito di Dugnani durante il gerarcato: «pensò
soprattutto a sistemarsi economicamente arraffando una vistosa fortuna (forse in buona
444 Ivi, Fascicoli processuali, b. 53, fasc. 231/1946, Lettera di G. Canevari al giudice Ventura della Corte d’Assise Straordinaria di Milano, 25 settembre 1946
190
parte non rilevabile ed occulta perché sotto il nome di fedeli teste di legno e della moglie
che all’inizio della nefasta carriera era come lui quasi nullatenente)». Concludeva il
cittadino: «Ma la giustizia dovrà ben perseguirlo e colpirlo. Iddio non ha fatto scoccare
l’ora del “redde rationem” per i nazifascisti perché Dugnani ne sorga impunito e con tutti
i suoi milioni al sicuro”!445»
Quello che però stupisce maggiormente è il fatto che in altre circostanze la popolazione
giudicò le sentenze pronunciate nei confronti dei capi della provincia troppo severe. Fu il
caso, ad esempio, di Tuninetti, la cui condanna a ventiquattro anni di reclusione per
collaborazionismo fu ritenuta eccessiva dalla popolazione pavese, tanto che gli Alleati
raccomandarono che la sentenza venisse vagliata attentamente dalla Cassazione prima di
essere confermata446.
Anche nel caso di Uccelli la popolazione umbra si meravigliò per la pena di morte
comminata dalla CAS di Milano all’ex sindaco e segretario federale di Perugia, persona
ritenuta mite e aliena da eccessi di violenza. In un’intervista, un avvocato perugino
raccontò:
La condanna a morte di Oscar Uccelli ha un po’ sorpreso gli umbri. Mi sono trovato a
Perugia e a Foligno quando dal Nord è giunta la prima notizia della condanna. Uccelli
non era il peggiore dei fascisti-gerarchi. Consento con i giornali che hanno ricordato la
sua mitezza. Ricordo che, in una fase dura della lotta umbra contro un paio di gerarchi
violenti o disonesti, Oscar Uccelli ci diede subito la sua approvazione: firmò lui varie
lettere, da noi redatte, indirizzate a Mussolini in forma vivacissima, con cui si elencavano
e documentavano le malefatte fasciste. Ora io non so per quali ragioni lo abbiano
condannato a morte. So soltanto che egli è di ottima famiglia umbra, tradizionalmente
dedita all’agricoltura, proprietaria di un cospicuo patrimonio rustico fra i più noti. Di
natura Uccelli è debole, mite, senza iniziative, facilmente suggestionabile. Da noi, in
445 AS di Brescia, Fondo Corte di Assise Speciale di Brescia, vol. 7, fasc. 379/45, Lettera di un cittadino alla Questura di Brescia, luglio 1945 446 IPSREC, Fondo ACC for Italy, bobina 4, 2202 Special Courts of Assise, in copia dai NAW,
Telegramma del delegato provinciale Bayliss alla Corte d’Assise Straordinaria, 4 ottobre 1945: «Reliable reports of public opinion state that the sentence is considered to be too severe. In the interest of justice it is recommended that the Court of Cassation carefully consideres this case before the sentence to confirmed».
191
Umbria, non si arriva a capire come possa essere finito così… Ma forse, in Cassazione,
sarà possibile ai suoi avvocati migliorare la sua situazione447.
Come spiegare una tale benevolenza? È da osservare, innanzitutto, che verosimilmente
l’odio della popolazione e, quindi, gli sforzi per ottenere giustizia, si addensavano
soprattutto nei confronti degli esecutori materiali delle stragi, come gli appartenenti a
brigate nere e alle polizie speciali. Si è visto, ad esempio, come in provincia di Pavia a
riscuotere maggiormente clamore fossero stati i processi ai membri della Sichereits,
responsabili in prima persona dei gravissimi fatti di sangue che macchiarono l’Oltrepò
pavese.
Vi è poi da tenere in considerazione anche il fatto che molti capi della provincia – così
come tanti altri imputati di collaborazionismo – avessero praticato dopo l’8 settembre e
soprattutto negli ultimi mesi della guerra – in vista del crollo dell’Asse – un astuto
doppiogiochismo, che sicuramente, oltre a consentire l’applicazione di attenuanti in sede
di giudizio, attirò loro non poca simpatia da parte della popolazione448. Basti pensare che
al processo Dugnani, ad esempio, diversi partigiani testimoniarono in favore dell’ex capo
della provincia di Brescia, asserendo, tra le altre cose, «che fu una fortuna per Brescia di
avere trovato un prefetto come Dugnani che tanto si prodigò per evitare sciagure più gravi
alla nostra provincia»449. A difesa di Uccelli, invece, si schierarono anche alcuni ebrei,
che ricordarono l’intervento del capo della provincia di Milano contro le deportazioni: il
commerciante ebreo Guido Zabban, ad esempio, scriveva che Uccelli nel settembre ‘43
aveva offerto «spontaneo rifugio» nella sua abitazione a lui e a tutta la sua famiglia,
evitando così «una sicura deportazione tedesca»450.
447 Come vanno le cose in Umbria? in «Ricostruzione», 15 giugno 1945. La radicalizzazione di Uccelli – pur in contesti diversi – ricorda molto quella di Fiorentini, che, prima di assumere il comando della famigerata Sichereits, pareva un cittadino comune, come tanti. La trasformazione in carnefice – al pari di quella di Uccelli – apparve ai contemporanei assurda, inspiegabile. Cfr. Cronache dell’Oltrepò, Documentario n. 1, p. 54: «Come si spiega» - si chiede il P.M. Giallombardo durante la requisitoria del processo allo stato maggiore della Sichereits - «che un uomo come Fiorentini, il quale fino all’otto settembre aveva condotto una vita integerrima, potesse mescolarsi a simili orrori? Domanda che rimane senza risposta». 448 Sul doppiogiochismo si veda il paragrafo sui collaborazionisti economici nel prossimo capitolo. 449 AS di Brescia, Fondo Corte di Assise Speciale di Brescia, vol. 7, fasc. 379/45, Deposizione
di A. Facchinelli e D. Facchinelli, 31 agosto 1946 450 Ivi, b. 4, Deposizione di G. Zabban, 25 maggio 1945
192
Anche l’applicazione del decreto 22 giugno 1946 n. 4 non sembra aver suscitato
significativi malumori in seno alla popolazione, come dimostra l’assenza, nelle relazioni
sull’amnistia inviate dai prefetti a Togliatti, di nominativi di capi della provincia451.
451 Si veda la nota 158
193
5.4 Dati biografici e processuali
Tabella n. 1
Nome e Cognome Data e luogo di nascita Occupazione
Mario Bassi 27/10/1901, Firenze Dal ‘24 al ‘29 praticante avvocato, dal ‘28 al ‘42 funzionario al
Patronato Nazionale per l’assistenza sociale, dal ‘42 al ‘44
Direttore della Sezione Provinciale dell’Alimentazione presso la
Sepral di Trieste
Giovanni Bocchio 18/2/1895, Alessandria Ufficiale (combattente nella guerra di Spagna, nell’occupazione
dell’Albania e nella 2GM)
Angelo Cesare Bracci 15/11/1898, Pesaro Ufficiale (combattente nella guerra d’Etiopia e nell’occupazione
dell’Albania)
Innocente Dugnani 4/3/1902, Milano Geometra
Vincenzo Oliveri 18/6/1893, Catania Prefetto del Regno
194
Vittorino Ortalli 5/5/1907, Terni -452
Rino Efrem Parenti 13/7/1895, Milano Commesso di negozio, politico e prefetto del Regno (a Como)
Piero Parini 13/11/1894, Milano Politico e prefetto del Regno
Carlo Riva 1883, Cagliari Prefetto del Regno, viceprefetto di Milano dal 25 luglio all’8
settembre ‘43
Attilio Romano 22/10/1899, Napoli -
Dante Maria Tuninetti 18/9/1899, Valenza (Al) Impiegato, addetto a questioni sindacali
Oscar Uccelli 14/4/1894, Tavernelle (Pg) Politico, prefetto del Regno (a La Spezia, Pescara, Siena, Forlì)
452 Il simbolo “-” indica che il dato non è disponibile. Le lacune sono dovute al fatto che di alcuni capi della provincia - nello specifico, di Ortalli, Romano
e Tuninetti – non sono più reperibili i fascicoli processuali e, dunque, non è possibile avvalersi di tutti quei documenti (come memoriali, lettere, interrogatori) dai quali desumere i dati biografici. In qualche caso, comunque, alcune informazioni – come l’iscrizione al PNF o gli incarichi ricoperti nel corso del Ventennio – vengono riportate, sinteticamente, nei dispositivi delle sentenze. Per Tuninetti, inoltre, si è potuto fare riferimento anche al saggio di M. Scala, L’ultimo prefetto fascista di Pavia, art. cit., che si avvale dei fascicoli processuali, oggi non più reperibili nel fondo della CAS di Pavia.
195
Rodolfo Vecchini 2/9/1898, Ancona Ingegnere civile
Tabella num. 2
Cognome Partecipazione alla 1GM e medaglie
Bassi No
Bocchio -
Bracci Sì, come tenente dei Bersaglieri, medaglia d’argento al valor militare
Dugnani No
Oliveri Sì (mutilato)
Ortalli No
Parenti Sì, promosso al grado di sergente maggiore, medaglia di bronzo al valor militare e croce di guerra
Parini Sì, come tenente colonnello di complemento, medaglia d’argento al valor militare
196
Riva -
Romano -
Tuninetti Sì
Uccelli Sì, croce al merito e promozione a capitano per merito di guerra
Vecchini Sì, tre medaglie di bronzo al valor militare
Tabella n. 3
Cognome Anno di
iscrizione al PNF
Onorificenze fasciste Incarichi nel PNF
Bassi ‘21 Squadrista -
Bocchio ‘20 (ai Fasci) Squadrista, Marcia su
Roma, sciarpa littorio
Ufficiale della MVSN
197
Bracci ‘22 Squadrista -
Dugnani - Segretario federale di Brescia fino al ‘33, podestà di
Brescia dal ‘42 fino al 28/7/’43
Oliveri - Squadrista -
Ortalli - - -
Parenti ‘19 (ai Fasci) Squadrista, Marcia su
Roma
Membro del Direttorio della Federazione dei Fasci
di combattimento di Milano dal ‘22 al ‘28;
vicesegretario federale di Milano dal ‘24 al ‘28;
fondatore e direttore del sindacato fascista dei
conducenti delle auto pubbliche di Milano;
segretario del Dopolavoro provinciale di Milano dal
‘31; segretario Federale di Milano dal ‘33;
presidente del Comitato Olimpico Italiano dal ‘39 al
‘40
Parini ‘22 Capo redazione de «Il Popolo d’Italia», console ad
Aleppo nel ‘28, segretario Generale dei Fasci
198
all’Estero, direttore Generale degli Italiani
all’Estero, console generale di 1^ classe, ministro
plenipotenziario nel ‘32, consigliere permanente del
presidente del Consiglio albanese nel ‘35, segretario
generale della Luogotenenza del Re in Albania,
capo degli Affari Civili delle isole greche dello
Jonio, podestà di Milano
Riva - - -
Romano - - Segretario federale di Brindisi e di Alessandria
Tuninetti - Squadrista Segretario federale di Torino dal dicembre ‘24 alla
prima metà del ‘26; commissario Straordinario del
PNF per la Cirenaica dal luglio ‘30 al ‘37; ispettore
dei Fasci a Vienna
Uccelli ‘21 Squadrista, Marcia su
Roma
Fondatore del Fascio di Perugia e comandante delle
squadre d’azione di Perugia nel ‘21; sindaco e
segretario federale di Perugia; vicegovernatore di
Roma
199
Vecchini ‘21 Marcia su Roma Segretario sindacati lavoratori ad Ancona, Trieste,
Firenze, Napoli; segretario di organizzazione
nazionale dei lavoratori dell’abbigliamento prima e
dello spettacolo poi; dal ‘27 al ‘28 componente di
un triumvirato reggente la federazione dei fasci ad
Ancona; consigliere nazionale nelle ultime due
legislature; dall’aprile al luglio ‘43 presidente
dell’ente acquedotto siciliano
Tabella num. 4
Capo della
provincia
Organo
giudicante
Imputazioni e fatti contestati Sentenza
Bassi Sezione Speciale
della Corte
d’Assise di
Milano
aver collaborato col tedesco invasore
rivestendo la carica di capo della
provincia (c.d.p.) e, nella predetta
qualità, assunto più gravi
25/1/’47, ai sensi dell’art. 58 C.P.M.G. e con la
concessione delle attenuanti generiche di cui
all’art. 62 bis C.P., anni sei e mesi otto di
reclusione per collaborazionismo. Visto l’art. 9
200
responsabilità: 1) a Varese:
autorizzando o quanto meno non
opponendosi alle esecuzioni di
Mazzoleni e Poglistina delle quali era
stato preventivamente avvisato, 2)
ordinando l’arresto di Porrini 3)
ordinando il 24/3/’44 l'arresto del
sottotenente Vanaro che erasi rifiutato
di giurare alla RSI 4) ordinando la
precettazione per l'invio in Germania
di Ferretti Achille, Bossi Giuseppe,
Paris Beniamino, Magnani Luigi,
Sartoro Camillo, Zomini Valentino,
Arrigoni, Foglia, Magnani, Vigone,
Bertone, Bolognini, Nardi, Saporiti,
Boggino Giuseppe, Vernecchi,
Citterio, Molinari, Viola, Della Valle
Pierino e Carlo, Pastrello, Masnari
Luigi, Maggiani, Ortini ed Orsella; 5)
lettera c) del D.P. 22 giugno ‘46 n. 4,
condizionalmente condonati anni cinque della
pena come sopra inflitta.
201
avendo, con ordine in data 14/3/’44,
disposte indagini su attività
antifasciste nel cartificio di Tradate; 6)
avendo deciso, il 15/4/’44, l'invio in
Germania di Bossi Giuseppe,
approvata la proposta per l'invio in
Germania di Anzini Angelo, ordinato
l'invio in Germania di Giordano Carlo
segnalato come pericoloso antifascista,
ordinato il 4/7/’44 l'invio in Germania
di Bodio Martino, ordinata la
precettazione per l'invio in Germania
di Piotti Giovanni, Gitti Mario e
Soldati Angelo da Gallarate; inoltrato,
il 17/5/’44 al tribunale speciale per la
difesa dello stato contro Berini Aldo.
A Milano: 1) autorizzando il 3/1/’45
l'esecuzione di Perotti Augusto,
Varisco Francesco e Beniamini Franco
202
trovati in possesso di armi 2)
autorizzando il questore Laria ad
arrestare l'ing. Goggiola Pittoni che gli
era stato segnalato di essersi rifiutato
di giurare fedeltà alla RSI come
sottotenente 3) sollecitando il 9/9/’44,
un rastrellamento di partigiani nei
boschi di Motta Visconti 4) essendosi
opposto in data 21/1/’45 alla
liberazione di Colombo Angelo e
Lottes Ernestina, di razza ebraica, ed
ordinato di procedere nei confronti di
Viganò Luigi che li aveva occultati in
Besana Brianza
Corte d’Assise
d’Appello di
Milano
4/12/’59, dichiarato estinto per amnistia, ai
sensi dell’art. 1 lettera a) del D.P. 11.7.1959 n.
460453, il reato di collaborazionismo
453 DPR 11 luglio 1959, n. 460, Concessione di amnistia e indulto in «Gazzetta Ufficiale», 11 luglio 1959, n. 163: «Art. 1 Amnistia. È concessa amnistia: a) per i reati politici ai sensi dell'art. 8 del Codice penale, commessi dal 25 luglio 1943 al 18 giugno 1946».
203
Bocchio CAS di Mantova aver collaborato col tedesco rivestendo
la carica di c.d.p e disponendo, in tale
qualità: a) provvedimenti di polizia a
carico di persone antifasciste b)
provvedimenti di sequestro e confisca
di beni a carico di persone di razza
israelita c) invio di 15000 lavoratori in
Germania, dei quali furono deportati
circa 1200 d) un rastrellamento di
partigiani e sbandati nella zona di
Villimpenta (ottobre ‘44) durante il
quale furono fermate 15 persone
11/3/’46, ai sensi dell’art. 58 C.P.M.G. e con la
concessione delle attenuanti di cui agli articoli
62 bis C.P., 5 anni di reclusione per
collaborazionismo; confisca di ⅓ dei beni
Cassazione 20/9/’46, estinzione del reato per amnistia e
annullamento senza rinvio della sentenza
Bracci CAS di Mantova aver collaborato col tedesco rivestendo
la carica di c.d.p e prestandogli inoltre,
continuamente e volontariamente,
aiuto e assistenza nel campo militare,
4/6/’45, ai sensi dell’art. 58 C.P.M.G., 18 anni
di reclusione per collaborazionismo
204
politico, economico e amministrativo
Cassazione 27/7/’46, annullamento senza rinvio della
sentenza perché il fatto non è previsto dalla
legge come reato
Dugnani Sezione Speciale
della Corte
d’Assise di
Brescia
aver collaborato col tedesco rivestendo
la carica di c.d.p.
10/12/’46, estinzione del reato per amnistia
Oliveri CAS di Mantova aver collaborato col tedesco rivestendo
la carica di c.d.p e disponendo, in tale
qualità, provvedimenti di polizia a
carico di persone antifasciste
11/3/’46, con la concessione delle attenuanti di
cui agli articoli 62 bis C.P., 5 anni di reclusione
per collaborazionismo; confisca di ⅓ dei beni
Cassazione 20/9/’46, estinzione del reato per amnistia e
annullamento senza rinvio della sentenza
Ortalli CAS di
Cremona
aver collaborato col tedesco rivestendo
la carica di c.d.p
30/5/’45, ai sensi dell’art. 58 C.P.M.G., 10 anni
di reclusione per collaborazionismo
205
Sezione Speciale
della Corte
d’Assise di
Cremona
// 30/9/’46: estinzione del reato per amnistia
Parenti CAS di Sondrio A) aver a Milano prima e fino al 28
ottobre 1922 organizzato squadre
fasciste che compirono atti di violenza
e devastazione; B) aver collaborato col
tedesco rivestendo la carica di c.d.p.
16/6/’45, ai sensi dell’art. 120 C. P.1889, dieci
anni di reclusione per il reato di cui alla lettera
A); ai sensi dell’art. 58 C.P.M.G., 15 anni di
reclusione per il reato di cui alla lettera B);
confisca dei beni
Cassazione 8/7/’46, estinzione del reato per amnistia e
annullamento senza rinvio della sentenza
Parini CAS di Milano A) aver collaborato col tedesco
rivestendo la carica ed espletando le
funzioni di podestà e di c.d.p. di
Milano, facendo propaganda
radiofonica e giornalistica allo scopo
di raccogliere consensi ed accreditare
presso il popolo la repubblica creata
27/10/’45, con la concessione delle attenuanti
generiche di cui all’art. 62 bis C.P., anni otto e
mesi quattro di reclusione per il reato di cui alla
lettera A); assoluzione per il reato di cui alla
lettera B)
206
dal risorto fascismo repubblicano e
eccitando all'odio e al disprezzo per
l’'armistizio dell'8/9/43 concluso dai
titolari dei poteri legittimi dello stato,
assumendo più gravi responsabilità per
non essersi, nella suindicata qualità di
c. d.p., efficacemente adoperato per
impedire che la mattina del 10/8/44
venisse, quale rappresaglia per lo
scoppio di una bomba verificatosi su
un autocarro tedesco sostante in una
via cittadina, posta in essere la
fucilazione, senza processo e perfino
senza l'estrema assistenza religiosa, di
quindici patrioti incolpevoli, scelti a
caso fra i detenuti politici del carcere
di San Vittore; disponendo altresì,
sempre nella predetta qualità, di c.d.p.,
per azioni di rastrellamento contro
207
elementi della resistenza patriottica in
città ed in campagna, prendendo tutte
le misure opportune per il
potenziamento dei battaglioni della
legione "Muti" e, fra l'altro,
effettuando il disarmo parziale del
corpo agenti di PS composto da
elementi ritenuti non completamente
votati alla causa fascista repubblicana
B) per avere, anteriormente all'8/9/43,
quale direttore politico del "Popolo
d'Italia" fino al ‘28, segretario dei
Fasci all'estero, direttore generale degli
Italiani all'estero, consigliere
permanente presso il presidente del
consiglio albanese, segretario generale
della luogotenenza del re in Albania e
commissario civile delle isole greche
dal maggio ‘41 al settembre ‘43,
208
contribuito con atti rilevanti a
mantenere in vita il regime fascista
Cassazione 25/5/’46, annullamento con rinvio della
sentenza alla Sezione Speciale della Corte
d’Assise di Varese per erroneità e mancanza di
motivazione, limitatamente al diniego delle
attenuanti di cui all’art. 26 C.P.M.G. e all’art. 7
lettera b) del DLL 27 luglio 1944 n. 159
Sezione Speciale
della Corte
d’Assise di
Varese
26/6/’46, 3 anni di reclusione, interamente
condonati
Romano CAS di
Cremona
aver collaborato col tedesco rivestendo
la carica di c.d.p, dando tra l’altro il
24/5/’44 i mezzi di trasporto a 187
militi ed a cinque ufficiali per un
rastrellamento dell’Isola Serafini che
si concluse con la cattura di tre
21/9/1945, ai sensi dell’art. 58 C.P.M.G., 20
anni di reclusione per collaborazionismo e
confisca dei beni
209
prigionieri inglesi ed otto sbandati o
disertori
Cassazione 13/9/’46, estinzione del reato per amnistia e
annullamento senza rinvio della sentenza
Riva CAS di Milano aver collaborato col tedesco rivestendo
la carica di c.d.p
28/5/’45, assoluzione perché il fatto non
costituisce reato
Tuninetti Sezione Speciale
della Corte
d’Assise di
Pavia
A) aver collaborato col tedesco
rivestendo la carica di c.d.p. e, in
predetta qualità: a) predisposto e
ordinato rastrellamenti di partigiani
renitenti e disertori a Novara e
provincia; b) predisposto e ordinato
nel febbraio del ‘44 un rastrellamento
dei partigiani della Divisione
“Quarna”, nel corso del quale furono
uccisi il cap. comandante Beltrami
Filippo Maria, il tenente Di Dio
Antonio, Paietta Gaspare e 16
29/9/’45, 24 anni di reclusione per il reato di
cui alla lettera A); assoluzione per insufficienza
di prove per il reato di cui alla lettera B);
confisca dei beni
210
partigiani;
c) ordinato rastrellamenti di partigiani
renitenti disertori e prigionieri inglesi a
Pavia e provincia, in concorso col
comandante della GNR provinciale
Cappelli Guido, nonché rappresaglie
contro la popolazione civile;
d) consentito che la banda Sichereits
commettesse omicidi, rapine,
estorsioni, furti, torture; e) deciso la
fucilazione del tenente dei partigiani
Milazzo Placido; f) consegnati al
comando germanico perché fossero
fucilati per rappresaglia all’uccisione
di un militare tedesco i partigiani
Gabetta Diego, Barbieri Franco,
Ghisolfi Carlo ed un altro di cui non si
conoscono le generalità; g) non
impedito la fucilazione dell’agricoltore
211
Malandra Luigi di Cilavegna, accusato
di avere ucciso un brigatista; h) fatto
perseguitare dai tedeschi e da
Fiorentini il Consigliere della
Prefettura di Pavia Dr. Pitta Vittorio;
non impedito la deportazione in
Germania del Consigliere della
Prefettura di Pavia Dr. Gragnani
Ernesto e di sua moglie Canera Luisa
di Salasco entrambi antifascisti; fatto
oggetto di persecuzione politica
l’industriale Crespi Angelo; arrestato
la moglie di quest’ultimo; disposto per
la precettazione e l’invio in Germania
Chiodi Alessandro, Fontana Giuseppe,
Maviero Giacomo; arrestato Moro
Guido, Folghera Giovanni, Malcovati
Enea, Taramelli Edoardo, Morelli
Battista, Codecà Luigi, Virillo
212
Riccardo, tutti antifascisti; licenziato
dall’impiego De Polli Maria, perché il
figlio di quest’ultima era renitente alla
leva; i) fatto rilasciare all’ex-
maresciallo Rodolfo Graziani e alla
moglie di quest’ultimo carte d’identità
e tessere postali false; l) fatto apologia
di Mussolini e della sedicente RSI; B)
aver contribuito con atti rilevanti a
mantenere in vigore il regime fascista
Cassazione 1/7/’46, estinzione del reato per amnistia e
annullamento senza rinvio della sentenza
Uccelli CAS di Milano 1) aver collaborato col tedesco
rivestendo la carica di c.d.p. e
assumendo in tale carica più gravi
responsabilità con il trasmettere a due
Tribunali Straordinari le liste di coloro
tra i quali dovevano essere e furono
28/5/’45, pena di morte
213
scelti una quindicina di predestinati
alla pena di morte in rappresaglia
dell’uccisione di Aldo Resega e di altri
fascisti a opera di ignoti; 2) aver
organizzato nell’altro dopoguerra a
Perugia squadre fasciste di azione
violenta
Cassazione 15/6/’45, annullamento con rinvio della
sentenza alla CAS di Brescia per difetto di
motivazione in ordine alla richiesta delle
circostanze attenuanti generiche
CAS di Brescia 2/10/’45, con la concessione delle circostanze
attenuanti generiche di cui all’art. 62 bis C.P.,
trent’anni di reclusione per collaborazionismo;
confisca dei beni
Sezione Speciale
della Corte
d’Assise di
3/12/’46, rigetto della domanda per ammissione
al beneficio di amnistia, dichiarata condonata ⅓
della pena e quindi ridotta la medesima a venti
214
Brescia anni di reclusione
Cassazione 26/3/’47, estinzione del reato per amnistia e
annullamento senza rinvio della sentenza
Vecchini CAS di
Bergamo
A) aver collaborato col tedesco
invasore rivestendo la carica di c. d. p.,
e assumendo in tale carica più gravi
responsabilità convocando a Bergamo
nel giugno ‘44 un Tribunale Militare
Straordinario che condannò alla
fucilazione tre patrioti per rappresaglia
all’uccisione di uno squadrista e
inviando in Germania al lavoro
obbligatorio partigiani e renitenti
rastrellati; B) di avere, quale segretario
federale di Ancona, segretario di
organizzazione nazionale dei
lavoratori dell’abbigliamento e dello
spettacolo, consigliere nazionale nelle
1/9/1945, ai sensi dell’art. 58 C.P.M.G., anni
tredici e mesi quattro di reclusione per il reato
di cui alla lettera A); ad anni quattro di
reclusione e L. 1000 per il reato di peculato; ad
anni quattro di reclusione e L. 5000 per il reato
di ricettazione; confisca dei beni. Assoluzione
per tutte le altre imputazioni per non essere
reati i fatti addebitatigli
215
ultime due legislature, contribuito con
atti rilevanti a mantenere in vigore il
regime fascista; C) di avere, con più
azioni esecutive di un medesimo
disegno criminoso, valendosi della
situazione creata dal fascismo e per
motivi fascisti, distratto a favore del
comando della GNR di Bergamo, in
danno dello Stato, la somma di L.
10.000.000; D) di avere distratto la
somma di L. 25.0000, prelevandola dal
fondo confidenziale esistente nelle
singole prefetture; E) di avere distratto
in danno dell’ente pubblico Cassa
Bischi e Conguagli la somma di L.
2.036.410, 60; F) di avere, abusando
dei suoi poteri e valendosi della
situazione creata dal fascismo,
proceduto arbitrariamente alla nomina
216
di un commissario straordinario
nell’azienda Officine Meccaniche
Enrico Battagioni e ciò allo scopo di
creare un danno al proprietario della
ditta; G) avere emesso un decreto di
requisizione di un’autovettura, che
adibiva prima per il proprio uso
personale e, in seguito, acquistava per
la somma di L. 40.000; H) per avere
acquistato, al fine di procurarsi un
profitto, un autobus di militari
tedeschi, che l’avevano prelevato a
persona sconosciuta, pur sapendone la
provenienza illegittima.
Cassazione 6/9/‘46, estinzione del reato per amnistia e
annullamento senza rinvio della sentenza
217
Capitolo 6 Il caso Donegani: la scarcerazione del presidente della
Montecatini (luglio ‘45)
6.1 L’imprenditore geniale
Innanzitutto non ho mai collaborato col tedesco invasore in nessuna forma anche la
più lieve [...] Quando sopravvennero i tedeschi a Milano cercarono d’imporsi
acciocché mettessi a loro disposizione tutti gli ingenti apprestamenti industriali che il
gruppo possedeva in tutti i luoghi dell’Italia occupata [...]
Io avrei potuto rifiutando di eseguire gli ordini dei tedeschi mettere in liquidazione la
società licenziando di conseguenza tutto l’enorme personale operaio ed impiegatistico.
Di conseguenza avrei provocato enorme disoccupazione senza raggiungere lo scopo
perché i tedeschi o avrebbero gestito direttamente o trasferiti in Germania tutti gli
impianti ed operai relativi con gravissimi danni dell’intera nazione perché certamente
gli impianti non sarebbero mai stati restituiti. Io mi preoccupavo anche delle sorti dei
miei operai, circa 72 mila, nonché degli impiegati nel numero da 8 a 10 mila. In altri
termini io sono stato costretto a fare buon viso a cattivo gioco non tanto negli interessi
degli operai che assommano al n. 57000 ma anche e principalmente nell’interesse delle
maestranze che con il trasferimento sicuro in Germania avrebbero subito gravissimi
danni454.
Guido Donegani, nell’interrogatorio svoltosi presso la Questura di Milano tra il 12 e il 13
luglio ‘45, prova in tal modo a difendersi dall’accusa di collaborazionismo, affermando
di non aver mai collaborato con i tedeschi e di aver agito in obbedienza al comando
germanico esclusivamente per salvaguardare gli operai e gli stabilimenti industriali
italiani.
Il presidente della Montecatini precisa anche che il suo atteggiamento nei confronti dei
tedeschi è sempre stato ostile, avendo percepito l’occupazione straniera quale parte
integrante di un piano di lungo periodo volto all’annientamento dell’economia italiana.
«È da notare» – osserva, infatti, – «che i tedeschi tendevano alla distruzione dell’industria
454 ACS, Fondo Mgg, Ufficio superiore personale e affari Generali (fino al 1970) (1860-1949), Ufficio Secondo (1860-1970), Magistrati, fascicoli personali 1860-1970, IV° versamento 1950-1970, b. 202, 70742, Interrogatorio di G. Donegani, 12-13 luglio 1945
218
chimica italiana che si era mostrata concorrente molto temibile, ed agivano in questo
senso per paralizzare questa industria anche per l’avvenire»455.
Donegani rigetta anche l’accusa di aver contribuito con atti rilevanti a mantenere in vigore
il regime fascista, asserendo di non aver mai svolto attività politica, dal suo punto di vista
poco interessante e comunque incompatibile con la presidenza della Montecatini:
Mi sono iscritto al P.F. nei primi mesi del 1926 in conseguenza dello scioglimento del
Partito Liberale. Io non ho mai avuto cariche nel P.F. e così non ho partecipato affatto
alla Marcia su Roma, alla organizzazione di squadre fasciste in occasione del primo
colpo di Stato del 28 ottobre 1922, né nel secondo del 1925.
Non sono mai stato ufficiale della Milizia, sciarpa Littorio e non ho nemmeno
partecipato a qualsiasi assemblea di fasci provinciali o rionali. In concreto non mi sono
mai occupato di politica in forma attiva, ma bensì solamente dell’azienda Montecatini,
che aumentò sempre d’importanza giorno per giorno, che di per sé sola assorbiva tutta
la mia attività456.
L’estraneità alla politica, infine, viene rimarcata anche per corroborare la tesi della
mancata collaborazione col tedesco:
Dopo l’8 settembre non ho avuto pressioni per iscrivermi al P.F.R., né per la
prestazione del giuramento. Ho continuato solamente ad occuparmi dell’Azienda in
modo tale da evitare qualsiasi interferenza tedesca, e del governo della pseudo
repubblica Sociale. E con Mussolini ho avuto qualche rapporto più che altro
unicamente per ciò che rifletteva l’Azienda. Dopo l’8 settembre, non ho più visto
Mussolini, né mai sono stato chiamato da lui. Qualche rapporto invece ho dovuto avere
con Tarchi ministro dell’economia nazionale per ciò che rifletteva la
socializzazione457.
Complessivamente, dal verbale emergono due aspetti importanti, già riscontrati in
precedenza a proposito dei capi della provincia. Innanzitutto, fa capolinea una
interpretazione rovesciata del collaborazionismo, a cui non solo e semplicemente viene
455 Ibidem 456 Ibidem 457 Ibidem
219
conferito il significato di difesa della Patria, ma a cui viene attribuita anche – secondo
una strategia difensiva del tutto analoga a quella seguita da alcuni capi della provincia –
una finalità antitedesca.
Secondariamente, dall’interrogatorio emerge l’idea secondo cui, sia nel Ventennio che
dopo l’8 settembre, tra Montecatini e Donegani, da una parte, e regime fascista dall’altra,
non vi fossero stati rapporti o interferenze di alcun tipo.
Il collaborazionismo di Donegani con il regime è un aspetto non ancora del tutto chiarito
in sede storiografica. Le indagini finora condotte dagli studiosi di storia economica e, in
particolare, dagli esperti di business history, infatti, si sono concentrate perlopiù tutte
sull’azienda Montecatini e, in ogni caso, laddove abbiano volto uno sguardo specifico al
presidente, esse si sono limitate a commentare – anche comprensibilmente, dato
l’indirizzo degli studi – il profilo tecnico, manageriale, piuttosto che quello politico458.
Ciononostante, si è avvertita ed evidenziata la difficoltà di studiare la relazione tra
industria e potere politico in Italia. «Comprendere la natura dei rapporti fra industria e
potere politico in Italia vuol dire dispiegare la logica e i meccanismi della genesi e
dell’evoluzione della grande impresa e il ruolo che questa ha avuto nello sviluppo
industriale del paese» – ha avvertito Amatori – «L’Italia si inserisce nel processo di
industrializzazione in una fase storica e con una dotazione di risorse tali, che lo stretto
rapporto fra Stato e grande impresa appare come un dato ineliminabile»459.
Né la storiografia si è dimenticata di mettere in risalto la problematica delineazione
intorno all’azienda guidata da Donegani, già a partire dagli anni Venti, di due opposti
paradigmi. Da un lato, «in sapiente rapporto dialettico con la retorica della battaglia del
grano», si andò costruendo e alimentando negli anni del fascismo un vero e proprio
458 Alcuni cenni alla Montecatini si possono trovare già in R. Morandi, Storia della grande industria in Italia, Torino, Einaudi, 1966, pp. 240-7 e R. Romeo, Breve storia della grande industria in Italia 1861-1961, Milano, Il saggiatore, 1988, pp. 114, 120, 143. Tuttavia, fu solo a partire dalla seconda metà degli anni Ottanta che, grazie alla possibilità di visionare i documenti degli archivi dell’azienda, venne avviata una ricerca di ampio respiro finalizzata alla ricostruzione delle vicende della Montecatini, dalla sua fondazione nel 1888 alla fusione con la Edison nel 1966, e successivamente confluita in: F. Amatori - B. Bezza (a cura di), Montecatini 1888-1966. Capitoli di storia di una grande impresa, Bologna, il Mulino, 1990. Tra gli articoli e saggi più recenti, invece, si segnalano: F. Crimeni, I Donegani. Una famiglia del primo capitalismo italiano in Studi Storici, anno 38, n. 2, 1997, pp. 383-429 e M. Perugini, Il farsi di una grande impresa. La Montecatini fra le due guerre mondiali, Milano, Franco Angeli, 2014 459 F. Amatori, Montecatini: un profilo storico, in Montecatini 1888-1966, op.cit., p. 39. Sui rapporti tra grande industria e fascismo si veda anche: R. Sarti, Fascismo e grande industria: 1919-1940, Milano, Moizzi, 1977 e S. La Francesca, La politica economica del fascismo, Bari, Laterza, 1972
220
«mito» della Montecatini. Come ha osservato Roberto Petrini, la Montecatini giocò,
infatti, un ruolo «centrale, quasi istituzionale» nella “battaglia del grano”, che le consentì
di costruirsi, facendo proprio «l’intero apparato ideologico e ruralista del regime»,
un’immagine potentissima460. A tale costruzione mitica contribuì in modo decisivo la
presentazione di Donegani quale difensore degli interessi italiani. Nel volume edito dalla
società per commemorare i venticinque anni dell’industriale alla guida dell’azienda, si
insistette molto su tale aspetto461.
Dall’altro lato, nel corso degli anni Venti e Trenta l’azienda fu oggetto di aspre critiche
da parte di varie frange della cultura, della società e della politica italiana. Liberali,
antifascisti e sindacalisti (anche fascisti), infatti, accusarono negli anni la Montecatini di
“pescecanismo”, monopolizzazione, sfruttamento dei lavoratori, accreditando
un’immagine anti-mitica dell’azienda462.
É da notare che nell’elaborazione memoriale della figura e della vita di Donegani sembra
riecheggiare la forza di quel mito creatosi a partire dall’impegno della Montecatini nella
battaglia del grano e che, però, viene del tutto privato degli aspetti meno lusinghieri e più
controversi. A predominare, infatti, è la rappresentazione di Donegani quale genio
imprenditoriale, capitano d’industria, self-made man, campione dell’italianità. In questa
narrazione, non trovano posto la connivenza col fascismo e lo sfruttamento degli operai
– già denunciati durante il Ventennio – né viene fatta menzione alcuna della
collaborazione col tedesco, di cui l’industriale venne accusato già nel corso della guerra.
Ancora oggi la Rete ci restituisce quell’immagine univoca di Donegani e del fascista e
460 R. Petrini, L’azienda giudicata: la Montecatini tra mito, immagine e valore simbolico in
Montecatini 1888-1966, op. cit., p. 275. Sulla “battaglia del grano” cfr. F. Amatori, Montecatini: un profilo storico, in Montecatini 1888-1966, op. cit., p. 39: «Obiettivo comune del regime e della Montecatini» – scrive a tal proposito Amatori – «è il consenso del mondo rurale, ritenuto determinante per la costruzione politica totalitaria e altrettanto decisivo per l’espansione aziendale». 461 La società Montecatini ed il suo gruppo industriale nel venticinquesimo anno di amministrazione dell’onor. ing. Guido Donegani, Milano-Roma, Istituto Bertieri, 1935, p. 32. Si osserva che si doveva «all’azione decisamente condotta dall’on. Donegani il riscatto di industrie di geloso interesse nazionale (come gli esplosivi, l’alluminio) […] e la prevalenza di iniziative esclusivamente italiane in campi che erano già dominati da emanazioni straniere». 462 R. Petrini, L’azienda giudicata: la Montecatini tra mito, immagine e valore simbolico in Montecatini 1888-1966, op. cit., p. 308: «Il partito anti-Montecatini – assolutamente eterogeneo e scoordinato – ebbe i propri militanti nelle file degli esiliati comunisti della rivista parigina “Stato operaio” che la accusavano di “pescecanismo” e di arricchirsi con le guerre, dello schieramento facevano parte intellettuali liberali come Carlo Rosselli che accusavano il colosso chimico di monopolismo ma anche sindacalisti fascisti che imputavano all’azienda i danni all’ambiente e il mancato rispetto delle leggi in fabbrica».
221
del collaborazionista dei tedeschi non c’è traccia alcuna. Si consideri, ad esempio, quanto
si legge sul sito della testata giornalistica “Scienza in rete”: «Guido Donegani [...] fa parte
di quella schiera non fittissima ma geniale di ingegneri/imprenditori italiani che hanno
puntato sulla ricerca scientifica per realizzare lo sviluppo industriale dell’Italia. In questo
senso è stato uno dei protagonisti del “vero miracolo economico italiano” [...]»463.
Del resto, basta guardarsi intorno per accorgersi di quanto la vicenda di Donegani fascista
e collaborazionista sia stata completamente rimossa: ad oggi in Italia al presidente della
Montecatini sono intitolate moltissime vie, piazze, scuole e persino una fondazione,
presso l’Accademia Nazionale dei Lincei, che – si legge nello Statuto – ha l’obiettivo di
«promuovere l’incremento degli studi di chimica in Italia, così come voluto dal
Fondatore»464.
Si tratta, in effetti, di una delle innumerevoli circostanze in cui l’odonomastica rivela in
maniera eloquente un problema di mancanza dei conti col passato465, evidenziando la
necessità di elaborare una riflessione storiografica sui luoghi della memoria del fascismo:
non solo su quelli epicentro di una memoria fascista attiva (si pensi ai cimiteri, teatri,
periodicamente, di commemorazioni nostalgiche) ma anche su quelli come vie, strade,
piazze che – seppur in maniera forse meno evidente rispetto ai primi e quasi in sordina –
provano tuttavia l’assenza di una memoria condivisa rispetto al fascismo e alla sua
storia466.
463 https://www.scienzainrete.it/italia150/guido-donegani 464 Si veda lo statuto della Fondazione Guido Donegani: http://villafarnesina.it/files/fondazioni/06.Donegani.pdf 465 Sono numerose in Italia le vie e i luoghi dedicati ad esponenti del fascismo: si pensi soltanto, per fare un esempio, alla piscina comunale de L’Aquila che nel 2001, su iniziativa dell’allora giunta di centro-destra, fu intitolata ad Adelchi Serena, ministro dei Lavori Pubblici e segretario del PNF (https://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2000/12/19/piscina-alla-memoria-del-gerarca-aquilano.html). Particolare scalpore ha destato poi nel 2012 la costruzione di un sacrario in memoria di Graziani (https://www.corriere.it/politica/12_settembre_30/mausoleo-crudelta-non-fa-indignare-italia-gian-antonio-stella_310bba88-0ac9-11e2-a8fc-5291cd90e2f2.shtml) 466 I luoghi di memoria hanno ricevuto grande attenzione a partire dal lavoro omonimo di P. Nora, Les lieux de Mémoire, Parigi, Gallimard, 1984-1992 e, in generale, dallo sviluppo dei memorial studies. In Italia la ricerca di Nora è stata ripresa da M. Isnenghi nei tre volumi pubblicati per Laterza nel 1996-1997: Strutture ed eventi dell’Italia unita; Personaggi e date dell’Italia unita; Simboli e miti dell’Italia unita. In anni recenti, i principali luoghi di memoria italiani legati alla guerra, alla deportazione e alla Resistenza sono stati riuniti nella rete Paesaggi della Memoria (www.paesaggidellamemoria.it), associazione che ha pubblicato un volume omonimo curato da P. Pezzino, Pisa, Ets, 2018. Attualmente, l’Istituto Nazionale Ferruccio Parri ha avviato una ricerca destinata a censire e a studiare i luoghi della memoria del fascismo.
222
Al pari della vicenda giudiziaria di Basile, dunque, anche l’esame del caso scoppiato
intorno a Donegani nel luglio ‘45, può essere utile, oltre che per studiare le dinamiche
della giustizia in transizione, anche per iniziare a decostruire la mitizzazione perdurante
nei confronti di un personaggio che fu indiscusso protagonista della storia industriale e
politica italiana.
6.2 La figura di Guido Donegani
Guido Donegani nacque a Livorno da famiglia di imprenditori il 26 marzo 1877.
Laureatosi in ingegneria industriale al Politecnico di Torino nel 1901, cominciò molto
presto a lavorare assieme al padre e allo zio nella Società Anonima delle Miniere di
Montecatini, che era stata fondata a Firenze nel 1888 da possidenti e uomini d’affari
italiani e stranieri per sfruttare le miniere di rame di Montecatini, un piccolo villaggio
della Maremma toscana in Val di Cecina. Nel 1910, alla morte del padre, Donegani
subentrò nel consiglio d’amministrazione dell’azienda. Ambizioso e capace, in breve
tempo scalò i vertici della società, divenendo dapprima amministratore delegato e, in
seguito, nel ‘18, presidente.
Il suo ingresso nella Montecatini segnò un decisivo mutamento nella leadership
aziendale, all’insegna di una riorganizzazione del complesso minerario – iniziata con
l’assorbimento della Società anonima Miniere Solfuree Trezza-Albani-Romagna – e,
soprattutto, di un audace disegno di integrazione verticale nel settore chimico – culminato
nel ‘20 con la fusione tra Montecatini, Unione Concimi e Société des Phosphates
Tunisiens.
Grazie anche all’appoggio di alcuni dei più importanti banchieri dell’epoca come Josef
Leopold Toeplitz e alla collaborazione di illustri ingegneri e chimici come Giacomo
Fauser, nel giro di pochi anni Donegani riuscì a trasformare la Montecatini in uno dei
complessi industriali più importanti del Paese, in grado di competere sulla scena
internazionale con altri colossi del settore chimico467. Basti soltanto pensare che alla
467 Jósef Leopold Toeplitz (1866-1938) fu un banchiere polacco, amministratore delegato della
Banca Commerciale Italiana. Per la Montecatini fu dapprima Consigliere d’amministrazione e in seguito, dal ‘18 all’anno della morte, vicepresidente. Giacomo Fauser (1892-1971) fu un ingegnere e chimico italiano, tra i più importanti nomi legati al successo della Montecatini. Agli inizi degli Anni Venti ideò il processo che porta il suo nome, basato sulla produzione
223
vigilia della crisi del ‘29, l’azienda controllava 44 società, dava lavoro a 18000 operai,
produceva l’80% delle piriti italiane, il 55% dell’acido solforico, il 62% dei perfosfati, il
65% del solfato di rame, poco meno dell’80% dell’acido nitrico, i due terzi dei concimi
azotati. «La Montecatini si caratterizzava dunque come un poderoso complesso chimico-
minerario paragonabile, nella chimica inorganica ed in particolare nel ramo dei composti
azotati, ai maggiori gruppi dell’industria europea» – ha osservato Amatori – «Essa
disponeva anche di diverse partecipazioni azionarie in società estere che utilizzavano il
procedimento Fauser, mentre va senz’altro ricordata la sua presenza nel cartello
internazionale dell’azoto»468.
Parallelamente all’attività industriale, Donegani si dedicò alla politica. Inizialmente
vicino al partito liberale – era stato eletto consigliere provinciale nelle liste del partito nel
1903, all’età di ventisei anni – sin dai primi anni Venti egli mostrò un’evidente simpatia
per il fascismo o, quantomeno, come osserva Amatori, non sembrò avere «esitazioni» nei
confronti di esso469. La sua carriera fascista iniziò nel ’24, quando venne incluso nella
lista nazionale “bis per la Toscana”, dopo essere stato iscritto nel ‘21 alla lista del blocco
nazionale. La vicinanza a Mussolini fu poi confermata durante la crisi successiva al delitto
Matteotti, quando l’industriale scelse di non schierarsi apertamente contro il Governo, ma
di lavorare a favore di Mussolini, per il quale votò nella seduta del 15 novembre ‘24, in
piena astensione aventiniana470.
Negli anni Trenta, passata la burrasca che seguì il crollo di Wall Street, la Montecatini
conobbe una veloce ripresa e completò il proprio assetto industriale entrando nel settore
della chimica organica con l’acquisizione dell’Azienda Colori Nazionali e Affini
(ACNA), il più importante produttore italiano di coloranti artificiali. Alla fine del
decennio, essa esercitava «un peso determinante» nei cartelli dei settori minerario e
chimico, come nell’azoto con la quota del 71%, negli anticrittogamici con il 60%, negli
esplosivi con il 65%471. Nel ’35 il numero degli operai dell’azienda era salito a quota
40000472.
dell’idrogeno dall’acqua per elettrolisi, e in breve esportato in tutto il mondo. Grazie al processo Fauser la Montecatini poté sintetizzare autonomamente l’ammoniaca. 468 F. Amatori, Montecatini: un profilo storico in Montecatini, 1888-1966, op. cit., p. 45 469 Ivi, p. 38 470 Ibidem 471 Ivi, p. 50 472 La società Montecatini ed il suo gruppo industriale nel venticinquesimo anno di amministrazione dell’onor. ing. Guido Donegani, op. cit., p. 575
224
Nel frattempo, nel ‘34 Donegani entrava alla Camera con la qualifica di Consigliere
Nazionale e nel ’43, poco prima del crollo del fascismo, otteneva la nomina a senatore
del Regno d’Italia.
La caduta del regime travolse la carriera e la vita di Donegani. Dopo essere stato
allontanato dalla guida della Montecatini, per l’industriale iniziò, infatti, una lunga e
complicata vicenda di arresti, interrogatori, processi, scarcerazioni. Arrestato e rilasciato
dai tedeschi nel marzo del ‘44, fu posto in stato di fermo una seconda volta dagli inglesi
nel maggio del ‘45 e, quindi, trasferito alla competenza dell’autorità giudiziaria italiana.
Dopo la scarcerazione nel luglio successivo, fu di nuovo colpito da mandato di cattura
del Clnai, con l’accusa di aver commesso atti rilevanti a mantenere in vigore il regime
fascista e di collaborazionismo economico. Nel frattempo, il caso venne segnalato anche
all’attenzione dell’Alto commissario, affinché quest’ultimo valutasse se fosse il caso di
trasmettere il procedimento all’Alta Corte di Giustizia473.
Il deferimento ad altro organo, tuttavia, non avvenne mai e il 31 luglio ‘46 Donegani
venne definitivamente assolto con formula piena dalla Sezione Istruttoria della Corte
d’Appello di Milano. La sentenza negava che la Montecatini avesse mai perseguito
finalità «di carattere politico» e che le direttive del presidente erano state «precise e
categoriche nel senso di produrre il meno possibile, solo quel tanto necessario per
mantenere in funzione gli stabilimenti e salvaguardare gli operai e gli impianti»474.
Poco meno di un anno dopo, l’industriale morì a Sanremo475, non prima di aver ricordato,
nella sua Lettera di commiato ai lavoratori e agli azionisti della Montecatini, che, se nel
1910 la società era «un piccolo organismo fornito di un capitale di appena due milioni di
lire con poche miniere di piombo e di rame in via di esaurimento in Maremma e qualche
centinaio di dipendenti», in quel momento essa era «un grande organismo con due
miliardi di capitale di lire anteguerra con oltre 50000 tra tecnici e operai, con molte decine
di stabilimenti aperti in tutta Italia: la prima fra le società italiane nel campo minerario ed
473 ACS, Fondo Mgg, Ufficio superiore personale e affari Generali (fino al 1970) (1860-1949), Ufficio Secondo (1860-1970), Magistrati, fascicoli personali 1860-1970, IV° versamento 1950-1970, b. 202, 70742, Lettera: “Scarcerazione di G. Donegani”, del Procuratore Generale G. Ciaccia alla Commissione Alleata di Controllo, 13 agosto 1945 474 Donegani assolto e Fuscà amnistiato in «Corriere della Sera», 31 luglio 1946 475 L’industriale Donegani morto a Sanremo in «Corriere della Sera», 16 aprile 1947
225
in quello chimico, tanto per i prodotti chimici agricoli quanto per i prodotti chimici
industriali»476.
6.3 Una strana scarcerazione
Ricostruire il percorso che portò alla scarcerazione di Donegani significa, innanzitutto,
mettere a fuoco le responsabilità di una serie di soggetti che, a vario titolo, si mossero
sia dentro che fuori le aule di giustizia. Uno dei principali protagonisti della vicenda fu
senza dubbio il magistrato inquirente: Carlo Druetti.
Classe 1883, originario di Bergamo, dopo essersi laureato in Giurisprudenza
all’Università di Napoli nel 1906, Druetti ebbe una lunga e impegnativa carriera.
Vicepretore onorario a Genova dal ‘13 al ‘20 e pretore a Notaresco (in provincia di
Teramo) nei quattro anni successivi, nel ‘24 era stato messo a disposizione del Governo
di Rodi, esercitando dapprima le funzioni di P.M., e poi di Procuratore del Re presso il
Tribunale di 1^ e 2^ istanza e la Corte d’Appello Consolare di Rodi. Nel ‘29 era stato
quindi richiamato in ruolo e destinato quale giudice ai tribunali, nell’ordine, di Vicenza,
Brescia e Milano. Si iscrisse al PNF il 31 luglio del ‘33477.
Dallo stato di servizio risulta anche che, col grado di primo capitano di complemento di
fanteria, avesse combattuto valorosamente nel primo conflitto mondiale, tanto da essere
autorizzato a fregiarsi del distintivo delle fatiche di guerra e della croce al merito di
guerra478.
Forte di meriti sia “tecnici” che “politici”, non stupisce che nelle note informative
annuali stese tra il ‘33 e il ‘39 Druetti fosse stato definito dai capi della Corte di Appello
di Milano «magistrato intelligente, di pronto intuito, di molta cultura civile e penale,
equilibrato, diligente, chiaro e preciso nelle sue relazioni in Camera di Consiglio, chiaro
e sobrio nella motivazione delle sentenze», nonché «di condotta morale e politica ottima
e in possesso delle qualità necessarie per occupare posti direttivi»479.
476 A. Damiano, Guido Donegani, op. cit., p. 146 477 ACS, Fondo Mgg, Ufficio superiore personale e affari Generali (fino al 1970) (1860-1949), Ufficio Secondo (1860-1970), Magistrati, fascicoli personali 1860-1970, IV° versamento 1950-1970, b. 202, 70742, Stato di servizio 478 Ivi, Copia dello stato di servizio, Regio Esercito Italiano 479 Ivi, Note biografiche
226
La vera svolta nella carriera era però arrivata per Druetti nel ‘39, con la promozione in
Corte d’Appello, per le «ottime qualità di magistrato», la «mente chiara ed aperta», la
«vasta e solida cultura»480.
Se a prima vista la vita e la carriera di questo magistrato appaiono sfavillanti e senza
macchia – tanto da garantirgli un’onorificenza post-mortem – zone d’ombra sembrano
emergere quando si considera la parentesi presso la CAS di Milano, quale capo
dell’Ufficio del P.M., nel secondo dopoguerra. Nel fascicolo personale conservato
nell’Archivio Centrale dello Stato, si leggono infatti, oltre alle note biografiche, alcune
pratiche che danno adito a qualche dubbio circa la condotta di Druetti. È del 7 agosto ‘45,
ad esempio, un’inchiesta per irregolarità a carico di un giudice in quell’epoca addetto
all’ufficio del P.M. presso la CAS di Milano, Giuseppe Leopardi. Nel documento si legge
che quest’ultimo fosse stato accusato di aver scarcerato arbitrariamente una donna
arrestata per collaborazionismo, Vittoria Maraffi (si supponeva per i rapporti «più che
amichevoli» tra i due)481. Gli inquirenti adombravano l’ipotesi che il consenso per la
scarcerazione fosse stato dato da Druetti in persona, anche se ciò era impossibile da
dimostrare: inspiegabilmente, infatti, non era rimasta traccia né del verbale di
interrogatorio a carico dell’imputata, né del provvedimento di scarcerazione. Druetti si
difese sostenendo di aver firmato un ordine di scarcerazione per una donna (non sapeva
però se fosse la Maraffi) perché convinto sulla fiducia da Leopardi che l’istruttoria nei
confronti dell’imputata fosse stata favorevole. Sulla strana questione intervenne il
Procuratore Generale della Corte di Appello di Milano, ammonendo Druetti ad un’opera
di maggiore vigilanza. Dopodiché, pare che la questione fosse stata archiviata.
Ancora più inquietante appare l’inchiesta, datata 2 marzo ‘47, riguardante un episodio di
sottrazione e di incendio di alcuni atti, avvenuto nell’ottobre ‘46, negli uffici giudiziari di
Milano. Dall’indagine risultavano rubati, tra le altre cose, incartamenti giudiziari relativi
ad alcuni importanti casi di collaborazionismo, come quello della banda Calatroni482. Nel
480 Ibidem 481 Ivi, Inchiesta per irregolarità a carico del giudice G. Leopardi, addetto al Tribunale di Milano,
della Procura Generale presso la Corte di Appello di Milano alla Commissione Alleata di Controllo, 7 agosto 1945 482 Luigi Calatroni, nato a Cigognola (in provincia di Pavia) nel 1905, fu un famigerato criminale attivo nel nord Italia negli anni Trenta e Quaranta. Dopo l’8 settembre, collaborò con i tedeschi, assumendo la carica di capitano della Sichereits a Broni, nell’Oltrepò pavese. Il 30 giugno del ‘47 fu processato assieme alla moglie Wanda Arbasini presso la Sezione Speciale della Corte d’Assise di Pavia con le accuse di collaborazionismo militare, quadruplice omicidio ed evasione dal carcere, ma venne assolto per insufficienza di prove (AS di Pavia, Fondo CAS Pavia, Vol. 2,
227
documento si legge: «Tutto il meccanismo di azione fa pensare che il piano fu
minuziosamente studiato da gente ben decisa e organizzata» e «non [era] da escludere la
partecipazione diretta o indiretta di persona pratica dell’ambiente giudiziario, e forse non
estranea agli stessi uffici»483. Non è chiaro perché quest’ultima inchiesta fosse stata
inserita nel fascicolo relativo a Druetti (allora consigliere della Corte di Appello di
Milano) in quanto non ci sono dei richiami specifici alla sua persona (se non un accenno
al fatto che il figlio svolgesse presso la stessa corte il lavoro di avvocato). Tuttavia, la
presenza di queste carte getta un’ombra sulla figura del magistrato e, in generale, sui
possibili (e assai probabili) inquinamenti dell’ambiente giudiziario milanese.
Molto più corposa appare la pratica relativa al caso Donegani. L’8 agosto ‘45, a distanza
di poche settimane dalla scarcerazione del presidente della Montecatini e dalle accuse
rivolte da Becca e da altri esponenti del Clnai all’autorità giudiziaria, Druetti stendeva
una relazione apologetica sulla procedura che aveva portato al rilascio di Donegani. Nel
documento, il magistrato asseriva di aver svolto la pratica «regolarmente» e che la
scarcerazione materiale del prigioniero risultava essere avvenuta «con firma del
questore».484 In effetti, la decisione di Druetti era stata presa in ottemperanza alla legge,
la quale stabiliva che, in assenza di accuse specifiche nei confronti di un imputato,
l’autorità giudiziaria dovesse procedere alla scarcerazione di quest’ultimo, se non
detenuto per altra causa. Ora, verso Donegani non esistevano accuse, in quanto il
fascicolo contenente informazioni sul presidente della Montecatini era misteriosamente
scomparso dagli uffici della Questura; vi erano, semmai, delle relazioni apologetiche,
stese dalle forze di Pubblica Sicurezza. Druetti aveva ragione anche a proposito della
firma del questore: era vero, infatti, che la Questura, se avesse voluto, avrebbe potuto
sospendere l’esecuzione della scarcerazione, adottando delle misure politiche
opportune, in primo luogo l’avviso al prefetto. Druetti non mancava nemmeno di
precisare che, benché egli non fosse solito trattare in modo diverso la procedura di una
Sentenza 170/47, 30 giugno 1947). Calatroni e la sua banda furono oggetto di grande attenzione mediatica, come testimoniano i numerosi articoli pubblicati sul suo conto sui quotidiani locali e nazionali (ad esempio: Le prodezze di una banda in «Corriere della Sera», 5 giugno 1945) 483 ACS, Fondo Mgg, Ufficio superiore personale e affari Generali (fino al 1970) (1860-1949), Ufficio Secondo (1860-1970), Magistrati, fascicoli personali 1860-1970, IV° versamento 1950-1970, b. 202, 70742, Relazione: Sottrazione e incendio di atti negli uffici giudiziari di Milano dell’ispettore superiore M. Giurazza al Ministro di Grazia e di Giustizia, 2 marzo 1947 484 Ivi, Relazione sulla procedura Donegani, 8 agosto 1945
228
personalità e quella di uno sconosciuto, tuttavia si era preoccupato di «dare risalto alla
sua decisione definitiva inviando notizia particolareggiata [della scarcerazione]
personalmente al questore: contrariamente a qualsiasi prassi giudiziaria»485. Insomma,
non solo Druetti si dichiarava innocente, ma addirittura rivendicava a sé il merito di aver
fatto più di quanto richiestogli dal suo incarico!
Dal punto di vista strettamente giuridico, la difesa di Druetti era inoppugnabile. La sua
condotta, però sembra del tutto ispirata alla volontà di liberare Donegani (forse in
complicità con la Questura), salvo poi – essendo scoppiata una polemica che rischiava
di ritorcerglisi contro – addebitare astutamente a quest’ultima ogni responsabilità in
proposito. Più difficile è capire le motivazioni sottese a questo gesto e, cioè,
comprendere perché un magistrato – chiamato ad un compito così alto e grave come
quello di fare giustizia dei crimini commessi contro il popolo italiano – non avesse fatto
assolutamente nulla per impedire il ritorno in libertà di uno dei principali accusati di
collaborazionismo col tedesco. Dove ricercare le ragioni del suo comportamento?
Sulla scia di quanto osservato dagli studi recenti sui magistrati, è legittimo pensare che
il nazionalismo e il classismo della magistratura abbiano pesato sulle scelte singole dei
magistrati, soprattutto nei casi in cui ci si trovò a giudicare – ed è il caso Donegani –
fatti attinenti alla guerra di classe e, quindi, a dover soddisfare una richiesta di giustizia
sociale, alla quale erano sottese istanze di profondo rinnovamento sul piano
socioeconomico486.
Non potremo mai sapere se (ed eventualmente fino a che punto) Druetti avesse
manovrato per far sparire il fascicolo delle denunce relativo a Donegani, ma certo,
considerata la sua condotta, possiamo affermare che non si fece molti scrupoli ad
ordinare la procedura per la scarcerazione dell’industriale fascista più famoso d’Italia.
Comunque sia, il magistrato sarebbe stato scagionato da ogni accusa, come si legge in
un telegramma dell’8 novembre del ’45 indirizzato dall’Ufficio Superiore della
Magistratura alla Presidenza del Consiglio dei ministri: «Dagli atti pervenuti a questo
Ministero, relativi alla scarcerazione del noto industriale Guido Donegani, non è emerso
485 Ibidem 486 Si veda quanto osservato da G. Focardi (nota 76)
229
alcun elemento che possa fondatamente dar luogo a rilievi circa l’operato dell’autorità
giudiziaria»487.
Lo scandalo suscitato dall’accaduto non sembrò compromettere affatto la carriera di
Druetti, che, anzi, avrebbe ottenuto incarichi assai prestigiosi nell’Italia repubblicana:
già nell’agosto ‘46, infatti, sarebbe stato nominato Consigliere della Corte di Appello di
Milano e nel novembre ‘51, a riprova dell’alta considerazione in cui era tenuto, sarebbe
stato addirittura chiamato a presiedere l’importante processo a carico dell’ex ministro
della Giustizia fascista Alfredo Rocco488.
Esaminata la responsabilità dell’autorità giudiziaria, è da valutare il coinvolgimento
della Questura e dell’Arma dei Carabinieri. Dopo la scarcerazione del presidente della
Montecatini, il prefetto Lombardi fece promuovere un’inchiesta interna alla Questura
per capire chi fosse stato l’esecutore materiale della sparizione dei fascicoli contenenti
le denunce verso Donegani. L’indagine portò dritta al nome del commissario della
polizia politica, Alfredo Cuccaro. Il personaggio non era nuovo sulla scena milanese:
negli anni della RSI, infatti, Cuccaro aveva diretto niente meno che l’Ufficio politico
della Questura repubblicana, collaborando con i tedeschi. Nel marzo del ‘46, sarebbe
stato sottoposto a processo dinanzi alla CAS di Milano per avere contribuito, nel suo
incarico, alla formazione di elenchi di nominativi di persone da arrestare per
antifascismo o eccitamento agli scioperi, provocando tra l’altro l’arresto e la
deportazione in Germania di diverse persone, e per avere contribuito, il 14 settembre del
’44 in Piazza S. Ambrogio, all’arresto di numerosi elementi della lotta clandestina.
Cuccaro sarebbe stato condannato a otto anni e quattro mesi di reclusione, sebbene già
a luglio la Corte di Cassazione si sarebbe pronunciata per l’annullamento senza rinvio
della sentenza, «per non avere commesso il fatto»489.
Ma perché a Cuccaro, noto fascista, fu permesso di continuare a ricoprire l’incarico di
commissario della Polizia politica? Qualcuno sui giornali ipotizzò che egli avesse
sfruttato il fatto di essere stato rinchiuso in un campo di concentramento per rivendicare
il proprio contributo nella lotta contro i tedeschi. La vera causa del suo arresto era stato,
487 ACS, Fondo Mgg, Ufficio superiore personale e affari Generali (fino al 1970) (1860-1949),
Ufficio Secondo (1860-1970), Magistrati, fascicoli personali 1860-1970, IV° versamento 1950-1970, b. 202, 70742, Relazione dell’Ufficio Superiore del personale e degli affari generali, 8 novembre 1945 488 Ivi, Decreto del Primo Presidente della Corte d’Appello di Milano, 10 novembre 1951 489 AS di Milano, Fondo CAS di Milano, Sentenze, vol. 6, sentenza 117/46, 11 marzo 1946
230
però, il contenzioso con il capobanda Mario Finizio, in precedenza arrestato dalla
Questura su ordine di Mussolini a causa dei metodi di tortura praticati, eccessivamente
brutali490. Un’altra giustificazione per la sua nomina potrebbe ravvisarsi nella cronica e
desolante mancanza di uomini in organico, che rese spesso inevitabile servirsi anche di
figure di non proprio provata fede antifascista o, quantomeno, di discutibile affidabilità.
Al di là delle ragioni di Cuccaro – che, più semplicemente, poteva anche essere stato
corrotto – ciò che è più importante osservare è il fatto che il commissario della polizia
politica non fosse stato il solo all’interno della Questura a spendersi per salvare
Donegani. Anzi, è altamente probabile che Cuccaro fosse stato usato come capro
espiatorio per celare aiuti provenienti dalle alte sfere.
Quando l’autorità giudiziaria sollecitò le forze di Pubblica Sicurezza a fornire denunce
a carico di Donegani, sia il comandante dell’Arma dei Carabinieri, Ettore Giovannini,
che il questore, Emilio Elia, non solo inviarono delle risposte negative in merito alle
responsabilità dell’industriale, ma presentarono alcune note molto significative sul suo
conto.
Ecco il rapporto steso il 7 luglio dal comando dei Carabinieri:
L’ing. Guido Donegani [...] non risulta abbia commesso reati comuni per motivi
fascisti, né delitti contro la fedeltà e la difesa militare dello Stato.
Egli, dopo l’8 settembre, non ha potuto, come tutti i dirigenti delle grandi industrie,
sottrarsi ai contatti col tedesco invasore, ma si è limitato a dare quelle prestazioni
indispensabili per limitare un diretto intervento degli occupatori nelle cose della
società e per conservare intatta l’attrezzatura industriale e per salvare le maestranze
dalla deportazione [...]
Si ritiene necessario aggiungere che l’ing. Donegani, uomo naturalmente portato alla
rigidezza e maggiormente costretto ad imporsi e ad imporre una rigida disciplina per
condurre un così vasto organismo industriale, gode scarse simpatie fra gl’impiegati e
le maestranze della Società. Comunque si può affermare che la rigida concezione
490 Mario Finizio, napoletano, ex venditore di pellicce, fu a capo di un raggruppamento poliziesco-spionistico che operò a Milano, a partire dall’estate del ‘44, alle direttive del colonnello Walter Rauff e del ministro dell’Interno Buffarini Guidi. Il 28 giugno del ‘45 la CAS di Milano processò i membri della banda Finizio, comminando 7 condanne e decretando 21 scarcerazioni per amnistia. Finizio fu condannato a 26 anni di reclusione, ma il 27 settembre del ‘46 fu amnistiato dal tribunale di Roma. Si veda: M Franzinelli, L’amnistia Togliatti, op. cit., pp. 95-6
231
dell’ing. Donegani, in materia di economia industriale e di governo della Società, non
ha alcuna relazione con teorie o preconcetti di carattere politico dai quali la mente
eminentemente speculativa del grande industriale ha sempre certamente rifuggito491.
Tenore sostanzialmente analogo quello della relazione inviata dalla Questura qualche
giorno dopo, l’11 luglio:
Non consta che il Donegani abbia commessi reati comuni per motivi fascisti. Con nessun
mezzo ha commesso delitti contro la fedeltà e la difesa militare dello Stato, né ha mai
collaborato col tedesco invasore ed è merito del Donegani il quale assorbì nella
Montecatini l’industria coloristica dell’ACNA, sottraendola così all’industria tedesca [...]
Altro campo nel quale il Donegani si oppose all’espansione di interessi tedeschi fu quello
farmaceutico [...]
Il Donegani con ciò ha sempre combattuto per la libertà economica italiana. Non è mai
stato organizzatore di squadre fasciste di alcun genere perché lo stesso non ha mai
sentito la politica di nessun partito, ma ha sempre lavorato instancabilmente negli
interessi della Soc. Montecatini, che lui dirigeva, ed il suo carattere forte e pieno di
volontà, era per coloro che volevano fare dell’Italia un loro feudo, una continua
minaccia492.
È del tutto evidente che comandante dei Carabinieri e questore assunsero entrambi la
esplicita difesa di Donegani, insistendo su due aspetti: l’opera svolta per la Patria e
l’estraneità alla politica. Si badi bene che l’elaborazione di tale linea difensiva fu
precedente a qualsiasi processo e sentenza, nonché all’interrogatorio del prigioniero, che
si tenne infatti solo qualche giorno dopo.
Ma come giustificare l’intento di Giovannini e di Elia di presentare Donegani come
paladino della libertà economica italiana, lavoratore infaticabile al servizio della
Montecatini, imprenditore lontano dalle logiche perverse del mondo politico?
491 ACS, Fondo Mgg, Ufficio superiore personale e affari Generali (fino al 1970) (1860-1949), Ufficio Secondo (1860-1970), Magistrati, fascicoli personali 1860-1970, IV° versamento 1950-1970, b. 202, 70742, Rapporto del Maggiore Comandante dei Carabinieri E. Giovannini al capo dell’ufficio del P.M. della CAS di Milano C. Druetti, 7 luglio 1945 492 Ivi, Rapporto del questore E. Elia al capo dell’ufficio del P.M. della CAS di Milano C. Druetti, 11 luglio 1945
232
Sia Giovannini che Elia erano antifascisti e avevano combattuto attivamente e con valore
nei ranghi della Resistenza: Giovannini (nome di battaglia Gerolamo), a capo di una
formazione clandestina attiva nel Nord Italia a partire dall’aprile del ‘44493; Elia (nome
di battaglia Nemo) a capo di una missione infiltrata dal SIM per conto dell’intelligence
britannica e anch’essa operativa nel nord Italia dal marzo del ‘44494. In questo caso,
dunque, sembra più difficile spiegare le loro scelte. Forse, come per la magistratura, per
comprendere l’atteggiamento nei confronti di Donegani, occorre fare riferimento a un
preciso background mentale e culturale.
Né su Giovannini né su Elia abbiamo molte informazioni. Sappiamo che il primo era
stato Maggiore Comandante del XIV Battaglione dei Carabinieri reali, mandato a
presidiare i territori sloveni occupati dopo l’aprile del ‘41495, e che il secondo era uomo
della Marina, promosso nel ‘38 per meriti eccezionali a capitano di corvetta496. Dunque,
entrambi erano militari.
Amedeo Osti Guerrazzi, in uno studio dedicato all’esercito italiano tra fascismo e
democrazia, ha provato a spiegare la mentalità di alcuni militari italiani che, dopo l’8
settembre, furono scelti per prestare servizio in Italia a fianco degli Alleati. Analizzando
le conversazioni dei prigionieri italiani intercettate dall’Intelligence service britannico
nella villa di Whilton Park, Guerrazzi ha evidenziato nelle ricostruzioni offerte dai
militari alcune tendenze di stampo conservatore e soprattutto un profondo e spiccato
anticomunismo: ad esempio, furono in molti ad esprimersi a favore dell’instaurazione
in Italia, dopo la guerra, di un governo forte che potesse stabilire il controllo sulle masse,
al riparo dal pericolo rosso. Secondo Guerrazzi, opinioni di questo tipo mostrano come
quella dei militari fosse una cultura impregnata di un’idea fortissima di “continuità dello
Stato”, che non contemplava né «alcuna profonda rottura col passato», né «un
ripensamento del proprio ruolo come classe dirigente»497.
493 http://www.carabinieri.it/arma/curiosita/non-tutti-sanno-che/r/resistenza-e-guerra-di-liberazione 494 Sulla missione si veda: F. Gnecchi Rusconi, Missione “Nemo”. Un’operazione segreta della Resistenza militare italiana 1944-1945, Milano, Mursia, 2010 495 A. Galli, Carabinieri per la libertà. L’Arma nella Resistenza: una storia mai raccontata,
Milano, Mondadori, 2016 496 http://www.difesa.it/Area_Storica_HTML/editoria/2016/uomini-mm/Pagine/files/basic-html/page211.html 497 Amedeo Osti Guerrazzi, Noi non sappiamo odiare. L’esercito italiano tra fascismo e democrazia, Torino, UTET, 2010, p. 269
233
È del tutto verosimile che Giovannini ed Elia condividessero l’impostazione mentale
della maggioranza dei militari e, cioè, che vedessero in Donegani l’uomo che aveva
contribuito – finanziando il fascismo – a garantire la stabilità del Paese, al riparo dai
disordini e dalle violenze del primo dopoguerra, e che avrebbe potuto, al termine della
Seconda guerra mondiale, aiutare l’Italia a riprendersi economicamente dal disastro in
cui era sprofondata, allontanando ancora una volta lo spettro del bolscevismo.
Quale fu, invece, il ruolo degli Alleati nella vicenda? Il 22 giugno il Counter Intelligence
Corps (CIC), l’agenzia di spionaggio dell’Esercito statunitense, su richiesta del questore
di Milano, aveva consegnato Donegani nelle mani delle autorità italiane, dando l’ordine
del trasferimento del prigioniero dal terzo raggio del carcere di S. Vittore all’area di
competenza italiana498.
Dopo la scarcerazione dell’industriale, la Public Safety Division inviò al commissario
Regionale un rapporto in cui si dava comunicazione dell’indagine avviata su indicazione
del prefetto in seno alla Questura. Nel documento si specificava che la questione era
«esclusivamente italiana» e che «l’autorità militare alleata non era stata coinvolta».
Successivamente, però, l’ufficiale di Pubblica Sicurezza, faceva presente la necessità di
nominare al più presto un nuovo questore, che fosse un «uomo in carriera, efficiente ed
energico»499.
Contemporaneamente, in un’altra relazione intitolata “The Donegani scandal”, si
ricostruivano con minuzia le reazioni di protesta dei lavoratori della Montecatini500.
Dai documenti della Commissione Alleata di Controllo nulla sembra emergere riguardo
ad una possibile interferenza sulla vicenda, se non la richiesta di sostituzione di Elia.
La storiografia sull’epurazione ha evidenziato che sebbene gli Alleati, formalmente, non
fossero mai venuti meno all’impegno di defascistizzare il Paese, tuttavia, nella pratica
agirono per salvare personalità che avrebbero potuto essere utili alla stabilizzazione o,
come in questo caso, alla ricostruzione economica dell’Italia501. Che il presidente della
Montecatini fosse tra questi, è chiaro. Inoltre, bisogna ricordare che Donegani aveva
498 ACS, Allied Control Commission- Allied Military Government, Italy, Region n. 11-Lombardia-Legal, Milano Province, Donegani, giugno/luglio 1945, n. 785029, Telegramma di J. Marino (Counter Intelligence Corps) al questore di Milano, 22 giugno 1945 499 Ivi, Telegramma dall’Ufficiale di Pubblica Sicurezza al commissario regionale di Milano, 18 luglio 1945 500 Ivi, Relazione sullo scandalo Donegani, s.d. 501 D. Roy Palmer, Processo ai fascisti, op. cit., p. 202
234
coltivato, nel corso del Ventennio, importanti legami soprattutto con gli Americani,
aprendo le porte della sua società al mercato finanziario statunitense e raccogliendo
capitali: garantire la salvezza di Donegani significava quindi preservare anche gli
interessi dei creditori statunitensi.
Del resto, che Donegani avesse rapporti con gli Americani – suscitando l’ostilità delle
autorità della RSI – risulta confermato anche da una lettera conservata presso l’archivio
federale di Berna, in cui il delegato commerciale della Svizzera in Italia, Max Troendle,
scriveva ad alcuni importanti industriali elvetici del tentato assalto al presidente della
Montecatini da parte di un gruppo di fascisti repubblicani:
[...] in occasione della mia ultima visita a Milano, ho appreso da fonti assolutamente
affidabili che il signor Donegani avrebbe dovuto essere oggetto di un'azione della
milizia fascista.
Un certo numero di miliziani armati – probabilmente della legione Muti a Milano –
hanno assaltato gli uffici della Montecatini [...] per espellere il signor Donegani.
Fortunatamente, questi non era nel suo ufficio, quindi gli intrusi si sono dovuti
accontentare di lasciare una nota con l'osservazione: “Sappiamo che stai aspettando gli
americani, ma non ti troveranno vivo!”502
Se, dunque, non furono gli Alleati a scarcerare materialmente Donegani e non abbiamo a
disposizione documenti che provino in maniera inequivocabile una responsabilità nella
scarcerazione, si può però affermare che certamente essi non poterono restare indifferenti
alla vicenda giudiziaria di un personaggio così noto e rilevante per l’economia italiana
come il presidente della Montecatini.
Né a rimanere indifferente fu la Svizzera, paese in cui, come tanti altri fascisti e criminali
di guerra, Donegani trovò rifugio. Scorrendo la documentazione relativa alla Montecatini
conservata presso l’Archivio Federale di Berna, si nota che nel corso della guerra vi fosse
stata un’attenzione costante da parte di alcuni esponenti del capitalismo elvetico per le
sorti dell’importante azienda chimica italiana, a testimonianza della presenza di interessi
502 Schweizerisches Bundesarchiv, Archiv des Schweizerischen Bundesstaates ab 1848, Schweizerische Vertretung, Salò (1944-1945), Angelegenheit des konsulats, Schäden von der Montecatini - Gesellschaft, 1944- 1945, Lettera di M. Troendle ad A. Bloch, 1° agosto 1944
235
economici significativi oltralpe. Si legge, ad esempio, in una lettera confidenziale inviata
da Troendle al direttore della Compagnia per l’industria chimica Armando Bloch:
Ho l’onore di informarti che ho ricevuto un rapporto dalla nostra legazione a Roma in
questi giorni [...] il danno subito dalla Società Montecatini nell’Italia meridionale
ammonta a soli 20-30 milioni di lire. Delle due fabbriche della Montecatini situate a
Roma, si dice che una sia intatta e pronta a funzionare di nuovo, mentre l’altra
dovrebbe essere distrutta circa per il 25%.
Secondo un anonimo direttore generale della Montecatini, questa azienda è stata in
grado di riprendere in pieno o almeno per il 50% il suo lavoro nella maggior parte delle
fabbriche dell’Italia occupata [...]
Suppongo che tu sia interessato a questi messaggi sommari e che ti rassicurino [...]503
Analizzando il complesso scenario dietro la scarcerazione di Donegani non si può non
fare una riflessione, infine, sulla debolezza del fronte antifascista.
Nel discorso al 1° Congresso dei Cln della provincia di Milano, il 5 agosto del ‘45, il
presidente del Cln lombardo Emilio Sereni constatò il fallimento nella punizione del
presidente della Montecatini e degli altri grandi industriali, finanzieri e agrari:
[...] noi abbiamo ancora di fronte a noi vive, troppo vive ed operanti, queste stesse
vecchie caste reazionarie che hanno alimentato, finanziato ed armato il fascismo [...]
Noi pensiamo che il regime democratico in Italia non è ancora consolidato, che noi
non abbiamo ancora consolidata la democrazia italiana, non la abbiamo ancora
garantita contro le provocazioni di guerra e di guerra civile. Quando, noi vediamo
ancora passeggiare impunemente in libertà, con troppe complicità, degli uomini come
Donegani, noi dobbiamo dire che ancora la democrazia italiana non è consolidata, noi
non l’abbiamo garantita contro i ritorni offensivi e provocatori della reazione504.
Dall’analisi del caso Donegani emergono lacune conoscitive in seno allo schieramento
ciellenista rispetto alle procedure giuridiche. Come si vedrà più avanti, nella polemica
sorta sui giornali dopo la scarcerazione dell’industriale, ad esempio, al Clnai venne
503 Ivi, Angelegenheit des konsulats, Schäden von der Montecatini - Gesellschaft, 1944- 1945,
Lettera di M. Troendle ad A. Bloch, 16 ottobre 1944 504 P. Lombardi, L’illusione al potere, op. cit., pp. 267-8
236
rimproverato il fatto di non aver formulato specifici atti di accusa nei confronti di
Donegani.
Ancora una volta si può vedere come l’inesperienza nell’ambito giuridico avesse
rappresentato un problema serio per la giustizia in transizione. Si capisce, perciò, la
polemica di Becca, che, da avvocato, aveva intuito i termini del problema, constatando,
nella già più volte citata relazione sul funzionamento della giustizia in Lombardia, che
il caso Donegani rivelava la deficienza di sensibilità politico-giuridica nonché
l’influenzabilità dell’organo inquirente505.
Inoltre, anche in questo caso, la situazione caotica che imperversava nel settore della
giustizia – si pensi soltanto al numero impressionante di processi pendenti sulla CAS di
Milano – influì sicuramente in negativo sulla possibilità di un esteso e capillare controllo
da parte delle forze antifasciste, nonché sul grado di coordinamento di queste ultime.
Forse, però, il fallimento del Clnai nell’assicurare Donegani alla giustizia risiedette
soprattutto, più che nella poca conoscenza del diritto e nella scarsa comunicazione tra i
vari organi, nelle divergenze profonde, di tipo politico, insite nello schieramento
ciellenista. È abbastanza ovvio che da parte liberale democristiana, ad esempio, non vi
fosse l’inclinazione ad accogliere con favore le istanze progressiste sottese alle proteste
505 INSMLI, Clnl, b. 60, fasc. 220, cartellina n. 35, “Relazioni”, Relazione sul funzionamento
della giustizia in Lombardia, s. d.: «Questo cattivo generale funzionamento della macchina giudiziaria non può non portare – ogni tanto – ad incidenti gravi, con carattere talvolta scandaloso. Sul caso Basile mi sono già espresso ampiamente; esso ha tradito una grave deficienza di funzionamento dell’organo giudicante [...] Il caso Donegani rivela a sua volta il cattivo funzionamento dell’organo inquirente (l’ufficio del P.M.) la sua deficienza di sensibilità politica – oltreché giuridica – e, forse anche, la sua influenzabilità. Non occorre qui fare molte indagini per rintracciare le responsabilità di questa scarcerazione. Essa ricade certamente sul Capo dell’ufficio del P.M., il consigliere Druetti: e mi duole dirlo date le benemerenze che si era acquistato questo Magistrato nell’impianto e nella direzione di questo ufficio sin dal periodo clandestino. Sta bene che la denuncia contro il Donegani non fosse circostanziata, ma in che modo essa è stata istruita? Con l’invio di un modulo di richiesta d’informazione alla Questura (buona tutt’al più, per sincerarsi sullo stato di servizio di un borsaiuolo o di una domestica infedele) e con il prestar fede ad una risposta apologetica della stessa Questura: tutto qui! Bastava che l’inquirente riflettesse sul fatto che il Donegani era stato arrestato per ordine del Cln dell’Alta Italia per giudicare indispensabile richiedere informazioni allo stesso Organo. Bastava che l’inquirente rivolgesse una richiesta verbale a me (come ad impegno assunto genericamente per tutti i casi di grossi personaggi) ed io avrei fornito quanto bastava per tenere il Donegani sotto chiave. Quanto, poi, a pretese questioni giuridiche o di competenza, esse non esistevano, perché già risolte in occasione di un precedente caso [...] Andrà esaminata anche la posizione del Procuratore Generale Ciaccia, ove abbia aderito alla scarcerazione del Donegani senza richiedere altre indagini [...]»
237
degli operai della Montecatini: già Roy Palmer osservò che, non a caso, il quotidiano
della Democrazia Cristiana era rimasto silente sulla vicenda della scarcerazione506.
Il caso Donegani, quindi, evidenzia come progettualità politiche di segno diverso
abbiano accompagnato l’esercizio della “giustizia in transizione”, giocando un ruolo
determinante, minando la coesione e non permettendo l’elaborazione di una linea forte
e coerente nella gestione della punizione del fascismo: ciascun partito, cioè, guardò in
modo diverso ai processi, in base a logiche e calcoli politici spesso incompatibili tra loro
e non coincidenti con l’esigenza di giustizia rivendicata dalla popolazione.
Se a ciò si aggiunge il fatto che lo schieramento ciellenista fu chiamato ad occuparsi
della giustizia in un contesto in cui i Cln erano stati progressivamente esautorati dei loro
poteri e ridotti ad organi puramente consultivi, si capisce perché il Clnai – già alle prese
con la sua notevole frammentazione interna – poté poco o nulla contro i paladini della
continuità e della conservazione.
6.4 Proteste
Prima della clamorosa scarcerazione, l’arresto del presidente della Montecatini aveva
riscosso ben scarso eco sulla stampa italiana: il solo ad occuparsene era stato, infatti, un
cronista de «l’Unità», che l’11 luglio del ‘45, a chiosa di un articolo sulla condanna a
morte dell’ex ministro dell’Interno della RSI Buffarini Guidi, aveva osservato, laconico:
«Donegani sta dormendo tranquillo a S. Vittore: cella numero 6, pianterreno del terzo
raggio»507.
A quanto pare, anzi, fu proprio grazie a questa nota che si scoprì che fine avesse fatto il
presidente della Montecatini, che dopo la Liberazione sembrava misteriosamente
scomparso nel nulla508.
Nei giorni immediatamente successivi all’ordine di liberazione, l’attenzione mediatica
verso l’industriale crebbe a dismisura. Sulle prime pagine di tutti i principali quotidiani
506 D. Roy Palmer, Processo ai fascisti, op. cit., p. 219 507 L’esecuzione di Buffarini Guidi. Il massacratore di patrioti non osa affrontare la morte in «l’Unità», 11 luglio 1945 508 Lo scandalo Donegani. Il prefetto ci dichiara di aver appreso la notizia da “l’Unità” - Che
succede in Questura? - Il “dossier” sul magnate scomparso - Agitazioni alla “Montecatini” in «l’Unità», 17 luglio 1945
238
del dopoguerra, infatti, si leggeva dello “scandalo Donegani” e delle proteste che la
scarcerazione aveva fomentato, soprattutto negli ambienti operai.
I tentativi giornalistici di ricostruzione delle responsabilità furono innumerevoli. Uno dei
commenti più taglienti fu quello de «l’Unità» che, a proposito del rapporto apologetico
steso dalla Questura, osservò con sarcasmo pungente:
Lo scandalo Donegani si gonfia, si gonfia come un pallone. Tante parole, ma che si fa,
in concreto? Il questore ha trovato il tempo di dettarci, finalmente, un rapporto
completo sugli avvenimenti. [...] Il questore si è diffuso su molti particolari, inutili
particolari, che non riteniamo di raccogliere per non annoiare il lettore. Ci siamo sentiti
dire a proposito della mancata telefonata al prefetto:
«Riconosco di aver mancato ad un dovere di riguardo verso il prefetto, per il quale gli
ho fatto le mie scuse».
D’altra parte però il questore ha dato prova di infinita delicatezza nei riguardi del prof.
Narbone, l’amico di Donegani, al quale volle evitare la «trafila burocratica», volle dare
la gioia di abbracciare il suo Guido in una sola ora di tempo. Evviva le procedure-
lampo! È veramente triste però che proprio quando la burocrazia porterebbe a dei buoni
risultati, essa venga dileggiata e messa da parte. Può essere l’inizio di un nuovo stile,
lo è anzi: a quando le gite premio e i treni popolari per gli ex-detenuti di San Vittore?
[...]
Chiediamo un’altra inchiesta. Ma forse anche questo articolo servirà a ingigantire quel
famoso pallone dello scandalo Donegani. Un giorno un piccolo spillo lo bucherà e ce
ne dimenticheremo. Il buon Donegani ci manderà dal Portogallo o dall’America del
Sud qualche suo nuovo prodotto, creato solo per «aiutare gli operai»509.
Se per «l’Unità» la colpa della scarcerazione ricadeva principalmente sul questore, reo
di non avere avvisato il prefetto, per “L’Italia Libera”, il quotidiano del Partito
d’Azione, le responsabilità erano da ripartirsi piuttosto tra tre soggetti, ovvero la
magistratura, che aveva trattato il caso come se Donegani fosse «uno sconosciuto
509 Lo scandalo Donegani. Le cortesie del questore. Alla ricerca del magnate nelle sue ville - Una piccola mancanza di riguardo - Si sono scordati l’articolo 3 in «l’Unità», 20 luglio 1945
239
qualsiasi», la Questura, che aveva redatto un rapporto «apologetico» sul presidente
della Montecatini, e il Clnai, che non aveva precisato i capi d’accusa510.
Particolarmente eloquenti del malessere per quanto accaduto furono le proteste dei Cln
aziendali, giunte a decine al Clnai. Scrisse, ad esempio, il Cln ferrovieri smistamento
di Milano:
[...] protestiamo contro le decisioni delle Autorità che hanno rimesso in libertà il più
iniquo sfruttatore di lavoratori che la storia italiana ricordi. È stato votato il seguente
ordine del giorno approvato all’unanimità:
1) punizione severa ai responsabili che hanno messo in libertà il noto fascista
Guido Donegani, essere indegno a tutti i ferrovieri
2) l’arresto immediato del famigerato sfruttatore Guido Donegani
3) che il giudizio sia fatto da un Tribunale Speciale i cui giurati siano scelti fra i
suoi ex dipendenti sfruttati dalla Montecatini
4) tutti i ferrovieri di Milano-smistamento chiedono la condanna a morte del
traditore e sfruttatore di vite umane Guido Donegani511.
Il Cln della Carbonizzazione e Carboni attivi chiese «giustizia inflessibile nei confronti
dei magnati traditori della Patria che cercano tutt’ora con subdole manovre di sottrarsi
al castigo»512. Argomenti non diversi nella sostanza usarono il Cln della Fassa, della
ditta Caspani di Crescenzago, della ditta Pompe Sihi e del Cln Peghetti-Corsini, che
osservò: «non possiamo assistere in silenzio a questi soprusi, vogliamo che questi
magnati vengano epurati dalla società perché con la loro opera diabolica cercheranno
sempre di ostacolare la ricostruzione della Nazione»513. L’incipit della lettera dei Cln
Scaini e Dell’Orto Frigoriferi, addirittura, era “Rifiuti dell’umanità”514.
L’impatto della scarcerazione di Donegani sull’opinione pubblica merita alcune
osservazioni. La prima è che, ancora una volta, il malfunzionamento della giustizia,
510 Lo scandalo Donegani. Precisazioni del questore sullo svolgimento dei fatti in «L’Italia libera», 20 luglio 1945 511 ACS, Fondo Archivi dei Comitati di Liberazione Nazionale, Comitato centrale di liberazione nazionale 1944- 1946, busta 2, fasc. 38/A, Proteste di Cln regionali per la scarcerazione di G. Donegani, 26 luglio 1945 512 Ibidem 513 Ibidem 514 Ibidem
240
unito ad una condotta poco trasparente dell’organo di polizia, contribuì ad alimentare
nella cittadinanza l’impressione che i colpevoli di crimini di collaborazionismo
potessero farla franca. «Le evidenti reticenze, i comunicati sibillini diramati intorno a
un’inchiesta che, svolgendosi in seno alla Questura, la diretta responsabile
dell’accaduto, dovrebbe al più presto mettere l’opinione pubblica in condizione di
giungere a delle conclusioni» – osservava ad esempio un cronista de «L’Italia Libera»
– hanno contribuito a creare un’atmosfera di incertezze e di sfiducia nella quale
prendono logicamente rilievo ipotesi e critiche affacciate dalla stampa»515. Quello di
Donegani, insomma, veniva avvertito come l’ennesimo clamoroso insuccesso per la
giustizia, ritenuto analogo, per la rilevanza dell’imputato e la gravità dei crimini
contestati, a quello di Roatta516.
La seconda osservazione riguarda la natura delle proteste della classe operaia.
L’impressione che si ha leggendo le proteste è che gli operai detestassero Donegani più
per avere, quale grande industriale, contribuito a mantenere in vigore il regime fascista
e sfruttato i propri lavoratori, piuttosto che per aver commesso crimini di
collaborazionismo. Tanto è vero che il fatto che Donegani avesse finanziato i tedeschi
o non viene menzionato o, comunque, resta secondario all’addebito principale di aver
sostenuto il regime fascista. Emblematico l’ordine del giorno votato dagli operai della
Montecatini, in cui l’industriale venne definito «magnate fascista, sfruttatore dei propri
dipendenti, vampiro dell’economia nazionale, responsabile fra i più alti delle attuali
sciagure della Patria517».
In questo senso, sembra potersi scorgere un’importante differenza rispetto al caso
Basile. L’odio verso quest’ultimo, infatti, nasceva, essenzialmente, dalle responsabilità
assunte nella deportazione di operai in qualità di capo della provincia e, quindi, dalle
515 Una mozione del Clnai sullo scandalo Donegani e la Questura in «L’Italia libera», 19 luglio 1945 516 Si legge, ad esempio, su «Il Progresso»: «Ma come sono andate le cose? Ha chiesto il pubblico. I giornali gli hanno spiegato, hanno raccontato la buffissima storiella d’un questore che firma un ordine di scarcerazione e poi promuove una inchiesta sulla scarcerazione stessa… Pare una farsa, ma è invece una tragedia! Alla fuga di Roatta il governo Bonomi ha vacillato; si lascia fuggire Donegani, anzi lo si libera con mille scuse, ed il governo Parri si sente più forte che mai; perché ormai ha fatto l’abitudine a queste cose» (Rivelazioni sul “caso” Donegani. Il retroscena della compilazione del famoso “modulo 28” - Quello che è successo in Questura e al Palazzo di Giustizia - Altri misteri della bizzarra vicenda in «Il Progresso», 21 luglio 1945). Sul caso Roatta cfr. L. Bordoni, Il caso Roatta, op. cit. 517 Il “caso” Donegani. Un’inchiesta del prefetto - Un ordine del giorno dei lavoratori della “Montecatini” in «L’Italia libera», 17 luglio 1945
241
responsabilità assunte quale collaborazionista. Inversamente a quanto accaduto per
Donegani, i trascorsi fascisti di Basile furono perlopiù sottaciuti: ad esempio, l’aver
organizzato e guidato squadre d’azione a Novara emerse molto sporadicamente sui
giornali e non pare aver esercitato un peso determinante nella valutazione della
complessiva vicenda processuale da parte dell’opinione pubblica518.
Un filo rosso sembra comunque legare le proteste scaturite nei confronti delle sentenze
Basile e della scarcerazione Donegani ed è il fatto che, in ambedue i casi, ad esse fu
sottesa una dinamica di lotta di classe. Nel caso Donegani, peraltro, le proteste
susseguitesi alla scarcerazione dell’industriale sembrano in continuità con quelle sorte
già durante il Ventennio – ad opera soprattutto del mondo sindacale – rivelando una
contrapposizione operai vs padrone e, quindi, socialismo vs fascismo, di lunga data.
Infine, è da notare che in entrambi i casi la lotta di classe non si esaurì nello scontro tra
imputato e operai, ma coinvolse anche la magistratura e la politica, esacerbando una
serie di lacerazioni insite nel tessuto sociale italiano con cui la “giustizia in transizione”
dovette necessariamente confrontarsi.
6.5 I collaborazionisti economici: qualche considerazione
Prendere in esame i processi per collaborazionismo economico non è semplice,
soprattutto laddove si provi ad indagare le vicende di figure molto note: la
documentazione giudiziaria in proposito, infatti, è non di rado scarna o, addirittura,
irreperibile. Sarebbe stato molto interessante, ad esempio, analizzare la vicenda
giudiziaria di Caproni, data la rilevanza del personaggio e le compromissioni di
quest’ultimo con i vertici politici e militari italiani durante il Ventennio519. Purtroppo,
518 «Carlo Emanuele Basile partecipò sin dall’inizio alla lotta fascista. Memorabili sono rimaste le sue gesta nella provincia di Novara, dove egli, a capo di squadre di azione, condusse una cruenta battaglia contro i fascisti del luogo» (AS di Perugia, Fondo Corte di Assise di Perugia, Processi penali, b. 83, fasc. 1013, Rapporto a carico di C. E. Basile all’Alto Commissariato Aggiunto per la punizione dei delitti del fascismo, 29 maggio 1945) 519 Caproni aveva preso nel ’26 la tessera del PNF e nel ’37 era stato nominato squadrista ad honorem. Dopo il 25 aprile ’45 fu denunciato a Milano per “atti rilevanti a mantenere in vigore il regime fascista” e per collaborazionismo, ma venne prosciolto in istruttoria a metà del ’46 per non avere commesso i fatti (http://www.treccani.it/enciclopedia/giovanni-battista-caproni_%28Dizionario-Biografico%29/). Manca, attualmente, una ricerca sul fascismo e sul collaborazionismo di Caproni. Gli studi finora condotti si sono esclusivamente soffermati, infatti, sugli aspetti tecnici dell’attività del noto industriale (si veda, ad esempio, R. Abate - G. Alegi - G.
242
però, all’interno del fondo della CAS di Milano, il nome del grande industriale trentino
non compare e, nonostante alcuni tentativi, non è stato possibile ricavare informazioni
in merito neanche nell’Archivio provinciale di Trento, attuale depositario della
documentazione bibliografica e archivistica del Museo Gianni Caproni520.
Ciononostante, alcune considerazioni sono emerse dall’indagine di altri casi. Ad
esempio, l’idea secondo cui, chi avesse prestato aiuto economico al tedesco, avesse in
realtà agito nell’interesse della Patria, non fu appannaggio esclusivo della difesa di
Donegani. Anche Giorgio Castelnuovo, industriale processato presso la CAS di
Varese, usò argomentazioni analoghe a quelle del presidente della Montecatini:
nella sua lunga ormai vita industriale il sottoscritto ha avuto sempre di mira due scopi:
agire con la più adamantina rettitudine e servire la sua Patria. Egli non intende per ora
e in questa sede rivendicare le sue benemerenze verso i “Patrioti” e i “Partigiani”,
quando si amava definirli con demagogico disprezzo “banditi” o “briganti”,
benemerenze che vanno dalle sovvenzioni ai salvataggi di operai destinati all’inferno
della deportazione in Germania e persino di ebrei perseguitati. Fatto sì che egli si è
rifiutato, come industriale, di mettersi sotto la protezione tedesca e di fornire in linea
generale merci di sua produzione agli invasori o alla borsa nera521.
Argomentazioni simili quelle avanzate dai giudici delle CAS nell’elaborazione delle
sentenze verso i collaborazionisti economici. Significativa è, ad esempio, la
motivazione data dalla Sezione Speciale della Corte d’Assise di Milano all’assoluzione
del commerciante in carta Mario Console. Quest’ultimo, già sottoposto a giudizio di
Apostolo, Aeroplani Caproni: Gianni Caproni ideatore e costruttore di ali italiane, Trento, Museo Caproni, 1992). Anche Caproni, come Donegani, viene ricordato in Rete tra «quei capitani d’industria e/o inventori che hanno sostanzialmente contribuito al progresso industriale del mondo occidentale con particolare riguardo dell’Italia» (http://www.impresaoggi.com/it2/1557-caproni_quando_litalia_vendeva_aerei_in_tutto_il_mondo/). 520 Mario Barsali nella voce per il Dizionario Biografico degli Italiani scrive che una copia delle istanze, difese e atti del procedimento penale a carico di Caproni è conservata nell’archivio privato della famiglia a Roma e a Venegono (in provincia di Varese) e che presso il Museo G. Caproni di Trento è depositata, invece, una parte della documentazione bibliografica (http://www.museostorico.it/index.php/Luoghi/I-luoghi-della-Fondazione/Museo-dell-aeronautica-Gianni-Caproni). A seguito della recente riorganizzazione del Museo, la Provincia autonoma di Trento, proprietaria dell’intero patrimonio, ha affidato alla Fondazione Museo Storico del Trentino la gestione del Museo e del patrimonio di velivoli, opere storico-artistiche, (come quadri, sculture), strumentazione tecnico aeronautica, cimeli di vario genere. La biblioteca e la documentazione archivistica, i fondi fotografici e il fondo di pellicole sono invece depositate e gestite dall’Archivio provinciale. 521 INSMLI, Clnl, b. 60, fasc. 220, Esposizione di G. Castelnuovo, 6 giugno 1945
243
epurazione dall’Unione provinciale dei commercianti, era stato denunciato nell’agosto
del ‘45 con l’accusa di avere, agendo da intermediario tra le autorità germaniche e le
cartiere italiane, fornito al tedesco tutta la carta prodotta dall’industria italiana522. A
dispetto degli innumerevoli allegati prodotti a sostegno della denuncia, la corte di
Milano assolse Console perché il fatto addebitatogli non costituiva reato, adducendo
tre motivazioni principali. La prima era che l’imputato avesse in realtà agito in
un’atmosfera di coercizione e paura e che, quindi, non si potesse dire che da parte sua
vi fosse stata la volontà di collaborare col tedesco invasore. Si consideri la riflessione
dei giudici:
Orbene, il consenso e l’accettazione dati in tali circostanze sono ben lontani dal potersi
riguardare come atti di volontaria e libera determinazione verso una collaborazione
penalmente punibile. Perché questa particolare ipotesi di aiuto dato al nemico, anche
se prevista e formulata in Leggi Speciali con i D.L. 27 luglio 1944 e 22 aprile 1945,
costituisce pur sempre una forma di tradimento del dovere di fedeltà verso lo Stato in
guerra, cioè un delitto essenzialmente doloso in cui l’elemento intenzionale è costituito
dalla volontà libera e cosciente di tradire gli interessi dello Stato in guerra; volontà che
non si riscontra quando il cittadino viene indotto all’azione per conseguenza di una
coercizione morale che limita le sue possibilità di determinazione e di scelta523.
In secondo luogo, secondo la corte, Console aveva cercato, «con pretesti e sotterfugi
di vario genere» di limitare e di eludere l’esecuzione delle forniture che i tedeschi
richiedevano, «secondo la tattica di dare un poco per non farsi portare via tutto»524: un
ragionamento che ricorda molto da vicino quello di Basile e di altri capi delle provincia,
che avevano spiegato di aver acconsentito al trasferimento coatto in Germania di un
certo numero di operai esclusivamente per evitare deportazioni ben più massicce.
522 Ivi, b. 60, fasc. 218, Lettera di A. Becca all’ufficio del Pubblico Ministero presso la CAS di Milano, 11 agosto 1945: «Risulta da questa denuncia e dagli importantissimi documenti alla stessa allegati che il Console – appena avvenuta l’occupazione dell’Italia da parte dell’invasore tedesco – si mise a disposizione dello stesso per fornire alla Germania tutta la carta disponibile prodotta dall’industria italiana ed in effetti divenne il fornitore pressoché esclusivo di tale merce che era, in conseguenza, fatta mancare al consumo italiano. In tal modo il Console – oltre ad aver tradito il Paese – si è enormemente arricchito ai danni della Nazione e si impone, pertanto, il suo immediato arresto e la nomina di uno o più sequestratari del suo patrimonio privato e delle sue aziende». 523 AS di Milano, Fondo CAS di Milano, Sentenze, vol. 5, Sentenza 6/46, 8 gennaio 1946 524 Ibidem
244
Un terzo punto interessante è il fatto che l’azione dell’imputato venga ricondotta al
tentativo di aiutare e proteggere i partigiani. «[...] è da rilevare che non solo il Console
non diede mai la sua adesione al P.F.R., ma incoraggiò e favorì in tutti i modi, fin dal
suo nascere, il movimento di resistenza e d’azione dei partigiani», si legge nella
sentenza. «[...] la sua casa di Germagnano, in quel di Lanzo Torinese, fu sede di
convegni e rifugio di moltissimi patrioti, fra cui la medaglia d’oro generale Perotti525;
le sue finanze vennero largamente in soccorso dei partigiani lottanti nelle zone della
Val di Lanzo e del Canavese [...]»526. Concludevano i giudici: «comportamento questo
che sta a dimostrare in modo inconfondibile quali fossero i veri sentimenti del Console
verso gli oppressori nazi-fascisti, e come sia inconcepibile l’idea che vorrebbe fare di
lui soltanto uno scaltro profittatore sul cadavere della nazione prostrata sotto il tallone
germanico»527.
Naturalmente le sentenze Donegani e Console non esauriscono la varietà e la
problematicità dei giudizi emessi nei confronti dei collaborazionisti economici. Basti
pensare che, ad esempio, un altro importante industriale il cui nome affiora dalle carte
del Commissariato alla Giustizia, Tommaso Cacciapuoti, fu condannato dalla CAS di
Milano, nel luglio ‘45, a dodici anni di reclusione, ai sensi dell’art. 58 C.P.M.G.528
Analogamente, Paride Craperi e Gregorio Attilio Del Giovannino, accusati di aver
costruito, pagati dai tedeschi, opere di interesse militare in alta Valtellina, furono
condannati dalla CAS di Sondrio nell’agosto ‘45, rispettivamente a sei anni e otto mesi,
e a due anni e sei mesi di reclusione, secondo quanto predisposto dall’art. 58
C.P.M.G.529
Certamente non si può, quindi, dire che da parte delle CAS non vi sia stata mai, in
assoluto, una condanna del collaborazionismo economico. Probabilmente è vero,
invece, che anche sulla punizione di questa forma di collaborazione influì in buona
parte la tempistica: infatti, i giudizi emessi nei confronti di Cacciapuoti, Craperi e Del
525 Giuseppe Perotti (1895-1944), nato a Torino, fu un generale, ingegnere e partigiano italiano.
Si veda P. Malvezzi - G. Pirelli (a cura di), Lettere di condannati a morte della Resistenza italiana (8 settembre 1943-25 aprile 1945), Torino, Einaudi, 2003, pp. 248-250 526 AS di Milano, Fondo CAS di Milano, Sentenze, vol. 5, Sentenza 6/46, 8 gennaio 1946 527 Ibidem 528 Ivi, vol. 1, Sentenza 45/45, 6 luglio 1945 529 AS di Sondrio, Fondo CAS di Sondrio, b. 2, Sentenza 32/45, 13 agosto 1945
245
Giovannino, giunti nel ‘45, furono molto più severi rispetto a quelli emessi verso
Console e Donegani, pronunciati “solo” nel ‘46.
In mancanza ancora di un quadro completo sui processi ai collaborazionisti economici
in Lombardia e in Italia, si deve anche constatare che probabilmente tale tipologia di
collaborazionismo risultava assai più difficile da punire rispetto ad altre. Intanto perché
non era stata fornita dal legislatore una fattispecie del reato di collaborazionismo
economico (diversamente da quanto previsto per i capi della provincia e per chi, in
generale, avesse rivestito determinate cariche o esercitato certe attività all’interno della
RSI, per cui, come si è visto, vigeva il principio della presunzione di colpevolezza). Di
conseguenza, quello del collaborazionismo economico era un reato ancora più
sfuggente di altri, interpretabile in tanti modi diversi a seconda della sensibilità dei
giudici. Il P.M. avvocato Flora, in occasione del processo a Sondrio agli imputati
Craperi e Del Giovannino, provò a spiegare al pubblico presente in aula chi fossero, in
sostanza, i collaborazionisti economici, non nascondendo la difficoltà ad inquadrare e
a definire chi agiva «al coperto»:
Oggi si conclude il primo dei processi a carico di coloro che con terminologia
impropria sono chiamati collaborazionisti economici. Dico con terminologia
impropria perché costoro si trovano nella medesima posizione di una spia, di un soldato
al servizio degli stranieri. Collaborare nella specie significa operare, lavorare con lo
straniero od a danno degli interessi nazionali.
Cosicché come il soldato determina la sua personalità collaborazionistica combattendo
a fianco del nemico, come la spia mobilita le sue attitudini per favorire le mire
dell’avversario, il collaborazionista economico mette a disposizione del tedesco
invasore le sue capacità tecniche. Unica caratteristica che differenzia questi
collaboratori del nemico è che, mentre il soldato paga spesso con la sua vita e la spia
si espone ad un rischio, i collaborazionisti economici lavorano al coperto e si
arricchiscono a spese del popolo contro cui combattono. La loro opera di fortificazione
tocca di più ma non balza evidente. Così si dice non è un reato. Ma è sufficiente che il
cittadino si metta al servizio del nemico perché debba rispondere di ciò anche se il suo
operato sia stato poi sterile530.
530 Craperi e Del Giovannino impresari venduti ai tedeschi aprono la serie dei collaboratori
economici prezzolati dalla Todt in «Cronaca Giudiziaria della Corte di Assise Straordinaria di Sondrio», 6 agosto 1945
246
Punire il collaborazionismo economico era difficile anche per via della strategia del
doppiogioco, già risultata vincente per scampare alle sanzioni epurative. Del resto,
anche le reazioni dell’opinione pubblica vengono a confermare la notevole ambiguità
di giudizio nei confronti dei collaborazionisti economici, considerati, ora biechi
sfruttatori al soldo dei tedeschi, ora manager illuminati e indispensabili per il buon
funzionamento delle aziende. Ad esempio, nel processo celebrato dalla CAS di Sondrio
a carico di Genesio Martinelli, industriale a capo di una ditta a Morbegno, accusato di
aver eseguito forniture militari per i nazi-fascisti, le testimonianze degli operai furono
marcatamente contrastanti. Da un lato, un gruppo di lavoratori denunciò Martinelli,
spiegando: «I nostri padroni, mentre rimpinguavano le loro casse con l’oro dei nazisti,
ci hanno tenuti allo stato di selvaggi. Non debbono prevalere ed opprimerci ancora».
Altri operai, invece, osservarono: «Martinelli Genesio gode l’affetto e la stima di tutte
le maestranze che desiderano riaverlo al più presto, perché dirigente capace e pratico,
e sono sicure che egli continuerà a trattarle con l’abituale generosità»531.
Tale ambiguità, comunque, non deve far pensare che da parte della popolazione non
fossero sorte proteste di una certa entità, soprattutto verso i personaggi più in vista e
più chiaramente compromessi coi tedeschi. A Sondrio, al processo ai principali
collaboratori della Todt in Valtellina, Carlo Negri, Otello Franzoni, Pietro Della Bona,
Pellegrino Ghisla, l’atmosfera era «straordinariamente tesa» e la folla «enorme», tanto
che più volte nel corso del dibattimento il presidente fu costretto ad ordinare «silenzio»
e a minacciare «di far sgomberare l’aula e svolgere il processo a porte chiuse»532. Dopo
l’assoluzione di Negri e Della Bona nel settembre ‘45533, gli operai del capoluogo
valtellinese insorsero, elaborando una mozione di protesta dai toni e contenuti analoghi
alle contestazioni suscitate dalla scarcerazione di Donegani:
Le commissioni interne di fabbrica, i lavoratori e il proletariato di Sondrio, espressione
più autentica del popolo di tutta la Provincia che ha dato il sangue dei suoi figli migliori
nei 18 mesi di oppressione nazifascista per la conquista di una libertà fondata sulla
531 Martinelli Genesio - Imputato di collaborazione economica e di aver denunciato Ghislanzoni - Assolto in «Cronaca Giudiziaria della Corte di Assise Straordinaria di Sondrio», s. d. 532 Il processo più clamoroso. L’accusa più ardente. La difesa più accanita in «Cronaca
Giudiziaria della Corte di Assise Straordinaria di Sondrio», 11 settembre 1945 533 AS di Sondrio, Fondo CAS di Sondrio, b. 3, Sentenza 56/45, 10 settembre 1945
247
giustizia sociale, constatato che gli ultimi processi della Corte d’Assise Straordinaria
contro i più compromessi collaborazionisti del tedesco invasore, sono terminati con
inaccettabili ed inesplicabili sentenze di assoluzione, protestano contro le leggi
insufficienti che permettono alle forze reazionarie di irridere alle loro miserie e
rendono vano il sacrificio del sangue versato, chiedono la revisione dei processi,
riaffermano la loro volontà per l’immediata convocazione della Costituente la quale
dia finalmente alla Nazione un ordinamento giuridico che stronchi ogni ritorno
reazionario e consenta il sicuro sviluppo della Repubblica democratica progressista dei
lavoratori534.
534 Mozione in «Cronaca Giudiziaria della Corte di Assise Straordinaria di Sondrio», 13 settembre 1945
248
Appendice documentaria
1. Elenco dei giudici popolari redatto dal Cln di Sondrio (AS di Sondrio, Fondo
CAS di Sondrio, b. 13, Rapporto n. 80 del Cln per la provincia di Sondrio al
presidente del Tribunale di Sondrio, 2 giugno 1945)
249
2. Prima sentenza pronunciata dalla CAS di Milano (AS di Milano, Fondo CAS di
Milano, Sentenze, vol. 1, Sentenza 1/45, 29 maggio 1945)
250
3. Stralcio del resoconto del processo allo stato maggiore della Sichereits (Cronache
dell’Oltrepò, Documentario n. 1, Voghera, Officina d’arti grafiche di Boriotti e
Zolla, 1945)
251
4. Elenco nominativo delle persone di razza israelita contro le quali viene disposto
decreto di confisca da parte del capo della provincia di Mantova Angelo Cesare
Bracci (AS di Mantova, CAS di Mantova, b. 1, fasc. 1)
252
5. Elenco degli individui liberati per l’applicazione dell’amnistia redatto dal
prefetto di Mantova nel settembre ‘46 [ACS, Ministero dell’Interno 1814-1986,
Direzione Generale Pubblica Sicurezza (1861-1981), Sezione Servizi informativi
e speciali SIS (1946-1948), Sezione confino politico (1926-1949), b. 254]
253
6. Scheda biografica di Aurelio Becca nel Casellario Politico Centrale (ACS,
Ministero dell’Interno, Direzione Generale Pubblica Sicurezza 1861-1891,
Divisione Affari Generali e Riservati. Uffici dipendenti dalla sezione prima 1894-
1945, Fascicoli personali 1894-1945, b. 426, n. 25427)
254
7. Relazione di Aurelio Becca allo schema di provvedimento integrativo della
legislazione sulla punizione dei delitti fascisti e nazisti (INSMLI, Clnl, b. 60, fasc.
220, cartella n. 36 “Studi legislativi”, s.d.)
255
8. Carlo Emanuele Basile nelle vesti di ispettore dei Fasci all’Estero di Parigi e
sottosegretario di Stato per l’Esercito della RSI (AS di Perugia, Fondo Corte di
Assise di Perugia, Processi penali, b. 83, fasc. 1013)
256
9. Bando del prefetto Basile ai tranvieri genovesi contro lo sciopero del 27
novembre 1943 (ILSREC, Fondo Gimelli, 2/22)
257
10. Articoli apparsi su «Il Corriere della Sera» a proposito delle sentenze
pronunciate verso Basile dalle CAS di Milano e Pavia, 1945-’46
258
11. Articolo de «l’Unità» sulla sentenza Basile pronunciata dalla CAS di Milano
(ILSREC, «l’Unità», 1945)
259
12. Stralcio della requisitoria del P.M. Nicandro Siravo al quarto processo Basile
(ILSREC, Fondo Dv 25, b. 3 “Denunce, processi a carico di nazi-fascisti”, Il
processo Basile in «Oratoria», s.d.)
260
13. Tessera di riconoscimento del candidato Ettore Acerra per l’esame di concorso
ai posti di Uditore Giudiziario, 10 aprile 1922, [ACS, Fondo Mgg, Ufficio
superiore personale e affari Generali (fino al 1970) (1860-1949), Ufficio
Secondo (1860-1970), Magistrati, fascicoli personali 1860-1970, IV° versamento
1950-1970, b. 210, n. 70788]
261
14. Sentenza della Suprema Corte di Cassazione pronunciata nel luglio ’46 nei
riguardi del capo della provincia Dante Maria Tuninetti [ACS, Corte Suprema
di Cassazione (1882-1973), Sezioni Penali (1923-1968), Sentenze della seconda
sezione penale in udienza pubblica, 1946, 931/46, Sentenza 1134, 1°luglio 1946]
z
262
15. Stralcio dell’interrogatorio di Guido Donegani all’interno del fascicolo personale
del magistrato Carlo Druetti [ACS, Mgg, Ufficio superiore personale e affari
Generali (fino al 1970) (1860-1949), Ufficio Secondo (1860-1970), Magistrati,
fascicoli personali 1860-1970, IV° versamento 1950-1970, b. 202, 70742, 12 luglio
1945]
263
16. Proteste dei Cln regionali per la scarcerazione di Donegani (ACS, Archivi dei
Comitati di Liberazione Nazionale, Comitato centrale di liberazione nazionale
1944- 1946, busta 2, fasc. 38/A, 26 luglio 1945)
264
17. Relazione redatta dagli Alleati nel luglio ‘45 sullo “scandalo Donegani” (ACS,
Allied Control Commission-Allied Military Government, Italy, Region n. 11-
Lombardia-Legal, Milano Province, Donegani, giugno/luglio 1945, n. 785029)
265
18. Articolo sul processo ai collaboratori economici della Todt a Sondrio (in
«Cronaca Giudiziaria della Corte d’Assise Straordinaria di Sondrio», 6 agosto
1945)
266
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- Fondo Corte di Assise Speciale di Brescia
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- Fondo Corte d’Assise Straordinaria di Mantova
Archivio di Stato di Milano
- Fondo Corte d’Assise Straordinaria di Milano
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- Fondo Corte d’Assise Straordinaria di Pavia
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