Il World Class Manufacturing e le relazioni industriali in Fiat
Chrysler Automobiles
Universi tà della Calabria
Dipartimento di Scienze Politiche e Sociali
Anno Accademico 2013/2014
Corso di Laurea Magistrale in
Scienze delle Pubbliche Amministrazioni
Tesi di Laurea
Il World Class Manufacturing e le relazioni industriali in Fiat Chrysler Automobiles
Relatore Candidata
Prof. Vincenzo Fortunato Rossana Labonia matricola 158131
Indice
INTRODUZIONE ......................................................................................................... 1
CAPITOLO 1
1.1 L’evoluzione dell’organizzazione: dalla produzione artigianale al fordismo … ..... 6
1.2 Il post-fordismo: i pilastri del “modello giapponese”.............................................. 11
1.3 Il processo produttivo nella lean production ........................................................... 23
1.4 La struttura organizzativa della fabbrica integrata .................................................... 28
1.5 Le risorse umane e le relazioni industriali nella lean production .......................... 38
CAPITOLO 2
2.1 Il “World Class Manufacturing” come modo di lavorare ....................................... 53
2.2 Strumenti e metodologie ............................................................................................. 57
2.3 L’implementazione del World Class Manufacturing ................................................ 64
2.4 Il sistema Ergo-Uas ....................................................................................................... 66
CAPITOLO 3
3.1 Dinastia Agnelli .............................................................................................................. 75
3.2 Il nascere della crisi ....................................................................................................... 78
3.3 Le ragioni della crisi ..................................................................................................... 85
3.4 E poi arriva Marchionne............................................................................................. 105
3.5 Nasce Fiat Chrysler Automobiles (FCA) ................................................................. 125
CAPITOLO 4
4.1 Le relazioni industriali in Fiat .................................................................................... 128
4.2 Affare Chrysler e tentativi di acquisizione della Opel............................................ 175
4.3 Le Vertenze di “Pomigliano” e “Mirafiori” ............................................................ 184
4.4 Verso quale direzione sindacale: partecipazione o conflittualità? ........................ 203
CAPITOLO 5
5.1 Premessa ........................................................................................................................ 206
5.2 La Fiat Chrysler Automobiles di Mirafiori .............................................................. 208
5.3 L’impatto del World Class Manufacturing in termini di partecipazione sul
sistema aziendale ................................................................................................................ 210
5.4 L’impatto del World Class Manufacturing in termini di partecipazione sulle
relazioni industriali ............................................................................................................. 217
5.5 L’impatto del World Class Manufacturing in termini di partecipazione sui
lavoratori ............................................................................................................................. 225
Intervista Alberto Cipriani (Responsabile Fim-Cisl) .................................................... 232
Intervista Edi Lazzi (Segretario responsabile Fiom-Cgil) ............................................. 249
Intervista Flavia Aiello (Segretaria provinciale Uilm-Uil) ............................................. 268
Intervista Roberto Cortese (Responsabile relazioni industriali FCA-EMEA) .......... 279
Intervista Luciano Massone (Capo del WCM Region & WCM Dev. Center VP ..........
.............................................................................................................................................. 297
Intervista Pino Di Castri (Operaio Mirafiori Carrozzeria) .......................................... 308
Intervista Antonella Palumbo e Giuseppe Buscicchio (Operai Mirafiori
Carrozzeria Montatura e Verniciatura) ............................................................................ 314
Intervista Claudia Di Rosso ( Impiegata struttura centrali) .......................................... 323
Considerazioni conclusive ............................................................................................331
Riferimenti Bibliografici .............................................................................................. 336
1
Introduzione
Il lavoro di tesi entra nel merito delle trasformazioni legate
all’introduzione di nuove forme di organizzazione del lavoro e della
produzione, partendo dai temi classici dell’organizzazione scientifica del
lavoro, la fabbrica taylor-fordista, fino ad arrivare all’ultima frontiera dell’
organizzazione del lavoro e della produzione, il “World Class
Manufacturing”.
A partire dal 2006, in un contesto di crisi globale, il manager italo-
canadese Sergio Marchionne, si lancia in una vera e propria crociata per
l'aumento della produttività, adottando all’interno del Gruppo Fiat un
nuovo programma il “World Class Manufacturing”, un nuovo modo
guardare all’organizzazione, un metodologia di miglioramento continuo
delle prestazioni della fabbrica, attraverso cui si riescono ad ottenere
importanti vantaggi di competitività relativi a qualità, costi e tempi di
risposta. L’applicazione del WCM richiede che ognuno collabori alla
gestione dell’azienda, che ogni dipendente sia coinvolto nel
perseguimento rapido e continuo del cambiamento. È importante che i
miglioramenti all’interno dell’azienda siano introdotti con il
coinvolgimento dei lavoratori al fine di attivare una loro prima
mobilitazione intellettuale, attraverso il suggerimento di idee che le
persone stesse ritengono possano migliorare le loro condizioni di lavoro.
Altrettanto importante per un corretto funzionamento del programma
non è tanto quello di costruire un nuovo modello di relazioni industriali
ma quello di dare spessore a forme di partecipazione concrete, di aprire
dei canali di comunicazione e di dialogo costruttivi finalizzati alla ricerca
di compromessi tra l’azienda e il sindacato.
2
La tesi è strutturata in cinque capitoli (o parti) tra loro strettamente
collegati e interdipendenti. Nel primo capitolo si affronta il tema
dell’evoluzione delle formule organizzative. L’enfasi è posta sul rapporto
tra i vari modelli organizzativi, i fattori che ne hanno determinato il
superamento e la sostituzione con altri modelli più o meno innovativi
rispondenti alle esigenze del mercato. Per ciascuna tipologia sono state
ricostruite le principali caratteristiche organizzative, l’impatto della nuova
organizzazione e delle tecnologie disponibili sui lavoratori, le strategie
gestionali da parte della direzione. Si partirà dall’organizzazione
scientifica del lavoro, la fabbrica taylor-fordista, fino ad arrivare al
modello giapponese (lean production) che, a partire dagli anni Novanta,
ha rivoluzionato il settore dell’auto e sulla sua recente evoluzione nota
come World Class Manufacturing.
Nel secondo capitolo si entrerà nel dettaglio del World Class
Manufacturing, e in particolare delle tecniche e degli strumenti utilizzati,
delle fasi necessarie per la sua implementazione e un’ approfondimento
del sistema Ergo-Uas, utilizzato per migliorare le condizioni di salute e di
sicurezza dei lavoratori all’interno della nuova organizzazione.
Il terzo capitolo ripercorre la storia della Fiat, tutte le vicende che sono
ormai oggetto di attenzione da parte degli ambienti economici, sociali e
politici del paese, e soprattutto sui numerosi problemi che l’azienda sta
vivendo fino ad arrivare all’ingresso sulla scena, nel 2004, del nuovo
amministratore delegato Sergio Marchionne che ha risollevato le sorti
dell’azienda, la cui attenzione si è concentrata soprattutto sugli Stati Uniti
che è sfociata nel Gennaio 2014 nell’acquisizione di Chrysler, con la
nascita di “Fiat Chrysler Automobiles”, che ha segnato di fatto l’inizio di
un nuovo capitolo per l’azienda italiana.
3
Il quarto capitolo focalizza l’attenzione sul tema delle relazioni industriali
in Fiat, abbiamo cercato di offrire un’analisi della contrattazione
collettiva sindacale alla Fiat, partendo dagli anni Ottanta fino ad arrivare
ai giorni nostri, per comprendere appieno i cambiamenti in atto.
Cambiamenti che hanno portato, attraverso l’introduzione del nuovo
paradigma organizzativo del lavoro e della produzione (WCM), a un
modello di contrattazione collettiva che da “normativo” diventa
“partecipativo”.
Il quinto capitolo si riferisce alla ricerca empirica, dopo una breve
descrizione dello stabilimento Fiat Chrysler Automobiles di Mirafiori,
della realtà di fabbrica, e delle condizioni in cui perversa, le numerose
domande su cui si basa la ricerca tentano di ricostruire, a partire dai
luoghi di lavoro e dalle rappresentazioni sociali dei protagonisti, operai,
impiegati, manager e rappresentanti sindacali, le nuove prassi
organizzative e le dinamiche che si instaurano tra i diversi attori.
Obiettivi e ipotesi della ricerca
Particolare enfasi in questo studio sul World Class Manufacturing è posta
sulle relazioni che intercorrono tra azienda, sindacato e lavoratori nello
stabilimento di Fiat Chrysler Automobiles di Mirafiori.
È possibile osservare come l’azienda si stia dirigendo sempre di più verso
l’adozione di una strategia gestionale basata sulla flessibilità, sulla
riduzione dei livelli gerarchici, sul lavoro in team, sulla qualità totale ma
anche e soprattutto sulla partecipazione e formazione dei lavoratori
rispetto alle necessità produttive. Un aspetto particolarmente
interessante, in seguito all’introduzione del WCM, riguarda l’evoluzione
delle relazioni industriali che sembrano orientarsi verso nuovi scenari che
4
richiedono non soltanto la partecipazione collettiva sindacale, ma in
qualche modo determina il passaggio ad una forma di “sindacalismo
partecipativo”, vale a dire caratterizzato da un rapporto di forte
integrazione con l’azienda e soprattutto sulla eliminazione di ogni forma
di conflittualità.
A tal riguardo lo scopo della ricerca è quello di capire qual è il
collegamento tra questo nuovo paradigma organizzativo, sperimentato
dal 2006 in poi, e le relazioni industriali.
In particolare, se il WCM, centrato sul coinvolgimento attivo dei
lavoratori, richiede o meno l’intermediazione del sindacato. Quali
caratteristiche questo deve avere, partecipativo o conflittuale.
Qual è il ruolo del sindacato e la sua effettiva partecipazione all’interno
dell’azienda. Qual è il rapporto con l’azienda, se quest’ultima cerca il
rapporto con i sindacati oppure preferisce interagire direttamente con i
lavoratori. Se esistono ancora dei meccanismi di tipo partecipativo,
rappresentato dalle commissioni, se queste funzionano effettivamente o
il coinvolgimento del sindacato è soltanto formale.
Si cercherà dunque di capire quali sono i nuovi equilibri e le nuove
strategie manageriali finalizzate ad acquisire il consenso sui nuovi metodi
di produzione e come questo ha influito in modo determinante
sull’organizzazione e sulle modalità di azione del sindacato.
Considerazioni metodologiche e strumenti
Per quanto riguarda gli aspetti metodologici, la ricerca è stata svolta
attraverso delle interviste in profondità a rappresentanti sindacali, in
particolare al responsabile della Fim-Cisl, Alberto Cipriani, al segretario
della Fiom-Cgil, Edi Lazzi e alla segretaria provinciale della Uilm-Uil,
5
Flavia Aiello. Per quanto riguarda il Management Fiat Chrysler
Automobiles, il responsabile delle relazioni industriali FCA – EMEA,
Roberto Cortese, il capo del World Class Manufacturing EMEA Region
& WCM Dev. Center VP, Luciano Massone, e i lavoratori di Mirafiori
Carrozzeria, Pino Di Castri, Antonella Palumbo, Giuseppe Buscicchio e
l’impiegata delle strutture centrali Fiat Chrysler Automobiles, Claudia Di
Rosso.
I principali contenuti delle interviste hanno riguardato le strategie
manageriali legate alla nuova organizzazione del lavoro e della
produzione, le caratteristiche e i problemi legati all’introduzione del
World Class Manufacturing, le relazioni di lavoro, in termini di
coinvolgimento dei lavoratori, l’evoluzione delle relazioni sindacali, i
ruoli delle diverse figure, le forme della rappresentanza, le modalità e le
procedure dell’azione sindacale.
L’osservazione diretta all’interno dello stabilimento Maserati di
Grugliasco, mi ha inoltre permesso di capire come i lavoratori si
inseriscono all’interno della nuova organizzazione e come è cambiato
l’ambiente di fabbrica nel complesso.
6
Capitolo 1
Dall’organizzazione scientifica del lavoro (Taylor)
al “sistema produttivo Toyota”
1.1. L’evoluzione dell’organizzazione: dalla produzione
artigianale al fordismo
L’organizzazione di fabbrica, come organizzazione della produzione per
il mercato, nasce nel XVIII secolo. Tuttavia l’ampliamento e il controllo
della produzione da parte dell’imprenditore aveva già conosciuto una
forma che non richiedeva la concentrazione di mezzi di produzione e
persone, si trattava del putting-out system, in cui il lavoro veniva
effettuato da artigiani o braccianti che lavorano a domicilio usando
materie prime e telai di proprietà del mercante-imprenditore.
Il passaggio dal lavoro artigianale al lavoro in fabbrica avviene col
raggruppamento degli artigiani e dei macchinari in un unico complesso,
sotto un’unica direzione, appunto, la fabbrica, per dare più continuità,
precisione e maggiore regolazione al processo di lavoro attraverso la
disciplina del tempo rispetto all’inizio in cui la produzione procedeva a
sbalzi, per interruzioni, seguendo i ritmi di ciascun artigiano.
L’avvento dell’impianto produttivo moderno ebbe un enorme
impatto sociale descritto per la prima volta da Marx1. Venne innanzitutto
meno la possibilità di scegliere quando lavorare, se lavorare e anche se
lavorare di meno, rinunciando ad una parte del proprio reddito,
1 Fortunato V., Della Rocca G., «Lavoro e organizzazione. Dalla fabbrica alla società
postmoderna», Roma-Bari, Editori Laterza, 2006, p. 8
7
quest’ultima possibilità era consentita nel lavoro a domicilio ma non nella
fabbrica, il cui il tempo era disciplinato da orari di lavoro nella giornata o
nella settimana.
Le ragioni per cui la fabbrica surclassò il lavoro a domicilio non
sono tuttavia solo legate all’innovazione tecnologica, al controllo sul
come l’operaio lavorava o allo sfruttamento da parte del padrone
imprenditore. Mettere tutti i lavoratori sotto lo stesso tetto assicurava
una maggiore possibilità di trasmissione delle informazioni tra gli stessi
operai. La concentrazione in fabbrica serviva quindi a stimolare o
costringere gli operai appartenenti a diversi mestieri a interagire tra loro o
a rendere disponibili le loro conoscenze. Per costoro ovviamente la
fabbrica non rappresentava la sola possibile soluzione al problema, i
sindacati e le associazioni di mestiere (meccanici, macchinisti, tessitori,
fonditori, ecc.) avevano un ruolo importante nello scambio delle
conoscenze.
All’interno della fabbrica vennero quindi introdotte le prime
«macchine universali», che potevano essere adoperate per diverse
operazioni, vi è un rapporto uomo-macchina del tutto peculiare in cui
l’abilità, il mestiere del singolo operaio è ancora preponderante.
L’imprenditore sceglie cosa produrre e assicura le condizioni
generali della produzione, ma l’esecuzione del prodotto è in larga parte
lasciata all’autonomia e all’abilità professionale degli operai, nell’uso delle
macchine, organizzati in squadre. Queste sono composte da operai più
esperti e anziani, da apprendisti più giovani e da molti manovali non
qualificati che eseguivano i lavori più semplici. Gli operai dotati di
professionalità di questa fase, pochi rispetto ai manovali, sono chiamati
operai di mestiere.
8
Osservata con gli occhi della fabbrica che si è imposta nei decenni
successivi, essa appare alquanto «disorganizzata». Uno stesso lavoro
poteva richiedere tempi di attuazione differenti a seconda delle squadre,
essere fatto in modi diversi, essere diversamente remunerato a seconda
degli accordi del caposquadra con gli operai che lui stesso assumeva e
così via.
Da queste considerazioni nasce l’idea di introdurre un metodo
nell’organizzazione del lavoro, la proposta più compiuta fu la cosiddetta
organizzazione scientifica del lavoro (Scientific Management), ideata in
America da Frederick W. Taylor.
Taylor partì dall’idea che per acquistare efficienza era necessario
progettare un’organizzazione centralizzata, nella quale fossero
rigidamente divisi i compiti di decisione e pianificazione del lavoro
(spostati alla direzione) da quelli di esecuzione. Il processo complessivo
di lavorazione doveva essere smontato in una serie di operazioni
parcellizzate, ognuna (o una serie limitata) delle quali definisse un posto
di lavoro. Le singole operazioni potevano essere standardizzate,
fissandone tempi e metodi, e tenuto conto dello sforzo necessario,
Taylor propose un incremento del salario fino al 60% circa della paga
giornaliera, per il lavoratore che avesse eseguito fedelmente e nei tempi
unitari previsti i compiti definiti dall’ufficio.
Opportune tecniche di selezione e valutazione avrebbero trovato
«l’uomo giusto al posto giusto», diversamente remunerato a seconda
dell’apporto che dava alla produzione.
Tuttavia tutto ciò non bastò a evitare vivaci reazioni, perché il
nuovo metodo sottraeva ai lavoratori poteri e autonomia. Secondo molti
sociologi industriali e del lavoro la netta separazione tra la fase di
ideazione e la fase di esecuzione, affidata agli operai, segnò la fine di un
9
era nell’organizzazione del lavoro, svuotando il lavoro operaio di quei
contenuti intelligenti che erano alla base del «mestiere», sancendo il
passaggio dall’operaio professionale della manifattura al cosiddetto
operaio di massa. Concentrando le aeree vitali della pianificazione e del
design nelle mani della direzione, il taylorismo ha eliminato
un’importante fonte di potere e di conoscenza-controllo del processo
produttivo dalle mani dei lavoratori, generando una forza lavoro
dequalificata e meno costosa.
L’opera di Taylor costituisce tuttavia la base dalla quale riparte un
altro illustre personaggio dell’epoca: Henry Ford. Il grande successo di
Ford sta proprio nell’essere riuscito dove Taylor ha in qualche modo
fallito, vale a dire nell’adattare al lavoro operaio grandi masse
dequalificate (Accornero, 2002).
La nuova divisione tecnica del lavoro è organizzata attraverso la
catena di montaggio (assembly line): «un tipo di organizzazione del
lavoro per cui le diverse operazioni, ridotte alla medesima durata o ad un
multiplo o sottomultiplo semplice di tale durata, vengono eseguite senza
interruzione tra loro e in un ordine costante nel tempo e nello spazio».
Fig. 1.1 Catena di montaggio della Ford (Touraine, 1955)
10
La genialità di Ford è stata quella di comprendere ed esaltare gli enormi
vantaggi di un sistema quasi chiuso e massimamente stabile, questo ha
consentito l’enorme aumento della produttività anche grazie all’operare
di due meccanismi: la specializzazione dei compiti e la standardizzazione
dei componenti.
La specializzazione dei compiti richiedeva dai lavoratori una forma
di cooperazione passiva intesa come fedele esecuzione di quanto stabilito
dalle norme organizzative2.
La standardizzazione del prodotto, era quello di scomporlo in un
insieme di pezzi perfettamente intercambiabili e dotati di massima
predisposizione all’incastro, la cui differenziazione era riservata alla sola
fase finale di assemblaggio, il processo veniva quindi semplificato fino ad
arrivare a lavorazioni mono-prodotto a ciclo continuo.
La produzione in grandi quantità di prodotti standardizzati permetteva,
inoltre, di ridurre i costi unitari di produzione sfruttando le cosiddette
economie di scala.
Nascono in questo ambito i sindacati industriali, che organizzano sia gli
operai specializzati sia quelli comuni senza l’esclusione di nessuno. Si
estende come principio per la tutela del lavoro la contrattazione
collettiva, con essa gli operai acquisiscono diritti universali di tutela del
lavoro, quali quello del salario minimo, dell’orario standard massimo di
lavoro (8 ore giornaliere).
Intorno agli anni Settanta il modello fordista inizia ad entrare in
crisi per una molteplicità di motivi, primo fra tutti, la crescente pressione
del movimento operaio al fine di ottenere condizioni di lavoro migliori in
2 Fortunato V., Della Rocca G., «Lavoro e organizzazione. Dalla fabbrica alla società
postmoderna», cit., p. 35
11
un contesto che è pur sempre quello della fabbrica taylorista, alienante e
gerarchica. Con l’aumento poi dell’individualismo e del senso di identità
attraverso il consumo, le aziende hanno dovuto venire incontro ai nuovi
bisogni fornendo varietà e diversità in moltissimi tipi di prodotti. E
infine lo sviluppo dei paesi emergenti, che ha permesso alle nuove
industrie di produrre e immettere sul mercato esterno gli stessi prodotti
con un costo del lavoro inferiore, soddisfando, allo stesso tempo, la
nuova domanda di beni dei mercati interni.
1.2. Il post-fordismo: il “sistema produttivo Toyota”
La rigidità della fabbrica taylorista viene progressivamente sostituita dal
«sistema produttivo Toyota» o «sistema produttivo giapponese», punto di
riferimento delle grandi imprese internazionali, soprattutto nel settore
automobilistico. Il padre fondatore Taiichi Ohno, nel 1956, facendo un
viaggio in America per visitare gli stabilimenti di General Motor e Ford,
si rese conto che ciò che lo colpì di più erano i supermercati, nei quali
vedeva già realizzate alcune sue idee sul just in time.
“Combinare automobili e supermercati può sembrare una strana idea.
Tuttavia per molto tempo, dopo avere analizzato l’organizzazione di un supermercato
americano, studiammo le analogie tra quell’organizzazione produttiva e la produzione
di automobili per mezzo del just in time. Un supermercato è un luogo dove il cliente
può prendere ciò di cui ha bisogno nel tempo e nelle quantità desiderati”
… “Dal supermercato abbiamo così mutuato l’idea di concepire il processo che
sta ‘a monte’ nella linea produttiva come una sorta di negozio. Il processo che sta ‘a
valle’ (cliente) procede verso quello iniziale (supermercato) per acquistare i pezzi
12
necessari (merci) nei tempi e nella quantità desiderati. È allora che il processo iniziale
produce immediatamente la quantità appena prelevata (rifornimento degli scaffali)”
Fig. 1.2 I supermarket americani realizzano in parte il just in time con i cartellini (kanban)
Fonte: L. Pero, Taylor e Ford, World Class Manufacturing, 2008
Agli inizi degli anni Novanta è sembrato quindi che la produzione snella
(lean production), potesse dare un volto e una connotazione precisa al
nuovo modo di organizzare il lavoro e la produzione. In tale prospettiva,
il capitale umano, assume nuovi connotati che lo rendono la più
importante risorsa strategica all’interno della fabbrica.
Mentre la produzione di massa, standardizzata, era basata sull’idea
che si sarebbero trovati clienti per tutto ciò che si produceva, nella nuova
situazione si tratta invece di produrre soltanto quello che è già richiesto
dal cliente. Il nuovo modello organizzativo viene definito, da gran parte
della letteratura, come market driven ovvero guidati dal mercato e
dall’andamento della domanda in contrapposizione a una vecchia
13
concezione di produzione, quella dell’industria di massa, per cui era la
fabbrica e la sua produzione che guidavano il mercato3.
Nel fordismo le decisioni su cosa e quanto produrre erano fissate dalla
direzione «a monte», i componenti, i prodotti in fabbrica o da fornitori
esterni, affluivano nei magazzini e da qui passano all’assemblaggio lungo
la catena. Se le auto non venivano vendute subito, venivano parcheggiate
nei piazzali in attesa di essere vendute, mentre i componenti prodotti in
eccesso si accumulavano. Rovesciando lo schema organizzativo, con la
lean production, è l’ordinazione di un certo numero di auto pervenuta
agli uffici commerciali che mette in moto lungo la linea produttiva, la
richiesta dei diversi componenti, i quali vengono prodotti solo nella
quantità necessaria. In fabbrica non circola più nessun componente che
già non si sappia a che auto è destinato, è la cosiddetta produzione «just
in time», un principio cardine che regola gli approvvigionamenti di
materiali e componenti, in base al quale ogni attività lavorativa deve
essere alimentata con i componenti richiesti, nel tempo richiesto e nella
quantità esattamente richiesta per l’assemblaggio del prodotto finale. In
questo modo, ciascun componente arriva alle varie postazioni sulla linea
di montaggio nei tempi e nelle quantità designate soltanto quando vi è
una richiesta da parte del cliente, prevenendo la necessità di mantenere
scorte in magazzini o polmoni intermedi.
3 Fortunato V., Della Rocca G., «Lavoro e organizzazione. Dalla fabbrica alla società
postmoderna», cit., p. 56
14
Fig. 1.3 Eliminare magazzini e polmoni intermedi
Fonte: L. Pero, Taylor e Ford, World Class Manufacturing, 2008
Il just in time punta, infatti a ridurre i costi elevati di stoccaggio, tipici
della produzione di massa in grandi serie, attraverso la valorizzazione
solo di quelle operazioni in grado di generare effettivamente valore
aggiunto al prodotto ed eliminando ogni tipo di spreco (in giapponese,
“muda”).
Fig. 1.4 Attività “a valore aggiunto” e “non valore aggiunto”
Fonte: Metodi e strumenti per il Fiat Auto Production System, Fiat Group Automobiles,
2007
15
È spreco tutto ciò che consuma risorse, in termini di costo e tempo,
senza però creare valore per il cliente. Questi vengono classificati in sette
tipologie, tra cui la più grave è la sovrapproduzione, in quanto è
all’origine degli altri tipi di sprechi, in particolare delle scorte, dei difetti e
dei trasporti.
Fig. 1.5 I sette tipi di spreco
Fonte: Metodi e strumenti per il Fiat Auto Production System, Fiat Group Automobiles, 2007
16
Se il just in time rappresenta il pilastro dell’organizzazione del flusso e
del processo di produzione, lo strumento usato nella pratica per rendere
effettivo questo principio è rappresentato dal sistema di comunicazione
interna, “kanban”, che consente di stabilire i volumi produttivi
giornalieri.. È una forma di comunicazione, costituto da un punto di
vista materiale da un foglio di carta contenuto in un involucro di vinile e
recante una serie di informazioni, ma anche da segnali luminosi e sonori
che servono a controllare il rispetto dei tempi di lavoro e di consegna
previsti. In sostanza, il kanban opera come ordine di lavoro, e ciò si
traduce nel fatto che il segmento produttivo precedente deve fabbricare i
pezzi nella quantità indicata dal cartellino, ossia deve produrre
esattamente la quantità di merci prelevata dal processo produttivo
successivo, nel tempo indicato e rispettando i parametri qualitativi
stabiliti. Altra regola fondamentale è, infatti, quella che prescrive di non
consegnare nulla di difettoso alla stazione di lavoro successiva.
Fig. 1.6 Kanban - schema di funzionamento
Fonte: Confindustria Vicenza, Produzione snella. La riduzione degli sprechi nel reparto
produttivo, 2012
17
L’uso diffuso del kanban consente quindi di rovesciare l’intero sistema di
programmazione della produzione, si passa infatti da una logica push a
una logica pull.
La logica pull, che in inglese vuol dire “tirare” significa che i materiali
non devono essere spinti verso la produzione, ma è necessario adottare
un sistema che tiri i materiali verso la fabbrica. I materiali escono dai
magazzini e la produzione inizia in un determinato reparto solo quando è
richiesto da una operazione a valle o dalla domanda, cioè quando vi è
una richiesta di mercato. I risultati di tale approccio sono livelli inferiori
di scorte, migliore qualità del prodotto, flusso di produzione più
armonico, maggior coinvolgimento dei lavoratori.
Fig. 1.7 “Logica Pull”
Fonte: L. Pero, Taylor e Ford, World Class Manufacturing, 2008
Rispetto alla logica pull, che mantiene code di lavorazioni davanti
ciascuna macchina e cumuli di parti componenti in attesa di lavorazione.
I materiali dovrebbero essere spinti (to push,“spingere”) fuori dai
magazzini o dai reparti produttivi in base a prestabiliti programmi.
Magazzini polmone, tempi di anticipo di sicurezza e altre tattiche sono
18
spesso usate per assicurarsi che i materiali siano disponibili non appena
richiesti.
Fig. 1.8 “ Logica Push”
Fonte: L. Pero, Taylor e Ford, World Class Manufacturing, 2008
Dal momento che il kanban è la tecnica che consente di realizzare il just
in time, affinchè il sistema possa operare correttamente e in modo
efficiente, i processi produttivi devono essere articolati in modo da
ottenere il miglior livello possibile di continuità del flusso. Per realizzare
questa finalità e consentire la sequenza della produzione, la produzione
snella adotta la disposizione degli impianti ad U (in contrapposizione alle
linee di lavorazione meccanica e di montaggio allungate su di una linea
dritta), la cui caratteristica principale è data dal fatto che le entrate e le
uscite devono trovarsi l’una di fronte all’altra.
A ciascun lavoratore, addetto a più macchine, vengono assegnate un
numero variabile di operazioni. Con la disposizione ad U i lavoratori
possono parlarsi, vedere il prodotto in tutte le fasi e possono scambiarsi
tra di loro. Questa disposizione ha permesso una riduzione dei tempi
d’attesa, di stoccaggio e di trasferimento, e il lavoratore opera nella
19
condizione di dovere necessariamente massimizzare il suo tempo
operativo.
Le catene di montaggio moderne non sono né totalmente manuali né
totalmente automatizzate, ma degli “ibridi”, in cui l’uomo serve la
macchina (es. regolarla e controllarla), la macchina serve l’uomo (es.
spostare pesi), l’uomo fa quel che la macchina non sa fare (es. montaggi
interni), la macchina fa, quel che l’uomo non è capace di fare (es.
controllo elettronici).
La vecchia catena
manuale
La nuova catena
come ibrido-uomo
macchina
20
Il cambiamento si accompagna a molte altre innovazioni organizzative,
come il principio di «autoattivazione» (Jidoka), un particolare uso delle
macchine e del rapporto uomo-macchina diretto a permettere
all’apparato produttivo di retroagire con l’ambiente, intervenendo
direttamente nel caso si producano difetti del prodotto e auto-
correggendo l’errore in tempo reale, nell’esatto momento e nell’esatto
segmento del ciclo lavorativo in cui il difetto si è generato.4 In caso di
errore, la macchina che sta operando si ferma automaticamente, e allo
stesso modo, in caso di anomalie riscontrate in una fase di lavorazione
manuale, il lavoratore può interrompere la linea, intervenendo
tempestivamente, senza che gli errori si ripetano e si accumulino,
effettuando anche un controllo di qualità che prima veniva svolto solo
alla fine di una linea produttiva.
L’autoattivazione costituisce quindi uno dei principali fattori di flessibilità
del sistema, in grado di garantire il corretto e ininterrotto dispiegarsi di
un processo produttivo che, a differenza di quello fordista, si presenta
privo di “reti di salvataggio” (Bonazzi, 1993). L’autoattivazione si
propone i ovviare due punti di debolezza della produzione di massa, da
una parte la mancata possibilità di arrestare la catena di montaggio, anche
in presenza di difetti gravi, rimandando quindi la possibilità di interventi
correttivi alle fasi successive a valle del processo produttivo, dall’altra la
tendenza dei macchinari, dedicati alla produzione in grandi quantità, a
riprodurre e moltiplicare all’infinito i difetti perché incapaci di bloccarli
alla fonte. Per questo, la fabbrica lean si avvale di macchine autoattivate,
dotate cioè di dispositivi di arresto automatico e di meccanismi di
4 Fortunato V., «Ripensare la Fiat di Melfi. Condizioni di lavoro e relazioni industriali nell’era
del World Class Manufacturing», Roma, Carocci editore, 2008, p. 34
21
prevenzione delle difettosità, chiamati poka yoke che, secondo Ohno
conferirebbero alla macchina un tocco di sensibilità umana.
All’interno della fabbrica snella, in cui tutto ciò che è superfluo deve
essere portato alla luce e quindi eliminato, la trasparenza e la
supervisione del processo produttivo è garantita da una serie di
procedure che rientrano nella cosiddetta «direzione con gli occhi» (Ohno
1978), si tratta di rendere visibile ogni evento che può verificarsi nello
svolgimento delle attività lavorative all’interno della fabbrica.
L’andon è un indicatore luminoso il cui funzionamento è simile a quello
del semaforo, la luce verde indica che le attività procedono normalmente,
la luce arancione indica che un lavoratore deve compiere un’operazione
di regolazione sulla linea e necessita di aiuto, la luce rossa indica che la
linea è ferma in seguito a dei problemi. L’andon fornisce, quindi, tutta
una serie di informazioni che sono immediatamente disponibili e visibili
dai lavoratori e dalla direzione aziendale e che permettono al lavoratore e
alla squadra di intervenire immediatamente senza che l’anomalia si
ripercuota sull’intero processo.
Fig. 1.9 “L’andon”
Fonte: Università degli studi di Trieste, Produzione snella e Just in time, gestione della
produzione, 2009
22
La fabbrica lean opera inoltre secondo uno spirito improntato al
«miglioramento continuo» (Kaizen) del prodotto e dei processi, sia nel
breve che nel medio e lungo periodo. Il controllo della qualità sulla linea
è un elemento, ma il kaizen costituisce un ulteriore fase che non guarda
solo alla qualità, guarda anche all’innovazione e razionalizzazione dei
processi e dei prodotti, la nuova modalità di funzionamento dell’intera
organizzazione è basata sul trasferimento e la devoluzione delle
responsabilità della gestione a team permanenti interfunzionali o ai
circoli di qualità che operano secondo la logica del problem-solving. Al
lavoratore, che opera all’interno di un team, non viene più chiesto
soltanto di eseguire ripetitivamente una sola mansione, ma anche di
eseguire il controllo della qualità di ciò che produce, gli interventi di
manutenzione preventiva, secondo la logica Total Productive
Maintenance (Tpm).
Entrambi i principi si propongono di superare una serie di limiti
strutturali tipici della produzione di massa, ossia la presenza di ingenti
scorte in magazzino, e quindi, elevati costi di stoccaggio, la scarsa
responsabilizzazione degli operai e la proliferazione di errori di
lavorazione a causa di un’organizzazione della produzione incapace di
intervenire tempestivamente, e trovare, perciò, una soluzione ai difetti di
produzione bloccandoli alla fonte. Entrambi tentano di farlo attraverso
un sostanziale riavvicinamento della funzione umana (del ruolo del
lavoro vivo) al processo lavorativo.
Il sistema Toyota quindi “meno sprecone” e più capace di adattarsi
al mercato, richiede un attento gioco di squadra da parte di tutti, richiede
soprattutto un ambiente sociale assolutamente collaborativo.
23
Fig. 1.10 “La casa lean”
Fonte: Immagini internet
1.3. Il processo produttivo nel sistema Toyota
Il perseguimento del tendenziale azzeramento delle scorte, in maniera
tale da ridurre i costi di produzione e, quindi, favorire incrementi di
produttività evitando di fare ricorso alle economie di scala tipiche della
produzione fordista, si esprime strutturalmente nella linearizzazione del
layout di fabbrica.5 Un sistema di fabbricazione a “flusso monopezzo”
5 Caputo P., «Lavorare in team alla Fiat. Da Melfi a Cordoba», ImmaginaNapoli, Pozzuoli,
2004, p. 17
24
(Shingo, 1985), orientato e guidato dal principio del just in time.
Quest’ultimo implica la tendenziale realizzazione degli obiettivi zero
scorte e zero difetti, tanto dei componenti provenienti dall’esterno (dai
fornitori), quanto di quelli in processo di lavorazione lungo la linea, così
da mantenere “teso” il flusso produttivo e ridurre i costi determinati dal
capitale circolante.
Secondo tale principio è necessario che, sempre e in tutti i punti della
linea di produzione, le parti vengano prodotte nella quantità di fatto
richiesta dalla successiva fase di lavorazione.
Come si può facilmente constatare, il sistema di produzione Toyota si
muove all’interno di una logica operativa diametralmente opposta
rispetto a quella del sistema fordista, in cui la lavorazione sequenziale di
ogni singolo prodotto era limitata soltanto alle operazioni di
assemblaggio finale, quest’ultima si basava su una produzione a lotti, e
pertanto, sui vantaggi derivanti dalle economie di scala, che favoriva però
riserve di materiali, che si traducevano necessariamente in incrementi nei
costi di produzione.
Il sistema di produzione Toyota invece, punta sullo snellimento
dell’intero processo produttivo, sia per quanto riguarda la struttura
organizzativa interna all’azienda madre sia per quanto concerne i rapporti
con le imprese fornitrici, linearizzando il ciclo di fabbricazione e
operando attraverso l’integrazione sinergica con i fornitori stessi,
generando così un disegno organizzativo più ampio di “fabbrica
integrata”.
Il sistema produttivo così organizzato, tuttavia, presenta un’estrema
fragilità strutturale. Il nuovo apparato produttivo linearizzato, pur
prevedendo e consentendo potenzialmente la massima flessibilità dei
risultati e la minimizzazione del tempo di attraversamento del prodotto
25
in formazione (cioè la realizzazione di elevati tassi di produttività),
implica nel contempo un’elevata vulnerabilità, ogni problema imprevisto,
disfunzione, che si verifica in un punto qualsiasi del flusso produttivo
tende a diffondersi sull’intera struttura.
L’ambivalenza intrinseca del processo produttivo linearizzato è stata
raffigurata da Bonazzi (1993) con l’efficace metafora del “tubo di
cristallo”. In effetti, descrivere la nuova organizzazione della produzione
attraverso l’immagine di una forma lineare semplice quale quella del
tubo, significa richiamare alla mente concetti di essenzialità, agilità e
rapidità di attraversamento. Paradossalmente, però, la struttura del tubo
evoca contemporaneamente idee di rigidità e di precisione, infatti, per
perseguire la massima flessibilità dei risultati è indispensabile rispettare
alcune rigidità di processo. Al suo ingresso il tubo è potenzialmente
aperto alla domanda del mercato, inoltre l’ordine in cui disporre il mix
produttivo può essere il più vario possibile, ma poi le pareti del tubo si
presentano rigide. In altri termini, una volta deciso il mix, la sua
sequenzialità deve essere rispettata lungo tutta la linea fino all’uscita dal
tubo. Inoltre, tempi morti, ricircoli di materiale e inversioni d’ordine
sono problemi sistemici da prevenire e, nel caso in cui insorgano,
rimuoverli il più presto possibile.
Le condizioni di fragilità della produzione, derivanti dalla concatenazione
lineare “a flusso teso”, sono state affrontate attraverso la
cellularizzazione del processo produttivo, la flessibilizzazione del lavoro
e puntando su pratiche manageriali di gestione delle risorse umane dirette
a indurre la responsabilizzazione e l’attivazione dei lavoratori nella
realizzazione delle performances assegnate.
A fronte della rigidità del layout linearizzato è stata realizzata la
scomposizione “cellulare” del processo produttivo in “team o lavoro di
26
squadra” , che costituisce un’unità di lavoro deputata a portare a termine
in maniera relativamente autonoma, grazie al coordinamento e alla
direzione del proprio team leader, la produzione programmata di
specifici segmenti del processo di fabbricazione.
Fig. 1.11 Un esempio del modello snello di micro-organizzazione del team operaio. Organizzazione
senza team operaio, organizzazione basata su team operaio
Fonte: L. Pero, Taylor e Ford, World Class Manufacturing, 2008
L’organizzazione è strutturata in maniera tale da prevedere la presenza
diretta, sulla linea, anche di alcune figure specialistiche (tecnologi,
manutentori, ecc.) che nella fabbrica fordista erano relegate negli uffici.
Fig. 1.12 Le diverse figure specialistiche
Fonte: L. Pero, Taylor e Ford, Wor Class Manufacturing, 2008
27
Dal canto loro, gli addetti di linea, oltre a svolgere le tradizionali attività
manuali di fabbricazione, devono effettuare un’ulteriore serie di
operazioni tradizionalmente appartenenti a funzioni di staff, come il
controllo di qualità, la manutenzione ordinaria degli strumenti di lavoro,
la prevenzione di guasti tecnici, il problem-solving.
Gli operai presentano caratteristiche di polivalenza esecutiva in quanto,
per il principio della rotazione, devono essere in grado di operare su
differenti postazioni di lavoro.
Fig. 1.13 Gli operai possono ruotare sulle postazioni
Fonte: L. Pero, Taylor e Ford, World Class Manufacturing, 2008
Il prerequisito strutturale di base affinché i lavoratori possano operare in
maniera sinergica risiede nell’evitare di creare “isole isolate”, cioè
postazioni di lavoro reciprocamente separate. “Se i lavoratori sono
troppo lontani l’uno dall’altro, non possono aiutarsi reciprocamente, si
producono disfunzioni e la produttività ne risente negativamente. Ma se
le funzioni lavorative sono combinate attraverso linee multifunzionali e
se la distribuzione del lavoro e delle postazioni sono studiate
correttamente, allora l’organizzazione del lavoro può raggiungere la
28
massima efficienza, i lavoratori possono cooperare tra loro e il loro
numero può essere ridotto”(Ohno, 1993).
Fig. 1.14 Le “Isole isolate”
Fonte: L. Pero, Taylor e Ford, World Class Manufacturing, 2008
1.4. La struttura organizzativa della Fabbrica Integrata
L’insieme di questi orientamenti, sul flusso di produzione e sulla
partecipazione attiva del lavoro, ha prodotto anche un disegno più ampio
di «fabbrica integrata». Si può dire che nella fabbrica integrata
l’innovazione non riguarda solo l’area della produzione dei beni, ma tutte
29
le aree funzionai e il rapporto di fornitura con le altre imprese, si ha il
passaggio “dalla centralità delle funzioni a quella dei processi”.
L’importanza assunta dall’integrazione tra funzioni e unità produttive è
dovuta al nuovo principio per cui la frontiera dell’efficienza operativa
viene raggiunta anche con una riduzione significativa dei tempi di
progettazione e di ingegnerizzazione del nuovo prodotto (time to
market) e di attraversamento dei prodotti (lead time).6 La
differenziazione dei gusti e la conseguente necessità di fornire con
frequenza ai consumatori sempre nuovi modelli fa sì che la riduzione dei
tempi dalla progettazione al lancio sul mercato del nuovo prodotto
risutino fondamentali. Lo stesso fenomeno implica la capacità di dare in
tempi brevi il modello richiesto dal cliente. Di qui l’importanza dei tempi
di attraversamento, fuori e dentro a fabbrica, dei componenti, di sub
prodotti e del prodotto finale senza incorrere in eccessive attese dei
materiali o in fermate per rottura di impianti. Di conseguenza sia il time
to market che i lead time con il flusso teso di produzione e la riduzione
delle scorte richiedono in primo luogo una maggiore integrazione ed una
più stretta collaborazione tra azienda e fornitori. In pratica, nella fabbrica
integrata il management delega ad aziende fornitrici, definite capo filiera,
la produzione, la gestione, e anche la co-progettazione di componenti
complessi, dando loro anche il potere di controllo sulle altre aziende
fornitrici ai livelli più bassi. Secondo questa prassi, definita dalla
letteratura «outsourcing» o «esternalizzazione», i fornitori operano
secondo una logica di partnership con l’azienda e il loro coinvolgimento
incide ormai per il 70% circa sul prodotto finale.
6 Fortunato V., Della Rocca G., «Lavoro e organizzazione. Dalla fabbrica alla società
postmoderna», cit., p. 62
30
Cambia anche la distinzione delle funzioni tra line e staff, ovvero il
nucleo operativo e la tecnostruttura. Nella fabbrica snella integrazione tra
l’integrazione tra line e staff si ottiene tramite lo slittamento verso il
basso degli staff, il baricentro del nuovo modello organizzativo si sposta
dagli uffici alle officine. Con questo passaggio si realizza un
appiattimento della struttura gerarchica dell’organizzazione aziendale.
I tecnici e gli ingegneri vanno in officina, affiancano gli operai di
produzione quando intervengono anomalie o per migliorare la qualità o
ancora per definire i tempi, i programmi, le priorità di consegna mentre il
prodotto è in produzione. Così come i manutentori si integrano nelle
squadre e per buona parte non risiedono più in reparti separati.
Mentre i precedenti comportamenti legati al modello tayloristico
gerarchico-funzionale prevedevano di portare i problemi operativi su e
giù, lungo la gerarchia dell’organizzazione, strutturata per funzioni. La
nuova logica è quasi opposta: prevede che i problemi siano risolti là dove
si originano e da chi li ha visti crescere e ha la competenza professionale
per risolverli.
Il cuore della Fabbrica Integrata è rappresentato dalla Ute (Unità
tecnologica Elementare) che rimpiazza, nel nuovo modello, i gruppi di
lavoro tradizionali. Queste presentano, così come le Unità Operative,
una struttura cellulare in quanto integrano al loro interno una pluralità di
funzioni interconnesse (fabbricazione, presidio degli impianti, controllo
della qualità, gestione dei materiali e dei componenti in entrata)
necessarie a gestire un “segmento compiuto” del processo produttivo.
All’interno dello stabilimento ci sono 35 Ute suddivise all’interno di
quattro Unità Operative (il risultato dell’evoluzione delle vecchie
Officine) che rappresentano delle strutture indipendenti ed omogenee
dal punto di vista sia tecnico che logistico. La finalità dell’Unità
31
Operativa consiste nel garantire la realizzazione del programma di
produzione al minimo costo di trasformazione e ai livelli di qualità e
servizio previsti, di garantire la manutenzione dei mezzi di lavoro e lo
sviluppo di adeguati obiettivi di prevenzione/ miglioramento continuo
del processo / prodotto di competenza.
In base al percorso seguito dalla vettura, dal suo ingresso in fabbrica fino
alla verifica finale nel piazzale, le Unità Operative si dividono in:
Stampaggio, Lastratura, Verniciatura e Montaggio. In particolare
Stampaggio, Lastratura e Verniciatura, sono aree ad alta automazione,
cioè aree in cui prevale la componente tecnologica rispetto al fattore
umano, in contrapposizione al Montaggio che è quasi esclusivamente
caratterizzato dal tocco umano.
L’Unità Operativa include al suo interno due distinte funzioni: la
“Produzione” e “l’Ingegneria di Produzione”.
Dalla prima dipendono direttamente sia la Programmazione e la
Gestione Materiali, con compiti di programmazione della produzione e
controllo del rifornimento del materiale diretto, sia la Gestione
Operativa, che si occupa del presidio delle attività finalizzate alla
realizzazione dei programmi produttivi assegnati e del bilanciamento
delle risorse umane e dei servizi di supporto alla produzione.
L’Ingegneria di Produzione invece ha il compito di garantire la
funzionalità tecnico produttiva globale del sistema, si occupa
dell’avviamento dei nuovi prodotti e delle relative variazioni, del
controllo e del miglioramento dei tempi, dei cicli e dei metodi di
trasformazione e dell’assistenza specialistica alle strutture produttive. In
questo lavoro si avvale dei servizi di Manutenzione, Servizi Tecnici (che
comprendono i Tecnologi di linea e i Tecnologi specialistici), Tecnologia
di prodotto / processo (grosso modo corrispondente al vecchio Ufficio
32
Metodi) e Utilizzo Fattori (a grandi linee corrispondente al tradizionale
ufficio Analisi Lavoro).
L’ effetto più vistoso della nuova struttura organizzativa è la riduzione
dei livelli gerarchici che, dai quattordici degli anni Settanta (sette
responsabili più sette vice), passano a cinque. In particolare vengono
eliminati i ruoli di vice-capo Officina e di capo Reparto. Scendendo
lungo l’organigramma dello stabilimento, al cui vertice è posto il
Direttore, troviamo il Capo Unità (uno per ogni Unità Operativa), quindi
il responsabile della Produzione (che si occupa anche della gestione
tecnica dei materiali, oltre che del processo) e, al livello successivo, il
Gestore Operativo. Quest’ultimo rappresenta il livello gerarchico
immediatamente superiore al capo Ute.
Il team della Ute è composto mediamente da un minimo di 12 ad un
massimo di circa 100 lavoratori, senza una netta formalizzazione dei ruoli
tra i vari componenti. La logica prevalente è quella del problem-solving,
dell’auto-attivazione dei lavoratori e dell’apprendimento continuo nello
svolgimento del processo produttivo. Il lavoratore viene addestrato per
compiere diverse attività, per conoscere tutta la sua Ute, e avere un
quadro generale. Si tratta sempre di monitorare dei particolari,
l’operazione di per sé non cambia, però cambiano ogni giorno i
particolari ed il modo di lavorare. Se questo è positivo, perché non
genera stress da ripetizione, dall’altro lato genera una forma di stress che
si potrebbe definire da apprendimento o cambiamento. Le figure più
importanti della Ute sono:
- Il responsabile di Ute (o capo Ute) è il leader del team, deve gestire le
risorse umane ed assicurare il raggiungimento degli obiettivi di
produzione, qualità e costi della Ute di sua competenza. Rientrano nelle
mansioni compiti quali la gestione delle rotazioni sulle postazioni, la
33
valutazione delle skills individuali, delle performance dei lavoratori, la
concessione dei permessi, ecc., documentate attraverso la Gestione a
Vista. È importante sottolineare come gran parte del lavoro del
responsabile di Ute avvenga secondo la logica della prevenzione, cioè
operare in modo tale da evitare che il problema si possa verificare. Per
ciascuna Ute ci sono tre responsabili, uno su ogni turno di lavoro.
- Il Conduttore di Processo Integrato (Cpi) è uno dei principali
collaboratori del responsabile Ute. Infatti l’eliminazione del ruolo di capo
reparto ha determinato un ampliamento significativo delle funzioni del
responsabile Ute. Pertanto, sebbene il Cpi non abbia, almeno in teoria,
alcun autorità gerarchica sui lavoratori, egli dovrebbe assorbire parte
della complessità organizzativa che emerge dalla linea di produzione e
ridurre i carichi di lavoro del responsabile di Ute in termini di
coordinamento e attività. I suoi compiti sono l’addestramento dei
lavoratori alle diverse mansioni da svolgere all’interno della Ute, la
prevenzione e il controllo sull’andamento della qualità. Nelle aree ad alta
automazione alla figura del Cpi si sovrappone quella del Conduttore di
Impianto Automizzato (Cia) con compiti di controllo degli impianti e di
verifica della conformità del prodotto.7
- L’addetto di linea è l’operaio, una figura che nella Fabbrica Integrata si
arricchisce di nuovi compiti e nuovi significati. Infatti, il suo ruolo non è
più semplicemente quello di mero esecutore di compiti definiti da altri,
bensì è promotore attivo del miglioramento e della prevenzione.
- Il tecnologo di Ute fa capo all’Ingegneria di Produzione, ma risponde
funzionalmente al responsabile di Ute. Il suo compito è quello di
7 Negrelli S., «Prato verde, prato rosso. Produzione snella e partecipazione dei lavoratori nella Fiat
del duemila», Rubbettino Editore, Catanzaro, 2000, p. 76
34
assicurare il mantenimento dell’efficienza tecnica ed economica degli
impianti.
Tra le altre figure organizzative che, pur non facendo direttamente parte
della Produzione, intervengono all’interno della Ute, ci sono:
- Il manutentore, che opera alle dipendenze dell’Ingegneria di
produzione, ha il compito di prevenire l’insorgere di anomalie nel
funzionamento degli impianti e di assicurare il ripristino nel minor tempo
e nel miglior modo possibile. Il manutentore non è posizionato
direttamente sulla linea, ma in apposite aree dedicate al fine di consentire
sempre rapidità di intervento. L’attività di manutenzione avviene, inoltre,
in modo programmato nel tempo che intercorre tra un turno e l’altro.
- il rifornitore di Ute si occupa di tutto ciò che riguarda
l’approvvigionamento dei materiali nel tipo e nelle quantità richieste per
la produzione, secondo la logica del just in time. Il suo ruolo è di
fondamentale importanza per assicurare il corretto e regolare
funzionamento delle attività della Ute.
Un punto di raccordo tra Ute e Unità Operativa è costituito dal team
tecnologico, che rappresenta fondamentalmente un gruppo di problem-
solving, si riunisce nel momento in cui insorgono specifiche emergenze o
problemi tecnici e organizzativi nelle Ute o, più in generale, al fine di
ricercare soluzioni ed innovazioni per miglioramenti complessivi dei
processi.
Tutti gli aspetti poi che riguardano da vicino le attività ed il personale
della Ute (rotazioni sulle postazioni, skills individuali, assenteismo, dati
sulla produzione, ecc.) sono documentati e gestiti attraverso il sistema
della Gestione a Vista (GAV), una tecnica che consiste nel raccogliere e
nel rendere disponibili a tutti i componenti del team (sotto forma di
grafici e tabelle esposte nella Ute) le informazioni relative ai parametri
35
fondamentali del processo produttivo in modo da far fronte
tempevistamente, ed in modo flessibile, a qualsiasi evenienza.
Unitamente alla GAV, le Proposte di Miglioramento Continuo (PMQ)
rappresentano lo strumento principale per valorizzare la risorsa umana
creando motivazione e coinvolgimento. In particolare, il sistema delle
PMQ si basa sul contributo attivo dei lavoratori che, a fronte di proposte
di miglioramento della qualità del prodotto, di facilitazione dell’attività
lavorativa, di riduzione dei costi relativi a materiali e/o energia, di
migliore efficienza degli impianti, ricevono un premio in denaro. Le
proposte devono essere presentate al responsabile di Ute che, insieme al
team di Ute, verifica l’effettiva realizzabilità della proposta, sulla base di
criteri economici, tecnico-produttivi, organizzativi e qualitativi.
Nell’ottica del coinvolgimento e della partecipazione dei lavoratori
rientrano anche le cosiddette riunioni del team di Ute, alle quali
partecipano tutti i componenti del team, allo scopo, di affrontare e
discutere i vari problemi che, nel corso di un’attività così complessa e
difficile, si possono presentare e per discutere degli obiettivi (qualità,
costi, produzione) che si devono raggiungere.
L’organizzazione del management all’interno della fabbrica vede al
vertice il direttore dello stabilimento, dal quale dipendono gli Enti di
Staff (Personale e Organizzazione, Amministrazione) e, sullo stesso
livello, i responsabili delle quattro Unità Operative che, insieme,
compongono il team direzionale.
Il responsabile del Personale è impegnato su molti fronti e deve gestire
quotidianamente problemi di diversa natura a livello dell’intero
stabilimento, secondo una logica che non vede più la funzione del
personale come la risultante di funzioni specialistiche tra loro
indipendenti, bensì come attività connesse e coerenti con
36
l’organizzazione e le strategie generali dell’impresa. Nello svolgimento
della sua attività, il responsabile del Personale, si avvale di alcuni
collaboratori, innanzitutto il responsabile delle Relazioni Sindacali ed il
responsabile del settore Sviluppo e Organizzazione, con competenze
anche in materia di formazione. Sono inoltre alle sue dipendenze il
responsabile per la sicurezza dello stabilimento, il responsabile per
l’amministrazione del personale e il responsabile della sala medica.
All’interno del quattro Unità Operative, il Personale è rappresentato dalla
figura del Repo, cioè del Responsabile del Personale di Officina. I Repo
dipendono funzionalmente dall’uomo delle Relazioni Sindacali, ma
gerarchicamente dal responsabile del Personale. Il Repo rappresenta il
capo del personale all’interno della sua Unità e, in quanto tale, deve
affrontare tutti i problemi che derivano dalla gestione della risorsa
umana. Egli è inoltre, il referente naturale della Rsu in caso di problemi
con i lavoratori.
37
Fig. 1.15 Organizzazione della “Fabbrica Integrata”
Team leader
Team operaio
Fonte: Propria elaborazione
Direzione
Amm. e
controllo
Personale e
Organiz.
Qualità
Sistemi
Utilizzo fattori
Acquisti
Servizi generali
Unità operativa
Ingegneria di
produzione
Produzione
Definizione
Prodotto procedure
Manutenzione
Tecnologia specialistica
Tecnologia di
linea
Gestione operativa
Planning/ gestione materiali
Responsabile UTE
38
1.5. Le Risorse umane e le relazioni industriali nella lean
production
Sembra ormai largamente diffusa la convinzione che i nuovi sistemi di
“produzione snella”, che si vanno diffondendo in modo sempre più
esteso anche nelle imprese occidentali dopo aver determinato il successo
del capitalismo giapponese, abbiamo effetti sostanzialmente positivi sul
lavoro e sui lavoratori, sollecitando in quest’ultimi un coinvolgimento
quasi naturale e un senso di maggior lealtà verso le direzioni aziendali.
Il legame stretto tra lean production e partecipazione attiva dei lavoratori
costituisce del resto il fondamento dello “spirito Toyota”.
La convinzione relativa al necessario coinvolgimento del lavoratore nella
lean production è stata rafforzata soprattutto dai risultati di quella che
può essere considerata l’analisi comparata più completa sullo sviluppo
della produzione snella, sintetizzata nel libro di Womack, Jones e Roos,
“The Machine that Changed the World”(1990).
Tale analisi costituisce un contributo fondamentale alla descrizione
dell’evoluzione dei sistemi produttivi e dell’organizzazione del lavoro nel
settore dell’automobile, nelle tre fasi della produzione artigianale, di
massa e snella. La prima, fa ricorso a lavoratori specializzati e a
tecnologie generiche e flessibili, realizza produzioni su scala ridotta,
secondo i desideri del consumatore, si caratterizza per strutture
altamente decentrate e mercati concorrenziali. La seconda tende invece a
sviluppare un’organizzazione del lavoro parcellizzata e utilizza addetti
non qualificati o semi-qualificati, è basata su impianti costosi, dedicati e
progettati per produrre quantità elevate, è realizzata in grandi stabilimenti
che si caratterizzano per la loro struttura verticale, concentrata, e per le
forti economie di scala, si afferma in mercati oligopolistici.
39
La produzione snella, introdotta dai produttori auto giapponesi, è in
grado di combinare i vantaggi di entrambe, poiché riduce i costi della
prima e le rigidità della seconda “utilizzando meno di tutto”, meno
risorse, meno ore di progettazione, minor spazio produttivo e minori
investimenti in impianti. Ricorre a lavoratori qualificati e motivati grazie
ad una gestione strategica delle risorse umane e al concetto di azienda-
comunità (Dore, 1987), realizza produzione diversificate e flessibili, che
si adattano alle richieste della nuova domanda e crescita lenta e
personalizzata, grazie ai metodi del just in time e della qualità totale.
Sulla base di tale considerazioni, viene avanzata l’ipotesi centrale nel libro
di Womack e colleghi che non esistano alternative alla produzione snella
per i produttori americani ed europei. È la conferma empirica di uno
scenario mondiale futuro orientato esclusivamente alla lean production.
Va ribadito che lo studio di Womack e colleghi costituisce ormai il testo
fondamentale da cui partire per un’analisi dell’evoluzione e degli scenari
delle strategie e strutture aziendali, oltre che dell’organizzazione del
lavoro e della gestione delle risorse umane nel settore mondiale
dell’automobile. Anche se questo studio tende a ad essere accompagnato
da critiche di determinismo o di edizione aggiornata del taylorismo che
sono state da più parti avanzate (Kochan et al., 1997). In particolare i
maggiori limiti che emergono dallo loro ricostruzione degli scenari futuri
dell’industria dell’automobile derivano dalla adesione forse troppo
ingenua e la non considerazione del peso delle relazioni industriali e dei
rapporti di lavoro collettivi.
40
Fig. 1.16 “La macchina che ha cambiato il mondo”
Fonte: S. Negrelli, Prato verde, prato rosso. “Produzione snella” e partecipazione dei lavoratori
nella Fiat del duemila, 2000
Al superamento di entrambi questi limiti tendono i principali risultati di
una seconda importante fase di ricerca comparata dell’International
Motor Vehicle Program (IMVP) del MIT lanciata da Kochan e altri
(1997), dopo quella di Womack e colleghi.
In questa nuova indagine sugli effetti della lean production è stato dato
maggior spazio al ruolo del contesto sociale e istituzionale e alle
interazioni tra questo e le strategie aziendali, si sono osservate meglio le
modalità di sviluppo dei sistemi di lean production che tendono ad
affermarsi nei diversi paesi o modelli di capitalismo.
Globalizzazione dei mercati
Tecnologie automatizzate e
flessibili
Sistemi innovativi di gestione delle risorse umane
Lean Production
41
Fig. 1.17 After Lean Production
Fonte: S. Negrelli, Prato verde, prato rosso. “Produzione snella” e partecipazione dei lavoratori
nella Fiat del duemila, 2000
L’oggetto di analisi sono diventate esplicitamente le relazioni industriali e
la gestione delle risorse umane.
Le ipotesi principali di scenario che emergono da questo secondo studio
comparato del settore dell’automobile a livello mondiale riguardano da
un lato la tendenza verso una certa complementarietà tra le pratiche
innovative di gestione di risorse umane e quelle di relazioni industriali, e
dall’altro lato l’evoluzione verso differenti tipi di lean production, e non
di uno solo come sembrava prefigurare l’analisi di Womack e colleghi.
Dallo studio di Kochan e colleghi risulta, ad esempio, che si potrebbero
individuare almeno nove idel-tipi di produzione snella. Accanto a quella
ormai classica “toyotista” largamente conosciuta (Ohno, 1978), vi
sarebbero infatti molti altri tipi che si sono affermati fuori dal Giappone
secondo le diverse combinazioni dell’idea originaria con i sistemi e le
Globalizzazione dei mercati
Tecnologie automatizzate e
flessibili
Contesto sociale e istituzionale
Pratiche
innovative di relazioni
industriali e di gestione delle risorse
umane
Vari tipi di Lean Production
42
tradizioni nazionali e locali. La ricerca comparata dell’IMVP consente di
fare un’ulteriore passo avanti nella definizione di modelli evolutivi di
relazioni industriali abbinando all’evoluzione dell’organizzazione della
produzione l’evoluzione dei sistemi di contrattazione collettiva. Se nella
produzione artigianale prevaleva il sindacato di mestiere e la
regolamentazione sindacale unilaterale, con la produzione di massa si
affermano i sindacati industriali, la contrattazione collettiva e la rigida
codificazione delle regole di lavoro. Alla produzione snella sembra
accompagnarsi invece un modello di contrattazione collettiva che da
“normativo” diventa “partecipativo”.8 Ovvero tendono a costituirsi
gruppi di lavoro e comitati paritetici “problem-solving”, la dimensione
individuale dei rapporti di lavoro e le iniziative di gestione strategica delle
risorse umane possono crescere spesso accanto e non solo in alternative
alle relazioni industriali e ai rapporti collettivi.
Il problema delle relazioni industriali e della gestione delle risorse
umane nell’auto, nelle imprese occidentali in questa fase di transizione
della produzione di massa alla lean production sembra dunque essere
soprattutto quello di ricostruire una base di fiducia tra impresa, sindacati
e lavoratori.
Un modello partecipativo di rapporti di lavoro sia da parte dei
lavoratori e si da parte dei sindacati.
Per quanto riguarda i lavoratori, la partecipazione diretta di
quest’ultimi, nei gruppi problem-solving, nei sistemi di qualità totale o
nei team di lavoro, dipende essenzialmente dalla capacità manageriale di
sviluppare adeguate politiche di gestione delle risorse umane, in termini
8 Negrelli S., «Prato verde, prato rosso. Produzione snella e partecipazione dei lavoratori nella Fiat
del duemila», cit., p. 18
43
di formazione, sicurezza del posto di lavoro, valorizzazione e ricompense
(Heller et al., 1998; Barton, Delbridge, 2000).
A tal proposito, nelle esperienze occidentali di implementazione del
modello lean production giapponese, l’enfasi è posta sull’adozione delle
strategie comunemente denominate Human Resource Management
(HRM), le cui origini devono essere ricercate negli Stati Uniti, già a
partire dagli anni Settanta, quando il management ha cercato di
sviluppare un nuovo approccio gestionale ed organizzativo delle risorse
umane. L’elemento chiave, assunto, interpretando l’esperienza
giapponese, è stato quello di cercare una “comunicazione diretta” con il
lavoratore con l’intento di stabilire in contratto individuale alle volte
associato ad una strategia di marginalizzazione del sindacato. Alto
elemento chiave è stato il coinvolgimento del management strategico
dell’organizzazione mettendo in luce l’importanza del Hrm e gli aspetti
fondamentali della motivazione, del commitment, della formazione dei
lavoratori per il successo del business dell’impresa.
Non sono state fatte analisi comparative approfondite su questo
aspetto, ma il tentativo di comunicazione diretta con il singolo lavoratore
è avvenuto in modi differenti. Storey (1992) distingue una versione forte
e una versione debole del Hrm.
Mentre la versione forte rappresenta un approccio distintivo nella
gestione del lavoro, la versione debole rappresenta, invece, un termine
diverso per connotare la tradizionale gestionale del personale. Secondo
Storey, all’interno della visione forte possiamo ulteriormente distinguere
una versione hard e una versione soft del Hrm. Nella versione hard
l’enfasi è posta sul lavoro come risorsa al pari degli altri fattori produttivi
da utilizzare in modo razionale. La versione soft, invece, pone l’accento
44
sul termine human, cioè sui lavoratori come individui che devono essere
opportunamente stimolati e integrati all’interno della logica aziendale.
Per l’implementazione del HRM sono considerati, inoltre, come
condizioni importanti, la localizzazione in un ambiente green-field, la
presenza di manager esperti, una forza lavoro non sindacalizzata,
attentamente selezionata e priva di cultura industriale, l’incentivo di
trovare una occupazione. Quindi, come evidenziano Bean (1994) e
Storey e Bacon (1996) i valori che sottointendono all’approccio HRM
sono direttamente riconducibili a una visione unilaterale e individualistica
piuttosto che al collettivismo dell’impresa come comunità e come
sistema di relazioni industriali partecipate. Tuttavia esistono importanti
differenze tra la visione statunitense del HRM e le forme adottate in altri
paesi, soprattutto europei. Infatti, mentre negli Stati Uniti l’adozione del
HRM è stata accompagnata dalla marginalizzazione del sindacato, in altri
paesi, ad esempio la Gran Bretagna e l’Italia, si è optato per una visione
neopluralista (Keenoy 1990), sulla quale si sono adottati una serie di
accordi consensuali.
Sicuramente non ci troviamo di fronte ad una nuova era nella gestione
del personale caratterizzata da una “umanizzazione” del lavoro,
dall’autonomia decisionale dei lavoratori, da relazioni di “fiducia”, e così
via, tuttavia, non è sufficiente né corretto trarre la conclusione, che
l’HRM possa essere interpretato soltanto come mera ideologia
manageriale. Il problema, consiste piuttosto nel cogliere i nessi che
legano il controllo sul lavoro e la gestione del personale, ossia la nuova
logica che governa la struttura materiale e organizzativa del processo
produttivo post-fordista nei suoi nessi con la gestione delle risorse
umane e le relazioni industriali. In altre parole, è la natura stessa del
controllo ad essere cambiata, divenendo meno arbitraria e più sistemica.
45
La fabbrica snella, richiede conoscenze allargate, capacità di relazione,
disponibilità al lavoro di gruppo, responsabilizzazione e si basa
soprattutto sulla valorizzazione delle competenze e degli skills della forza
lavoro quale “risorsa organizzativa” strategica in grado di generare
competitività all’interno di un sistema lean intrinsecamente fragile, privo
di quelle risorse “cuscinetto” che rappresentavano la difesa migliore
dell’organizzazione fordista tradizionale (scorte, magazzini, ecc.).
Il lavoro, per così dire si “intellettualizza”, si “mentalizza”, pur
rimanendo lavoro vivo faticoso.
Il lavoratore, oltre ad essere saturato in maniera più intensa e razionale
(“integrata”), deve fornire un apporto ulteriore, cioè un contributo attivo
che si esprime in attività quali l’autocontrollo della qualità, la
segnalazione tempestiva di anomalie, i suggerimenti e le proposte di
miglioramento, lo sviluppo e l’approfondimento della cooperazione
produttiva, l’aiuto reciproco. Occorrono quindi “meccanismi” di
motivazione al lavoro e di dominio sul lavoro, orientati a combinare
efficienza e consenso, che generalmente si differenzia a seconda dei
differenti contesti istituzionali, sociali, di strategie aziendali, sindacali.
Per quanto riguarda poi il grado di coinvolgimento delle relazioni
industriali, queste si configurano non in maniera univoca dovunque, ma
si sviluppa in contesti territoriali diversi. Nel caso del Giappone si
manifestano in modo peculiare, cioè sono parti integranti, viene utilizzata
una cooperazione labour-management allo scopo di implementare le
strategie aziendali, nel contesto statunitense vi è un modello di relazioni
industriali di tipo giapponese ma tutto ciò avviene senza un reale
coinvolgimento del sindacato e, soprattutto, senza garanzie
occupazionali, questa versione della lean production enfatizza il ruolo
chiave del management, ma ignora aspetti considerati centrali per i
46
lavoratori quali, ad esempio, la sicurezza occupazionale, la crescita dei
salari, le promozioni, la risoluzione delle controversie, la rappresentanza
degli interessi. Nei paesi europei si ha l’adozione di strutture e comitati
paritetici management-sindacato che permettono ai lavoratori di essere
rappresentati ad ogni livello dell’organizzazione aziendale.
Il tema più discusso che permette meglio di definire le differenze
tra i paesi e possibili trend di sviluppo della contrattazione collettiva, è
quello dell’accentramento-decentramento della struttura contrattuale.9
La differenza più evidente è quella che intercorre come abbiamo
già accennato tra i paesi di tradizione anglosassone e anche il Giappone,
maggiormente aperti, sia per condizioni strutturali che culturali al
mercato, e i paesi dell’Europa continentale in cui le relazioni d’impiego
sono maggiormente istituzionalizzate.
Nel primo caso equivale quasi esclusivamente una struttura
decentrata della contrattazione, i contratti si fanno solo a livello
d’impresa, di unità produttiva se non anche a livello di singolo mestiere e
danno luogo ad una variegata e diversificata crescita di norme formali e
informali. La contrattazione decentrata ha gravi limiti di estensione e
istituzionalizzazione. Nei paesi in cui l’unico livello contrattazione delle
condizioni di lavoro è quello d’impresa, i dipendenti di molte aziende, in
cui il sindacato non è presente o non è riconosciuto come agente
negoziatore, sono esclusi dai benefici della contrattazione collettiva. Il
grado di istituzionalizzazione è piuttosto basso, lasciato alle convenzioni
o ai rapporti di forza contrattuali tra le parti. La contrattazione decentrata
segue più di quella centralizzata, la logica della flessibilità rispetto al
9 Fortunato V., Della Rocca G., «Lavoro e organizzazione. Dalla fabbrica alla società
postmoderna», cit., p. 161
47
mercato. Ciò che il livello decentrato perde in estensione e
istituzionalizzazione, lo guadagna in incisività e in coinvolgimento della
base sindacale. Incisività significa capacità della rappresentanza sindacale
di contrattazione degli incentivi, orari, mobilità, carriere e di tutti quegli
aspetti inerenti le specifiche condizioni di lavoro. Coinvolgimento
significa, invece, elevata partecipazione della base alla contrattazione sia
attraverso i delegati di fabbrica, eletti quasi sempre direttamente dai
lavoratori, sia attraverso rappresentanti delle sezioni sindacali territoriali.
Nel secondo caso, quello dei paesi dell’Europa continentale, il
grado di accentramento è maggiore, prevalgono gli accordi nazionali su
quelli decentrati. La contrattazione risponde principalmente a fattori di
tipo politico solidale, prevalgono dimensioni quali l’estensione della
contrattazione alle condizioni di lavoro e dei sistemi di assistenza sociale
a tutti i lavoratori, l’istituzionalizzazione di regole e procedure che
definiscono in maniera rigorosa e stabile il processo contrattuale
attraverso il legislatore o il contratto collettivo interconfederale o
nazionale. La centralizzazione ha segnato il periodo dell’industria di
massa e della grande impresa grazie alla “contrattazione nazionale di
categoria” che costituisce il perno intorno al quale è costruito, in questo
caso, l’intero sistema di relazioni industriali. I contenuti del contratto
riguardano tutti gli aspetti fondamentali delle relazioni di lavoro, dal
salario minimo alla definizione dell’orario, dalle condizioni di lavoro in
generale ai diritti sindacali. Il contratto ha un estensione che può variare
a seconda del settore e il grado di istituzionalizzazione è piuttosto alto. Il
coinvolgimento della base, delle rappresentanze sui luoghi di lavoro e dei
sindacati locali, rimane parziale, così come l’adattamento alle specifiche
condizioni di lavoro nelle diverse realtà produttive.
48
Il livello “interconfederale”o “intersettoriale” da luogo ad una maggiore
centralizzazione rispetto alla contrattazione nazionale di categoria,
riguarda i singoli aspetti della condizioni di lavoro o economico-sociali
che interessano tutti i lavoratori indipendentemente dall’appartenenza ad
uno specifico settore, prevede un’attività negoziale bilaterale, tra le
principali confederazioni sindacali e associazioni imprenditoriali, oppure
trilaterale con il coinvolgimento attivo dello Stato. Complessivamente la
contrattazione interconfederale si caratterizza per un elevata estensione,
centralizzazione e incisività (in quanto gli accordi interconfederali
possono essere trasformati in leggi dello Stato). Al contrario, si ha un
basso livello di coinvolgimento, soprattutto delle strutture decentrate del
sindacato e delle associazioni imprenditoriali, nella definizione e gestione
degli accordi.
Contratto collettivo nazionale di lavoro e accordi interconfederali
sono considerati da tempo la migliore espressione di un sistema di
cittadinanza e di gestione paritetica del mondo del lavoro. Lo sono
proprio perché, a differenza della contrattazione decentrata, consentono
la massima estensione nella tutela dei lavoratori e l’istituzionalizzazione
delle relazioni tra sindacati e imprenditori. Il contratto nazionale
definisce le condizioni minime per tutti i lavoratori e il tipo di disciplina
nella regolamentazione dei rapporti di lavoro in ciascun settore. Quello
interconfederale estende all’esterno dei luoghi di lavoro la tutela e la
gestione congiunta di altre condizioni della vita del lavoratore.
Questo modello centralizzato, tuttavia, incontra i propri limiti
nell’adattarsi alle diverse condizioni economiche dei settori e delle
imprese e allo tempo di rappresentare tutti i lavoratori. Con
l’intensificarsi della concorrenza sui mercati, la contrattazione
centralizzata e quella decentrata sono in parte in competizione per la
49
capacità di quest’ultima di essere più flessibile e di rispondere meglio ai
cambiamenti. La contrattazione decentrata o d’impresa consente
maggiore flessibilità, si adegua alle variazioni di mercato, permette un
adattamento più facile delle condizioni di lavoro e delle retribuzioni,
favorisce di fatto la forza lavoro delle imprese e dei settori più forti sul
mercato. Tale rilievo assunto dal decentramento si accompagna a
crescenti difficoltà di tutela generale della contrattazione centralizzata.
Essa non riesce a tutelare tutti i lavoratori per la dispersione della
struttura industriale in piccole imprese, per la nascita di un’economia dei
servizi, per la crescita del lavoro precario e per il parziale declino del
capitalismo organizzato e dell’intervento dello Stato.
Il tema del decentramento viene letto da diversi punti di vista,
Locke, Kochan e Piore (1995), ad esempio sottolineano l’importanza
delle strategie competitive poste in essere dal management che guida i
cambiamenti in atto nelle imprese. Non è più il sindacato dei diritti a
condurre il gioco, ma sono le imprese. Di fatto, il decentramento è
interpretato come un ribaltamento del successo del sindacato nell’usare la
contrattazione centralizzata quale strumento per tenere i salari fuori dalla
competizione tra imprese e di garantire, per quanto possibile, condizioni
di lavoro uguali per tutti. Il decentramento è di fatto intervenuto in aree
forti dell’economia e del mercato del lavoro con la tendenza, di una parte
dei lavoratori, delle rappresentanze sui luoghi di lavoro e dei membri del
sindacato, ad uscire dagli schemi troppo stretti ed egualitari della
contrattazione nazionale.
Katz (1993) individua tre possibili ipotesi per spiegare la tendenza
verso il decentramento. La prima ipotesi considera il decentramento
come risultato dell’aumento del potere manageriale, pertanto è una
lettura basata su un ribilanciamento degli equilibri di poteri interni al
50
sistema di relazioni industriali. La seconda ipotesi sottolinea l’importanza
della riorganizzazione del lavoro e delle tecnologie più flessibili che
hanno portato management e organizzazioni sindacali a collaborare per
gestire questo cambiamento. La terza, infine, focalizza l’attenzione
sull’accresciuta diversificazione sia della struttura sia degli interessi dei
lavoratori. La spinta al decentramento è legata alla pressione e
all’incertezza del cotesto economico, al passaggio dai mercati di massa ai
prodotti specializzati, al mutamento delle prestazioni e della natura del
mercato del lavoro. Si tratta, quindi, di un decentramento di natura
strutturale e di lunga durata. Alla luce di tutto ciò si solleva alcuni
importanti interrogativi sullo sviluppo futuro delle relazioni industriali
nel settore dell’automobile a livello mondiale. Attualmente il sindacato
sta vivendo una fase di notevole trasformazione, cioè da organismo di
tipo «conflittuale» a «sindacato partecipativo», e in particolare verso un
«sindacalismo d’impresa».
Per comprendere le trasformazioni in atto bisogna sottolineare come
nella fabbrica lean la direzione aziendale stia utilizzando tecniche più o
meno sofisticate di Human Resource Management (HRM) per
incentivare e motivare adeguatamente la forza. Questi incentivi sono
direttamente collegati alla fragilità della fabbrica lean, poiché la sua
vulnerabilità aumenta qualora i lavoratori non prestano attenzione, e
sono chiamati a risolvere i problemi in prima persona.
La crescita del coinvolgimento individuale ha quindi importanti
conseguenze in merito ai mutamenti nelle forme di resistenza dei
lavoratori. In particolare, viene meno la logica della contrapposizione
espressa tradizionalmente dallo sciopero, pur essendo formalmente
previsto e riconosciuto dalla legge, è percepito dai lavoratori solo come
ultima istanza, si ricorre allo sciopero solo quando tutti gli altri strumenti
51
predisposti per la risoluzione delle controversie non abbiamo prodotto
l’esito desiderato. Tendono invece a manifestarsi nuove e più strategiche
forme di resistenza operaia, quali ad esempio, l’inversione del controllo o
della non partecipazione alle attività tipiche di miglioramento continuo.
Tuttavia, se da una parte l’introduzione della lean production pone dei
rischi all’azione sindacale, dall’altro offre nuove potenzialità per la
rappresentanza collettiva dei lavoratori all’interno delle fabbriche. La
logica della prevenzione può accrescere il potere del sindacato, in un
sistema produttivo che si basa sul just in time, il sindacato può facilmente
infliggere seri danni all’azienda attraverso l’azione organizzata e mirata di
fermi delle linee produttive, di scioperi, oppure attraverso la semplice
minaccia dello sciopero per aumentare il proprio potere contrattuale.
Un ulteriore spazio per il sindacato deriva dal fatto che, anche a fronte di
relazioni dirette tra management e lavoratori, sul fronte della
contrattazione collettiva, possono cercare di ottenere salari più alti e
maggiori benefici per i lavoratori della categoria, miglioramento delle
condizioni di lavoro, con particolare attenzione alla salute ed alla
sicurezza sul luogo di lavoro, alla gestione dei tempi e degli straordinari e
allo stress psico-fisico legato all’intensificazione dei ritmi di lavoro.
Il successo del sindacato è notevole proprio in virtù della stretta
connessione esistente nella lean production tra performance economica
aziendale e condizione (fisica e morale) del lavoratore.
Quali tipi di sindacato e di relazioni industriali tenderanno ad
affermarsi in Europa e negli Stati Uniti? Dal momento che ormai si ci sta
dirigendo in modo irreversibile verso il decentramento della
contrattazione collettiva e delle relazioni industriali (Katz, 1993) e verso
la sempre maggior valorizzazione della gestione individuale delle risorse
umane (Negrelli, Treu, 1995), quanto decentramento sono in grado di
52
sopportare i sistemi dell’Europa continentale, tradizionalmente più
centralizzati di quelli anglo-sassoni? Qual è sarà il livello di
complementarietà che tenderà a prevalere tra le relazioni industriali e la
gestione delle risorse umane?
Nelle imprese occidentali, flessibilità del lavoro, nuove forme di
motivazione e di incentivazione, paghe legate ai risultati di qualità,
produttività e redditività stanno portando a tipi differenti di
combinazione tra rapporti collettivi e rapporti individuali di lavoro, che
in alcune realtà sembrano orientate alla complementarietà mentre in altre
più verso la competizione oppure l’antagonismo (Negrelli, 1995).
53
Capitolo 2
Il World Class Manufacturing come modo di
lavorare
2.1. La nuova metodologia organizzativa: il “World Class
Manufacturing”
«World Class Manufacturing significa realizzare prodotti:
più rapidamente…..
meglio….
in modo più economico…. insieme»
Sono molte le case automobilistiche che possono vantare modelli che
sono più avanzati sul piano strettamente tecnologico, che dispongono di
motorizzazioni più performanti, che vantano un’immagine più ricercata,
che presentano tratti stilistici più sofisticati. Tuttavia non esiste alcuna
casa automobilistica che abbia conseguito nel tempo i risultati della
Toyota, sia in termini di espansione nelle quote di mercato che sotto il
profilo economico-finanziario. Il fulcro su cui Toyota ha fatto e continua
a far leva, per costruire la sua invidiabile posizione nell’arena competitiva
dell’industria automobilistica, è rappresentato dall’attività di
manufacturing. I suoi prodotti infatti sono realizzati con un altissimo
livello di produttività e affidabilità, e nessuna casa automobilistica vanta
un grado di soddisfazione della clientela paragonabile a quello della
Toyota.
54
Per reggere la sfida competitiva non basta produrre automobili dalle linee
accattivanti e di elevate prestazioni, bisogna essere in grado di assicurare
alla clientela un rapporto qualità/prezzo, quello che in inglese viene
indicato come money for value, migliore dei propri concorrenti.10
In questo panorama sempre più competitivo la Fiat Chrysler
Automobiles si è posta l’obiettivo di costruire un “Fiat Production
System” (FAPS), vale a dire un modello integrato, costituito da
un’insieme di metodologie e strumenti la cui applicazione consente il
miglioramento radicale delle prestazioni del sistema produttivo. Ciò
permette di consegnare il prodotto al cliente nei tempi e nella qualità
richiesti e di eliminare contemporaneamente le attività a non valore
aggiunto e qualunque altro tipo di perdita di persone, impianti, materiali
ed energia. Quest’ultimo deve conseguire i rigorosi standard
internazionali, gli standard codificati dal “World Class Manufacturing”,
che riguarda la competitività, questo nei diversi paesi in cui viene
applicato, prende nomi diversi, dalla Lean Production (produzione
snella), Value Management, Qualità totale. È una metodologia di
organizzazione e di miglioramento continuo delle prestazioni della
fabbrica, attraverso cui si riescono ad ottenere importanti vantaggi di
competitività relativi a qualità, costi e tempi di risposta. L’aspetto più
importante di questa impostazione è che il raggiungimento della qualità e
dell’efficienza nascono dall’utilizzo di tecniche quali il Just in time, la
Qualità totale e soprattutto dai suggerimenti migliorativi del personale
che lavora nella fabbrica.
10 Volpato G., «Fiat Group Automobiles. Un’Araba Fenice nell’industria automobilistica
internazionale», Bologna, il Mulino, p. 168
55
Entriamo del merito di queste tecniche, il Just in time significa fornire un
servizio quando è effettivamente necessario, né prima, né dopo. Ciò
richiede notevoli sforzi da parte di dipendenti, macchinari e materiali che
devono essere perfetti e capaci di garantire i migliori risultati, per questo
sono stati realizzati una serie di strumenti, quali ad esempio il Kanban,
un sistema di controllo visibile, Jidoka, un processo per connettere ai
macchinari sistemi a basso consumo, di avvio/spegnimento e di
segnalazione, l’Andon, un sistema di preallarme, e così via.
La vera essenza del Jit consiste nell’individuazione degli sprechi, e
quindi nella loro eliminazione completa, in alternativa in una loro
riduzione significativa. Il 90% degli sprechi aziendali complessivi sono
attribuibili ai sistemi, ai metodi e ai processi che il management aziendale
impone ai dipendenti. Tutto ciò implica quindi un cambio di mentalità in
chi dirige l’azienda, occorre che i manager si rendano conto di essere non
solo i responsabili delle possibili soluzioni, ma spesso anche la causa dei
problemi.
Per quanto riguarda la Qualità totale, la “International Standard
Organisation”, ha introdotto una serie di standard qualitativi, il più
recente nel 2000, genericamente chiamati ISO 9000. Tali standard sono
costituiti da una serie di punti riguardanti gli elementi fondamentali di un
sistema di base, questo ha avuto un impatto significativo e positivo
sull’industria, anche se tuttavia non sono mancati gli aspetti negativi. Gli
standard richiedono che un impresa nomini un manager o comunque un
responsabile della qualità. Ciò ha comportato che la questione della
qualità all’interno di un’azienda avesse una figura specifica, preposta a
tale incarico, ma ha avuto anche l’effetto di concentrare la qualità solo in
un determinato settore.
56
Il sistema della Qualità Totale (TQM), sviluppa processi produttivi
talmente perfetti da rendere impossibili errori, e si differenzia rispetto ai
precedenti sistemi tradizionali di controllo della qualità, in cui gli errori
venivano riscontrati soltanto dopo che si erano verificati. La qualità non
è quindi una caratteristica che può essere semplicemente aggiunta ad un
prodotto, dopo che è stato realizzato, da un ispettore di qualità. La
qualità viene attribuita ad un prodotto o servizio, soltanto durante le fasi
di lavorazione. Questo processo inizia dal lavoro dei progettisti e
continua lungo tutto il percorso produttivo aziendale, finchè il cliente
finale non riceve il prodotto.
Questa consapevolezza della qualità e del modo in cui tutti i dipendenti
sono importantissimi per la qualità di base del prodotto, deve essere
presentata allo staff, da parte di un management impegnato, che si
preoccupa dell’azienda e dei sui clienti. Per l’eliminazione degli sprechi di
un’azienda l’avvalersi di un team per la soluzione dei problemi è un
elemento chiave in un approccio legato al modello World Class
Manufacturing, uno dei mezzi più efficaci usati da questi gruppi di lavoro
è la tecnica del “brainstorming”, che consiste nel riunire il team,
individuando e definendo il problema da risolvere, e cercando di trovare
il maggior numero possibile di idee che possano chiarire la questione.
Nel realizzare i principi del JIT e del TQM importanti sono i
suggerimenti migliorativi del personale, mentre prima si affidava
essenzialmente all’automazione degli impianti la qualità della produzione
motoristica e dell’assemblaggio delle autovetture, la stessa esperienza
della Fiat ha poi mostrato che sia nelle lavorazioni tipicamente
meccaniche, ma anche, nelle fasi di assemblaggio, il contributo del
personale al raggiungimento del risultato è assolutamente fondamentale.
57
Il Wcm mostra tutta la sua potenzialità quando diventa un “abito
mentale”, quando l’operaio guarda al suo lavoro in modo nuovo e si
interroga su cosa può essere fatto per produrre meglio, con minore
fatica, senza spreco. Esso viene promosso e sostenuto dall’alto, ma la sua
realizzazione segue uno schema tipicamente bottom-up, cioè ogni
problema viene normalmente affrontato dall’addetto che è più a contatto
con la manifestazione del problema. I dipendenti vengono quindi
attivamente coinvolti nell’azienda, questi non devono più soltanto fare
ma anche pensare.
Fig. 2.1 Le tre aree dei metodi del miglioramento continuo
Fonte: L. Pero, Taylor e Ford, World Class Manufaturing, 2008
2.2. Strumenti e metodologie
Il Wcm si basa su una varietà di strumenti, alcuni di questi anche
complessi che richiedono competenze statistiche, ma l’essenza del Wcm
è di procedere sistematicamente alla decomposizione dei problemi in
problemi più semplici e di sviluppare accorgimenti per semplificare ogni
58
forma di controllo del funzionamento degli apparati, proprio per mettere
ogni operatore in condizione di affrontare le problematiche del proprio
lavoro. Il primo passo verso un sistema di World Class Manufacturing
consiste nella piccola manutenzione, che inizia proprio dal tenere in
ordine e pulito il proprio posto di lavoro. Sembra un dettaglio
trascurabile, ma non è così, è solo il primo passo verso un addestramento
a cogliere il manifestarsi di comportamenti anomali delle attrezzature e a
studiare come ovviarli. Ad esempio nello stampaggio dei pannelli che
costituiscono la carrozzeria di un automobile se un moscerino si
appoggia al foglio piano di lamiera che sta per essere stampato da una
pressa idraulica che esprime una forza di migliaia di tonnellate,
l’impronta del moscerino, sottilissima, ma percepibile, si trasferirà sulla
portiera o sul cofano di lamiera stampata.
All’interno della Fiat, il FAPS (Fiat Auto Production System) è un
modello integrato che ottimizza tutti i processi di produzione-logistica e
che consente di attuare un miglioramento continuo dei fattori
fondamentali, qualità, produttività, sicurezza, delivery. La sua
applicazione consente al Management di concentrarsi sul miglioramento,
invece di rincorrere i problemi quotidiani. Si pone l’obiettivo di
raggiungere significativi risultati di efficienza e di soddisfazione del
cliente, avendo come riferimento le metodologie applicate dalla migliore
concorrenza, strutturate e definite nel World Class Manufacturing.
Il Wcm realizzato alla Fiat viene quindi presentato come una
matrice nella quale le diverse aree operative dello stabilimento, indicate
come «pilastri», vanno monitorate sistematicamente per migliorare le
prestazioni attraverso l’applicazione di una molteplicità di strumenti11. Vi
11 «Metodi e strumenti per il Fiat Auto Production System», Fiat Group Automobiles, 2007
59
sono 10 pilastri tecnici e 10 pilastri manageriali o gestionali. I pilastri
tecnici si riferiscono ad una precisa metodologia, i pilastri manageriali,
sono di supporto ai criteri tecnici di pilastro, necessari per
un’applicazione ottimale del sistema di produzione. Sono azioni che
deve svolgere il coordinatore centrale del Team WCM (il WCM leader o
il direttore di stabilimento), finalizzate a favorire l'impegno e l'auto-
responsabilità dei vari preposti ai singoli pilastri di attività. Responsabilità
che, applicando tecniche e metodi di gestione per obiettivi, consiste nel
realizzare piani e progetti attraverso la diffusione di Know-How. Questi
riguardano il “commitment”, cioè l’impegno, la motivazione
coinvolgimento totale, vi è poi la cultura orientata al dettaglio.
Fig. 2.2 I pilastri tecnici e manageriali
Fonte: L. Massone, World Class Mnufaturing. Il percorso verso l’eccellenza
Il percorso di evoluzione di ogni pillastro tecnico è vincolato a 7 steps.
Prendiamo in considerazione, per motivi di semplificazione, il solo
pilastro “Sicurezza”.
60
Fig. 2.3 Pilastro “Safety” (Sicurezza)
Fonte: Metodi e strumenti per il Fiat Auto Production System, Fiat Group Automobiles, 2007
Safety Sicurezza
Perché si fa
Per soddisfare le esigenze degli addetti, assicurando il miglioramento continuo della sicurezza sul posto di lavoro.
A che cosa serve
• a ridurre drasticamente il numero degli incidenti • a sviluppare la cultura della prevenzione per quanto riguarda la sicurezza • a migliorare continuamente l’ergonomia del posto di lavoro • a sviluppare le competenze professionali specifiche
Principali attività
• audit interni periodici sulla sicurezza degli impianti • identificazione e valutazione dei rischi • analisi sistematica degli incidenti avvenuti • miglioramenti tecnici sulle macchine e sul posto di lavoro • formazione, addestramento e controllo
61
Fig. 2.4 I sette step del pilastro “Safety” (Sicurezza)
Piena implementazione del sistema sicurezza
Standard autonomi
Ispezione autonoma (contromisure contro i
potenziali problemi)
Ispezione generale per la sicurezza (addestramento
e formazione delle persone)
Standard iniziali di sicurezza (lista di tutti i problemi)
Contromisure ed estensione sulle aree simili
Analisi degli infortuni e delle cause di infortunio
Fonte: Metodi e strumenti per il Fiat Auto Production System, Fiat Group Automobiles, 2007
All’interno di ciascun pilastro possono essere utilizzati alcuni strumenti.
Step 1
step 2
Step 3
Step 4
Step 5
Step 6
Step 7
Sette step della Safety
62
Fig. 2.5 Gli strumenti del World Class Manufacturing
Fonte: Propria elaborazione
Vi sono poi continue verifiche interne ("audit"), che costituiscono uno
degli elementi per valutare, guidare e supportare l’applicazione di Fiat
Auto Production System seguendo il percorso verso il World Class
Manufacturing. Ha lo scopo di verificare l’avanzamento dei risultati e di
indirizzare il management ad una applicazione corretta dei metodi del
Sistema di Produzione, tramite i KPI (Key Performance Indicator) sulle
seguenti aree tematiche:
• Cost (costi)
• Quality (qualità)
4M Techinque (machine-material-method-man)
5 “S”: separare, ordinare, pulire, standardizzare, sostenere e migliorare
5W e 1H: Who (chi), What (che cosa), Where (dove), When (quando), Why (perché), How (come)
5 WHYS (5 perché)
AM Tag (Cartellino AM)
Equipment ABC Prioritization (Classificazione ABC delle macchine)
FMEA – Failure Mode ancd Effect Analysis (Analisi dei guasti e dei loro effetti
Kanban (Cartellino) NVVA – Not Value Added Activity (Attività a non valore aggiunto)
OPL – One Point Lesson (lezione su un punto)
Poka Yoke (evitare l’errore)
QA Matrix (la matrice assicurazione qualità)
QM Matrix (la matrice manutenzione per la qualità)
Six Sigma (sei sigma)
Value Stream Map (mappa del flusso del valore)
X Matrix (la matrice x
SMED - Single Minute Exchange of Die (Attrezzaggio in un tempo inferiore ai 10 minuti)
63
• Productivity (produttività)
• Safety (sicurezza
• Human Resource (risorse umane)
• Production System (sistema produttivo)
• Delivery (livello di servizio)
• Stock (scorte)
A tal fine sono previsti sia autovalutazioni periodiche, realizzate dal
management di stabilimento per il monitoraggio dell’avanzamento delle
attività dei pilastri, sia valutazioni esterne, a cura di manager
indipendenti, per la certificazione dei livelli raggiunti.
Lo stabilimento viene valutato per ogni metodologia con un punteggio
che varia da 0 a 5. La valutazione complessiva dello stabilimento viene
riassunta in un indicatore chiamato Indice di Implementazione
Metodologie (IIM), che può essere applicato anche a livello di Unità
Operativa e di Ute. L’IIM si ottiene come somma di tutti i livelli
raggiunti nell’implementazione di ciascuna metodologia.
La valutazione, una volta verificata da parte di esperti esterni, porta lo
Stabilimento all’assegnazione di specifici riconoscimenti (Bronzo 50
punti, Argento 65 punti, Oro 80 punti).
Fig. 2.6 Il “sistema audit”
Fonte: L. Massone, World Class Manufaturing. Il percorso verso l’eccellenza
64
2.3. L’implementazione del World Class Manufacturing
Il modello del World Class Manufacturing, costituisce, un nuovo modo
di guardare all’organizzazione, la sua implementazione è sempre un
elemento cruciale. Il vantaggio del WCM è dato dal modo in cui lo si
introduce in azienda e dai benefici che permette di ricavare. Mostreremo
di seguito i 5 passi attraverso cui applicare un programma World Class:
1) Diagnostica dell’impresa
È una verifica di tutti i settori chiave dell’impresa, il vantaggio di questa
fase è l’individuazione delle priorità d’intervento all’interno
dell’organizzazione, problemi che devono essere risolti rapidamente, ed è
proprio già in questa fase che si hanno indicazioni concrete su come
risolvere il problema. Al fine di ottenere migliori risultati , questa fase di
diagnosi dovrebbe essere condotta da un consulente esterno, libero da
pregiudizi, cioè da esperienze aziendali quotidiane o da preconcetti
consolidati dall’operare da lungo tempo in impresa.
2) Consapevolezza e autovalutazione
I programmi del WCM sono in genere guidati dalla direzione, questa
deve avere una chiara visione di quello che implica il WCM, in modo da
poterlo trasmettere al resto dell’impresa. I dipendenti devono
comprendere a pieno i principi del WCM in modo da contribuire a
migliorare il loro modo di operare in azienda. Una volta che tutta
l’impresa è giunta ad una cognizione esatta dei principi di base del
modello, potrà confrontare i risultati della fase diagnostica con il modello
65
WCM ed effettuare una sorta di autovalutazione che costituirà, poi, la
base per il piano di miglioramento.
3) Programma d’implementazione
La combinazione delle due fasi precedenti permette all’impresa di
mettersi all’opera per creare un piano di implementazione per
concretizzare i presupposti teorici. Un programma d’attuazione che deve
essere pratico e flessibile, soprattutto nella fase di pianificazione, dal
momento che man mano che si sviluppa il processo si avranno maggiori
possibilità di utilizzare al meglio le idee che proverranno dall’interno
dall’interno dello staff, sia ai livelli manageriali, sia ai livelli operativi.
4) Il cambiamento
L’azienda ha recepito il modello World Class Manufacturing e lo ha
interpretato in base alla propria situazione specifica, ed è giunto il
momento di attuare i cambiamenti. Questa rappresenta sia una fase
stimolante dal momento che i dipendenti assistono ai maggiori
cambiamenti in termini di miglioramento, ma anche una fase rischiosa,
poiché attraverso la trasformazione, le reazioni e le impressioni dello
staff devono essere gestite di conseguenza, e quindi è proprio in questo
punto che emerge l’importanza di aver svolto con efficacia le fasi
precedenti. 12
12 Keegan R., «Introduzione al World Class Manufacturing. Casi di studio ed applicazioni pratiche
di produzione snella, qualità totale ed innovazion», Milano, Franco Angeli, 2003, p. 20
66
5) Miglioramento costante
Le fasi iniziali di un programma WCM condurranno a dei miglioramenti
immediati nel sistema operativo generale dell’azienda, tuttavia
quest’ultima deve continuare a tendere il processo di miglioramento
anche in futuro.
Il sistema del WCM è stato applicato a tutti gli stabilimenti Fiat, da parte
dell’ Ad Sergio Marchionne, nel 2005 a Mirafiori, Cassino, Melfi
estendendolo infine a tutte le aziende del gruppo.
In Italia tra il 2006 e il 2009, la Fiat ha dichiarato un risparmio di 730
milioni di euro con il Wcm, incassando riconoscimenti internazionali. La
medaglia d'oro assegnata allo stabilimento di Tychy, in Polonia, e a
quello di Pomigliano, e allo stabilimento di Mirafiori la medaglia
d’argento.
2.4. Il sistema Ergo-Uas
Nel quadro del Wcm, è stato poi inserito un sistema specifico, chiamato
Ergo-Uas che, con lo stesso obiettivo di eliminare perdite e sprechi per
massimizzare il “valore aggiunto interno”, interviene sulle postazioni di
lavoro con innovazioni incrementali derivate da analisi ergonomiche,
consentendo di eliminare tutto ciò che nei movimenti dei lavoratori è
considerato uno spreco e con ciò aumentare la produttività.
Vediamo nel dettaglio in che cosa consiste questa nuova metrica, vi è
inanzittutto la presenza di due sigle nella denominazione Ergo-Uas,
dovuta al fatto che la nuova metrica è la fusione di due tecniche di
misura, una tecnica di misura dell’ergonomia basata sul sistema Eaws
67
(European Assembly Work-Sheet), è un metodo di misura dei tempi
basato sul sistema tabellare Uas (Universal Analysing System).
Uas (universal analisys system) è un sistema MTM13 (method time
measurement) che, per definire “tempi e metodi di lavoro”, descrive la
sequenza di operazioni di uno specifico compito lavorativo attraverso
l’aggregazione dei movimenti elementari effettuati dal lavoratore (ad es. i
movimenti elementari “raggiungere, afferrare, muovere, ruotare,
posizionare, rilasciare ecc.” vengono aggregati nelle operazioni “prendere
e piazzare”). Per rendere più chiara la comprensione di Ergo-Uas è utile
una descrizione sintetica dei sistemi di misurazione della prestazione
lavorativa ed, in particolare, di quello MTM.
MTM rientra nella categoria dei cosiddetti sistemi a tempi predeterminati
(PTS, predetermined time system), si tratta di sistemi che suddividono i
compiti lavorativi nei movimenti degli arti, e del corpo, ed assegnano ad
ognuno di essi un determinato valore in termini di tempo; si
propongono, cioè, di definire i tempi ed il ritmo standard di una
prestazione lavorativa. Il sistema MTM, uno dei PTS più utilizzati a
livello internazionale, scompone qualsiasi operazione manuale nei
movimenti elementari (nel senso che non sono ulteriormente
suddivisibili) necessari per eseguirla ed assegna ad ognuno di essi, sulla
base della natura del movimento e delle condizioni in cui viene
effettuato, un tempo standard predeterminato. L'operazione “prendere e
posizionare un oggetto”, ad esempio, viene suddivisa nei movimenti
elementari “raggiungere, afferrare, muovere, ruotare, posizionare,
rilasciare ecc.”. Sulla base di analisi statistiche sono state definite delle
tabelle, la cui validità scientifica è relativa e discutibile, che assegnano i
tempi standard per i movimenti elementari degli arti, è stato definito, ad
13 Tuccino F., «World Class Manufacturing e sistema Ergo-Uas», Roma, 2010, p.5
68
esempio, che il tempo necessario per raggiungere un oggetto a distanza
di 20 centimetri è di 10,5 TMU (l'unità di misura più utilizzata da MTM;
27,8 TMU corrispondono ad 1 secondo).
Tutti i sistemi MTM si basano sulle tabelle originarie, la differenza
tra MTM1 e gli altri MTM consiste essenzialmente nella tendenza ad
assemblare i movimenti elementari in azioni più complesse.
MTM-UAS, ad esempio, invece delle azioni (raggiungere,
afferrare, muovere, ruotare, posizionare, rilasciare) considera solo "
prendere e posizionare ".
Per definire i ritmi di lavoro in un'azienda, l’analista “tempi e
metodi”, sulla base dei tempi predeterminati delle tabelle MTM , osserva
un lavoratore “con un rendimento medio” ed assegna i valori del tempo
“base” per uno specifico compito lavorativo, considerando, ad esempio,
100 il valore dei tempi predeterminati l'analista, sulla base delle
caratteristiche del compito, assegna un valore inferiore (ad esempio 75) o
superiore allo standard (ad esempio 133). Dopo aver definito il tempo
“base”, o normalizzato, l'analista assegna le percentuali di tempo che
derivano dai cosiddetti fattori di “maggiorazione”, si arriva così, infine,
alla definizione di un tempo effettivo per l'esecuzione di uno specifico
compito lavorativo. La specificità di Ergo-UAS, rispetto agli altri sistemi
di misurazione del lavoro, risiede proprio nella metodologia utilizzata per
definire il fattore di “maggiorazione” (o fattore di “riposo”) del tempo
relativo ad uno specifico compito.
I sistemi “tradizionali” si focalizzano prevalentemente sui fattori di
“maggiorazione” di tipo tecnico-organizzativo, rientrano tra queste le
cosiddette operazioni “extra”(ad esempio quelle dovute ad imprevisti,
rifornimenti ecc.) che i fattori di riposo fisiologico.
69
Ergo-Uas, invece, si propone un’analisi articolata anche dei fattori di
rischio ergonomico. La particolarità di Ergo-Uas , rispetto ai sistemi
“tradizionali”, consiste essenzialmente nel tentativo di definire i fattori di
riposo, non in modo generico, ma sulla base di una metodologia per
l'analisi del carico bio-meccanico sia statico (l’assunzione ed il
mantenimento di posture a rischio) che dinamico (la frequenza dei
movimenti degli arti superiori), questa metodologia è la checklist Eaws.
Eaws, la parte Ergo del sistema Ergo-Uas, è una checklist (lista di
controllo) che, in quanto tale, si propone di effettuare una prima e veloce
“mappatura” del rischio ergonomico, sia nelle fasi di progettazione delle
postazioni di lavoro che su quelle già esistenti.
La checklist è suddivisa in 5 sezioni ognuna delle quali si occupa di
uno specifico fattore potenziale di rischio ergonomico:
• Postura: la tipologia di posture statiche assunte durante lavoro,
• Forza: il livello di applicazione di forza,
• Movimentazione manuale dei carichi,
• Fattori “extra”, presenza di vibrazioni, utilizzo di martelli ecc.,
• Movimenti ripetitivi degli arti superiori
Sulla base del confronto tra le caratteristiche di una postazione di
lavoro e le tabelle di riferimento della checklist vengono assegnati dei
valori per ognuna delle sezioni; i valori delle prime quattro sezioni (a-b-c-
d) si sommano per ottenere un indice di rischio ergonomico relativo al
“corpo intero” (whole body), i valori della sezione E (movimenti
ripetitivi), invece, vengono considerati a parte.
L'indice di rischio finale della checklist deriva dalla scelta del
valore più elevato tra quello ottenuto dalla somma dei valori delle sezioni
A-D (whole body) e quello della sezione E, relativa agli arti superiori; il
70
rischio viene classificato “verde” (assente- lieve) per valori tra 0-25,
giallo (rischio medio) tra 26-50, rosso (rischio elevato) per valori oltre 50.
Dopo la compilazione della checklist si passa alla fase
d’integrazione tra Eaws (la parte Ergo) ed Uas (la parte relativa alla
metrica del lavoro) per la definizione del fattore di maggiorazione
ergonomico (F.ergo), il valore del F.ergo viene infine sommato a quello
del fattore di maggiorazione “tecnico-organizzativo” (F.to). Si ottiene,
così, il fattore di maggiorazione complessivo del tempo di ciclo di una
postazione lavorativa ( o della cadenza di una linea di montaggio), fattore
che corrisponde al cosiddetto tempo passivo, o d’insaturazione,
dell'attività del lavoratore.
Nel sistema Ergo-Uas è stata definita una tabella per la
conversione dei valori dell’indice di rischio ergonomico, ricavati da
Eaws, nelle percentuali di maggiorazione di tempo da assegnare ad uno
specifico compito lavorativo, per valori EAWS tra 0-25, ad esempio, non
si assegna nessuna maggiorazione, tra 25-30 si ha una maggiorazione del
1,5% del tempo di ciclo, tra i 50-55 si ha una maggiorazione del 21%, per
valori oltre 80 si assegna una maggiorazione del 51%.
I dati ottenuti con la checklist Eaws, oltre alla definizione dei fattori di
maggiorazione del tempo di ciclo, possono essere utilizzati anche per
individuare delle misure di prevenzione possibili per ridurre il rischio
ergonomico, già nella fase di progettazione delle postazioni di lavoro.
71
Fig. 2.7 Il Sistema “Ergo-Uas”
72
Fig. 2.8 Prima e dopo l’introduzione del World Class Manufacturing
73
74
Fonte: L. Massone, World Class manufacturing. Il percorso verso l’eccellenza
75
Capitolo 3
La Fiat: tra crisi e rinnovamento
3.1. Dinastia Agnelli
La Fiat (sigla di Fabbrica Italiana Automobili Torino) fu fondata a
Torino l’11 Luglio 1899 da Giovanni Agnelli e altri soci.
Il primo nome Fia della neonata società (Fabbrica Italiana di
Automobili) decise ben presto di cambiare nome in Fiat (Fabbrica
Italiana Automobili Torino).
La FIAT iniziò la costruzione del famoso stabilimento produttivo
denominato Lingotto nel 1916 e lo fece entrare in funzione nel 1923.
Dopo un primo periodo di difficile sviluppo, segnato da diverse
ricapitalizzazioni e da modifiche nella composizione del capitale
azionario, non sempre in maniera pacifica ma anche sfociate in processi
clamorosi per l'epoca, la proprietà della casa automobilistica viene
assunta quasi integralmente da Giovanni Agnelli, che
diventerà senatore durante il Fascismo e resterà a capo dell'azienda sino
al termine della seconda guerra mondiale.
In questo periodo la Fiat adottò una politica di diversificazione delle
attività, rispetto a quella principale di produzione di automobili, iniziò dal
1903 la produzione di autocarri e di motori diesel e dal 1908 quella di
motori di aviazione, nel 1929 si estese nei settori dell’ingegneria civile e
dei trattori agricoli e alla fine del 1970 in settori quali l’energia e le
telecomunicazioni. Il suo ruolo nei processi di industrializzazione e di
motorizzazione della società è stato primario, privilegiando la strategia
76
della produzione di vetture utilitarie (nel 1932 la Ballila 508 e nel 1936 la
500 Topolino).
Dopo aver rischiato tuttavia di perdere la proprietà dell'azienda per la
propria compromissione con il regime fascista, Giovanni Agnelli passa il
comando a Vittorio Valletta, dal momento che l'unico figlio maschio,
Edoardo, morì in un incidente aereo. Valletta rese possibile la più ampia
diffusione dell’automobile grazie all’affermazione della produzione su
larga scala basata sulla progressiva automazione degli impianti e la
standardizzazione dei processi produttivi. La posizione di quasi
monopolio nel mercato automobilistico italiano e di grande rilievo in
quello internazionale è stata raggiunta attraverso la progressiva
incorporazione di altre società del settore, le Ferriere piemontesi nel
1917, le società Ligure piemontese automobili, Aeronautica d’Italia e
Anonima metalli nel 1947, la OM e l’Autobianchi nel 1967, la Lancia nel
1969, l’Alfa Romeo nel 1987, la Ferrari nel 1988, la Maserati nel 1993. La
FIAT ha inoltre rafforzato la dimensione internazionale, e non solo nel
settore automobilistico, attraverso una strategia di accordi e alleanze
volte al consolidamento del gruppo, soprattutto a partire dall’accordo
con l’URSS (1966), che portò alla realizzazione in quel paese di impianti
per la produzione della Fiat 124 e di una nuova città denominata
Togliattigrad.
Valletta riuscì non solo a risollevare le sorti dell’azienda ma
contemporaneamente fornì l'opportuna preparazione al ruolo che
appena possibile avrebbe dovuto assumere il giovane discendente "primo
in linea dinastica".
Gianni Agnelli, l'erede, nonché nipote del senatore Giovanni Agnelli
divenne presidente della Fiat nel 1966 e lo rimase fino al compimento del
75º compleanno, quando le norme statutarie lo obbligarono a cedere la
77
presidenza. La carica viene assunta prima (1996) dall'ex amministratore
delegato Cesare Romiti e poi (1998) da un dirigente genovese che per
molti anni lavorò alla General Electric negli USA, Paolo Fresco.
La trasformazione della Fiat in un gruppo polisettoriale e multinazionale
è stato frutto di un processo di completa riorganizzazione avviato alla
fine degli anni ’60, che ha portato alla scomposizione della struttura
rigidamente accentrata e pur sempre a spiccata vocazione
automobilistica.
L’azienda opera con i marchi Fiat Spa, composto dalle attività
concernenti, le autovetture (Fga, Maserati e Ferrari), la sezione di Fiat
Powertrain Technolgies, dedicata a motori e trasmissioni per autovetture,
la componentistica e i sistemi di produzione (Magneti Marelli, Teksid e
Comau), le altre attività fra le quali quelle editoriali (La stampa) e un
secondo gruppo denominato Fiat Industrial Spa con controllo su Iveco,
Cnh e la sezione di Fiat Powertrain Techologies concernenti i veicoli
industriali e i motori marini. Attraverso il centro di ricerche Fiat e le
società Elais, Isvor Fiat, il gruppo svolge attività di ricerca nei campi
dell’ingegneria automobilistica, dei processi produttivi e delle
metodologie tecnico-gestionali.
Altri settori d’interesse, considerati non più strategici sono stati via via
dismessi nel corso degli anni ’90 e nei primi anni del 2000, nel quadro di
un progetto di ristrutturazione e di rilancio aziendale.
Tra questi, costruzioni ferroviarie (Fiat Ferroviaria), costruzioni aeroplani
e componenti per veivoli (Fiat Avio), energia (Italenergia), servizi
finanziari (Toro Assicurazioni e Fidis Retail Italia).
Il ritardo nel lancio e il poco successo di alcuni modelli, tuttavia, hanno
portato la Fiat, dal 2000 al 2003, sull’orlo di una grave crisi. Una crisi che
78
porta il fratello Umberto alla presidenza nel 2003 e dopo la morte di
Umberto nel 2004 è la volta di Luca Cordero di Montezemolo.
L'erede designato dalla famiglia Agnelli, John Elkann, è stato
nominato vice presidente all'età di 28 anni e altri membri della famiglia
fanno parte del consiglio di amministrazione. L'Amministratore
Delegato, Giuseppe Morchio, dimissionario, viene sostituito da Sergio
Marchionne, dal 1 giugno 2004, che risolleva le sorti dell’azienda con una
netta riconquista di quote di mercato. I principali poli di attività all’estero
sono costituiti dai paesi dell’UE, dal Sudamerica (Brasile e Argentina) e
da alcuni paesi dell’Est europeo. Nel 2009 la società ha stabilito un
alleanza strategica globale con la statunitense Chrysler, acquisendo il 20%
e aumentando progressivamente la sua partecipazione fino a portarla nel
2011 al 53,5% e a raggiungere la completa acquisizione nel 2014.
3.2. Il nascere della crisi
Da molti anni, le vicende Fiat sono oggetto di attenzione da parte degli
ambienti economici, sociali e politici del paese, ed è proprio questo ad
indicare l’importanza che il gruppo riveste nel contesto italiano.14 Oggi,
tuttavia, a far discutere con crescente preoccupazione sono soprattutto i
numerosi problemi che l’azienda sta vivendo. Non si tratta certo della
prima crisi con cui essa ha avuto a che fare, già nel 1907, solo dopo otto
anni dalla sua nascita, l’azienda vive un momento di difficoltà. Qui ci
soffermeremo, tuttavia, solo sulle vicende più recenti e in particolare su
14 Comito V., «L’ultima crisi. La Fiat tra mercato e finanza», l’Ancora, 2005, Napoli, p. 5
79
quella manifestatasi in modo eclatante nel 2002, già iniziata in modo
strisciante nel decennio precedente.
Negli anni di forte sviluppo economico successivi alla seconda guerra
mondiale Fiat Auto aveva attraversato una fase caratterizzata
sostanzialmente dagli elementi propri del modello fordista. Fase nella
quale, aveva lanciato delle piccole vetture a costi assai contenuti, grazie
anche alle forti economie di scala consentite da standardizzazione e di
meccanizzazione dei processi produttivi.
Questa evoluzione era favorita anche dal fatto di manifestarsi in un
periodo nella quale la concorrenza internazionale risultava ancora assai
modesta per effetto delle marcate barriere tariffarie all’import-export
allora presenti, che in Europa cadranno nel luglio del 1968 con la
costituzione del Mercato comune europeo dell’automobile. Questa
strategia competitiva, basata su aspetti caratteristici del modello fordista e
sulla volontà di mantenere l’interlocutore sindacale in posizione
subordinata, si mostrò negli anni ’60 sempre meno adeguata, ponendo in
discussione sia la governante dell’impresa, sia il suo assetto organizzativo
e le relazioni sindacali. La crisi scoppiò nell’autunno del 1969 (“autunno
caldo”) con una contestazione sindacale che impose l’inizio di un lungo
processo di riorganizzazione che, sul piano dell’assetto aziendale, diede
inizio alla strutturazione della Fiat per settori industriali,
precedentemente organizzata su rigidi criteri di natura funzionale.
La crisi alla Fiat, apertasi con l’autunno caldo, si protrasse a lungo anche
per il cumularsi del primo shock petrolifero del 1973, le cui ripercussioni
furono particolarmente gravi in Italia e successivamente per il
deteriorarsi delle relazioni sindacali e il manifestarsi di una grave deriva
politica rappresentata dal terrorismo (Brigate Rosse). Nel 1980 l’azienda
riuscì a riprendere l’iniziativa sia sul piano sindacale che su quello politico
80
e nel 1983 si aprì una stagione di forte ripresa economica dell’intero
gruppo Fiat, e di Fiat Auto in particolare, a seguito del lancio della Uno,
una piccola vettura che presentava forti elementi innovativi rispetto
all’offerta concorrente. A questo modello seguiranno altri prodotti di
successo come la Fiat Croma, la Fiat Tipo e la Lancia Thema. Nel 1987
la Fiat aveva da poco acquisito la società Alfa Romeo, superando
l’offerta della Ford. Venne così costituita la cosiddetta Alfa-Lancia
Industriale ai quali furono assegnati obiettivi particolarmente ambiziosi.
La seconda metà degli anni ’80 premiò questa impostazione, anche se gli
obiettivi di crescita dei marchi Alfa Romeo e Lancia risultarono di gran
lunga inferiori a quelli ipotizzati, Fiat Auto concluse il decennio con
risultati decisamente brillanti.
Per mantenere anche nel decennio successivo il livello di competitività
raggiunto alla fine degli anni ’80, è necessario sottolineare che erano in
atto profonde trasformazioni tanto sul versante della domanda
automobilistica, in quanto nelle fasi di crisi e di espansione i marchi
controllati dalla Fiat partivano da una posizione quasi monopolistica, per
effetto della crescita della motorizzazione, la domanda automobilistica
italiana si stava progressivamente orientando verso una preferenza per la
varietà, che portava a dilatare la quota delle vetture appartenenti ai
mercati di nicchia nella quale la Fiat risultava poco presente, e sia nella
riorganizzazione dell’offerta automobilistica, in quanto l’intensificarsi
della multimotorizzazione, da inizio ad un processo di segmentazione del
mercato in comparti e nicchie sempre più ristrette, con lo scopo di
realizzare offerte mirate su specifici consumatori. Questa evoluzione
aveva impattato significativamente sugli spazi di manovra di Fiat Auto
che forzata da una normativa fiscale italiana particolarmente penalizzante
81
nei confronti delle vetture di grossa cilindrata. E infine la pressione dei
concorrenti giapponesi che si stava facendo sempre più importante.
Già alla fine degli anni ’80 era quindi evidente che si sarebbe profilata
una stagione caratterizzata da una forte accentuazione del confronto
competitivo in Europa, soprattutto per marchi collocati nella parte
inferiore della gamma di segmenti, come nel caso di Fiat Auto che, pur
avendo goduto di un periodo favorevole fino al 1989, avrebbe comunque
dovuto realizzare profonde trasformazioni per mantenere inalterate le
proprie chance di successo. In particolare gli obiettivi da realizzare erano
quello di raggiungere un maggior equilibrio delle vendite nelle diverse
aree commerciali, alla fine degli anni ’80 la distribuzione geografica delle
vendite del gruppo era troppo sbilanciata sul mercato domestico e su
quello dell’Europa occidentale, era quindi necessario impostare una
nuova e più incisiva politica di internalizzazione. Una più chiara
definizione del posizionamento dei marchi, era necessario trovare una
corretta collocazione ai tre marchi (Fiat, Alfa Romeo, Lancia) cercando
di realizzare economie con la condivisione di parti componenti e di
piattaforme, ma stando attenti a non sovrapporre i ruoli dei marchi e
soprattutto a mantenere l’individualità dei modelli per quanto riguarda le
caratteristiche delle motorizzazioni, prestazioni, ecc. inoltre vi era
l’obiettivo di riposizionare i marchi del gruppo, e quello della Fiat in
primo luogo, verso la parte superiore dei segmenti della propria offerta.
L’innalzamento complessivo della qualità, la fiat in questo campo aveva
maturato scarse competenze soprattutto per il fatto di poter contare per
decenni su un mercato interno in forte crescita, ma alla fine degli anni ’80
era evidente che i produttori giapponesi avevano ormai stabilito dei
nuovi standard di affidabilità ai quali nessuno poteva più sottrarsi.
82
Purtroppo i cambiamenti avvenuti al vertice di Fiat Auto nel 1989
risultarono gravemente inadeguati alla sfida competitiva che doveva
essere affrontata, soprattutto per l’inadeguatezza del nuovo top
management che, anche nei casi in cui si mosse nella direzione richiesta
dallo scenario competitivo in via di formazione, lo fece con una gestione
contraddistinta da ritardi ed errori.
L’aspetto più rilevante è che se le carenze strategiche furono di non poco
conto, anche la gestione operativa risultò gravemente carente. Cesare
Romiti divenuto Ad di Fiat Auto alla fine del 1988, era innanzitutto
ansioso di ridurre il peso del settore auto, all’interno del gruppo. Ciò si
tradusse in uno spostamento dei profitti generati dal settore aut
automobilistico verso altri settori, facendo così crescere le attività
diversificate. Per quanto riguarda il rinnovo dei modelli vi fu indubbio un
rallentamento, si diede l’avvio a un programma di «Qualità Totale»
mirante ad innalzare la qualità delle autovetture e la loro affidabilità.
Tuttavia questo processo imitativo delle pratiche giapponesi basate sui
circoli di qualità, sulla sollecitazione di suggerimenti migliorativi da parte
dei dipendenti, pur ottenendo risultati inizialmente incoraggianti, si
dimostrarono non duraturi. Il risultato fu una netta contrazione delle
quote di mercato tanto in Italia che in Europa occidentale. Questo
risultato non mancò di allarmare Gianni Agnelli che indusse Romiti a
cedere nel dicembre del 1990 la posizione di amministratore delegato di
Fiat Auto a Paolo Cantarella.
L’ingegnere Cantarella, diede l’impressione di poter ridare impulso al
gruppo automobilistico procedendo al rinnovo della gamma. Nel 1993 si
ebbe l’importante successo rappresentato dal lancio del modello Punto,
che sostituiva il modello Uno, a cui seguì l’ampliamento della gamma
Fiat e Alfa Romeo. Tuttavia, anche forse per l’attivismo seguito alla stasi
83
nel lancio di novità dal 1989 al 1992, non tutti i modelli apparvero
all’altezza del compito loro assegnato, soprattutto dal punto di vista
qualitativo. Per alcuni ci furono rilevanti problemi di affidabilità, mentre
altre vetture risultarono stilisticamente inadeguate. Sia la stampa sia la
clientela furono concordi nel bocciare la nuova gamma di modelli e le
vendite complessive si ridussero drasticamente.
Nel 1995, con il lancio dei modelli abbinati Fiat Bravo/Brava si sarebbe
dovuta ottenere una svolta, ma fin dall’inizio si manifestarono dei
problemi di qualità che minarono alla base le notevoli possibilità del
modello Bravo, mentre le vendite della Brava non decollarono mai.
Nel febbraio del 1996 Giovanni Agnelli assunse la posizione di
presidente onorario e la sua precedente posizione venne assegnata a
Cesare Romiti. Nel marzo successivo si ebbe il passaggio dall’Ingegner
Cantarella alla posizione di amministratore delegato del gruppo Fiat ed il
subentro nella sua precedente posizione dell’ingegner Roberto Testore.
In nuovo assetto manageriale non ottenne i risultati sperati ed anzi la
situazione si fece sempre più difficile. La necessità di investire nelle
attività prevalenti del Gruppo Fiat spinse Gianni Agnelli a cedere
numerose imprese del gruppo e ad inserire nel Consiglio di
amministrazione di Fiat Spa una persona in grado di negoziare accordi
internazionali, Paolo Fresco, che vantava una lunga esperienza nella
General Elettric. Nel 1998 la posizione di Romiti, venne presa da Paolo
Fresco e Paolo Cantarella venne riconfermato Ad del Gruppo Fiat.
Nel biennio 1998-2000 il Gruppo Fiat effettuò importanti acquisizioni
fra le quali la società americana Case, per il consolidamento delle attività
del settore Macchine per il movimento terra e la Progressive tools &
Industries Co. (Pico), per il consolidamento della società Comau,
specializzata nei sistemi di produzione.
84
Queste acquisizioni, effettuate a prezzi particolarmente elevati, ebbero
un effetto rilevante nell’accentuare il fabbisogno finanziario dell’intero
Gruppo Fiat. Il prolungarsi della crisi, e la continua perdita di quote di
mercato nei principali mercati di riferimento avrebbe dovuto imporre un
pronto rinnovo del top management al quale invece la famiglia Agnelli, e
l’avvocato in prima persona, rinnovarono la fiducia.
Il progressivo accentuarsi della crisi di fiat Auto cominciò ad innescare
un circolo vizioso nel quale la situazione di deficit derivante dalla
gestione industriale spingeva verso un maggior indebitamento e una
contemporanea riduzione delle risorse interne in termini di occupazione,
investimenti industriali, ecc.
La massa di capitali da reperire allo scopo di attuare il progetto di
globalizzazione della Fiat, soprattutto per l’acquisizione della società
Case (macchine movimento terra) e Pico (sistemi di produzione), era
così rilevante che il suo autofinanziamento sarebbe risultato
inevitabilmente insufficiente e si sarebbe dovuto far ricorso in misura
rilevante al mercato internazionale dei capitali. Era quindi necessario che
la Fiat potesse presentarsi di fronte alla comunità internazionale come un
società guidata dagli stessi canoni propri di questa comunità.
Consisteva nel riuscire a mantenere livelli qualitativi e di affidabilità del
prodotto su standard comparabili a quelli della concorrenza, ma con una
struttura snella, e quindi meno costosa.
Il gioco tuttavia non riuscì, sia perché le scelte stilistiche dei modelli non
risultarono felici, sia perché la qualità percepita dal cliente del complesso
dei modelli costitutivi dei tre marchi del gruppo non apparvero allineati a
quelli della concorrenza.
La situazione di crisi del gruppo torinese si manifestò in maniera
eclatante nel dicembre del 2001 con le dimissioni di Roberto Testore, Ad
85
di Fiat Auto, mentre Paolo Cantarella restava al suo posto di presidente
di Fiat Auto e Ad del gruppo Fiat.
A Testore succedette Giancarlo Boschetti, data la sua formazione
tipicamente commerciale egli comprese subito che il punto più critico
della situazione era rappresentato dal rapporto con la clientela finale, che
si era gravemente deteriorato nel tempo. Un altro passo importante
dell’azione di Boschetti fu lo sviluppo di una nuova versione della Panda
e la riorganizzazione delle responsabilità gestionali dei tre marchi: Fiat,
Alfa Romeo e Lancia.
Di fatto però la sua azione si configurò come una gestione-ponte dal
momento che egli era ormai prossimo alla pensione e lasciò il gruppo a
metà 2003.
Il 2003 è l’anno in cui viene a mancare l’avvocato Agnelli il cui posto
venne preso dal fratello Umberto a sua volta mancato nel maggio del
2004. La casa automobilistica, oltre che l’intero Gruppo Fiat, si trovò
quindi in una fase di continui cambi di governante che hanno certamente
reso più difficile l’azione di risanamento.
3.3. Le ragioni della crisi
Le spiegazioni che si possono offrire per cercare di capire le ragioni di un
tale disastro sono di varia natura, alcune di esse sono esterne, altre
interne al mondo delle imprese.15
Per quanto riguarda le ragioni esterne, si può far riferimento alla
progressiva apertura dei mercati internazionali, alle crisi petrolifere, alla
ormai raggiunta maturità delle economie occidentali, all’emergere di
15 Comito V., «L’ultima crisi. La Fiat tra mercato e finanza», l’Ancora, 2005, Napoli, p. 15
86
nuovi paesi che si sviluppano fortemente le loro attività economiche, ma
questi sono fattori con cui hanno dovuto fare i conti, e da tempo, anche
le grandi imprese delle altre nazioni.
Nel caso specifico dell’Italia, il carattere dell’intervento pubblico verso le
nostre imprese ha avuto un peso rilevante nello sviluppo della crisi, non
tanto per la quantità delle risorse messe a disposizione dal mondo
politico, che spesso si sono rilevate sin troppo abbondanti, quanto per la
loro scarsa qualità. L’intervento pubblico si è concentrato, in genere,
soprattutto sul piano delle erogazioni finanziarie, e meno, invece, su
quello della politica economica e industriale qualificata. Le risorse sono
state poi stanziate prevalentemente in maniera casuale o attraverso criteri
politici, senza guardare agli interessi di lungo termine del paese e delle
stesse imprese. Non si sono saputi difendere i settori maturi, né,
peraltro, incoraggiare quelli innovativi e l’innovazione in generale. Così,
per esempio, per quanto riguarda la politica di alleanze con l’estero, che
in particolare il settore pubblico avrebbe dovuto perseguire, si è
proceduto per molto tempo in maniera del tutto casuale o distorta
(Gallino, 2003).
Per quanto riguarda le responsabilità del mondo imprenditoriale, le cause
che si possono citare sono molte.
Innanzitutto, a livello gestionale vi è, nell’impresa italiana, una spiccata
tendenza alla diversificazione, non appena si raggiungono solidi risultati
nel proprio core business, si manifesta una irrefrenabile spinta a deviare
l’attenzione verso settori diversificati, trascurando spesso i business
primari.
Il sistema imprenditoriale italiano ha poi tendenzialmente trascurato tutte
quelle attività portatrici i risultati nel lungo periodo, quali la ricerca,
l’innovazione, la formazione. In particolare, per quanto riguarda la
87
ricerca, è noto come l’Italia sia tra i paesi occidentali a spendere di meno
per questa funzione, e ciò da attribuirsi soprattutto alle imprese. Le
nostre imprese si sono sempre più spesso orientate all’innovazione di
processo, in particolare alla ricerca esasperata di metodologie finalizzate
all’abbattimento del costo del lavoro in fabbrica e molto meno, invece,
verso l’innovazione di prodotto, le esigenze di mercato, i movimenti
della concorrenza. (Gallino, 2003).
Dopo questa premessa di carattere generale sulle possibili crisi del
sistema delle imprese passiamo ad analizzare nel dettaglio la situazione
della Fiat, che sul fronte della finanza si presenta cruciale sin dai primi
anni della sua vita. Così quando nel 1907 si manifesta la prima e lunga
serie di crisi d’azienda, una delle banche principali, l’allora Credito
Italiano, interviene decisamente per salvare la situazione.
Il reperimento delle fonti di finanziamento è stata sempre una questione
molto tormentata, in relazione sia alla grande carenza di mezzi propri
delle imprese, sia alla struttura del sistema bancario e all’assenza della
borsa dall’Unità d’Italia ad oggi.
Bisogna ricordare che sino al 1968, la Fiat riusciva ad autofinanziare gran
parte delle necessità derivanti dalla gestione operativa e dallo stesso
sviluppo. Questa situazione era da collegare anche al fatto che i singoli
mercati nazionali erano, in quel periodo, in forte crescita, essi erano,
inoltre, sostanzialmente chiusi, nonché dominati da uno o pochissimi
produttori locali. Ma la grave crisi industriale italiana dei primi anni
Settanta, con la riduzione dei livelli di crescita del mercato, l’apertura
progressiva delle frontiere, la contestazione operaia, l’inflazione in forte
salita, la prima crisi petrolifera, pone dei problemi molto rilevanti.
A questi problemi si rispose ricorrendo nuovamente all’assistenza di
Mediobanca. La situazione economica e finanziaria della Fiat migliora
88
per quasi tutti gli anni ‘80, in relazione al notevole incremento dei
risultati produttivi e di mercato.
Negli anni ’90, a seguito dei contrasti tra la famiglia Agnelli e Enrico
Cuccia si verifica la rottura tra la Fiat e Mediobanca, mentre la stessa
banca d’affari nel mutato contesto dei mercati finanziari ormai aperti,
appare in sempre maggiori difficoltà. Si pone, così, fine al meccanismo
delle relazioni privilegiate. La Fiat non ha più un ancoraggio stabile dal
punto di vista finanziario.
Negli ultimi anni, l’azienda ha, in parte, cercato di rimediare alla perdita
del legame privilegiato con Mediobanca, creando un rapporto abbastanza
stretto con quattro grandi banche nazionali (Capitalia, IntesaBci,
SanPaolo Imi, Unicredit).
Al manifestarsi e all’intensificarsi di risultati economici negativi e
parallelamente alla riduzione di mezzi propri, il livello dell’indebitamento
è di recente notevolmente cresciuto, collocandosi anche sull’onda
dell’accettazione dei nuovi paradigmi che, in campo finanziario, sono
venuti, nell’ultimo periodo, dagli Stati Uniti.
Bisogna sottolineare come l’origine della crisi della società non sia solo di
tipo finanziario ma vada fatta risalire alle decisioni errate che sono state,
prese, a livello operativo, dalla famiglia e dal management. La Fiat ha
speso somme molto rilevanti per un forte sviluppo dei processi di
diversificazione e per la cancellazione di alcuni titoli del gruppo dal
listino (Fidis, Magneti Marelli, Toro, Comau).
Le vicende mostrano come la famiglia Agnelli, e in particolare, Gianni,
non siano riusciti ad esercitare un adeguato ruolo di guida, e non siano
stati in grado, più in generale, di risolvere in modo soddisfacente i
numerosi conflitti di potere che, nel tempo, si sono scatenati all’interno
del gruppo.
89
Per quanto riguarda la politica delle acquisizioni, la Fiat ha cercato di
muoversi in molte direzioni, senza mai ottenere i risultati sperati. Furono
numerosi i tentativi della famiglia Agnelli e di alcuni suoi dirigenti di dare
al settore dell’auto una dimensione più rilevante, giudicando che, da sola,
l’azienda non ce l’avrebbe fatta.
A parte gli sfortunati episodi dell’acquisizione temporanea della Citroën,
un progetto che non si realizzò per l’opposizione degli altri produttori
francesi, e della cessione della Seat negli anni ’60, un altro tentativo,
molto rilevante, fu l’ipotesi di fusione con la Ford Europa nel 1985,
un’opportunità poi sfumata anche per l’opposizione di Romiti.
Negli anni ’90, ci furono poi tentativi di acquisizione di Volvo, di
Chrysler, Bmw e, più recentemente, di Daewoo, ma anche di Renault e
quello più limitato con la Mitsubishi.
Risale ormai a diversi anni fa l’intesa, limitata ai veicoli commerciali e alle
monovolume, con Peugeot. Si perfezionò un accordo con la Suzuki per
la realizzazione di fuoristrada. È ovviamente, riuscito, a suo tempo, il
tentativo di acquisire l’Alfa Romeo.
Tutti questi casi indicano come la Fiat, da una parte, mostra molto
timore a lanciarsi veramente in un’avventura impegnativa, forse
conoscendo i propri limiti in termini di risorse umane e finanziarie,
dall’altra, bisogna registrare la grande diffidenza che, a livello finanziario
e politico, circonda spesso, all’estero, le imprese italiane, di frequente
escluse dalle possibili contese per la conquista di qualche preda ambita.
L’internalizzazione preconizzata dall’Avvocato Agnelli prese invece
corpo nella seconda metà degli anni ’90 con un diverso schema di
internalizzazione, basato sulla costruzione di un world car orientata ai
mercati di prima motorizzazione e denominato Progetto 178. Si trattava
di realizzare una famiglia di vetture a partire dallo stesso pianale da
90
produrre in un pluralità di paesi, ma in modo rigorosamente
standardizzato.
La globalizzazione della vettura era mirata ai paesi in fase di prima
motorizzazione come il Brasile, l’Argentina, la Polonia, la Turchia,
l’India, la Cina. L’obiettivo era quello di arrivare verso il 2003 a cumulare
una produzione complessiva di circa un milione di unità da produrre in
una dozzina di paesi. L’idea aveva del buono anche se la crisi finanziaria
internazionale del 1998 portò a un forte rallentamento del progetto.
L’accordo di Fiat con la General Motors realizzato nel 2000 può essere
considerato un nuovo sviluppo del progetto di internalizzazione che la
casa torinese intendeva realizzare.
Il modello seguito poi nell’attività di produzione della Fiat, per quanto
riguarda i rapporti con i fornitori esterni, è quello della fabbrica integrata.
Una scelta dettata, per la Fiat, da uno stato di necessità, poiché
mancavano, all’epoca, da una parte imprese esterne in grado di produrre
materie prime, componenti, dall’altro era invece da attribuire a scelte
originate da considerazioni di tipo economico, sociale e politico.
Questo modello iniziale subì nel tempo delle modifiche, quando nel
periodo dell’autunno caldo, per uscire dalla crisi, la Fiat iniziò a dislocare
verso l’esterno alcune lavorazioni importanti, affidandole di frequente a
dirigenti o ex dirigenti del gruppo. Si mirava così a ridurre i costi e ad
acquisire flessibilità nei rapporti con la manodopera.
Dai primi anni ’90, invece, ci troviamo di fronte a un nuovo ciclo che
tocca tutti i settori e tutti i paesi, la cosiddetta fase di outsourcing, che
comporta oltre a un aumento dei livelli di esternalizzazione, anche
rapporti più stretti e di lungo periodo tra imprese e fornitori.
91
Si colgono i segni di una più generale tendenza al passaggio dall’impresa
organica, altamente integrata, all’impresa a rete, o comunque a
organizzazioni molto più agili e flessibili che nel passato.
Questa tendenza si traduce, qua e là, anche nel fatto che i produttori di
auto si liberano delle aziende da loro controllate nel settore della
componentistica.
La tendenza all’esternalizzazione non è spinta solo dalla necessità di
ridurre i costi e l’intensità di capitale delle proprie attività, ma anche
dall’esigenza di assicurarsi capacità di progettazione e di
ingegnerizzazione. Viene cioè richiesto ai fornitori di assumersi crescenti
responsabilità nella progettazione e nel miglioramento dei prodotti loro
assegnati.
Queste trasformazioni hanno creato problemi a tutte le imprese
automobilistiche e nello specifico, per la Fiat.
L’introduzione della fabbrica integrata e poi della fabbrica modulare
porta a una nuova selezione dei fornitori, che riflette il passaggio
dall’acquisto di singoli particolari a quello di sistemi e moduli.
Gli stessi piccoli fornitori legati tradizionalmente alla Fiat, a seguito di
tale mutamenti, oltre che per le pressioni verso una riduzione dei costi e
per le ricorrenti crisi del gruppo, tendono a diversificare gli sbocchi e a
cercare di dipendere meno di prima dalla società di Torino.
Una specificità del gruppo è rappresentata dal fatto che, mentre le altre
società dell’auto si allontano sempre di più dalla componentistica (il caso
della General Motors e della Ford), la Fiat investe somme ingenti, che in
parte sottrae al settore dell’auto. Magneti Marelli, Comau, Teksid
rappresentano delle imprese tecnologicamente avanzate, che hanno
bisogno di rilevanti investimenti ma che non danno grandi redditi.
92
Nell’ultimo periodo, la Fiat ha tentato di ridurre la dipendenza di tali
società dal gruppo, aprendole maggiormente al mercato esterno.
L’azienda inoltre nei primissimi anni del nuovo millennio, presenta,
rispetto agli altri concorrenti, maggiori difficoltà a ridurre i tempi di
introduzione sul mercato dei nuovi modelli, e questo in relazione ad
almeno tre fattori, da una parte, essa ha investito poco nella ricerca e
nell’innovazione, dall’altra, ha continuato a mostrare a lungo una
preoccupante lentezza di reazione agli eventi, in relazione ad una
struttura organizzativa molto pesante e molto lenta a reagire e infine ha
scontato una mancanza di risorse finanziarie adeguate.
L’esternalizzazione spinta praticata dalla Fiat nell’ultimo periodo ha
comportato in positivo un risparmio di risorse finanziarie, ma forse,
anche, la perdita di competenze rilevanti. Per alcuni autori, il
decentramento del gruppo si è accompagnato a un impoverimento
strutturale del ciclo industriale, svuotando l’impresa di alcune
competenze fondamentali.
Può essere questo a questo punto importante fornire anche alcune breve
indicazioni per quanto riguarda l’evoluzione della struttura di fabbrica.
La tradizionale organizzazione del settore vedeva al centro del sistema, la
catena di montaggio, classico esempio di lavoro ripetitivo, di ambiente di
lavoro nocivo, di concentrazione in un unico luogo di grandi masse di
persone, di rigidità di comportamento e grande reazione ai mutamenti
dell’ambiente. È noto a quali resistenze questo tipo di organizzazione
abbia comportato, in particolare nei grandi stabilimenti come Mirafiori,
con la sua lata concentrazione di lavoro operaio. A partire dagli anni ’70,
la Fiat ha cercato di intervenire in modo massiccio su questo tema e la
situazione, nel tempo si è evoluta. Il problema è stato affrontato dal
management con vari strumenti, quali ad esempio la riduzione delle
93
dimensioni degli stabilimenti, anche attraverso il ricorso massiccio
all’esternalizzazione, lo spostamento di una parte delle produzioni al Sud,
l’aumento della produttività grazie anche all’automazione di molte
lavorazioni.
Dietro tutti questi mutamenti è tuttavia rimasta, da parte della dirigenza
Fiat, una visione di fondo della fabbrica come un luogo in cui controllare
strettamente e con metodi fortemente autoritari il comportamento e le
prestazioni della forza lavoro. Le agitazioni operaie, mostrano come la
Fiat continui a trascurare largamente il fattore umano, imponendo
condizioni di lavoro alla lunga insostenibili, nonché salari molto bassi.
Non si può comprendere forse molto della situazione e dei problemi
della Fiat se non si coglie il senso dell’evoluzione dei suoi rapporti con i
poteri pubblici e con la società civile. Nelle difficoltà, ma anche nei
periodi di prosperità, la Fiat è stata a più riprese aiutata dal governo.
Sicuramente i rapporti fra la dirigenza dell’azienda e i decisori pubblici
non hanno avuto un andamento costante è indubbio che tutti i governi
hanno dovuto tener conto delle richieste della Fiat e, più in generale, del
suo potere d’influenza.
Dalla fine degli anni ’80 agli inizi degli anni ’90 lo Stato ha continuato ad
intervenire frequentemente in favore dell’azienda torinese con vari
strumenti (protezionismo, incentivi di diverso genere), a partire dagli
anni ’90 fino ai giorni nostri, il sostegno pubblico alla Fiat si è
progressivamente ridotto come conseguenza della intensificazione del
processo di europeizzazione.
La Fiat ha avanzato richieste ai decisori pubblici che non hanno lesinato
l’aiuto quando riscontravano comunanza di interessi con la dirigenza
dell’azienda, mentre lo hanno negato quando le loro priorità erano
diverse da quelle dalla Fiat.
94
Gli aiuti concessi dallo Stato italiano alla Fiat sono stati di varia natura,
quelli più consistenti sono certamente stati quelli volti ad incentivare gli
investimenti del Gruppo Fiat nel Mezzogiorno d’Italia, vi sono stati poi
incentivi per le attività di ricerca e sviluppo (R&S), sostegni per
ristrutturazione degli impianti meridionali e innovazione, sgravi fiscali,
barriere alle importazioni e barriere fiscali, gli ammortizzatori sociali
utilizzati per attenuare gli effetti negativi, in termini di stabilità sociale,
derivanti dalla crisi delle aziende. Le tre forme più usate di
ammortizzatori sociali sono il «prepensionamento», con il quale viene
concessa ai lavoratori in esubero la possibilità di fruire anticipatamente
delle prestazioni pensionistiche, la messa in «mobilità», che permette di
dislocare i lavoratori in eccedenza presso altre unità produttive carenti di
personale. La «cassa integrazione guadagni ordinaria e straordinaria» (Cig
e Cigs) che consistono nell’erogazione di un trattamento salariale
integrativo o sostitutivo per quei lavoratori sospesi dall’attività lavorativa
o costretti a ridurre il proprio orario di lavoro, a causa di momentanee
difficoltà dell’azienda.
L’analisi fin qui svolta ci permette ora di individuare delle conclusioni
plausibili sui vari aspetti della gestione aziendale della Fiat.
Si può innanzitutto, trarre la convinzione che nel gruppo di Torino,
dopo la conclusione del suo periodo d’oro alla fine degli anni Ottanta,
fosse maturata, a torto o a ragione, l’idea che esistessero rilevanti
difficoltà, in Europa, a competere da soli nel business dell’auto o,
comunque, che non fosse possibile individuare significative potenzialità
di crescita di tale area. La Fiat valutava, a maggior ragione, di non essere
in grado di entrare in maniera significativa nel mercato delle altre aree
sviluppate, come Stati Uniti e Giappone. Questa convinzione si intreccia
contemporaneamente con una crisi istituzionale al vertice della società e
95
l’uscita dal gruppo degli specialisti che avevano fatto, almeno per un
certo periodo, la fortuna dell’auto e della stessa Fiat.
I risultati negativi ottenuti sul fronte economico e finanziario si
sommano agli inizi del nuovo millennio, alla situazione generale del
gruppo, aggravata in Italia anche dalla perdita progressiva di una serie di
punti di forza nel campo della finanza, della gestione dei fornitori, di
egemonia sulla Confindustria, nella politica e nell’opinione pubblica. Gli
anni che vanno dal 2000 al 2005 portano l’azienda in un’impasse
rilevante, dalla quale cerca di premunirsi, almeno in parte, predisponendo
un possibile vendita del settore auto alla General Motors.
Così, per gli Agnelli del 2000, la Gm restava il partner più forte del
mondo, il migliore possibile per assicurare la continuità del prodotto
Fiat, in un campo in cui sembrava ormai improbabile fare da soli.
Agnelli diceva di aver preferito diventare socio della Gm piuttosto che
vendere ad altri. Tale infatti era l’alternativa reale, se la Fiat non avesse
scelto il partner americano avrebbe dovuto accettare l’altra offerta,
secondo molti interessante, che le era stata avanzata dalla
DaimlerChrysler e che prevedeva la cessione del settore auto.
La fiducia risposta nella Gm consisteva in due elementi distinti ma
convergenti, il primo era di sicuro rappresentato dalla certezza di Agnelli
circa la superiorità del modello americano, secondo la visione che gli era
stata trasmessa dal nonno, il secondo, determinante, stava nella gradualità
con cui gli americani intendevano la propria egemonia sul settore e la
amministravano.
Si trattava di operare uno scambio azionario che avrebbe sancito la
cooperazione nel campo della produzione di motori e delle piattaforme,
proiettando l’eventualità di un’incorporazione in un futuro non ben
definito. Era quanto bastava a salvare, almeno nel breve periodo,
96
l’autonomia della Fiat e a far dire che gli Agnelli non avevano rinunciato
alla produzione automobilistica, dismettendo la missione industriale che
era stata del fondatore.
Difendendo il valore della put option, destinata a diventare la pietra dello
scandalo nelle pratiche di divorzio tra la Fiat e la Gm, insisteva sul fatto
che essa rappresentava una clausola di salvaguardia, in un certo senso
estrema, di ultima istanza.
Fatto sta che la famiglia Agnelli, per bocca del suo capofila, escluse nel
2000 un’uscita dal settore automobilistico, quanto meno nell’immediato e
negli anni a venire.
Per la Fiat, il teatro della globalizzazione possedeva un’innegabile
impronta americana, che bisognava rispettare.
Le speranze che nel marzo del 2000 la Fiat aveva riposte nella Gm,
scorgendo in essa il porto sicuro in cui trovare riparo alle insidie della
concorrenza su scala globale, dovevano rivelarsi illusorie. 16La Gm non
era più il titano industriale che Gianni Agnelli aveva evocato quando si
era soffermato sui vantaggi dell’alleanza. Dopo d’allora, infatti, doveva
incominciare la stagione più difficile per quello che era, sì, il colosso di
Detroit, ma un colosso dai piedi d’argilla, per di più con incrinature
evidenti. Dal 2000 la quota di Gm sul mercato statunitense scende
rapidamente. La reazione sarà affidata a politiche di promozione
commerciale spericolate, gli sconti concessi ai dipendenti verranno estesi
a tutta la clientela e, pur di vendere, la Gm parrà disposta a incentivi mai
così vantaggiosi per i consumatori americani.
La Gm ansima poi sotto i colpi di una concorrente spietata e
inarrestabile, una tendenza che doveva far parlare, negli Stati Uniti, della
16 Berta G., «La Fiat dopo la Fiat. Storia di una crisi, 2000-2005», Milano, Mondadori, 2006,
p. 57
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«fine di Detroit», a causa di un offensiva giapponese che ha eroso la
storica supremazia che le grandi case americane detenevano da sempre
nel settore.
A impressionare e sconcertare più di tutto è stata l’ascesa inarrestabile
della Toyota, legittimatasi come il modello industriale di maggior
successo, oggi inattaccabile dai produttori occidentali per
organizzazione, qualità, performance.
Insomma, l’egemonia dell’Asia nel sistema mondiale dell’auto agli inizi
del XXI secolo è fuori discussione, questa è divenuta la scacchiera che
simboleggia il mutamento degli assi produttivi sui quali si disloca il
sistema dell’auto. La Cina e l’India, dopo il Giappone e la Corea,
completano l’immagine di un settore radicalmente trasformatosi nel
corso dei primi anni di questo secolo.
Questa è la cornice in cui è affiorata e si è inasprita la crisi della Fiat.
Il profilo di una Fiat che individuava fuori dall’Italia i suoi assi di
sviluppo e che induceva d’altronde disaffezione e rafforzava le spinte
all’opposizione frontale all’interno dello schieramento sindacale. La
punta radicale del sindacato, la Fiom-Cgil, si spingeva addirittura a
parlare di una «strategia dell’abbandono».
Il patto del 2000 non potè essere risolutivo. Servì soltanto a dare a
l’avvio a una procedura che tutti comunque pensavano incamminata a
segnare la fine, in un arco medio di tempo, della storia dell’automobile
italiana. Dello scatto d’orgoglio dell’azionista, che si proclamava poco
disposto a liquidare per un cumulo di marchi o di dollari una tradizione
industriale centenaria. E può anche darsi che gli Agnelli temessero di
incappare nelle resistenze del governo e del sistema politico, restii ad
accettare il passaggio integrale della produzione d’auto sotto il controllo
straniero, con tutti i prevedibili interrogativi sul mantenimento degli
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impianti in Italia e sui volumi dell’occupazione che un tale cambiamento
poteva implicare. È altresì vero che per l’azionista di riferimento della
Fiat si sarebbe aperta la possibilità di presentare quella cessione non
come una ritirata, bensì come un’ascesa internazionale senza precedenti
per un gruppo italiano.
Era poi evidente, in quell’inizio del 2000, che Torino stava smarrendo
autorevolezza e presa anche nel mondo imprenditoriale. Trascorsi i
festeggiamenti del centenario, la Fiat veniva a scoprire che il suo peso
specifico, anche sul terreno politico che le era più prossimo, quello
dell’associazione industriale, era in rapida contrazione. Subito dopo
l’intesa con la Gm ci fu il rinnovo della presidenza della Confindustria,
contrariamente alle previsioni ufficiali, il candidato lanciato da Torino, il
suo ex manager Carlo Callieri, uno fra gli uomini Fiat di spicco, venne
clamorosamente battuto ai voti a vantaggio di una candidatura
alternativa, quella dell’industriale napoletano Antonio D’Amato.
Con Callieri risultò sconfitta una politica e, forse di più, uno stile di
condotta, della rappresentanza degli interessi imprenditoriali, sia per il
processo di erosione interna che avevano subito nel periodo della
concertazione sia per la sbrigativa avventatezza con cui la sua
candidatura era stata sostenuta proprio nell’ambiente dal quale aveva
tratto origine. Di sicuro, per la Fiat suonò a quel punto un campanello
d’allarme che non era possibile non ascoltare. Liquidata la svolta della
Confindustria con la battuta piena di disappunto di Gianni Agnelli, da
allora iniziarono a mutare i toni con cui la Fiat si inseriva negli schemi del
gioco politico italiano. La Fiat modificava in maniera percettibile la
propria dislocazione politica, avendo cura soprattutto di non apparire
iscritta in via di principio fra gli oppositori del blocco del centrodestra,
com’era avvenuto invece dal 1994 in avanti. Tentava insomma di ridurre
99
il solco che la separava da Berlusconi, di cui preconizzava il successo.
Agiva comunque nei modi che erano più congeniali a se stessa e al suo
leader, per esempio favorendo l’ingresso di personalità di prestigio
nell’esecutivo che si sta per formare, Renato Ruggiero, che della Fiat era
stato vicepresidente, poteva essere raccomandato come un eccellente
ministro degli Esteri. Su una scala minore, veniva eletto a Torino per
Forza Italia il direttore della Fondazione Agnelli, Marcello Pacini, un
cattolico vicino un tempo a Umberto Agnelli.
Come volevano far intendere i molti che alludevano all’urgenza per la
Fiat di ricorrere all’appoggio, o quanto meno al consenso, del governo in
vista delle scadenze, in Italia e all’estero, che incombevano.
Sebbene non si osasse parlarne apertamente, l’aria di Torino s’era fatta
brutta. Fra il gennaio e il maggio 2002, l’azienda visse una delle
congiunture più precarie, che la davano sull’orlo del collasso, sotto la
pressione delle banche creditrici, a cui si aggiungeva il clima ostile del
sindacato.
Giovanni Agnelli è lontano da Torino, la malattia lo tiene a New York,
togliendolo dall’arena dove la Fiat gioca la sua partita. Al lingotto non
esiste chi possa assicurare un ruolo politico minimamente paragonabile al
suo e sia in grado di parlare all’opinione pubblica, alle istituzioni
nazionali e locali, ai sindacati.
Nel 2002, la Fiat sigla un’intesa con le banche creditrici per un prestito
convertendo di 3 miliardi di euro, che ha lo scopo di far fronte alla sua
emergenza finanziaria.
La Fiat elabora poi un «piano industriale» che altro non è se non una
radicale razionalizzazione e revisione delle strutture di costo, in modo da
far corrispondere la capacità produttiva alle possibilità di assorbimento
della produzione automobilistica da parte del mercato.
100
Il piano della Fiat è accolto male sin da principio, prevede la sospensione
totale delle attività a Termini Imerese, l’impianto che la Fiat possiede in
Sicilia, uno dei primi ad aver concretato la svolta verso gli investimenti
nel Mezzogiorno negli anni Settanta. Per tutto il resto dell’anno, Termini
Imerese diverrà perciò il simbolo degli effetti sociali della crisi Fiat e dei
suoi costi umani. L’urgenza di arginare le falle che si aprono nel sistema
dell’occupazione spiana la strada all’ingresso della politica sulla scena
della crisi industriale, con un ruolo di primo attore che fino ad allora non
aveva conquistato. Il piano della Fiat, con l’instabilità sociale che
immediatamente determina, è l’antefatto dell’incontro di Arcore fra
Silvio Berlusconi e il vertice Fiat, in cui vengono fissate nuove gerarchie
fra l’autorità politica e il ceto dirigente dell’industria. Dopo la riunione
nella residenza di Berlusconi diverrà chiaro a tutti che il tempo in cui era
Torino a mediare per la legittimazione del centrodestra è tramontato,
tocca adesso al potere politico far circolare ipotesi sul futuro dell’auto
italiana.
Stretta fra la pressione delle banche creditrici, che enfatizzano le tappe
del risanamento finanziario, e i tentativi della Gm di segnare le distanze
dal partner italiano, la Fiat non è riuscita a convincere di star seguendo
un proprio senso di marcia.
Il problema e che i tre attori principali della vicenda Fiat (l’azionista
storico, le banche creditrici maggiori e la Gm) si condizionano tutte e tre
a vicenda, contribuendo a determinare una situazione per molti aspetti
paralizzata.
All’azionista, cioè alla famiglia Agnelli, le banche chiedono di fare fino in
fondo la propria parte. È ben difficile immaginare che essa possa resister
alla richiesta degli istituti di credito di mettere in vendita quelli che
appaiono i gioielli residui del gruppo Fiat. Un rifiuto, a questo punto
101
sarebbe impossibile, perché potrebbe voler dire delegare ad altri il
tentativo di risanamento. Un’ipotesi che certo la famiglia Agnelli non
può sottoscrivere. Le banche recitano la parte di chi deve esigere i propri
crediti e non è disposto a con concedere altri prestiti a un interlocutore
verso il quale ci si è già esposti troppo in passato e in cui perciò non si è
autorizzati a riporre fiducia ulteriore. Per un tratto non breve, le banche
saranno inclini a pensare che, prima o poi, la Fiat possa accedere alla
famosa opzione put nei confronti della Gm, liberandosi dell’impaccio
dell’Auto.
Quanto al terzo attore, la Gm vede nell’opzione put una minaccia alla
stabilità dei propri conti aziendali, già messi in pericolo dalla falla record
creata dal suo fondo pensionistico. La Gm intende mantenere la
collaborazione industriale con la Fiat senza addentrarsi in alcuna nuova e
pericolosa alchimia societaria. Coltiva semmai per un po’ il progetto di
appropriarsi delle attività della Fiat in Brasile, l’unica ragione che
potrebbe giustificare dal suo punto di vista una trattativa con Torino,
grazie alla posizione di forza che la Fiat mantiene su un mercato
promettente. Ma per la Fiat, al contrario, ciò equivarrebbe a rinunciare a
un autentico centro dinamico del suo sistema e al tassello migliore della
strategia di globalizzazione che aveva tentato di attuare.
Lo sbocco finale dipende, in ultima analisi, dall’intervento del quarto
attore, su cui grava il peso del rilancio aziendale della Fiat, assente per
tutto il 2002 e nel primo scorcio del 2003, il management. La crisi Fiat,
infatti, si è radicalizzata a causa di un vuoto di guida imprenditoriale.
Tutto questo passa direttamente in eredità alla nuova gestione, che
dichiara di porsi una scadenza ravvicinata per rendere conto del proprio
progetto strategico. Il piano di rilancio diffuso il 26 giugno 2003
dovrebbe, prima di tutto negli intenti dell’azienda, il punto di vista della
102
crisi Fiat. Vuole simboleggiare la fine prolungata fase di incertezze
gestionali che hanno dato luogo ad un grave dissesto aziendale.
Il 27 ottobre la Fiat comunica di aver deciso di posticipare di un anno
l’esercizio dell’opzione put con la Gm. In pratica, era una realistica presa
d’atto circa il venir meno sia degli scenari tratteggiati all’atto della grande
alleanza del 2000 sia delle possibilità di perseguire l’intesa con gli
americani sul piano finanziario. La Fiat mostra così di credere di non
poterla spuntare con la Gm, risoluta a ricorrere alle vie legali pur di
impedire una cessione che incontra a Detroit un’opposizione
intransigente, alimentata dall’insostenibilità dei costi di un’eventuale
incorporazione della società automobilistica del Lingotto. Anche in
questo caso, la Fiat farà buon viso a cattiva sorte, sottoscrivendo quella
che è di fatto una rinegoziazione dell’accordo, perché consapevole del
rischio di una contesa legale con la Gm, affidata al giudizio di un
tribunale americano, come prevede il complesso protocollo d’intesa.
L’ultimo scorcio del 2003 riserba alla fiat qualche elemento di
soddisfazione, benché i conti aziendali inducano a posticipare le
aspettative di un vero turnaround. La nuova Panda riceve il premio come
«auto dell’anno» da parte della stampa specializzata europea, quel che
basta per legittimare la tendenza a un certo apprezzamento per la politica
di rinnovamento del prodotto.
Il risanamento, tuttavia, procede con passo più lento e, soprattutto, più
incerto, alla politica delle dismissioni (nel febbraio 2004 vengono cedute
la quota di maggioranza della Fiat Engineering pari al valore di 54 milioni
di euro e azioni Edison per un valore di 65 milioni) non si accompagna
una razionalizzazione interna incisiva.
Uno degli effetti indesiderati era quello poi di attribuire centralità, e
dunque potere contrattuale, ai 5000 dipendenti di Melfi. Nei primi mesi
103
del 2004 quella centralità era evidente al punto che i dipendenti non
accettavano più di essere, contrattualmente parlando, la serie B del
pianeta Fiat in Italia. Iniziano così una serie di scioperi contro la
cosiddetta «doppia battuta», un sistema di organizzazione del lavoro che
finisce per costringere i dipendenti a svolgere per due settimane
consecutive lo stesso turno di lavoro. La conseguenza immediata è che,
in questo caso, il turno di notte dura per dodici giorni consecutivi. Un
ritmo di vita insopportabile per chi alle otto ore di lavoro notturno ne
deve sommare tre o quattro di trasferimento della casa alla fabbrica e
viceversa. A questo si aggiunge la differenza di trattamento salariale, lo
stesso lavoro a Mirafiori viene pagato 1550 euro lordi annui in più
rispetto a quanto non sia pagato a Melfi. Nella prima fase a organizzare
gli scioperi è principalmente la Fiom, seguita dai Cobas. Tuttavia la
situazione precipita quando di fronte ai cancelli la polizia interviene con
durezza contro gli scioperanti. Cariche e manganellate finiscono per
costringere anche i sindacati moderati a unirsi agli scioperanti nei giorni
successivi.
Sotto la minaccia dello sciopero ad oltranza del suo stabilimento più
redditizio, il Lingotto concede sia l’abolizione del sistema della «doppia
battuta» sia il sostanziale adeguamento della busta paga dei dipendenti di
Melfi a quella degli altri dipendenti del Gruppo. L’accordo sarà unitario,
uno degli ultimi firmati a livello aziendale in Fiat.
La vicenda della rivolta di Melfi è la dimostrazione che, quando entrano
in sciopero i lavoratori di uno stabilimento nevralgico, dove la
produttività è alta e il prodotto è decisivo per le sorti dell’azienda, il
Lingotto è costretto al compromesso. Dalla rivolta del 2004 in poi la Fiat
sarà particolarmente attenta a non favorire il prevalere in fabbrica della
linea della Fiom e, in generale, dei sindacati meno moderati. E non
104
cesserà di tentare di sterilizzare gli effetti della contrattazione pregressa
cercando di ripartire da zero.
La morte di Umberto Agnelli non arriva imprevista, perché da settimane
circolavano voci allarmanti sul suo stato di salute, non di meno,
costituisce un evento traumatico perché riapre immediatamente i travagli
nel gruppo dirigente della Fiat, proprio quando l’azienda è nel momento
più grave e problematico della sua storia centenaria. Il suo decesso mette
a rischio il cammino del risanamento aziendale che appariva avviato.
La candidatura di Montezemolo, annunciata ufficialmente nel gennaio
del 2004, si propone come un ponte gettato a riunire tutte le anime
dell’industria italiana, la sua collocazione e suoi legami personali con gli
Agnelli ne facevano un uomo dell’establishment, ma la posizione nella
Ferrari lo distingueva anche come alfiere del made in Italy e dei successi
italiani nel mondo, accentuandone la capacità di parlare nel nome di tutti.
D’altronde, Montezemolo non poteva neppure essere catalogato a priori
fra gli avversari di Berlusconi, giacchè era stato proprio lui a offrirgli una
carica nel suo governo all’indomani della vittoria nelle elezioni politiche
del 2001.
Con Montezemolo la Confindustria sembra essere riuscita nell’intento di
recuperare non soltanto ruolo e visibilità nel sistema politico italiano ma
anche nelle relazioni industriali, terreno cui, da subito, Montezemolo ha
mandato i primi messaggi di distensione. È improbabile che il desiderio
di rivalutare l’esperienza della concertazione si possa tradurre in una
prassi conseguente. Anzitutto, perché la concertazione necessita di un
contesto politico favorevole e di un ruolo attivo da parte del governo.
Qui si è ormai in un ambito che non è più quello della concertazione, se
qualcosa vi è da concertare ciò riguarda la decisione di ridisegnare
l’ordinamento della contrattazione collettiva, un’ipotesi che ha trovato
105
nella Cgil un interlocutore assolutamente indisponibile. L’apertura
iniziale di Montezemolo alla Cgil ha prodotto la conseguenza di
restaurare un’unità minimale fra i tre sindacati metalmeccanici. Per la
Fiom, la stagione delle trattative separate è finita e non c’è più margine se
non per accordi che vedevano assieme tutte e tre le sigle sindacali.
Rimarrà l’auspicio che il sindacato ritrovi una linea unitaria e realistica in
materia di relazioni industriali per evitare che si interrompa il dialogo con
la Confindustria. Proprio quest’ultima invocherà un corso improntato
alla collaborazione nel negoziato coi sindacati.
3.4. E poi arriva Marchionne
Persone, persone, persone!
Non più forza lavoro. Non più manodopera. Non più dipendenti. E nemmeno risorse
umane. Ma soltanto persone. E collaboratori.
« Le aziende trovano la loro forza nei collaboratori capaci e motivati».
«Abbiamo bisogno di persone competenti, determinate, coinvolte».
«All’impresa non servono lavoratori usa e getta».
Il 1° giugno 2004, Sergio Marchionne diventa amministratore delegato di
una Fiat che possiede dimensioni ridotte rispetto a quelle che l’avevano
caratterizzata in passato. 17
Nel primo semestre della sua nuova carica, Marchionne vuole giocare la
partita intorno all’opzione put dell’accordo con la Gm.
17 Berta G., «La Fiat dopo la Fiat. Storia di una crisi, 2000-2005», Milano, Mondadori, 2006,
p. 147
106
Quanto più si ci avvicina alla data in cui la Fiat potrà esercitare il suo
diritto di vendita, tanto più Marchionne ostenta sicurezza nelle buone
ragioni dell’azienda. Nessuno può immaginare che la Gm, che procede
ad azzerare in bilancio il valore della sua partecipazione nella Fiat Auto,
sia davvero disposta a gravarsi di un simile peso. La casa americana fa
circolare voci di un’offerta molto bassa al partner italiano per lo
scioglimento dell’alleanza, inizialmente si parla di una somma di 200
milioni di dollari. In passato, la Gm s’era disposta a negoziare l’opzione
put, ma a costi che sarebbero stati altissimi per la Fiat, come la cessione
delle attività automobilistiche in Brasile, la realtà più attrattiva grazie al
primato detenuto sul mercato.
Il gioco sta tutto nelle mani di Marchionne, il quale nelle poche
dichiarazioni che fa pervenire dà prova di un’inattaccabile sicurezza. Fin
dalle prime battute della trattativa, i manager della Gm capiscono che
l’interlocutore con cui devono vedersela è «uno di loro», un dirigente di
scuola nordamericana, e lo stesso Marchionne che dichiarerà di pensare e
di fare i conti in inglese. A metà febbraio, dopo mesi di trattative incerte,
la contrattazione si chiude con un accordo che permette di sventare una
soluzione per via giudiziaria, troppo rischiosa per entrambi per entrambi
i contendenti.
Negli ambienti d’affari italiani, si enfatizzano le doti di negoziatore
dell’amministratore delegato della Fiat, l’essere riuscito a strappare due
miliardi di dollari appare come un successo insperato, dopo l’iniziale
fermezza esibita dalla Gm.
Con la cifra ottenuta dalla Gm, la Fiat può tamponare le perdite
dell’Auto, ma non risolve ancora nessuno dei problemi strutturali che
l’affliggono.
107
Sciolto il patto con la Gm, Marchionne ha di fronte a sé due nodi che
condizionano il destino della Fiat, il primo, riguarda il ricambio di alcuni
uomini collocati in posizioni decisionali di rilievo. La pronunciata crisi di
Fiat Auto e poi la scomparsa delle figure di riferimento come Gianni
Agnelli nel gennaio 2003 e Umberto Agnelli nel maggio 2004 aveva
innescato una girandola di cambiamenti nelle posizioni di vertice del
gruppo. Come succede in queste situazioni, il rinnovo dei vertici aveva
marcatamente rallentato l’iniziativa aziendale di dirigenti e quadri che si
venivano a trovare di fronte a scenari mutevoli e senza idee di indirizzo
precise.
Il secondo nodo di tipo finanziario, riguarda il cosiddetto «prestito
convertendo», stipulato con le banche nel 2002.
Marchionne lo prende di petto con analoga determinazione e lo risolve
nello stesso stile reciso in cui era venuto a capo del legame con la Gm.
L’amministratore delegato e il presidente della Fiat incontrano a Milano i
responsabili delle banche che tre anni prima avevano emesso il prestito a
favore della Fiat di 3 miliardi di euro. È un vero incontro di vertice
perché di fronte a Marchionne e Montezemolo siedono i quattro
amministratori delegati di BancaIntesa, Capitalia, SanPaolo-Imi,
Unicredit. Ne uscirà un comunicato stringatissimo in cui si dichiara che
la Fiat ha confermato tutti gli obiettivi annunciati per il 2005, 2006, 2007,
mentre le banche hanno ribadito la loro volontà di supportare i vertici
del gruppo impegnati nel conseguimento degli obiettivi dei prossimi tre
anni. La storia della Fiat volta pagina perché, con la trasformazione dei
crediti in azioni, la quota del capitale detenuta dalle banche sarà superiore
a quella in possesso della famiglia Agnelli.
È evidente che l’ingresso di Marchionne nella nuova compagine
aziendale comportò inevitabilmente una forte ventata di cambiamento.
108
Infatti se si comparano i programmi di Fiat Auto successivi all’ingresso
di Marchionne con quelli precedenti all’entrata non si avvertono grandi
differenze. La differenza sta però nel fatto che con Marchionne la Fiat ha
fatto quello che veniva dichiarato, mentre in precedenza le dichiarazioni
e gli obiettivi del piano assumevano un ruolo di «proclama» da usare
soprattutto nei confronti della stampa, ma senza un effettivo impegno,
che avrebbe dovuto essere sistematico e generalizzato a tutti i livelli per
la loro traduzione in fatti.
Marchionne ha inciso profondamente nella struttura troppo burocratica
e routinaria della Fiat, con iniziative che possono essere definite
management by stress.
Il problema prioritario di Marchionne consisteva nell’individuare,
soprattutto all’interno dell’azienda, le persone che per formazione,
attitudine e capacità di coinvolgimento personale potevano far parte
dell’avanguardia necessaria a dare uno scossone alla struttura aziendale
lanciando il rinnovamento della cultura manageriale, tante volte decretato
in passato ma mai effettivamente attuato. Naturalmente non c’era tempo
da perdere, non bastava seguire le nuove linee occorreva farlo a passo di
carica, dal momento che si trattava di recuperare terreno nei confronti
della concorrenza e delle opportunità perdute. Ognuno doveva prendersi
le proprie responsabilità, impegnandosi al raggiungimento degli obiettivi,
ma in tempi estremamente rapidi.
Con riferimento quindi ai contenuti della gestione manageriale la Fiat
prima di Marchionne viaggiava su due livelli. Da un lato vi era il grande
corpo aziendale dei quadri e dei dirigenti di medio livello che avrebbero
dovuto ispirare la loro azione ai criteri di efficacia e di efficienza e ai quali
si richiedeva di applicare le competenze manageriali più avanzate.
Dall’altro vi era un top management che, pur dichiarando di affidarsi agli
109
stessi principi di cultura e competenza manageriale, in realtà trasgrediva
liberamente a tutti questi principi, in quanto applicava un modello
decisionale e manageriale altamente accentrato e i massimi livelli
dirigenziali pretendevano dai loro collaboratori assoluta fedeltà e acritica
accettazione degli obiettivi e delle strategie verticisticamente definite.
Il fatto che, negli anni precedenti, in Fiat vi fosse questa radicale discrasia
tra i modelli manageriali insegnati ai quadri e ai dirigenti e quelli
quotidianamente applicati dal top management dà ampiamente conto di
come la cultura manageriale non si sia mai potuta radicare in modo
profondo nell’impresa torinese. Termini come meritocrazia e
responsabilità assumevano un significato del tutto peculiare nell’azienda
che era da tempo la più importante impresa privata italiana, ma che nei
suoi gangli più importanti si uniformava alla logica della gerarchia e
dell’attuazione dei principi di tipo burocratico.
Sul piano più propriamente organizzativo Marchionne decide di attivare
una struttura operativa decisamente piatta, basata su un elevato numero
di dirigenti di primo livello che interagiscono direttamente con il Ceo e
sul principio di una organizzazione matriciale nella quale si cerca di
esaltare lo sforzo di collaborazione fra le diverse funzioni.
La sfida che deve vincere Fiat Auto è quella di fare di più con meno
dotazioni di risorse umane, tecniche e finanziarie.
Naturalmente le strutture organizzative sono importanti ma ancora più
importante il commitment con il quale persone svolgono i propri
compiti, un commitment fatto di cura e di passione. Il compito di
trasferire dai vertici verso i livelli operativi sottostanti l’impegno a
svolgere professionalmente il proprio lavoro esercitandosi a crescere
nella capacità di esercitare una leadership nei confronti dei collaboratori è
stato affidato al programma «avanti & veloci». Le finalità da raggiungere
110
sono state espresse con riferimento a due macro aree denominate leading
change e leading people.
La macro area leading change si focalizza su una consapevolezza della
necessità di rompere i vecchi schemi comportamentali avendo il coraggio
di introdurre e di gestire forme di cambiamento.18
Quella della leading people si concentra nello sviluppo, da parte di ogni
manager, delle attitudini necessarie a guidare e sostenere il lavoro dei
propri collaboratori aiutandoli a sviluppare le loro capacità sia tecnico-
professionali che relazionali. Con questo strumento, Marchionne ha
veramente iniziato ad incidere sulle strutture e sui comportamenti.
Dal punto di vista strategico la più grave carenza di Fiat Auto era
rappresentata dal forte prevalere della cultura ingegneristica rispetto alle
altre funzioni aziendali e da una scarsa sensibilità alle istanze espresse dal
mercato. Bisogna aver presente il fatto che la validità di un prodotto si
misura sempre in termini di adeguatezza alle esigenze della clientela. Un
prodotto ha o non ha successo nella misura in cui risponde alle esigenze
espresse o latenti della clientela.
Le preferenze della clientela da un prodotto ad un altro mutano di segno
e di intensità. L’affidabilità del prodotto è un requisito necessario per
competere. Se un produttore non ha un produttore affidabile viene
estromesso dal mercato molto rapidamente, ma l’affidabilità non è più un
fattore di supremazia sulla concorrenza. Anche il prezzo assume un
significato completamente diverso, non vince chi ha il prezzo più basso,
ma chi è in grado di offrire un rapporto più conveniente e convincente
tra il valore percepito dal cliente e il prezzo da pagare.
18 Volpato G., «Fiat Group Automobiles. Un’Araba Fenice nell’industria automobilistica
internazionale», Bologna, il Mulino, 2008, p. 71
111
Fare in modo che la voce della clientela potesse giungere nel modo più
diretto possibile ad un elevato livello decisionale era effettivamente la
cosa più urgente. Si doveva fare in modo che la customer satisfaction e,
più in generale, la customer care venissero poste al centro delle strategie
di rilancio del gruppo automobilistico. Si è iniziato così un marcato
irrobustimento del call center dal quale dipende il flusso di
comunicazioni con la clientela. La possibilità di monitorare il tempo reale
il sorgere delle richieste di aiuto da parte della clientela e il ritmo
mantenuto nell’evasione delle richieste stesse ha impresso una forte
accelerazione alla risposta assicurata dall’azienda.
La direzione custode ha quindi attivato una serie di strumenti che vanno
dall’assistenza virtuale, un programma software attivabile dal cliente
attraverso il portale web dei marchi della casa, al programma di
generazione di segnalazioni ai concessionari con la trasmissione del
nominativo del potenziale cliente.
Dal punto di vista dei concetti manageriali, il passo successivo allo
sviluppo di un una nuova sensibilità nel contatto con la clientela, per far
in modo che le sue esigenze trovino immediato riscontro nelle scelte
strategiche dell’impresa, è rappresentato dalla definizione dei programmi
di sviluppo dei nuovi prodotti. Questo passo prende la veste in tutte le
case automobilistiche dello sviluppo e del continuo aggiornamento del
Piano Gamma/Prodotto (Pgp). La fissazione del Pgp significa vincolare
il futuro di una impresa a scelte di investimento elevatissime, che una
volta iniziate risulta quasi impossibile annullare e molto onerose da
rivedere anche solo parzialmente. In altre parole la definizione del Pgp
può essere considerato il cuore della strategia competitiva di una casa
automobilistica.
112
La critica principale che può essere rivolta ai Pgp precedenti alla scolta
impressa da Marchionne è che l’impostazione del piano rifletteva molto
più le esigenze della produzione e della progettazione che non quelle del
mercato. Tempi e modalità di sviluppo del piano erano pensati
soprattutto in modo da massimizzare le esigenze degli stabilimenti di
produzione più che le esigenze segnalate dal mercato. Inutile sottolineare
che questo prevalere della dimensione tecnica ha portato a squilibri non
indifferenti e a investimenti che non si sono ripagati, in qualche caso in
modo davvero eclatante.
L’esempio più evidente di lancio di un prodotto assolutamente
sconsigliabile, alla luce delle prospettive di marketing dei marchi
dell’azienda, è rappresentato dal modello Lancia Thesis. Un modello per
il quale si sono effettuati investimenti superiori ai 500 milioni di euro, ma
che non ha nemmeno lontanamente avvicinato l’obiettivo di vendita
fissato dalla casa. Senza dubbio il segmento in cui si colloca il modello
considerato è assai difficile, in esso si trovano le punte di diamante dei
marchi tedeschi: Mercedes, Bmw e Audi, ma quello che stupisce è
proprio il posizionamento del modello della Lancia. Si è scelto di
posizionare il modello verso la parte premium del segmento, per di più in
presenza di un ciclo di vita negativo del modello Lancia Lybra, lanciato
nel 1999 e radiato nel 2005, ma già in netta difficoltà nel 2002.
Il rilancio dell’immagine Fiat e dei suoi prodotti è iniziato con la nuova
Panda, piccola vettura, prodotta in Polonia, che ha meritato il titolo di
«Auto dell’anno 2004», che ha consentito significativi margini di
guadagno, sia per la casa automobilistica sia per la rete distributiva. A
questo modello sono seguiti con risultati significativi il lancio della nuova
Croma nel primo trimestre del 2005, quello dell’Alfa Romeo 159 nel
primo trimestre del 2006, dell’Alfa Romeo Brera nel 3° trimestre e quello
113
della Bravo nel primo trimestre 2007, la linea nel 2° trimestre e la 500 nel
3° trimestre.
Tra i modelli sviluppati sotto la gestione Marchionne sono due quelli di
particolare importanza: la Bravo e la 500. Nel primo caso si tratta di un
modello appartenente al segmento C, il più importante in Europa nel
quale primeggiano modelli come la Volkswagen Golf, l’Opel Astra, la
Peugeout 307. Si tratta di un modello di grande importanza per il rilancio
della Fiat, che ha consolidato la sua immagine aziendale, dove in passato
l’azienda ha sofferto l’insuccesso di un modello come la Stilo.
La 500 rappresenta un chiaro esempio del nuovo approccio sviluppato
dalla Fiat verso il segmento della clientela più giovane. Come è noto gli
automobilisti più giovani sono particolarmente sensibili ai fenomeni di
trend e di moda. Le difficoltà incontrate dall’azienda negli anni scorsi
hanno avuto l’effetto di allontanare molti potenziali acquirenti delle fasce
di età più basse dai prodotti dei marchi del gruppo. L’invecchiamento
della clientela dei marchi Fiat rappresentava quindi una minaccia per il
futuro che si doveva cercare di recuperare, dal momento che tutte le case
automobilistiche cercano di fidelizzare la propria clientela.
Per il marchio Lancia vi è già grande attesa per il lancio del modello
Delta, che dovrebbe dare un forte impulso alle immatricolazioni del
marchio che in questo momento può fare affidamento soprattutto sul
modello Ypsilon e sul minivan Musa, entrambi recentemente rinfrescati.
Invece per quanto riguarda il Piano Gamma/Prodotto dell’Alfa Romeo
le novità più interessanti riguardano il lancio del nuovo modello Mito,
appartenente al segmento B, un segmento prima non servito dal marchio
e che anche in questo caso punta a servire soprattutto una clientela
giovane.
114
Con la progressiva maturazione del mercato automobilistico,
Marchionne ha voluto quindi puntare sulle politiche di innovazione del
prodotto, non si trattava di puntare alla costruzione di nuove mission,
quanto a dimostrarsi coerenti con quelle che erano le tradizioni dei
marchi, innalzando però i contenuti tecnici dei prodotti e il livello di
immagine e di modernità. Bisogna ridefinire il posizionamento dei
marchi Fiat, Alfa Romeo e Lancia, cercando di creare delle mission fra
loro distinte e in sintonia con le opportunità offerte dal mercato.
Il problema era che l’azienda non era stata in grado di esprimere le
iniziative necessarie per concretizzare queste mission. Che esse fossero,
in estrema sintesi, quelle di produrre vetture per un pubblico popolare
nel caso della Fiat, vetture dal tono spiccatamente sportivo nel caso
dell’Alfa Romeo, vetture di marcato signorilità e comfort nel caso della
Lancia. Il problema è che l’azienda aveva prodotto modelli che non
rispettavano la missione e che quindi disaffezionavano la clientela.
Le iniziative di posizionamento del prodotto attuate dalla Fiat sembrano
aver colto nel segno. Sia nella fase a monte del lancio del nuovo modello,
che si estrinseca nella definizione delle specifiche di prodotto, che nella
fase a valle nella quale il prodotto è disponibile e tocca alle campagne di
comunicazione riuscire a creare nella mente del consumatore il
posizionamento che si ritiene migliore per il successo commerciale.
La Fiat aveva bisogno, così, di un ambiente che nella delicatissima fase di
attuazione del piano di riorganizzazione del 2004 e di lancio dei nuovi
modelli riscuotesse simpatia e partecipazione. Marchionne
evidentemente si rendeva conto che bisognava cercare di voltare pagina,
che occorreva disegnare una posizione della Fiat che fosse tutta
all’interno dei valori di un capitalismo responsabile non solo verso gli
azionisti, ma anche la società civile e improntata da relazioni industriali
115
nelle quali il momento del confronto e del negoziato con le
organizzazioni sindacali non precludesse momenti di partecipazione
rivolti agli interessi delle due parti, ma in primo luogo agli interessi dei
lavoratori sia nei luoghi di lavoro che nelle attività ad esse collegate.
Questo intersecarsi di posizioni e interessi, tante volte ripetuto nelle crisi
precedenti, non aveva mancato di manifestarsi anche alla fine del 2002 in
occasione del negoziato dell’azienda con il governo e i sindacati per
l’approvazione del piano di risanamento che chiedeva la cassa
integrazione straordinaria per 8100 lavoratori. Alla fine anche in questa
occasione ne uscì un accordo al ribasso che faceva perdere credibilità a
tutte le parti, ma soprattutto alla Fiat. Anche perché il piano andava a
colpire Termini Imerese, lo stabilimento siciliano che per la Sicilia
rappresentava la più importante realtà industriale.
In sostanza, il sindacato, pur con gli inevitabili distinguo,
complessivamente percepisce un senso di maggior apertura (tra il
management aziendale non c’è più la visione del sindacalista
rompiscatole), ma gli spazi obiettivi di confronto e di costruzione
assieme delle questioni che più direttamente coinvolgono il personale
sono ancora marginali. Probabilmente si è realizzato di più nelle
occasioni di lavoro congiunto tra azienda e sindacato sui temi della
sicurezza del lavoro, dell’ergonomia e della salute, dove questi ultimi due
temi solo di recente sono entrati tra le questioni da affrontare insieme.
Anche l’iniziativa di ristrutturare le mense del personale è un iniziativa
direttamente voluta da Marchionne. Nei primi 40 giorni della sua presa di
contatto con le diverse sedi aziendali l’Amministratore delegato aveva
rilevato che si trattava di ambienti assai poco confortevoli. Così è nato il
Progetto Benessere che prevede varie innovazioni fra le quali: il restyling
dei locali della palazzina di Mirafiori, che sono state riarredate con i
116
simboli del marchio di appartenenza: Fiat, Alfa Romeo, Lancia e Fiat
Professional, l’organizzazione dell’asilo nido per le mamme che lavorano
a Mirafiori. Al momento quello che si può dire è che sono iniziate delle
prove di dialogo, vi è un cambiamento significativo anche nel modo di
guardare all’azienda, accettando ad esempio il significato di meritocrazia,
che in passato era invece apertamente osteggiata. Ed è attraverso le
forme di partecipazione che si diffondono e si cementano il senso di
condivisione delle sorti dell’azienda e lo spirito di collaborazione, che
sono ingredienti necessari non per delle buone relazioni industriali, ma
anche per il nuovo modello di lavoro nelle fabbriche orientato al World
Class Manufacturing.
Data l’esigenza che ha Fiat Group Automobiles di crescere rapidamente,
e soprattutto nei mercati esteri, Sergio Marchionne punta
sull’internalizzazione, ossia stabilire accordi di collaborazione che
riducessero la massa di investimenti da finanziare e mettessero in
comune competenze sui nuovi mercati.
Quella delle fusioni-acquisizioni può essere, in molti casi, un passaggio
obbligato per andare avanti nel business e governare le dinamiche del
mercato e le pressioni competitive.
In particolare Fiat Auto e Psa-Peugeot-Citroën hanno realizzato da
tempo un accordo industriale doppio. Nel complesso questa partnership
ha lavorato bene e c’è da auspicarsi che venga allargata anche ad altre
iniziative. Peccato che Psa abbia già realizzato accordi per la
progettazione comune di motori con Ford e con Bmw, opportunità che
sono sfuggite a Fiat Group Automobiles.
Lo sviluppo delle attività di Fiat in Turchia è iniziato nel 1968, attraverso
la costituzione della Tofas e la realizzazione di uno stabilimento,
localizzato a Bursa, per la produzione su licenza di alcuni modelli Fiat. Se
117
i programmi di Tofas verranno mantenuti, lo stabilimento turco diverrà
uno dei più importanti stabilimenti europei e potrà dare un consistente
contributo agli obiettivi di vendita che Fga ha fissato nel 2012.
Per quanto riguarda il subcontinente indiano, la Fiat ha fatto il suo
ingresso nel 1999 con la costituzione di Fiat India. L’accordo con Tata
che avverrà nel marzo del 2006 ha consentito di comporre un puzzle
complesso di opportunità. L’accordo assume certamente l’ampiezza di
un accordo strategico, si tratta infatti di un grande gruppo industriale,
operante in vari comparti. Il mercato automobilistico cinese è destinato a
uno sviluppo decisamente accentuato, secondo le dichiarazioni di Sergio
Marchionne la prosecuzione del rapporto con Chery nel 2008 prevede un
programma di importazioni in Cina di nuovi modelli.
Dopo la Cina, la Russia è certamente il mercato più compromettente a
livello globale. Nel 2006 la Fiat siglerà un primo accordo con la Severstal,
che si amplierà l’anno successivo con la realizzazione di uno stabilimento
a Yelabuga. In Polonia, lo stabilimento di Tychy è la sede operativa
dell’accordo tra Fiat e Ford per utilizzare la linea di montaggio della 500.
Va inoltre segnalato che lo stabilimento di Tychy è stato il primo ad
iniziare l’implementazione del World Class Manufacturing e raggiunge
attualmente il miglior livello qualitativo tra gli stabilimenti europei del
gruppo.
Lo stabilimento di Betim costituisce il fiore all’occhiello fra gli
stabilimenti di Fiat Group Automobiles, è il più grande stabilimento del
gruppo e uno dei più grandi al mondo.
Una forte incisività di Fga in questi mercati «giovani» è molto importante
e molto urgente perché i prodotti dell’azienda torinese sono
relativamente poco conosciuti in questi mercati emergenti, a differenza
118
dei mercati europei nei quali le vetture italiane si presentano con una
fisionomia ormai consolidata e non troppo favorevole.
Un elemento importante per cercare di rafforzarsi in questi paesi,
caratterizzati da un processo di motorizzazione molto dinamico, è
rappresentato dalla specializzazione dell’azienda italiana nelle
motorizzazioni di piccola cilindrata a benzina e a gasolio e nelle
motorizzazioni di tipo bipower a benzina e a metano. Questi tipi di
motorizzazioni presentano un impatto ambientale assai ridotto e danno
all’azienda torinese una posizione di leva competitiva potenzialmente
determinante.
Nella primavera del 2007 lo scenario competitivo nell’industria
automobilistica internazionale aveva iniziato a mutare in modo
significativo. 19Questo mutamento delle prospettive del settore derivano
dal rincaro del costo dei carburanti. Si apre così una fase ascendente del
prezzo del petrolio greggio e, a ruota, dei carburanti che poi opererà da
innesco della successiva crisi finanziaria internazionale.
Il segnale era molto chiaro, i paesi industrializzati avevano ormai
raggiunto un alto livello di saturazione degli mercati e il comportamento
dei consumatori, di fronte al rincaro dei prezzi del carburante, andava ad
incidere direttamente sul livello delle immatricolazioni di nuove vetture.
Questa evoluzione non ha mancato di incidere sui bilanci dei maggiori
gruppi automobilistici internazionali, prima nelle quotazioni di borsa
della società e quindi nei bilanci annuali. Nel 2007 questo effetto si è
registrato soprattutto tra i cosiddetti Big Three, General Motors, Ford e
Chrysler.
19 Volpato G., «Fiat Group Automobiles. Un’Araba Fenice nell’industria automobilistica
internazionale», cit., p. 237
119
La crisi petrolifera ha sicuramente introdotto un fattore di incertezza
nell’industria automobilistica internazionale, ma non ha influenzato
negativamente i risultati ottenuti da Fiat sia nel 2007 e nel 2008. Anzi la
politica di incentivazione del governo alla rottamazione, prorogata alla
fine del 2006 attraverso il cosiddetto «mille proroghe», ha comportato un
effetto favorevole sull’ammontare delle immatricolazioni in Italia che in
quell’anno toccherà il suo massimo storico, e di questo trend ne ha tratto
beneficio la Fiat, che in questo modo ha potuto superare gli obiettivi del
piano 2006-2010 precedentemente fissati.
Così Marchionne nella presentazione consuntiva del 2007, fatta nel
gennaio dell’anno successivo, può manifestare la propria soddisfazione
per una situazione finanziaria dell’intero gruppo Fiat ormai risanata,
grazie al contributo dato dai nuovi modelli, la Grande Punto, presentata
nel 2005, la Bravo, presentata nel 2006, e le novità in assoluto presentate
dalla 500, la nuova croma, la Musa, alle quali si affiancano la Linea e il
Fiorino prodotti in Turchia. Ai quali seguiranno la Junior Alfa Romeo ,
poi commercializzata con il nome di Mito che sarà effettivamente
lanciata nel 2008. Per il 2009 si nomina il modello del segmento C che
dovrà sostituire la 147 che sarà effettivamente lanciata con il nome di
Giulietta, ma con un sensibile ritardo nel 2010.
Tra le iniziative del periodo vi è la separazione di Fiat Spa in due gruppi,
un primo ancora denominato Fiat Spa, composto dalle attività
concernenti, le autovetture (Fga, Maserati e Ferrari), la sezione di Fiat
Powertrain Technolgies, dedicata a motori e trasmissioni per autovetture,
la componentistica e i sistemi di produzione (Magneti Marelli, Teksid e
Comau), le altre attività fra le quali quelle editoriali (La stampa) e un
secondo gruppo denominato Fiat Industrial Spa con controllo su Iveco,
Cnh e la sezione di Fiat Powertrain Techologies concernenti i veicoli
120
industriali e i motori marini. Le motivazioni di questo scorporo hanno
natura essenzialmente finanziaria , si sta aprendo una stagione di possibili
fusioni e di accordi di collaborazione che sono più difficili da negoziare
tra l’intero Gruppo Fiat e il partner di turno, soprattutto nel caso che si
rendano necessari degli scambi azionari.
Tuttavia anche il consuntivo del 2007 mostra che la Fiat si trova in una
situazione che potrebbe divenire instabile a breve periodo, dal momento
che questi risultati sono maggiormente il frutto di un favorevole
andamento sul mercato italiano, piuttosto che un consistente e
sostenibile recupero competitivo a livello continentale.
Questo dovuto in parte a un mancato rafforzamento sui modelli di classe
superiore Lancia e Alfa Romeo, in considerazione del fatto che la loro
collocazione di mercato dovrebbe orientarsi verso i prodotti premium.
Un ulteriore punto di debolezza strutturale dell’offerta Fga riguarda la
presenza in tre dei quattro paesi Bric. Salvo il Brasile, dove la posizione è
molto buona, ma vede una progressiva riduzione della quota per effetto
delle strategie aggressive di nuovi entranti come Hyundai, Renault e
Peugeot, negli altri paesi gli accordi di jont venture non hanno ancora
dato risultati apprezzabili. La politica di internalizzazione della Fiat in
questi paesi è iniziata da diversi anni, ma per un molteplicità di ragioni
non si è ancora concretizzata in significativi volumi di vendita, a
differenza degli altri costruttori più importanti che hanno raggiunto
traguardi significativi.
Del resto l’amministratore delegato aveva da sempre espresso forti
perplessità sulla validità di assorbimenti e fusioni tra gruppi industriali a
cause delle molte modifiche di coordinamento e integrazione tra aziende
aventi storie e culture diverse. Tuttavia il mutamento delle prospettive
strategiche del settore devono avergli fatto cambiare idea, infatti,
121
secondo Marchionne il nuovo assetto economico prodotto dalla crisi
finanziaria, con i suoi pensanti riflessi sull’ammontare della domanda
automobilistica globale, forza interventi drastici motivati soprattutto dal
fatto che la filiera automobilistica internazionale patisce da tempo un
elevato livello di saturazione degli impianti produttivi e di assemblaggio,
ciò genera un carico di costi fissi che le imprese hanno sempre più
difficoltà a coprire.
Ne deriva la tesi che prevede un grosso processo di fusione finanziaria e
di integrazione/razionalizzazione delle attività dei principali gruppi
automobilistici, accompagnato dalla chiusura degli impianti meno
efficienti per pervenire sostanzialmente ad un solo operatore per
continente.
In effetti tutti gli operatori sono concordi nel segnalare il pesante fardello
rappresentato dall’eccesso di siti produttivi. Tuttavia, le iniziative di
chiusura degli impianti comportano problemi di riallocazione dei
dipendenti, assai difficile da gestire, soprattutto in una fase di crisi come
quella attuale. In pratica questa soluzione trova attuazione solo nelle
imprese per le quali non esiste altra alternativa percorribile, come è
successo nel caso della General Motors e della Chrysler. Negli altri casi è
lo Stato a dover intervenire con iniziative di sostegno allo scopo di
limitare drastiche riduzioni dei livelli occupazionali del settore che si
produrrebbero a cascata per la chiusura di ogni impianto di
assemblaggio. Di fatto il marcato processo ipotizzato da Marchionne
non sì è ancora verificato, da un lato per la forte resistenza delle singole
case automobilistiche dall’altro per l’espletarsi di un intervento pubblico
che ritiene socialmente insostenibile una drastica riduzione dei livelli
occupazionali.
122
L’attenzione di Marchionne si è concentra soprattutto sugli Stati Uniti e
quindi sulla Chrysler, per poter sfruttare le forme di complementarietà
che questa soluzione gli avrebbe consentito e per il fatto che la
dimensione di questo gruppo e la sua delicata situazione competitiva
rendeva compatibile l’assunzione da parte della Fiat di un ruolo di guida
di entrambi i gruppi.
Le difficoltà della Chrysler erano così pronunciate che nulla poteva
essere dato per scontato. In sostanza quando toccò al presidente Obama
trovare una soluzione per Chrysler, limitando al massimo l’esborso di
denaro pubblico, egli aveva di fronte ben poche alternative possibili.
Si è così arrivati, all’inizio del 2009, all’investitura ufficiale di Fiat, da
parte del presidente Obama, come «cavaliere bianco» nel salvataggio della
Chrysler. Si è trattata di un’opportunità davvero straordinaria che Sergio
Marchionne ha saputo cogliere al volo. Questa investitura presidenziale
ha avuto una grande importanza nel far percepire la Fiat non come un
colonizzatore di Chrysler, ma come un partner che individuava nel
rilancio della Chrysler una componente essenziale del rilancio della stessa
Fiat in campo internazionale, predisponendo in senso favorevole
l’opinione pubblica americana che, purtroppo, conservava un brutto
ricordo della qualità dei prodotti Fiat.
Il 21 Aprile 2010 Sergio Marchionne e il suo staff presentano il piano del
Gruppo Fiat per il quinquennio 2010-2014, nel quale la parte riguardante
Fga gioca un ruolo di primo piano in quanto in questo periodo si deve
completare il processo di integrazione tra Fga e Chrysler.
Il piano prevede di sfruttare appieno la potenzialità produttiva degli
impianti, senza attuare ulteriori investimenti ma saturandoli, crescere nei
volumi di vendita dei paesi Bric, sfruttare appieno l’accordo con
Chrysler, utilizzando quindi un numero ristretto di piattaforme, scambio
123
reciproco delle competenze tecnologiche ed organizzative,
potenziamento reciproco delle reti commerciali, integrare la produzione
della gamma Lancia e Chrysler in Europa ad eccezione della Gran
Bretagna in cui il brand Lancia non è presente e quello Chrysler è più
conosciuto, rafforzare il marchio Alfa Romeo non solo in Europa ma
anche nei mercati del Nord America (Usa, Canada e Messico) utilizzando
il marchio Maserati come produttore affine ad Alfa Romeo per i modelli
più elevati della gamma.
Tutto questo complesso di iniziative dovrà produrre un ampio
riposizionamento del mix dei prodotti Fiat, prodotti che devono riuscire
a dilatare la propria presenza sui segmenti di vetture con taglia maggiore.
Su questo piano si è avuto un intenso dibattito legato al fatto che
Marchionne ha subordinato la realizzabilità del piano all’ottenimento di
alcune modifiche contrattuali.
La Fiat punta decisamente ad arrivare a un nuovo modello di
organizzazione del lavoro basato su un forte impegno da parte delle
maestranze, ricorrendo anche alla costituzione di new company, non
iscritte alla Confindustria e quindi organizzabili secondo modalità che
possono essere difformi da quelle previste dal contratto nazionale del
lavoro per il settore metalmeccanico. Questo programma ha preso corpo
attraverso un nuovo accordo presentato alle diverse rappresentanze
sindacali il 9 giugno 2010 concernente lo stabilimento di Pomigliano
d’Arco. L’accordo è stato accettato da alcune sigle sindacali, Fim-Cisl e
Uilm-Uil e rigettato dalla Fiom-Cgil. Quest’ultima manifesta la propria
contrarietà al nuovo contratto soprattutto per la nuova normativa
concernente l’assenteismo, per la clausola di responsabilità e per le
clausole integrative del contratto individuale di lavoro, che secondo la
Fiom costituirebbero una decisa regressione rispetto agli attuali standard
124
contrattuali e che potrebbero configurare delle violazioni al dettato
costituzionale.
Appare criticabile il fatto che Sergio Marchionne abbia proposto il
contratto con la formula «prendere o lasciare». Non si sottolinea
l’importanza di una collaborazione fra impresa e sindacati e di un
coinvolgimento dei lavoratori, ma di un comportamento che di fatto
azzera il ruolo della contrattazione sindacale e appare anche in contrasto
con al politica di dialogo portata avanti da Sergio Marchionne nella fase
precedente.
Lo stesso schema di accordo di Pomigliano d’Arco è stato poi riproposto
per lo stabilimento di Mirafiori.
La critica più importante all’impostazione seguita da Marchionne deriva
dal fatto che nel piano 2010-2014 l’applicazione del World Class
Manufacturing gioca un ruolo essenziale ai fini del successo del piano,
nella difficile sfida di elevare qualità e l’immagine percepite dai
consumatori nei confronti dei marchi Fiat. Come si può pensare di
vincere questa sfida, che postula una forte collaborazione e condivisione
di obiettivi tra direzione e lavoratori , se nel contempo si apre una fase di
conflittualità soprattutto con uno dei maggiori sindacati, la Fiom?
Certamente Marchionne ha ragione di chiedere l’eliminazione di
comportamenti lavorativi che impediscono il corretto funzionamento
delle fabbriche, ma questo va fatto puntando innanzitutto ad una
collaborazione con tutto lo schieramento sindacale e negoziando una
soluzione che non appaia come un gioco a somma zero risolto in modo
negativo per il lavoratori e per il sindacato, bensì come un gioco a
somma positiva in cui entrambe le parti contribuiscono a un
miglioramento del comportamento dei lavoratori.
125
In sostanza si tratta di un quadro molto complesso e in continua
evoluzione che invece dovrebbe trovare al più presto una propria stabile
definizione.
3.5. Nasce Fiat Chrysler Automobiles (FCA)
Alla fine Fiat e Chrysler hanno ufficializzato la loro intesa. La data da
segnare è il 29 gennaio 2014, quando il Consiglio d’amministrazione di
Fiat Spa, ha approvato la riorganizzazione societaria. L’acquisizione, il
primo gennaio di quest’anno, della quota di minoranza del 41,5 per cento
in Chrysler Group LLC che era detenuta da VEBA, il fondo
pensionistico sanitario del sindacato americano UAW, ha permesso a
Fiat di acquisire il 100 per cento della società di Auburn Hills. Un grande
risultato strategico di tutto il management Fiat frutto di un lungo e duro
lavoro iniziato nel 2009.
La nascita di “Fiat Chrysler Automobiles” segna l’inizio di un nuovo
capitolo per l’azienda italiana. Il viaggio che è iniziato più di dieci anni fa
con la ricerca di soluzioni che assicurassero a Fiat il proprio posto in un
mercato sempre più complesso è culminato nell’unione di due
organizzazioni, ognuna con una grande storia nel panorama
automobilistico ma con caratteristiche e punti di forza geografici
differenti e complementari.
L’obiettivo è quello di costruire un’azienda che, per dimensioni e
capacità di attrazione sui mercati finanziari, sia comparabile ai migliori
concorrenti internazionali, il Consiglio ha deciso di costituire Fiat
Chrysler Automobiles N.V., società di diritto olandese che diventerà la
holding del Gruppo. Le azioni ordinarie di FCA saranno quotate a New
York e a Milano.
126
Così l’Amministratore Delegato di Fiat Auto, Sergio Marchionne, ha
raccontato l’inizio nel 2009 dell’avventura con Chrysler che ha portato,
alla nascita di Fiat Chrysler Automobiles:
“La chiami fortuna, istinto, visione, quel che vuole. Resta il fatto che in quel momento
di crisi spaventosa abbiamo visto nei rottami dell’industria americana la possibilità di
far nascere una grande azienda in forma completamente diversa. È l’America ha
creduto nelle nostre idee e ci ha aperto le porte.
Per tante ragioni storiche ed culturali noi europei siamo condizionati dal passato,
l’idea di chiuderlo per nascere una cosa nuova ci spaventa. Da loro no, c’è una
disponibilità quasi naturali verso il cambiamento. Questa operazione ha messo al
riparo Fiat e i suoi lavoratori dalla tempesta della crisi italiana ed europea, che non è
affatto finita. Ora potrà ripartire con basi, dimensioni e reti più forti. L’Alfa è
centrale nella nostra nuova strategia. Come Jeep è venduta in tutto il mondo, ma è
americana fino al modello, così il dna Alfa dev’essere tutto italiano. Fiat andrà nella
parte alta del mass market, con le famiglia Panda e Cinquecento. Lancia diventerà
un marchio del mercato italiano. La vera scommessa è il nuovo sviluppo dell’Alfa”.20
20 D’Amico C., “ FCA, Fiat Chrysler Automobiles. Nasce un gruppo mondiale”, 2014, p. 5
127
128
Capitolo 4
Storia delle relazioni industriali in Fiat: dall’autunno
caldo ai giorni nostri
4.1. Le relazioni industriali in Fiat
Alla Fiat, la contrattazione sindacale ha assunto modalità e formulazioni
specifiche. Osservando la storia della Fiat si resta colpiti dalla radicalità
dei conflitti sociali e sindacali, sembra mancare quell’insieme di processi
e di regole che attenuano i conflitti, che impediscono l’eccessivo
accumularsi di problemi e contraddizioni.
In altre parole, nella storia delle relazioni sindacali alla Fiat sono
sempre mancate le «valvole di sicurezza» che consentissero la riduzione
programmata della «pressione», al dunque ogni grande conflitto si risolve
con la negazione della controparte, della legittimità degli interessi che
rappresenta, creando nuovi squilibri e nuove tensioni.
Cercheremo adesso di offrire un’analisi della contrattazione
sindacale alla Fiat, partendo dagli anni Ottanta fino ad arrivare ai giorni
nostri, per comprendere appieno i cambiamenti in atto.
Gli anni Ottanta si aprono in una fase in cui le relazioni sindacali
avevano già operato una brusca conversione in senso negativo.21
La situazione del mercato dell’auto denunciava un peggioramento
generalizzato in tutto il mondo, ma la situazione si presentava ancora più
grave per la Fiat che scontava gravi errori di previsione e un ritardo nel
21 Damiano C., Pessa P., «Dopo lunghe e cordiali discussioni. La storia della contrattazione
sindacale alla Fiat in 600 accordi dal 1921 al 2003», Ediesse, Roma, 2003, p. 211
129
rinnovo dei modelli, perdendo conseguentemente quote di mercato sul
territorio nazionale, a questo peggioramento si aggiunge inoltre una
situazione di squilibrio dei conti aziendali.
La perdita di quote di mercato e l’aggravamento dei conti aziendali
favorirono le posizioni aziendali più oltranziste nei confronti del
sindacato e rafforzarono l’ipotesi di arrivare a uno scontro risolutivo che
rovesciasse definitivamente le relazioni in azienda.
Le incertezze e gli errori di gestione economica e industriale
accumulati dalla Fiat nel corso degli anni Settanta hanno
progressivamente portato all’esigenza di un rapido recupero di
produttività, mentre i limiti e le debolezze della strategia sindacale hanno
convinto il management Fiat che la strada della rottura delle relazioni
sociali fosse il percorso più agevole.
La sensazione di un aggravarsi della situazione economica e di
mercato della Fiat, portò il sindacato a rivendicare al governo e al
Parlamento un «piano nazionale dell’auto», che avrebbe comportato
sostanziali contributi statali alla Fiat, soprattutto nel campo della ricerca e
dell’innovazione del prodotto. Ciò sembrò detestare qualche interesse da
parte Fiat, che però, per bocca dello stesso Giovanni Agnelli, restava
dubbiosa sull’effettiva tempestività del governo nell’intervenire in
relazione ai tempi della crisi.
In ogni modo lo stesso incalzare della crisi e le scelte della Fiat
finiranno per accantonare la piattaforma rivendicativa.
L’azienda, anzi, annuncia il ricorso massiccio alla cassa
integrazione e alla mobilità esterna per migliaia di lavoratori, che
prevedeva la possibilità di riassunzione presso altre aziende dei lavoratori
in Cigs, ma in assenza di tale possibilità prevedeva in ogni caso il
licenziamento del lavoratore dopo un certo periodo.
130
La risposta sindacale è negativa, contemporaneamente viene
chiesto l’intervento del governo. Da parte sua il governo Cossiga si
mosse chiedendo alla Fiat di non procedere ai licenziamenti, ma non
ottenne risposte positive e Umberto Agnelli rassegnò le dimissioni dalla
carica di amministratore delegato del gruppo. La mossa fu interpretata
come un defilarsi di un rappresentante della famiglia Agnelli da
un’operazione rischiosa e impopolare, che comportava evidenti problemi
di immagine pubblica. I poteri furono affidati a Cesare Romiti, un
manager assunto nel 1974 in Fiat, che governerà l’impresa fino al 1998.
La strategia aziendale, secondo le interpretazioni sindacali, non
riguardava solamente l’esigenza di un riequilibrio economico, ma si
proponeva anche di riacquistare mano libera nel campo della gestione
della forza lavoro e assestare un colpo mortale al sindacato.
Come si seppe in seguito, la strategia aziendale venne decisa con
una parte importante del capitalismo italiano, vale a dire quella di
Mediobanca di Cuccia che preparava il rilancio finanziario della Fiat,
subordinandolo però al ridimensionamento del sindacato in azienda.
In un incontro tra Fiat e governo, l’azienda ribadirà la sua
intenzione di licenziare, o quanto meno di porre i lavoratori in mobilità
esterna, argomentando che la situazione del mercato del lavoro torinese
consentiva il riassorbimento dei lavoratori eccedenti. Contrario a ciò il
sindacato che invece proponeva la cassa integrazione a rotazione, il
blocco del turn-over, le dimissioni incentivate e corsi di riqualificazione
professionale. Ma la scelta aziendale non prevedeva mediazioni con il
sindacato, nei fatti la trattativa si interruppe, e la Fiat annunciò l’avvio
della procedura per il licenziamento di 14.469 lavoratori tra il settore
Auto e Teksid.
131
Nel frattempo, la preoccupazione da parte sindacale, riguardava le forme
di lotta e il rischio di uno sciopero a oltranza, che era considerato un
elemento di debolezza a fronte di uno scontro che si preannunciava di
non breve durata.
Il segretario generale del Pci, Enrico Berlinguer, portò solidarietà e
l’appoggio del partito ai lavoratori in lotta, cosa che darà l’avvio a un
fiume di polemiche poiché alcuni passi del discorso di Berlinguer
verranno interpretati come un avallo all’ipotesi sindacale di occupare la
Fiat. Le parole «incriminate» furono: «le forme della lotta dovranno
essere decise dai lavoratori nelle assemblee con i dirigenti del sindacato.
Se queste decisioni riguarderanno anche forme di occupazione, il nostro
partito darà il suo pieno appoggio e la sua solidarietà».
Nei fatti all’inizio della vertenza vi fu un ampio e crescente
movimento di solidarietà politica nei confronti della lotta dei lavoratori
Fiat da parte dell’insieme del movimento sindacale, di associazioni e
forze politiche.
Il 27 settembre cade il governo Cossiga e viene meno
l’interlocutore istituzionale della vertenza, l’azienda coglie l’occasione per
sospendere i licenziamenti e mettere in cassa integrazione 24.000
lavoratori per tre mesi dal 6 ottobre.
A fronte della revoca dei licenziamenti il sindacato decise di
sospendere lo sciopero generale di tutte le categorie a sostegno della
vertenza Fiat, indetto per il 2 ottobre, ciò generò polemiche nei confronti
delle confederazioni sindacali da parte dei delegati sindacali di Torino,
che vedevano in questa decisione un segno di minor convinzione
sindacale.
Il 29 settembre la Fiat annuncia che è disponibile a prendere in
esame soluzione alternative ai licenziamenti, ma il 30 settembre rende
132
pubbliche le liste dei lavoratori posti in cassa integrazione, esposte ai
cancelli della Fiat.
La decisone unilaterale della Fiat viene interpretata dall’assemblea
dei delegati come uno schiaffo al sindacato, poiché tutti comprendono
che con questa scelta vengono selezionati i lavoratori da escludere e la
discussione può avvenire solamente sui criteri scelti dall’azienda.
Pur respingendo l’ipotesi, presentata dalla parte più radicale dei
delegati, di occupare la fabbrica, l’assemblea dei delegati decise il presidio
dei cancelli e lo sciopero ad oltranza.
Il 10 ottobre fu attuato lo sciopero generale che ebbe una grande
adesione, con manifestazioni in molte città italiane e in particolare a
Torino, dove la manifestazione si tenne a Mirafiori. Un corteo di capi e
lavoratori Fiat, con la partecipazione di altre persone, sfila per Torino in
una manifestazione antisindacale, è la cosiddetta «marcia dei
quarantamila».
La precipitosa conclusione della vertenza, con l’approvazione
dell’accordo, e la mancanza di tempo adeguato per un confronto
sull’accordo finale viene indicato come uno dei principali elementi
negativi che determinarono la «sindrome della sconfitta».
Spesso è stata utilizzata polemicamente la categoria del
«tradimento» da parte dei vertici sindacali e del Pci per spiegare l’esito
della vertenza.
Si può quindi sostenere che la radicalità della vertenza del 1980
nacque certamente dalla volontà della Fiat di riacquistare mano libera
nella gestione dei processi di ristrutturazione, piegando il sindacato. Ma
da parte del sindacato vi furono certamente errori di gestione, che
nascevano da limiti culturali e contraddizioni irrisolte, sedimentate nel
corso degli anni, che derivavano anche dal non avere avuto la capacità di
133
affrontare i problemi della competitività aziendale, e dalla difficoltà a
costruire una rappresentanza complessiva dei lavoratori,
conseguentemente determinava una selezione degli obiettivi rivendicativi
in relazione soprattutto agli interessi di alcune categorie di lavoratori.
L’esito della vertenza dei 35 giorni chiudeva inevitabilmente una
fase delle relazioni industriali in Fiat e nel paese.
I mutati rapporti di forza, le trasformazioni organizzative e sociali
della fabbrica contribuirono a mettere nell’ombra i lavoratori
dell’industria e i loro sindacati, mentre nuove ideologie teorizzavano la
progressiva scomparsa della classe operaia. Per Torino iniziava un
periodo tormentato, contrassegnato da processi di deindustrializzazione
e, secondo molti commentatori, dalla decadenza economica e sociale
della città, in cui i sindacati stentavano a ritrovare un rapporto con i
lavoratori della Fiat.
La restaurazione aziendale dopo il 1980 completò il cambiamento
del sistema di relazioni sindacali in Fiat. Il ripristino della disciplina
aziendale fu accompagnato da licenziamenti di rappresaglia che
contribuirono ad alimentare la paura di perdere il posto di lavoro. La
Fiat, infatti, continuò dopo il 1980 una violenta politica antisindacale,
con l’obiettivo di scompaginare completamente il sindacato in azienda.
In quella fase l’azienda teorizzava che i tempi della contrattazione
sindacale erano incompatibili con la velocità richiesta dai processi di
riorganizzazione produttiva.
Conseguentemente il ruolo dei delegati sindacali doveva essere
ridotto al minimo, mentre il sindacato poteva avere un ruolo solamente
come agente regolatore esterno alla fabbrica per concordare la gestione
dei processi di ristrutturazione, soprattutto nei loro effetti occupazionali.
134
In generale vi fu un evidente arretramento della capacità sindacale di
intervenire sull’insieme degli aspetti della condizione di lavoro, mentre
l’azienda riuscì a realizzare un notevole incremento della produttività del
lavoro a partire dalla seconda metà degli anni ottanta, quando si fece
sentire la ripresa della domanda di mercato.
In gran parte questo incremento fu dovuto ai processi
d’innovazione tecnologica, ma anche al fatto che ormai Fiat applicava
unilateralmente le trasformazioni tecniche e organizzative, senza un
confronto con le rappresentanze sindacali, inoltre la cassa integrazione e
i timori relativamente alla sicurezza del posto di lavoro avevano ridotto
significativamente l’assenteismo per malattia.
L’innovazione tecnologica e soprattutto l’automazione divennero
le linee guida dei processi di ristrutturazione, la stessa immagine che la
Fiat proiettava all’esterno era quella di una fabbrica in cui gli operai erano
scomparsi, sostituiti da tecnici in camice bianco il cui unico lavoro
consisteva nel controllare i computer e pigiare bottoni.
Prevaleva in Fiat una concezione negativa del fattore umano,
considerato come una variabile imprevedibile e sostanzialmente
inaffidabile, da ridurre progressivamente sul piano quantitativo. A
differenza degli anni settanta l’automazione non aveva più l’obiettivo di
migliorare le condizioni di lavoro ma era diretta, in prima istanza, a un
forte recupero di produttività e flessibilità con la costruzione appunto
della fabbrica ad alta automazione.
In sintesi la strategia della Fiat prevedeva l’automazione spinta sul
piano produttivo, mentre sul piano sociale negava la necessità della
contrattazione collettiva nei luoghi di lavoro e affermava il concetto di
un rapporto individuale azienda-lavoratore.
135
Nella prima metà degli anni ottanta la maggior parte della
contrattazione sindacale si limitò alla gestione dei processi di
ristrutturazione e delle eccedenze di personale.
L’avvio del nuovo modello, la Uno, consentì alla Fiat di uscire
dalla situazione di crisi economica, inaugurando un periodo che dal 1984
al 1989 garantirà all’azienda alcuni dei migliori risultati economici dei
suoi cent’anni di vita.
Il confronto poi per il rinnovo del Contratto nazionale di lavoro
dei metalmeccanici durò più di un anno, dato che la piattaforma
rivendicativa fu varata il 6 aprile 1982. Le trattative si bloccarono
immediatamente per le pregiudiziali di Federmeccanica e Confindustria.
Il 23 gennaio 1983 fu raggiunta una prima intesa tra Governo,
Confindustria e Federazione Cgil, Cisl e Uil, il cd. «Protocollo Scotti», in
cui vi fu una indubbia espressione del metodo concertativo, avviato già
alla fine degli anni Settanta, periodo in cui, posti di fronte al problema
delle ristrutturazioni aziendali conseguenti all’introduzione di nuove
tecnologie nell’apparato produttivo dell’industria italiana ed alle connesse
modificazioni del mercato del lavoro, i sindacati appartenenti alle tre
confederazioni maggiormente rappresentative (Cgil, Cisl e Uil) decisero
di intraprendere strade di gestione partecipativa dei processi di
riconversione industriale.
La novità è che, il Governo figura non come semplice mediatore
tra le parti, ma come vero e proprio attore di un’intesa triangolare,
imponendo in modo esplicito alle parti sociali i termini dello scambio
politico.
Il passo successivo delle pratiche concertative è dato, dalla rottura
sindacale in occasione della firma di un altro accordo, il Protocollo sul
costo del lavoro del 14 febbraio 1984, il cd. «Protocollo di S. Valentino»,
136
con cui si proponeva la rinegoziazione del precedente protocollo
d’intesa. Esso costituì la base della frattura tra Cgil, che si opponeva ai
contenuti dell’accordo, da un lato, e Cisl e Uil, dall’altro, che risulteranno
poi essere le uniche firmatarie del patto.
Ciò fu interpretato come un fatto dirompente nell’assetto delle
relazioni industriali, caratterizzato fino a quel momento da una
concertazione a tre e dall’assenza di atti autoritativi (cioè del Governo) in
materia tradizionalmente di pertinenza sindacale. A ciò fa seguito, nella
seconda metà degli anni Ottanta, un ridimensionamento della
concertazione sociale e degli accordi triangolari, anche se non vi è una
interruzione dei rapporti tra Governo e parti sociali, che vengono
consultate separatamente prima dell’adozione di importanti
provvedimenti di natura politico-economica.
La forte ripresa produttiva e di mercato connessa con
l’affermazione della Uno aprì un periodo molto contradditorio per il
sindacato poiché, già dal 1984, la Fiat iniziò a chiedere la possibilità di
ricorrere allo straordinario al sabato per alcune produzioni, ma
contemporaneamente proseguiva la cassa integrazione settimanale e
molte migliaia di lavoratori erano ancora sospesi a «zero ore» senza una
chiara prospettiva di rientro in azienda. La nuova situazione di tensione
produttiva rischiava quindi di collocare le organizzazioni sindacali in una
situazione difficile. In tal occasione esse posero la questione di
riprendere normali relazioni sindacali dopo una fase di «gelo» che era
durata alcuni anni.
La Fiat diede una risposta parzialmente positiva, la Direzione
aziendale si dichiarava disponibile a riprendere le relazioni sindacali.
137
Secondo la Fiat, la contrattazione doveva svilupparsi in base alla
logica dello «scambio», cioè secondo concessioni reciproche che
entrambe le parti dovevano prevedere.
Gli effetti di questa politica furono una serie di accordi alla fine del
1985 e nel 1986. Si aprì così una nuova fase di negoziazione in cui i
rappresentanti sindacali svolgevano un effettivo ruolo contrattuale, anche
se si presentavano situazioni molto diverse tra gli stabilimenti.
Uno degli effetti di questa mutata situazione fu la ripresa del
tesseramento sindacale, che in precedenza aveva subito un crollo
evidente.
Per quanto riguarda quindi la contrattazione aziendale il decennio
si può dividere in due fasi distinte: la prima parte, caratterizzata da una
sorta di «gelo nelle relazioni industriali», dove la contrattazione era
finalizzata quasi completamente a regolare i processi di ristrutturazione
in termini di gestione del personale eccedente.
Nella seconda metà degli anni ottanta, vi fu una ripresa della
contrattazione su molti aspetti attinenti alle prestazioni di lavoro, alla
contrattazione di straordinari, agli incrementi nell’utilizzo degli impianti,
alle assunzioni di giovani, ecc.
Nell’insieme però la Fiat aveva posto alcuni limiti alla
contrattazione a livello di stabilimento, vi era un rifiuto da parte di
quest’ultimo di aprire canali d’informazione preventiva e consultiva sui
processi di cambiamento tecnologico e organizzativo, che
inevitabilmente avrebbero allargato gli strumenti di partecipazione a
disposizione delle rappresentanze sindacali. Il rapporto della Fiat con i
sindacati si poteva definire strumentale, nel senso che l’azienda ricorreva
alla contrattazione collettiva quando ciò era strettamente indispensabile,
in termini di legge o per interessi immediati, come l’acquisizione di un
138
consenso sociale più ampio per acquisire strumenti di flessibilità della
forza lavoro, mentre quando ciò non era necessario regolava le relazioni
sociali interne con i rapporti individuali.
Questo è stato possibile anche per l’evidente divisione e le
differenti strategie che proprio su questi aspetti caratterizzavano i
sindacati, infatti su alcuni aspetti delicati come la prestazione di lavoro
mancava una reale capacità di coordinamento delle scelte di politica
contrattuale.
Gli anni novanta si presentano particolarmente ardui per la Fiat
dopo un periodo di prosperità. Il punto critico è rappresentato da Fiat
Auto, che doveva affrontare la progressiva accentuazione della
concorrenza internazionale, alimentata da una sovracapacità produttiva
strutturale e dal nuovo fenomeno dei prodotti giapponesi
particolarmente competitivi. Ormai successi come la Uno erano
improbabili, perché non era più possibile basare il risultato economico su
un modello di vettura, ma era necessaria una presenza articolata su una
moltitudine di segmenti e di nicchie di mercato per competere con una
concorrenza sempre più agguerrita.
La scena del 1990 è occupata dal rinnovo del Contratto nazionale
di lavoro dei metalmeccanici, dopo un faticoso confronto tra Fim, Fiom
e Uilm, le divisioni sindacali comportarono un’incapacità a selezionare le
rivendicazioni, perciò la piattaforma dava la sensazione di essere una
sommatoria delle proposte rivendicative di ciascun sindacato. La
conclusione contrattuale comportò molti strascichi polemici tra i
lavoratori, tra i quali era largamente diffuso un giudizio d’insufficienza
sui risultati conseguiti.
Tuttavia vi sono alcuni accordi significativi che è opportuno
rilevare. L’accordo del 27 aprile 1990 sottoscritto da Fiat Avio e i
139
rappresentanti sindacali in azienda, che introduceva una sperimentazione
di scaglionamento delle ferie. Questa è stata probabilmente l’unica intesa
sul tema che ha effettivamente funzionato in Fiat e che tuttora in vigore.
Il positivo funzionamento dell’accordo derivò dalla flessibilità con cui fu
attuato, lasciando ai singoli lavoratori spazi di discrezionalità nel gestire i
propri periodo di ferie.
Una forte innovazione rappresentava invece l’accordo del 18
dicembre 1990, che stabiliva l’insediamento di due nuovi stabilimenti al
Sud, a Pratola Serra (Avellino) per la produzione di propulsori e a Melfi
(Potenza) per quella di vetture, i cui lavori di costruzione inizieranno nel
maggio dell’anno successivo. Questo accordo produsse alcuni contrasti
all’interno delle organizzazioni sindacali poiché era evidente il rischio che
gli elevati volumi produttivi, connessi con il nuovo regime d’orario (18
turni settimanali per la produzione e 21 turni per la manutenzione),
significassero una riduzione delle attività produttive degli stabilimenti
esistenti al Nord, anche se i massimi dirigenti della Fiat si affrettarono a
garantire pubblicamente che i nuovi insediamenti meridionali erano
aggiuntivi e non sostitutivi di quelli già esistenti.
Un ulteriore particolare significativo fu quello connesso agli assetti
sociali dei due stabilimenti, che formalmente non facevano parte di Fiat
Auto, ma costituivano due società a se stanti: Sata (Società
automobilistica tecnologie avanzate) per Melfi e Fma (Fabbrica motori
automobilistici) per Pratola Serra. Tra l’altro ciò serviva a evitare
l’applicazione degli accordi sindacali del Gruppo Fiat in questi nuovi siti
industriali.
Con questi investimenti la Fiat imprimeva un nuovo corso alla
produzione automobilistica con effetti che cambieranno gli assetti
complessivi di Fiat Auto, infatti, i timori dei sindacati erano giustificati,
140
poiché Fiat Auto procedette, nel 1992, alla riduzione della capacità
produttiva al Nord, con la chiusura degli stabilimenti di Desio e
Chivasso.
Con l’inizio degli anni novanta furono avviate una serie di
sperimentazioni organizzative, il più famoso dei quali era quello
denominato «fabbrica integrata» e si proponeva di cambiare
l’organizzazione produttiva. Il modello di riferimento era quello dei
produttori giapponesi, come il just in time, la riduzione dei materiali e
delle scorte e di tutte le risorse necessarie per produrre, nonché il
miglioramento continuo del processo e del prodotto, in sostanza gli
aspetti caratteristici della lean production, di cui la Fiat voleva importare
la capacità di gestire gli elementi d’incertezza con risorse ridotte.
La novità fu colta immediatamente anche al di fuori dell’azienda e
del mondo sindacale poiché era evidente anche una sorta di autocritica
sul precedente modello organizzativo. Tuttavia, era anche evidente la
contraddizione tra la partecipazione richiesta ai lavoratori nel
miglioramento del processo produttivo e il fatto che il cambiamento era
gestito senza un rapporto contrattuale con i sindacati. Il realtà il progetto
poteva anche essere considerato una sfida nei confronti dei sindacati,
proprio per l’implicita esigenza aziendale di conquistare il consenso dei
lavoratori necessario alla partecipazione richiesta dal nuovo modello
organizzativo.
Nel corso del tempo emersero una serie di contraddizioni
nell’applicazione del nuovo modello organizzativo, in particolare vi era
un’evidente differenza tra il progetto elaborato dalla Fiat e la sua effettiva
realizzazione. Molte delle nuove modalità organizzative, quelle meno
formali e più sostanziali che attenevano ai comportamenti e ai ruoli,
restarono solo sulla carta o furono realizzate in alcuni reparti, ma non in
141
altri. Queste difficoltà e differenze furono attribuite alle resistenze
interne della gerarchia aziendale, nei fatti, anche per quanto riguarda il
rapporto con il sindacato, una parte del management Fiat lasciò trapelare
che era in atto uno scontro di opinioni tra chi pensava di tenere fuori le
rappresentanze sindacali dal nuovo progetto organizzativo e chi invece
riteneva che queste potessero dare un contributo utile all’innovazione
organizzativa e a rimuovere le resistenze della gerarchia aziendale.
Per le organizzazioni sindacali, quindi, il progetto aziendale
d’innovazione organizzativa era visto favorevolmente, sia pure con
sfumature diverse derivanti dalla diversa concezione del rapporto
contrattuale, era considerato un’occasione per un ruolo più definito delle
relazioni sindacali in azienda, date le istanze di partecipazione dei
lavoratori che erano alla base del progetto. Diversa però era la situazione
tra i rappresentanti sindacali in azienda, le cui posizioni erano molto
articolate, se da una parte vi era chi riteneva che il nuovo modello
organizzativo fosse un’occasione per un ruolo più incisivo del
rappresentante sindacale, all’estremo opposto vi era chi lo riteneva un
cambiamento limitato che in realtà non avrebbe cambiato nulla o,
peggio, un disegno per «fregare» i lavoratori. Ovviamente queste diversità
determinavano atteggiamenti diversi nei vari stabilimenti e gli stessi
comportamenti della gerarchia aziendale giustificavano sia l’una sia l’altra
posizione.
In ogni modo, alla prova dei fatti, il rapporto azienda-sindacati
non andò molto oltre l’informazione sullo sviluppo dell’innovazione
organizzativa, che restava ancorata a regole unilaterali. Mentre la
contrattazione rimaneva sostanzialmente legata a logiche di
centralizzazione, anche quando furono definite alcune sperimentazioni di
stabilimento su un sistema di premi individuali che incentivava le
142
proposte di miglioramento della qualità da parte dei lavoratori. In
definitiva mentre il management Fiat sembrava che fosse ancorato alla
visione tradizionale del sistema di relazioni sindacali, i sindacati, anche
per le loro divisioni, non furono in grado di proporsi un’impostazione
comune che allargasse gli spazi d’intervento sull’organizzazione
produttiva.
Il periodo che va dal 1991 al 1995 vede dal un punto di vista della
contrattazione, la ripresa della concertazione sociale nella forma degli
accordi triangolari, data l’esigenza dei Governi di rientrare nei vincoli
posti dal Trattato di Maastricht del 1991.
Vi furono un’alternanza di accordi che gestirono gli aspetti di
ristrutturazione, dai licenziamenti collettivi (la cosiddetta «mobilità») per
250 lavoratori ad una riduzione della capacità produttiva al Nord
attraverso la chiusura dello stabilimento di Desio e quello della Lancia di
Chivasso.
La stessa azienda si impegnò nell’attivare una serie di iniziative
industriali che avevano un duplice scopo, da una parte assorbire una
quota dei lavoratori, dall’altra costruire un indotto qualificato in relazione
ai nuovi criteri organizzativi basati sul just in time. Per i lavoratori furono
utilizzati gli strumenti tradizionali come la Cigs, i prepensionamenti e le
dimissioni incentivate, ma alla fine tutti trovarono una collocazione, in
parte nelle nuove attività produttive, in parte con trasferimenti in altri
stabilimenti Fiat.
La complessità delle trattative era anche determinata dalle divisioni
sindacali in merito alla conduzione delle trattative, dove la Fiom insisteva
molto sugli aspetti della verifica democratica con i lavoratori, prima di
firmare definitivamente gli accordi, mentre le altre organizzazioni lo
consideravano un aspetto secondario. La questione fu particolarmente
143
evidente nella trattativa per lo stabilimento di Chivasso, dove la Fiom
decise, da sola e con successo, di dichiarare due ore di sciopero per
effettuare l’assemblea con i lavoratori alla conclusione della trattativa.
Dal punto di vista dell’assetto complessivo di Fiat Auto i due
accordi smentivano i precedenti impegni della Fiat, accentuando
fortemente la tendenza alla riduzione delle capacità produttive e
dell’occupazione al Nord, contribuendo a spostare il baricentro
produttivo nel Mezzogiorno. Però nel merito della ristrutturazione non
furono utilizzate contro il sindacato ma comportarono un certo grado di
cooperazione. Del resto sarebbe stato controproducente per la Fiat una
politica antisindacale, per gli effetti negativi in termini d’immagine e
perché ciò avrebbe contrastato con le scelte di politica organizzativa e di
relazioni industriali ampiamente pubblicizzate.
Nello stesso periodo furono sottoscritti una serie di accordi che
sembravano affermare una politica di partecipazione nelle relazioni
industriali, con l’introduzione di nuovi organicismi congiunti che
avevano obiettivi consultivi o informativi come il «Comitato di
consultazione» a livello nazionale, o le «Commissioni di partecipazione»,
con il compito di monitorare l’introduzione di un nuovo istituto
premiante legato alle «Proposte di miglioramento qualità», un premio
destinato a favorire il coinvolgimento dei lavoratori, incentivando coloro
che presentavano proposte che miglioravano la qualità del processo
produttivo e del prodotto, in un’ottica molto giapponese.
L’accordo non indicava l’entità del premio, prevedeva in ogni caso
che il premio fosse limitato agli operai e intermedi, mentre erano esclusi
gli operai. La sua diffusione non fu omogenea tra i diversi reparti e
stabilimenti. In realtà si constatò che influivano molto i comportamenti
della line aziendale, che in alcuni casi favoriva il processo, in altri lo
144
osteggiava, in altri ancora lo utilizzava a favore di alcuni lavoratori in una
logica di scambio reciproco di favori. Dall’altra parte anche
l’atteggiamento dei rappresentanti sindacali aveva un’influenza rilevante
nel promuovere ed osteggiare la diffusione delle proposte a fronte una
certa diffidenza da parte dei lavoratori.
Questo sistema premiante è ancora in vigore, ma negli ultimi anni
sembra abbia perso interesse per la Direzione aziendale, che non ne
promuove più la diffusione, pur continuando a stabilire un budget di
spesa annua.
Il 1993 è stato l’anno peggiore per la Fiat, poiché al pessimo
andamento delle vendite si aggiunse il coinvolgimento dei dirigenti
aziendali e dell’amministratore delegato nelle inchieste connesse con
«tangentopoli» accomunando alle perdite economiche anche una caduta
dell’immagine pubblica.
La Fiat avviò così dei processi di ristrutturazione delle società i cui
conti economici erano negativi, come la Comau, la Teksid, l’Iveco, la Fiat
Avio, alcune società della componentistica, oltre Fiat Auto. Quasi tutti
questi accordi prevedevano una riduzione del personale attraverso la
procedura di mobilità e l’adozione dei criteri già visti per Fiat Auto
(mobilità incentivata con «aggancio» alla pensione).
Procedere poi al licenziamento dei propri quadri era un fatto
assolutamente nuovo, mai successo nella storia della Fiat, per il
particolare significato che avevano sempre rivestito queste figure nelle
filosofie aziendali, inoltre era evidente che con la loro estromissione la
Fiat rinunciava a competenze professionali non facilmente rimpiazzabili.
In effetti, durante il conflitto del 1980 la Fiat aveva fatto ricorso ai
quadri per piegare il sindacato, sancendo una sorta di «alleanza» sociale,
perciò la cosa ebbe immediatamente una risonanza nazionale.
145
La Fiat motivò questa scelta con l’esigenza di alleggerire la
struttura dei costi che era diventata troppo «pesante», soprattutto sul
versante degli impiegati, perciò propose di licenziare i quadri e gli
impiegati che avevano superato un certo limite di età, per dare loro la
possibilità di andare in pensione al termine della mobilità.
Fu richiesto da parte del sindacato l’intervento del governo. La
vertenza durò alcuni mesi e vide la straordinaria mobilitazione degli
interessati in accordo con i sindacati. I contrasti maggiori si
determinarono soprattutto sul piano industriale di rilancio della Fiat e
sulla tipologia di strumenti da utilizzare per ridurre le eccedenze, tra i
quali la Fiat insisteva sulla procedura di mobilità, mentre i sindacati si
proponevano di utilizzare soprattutto manovre di riduzione temporanea
dell’orario di lavoro con il ricorso ai contratti di solidarietà. Su
quest’ultimo punto la Fiat aveva espresso sempre viva contrarietà,
facendone un punto di principio, ma alla fine dovette parzialmente
cedere. Furono così raggiunti una serie di accordi che misero fine alla
vertenza di Gruppo.
La grave crisi economica e produttiva dei primi anni novanta,che
portò il paese sull’orlo della bancarotta, impose la necessità di nuove
regole nel sistema di relazioni industriali, che mettesse fine a un più che
decennale contenzioso sul costo del lavoro, individuando anche un
sistema di relazioni e di concertazione che avrebbe aiutato il risanamento
dell’economia.
La crisi fu superata con il Protocollo del 23 luglio 1993 sulla
politica dei redditi, sottoscritto dalla confederazioni sindacali, da quelle
degli imprenditori e dal governo. Quest’ultimo accordo rappresentò un
punto fermo e un’ancora di salvezza per il paese rispetto alla grave crisi
economica e politica della prima metà degli anni novanta, poiché stabilì i
146
cardini della politica di concertazione sociale e definì un ruolo forte per il
sindacato confederale, con un sistema di relazioni industriali basato su
due livelli di contrattazione.
Il Protocollo rappresenta uno spartiacque nell’evoluzione delle
relazioni industriali, formalizzando quindi il metodo della concertazione
sociale, sottoscritto unitariamente dalle Confederazioni (Cgil, Cisl e Uil),
attraverso un accordo triangolare (Governo, organizzazioni sindacali e
datoriali).22 Esso individua due differenti livelli di contrattazione (un
primo livello, nazionale di categoria, e un secondo livello di
contrattazione, aziendale o territoriale). È il contratto nazionale di
categoria a determinare le competenze del secondo livello mediante
clausole di rinvio. Di fatto, però, la competenza della contrattazione
decentrata è risultata abbastanza circoscritta, in quanto le materie e gli
istituti ivi regolamentati devono essere diversi rispetto a quelli retributivi
propri del contratto nazionale di categoria.
È quindi prevalsa una netta ripartizione delle competenze tra
contratto collettivo nazionale e contrattazione di secondo livello che
consente di evitare possibili conflitti tra i diversi livelli di negoziazione. Il
principio invalso nella pratica contrattuale per lungo tempo è quello del
«ne bis idem», esso fa sì che la contrattazione di secondo livello debba
esplicarsi su materie ed istituti che non siano già stati negoziati in altri
livelli di contrattazione.
Sul fronte delle relazioni tra il management e il sindacato,
l’accordo ha introdotto un meccanismo di consultazione bilaterale tra le
parti su una vasta gamma di temi e diversi livelli (azienda, stabilimento,
unità operativa). Attraverso delle «commissioni congiunte», composte da
22 Del Giudice F., Mariani F., «Compendio di diritto sindacale», Simone, Napoli, 2012, p. 144
147
responsabili aziendali e da rappresentanti delle organizzazioni sindacali
(Rsu) firmatarie degli accordi. Le commissioni affrontano argomenti
diversi, prevenzione e risoluzione del conflitto, monitoraggio del premio
di competitività, formazione, pari opportunità, sicurezza sul lavoro, ecc.
Il Protocollo ha permesso il raggiungimento di importanti obiettivi
per il nostro Paese (come l’accesso alla moneta unica europea) ed ha
svolto una incontestabile funzione regolatoria delle relazioni industriali
durata oltre 15 anni, cioè, alla stipulazione nel 2009 del nuovo Accordo
Interconfederale sugli assetti contrattuali.
A completare quanto stabilito da detto Protocollo fu sottoscritto
un accordo interconfederale, il 20 dicembre 1993, che regolamentava le
elezioni della rappresentanza sindacale in azienda, che sarebbe stata
denominata «Rappresentanza sindacale unitaria» e avrebbe detenuto
specifiche competenze contrattuali.
Nel successivo rinnovo contrattuale del 5 luglio 1994 furono
recepite le norme del Protocollo del 23 luglio 1993, stabilendo precisi
diritti di contrattazione a livello aziendale. Tra le altre cose furono
stabilite normative più precise sull’utilizzo delle riduzioni d’orario e sul
trattamento di malattia, fu concordato un nuovo sistema di previdenza
integrativa finanziato mediante quote di Tfr, infine, un aumento medio
mensile dei minimi retributivi.
Tra la fine del 1995 e l’inizio del 1996 il rinnovo del vertice
aziendale indica che la fase più acuta di crisi della Fiat è ormai passata.
Per i sindacati il miglioramento delle condizioni economiche dell’azienda,
consentirono alla Fiat la riapertura di una vertenza di Gruppo.
Furono formulate una serie di proposte, tra le quali quella di
raggruppare in un’unica vertenza l’insieme delle società del Gruppo Fiat,
compresa la Magneti Marelli, che in precedenza aveva proceduto
148
autonomamente. Tuttavia questa ipotesi resse solamente in parte, poiché
le rappresentanze sindacali della Sata e della Fma rivendicarono
l’autonomia contrattuale e pretesero di condurre una trattativa parallela a
quella della restante parte del Gruppo.
Nella fase finale della trattativa la proposta della Fiat sul premio di
risultato determinò una spaccatura tra le organizzazioni sindacali, in
merito alla risposta da dare, secondo la Fiom il meccanismo premiante
proposto dalla Fiat era molto distante dalle rivendicazioni presentate, era
legato ad indicatori estremamente aleatori per il lavoratori ed era basato
su previsioni di sviluppo poco credibili, mentre per le altre
organizzazioni poteva essere un terreno possibile d’intesa. In realtà la
Fiat aveva formulato una proposta ultimativa, un «prendere o lasciare»,
avendo compreso la divisione e la conseguente debolezza sindacale. Alla
fine la Fiom, dopo aver chiesto inutilmente la riunione del
Coordinamento nazionale Fiat, ricorse al regolamento unitario per
chiedere la riunione delle Rsu e un voto esplicito sulla proposta Fiat. Le
Rsu a maggioranza votarono a favore dell’accordo e la Fiom dichiarò di
accettare il voto delle Rsu, aderendo all’intesa ma mantenendo il
«giudizio negativo sulla proposta salariale della Fiat». Un supplemento di
trattativa servì ad includere il premio di risultato nella base del calcolo del
Tfr.
Un’ulteriore valutazione, su cui la Fiom è stata più cauta nei
giudizi attendendo di vederne gli sviluppi concreti, era quella relativa alla
parte sulle relazioni sindacali. Il fatto che la conclusione dell’accordo Fiat
sia avvenuta senza scioperi ha contribuito ad alimentare la tesi che questo
accordo abbia rappresentato una svolta sul terreno della partecipazione.
In particolare, da parte dei mezzi d’informazione era stato messo in
evidenza come una fase di passaggio e un cambiamento di mentalità nei
149
rapporti tra azienda e lavoratori richiedevano una reciproca fiducia e una
reciproca assunzione di responsabilità a tutti i livelli, ciò in conseguenza
del fatto che nelle moderne teorie organizzative il fattore umano
assumeva importanza prioritaria rispetto alle tecnologie, proprio perché
la competizione globale costringeva le aziende ad affrontare sfide difficili
per mantenere o rafforzare le proprie posizioni di mercato. In tal senso
un sistema di relazioni sindacali partecipative rappresentava un elemento
di grande potenzialità.
Nell’insieme, il sistema individuato dell’accordo del 18 marzo 1996
presenta troppe ambiguità per affermare che la Fiat abbia avuto una reale
intenzione di attuare la scelta della partecipazione con le organizzazioni
sindacali, mentre quest’ultime erano segnate dalle divisioni interne che
non consentivano un ruolo efficace nell’incalzare l’azienda su questo
terreno.
Il periodo successivo è stato caratterizzato dalla gestione dei
processi di ristrutturazione e anche da una certa ripresa produttiva e di
mercato, come dimostrano molti accordi su assunzioni, straordinari e
introduzione di terzi turni. Un accordo importante fu quello sottoscritto
il 28 giugno 1996, partito con divisioni da parte sindacale, alimentate da
preoccupazioni relative agli stabilimenti di Torino, Arese e Pomigliano,
che erano generate dalle crescenti attenzioni manifestate dalla Fiat per gli
investimenti all’estero e dai nuovi insediamenti produttivi al Sud.
L’accordo faceva il punto della situazione sul piano industriale e
delle allocazioni produttive, con i relativi effetti occupazionali, in
particolare sui risultati degli strumenti individuati per risolvere il
problema degli esuberi del personale.
Si trattava di un impegno rilevantissimo, resosi necessario per
recuperare la caduta di competitività del prodotto Fiat Auto e per
150
favorire il continuo rinnovo della gamma del prodotto. Nel confronto
era coinvolto il governo, non solamente per gli aspetti relativi agli
ammortizzatori sociali ma anche per la necessità di individuare politiche
di sostegno a favore del settore automobilistico che dessero prospettive
all’insieme degli stabilimenti esistenti.
Questi accordi si potevano considerare come una gestione
concordata del processo di rilancio della Fiat che portarono al successivo
provvedimento legislativo del governo Prodi in favore della cosiddetta
«rottamazione» delle autovetture nel 1997. Si trattava di un
provvedimento già adottato d altri paesi europei che consisteva
nell’assegnare una cospicua incentivazione fiscale a coloro che
decidevano di rottamare la propria vettura, con almeno dieci anni di
anzianità, e acquistarne una nuova. In favore del provvedimento si
spesero anche i sindacati per gli effetti positivi che implicava in termini di
stabilizzazione occupazionale, anche per favorire la conclusione della
vertenza per il rinnovo del biennio economico del Contratto nazionale di
lavoro che avverrà l’8 giugno 1999, dopo sette mesi di trattative e 36 ore
di sciopero. Oltre ad adeguare i minimo contrattuali ai tassi d’inflazione,
l’accordo prevede alcune significative innovazioni sul versante dell’orario
di lavoro, affrontando il delicato tema della flessibilità d’orario e
trasformare gli straordinari in riposi compensativi.
Oltre ai tradizionali processi di ristrutturazione, si faceva strada
una nuova modalità di riorganizzazione aziendale basata sui processi di
outsourcing , consistente nella cessione a società specifiche, di proprietà
Fiat o di terzi, di parti importanti della propria struttura produttiva.
L’obiettivo era di procedere a una razionalizzazione di queste
attività e di realizzare una presenza organizzata in un mercato, quello dei
servizi, che si prospettava particolarmente promettente.
151
Tutto ciò comporta problemi nuovi per la Fiat, poiché la
frammentazione dei lavoratori e delle responsabilità tra proprietà diverse
rappresenta concretamente una tendenza inversa all’integrazione
propugnata dal progetto «fabbrica integrata», in tal senso l’outsourcing
strategico presenta modalità organizzative e aspetti di conflitto-
collaborazione interna del tutto nuovi, che rimettono in discussione
alcuni assunti organizzativi degli anni precedenti. Dal punto di vista
sindacale le conseguenze dell’outsourcing generano una certa
frammentazione delle Rsu e una maggiore difficoltà ad organizzare la
rappresentanza dei lavoratori, il che comporta maggiori ostacoli nella
gestione dei problemi e richiede probabilmente l’individuazione di nuovi
strumenti contrattuali.
In alcune trattative con società del Gruppo Fiat, relative alla
cessione del ramo d’azienda, sono emersi tentativi aziendali di applicare
ai lavoratori «terziarizzati», una normativa contrattuale diversa da quella
del Contratto nazionale dei metalmeccanici. La proposta è stata respinta
da parte del sindacato, che pur non opponendosi ai processi di
outsourcing, ritiene indispensabile evitare una frammentazione della
normativa contrattuale all’interno della stessa azienda, perché ciò
implicherebbe strutture sindacali di diverse categorie che rappresentano
lavoratori all’interno dello stesso stabilimento, con un’evidente perdita di
controllo sulle possibilità di tutela dei lavoratori e anche con rischi di
conflitti interni.
Il Contratto nazionale di lavoro scadeva il 31 dicembre 1998, ma il
rinnovo fu particolarmente difficile per la complessità degli argomenti
posti nella piattaforma rivendicativa. L’accordo fu raggiunto l’8 giugno
1999 e prevedeva alcune significative innovazioni sul versante dell’orario
di lavoro. È il periodo in cui viene sancita la definitiva
152
istituzionalizzazione della concertazione sociale, che da prassi negoziale
diviene «metodo di condivisione di obiettivi» vincolante per tutte le parti
coinvolte, il Governo, i sindacati e le organizzazioni datoriali.
Gli anni novanta sono stati un decennio di relazioni sindacali e di
contrattazione molto contradditori, segnati dalla speranza di avviare un
nuovo e più stabile sistema di relazioni sindacali, che alla fine viene
puntualmente delusa. Gli stessi radicali processi di ristrutturazione e
riorganizzazione aziendale, che hanno modificato gli assetti produttivi e
organizzativi della Fiat, hanno contribuito ad alimentare questa speranza,
proprio perché i sistemi di partecipazione sono comunemente
considerati come più adeguati alle nuove logiche organizzative. In effetti,
alcuni momenti di «contrattazione collaborativa» si sono sviluppati, alla
metà degli anni novanta, attorno alla conduzione dei processi di
ristrutturazione, anche con la gestione concordata di tutti gli strumenti
consentiti dalla legislazione per il contenimento delle eccedenze di
personale (mobilità incentivata con accompagnamento alla pensione, Cig,
ecc.), ma ciò non ha comportato un avanzamento sostanziale del sistema
di relazioni industriali.
L’efficacia della contrattazione è stata alquanto limitata anche se,
rispetto agli anni ottanta, sono progressivamente aumentati gli argomenti
che sono stati oggetto di confronto. Una particolare incisività si è
manifestata sul governo dei processi di ristrutturazione, mentre i
sindacati hanno saputo farsi carico di incrementare la competitività
dell’azienda regolando la flessibilità, come dimostrano i molti accordi su
turni, straordinari e cassa integrazione.
Il principale successo della contrattazione è stato quello di
affrontare le ristrutturazioni e le conseguenti crisi occupazionali senza
utilizzare i metodi tipici di alcune multinazionali statunitensi, consistenti
153
nel licenziamento di migliaia di lavoratori al di fuori di qualsiasi
regolazione attuata attraverso gli accordi sindacali e gli ammortizzatori
sociali, ciò anche per effetto delle tutele legislative tipiche
dell’ordinamento italiano e dell’esistenza della cassa integrazione.
Tuttavia è indubbio che le relazioni sindacali in Fiat si basano su
un equilibrio precario, dovuto all’unione tra un sistema di contrattazione
centralizzato e un sistema di partecipazione «debole».
In realtà la Fiat continua ad affermare e praticare un sistema di
relazioni sindacali basato sulla centralizzazione dei rapporti e sulla
limitazione della contrattazione nei luoghi di lavoro, proprio per favorire
le prerogative manageriali nella gestione delle risorse umane. In tal
contesto si è determinato un andamento altalenante dei rapporti tra
azienda e organizzazioni sindacali, mentre negli ultimi anni si ravvisa una
marcata tendenza al peggioramento.
È anche opportuno rilevare la contraddittorietà di alcune posizioni
sindacali, da una parte Fim, Uilm e Fismic sembrano maggiormente
inserite nella logica di relazioni proposta dalla Fiat, cui chiedono la
legittimazione e il riconoscimento come agenti contrattuali, dall’altra
parte la Fiom si divideva tra un’impostazione più «conflittuale» e una più
disponibile a misurarsi con gli strumenti della partecipazione. Tuttavia
entrambe le posizioni hanno dimostrato molte incertezze nell’articolare
una strategia rivendicativa adeguata, in particolare non sono state
sufficientemente chiarite le impostazioni sul ruolo e sulle competenze
delle Rsu, sull’equilibrio di poteri e competenze tra strutture sindacali e
rappresentanti sindacali interni. Con qualche approssimazione si può
affermare che lo schieramento sindacale andava da chi era
ideologicamente contro la partecipazione e quindi non operava
certamente per una sua affermazione, a chi era ideologicamente a favore
154
ma non traduceva questa posizione in iniziative concrete. Ovviamente
tra questi due estremi vi erano molte posizioni intermedie, con quadri
sindacali che tentavano pragmaticamente di avviare un processo
negoziale, ma senza un coordinamento e una strategia comune, quindi
non erano in grado di sviluppare una sufficiente «massa critica» di
contrattazione.
Le incertezze nel campo delle relazioni sindacali hanno trovato
conferma anche per effetto degli accordi separati di Cassino, non
sottoscritti dalla Fiom. Il primo è quello del 15 marzo 2001 che, oltre a
tracciare un programma per l’avvio del nuovo modello della «Stilo»,
introduce la stessa metrica del lavoro di Melfi (il Tmc2) e la stessa
procedura di reclamo in caso di contestazione da parte del lavoratore che
comporta un’evidente intensificazione della prestazione lavorativa. Per
questo motivo non è stato sottoscritto dalla Fiom.
Il secondo accordo separato, del 30 luglio 2001, riguardava
l’introduzione di un regime d’orario a 20 turni (4 squadre che si alternano
sui 7 giorni della settimana) per 80 lavoratori delle manutenzioni dello
stabilimento di Cassino. L’accentuarsi delle divisioni sindacali è anche un
effetto indotto dall’accordo «separato», sottoscritto solamente da Fim e
Uilm, per il rinnovo del biennio economico dei metalmeccanici il 3 luglio
2001, con la logica conseguenza che la Fiom ha continuato con le
iniziative di mobilitazione dei lavoratori. In questo clima è anche
maturata la scelta della Fiom di dichiarare due ore di sciopero alla Fiat, il
12 ottobre 2001, per il rilancio della vertenza aziendale, tuttavia senza
esiti apprezzabili. Un risultato indiretto di questa situazione d’incertezza
e di disagio nelle relazioni sindacali si è anche misurata nella tendenza a
una generale crescita dell’assenteismo per malattia, che negli stabilimenti
più «vecchi», come Mirafiori, è arrivato a dati a due cifre, con valori che
155
erano considerati normali negli anni settanta. È logico dedurre che i
rilevanti e continui cambiamenti produttivi e occupazionali, che
caratterizzano gli attuali sistemi di produzione, generano forti elementi di
disagio tra i lavoratori. In definitiva questi aspetti continuano a segnalare
una situazione di incertezza e deterioramento delle relazioni sindacali.
Nel corso degli anni novanta si sono ulteriormente accentuati i
fattori di competizione per le imprese, con un incremento delle variabili
e quindi delle incertezze per chi opera sui mercati internazionali.
In alcuni settori la politica di globalizzazione ha consentito la
realizzazione di grandi gruppi, come la Cnh Global, che hanno occupato
posizioni di rilevo nel mercato mondiale, il rafforzamento della New
Holland e della Comau con l’acquisizione, nel 1999, di importanti
società quali la Case (macchine agricole), la Pico e la Renault Automation
(sistemi di produzione), che consentono alle due società del gruppo di
diventare leader mondiali nei rispettivi settori. Una serie di allenze
produttive (Magneti Marelli con Bosch, Teksid con Eaton, Iveco con
Renault sui bus) completano il quadro degli anni novanta.
Negli ultimi anni però non ci sono state solo acquisizioni, ma
anche rilevanti cessioni di imprese importanti, come la Fiat Ferroviaria la
cui quota di maggioranza è stata ceduta al gruppo francese Alstom, la
vendita di alcune unità produttive che compongono la Magneti Marelli.
Ovviamente le cessioni dovevano consentire anche di avere le
risorse finanziarie per coprire una parte dei rilevanti debiti generati dalle
operazioni di acquisizione. Si devono però aggiungere anche gli
insuccessi, infatti, nonostante i reiterati tentativi, dopo l’acquisizione
dell’Alfa Romeo nel 1987 la Fiat non è più riuscita ad acquisire altri
marchi di produttori internazionali di autoveicoli, come dimostra anche il
tentativo compiuto con la Volvo, che alla fine è stata acquisita dalla Ford.
156
In sintesi si può affermare che la Fiat, nel corso degli anni novanta,
accentua il tentativo di diversificare le proprie attività, cercando di
diminuire il peso specifico del settore degli autoveicoli.
Il risultato negativo di Fiat Auto è avvenuto quindi per effetto di
un mercato notevolmente cambiato nella sua composizione e
nell’accentuarsi della competizione. Inoltre si devono tener presente la
maggiore debolezza del prodotto Fiat sui segmenti di mercato medio-alti,
che sono quelli più difficili da conquistare ma che garantiscono i margini
più elevati, la riduzione dell’occupazione derivante in parte dai processi
di outsourcing, ma anche le riduzioni di personale attuate nell’ultimo
decennio. L’insufficienza dei risultati economici arriva dopo un decennio
in cui sono state investite notevoli risorse finanziarie, soprattutto nella
prima metà degli anni novanta, ma evidentemente non sono state
utilizzate in modo adeguato o con sufficiente coerenza.
L’annuncio così di una nuova fase di ristrutturazione, deciso dal
consiglio di amministrazione della Fiat del 10 dicembre 2001, non giunge
inaspettato a coloro che seguono da vicino le vicende del Gruppo e
conferma la gravità della crisi aziendale, che ha al proprio centro il
settore auto. Il piano di ristrutturazione presentato dall’azienda
prevedeva la chiusura di 18 stabilimenti (2 in Italia e 16 nel resto del
mondo) nel periodo 2002-2004, con una riduzione dell’organico di 6000
lavoratori, tutti impiegati in stabilimenti esteri, una riorganizzazione di
Fiat Auto in quattro business unit (Fiat Lancia, Alfa, Sviluppi
internazionali, Servizi per i clienti), dismissioni per circa due miliardi di
euro nel 2002, tra queste quella della Magneti Marelli, della Teksid, della
Comau, delle produzioni militari e altre ancora.
Nell’insieme si tratta di una serie di interventi che confermano la
gravità della situazione aziendale, che si dimostra ancora peggiore della
157
crisi del 1993, soprattutto per l’entità del debito che proporzionalmente
risultava superiore e per il contesto di mercato che presenta aspetti di
competitività molto più accentuati.
Un fattore importante riguarda il rapporto con i sindacati, che non
sono stati coinvolti in una trattativa sindacale preventiva sulla crisi e sui
modi per risolverla, gli stessi organismi di partecipazione, istituiti con
l’accordo del 18 marzo 1996, non sono stati attivati nei tempi e con le
modalità preventive che la gravità della situazione avrebbe richiesto. Ciò
evidenzia il fallimento del modello partecipativo aziendale che, alla prova
dei fatti, ha dimostrato la propria inconsistenza.
Nei fatti, l’azienda ha avviato il confronto sul piano di
ristrutturazione solamente nella primavera del 2002, in concomitanza
con l’apertura della procedura di riduzione del personale, mentre la
gravità della crisi era già evidente nel corso del 2001 ed era stata oggetto
di più richieste di chiarimento da parte sindacale a cui l’azienda aveva
sempre dato risposte che minimizzavano la criticità della situazione,
evidentemente per escludere un confronto reale sui problemi aziendali.
In ogni caso la trattativa ha generato una differenza di valutazione
tra i sindacati, a cui sono seguiti accordi separati. Con l’entrata in scena di
una nuova maggioranza di Governo, si assiste al progressivo abbandono
del «metodo concertativo», fondato sugli accordi triangolari (Governo,
organizzazioni sindacali e datoriali), che avevano contraddistinto per più
di un decennio il sistema di relazioni sindacali. Con la concertazione
sociale, le parti sociali non si limitano ad un ruolo di mera negoziazione
delle proprie istanze, bensì partecipano attivamente alla definizione delle
politiche economiche e sociali dell’Esecutivo. Si apre così la strada ad un
nuovo metodo che va sotto il nome di «dialogo sociale», in cui la
partecipazione delle parti sociali alla determinazione delle politiche del
158
Governo viene confinata nell’ambito di pareri e raccomandazioni cui
quest’ultimo può decidere o meno di dare seguito. Inoltre,
differentemente dalla concertazione sociale che è dotata di una portata
generale, occupandosi sostanzialmente di tutti i principali aspetti delle
politiche economiche e sociali del Governo, il dialogo sociale è settoriale
e specifico. Inoltre quest’ultimo sostituisce «alla regola della unanimità,
che era seguita sempre in passato, la regola della maggioranza, aprendo
così la strada alla conclusione di accordi tra Governo e parti sociali
“separati”».
La tecnica sostitutiva del dialogo sociale ha trovato attuazione nel
recente «Patto per l’Italia», siglato il 5 Luglio 2002 e sottoscritto dalle sole
Cisl e Uil senza la Cgil. 23
L’elemento qualificante del Patto, su cui peraltro si è prodotta la
rottura con la Cgil, è stato rappresentato dalla proposta di
modifica/sospensione dell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori in materia
di licenziamenti individuali, che però veniva vista dalla Cgil come una
radicale abolizione di un istituto di tutela dei lavoratori. Si può rilevare
come il rapporto tra l’azienda e l’insieme dei sindacati abbia toccato uno
dei punti più bassi nella storia degli ultimi anni.
La crisi del sistema di relazioni sindacali si evidenzia
nell’insofferenza della Fiat per le regole del confronto sindacale e
conferma la minor attenzione aziendale al tema dei rapporti sociali.
Nei fatti, l’azienda ha proceduto modificando i piani di
ristrutturazione con un accordo diretto con il governo senza un reale
confronto sindacale, ha previsto la continuazione del confronto sindacale
solamente a livello di stabilimento per gestire gli effetti occupazionali.
23 Del Giudice F., Mariani F., «Compendio di diritto sindacale», cit., p. 148
159
Ciò ha il significato di mantenere al minimo il confronto sindacale,
quello previsto dalle normative legislative per la gestione del personale
esuberante, mentre non è più previsto un tavolo nazionale di confronto e
quindi la possibilità di ridiscutere il piano industriale complessivo.
La situazione sembra successivamente aggravarsi poiché a Melfi si
stanno per preparare giorni molto difficili per la Fiat, con una situazione
sociale così tesa da indurre una ripresa delle forme radicali del conflitto
industriale, quelle di cui sembrava essersi persa la memoria, che risale a
un periodo che appartiene alla storia, invece che all’attualità, come quello
del sindacalismo militante.
Nel gennaio del 2004 si decide di concentrare la produzione della
Punto (che resta il modello più venduto e importante della gamma Fiat) a
Melfi, ma è un atto destinato ad aprire questioni più gravi di quante ne
risolva. Intanto perché la decisione aziendale getta un’ombra profonda
sulla sorte dello stabilimento di Mirafiori, contribuendo a irrobustire le
resistenze sindacali e a corroborare nelle sue posizioni la Fiom, sempre
più persuasa che il futuro di Torino finirà coll’assomigliare a una foresta
pietrificata dell’industria, con spazi enormi desertificati e abbandonati a
loro stessi da un sistema manifatturiero in rapida ritirata.
Melfi, a mezzo del decennio Novanta, era stata presentata come la
realtà che incorporava la capacità della Fiat di progettare insieme lavoro e
organizzazione. Melfi era il green-field industriale che si sostituiva ai
luoghi dell’industria dove la Fiat era cresciuta, era l’immagine del nuovo
Mezzogiorno dinamico, dove lo sviluppo industriale significava non
soltanto quantità ma anche qualità, qualità sociale per giunta.24
Tuttavia il ristagno e poi il vero e proprio declino del sistema aziendale
avevano finito col tradire le promesse di Melfi o almeno col
24 Berta G., “La Fiat dopo la Fiat, storia di una crisi. 2000-2005”, cit., p. 102
160
disattenderle, lasciando che si scavasse un divario fra i programmi
dichiarati e una condizione di fatto, in cui naufragavano le aspettative di
mobilità sociale nutrite dal modello della fabbrica integrata. Invece di una
sede di sperimentazione nella quale ibridare e mettere alla prova i
principi giapponesi della responsabilità sul lavoro, per fare di Melfi la
versione italiana di Toyota City, la routine gestionale l’avevano semmai
assimilata a Torino, ma a una Torino più povera, con salari, norme e
garanzie inferiori a quelli vigenti nel bacino storico della Fiat.
Preparata da un’azione rivendicativa che investe l’intero
comprensorio Fiat, a cominciare dalle fabbriche di componenti, il 19
aprile 2004 gli impianti lucani della Fiat si bloccano totalmente e così, a
cascata, dopo l’arresto dello stabilimento che costituisce il cuore
dell’auto, si fermerà tutta la produzione in Italia.
A lanciare l’agitazione sono la Fiom e i Cobas, cioè l’anima
radicale del sindacato, in aperto e violento conflitto con le altre
organizzazioni, la Uilm ma soprattutto la Fim-Cisl, che dei sindacati di
categoria è quello che si è speso di più per accreditare la strategia della
partecipazione. Ma la Fiom sa che la protesta trova un terreno fertile
nello scontento diffuso tra i lavoratori per le condizioni retributive e i
turni lavorativi. A Melfi si lavora di più che altrove nel sistema Fiat ed è
oneroso il meccanismo della «doppia battuta», che non intervalla
abbastanza le turnazioni più faticose, dal momento che molti lavoratori
giungono in fabbrica da lontano, dopo ore trascorse sui mezzi di
trasporto.
Nel 2004, la Fiom aveva quindi mosso il proprio attacco alla Fiat
con un’azione vasta e ben articolata. Fra il 16 e il 17 aprile aveva
sostenuto uno sciopero presso i fornitori della Fiat che aveva provocato
un arresto della produzione nello stabilimento Sata, imponendo, come si
161
dice nel gergo di fabbrica, la «messa in liberta» dei lavoratori. La mossa
seguente era stata il blocco totale della Sata e del suo comprensorio fra il
19 e il 29, mediante un picchettaggio duro ai cancelli che non s’era più
visto alla Fiat dall’ottobre dell’80. L’azione era sfociata in una progressiva
mancanza di componenti che aveva finito col paralizzare l’intera branca
italiana della Fiat Auto. Sotto l’urgenza di uno scontro che aveva effetti
dilaceranti, in un incontro a Roma con Fim, Uilm e Fismic, la Fiat aveva
accettato di andare verso il superamento della «doppia battuta». Ma
l’intesa sottoscritta il 24 aprile senza la Fiom sortì l’esito opposto a quello
sperato, acutizzò infatti la protesta della Fiom, esacerbando la
contrapposizione con le altre componenti sindacali, la Fim in primo
luogo. I picchetti si fecero ancora più duri, con lanci di sassi verso i
pullman che cercavano di portare i lavoratori in fabbrica e con scambi
d’accuse e minacce che spinsero i rappresentanti della Fim a denunciare
quelli della Fiom. La presenza della polizia, che si produsse in una carica
ai manifestanti, sembrò un salto all’indietro, in un clima antisindacale che
non sussisteva in Italia da decenni. Per la rimozione dei blocchi si
dovette attendere la fine del mese, di preciso la giornata del 29, senza
però che si interrompessero gli scioperi. La ripresa della produzione
avvenne gradualmente il 3 e il 4 maggio, mentre la trattativa si riaprì a
Roma il 5, alla presenza delle segreterie nazionali dei tre sindacati
metalmeccanici, per concludersi con la stipula di un accordo il 9.
La Fiat in un primo momento oscilla nei suoi atteggiamenti, per
qualche giorno sembra volersi tenere a una linea di intransigenza, ma in
seguito, si dirà su pressione delle banche creditrici che temono quella
sovraesposizione mediatica così negativa, sceglierà la via della soluzione
negoziale, in cui il meccanismo della «doppia battuta» veniva
ufficialmente revocato, con l’introduzione di una nuova distribuzione
162
delle ore di lavoro che permetteva turni non così stringenti come quelli
che erano stati all’origine della protesta e una congrua rivalutazione delle
paghe, che in prospettiva doveva portare al loro allineamento a quelle in
vigore presso gli stabilimenti più importanti, come Mirafiori.
Al termine della vertenza, sarà chiaro che non ci sarebbe poi
voluto molto per riuscire a evitarla. Sarebbe bastata una politica di
fabbrica meno burocratica e routinaria, più attenta, in modo da evitare
che si condensasse un denso involucro di malessere, sedimentato da un
eccessivo accorpamento di lavoratori tutti inquadrati allo stesso modo e
accomunati dai medesimi problemi.
Il ricordo dell’agitazione della primavera del 2004 che si è
depositata a Melfi, non si è affatto sopito e i contrasti precedenti non
appaiono metabolizzati dall’organizzazione di fabbrica né dalle
rappresentanze sindacali.
Il 18 settembre 2005, alle 22, era previsto nello stabilimento Sata,
l’avvio del turno aggiuntivo (il diciottesimo) sulla linea di produzione
della Grande Punto. Ma a Melfi quella sera, la linea non entra in funzione
e accadrà lo stesso nelle due domeniche successive, il 25 settembre e il 2
ottobre, quando uno sciopero organizzato unitariamente dalle tre
maggiori sigle sindacali, e appoggiato anche dalle altre, impedirà che si
attui il diciottesimo turno presentato in origine dal piano produttivo della
Fiat. Attorno alla questione dei diciotto turni riprende così un confronto
fra la direzione aziendale e i sindacati, che ripete un copione tanto
ricorrente da apparire scontato, da un lato, l’impresa ha l’intenzione di
assicurarsi la possibilità di effettuare quel turno (secondo lo schema dei
tre turni per sei giorni lavorativi) che, oltre a poter soddisfare una
domanda di mercato in crescita, garantirebbe l’economicità di gestione
dell’impianto. Dall’altro, la pressione per il turno della domenica sera si
163
scontra con una resistenza sindacale che è unitaria di facciata, ma
modulata nella sostanza, Fim, Uilm e Fismic (il sindacato di matrice
aziendale) sarebbero disposte a venire incontro all’azienda, permettendo
l’esecuzione del turno fino alla primavera, la Fiom, fedele alla sua linea di
intransigenza, parrebbe incline tutt’al più a lasciarlo effettuare fino a
gennaio.
L’episodio non rivestirebbe in sé un significato particolare, se non
si innestasse sul lungo stallo delle relazioni industriali. A Melfi il sistema
delle relazioni che lega l’impresa ai sindacati e ai lavoratori ha subito una
lacerazione che non sarà facile ricomporre. Difficile dire, infatti, chi
uscisse vincitore da quella prova di forza, le elezioni per le
rappresentanze sindacali doveva, sì, porre in evidenza un certo recupero
della Fiom, ma ottenuto a scapito dei Cobas, che perdevano oltre il 2 per
cento. L’organizzazione più penalizzata era in definitiva la Fim, quella
che aveva investito di più sia su un rapporto di concorrenza con la Fiom
sia sulla possibilità di dare un’impronta partecipativa alle relazioni
industriali. Per il resto, le variazioni non erano molte, la più rilevante era
costituita dall’incremento dell’1,5 per cento che era andato al sindacato di
destra, Ugl, sempre pronto a cavalcare la protesta sociale, specie nel
Mezzogiorno. Ma certo a perdere più di tutti era stata la Fiat, che aveva
assistito alla crisi del suo modello industriale proprio nella fabbrica
progettata, alla metà degli anni novanta, come una soluzione
organizzativa di tipo nuovo, capace di andare al di là delle vecchie
logiche di autorità del fordismo che avevano imperato a Mirafiori.
Quando anche i giorni della lotta saranno trascorsi, a Melfi
permarrà un indicatore, inquietante, del malessere che vi serpeggia, il
tasso di assenteismo più alto che negli altri stabilimenti italiani della Fiat
(imparagonabile, poi, a quello dell’impianto polacco), perfino più elevato
164
che a Pomigliano d’Arco, di cui a Torino ci si era più lamentati in
passato, perché considerata una fabbrica ostica dal punto di vista sociale.
Il fatto è che a Melfi si è fatta strada la delusione, delusi per primi i
lavoratori, o almeno quella parte di loro che ha giudicato tradite le
promesse di mobilità sociale diffuse al momento della nascita della Sata,
nei primi anni Novanta, quando si era compiuta una meticolosa selezione
del personale, poi inviato a Torino per un periodo di formazione presso
l’Isvor, la scuola interna della Fiat. Allora, l’idea dell’Unità tecnologica
elementare, Ute, era stata associata a un’immagine nuova e vincente del
lavoro industriale al Sud, come strumento, al contempo, di coesione
produttiva, di crescita professionale e di identità sociale. Una
rappresentazione che per funzionare avrebbe avuto bisogno di una
coerente e ininterrotta politica aziendale, volta a tener in vita l’obiettivo
della creazione di un’èlite industriale nel Mezzogiorno. Ma, il declino
della Fiat aveva comportato un progressivo oscuramento della qualità
della nuova forza-lavoro di Melfi, che si è trovata invece ad essere
livellata in una massa piuttosto grigia e omogenea, ben diversa da quel
nucleo industriale che avrebbe dovuto formare il punto di forza della
«fabbrica integrata» post-fordista. Una massa, per di più, che si è sentita
penalizzata, oltre che sotto il profilo retributivo e professionale, anche da
una disagevole condizione lavorativa, per la cattiva distribuzione dei
turni, per la distanza che spesso separa i lavoratori dalla localizzazione
dell’impianto e, infine, perché non piace a nessuno dover andare in
fabbrica la domenica sera, spezzando la pausa estiva.
Per giunta, lo sfasamento della vita interna della fabbrica, ormai
punteggiata da episodi di disaffezione, era stato fronteggiato per via
amministrativa, con la somministrazione di multe e provvedimenti
disciplinari che erano serviti soltanto ad acutizzare il malcontento.
165
È naturale che questa delusione o disaffezione si sia riversata sulla
componente sindacale che aveva creduto alla scommessa della «fabbrica
integrata» e aveva tentato di immedesimarsi, delineando una strategia
contrattuale non più centrata sul conflitto, ma tesa alla ricerca di spazi di
partecipazione. La Fim-Cisl, pur con incertezze e oscillazioni, aveva
impersonato quest’ultima più della Uilm o il Fismic, portatrici di un
sindacalismo moderato, piuttosto che per una convinzione maturata in
autonomia. Semmai, è proprio la Fiom a non rimanere delusa
dell’andamento di Melfi, perché vi ha trovato la riprova della via del
conflitto e di un rilancio dell’azione sindacale che faccia perno sul
ribaltamento dei rapporti di forza, invece che su un atteggiamento di
problem-solving dinanzi ai contrasti che si dischiudono continuamente
nella vita di fabbrica.
I dati di fonte aziendale ci dicono che il numero degli iscritti a un
sindacato è pari al 36,7 per cento del totale di operai, impiegati e quadri
attivi nelle strutture italiane del gruppo Fiat. Un lavoratore su tre,
dunque, esprime il proprio consenso a una forma di rappresentanza
sindacale attraverso la delega concessa all’azienda affinchè essa prelevi
dalla sua busta paga la quota mensile che verrà versata all’organizzazione
cui ha scelto di appartenere.
Non si sta più nel sindacato sull’onda di un entusiasmo collettivo
come quello che s’era divulgato nelle fabbriche al termine degli anni
Settanta. Ci si sta, magari per routine e senza una convinzione molto
salda, perché il sindacato resta uno strumento di tutela di cui è meglio
disporre, o perché, bene o male, offre pur sempre un servizio.
L’ipotesi di costruire nei decenni precedenti un sistema di relazioni
industriali in cui la fase negoziale e quella partecipativa si equilibrassero e
si compensassero non è andata in porto. Nessuna delle due parti aveva
166
saputo mettersi in gioco veramente. L’azienda e il sindacato avrebbero
dovuto rischiare di più, ma il timore era stato più forte della volontà di
trasformazione. Per avere vera partecipazione sono necessarie due
condizioni di base, un sindacato che nel suo insieme vi scommetta e
un’azienda che, dal responsabile delle relazioni industriali fino al
capofficina, ci creda. Entrambi questi presupposti sono mancati.
La Fiat ha sempre preferito avere un «sindacato subalterno», che
magari ogni tanto proclami uno sciopero ma che non entri mai nella
gestione dell’azienda e nelle sue scelte. E questo è proprio il contrario di
ciò che richiede la partecipazione.
Tuttavia, in una delle sue rarissime sortite pubbliche, l’ultimo
amministratore delegato della Fiat, Sergio Marchionne, dirà nell’ottobre
2005: «Apprezzo i leader sindacali».25 E per rincarare il valore delle sue
parole citerà esplicitamente i nomi dei segretari di Cgil, Cisl e Uil, stimati
per aver «condiviso con noi della Fiat strategie importanti».
«Considero il sindacato un nostro partner nello sviluppo del
gruppo, e non lo dico per avere la loro simpatia, ho lavorato soprattutto
all’estero, e in Francia o Germania un dialogo così aperto e intelligente
con le parti sociali se lo sognano».
L’estate del 2004 verrà così ricordata da molti dirigenti intermedi
Fiat come quella della grande epurazione. Marchionne, il nuovo
amministratore delegato di Fiat auto, porta una diversa idea di
organizzazione del lavoro e implementa i principi della fabbrica snella,
che portano ad un appiattimento della piramide del comando.
Appiattire la piramide significa ridurre la distanza tra chi decide e
chi produce. E in fabbriche gigantesche come Mirafiori quella distanza
25 Berta G., «La Fiat dopo la Fiat, storia di una crisi. 2000-2005», cit., p. 138
167
era spesso abissale. Si procede così ad uno sfoltimento di capi e figure
intermedie, contemporaneamente Marchionne cerca di rendere meno
grigi gli stabilimenti, c’è una logica ferrea in questa strategia, ridurre al
minimo il numero degli improduttivi e valorizzare chi lavora in linea e
dunque produce. Tuttavia, all’inizio del 2005 la qualità del lavoro nella
grande fabbrica non doveva essere migliorata in modo significativo, se il
70 per cento degli operai di Mirafiori, rispondendo a un questionario
della Fim, dichiara che non consiglierebbe al proprio figlio di lavorare in
Fiat.
Dopo il «divorzio consensuale» tra Fiat e Gm, le due aziende
sciolgono le joint venture ma continueranno a mantenere la
collaborazione industriale, almeno per un certo periodo.
Il divorzio di San Valentino, galvanizza il mondo Fiat. Non solo e
non tanto per il miliardo e mezzo di euro che entra nelle casse
dissanguate del Lingotto quanto per quella libertà e quell’orgoglio
ritrovati che Montezemolo sintetizza nella frase: “Da oggi la Fiat è tutta
italiana”.
Le organizzazioni sindacali aveva seguito le vicende della trattativa
con lo stato d’animo di chi sa che una vendita forzata con l’arrivo di Gm
avrebbe potuto significare la catastrofe. Dopo il divorzio dalla Gm e
liberata dal gioco delle banche convertendo, nell’autunno del 2005, la
Fiat deve dimostrare di saper fare da sola. I timori sulla chiusura di
Termini Imerese e di Mirafiori non si erano mai del tutto sopiti, mentre
su Termini Imerese i rischi sono legati ai problemi logistici dello
stabilimento siciliano, troppo piccolo per giustificare gli investimenti
necessari a produrre nuovi modelli, Mirafiori soffre della malattia
opposta, il gigantismo.
168
Nel 2006, il clima di collaborazione tra le parti produce i maggiori effetti
proprio a Torino, luogo storico del conflitto sociale del Novecento. Fin
dall’anno precedente è chiaro che per avere diritto a un futuro a Mirafiori
non può basarsi solo sulla produzione delle monovolume e dei modelli di
gamma alta. Ad aprile 2005 il Lingotto annuncia un paino di cassa
integrazione dovuta ai cali di mercato che coinvolge sia 5000 operai della
carrozzeria sia 1500 impiegati.
Tra i sindacati e gli osservatori si fa strada l’idea che senza grandi
volumi produttivi la fabbrica è destinata a una inesorabile agonia. Quel
che preoccupa Fiom, Fim, Uilm è che l’assenza di una produzione di
massa finisca per avere conseguenze negative anche sull’indotto,
costituito da medie e piccole aziende che nel Torinese lavorano per il
Lingotto.
Il primo passo per rendere competitiva Mirafiori è ridurla di
dimensioni. Il secondo è quello di portare una produzione di grandi
volumi. È su questi due punti che inizia una trattativa a tre, istituzioni
locali, Fiat, sindacati.
L’accordo viene firmato il 23 dicembre 2005 nella sede della
regione Piemonte, prevede appunto che gli enti locali torinesi
costituiscano, insieme alla Fiat una società per rilevare e gestire una fetta
di 300 000 metri quadri della fabbrica da utilizzare per insediare altre
aziende. Gli enti locali torinesi spendono circa 70 milioni di euro, in
cambio la Fiat promette di attrezzare una delle linee per produrre circa
80 000 Grande Punto all’anno che siano aggiuntive a quelle realizzate
nello stabilimento di Melfi. La festa per l’inizio della produzione della
Grande Punto a Mirafiori è uno dei momenti in cui il clima di
collaborazione tra Fiat e sindacati è più evidente.
169
La Fiat ha l’occasione di voltare davvero pagina quando l’amministratore
delegato incontra a Palazzo Chigi i rappresentanti di governo e sindacati.
Marchionne porta con sé un dossier di venticinque pagine contenente il
piano industriale 2007-2010.
Per la prima volta il piano mette nero su bianco i problemi di
Termini Imerese. La fabbrica che eredita Marchionne intorno al 2005
risente già del ridimensionamento decretato gli anni precedenti.
Nel 2005 le aziende dell’indotto vengono pesantemente ridotte e si
stabilisce che le parti per assemblare la Ypsilon, il modello Lancia
prodotto nello stabilimento siciliano, arriveranno dal polo della fornitura
della piana di San Nicola, l’area industriale che circonda lo stabilimento
lucano di Melfi. Si deve aggiungere a questo particolare il fatto che a
Termini non c’è mai stato un reparto presse. Tutto congiura, insomma,
verso la chiusura. Le pari della Ypsilon, compresi i pezzi di lamiera già
stampati, arrivano dalla Basilicata e dagli altri stabilimenti italiani della
fornitura. Raggiungono Termini, vengono assemblati, diventano
automobile e in grandissima parte ripartono dalla Sicilia verso i
concessionari sparsi lungo lo Stivale. Un viaggio di andata e ritorno che
influisce pesantemente sui costi di produzione. Se si aggiunge che quei
costi si distribuiscono un numero limitato di automobili, meno di 100
000 all’anno, è difficile dar torto a chi ritiene che quella sia una realtà
industriale economicamente insostenibile.
Avendo promesso che «nessuno stabilimento italiano verrà
chiuso», Marchionne deve ora trovare una soluzione per rendere
economica la produzione in Sicilia.
Gli incontri tra azienda, sindacati e istituzioni iniziano in giugno a
Palermo e proseguono fino a novembre. Si segue un principio base, per
vivere, Termini deve diventare più grande, perché solo con i grandi
170
volumi produttivi si giustificherà il ritorno nell’isola delle aziende della
fornitura, che non sopravvivono su piccole commesse. Poi si tratterà di
realizzare un reparto presse.
Il 25 gennaio, a Siena, Luca Cordero di Montezemolo interviene
come presidente di Confindustria a un convegno di imprenditori, e dice
che quel che gran parte dell’Italia pensa: «Mentre gli imprenditori siciliani
combattono contro il pizzo, il governatore della Sicilia viene condannato
a cinque anni di reclusione e decide di restare al suo posto». Salvatore
Cuffaro era stato condannato per rivelazione di segreto d’ufficio e
favoreggiamento nei confronti di alcuni esponenti di famiglie mafiose.
Il giorno dopo la dura dichiarazione di Montezemolo, Cuffaro si
dimette non senza essersi rifiutato di approvare il provvedimento che
avrebbe sbloccato i finanziamenti per Termini. Qualcuno vede in questo
gesto una ritorsione per le dichiarazioni del presidente della Fiat.
Si chiude così di fatto la possibilità di rilanciare lo stabilimento di
Termini Imerese che sembra oramai nei piani della Fiat, aver perso il
treno. Il lancio della 500 segna l’ultima tappa della rinascita del Lingotto
a cui si somma quella della nuova Bravo.
È l’anno 2007, quando, nonostante un ripresa del metodo
concertativo (il Protocollo su «previdenza, lavoro e competitività» segna
la ripresa insoddisfacente del metodo concertativo.26 La nuova
compagine governativa di centro-sinistra dichiara, nel proprio
programma elettorale, la volontà di far riprendere corso alla
concertazione per acquisire il consenso sociale indispensabile per la
realizzazione degli obiettivi urgenti e difficili. In realtà i primi passi della
nuova concertazione sono avvenuti su un terreno alquanto accidentato,
26 Del Giudice F., Mariani F. «Compendio di diritto sindacale», cit., p. 149
171
non essendo stata agevole la mediazione tra sindacati e parte
imprenditoriale, ed hanno messo in evidenza il permanere delle
problematiche che sin dalle origini hanno riguardato il metodo
concertativo, quest’ultimo presuppone che la parte sindacale che firma
sia forte e radicale, in modo da non veder poi ripudiato quanto da essa
convenuto), l’amministratore delegato spiega che tra le ragioni che
avevano consentito alla Fiat una ripresa così rapida era la difesa di un
modello di relazioni sindacali basate sul dialogo e sul confronto. Questo,
del resto era stato uno degli ingredienti che a Torino aveva consentito la
sopravvivenza di uno stabilimento come Mirafiori. Marchionne teorizza
pubblicamente quel modello: «In Fiat abbiamo ottenuto risultati
importanti sulla via del dialogo. Dopo dieci anni, e senza un’ora di
sciopero che è caso più unico che raro in Italia, è stato rinnovato il
contratto integrativo aziendale. Dopo dieci anni sono stati assunti in
fabbrica i primi giovani, in cambio di turni straordinari di lavoro.
Abbiamo siglato un importante accordo con le istituzioni locali per la
riqualificazione di Mirafiori. I risultati raggiunti da Fiat dimostrano che
trasformazioni simili sono possibili anche in un paese con una forte
coscienza sindacale e con quello che la maggior parte dei commentatori
anglosassoni chiamerebbe “struttura del lavoro poco flessibile”.
In seguito al resoconto fatto da Marchionne sullo stato di salute
della Fiat, il 4 dicembre 2007, il Lingotto annuncia l’avvio dell’operazione
Pomigliano. La fabbrica napoletana che produce i modelli dell’Alfa
Romeo non è evidentemente in grado di tenere il ritmo degli altri
stabilimenti italiani e anche i finanziamenti pubblici per
l’ammodernamento concessi negli anni precedenti non sembrano aver
sortito l’effetto sperato, o comunque non sembrano essere stati utilizzati
in maniera in modo efficace per raggiungere l’obiettivo. Il problema non
172
dichiarato da nessuno, ma da tutte le parti sussurrato con certezza, è che
la fabbrica napoletana fosse in parte fuori controllo. O, se si preferisce,
in parte influenzata dai poteri delle stesse organizzazioni criminali che
spadroneggiano nel territorio circostante. Il Lingotto annuncia così la
chiusura dello stabilimento per due mesi, dal 7 gennaio al 2 marzo 2008,
decide l’investimento di 70 milioni per «riorganizzare il processo
produttivo secondo i principi del World Class Manufacturing» e
promette un vasto piano di formazione per tutti i dipendenti.
Il piano prevedeva che oltre ai modelli dell’Alfa venisse realizzata
anche la Bravo, una produzione trasferita da Cassino, dove intanto
venivano preparate le linee della nuova Lancia Delta. «In prospettiva,
dice Marchionne, Pomigliano e Cassino diventeranno un unico polo
produttivo».
L’annuncio del piano di ristrutturazione viene accolto con favore
dai sindacati. «Una proposta innovativa, una sfida per tutti» commenta il
leader della Cisl, Raffaele Bonanni. Si dice soddisfatto il segretario della
Uil, Luigi Angeletti. Ma soprattutto è buono il giudizio di Gianni
Rinaldini, segretario generale della Fiom «Il piano è una sfida positiva
che, in quanto tale, deve coinvolgere le strutture sindacali». L’unica
eccezione è rappresentata dai Cobas, che indicono due ore di sciopero
contro la «serrata toyotista» di Marchionne. Le posizioni dei sindacati in
questa fase sono importanti perché è proprio nella gestione
dell’operazione Pomigliano del 2008 che cominciano a intravedersi i
germi del futuro scontro sull’accordo del 2010. È evidente infatti che
l’operazione di restyling della fabbrica presenta problemi a livello locale
sia per i sindacati sia per la Fiat.
173
I problemi sindacali sono legati a una presenza dei Cobas
particolarmente combattiva, che mette la Cgil nella condizione di dover
far da cuscinetto tra gli altri sindacati confederali.
La sera del 3 dicembre, prima dell’annuncio pubblico, Sergio
Marchionne aveva illustrato il piano per Pomigliano a Guglielmo Epifani,
Raffaele Bonanni e Luigi Angeletti, i tre segretari generali di Cgil, Cisl e
Uil. Un passaggio necessario ma anche un segno di rispetto dell’Ad del
Lingotto nei confronti dei sindacati. La questione, di cui non è certo
responsabile Marchionne ma che è nei fatti, è che, come si vedrà,
Epifani, a differenza dei suoi colleghi, non ha la forza di imporre ai suoi
metalmeccanici una linea diversa da quella scelta dalla Fiom. E questa
difficoltà sarà all’origine degli scontri successivi a Pomigliano.
Il rovescio della medaglia è in casa Fiat dove si manifestano, per la
prima volta, segnali di un evidente conflitto tra vecchio e nuovo che
esploderanno anch’essi nello scontro del 2010. Perché un conto è far
nascere «la nuova Fiat» negli spot pubblicitari, un altro è applicarla nella
realtà delle fabbriche, dove gran parte dei capi intermedi oppone
resistenza passiva perché più a suo agio nella vecchia logica dello scontro
che nella nuova della collaborazione.
Così, all’inizio di gennaio, i corsi di formazione partono sotto i
peggiori auspici. In fabbrica si presenta un buon numero di sorveglianti
che controlla lo svolgimento delle lezioni. Questo fatto, in evidente
violazione degli accordi, diventa l’occasione per una serie di scioperi e
cortei interni che, di fatto, bloccano i corsi. La Fiat reagisce con sette
lettere di licenziamento. Tutti i sindacati le giudicano una «inaccettabile
forzatura». Da Torino arriva l’ordine di evitare lo scontro, il 17 febbraio
la Fiat incontra i sindacati all’Unione industriale di Napoli e annuncia il
ritiro delle lettere di licenziamento. I sette lavoratori verranno retribuiti
174
anche per i giorni che hanno trascorso fuori dallo stabilimento in seguito
ai provvedimenti di sospensione.
La tempesta si placa perché nessuno dei protagonisti ha interesse,
nel momento più delicato della riconversione di Pomigliano, a forzare i
toni. E forse perché ciascuno vuole provare a credere fino in fondo alla
possibilità che la ristrutturazione dello stabilimento coincida con il
superamento delle vecchie logiche dello scontro di fabbrica. Che,
insomma, la «nuova Fiat» possa davvero esistere anche sul piano delle
relazioni sindacali. Ma per ambedue i fronti il conflitto è solo rimandato
di due anni.
Il piano di sviluppo 2007-2010 si fondava su una domanda
tendenzialmente in crescita in cui la Fiat riusciva a consolidare e
migliorare la sua quota del 30 per cento del mercato italiano e tentava di
avvicinarsi al 10 per cento di quello europeo. Il crollo dei consumi
tuttavia toglie la sedia su cui poggiava questo progetto e torna a mettere a
rischio l’occupazione degli stabilimenti italiani. Per il momento la
risposta della Fiat è un massiccio ricorso alla cassa integrazione che, a
cavallo delle vacanze di Natale, coinvolge circa 48 000 dipendenti italiani
lasciandoli a casa per un mese. Quel che sarebbe necessario, dicono i
sindacati durante uno sciopero, è un intervento del governo italiano a
sostegno del settore.
Il governo italiano, invece, non particolarmente incline ad
accogliere le istanze di Torino, sceglie la strada dell’astensione
trincerandosi dietro i sacri principi del liberismo che francesi e tedeschi
stanno calpestando per salvare le loro industrie nazionali.
Bloccata quindi la strada di un piano europeo per l’auto che metta
tutti sullo stesso piano, la Fiat tenta di far fronte alla crisi agendo su due
fronti. Quello interno dell’organizzazione del lavoro e quello esterno
175
delle alleanze. I due aspetti sono strettamente legati, all’inizio di dicembre
Marchionne dichiara che «in futuro rimarranno solo cinque, sei
costruttori e per far fronte alla crisi è necessario allearsi, perché
l’indipendenza non è più sostenibile». Ma se l’alleanza non è possibile
realizzarla nell’Europa del welfare, evidentemente occorre cercarla fuori
dal vecchio continente, dove le regole della competizione e
dell’organizzazione del lavoro sono diverse.
4.2. Affare Chrysler e tentativi di acquisizione della Opel
È il novembre del 2008 quando sull’altra sponda dell’Atlantico la crisi si
stava mangiando il mercato dell’Auto colpendo particolarmente i
costruttori americani. Le tre case di Detroit (Chrysler, Gm e Ford)
chiedono all’amministrazione Obama 25 miliardi di dollari per non
morire27. La crisi divampa in un momento delicato. Il presidente eletto,
Barack Obama, non è ancora in carica mentre il suo predecessore,
George Bush, lascerà il comando il 31 dicembre. Si verifica così negli
ultimi giorni del 2008 un autentico paradosso della storia. Dopo
settimane di braccio di ferro, con il Senato che rifiuta di approvare il
piano da 25 miliardi chiesto dalle case americane, tocca proprio al
repubblicano George Bush autorizzare il prestito ponte di denaro
pubblico che dà a Chrysler e Gm il respiro necessario per salvarsi. Ford
ha già fatto orgogliosamente sapere che non ha bisogno di aiuti pubblici.
Il prestito concesso da Bush e approvato da Obama non è a costo
zero, le due case automobilistiche si impegnano entro il 30 marzo a
presentare un piano di rientro e di ritorno alla profittabilità. Dunque
27 Griseri P. «La Fiat di Marchionne. Da Torino a Detroit», Einadi, Torino, 2012, p. 137
176
Chrysler ha ora tre mesi di tempo per trovare una soluzione che le
consenta di uscire dalla strada stretta che conduce al fallimento. E per
dare un futuro alle decine di migliaia di dipendenti che lavorano negli
stabilimenti di Detroit e dintorni, dove la chiusura significa la
disoccupazione immediata.
Nel primo pomeriggio del 20 gennaio, il Lingotto diffonde un
comunicato intitolato «Fiat Group, Chrysler Llc e Cerberus Capital
management Lp» annunciando un’alleanza strategica globale. È la
conferma alle voci che circolavano da qualche settimana
sull’interessamento di Torino per la moribonda casa automobilistica
americana. Cerberus è il fondo di investimento che nel 2007 ha rilevato il
pacchetto di azioni Chrysler precedentemente posseduto dai Tedeschi di
Daimler-Mercedes.
La lettera prevede che la Fiat dia a Chrysler l’accesso alle
piattaforme e alle tecnologie in grado di realizzare automobili a basso
impatto ambientale e a integrare la gamma dei prodotti della casa
americana. Inoltre gli italiani concedono a Chrysler di utilizzare la loro
rete di concessionari, soprattutto in Sudamerica e in Europa dove e più
capillare il loro insediamento. In cambio Fiat otterrebbe il 35 per cento
delle azioni Chrysler senza alcun esborso economico.
In realtà i primi contatti tra Fiat e Chrysler risalivano all’estate del
2008. Nei primi sette mesi dell’anno la piccola di Detroit cominciava ad
avvertire gli effetti della grave crisi del mercato. Si provò a ricorrere ai
ripari intervenendo su due fronti, quelle delle alleanze industriali per
integrare la gamma con modelli medio piccoli a basso consumo e quello
dei tagli di organico. Sul piano delle alleanze era stato costruito un solido
rapporto con la Nissan. In questa logica erano nati i primi contatti anche
con Torino, perché uno degli obiettivi di Marchionne era quello di
177
valorizzare il marchio Alfa riportandolo sul mercato americano dopo
decenni di assenza.
Tuttavia, più trascorrono i mesi più l’aggravarsi della crisi rende
urgenti misure drastiche. In due anni Chrysler ha già tagliato 33 000 posti
di lavoro su 100 000, entro un mese dovevano lasciare gli uffici 5000
impiegati. I vertici ella società studiano possibili fusioni. Si ipotizza
addirittura la nascita di un unico gruppo con Gm. Una scelta che avrebbe
conseguenze sociali catastrofiche per le evidenti sovrapposizioni tra le
due società, si brucerebbero istantaneamente 400 000 posti di lavoro.
È in questo quadro drammatico che nasce l’idea dell’alleanza
globale fra Torino e Detroit. Agli occhi della Chrysler la Fiat ha le
caratteristiche non dissimili dai Giapponesi della Nissan, già da tempo
alleati con i Francesi della Renault.
L’idea dell’alleanza con gli Italiani incontra incoraggiamenti e
diffidenze oltreoceano. Ma la situazione è talmente grave da rendere
superfluo il dibattito tutto ideologico sull’opportunità di mettere
un’azienda americana in mani straniere. I veri ostacoli verranno semmai
da un trattativa dura tra la Fiat, il Tesoro Usa e i sindacati americani. E
sovente saranno proprio i sindacati a trovarsi nell’angolo. Nasce in quei
giorni l’idea che per ristrutturare, per tornare all’utile, è necessario
smantellare buon parte delle conquiste sindacali degli anni precedenti.
Una scelta giustificata in Chrysler con il rischio di fallimento ma che
verrà riproposta da Marchionne in Italia successivamente. Alcuni punti
significativi dell’accordo che verrà stretto all’inizio del 2009 con il
sindacato Usa si ritroveranno dodici mesi dopo nella contestata
accordistica che in Italia andrà sotto il nome di «contratto di
Pomigliano».
178
Si passa così «dalla cultura dei diritti a quella della povertà», fin dal 2007
c’era un accordo che istituiva il doppio salario, i nuovi assunti venivano
pagati 14 dollari l’ora, esattamente la metà dei 28 dollari della paga base
prevista dagli accordi. Per evitare che i 14 dollari diventassero la nuova
paga per tutti, l’accordo prevedeva che il salario dimezzato fosse
corrisposto a non più del 12 per cento dei dipendenti. In questo modo
man mano che andavano in pensione i più anziani, i più giovani li
sostituivano nella paga piena. In sindacato concede a Marchionne di
alzare la percentuale di lavoratori con la paga dimezzata. Ma questa
misura non è considerata sufficiente dal manager di Torino, che chiede al
sindacato altri sacrifici per ridurre ulteriormente il costo del lavoro. La
trattativa entra in una fase di stallo al punto che si pensa alla cessione di
Chrysler alla Gm con le inevitabili conseguenze sociali , un taglio di 40
000 posti di lavoro. Tocca agli uomini di Obama avanzare la proposta
che porterà all’accordo con Marchionne e che farà discutere anche in
Italia, il sindacato si impegna a non chiedere aumenti delle paghe per due
anni, fino a tutto il 2011 e, soprattutto, a non scioperare fino a tutto il
2015. Al termine degli incontri, l’accordo viene firmato e il
capodelegazione della fiat si alza sul tavolo porgendo la mano al
capodelegazione del Uaw che non fa altrettanto e rifiuta la stretta.
Diventerà d’attualità anche in Italia la frase del negoziatore di Obama alla
Fiat «Avete appena cancellato un secolo di contrattazione collettiva»,
punti dell’accordo di Detroit che, dodici mesi dopo, la Fiat inizierà a
imporre in Italia a partire da Pomigliano.
La trattativa di Marchionne non finisce con l’accordo in Usa,
perché Chrysler possiede stabilimenti anche in Canada. Qui però il
manager di Torino gioca in casa, avendo vissuto a Toronto
dell’adolescenza fino agli anni Duemila. L’accordo si trova sulla stessa
179
falsariga di quello americano. Al termine della trattativa Obama elogia il
sacrificio dei lavoratori che hanno accettato di ridurre la propria
retribuzione. In quel momento Torino avrà così conquistato il 51 per
cento della casa di Detroit.
Non si sono ancora spenti i riflettori sulla nuova alleanza
americana che Marchionne procede con l’operazione Opel, un sogno che
nemmeno Marchionne sulla cresta dell’onda del 2009 riuscirà a
trasformare in realtà. In Germania i sindacati vedono con diffidenza
l’arrivo di Marchionne perché temono tagli e chiusure di stabilimenti.
Nonostante le rassicurazioni dell’Ad, si capirà soltanto nelle settimane
successive che nei piani di Marchionne c’è la chiusura dello stabilimento
berga di Anversa.
La Germania, a differenza di quanto farà l’Italia nei mesi successivi,
condiziona l’assenso del governo e vincola le scelte di Marchionne a
precisi parametri per difendere gli interessi dei lavoratori tedeschi.
Il manager del Lingotto rispetta i vincoli imposti dal governo di Berlino e
chiede in cambio un finanziamento pubblico di 5-7 miliardi a garanzia
dei debiti ereditati dalla precedente gestione di Opel. Indiscrezioni
lasciano capire che, al termine della trattativa, Fiat sarebbe disposta a
mettere sul piatto un miliardo di euro.
I sindacati tedeschi alzano invece un fuoco di sbarramento, il piano di
Marchionne creerebbe grandi problemi alla Fiat. Secondo un sindacalista
tedesco la Fiat non poteva entrare nella Opel solo per risolvere i suoi
problemi usufruendo delle garanzie statali.
Improvvisamente nella trattativa in cui si discute di un’azienda tedesca
sull’orlo del fallimento la discussione vira sui problemi della Fiat, come
se fossero i Tedeschi a fare un favore agli acquirenti italiani.
180
«Non ci può essere nessun tentennamento, noi difenderemo tutti gli
stabilimenti italiani», risponde il leader della Cgil, Guglielmo Epifani. «la
Fiat sta meglio di Chrysler e Opel, non si vede perché debba essere
sacrificata», replica il leader della Uilm, Luigi Angeletti.
Preoccupazioni e timori che perderanno presto di attualità perché nella
notte tra il 28 e 29 maggio Sergio Marchionne si conclude
traumaticamente.
In sostanza Berlino aveva chiesto a Torino un finanziamento immediato
al buio per tamponare la falla dei disastrosi bilanci della Opel, senza che
si conoscesse la reale entità del deficit. Nel frattempo il governo tedesco
avrebbe studiato un prestito ponte da concedere alla stessa Opel per
evitare il fallimento in attesa dell’arrivo di una nuova proprietà. A queste
condizioni Marchionne preferisce lasciare. La lezione tedesca per
Marchionne è stata dura. Ha insegnato al manager di Torino che non è
facile trattare quando si ha di fronte un governo che mette al primo
posto la difesa degli insediamenti produttivi e dei posti di lavoro,
variabile indipendente negli Stati Uniti ma non nella vecchia Europa di
tradizione socialdemocratica. Gli ha anche insegnato che uno non smette
mai di portarsi dietro la propria carta d’identità, «I Tedeschi non mi
hanno dato Opel perché ero italiano», dirà due anni dopo l’Ad.
Lo smacco tedesco rischia di avere ripercussioni di immagini anche in
America, incominciano a chiedersi in quei giorni se la Fiat abbia la
solidità necessaria per salvare la Chrysler, la stessa domanda che era
riecheggiata sulla stampa tedesca riferita alla Opel.
Deluso dalla campagna tedesca, Marchionne troverà soddisfazione nei
risultati americani. Ora la battaglia principale si sposta nuovamente in
Europa e in particolare in Italia.
181
Molti, infatti, cominciano a chiedersi quali saranno le sorti degli
stabilimenti italiani. Il «Progetto Fenice», presentato da Marchionne
prevedeva la chiusura di due stabilimenti, uno al Nord e uno al Sud. Il
Lingotto smentisce seccamente ma i sindacati italiani chiedono
chiarimenti. L’incontro tra Marchionne, le parti sociali e il governo si
svolge il 18 giugno 2009. Se anche il «Progetto Fenice», fosse un piano
del tutto inesistente , un fondo di verità lo conterebbe comunque, perché
effettivamente, in fondo alla prima pagina del comunicato ufficiale, il
Lingotto annuncia la chiusura di Termini Imerese il 31 dicembre 2011.
L’idea di realizzare nello stabilimento siciliano produzioni diverse da
quella automobilistica, sembra più un escamotage per addolcire la pillola
che una possibilità reale.
L’annuncio della chiusura provoca scioperi e proteste a Termini, dove
vengono bloccate le linee e viene occupata l’autostrada Messina-Palermo.
Sono i primi giorni di una battaglia che non non raggiungerà l’obiettivo
di far cambiare idea a Marchionne, ma solo di trovare un’alternativa
produttiva, a partire dal 2012, non prova di punti interrogativi.
Quello che l’amministratore delegato del Lingotto presenta a Palazzo
Chigi nel giugno 2009 è un programma-ponte in attesa dell’annuncio dei
progetti per il quinquennio 2010-2014 che verrà fatto nell’aprile del 2010.
Già nel giugno del 2009 Marchionne chiede un rigoroso contenimento
dei costi di struttura e la possibilità di rispondere con tempestività alle
richieste di mercato. Questo non richiede solo il rispetto della normativa
sulla flessibilità ma significa anche essere consapevoli che azioni di
conflitto immotivate portano solo danni perché non fanno altro che
regalare occasioni d’oro alla concorrenza. Passaggio importante alla luce
dello scontro che si scatenerà dodici mesi dopo proprio sulla questione
dello sciopero.
182
Per il momento comunque lo scontro sullo sciopero è ancora
un’eventualità lontana. La Fiat cerca di far fronte alla crisi con altri
mezzi. Soprattutto chiedendo al governo italiano e anche all’Europa di
tamponare la situazione con nuovi incentivi all’acquisto di auto.
I sindacati e le forze politiche chiedono di conoscere nell’immediato
quale sarà il futuro degli insediamenti italiani. Ma il Lingotto è restio a
fornire indicazioni mentre ancora si stanno studiando le sinergie
possibili. Dunque, il 22 dicembre 2009, all’incontro di palazzo Chigi con
governo e parti sociali, Marchionne arriva con il progetto produttivo
2010-2011, un antipasto del piano quinquennale che verrà invece
illustrato il 21 aprile successivo. Nel piano di dicembre la Fiat conferma
la chiusura della produzione automobilistica a Termini Imerese al 31
dicembre 2011.
La vera novità del piano di dicembre è la scelta di portare a Pomigliano la
produzione della nuova Panda, questa scelta sembra andare nella
direzione di riequilibrare i paesi tra Italia ed estero, che porteranno ad
una radicale trasformazione delle relazioni sindacali per rinegoziare
l’accordo sia a livello nazionale che locale.
Rimane invece insoluto il problema degli stabilimenti dove si realizzano i
modelli della gamma medio alta. Non tanto Cassino, che con la
produzione di Bravo, Delta, Croma e in un prossimo futuro Giulietta,
sembra comunque aver garantito un pacchetto di modelli in grado di
mantenere l’equilibrio della fabbrica, quanto Mirafiori. La produzione
della Grande Punto, giunta grazie alle pressioni per salvare il futuro dello
stabilimento, è stata una breve fiammata durata alcuni mesi. Poi la linea è
stata utilizzata per produrre la Punto Classic. Nel 2010 il resto della
gamma dello stabilimento è costituito da modelli che stanno per andare
in pensione, la Multipla, la Thesis e l’Alfa 166, le due piccole
183
monovolume Idea e Musa. Le aspettative per il futuro sono legate
principalmente alle vendite dell’Alfa Mito, l’ultima arrivata. Ma è difficile
pensare che uno stabilimento di 5000 persone come Mirafiori
Carrozzeria possa reggersi sulla sola produzione della Mito. Per questo i
sindacati sono preoccupati e temono che, rimanendo questo il mix
produttivo, siano a rischio tra i 2000 e 2500 posti nello stabilimento
torinese. Ipotesi che il Lingotto smentisce seccamente con un
comunicato ufficiale.
Il giorno della verità è il 21 aprile 2010, quando al Lingotto Sergio
Marchionne disegna le strategie del gruppo fino a tutto il 2014. Ognuno
dei quattro stabilimenti italiani di produzione automobilistica,
confermata la chiusura di Termini Imerese, raggiungerà secondo il piano
industriale, la sua massima capacità produttiva. A Mirafiori l’arrivo di
nuovi modelli dei segmenti B e C (utilitarie e medie) dovrebbe portare a
un aumento di 100 000 auto all’anno, praticamente il raddoppio della
produzione. A Cassino i volumi produttivi saranno addirittura
quadruplicati rispetto al livello molto basso del 2009. Nello stabilimento
laziale verranno prodotti i modelli del segmento medio alto dei marchi
Lancia, Alfa e Fiat. Pomigliano produrrà 250 000 Panda all’anno mentre
Melfi si confermerà lo stabilimento principale tra quelli italiani. Come si
vede dallo schema, già nel piano di Fabbrica Italia la fabbrica di Mirafiori
è quella che ha la missione meno definita o, se si vuole, più dipendente
dai cambiamenti anche marginali del mercato.
Sul piano della finanza Marchionne annuncia all’Investor Day la
decisione di scindere il business in due diverse società, Fiat Spa, che
continuerà ad occuparsi di automobili e Fiat Industrial dove verranno
concentrate le attività di produzione dei camion (Iveco) e delle macchine
agricole e movimento a terra (Cnh).
184
4.3. Le Vertenze di “Pomigliano” e “Mirafiori”
Quando Marchionne parla all’Investor Day, la trattativa sindacale per la
produzione della Panda a Pomigliano è già in corso da tempo28. Si
procede su un sentiero con molte difficoltà. La Fiat chiede una modifica
sostanziale delle regole. Propone diciotto turni di lavoro settimanali, il
mancato pagamento del primo giorno di malattia in caso di assenteismo
elevato, la possibilità per l’azienda di comandare fino a 120 ore annue di
straordinario senza aprire una trattativa e l’impegno dei sindacati a non
proclamare scioperi su materie già regolate dall’accordo. Inoltre l’azienda
chiede la riduzione delle pause da 40 a 30 minuti e lo spostamento a fine
turno della mezz’ora di mensa. Nella prima fase della trattativa si trova il
modo di aggirare il nodo dei 18 turni. Bisogna infatti evitare che chi
inizia a lavorare il sabato notte finisca la domenica e non abbia più
l’intervallo di non-lavoro previsto al contratto per poter riprendere con
un turno diverso nella settimana successiva . Si decide così di spostare il
diciottesimo turno del sabato alla domenica sera. Rimangono invece i
punti più critici, la malattia non pagata e l’impegno dei sindacati a non
scioperare. Questioni sulla quale la Fiat chiede una deroga al contratto
nazionale. Sulla possibilità di derogare al contratto i sindacati si erano già
divisi l’anno precedente. La strada delle deroghe era infatti stata
introdotta con il contratto dei metalmeccanici del 2009, che seguiva di
un solo anno il precedente contratto unitario firmato da tutti nel 2008 e
approvato negli stabilimenti. In base al nuovo regime, la struttura della
contrattazione è articolata su due livelli, il contratto collettivo nazionale,
28 Griseri P., «La Fiat di Marchionne. Da Torino a Detroit», cit., p. 171
185
con la funzione di garantire la certezza dei trattamenti economici e
normativi per tutti i lavoratori del settore ovunque impiegati nel
territorio nazionale. In particolare, il contratto collettivo nazionale di
lavoro di categoria definisce le modalità e gli ambiti di applicazione della
contrattazione di secondo livello.
Vi è poi la contrattazione di secondo livello (territoriale o aziendale)
stipulato per le materie delegate, in tutto o in parte, dal contratto
nazionale o dalla legge e deve riguardare materie ed istituti che non siano
già stati negoziati in altri livelli di contrattazione. È previsto che la
contrattazione territoriale può anche derogare in via temporanea sui
singoli istituti economici e normativi disciplinati dai contratti nazionali
(cd. clausole di uscita). L’efficacia della deroga è però subordinata ad una
esplicita previsione da parte del contratto collettivo nazionale.
La deroga al contratto è comunque ammessa per far fronte, direttamente
nel territorio o in azienda, a situazioni di crisi o per favorire lo sviluppo
economico ed occupazionale. L’efficacia delle intese è comunque
subordinata alla preventiva approvazione delle parti stipulanti i contratti
collettivi nazionali di lavoro della categoria interessata.
Uno degli obiettivi dell’accordo è stato proprio quello di valorizzare la
contrattazione collettiva di secondo livello, territoriale o aziendale, quale
strumento di ripresa della crescita della produttività e quindi delle
retribuzioni reali.
La concertazione sociale è ormai fuori scena e le relazioni tra governo e
parti sociali sono improntate a dinamiche diverse che non sembrano
seguire uno schema prestabilito. Non si tratta di un «Protocollo», cioè un
patto triangolare che trova come parti firmatarie Governo e parti sociali
ma di un «vero e proprio accordo interconfederale» il Governo non ha
partecipato alle trattative ma ha sottoscritto l’Accordo unicamente nella
186
veste di datore di lavoro pubblico. Costituisce un «accordo separato», dal
momento che è stato sottoscritto dalla Cisl e dalla Uil senza la Cgil. La
mancata sottoscrizione della Cgil incrina definitivamente la prospettiva
dell’unità d’azione sindacale ed apre una difficile fase nel sistema delle
relazioni industriali. Questo quindi rappresenta un fatto di rilievo, oltre
che sul piano delle relazioni sindacali, con la prospettiva di scenari
inquietanti (Accornero) e di una fase di anarchia conflittuale (Mariucci),
ma anche sotto il profilo delle conseguenze di ordine tecnico-giuridico.
Sotto quest’ultimo aspetto, la problematica che si pone è quella di
un’eventuale regolamentazione negoziale non unitaria e, in sostanza,
della sussistenza, in riferimento ad una stessa categoria, di diversi
contratti collettivi.
La Fiom non potendo in ogni caso riconoscere deroghe al contratto del
2008 senza sconfessare la sua scelta di non firmare quello del 2009,
sostiene che «non c’è alcun bisogno di derogare ai contratti, alle leggi e ai
diritti per garantire il massimo utilizzo degli impianti. Come sostiene
Landini «siamo disponibili a cercare con l’azienda tutte le strade per
garantire la necessaria flessibilità senza modificare le regole».
Nella prima parte della vertenza il Lingotto sembra orientato a evitare un
accordo separato a Pomigliano per due motivi, il primo è quello di
evitare di escludere dal governo della fabbrica il sindacato più grande, il
secondo è direttamente legato al primo, l’obiettivo di Marchionne è
quello di far funzionare le linee senza interruzioni legati a
microconflittualità. Per questo la Fiat pretende dai sindacati l’impegno a
non avallare gli scioperi spontanei proclamati dai delegati su questioni
regolate dagli accordi.
Quella che appare una richiesta di buon senso nasconde però una
mancanza di fiducia che sarà all’origine degli scontri successivi. Perché è
187
evidente che gli impegni più solidi sono quelli non scritti sulla carta ma
praticati concretamente.
Per questo dunque la Fiat, nella prima fase, non vuole accordi separati,
non solo per non infilarsi negli scontri tra organizzazioni sindacali ma
anche perché sa che, se un grande sindacato sta fuori dall’accordo,
l’obiettivo principale, la pace sindacale sulle linee, è già saltato.
Sul versante opposto, la Fiom pensa che l’Ad del Lingotto non entrerà in
rotta di collisione con il sindacato più rappresentativo del gruppo
scatenando un conflitto interno dagli effetti sicuramente negativi sulla
produzione.
C’è un retroscena che può spiegare l’accelerazione decisa dell’Ad, quando
Guglielmo Epifani, segretario generale della Cgil va sul palcoscenico e
dice «Pomigliano non ha alternative. Servono sviluppo, investimenti e
occupazione». Molti leggono in quel passaggio il segnale di un’apertura
della Cgil rispetto al no secco della Fiom. La Cgil è quindi in clamorosa
rotta di collisione con la Fiom.
La Fiom, quel giorno, ha già rifiutato di firmare l’accordo sottoscritto
dagli altri sindacati e ha sostenuto le ragioni del no pur non dando
un’indicazione di voto esplicita «perché non chiediamo ai lavoratori di
fare gli eroi».
Secondo questa versione, Marchionne si sarebbe deciso ad accettare
l’idea del referendum quando qualcuno del vertice Cgil aveva garantito
che alla fine anche la Fiom avrebbe accettato l’esito della consultazione.
Annunciato il referendum però la stessa Fiom aveva dichiarato che non
lo considerava legittimo «non si può chiedere ai lavoratori di votare con
la pistola puntata alla testa». Deve essere stato dopo questi avvenimenti
che, in una notte di aprile, l’Ad del Lingotto aveva deciso che era venuto
il momento di aprire uno scontro duro con la stessa Fiom.
188
Scelta la strada, in quelle settimane tutto si svolge secondo un copione
collaudato. E non per caso in quei giorni si ripetono le stesse scene della
battaglia dell’80 ai cancelli di Mirafiori. Il 19 giugno parte il corteo dei
lavoratori del sì che attraversa Pomigliano chiedendo lavoro. Il
referendum si svolge con i Cobas che accolgono i lavoratori del sì al
grido di «servi del padrone». Il 22 giugno alla consultazione partecipa il
95 per cento dei dipendenti, un livello alto e prevedibile perché non
arrecarsi alle urne significa annunciare all’azienda la propria posizione
non favorevole all’accordo. Ma qual che sorprende è il risultato, in u’aria
socialmente depressa, con una grande fame di lavoro, il sì supera di poco
il 62 per cento e il no raggiunge il 36.
Il voto dice che a Pomigliano più di un terzo dei lavoratori, ben oltre la
somma degli iscritti di Fiom e Cobas, è contrario alla proposta della Fiat
al punto da avversarla nell’urla. Considerando che una parte del sì non è
un voto dettato dalla convinzione ma dalla necessità, Marchionne può
misurare quanto risicata sia l’adesione convinta al suo progetto.
L’amministratore delegato sa che il quadro è tutt’altro che rassicurante.
Dopo il voto di Pomigliano infatti inizierà una vera battaglia tra Fiat e
Fiom destinata a caratterizzare l’estate e i mesi successivi.
Come garantire la governabilità delle fabbriche, cioè come impedire che
la Fiom diventi un ostacolo in azienda quando i metalmeccanici della
Cgil rappresentano il punto di vista di circa un terzo dei dipendenti
rimane un problema non semplice da risolvere.
Il voto di Pomigliano ha dimostrato che, a differenza di quanto accade in
America, il numero di iscritti a un sindacato non coincide con il suo
consenso. Tradizionalmente in Fiat la percentuale dei dipendenti
sindacalizzati è relativamente bassa, ma la capacità dei sindacati di
orientare l’opinione dei dipendenti è molto superiore. Dunque il lavoro
189
per eliminare l’ostacolo Fiom è più arduo di quel che appare. Nell’estate
2010 il Lingotto preme su Federmeccanica perché l’associazione degli
industriali metalmeccanici trovi un sistema di deroghe al contratto
nazionale di lavoro che consenta di risolvere il problema. Lavoro lungo
che si rileverà infruttuoso dal momento che non si possono cambiare in
corso d’opera le leggi e anche gli accordi firmati nei decenni tra
Confindustria e Cgil, Cisl e Uil. Questi accordi terranno sempre in
fabbrica la Fiom perché la Cgil è firmataria con Confindustria
dell’accordo interconfederale del 1993 che istituisce i delegati con le
rappresentanze sindacali unitarie. Solo a fine settembre, mentre
Federmeccanica alza le braccia in segno di resa, nasce nei colloqui dal
Lingotto e il Fismic l’idea della newco, se la Fiat crea a Pomigliano una
nuova società che non si associa a Confindustria, quella società non sarà
obbligata a rispettare gli accordi presi dall’associazione degli imprenditori
con i sindacati confederali. In quel caso varranno nella newco solo le
leggi sul lavoro italiane. In particolare varrà l’articolo 19 dello Statuto dei
lavoratori, quella che affida la rappresentanza in azienda ai sindacati
firmatari dei contratti collettivi di lavoro applicati nell’unità produttiva.
Nella versione originaria, quella modificata da un referendum nel giugno
1995, la rappresentanza era garantita anche alle confederazioni
maggiormente rappresentative sul piano nazionale. Ma quel punto venne
abrogato al termine di una campagna referendaria in cui da sinistra si
voleva ridurre il monopolio della Cgil, Cisl e Uil. Così, per paradosso,
l’abrogazione di un articolo fatta per allargare la rappresentanza in
fabbrica finiva per ridurla ai soli sindacati firmatari di accordi con
l’azienda. Un’arma potentissima in mano agli imprenditori per scegliersi
gli interlocutori sindacali. E anche una mutazione genetica, con quella
modifica i delegati in fabbrica non rappresentano più il punto di vista di
190
chi lavora ma l’opinione di chi firma e dunque l’opinione di chi ritiene
ragionevoli o comunque non contrastabili le proposte aziendali.
Dall’estate 2010 in poi, man mano che lo scontro con la Fiom si fa più
duro, il Fismic andrà assumendo un peso sempre maggiore tra i sindacati
del fronte del sì. Per poter applicare alla newco di Pomigliano l’articolo
19 dello Statuto dei lavoratori che esclude la Fiom bisogna però aspettare
il 1 gennaio 2012, perché fino al giorno prima è in vigore il contratto
nazionale dei metalmeccanici firmato anche dalla Fiom nel 2008. Un
ostacolo che si supererà facendo uscire la newco da Confindustria e
firmando nel dicembre 2010 un nuovo contratto tra Fiat e sindacati
favorevoli che ha valenza di contratto nazionale.
La campagna per garantire la governabilità degli stabilimenti coincide con
una serie di provvedimenti disciplinari che colpiscono delegati della
Fiom.
Il caso più clamoroso è quello di Melfi. Nella principale fabbrica italiana
del gruppo Fiat, la notte del 7 luglio 2010 tre operai vengono accusati
dall’azienda di aver bloccato un carrello trasportatore durante uno
sciopero. In questo modo avrebbero impedito di lavorare anche a chi
non aderiva alla fermata, che non aveva più il materiale per proseguire la
produzione. I tre sono iscritti alla Fiom e vengono licenziati dall’azienda
con l’accusa di aver interrotto la produzione. Negli stessi giorni a Torino
un altro delegato della Fiom un impiegato viene licenziato perché
avrebbe spedito con il computer aziendale una mail in cui un sindacato
polacco solidarizzava con i tre licenziati di Melfi.
A Melfi i tre licenziati vincono un primo ricorso di fronte al giudice, che
ordina immediatamente il loro reintegro sul posto di lavoro in base
all’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori. Ma quando i tre operai si
presentano all’ingresso della fabbrica, l’azienda si rifiuta di rimetterli a
191
lavorare e accompagna i due delegati nella saletta sindacale, non potendo
impedire che svolgano il loro compito di rappresentanti dei lavoratori.
Nei mesi successivi, mentre i tre operai rimangono a casa pagati
dall’azienda, va in scena un drammatico appello di secondo grado. Può
capitare di vedere in aula sindacalisti come il leader del Fismic,
testimoniare contro i lavoratori e a favore dell’azienda. Il secondo
processo si conclude il 25 luglio 2011 con la vittoria della Fiat, il giudice
giudica legittimo il licenziamento. Nel febbraio 2012 però il processo di
appello darà nuovamente torto al Lingotto imponendo il reintegro dei tre
licenziati. La Fiat reagirà con un telegramma in cui annuncia che, pur
pagandoli come impone il giudice, non intende avvalersi della loro
attività lavorativa. Le parti attendono ora il giudizio della Cassazione. La
Fiom ha già annunciato che in caso di annullamento definitivo del
licenziamento chiederà i danni morali.
Lo scontro duro contro la Fiom e soprattutto la vicenda di Melfi
intaccano l’immagine di Marchionne nell’opinione pubblica. Perché se è
normale che azienda e sindacato entrino in rotta di collisione, non è
normale che a farne le spese siano i singoli lavoratori.
Il manager di Torino illustra la sua filosofia «è finito il tempo in cui le
relazioni industriali si devono basare sul conflitto tra operai e padroni».
La nuova occasione per sperimentare quella filosofia è a Mirafiori, fin
dall’estate si rincorrono le voci sulla possibile nascita di una joint venture
tra Fiate Chrysler per la produzione di Suv nello stabilimento torinese.
La joint venture, naturalmente, sarebbe una nuova società e come tale
potrebbe diventare anch’essa una newco con caratteristiche simili a
quella di Pomigliano, fuori da Confindustria e dai contratti nazionali dei
metalmeccanici con un accordo che escluda dalla possibilità di essere
presenti in fabbrica quei sindacati che non firmano l’intesa. Per lunghe
192
settimane l’ipotesi rimane tale. Un nuovo referendum a Mirafiori con la
nascita di una newco anche a Torino metterebbe in difficoltà gli stessi
sindacati che hanno detto «sì» a Pomigliano. Impostazione contestata dai
sindacati contrari (Fiom e Cobas), secondo i quali invece ciò che si stava
sperimentando a Pomigliano sarebbe stato successivamente applicato in
tutto l’universo Fiat e avrebbe dunque cambiato in modo radicale le
stesse relazioni industriali italiane. L’idea di un nuovo accordo a Mirafiori
sembra confermare in pieno quest’ultima analisi.
Alla prima riunione tra azienda e sindacati la trattativa viene inaugurata
da un discorso di Marchionne, un intervento che per qualche giorno
lascia immaginare una nuova svolta, un ritorno a relazioni industriali
meno conflittuali. Discorso di ampio respiro dopo le risse di Pomigliano
e Melfi. La partenza è buona, tutti i sindacati, Fiom compresa,
apprezzano. Addirittura l’organizzazione di Landini avanza un’apertura
sulla possibilità di creare una newco per gli impianti di Mirafiori, «non
siamo contro le newco, dice il responsabile auto Giorgio Airaudo, siamo
contro le newco che vengono pensate per ridurre i diritti ed escludere un
sindacato, qualsiasi esso sia». Posizione che, in breve tempo, provocherà
una spaccatura all’interno della Fiom con gli altri esponenti sindacali
della stessa, contrari a contrattare su un argomento come quello della
newco di cui la Fiom ha sempre respinto il modello.
La tregua dura pochi giorni, nella proposta di accordo che la Fiat illustra
alla prima riunione con i sindacati non ci sono sostanziali differenze sui
punti che a Pomigliano avevano creato divisione, per quanto riguarda le
assenze per malattia, diritto di sciopero e pause. C’è una proposta nuova
dell’azienda che prevede la possibilità di turni di 10 ore per quattro giorni
di lavoro su sette. Un’idea che non incontra il favore dei sindacati, anche
dei firmatari dell’accordo di Pomigliano.
193
Il 29 novembre, quando la trattativa entra nel vivo, il sindacato di
Landini si presenta con una proposta sul tema più controverso, quella
«clausola di responsabilità» che limita il diritto di sciopero ai soli
argomenti che non siano già stati regolati dal contratto aziendale. «Se il
problema è quello di ridurre la microconflittualità, dice la Fiom, si può
risolvere introducendo una norma per raffreddare i conflitti. Prima di
proclamare uno sciopero sindacato e azienda si impegnano a provare a
risolvere il problema che ha generato lo scontro.
«Siamo disponibili a trattare su tutto, dice il nuovo segretario generale
della Cgil, Susanna Camusso, ma non è possibile accettare deroghe al
contratto nazionale». Anche Cisl e Uil parlano di «una trattativa
incamminata sul binario giusto». L’unica organizzazione che chiede
esplicitamente di riprodurre il contratto fatto in Campania è il Fismic
«chiediamo che a Mirafiori nasca una società identica a quella di
Pomigliano». Le proposte della Fiom vengono rapidamente archiviate.
La delegazione della Fiat non accetta nemmeno di metterle in
discussione e ripropone il suo impianto originario. All’inizio di dicembre
è ormai chiaro che si va verso un nuovo accordo separato e una
sostanziale replica di Pomigliano. Ma per arrivarci bisogna superare
anche le resistenze di Fim e Uilm che non accettano l’idea di un nuovo
stabilimento fuori dal contratto nazionale e da Confindustria. Il manager
del Lingotto si lamenta perché Federmeccanica non accetta tutte le
proposte della Fiat in deroga ai contratti nazionali e minaccia di uscire da
Confindustria, ciò che effettivamente avverrà dodici mesi dopo.
Lo scontro tra Fiat e sindacati su Mirafiori e quello tra Fiat e
Confindustria vanno di pari passo. La notte del 4 dicembre è ancora il
Fismic ad annunciare per primo che senza un accordo su Mirafiori,
l’azienda non fa investimento. Il 10 dicembre l’ultimatum di Sergio
194
Marchionne è la puntuale conferma «Vogliamo una società senza il
contratto dei metalmeccanici, altrimenti non investiremo». La Fiom
blocca il paese, la drammatizzazione serve a spingere verso l’accordo
separato, quest’ultimo arriva alla vigilia di Natale.
Il rappresentante della Uilm parla di «accordo importante che garantisce
il lavoro a Mirafiori», quello della Fim fornisce una versione più
problematica «abbiamo accettato di lasciare Mirafiori fuori dal contratto
nazionale ma contiamo di farla rientrare presto». Molto soddisfatto il
Fismic «un accordo storico che modifica le relazioni industriali in Italia».
L’ultimo a pronunciarsi è il rappresentante della Fiom, che non ha
firmato «è stato accettato un accordo vergognoso, costruito per escludere
alla fabbrica il sindacato che più dà fastidio». Per la prima volta dal 1945
la Cgil non avrà rappresentanti nel più grande stabilimento
automobilistico d’Europa. Il clima di tensione fra i sindacati diventa
fortissimo nelle due settimane che precedono il referendum del 14
gennaio 2011 ancora una volta i dipendenti sono costretti a scegliere se
perdere il lavoro o accettare l’accordo voluto dall’azienda. La Fiom si
trova per questo in una situazione difficile avendo giudicato illegittimo il
referendum di Pomigliano, proprio perché i dipendenti non erano liberi
di votare contro senza perdere il lavoro, non può certo giudicare
legittima la consultazione di Torino che ha le medesime caratteristiche.
Ma non può nemmeno stare alla finestra e non partecipare alla battaglia
referendaria. Nascono così in azienda spontanei comitati per il «no»
organizzati dai lavoratori, ai quali il sindacato di Landini dà il suo
appoggio. Nelle giornate e nelle ore che precedono il voto, la tensione
crea non pochi incidenti. Davanti ai cancelli di Mirafiori gruppi di
sostenitori del no bruciano le bandiere della Fim, accusata di aver scelto
di stare con l’azienda.
195
All’alba del 15 gennaio il sì prevale per 400 voti. Ma nelle linee, tra gli
operai il sì prevale per 9 voti. La sostanza è che il sì prevale grazie ai
colletti bianchi, cioè quella parte dei dipendenti che non sono toccati
dagli aspetti più controversi dell’accordo, come le pause, la mensa e i
turni di lavoro. Un’analisi mette in evidenzia che il no è più forte là dove
il lavoro è più vincolato al ritmo della catena. Al montaggio il no
raggiunge il 53 per cento e prevale, con una percentuale leggermente
inferiore, anche in lastratura. Il sì vince invece tra gli impiegati, in
verniciatura e tra gli addetti dei turni di notte, un lavoro più faticoso ma
considerato un privilegio, per via della paga più alta, accordato spesso a
chi ha buoni rapporti con le gerarchie aziendali.
Il 70 per cento di coloro che hanno votato sì lo ha fatto perché l’accordo
è necessario e meno del 10 per cento perché lo considera un accordo
positivo. Quasi 80 per cento dei no ha votato contro perché si è sentito
ricattato. Solo il 64 per cento degli iscritti ai sindacati firmatari ha
coerentemente votato sì mentre più dell’80 per cento degli iscritti della
Fiom e ai Cobas ha votato no. Il risultato finale, 54 per cento sì e 46 per
cento no, consegna al Lingotto una fabbrica sostanzialmente spaccata in
due in cui chi dovrebbe sopportare maggiormente il peso del cambio di
regole è contrario. Un quadro sicuramente peggiore di quello uscito dalle
urne di Pomigliano. L’amministratore delegato conferma che in caso di
sconfitta avrebbe rinunciato all’investimento a Mirafiori. E chiarisce
«certo non mi sarei seduto a rinegoziare con il sindacato, perché questo
contratto c’è già a Pomigliano e non si possono avere due sistemi diversi
nella stessa azienda». Marchionne annuncia quindi la volontà di tirare
dritto senza esitazione.
Lo scontro si trasferisce nelle aule di tribunale dove la Fiom ha trascinato
l’azienda di Marchionne per comportamento antisindacale, che in base a
196
una interpretazione contestata dell’articolo 19 dello Statuto dei lavoratori,
tiene fuori i metalmeccanici della Cgil dalla rappresentanza in fabbrica.
La sentenza sarà la base dei pochi tentativi successivi di trovare una
mediazione al conflitto tra Marchionne e Landini. Contrariamente a
quanto sostenevano i legali della Fiom, infatti il giudice dà ragione alla
Fiat valutando legittimo il contestato accordo di Pomigliano. Ma dà torto
all’azienda sulla interpretazione dell’articolo 19 dello Statuto dei
lavoratori, condannando la Fiat a ripristinare la rappresentanza in
fabbrica della Fiom. Implicito è in questo caso lo scambio, la Fiom
rinunci a contrastare in fabbrica gli accordi che non condivide e che sono
però stati approvati dalla maggioranza dei lavoratori. La Fiat rinunci a
pretendere la firma dell’accordo come requisito per riconoscere la
rappresentanza in fabbrica dei delegati della Fiom.
Per i metalmeccanici della Cgil non è questione solo una questione di
principio. L’esclusione della fabbrica comporta pesanti conseguenze sul
piano pratico ed economico, senza delegati che possano liberamente
svolgere attività tra le postazioni sulle linee, l’organizzazione di Landini
rischia di perdere perso, perché dopo un periodo di adesione militante i
lavoratori si rivolgeranno ai delegati che ci sono e che possono mediare
con i capi, cioè i delegati delle altre organizzazioni. Negli stessi mesi nelle
forze politiche di sinistra c’è chi propone una legge che ripristini la
vecchia formula dell’articolo 19 dello Statuto dei lavoratori, quella
precedente alla modifica referendaria. In quel modo, essendo la Fiom-
Cgil una delle organizzazioni maggiormente rappresentative sul piano
nazionale, non potrebbe essere espulsa dagli stabilimenti della Fiat. Ma
anche queste proposte rimangono sulla carta. I partiti di centrosinistra
temono infatti che aprire una discussione sulla modifica dell’articolo 18
della stessa legge, quello che impedisce i licenziamenti individuali senza
197
una giusta causa. Articolo che le aziende e lo stesso Marchionne
vorrebbero abolire. Va in questa stessa direzione l’articolo 8 della
manovra finanziaria scritto dal ministro Sacconi, che include tra le
materie su cui i sindacati in azienda possono derogare i contratti
nazionali e le leggi dello Stato anche il punto dei licenziamenti.
La disciplina poi in materia di contrattazione collettiva contenuta
nell’Accordo quadro del 2009 è stata integrata, a pochi anni di distanza,
da un successivo accordo che, nuovamente, la partecipazione delle sole
associazioni dei lavoratori e dei datori di lavoro (senza il Governo).
L’accordo interconfederale del 28 Giugno 2011, siglato tra Confindustria,
Cgil, Cisl e Uil, ha la finalità di realizzare un «sistema di relazioni
industriali che crei condizioni di competitività e produttività tali da
rafforzare il sistema produttivo, l’occupazione e le retribuzioni».29
L’Accordo, intervenuto dopo una fase di profonda lacerazione tra le
Confederazioni, vede la sottoscrizione unanime delle stesse (questa volta
siglato anche dalla Cgil) e costituisce un atto di portata «storica»,
considerato che esso non solo pone regole certe con riguardo ai soggetti,
ai livelli, ai tempi e ai contenuti della contrattazione collettiva, ma
perviene anche al risultato impensato di definire le regole in materia di
rappresentatività delle organizzazioni sindacali dei lavoratori.
Il presupposto dell’Accordo è rappresentato:
- da un lato, per le Confederazioni sindacali, dalla necessità di porre
rimedio alle conseguenze delle divisioni interne, che esponevano la
contrattazione collettiva al rischio di accordi separati (la componente
della Cgil, la Fiom, non aveva aderito al rinnovo del Ccnl del settore
29 Del Giudice F., Mariani F., «Compendio di diritto sindacale», cit., p. 152
198
metalmeccanico e non aveva sottoscritto alcuni contratti collettivi
aziendali nel medesimo settore).
- dall’altro, per la Confindustria, dall’intento di prevenire il recesso di una
delle sue principali associate, l’azienda Fiat, a seguito dell’incertezza
venutasi a creare dagli accordi separati, aveva manifestato, a giugno 2011,
la volontà di «uscire da Confindustria», cosa di fatto poi avvenuta, la
ragione di una decisione clamorosa è nella scelta di Confindustria, Cgil,
Cisl e Uil di impegnarsi a non applicare quella parte dell’articolo 8 della
manovra Sacconi che consente di derogare alla legge sui licenziamenti.
L’impegno era stato preso il 21 settembre, nel momento in cui la Cgil
aveva formalmente firmato il protocollo di giugno. Questo atto, spiega
Marchionne nella lettera a Marcegaglia «rischia quindi di snaturare
l’impianto previsto dalla nuova legge e di limitare fortemente la
flessibilità gestionale».
L’Accordo interconfederale segna un notevole passo in avanti rispetto
alla possibilità di effettuare, mediante contrattazione decentrata, intese
derogatorie. Il principio fondamentale è, tuttavia, che la possibilità di
deroga da parte del contratto collettivo aziendale deve comunque
esplicarsi nei limiti e con le procedure previste dagli stessi contratti
collettivi nazionali di lavoro.
L’accordo definisce, poi, una disciplina transitoria, finalizzata a rendere
possibile la stipulazione delle intese aziendali nell’immediato, cioè anche
prima che il contratto collettivo nazionale definisca i limiti e le procedure
delle stesse. In particolare, potranno essere stipulati accordi in deroga
rispetto alle determinazioni del contratto collettivo nazionale, aventi la
finalità di gestire situazioni di crisi o in presenza di investimenti
significativi per favorire lo sviluppo economico ed occupazionale
dell’impresa. Le deroghe potranno riguardare la prestazione lavorativa,
199
gli orari e l’organizzazione del lavoro. Tale intese avranno efficacia
generale, così si applicheranno a tutto il personale dell’azienda e
vincolano tutte le associazioni sindacali presenti nell’azienda, che
aderiscono alle Confederazioni firmatarie dell’accordo interconfederale
di riforma (sindacati di categoria aderenti a Cgil, Cisl e Uil). L’efficacia
erga omnes del contratto aziendale è limitata, tuttavia, alla sola parte
normativa (comprendente anche gli aspetti economici) e non si estende
anche alla cd. parte obbligatoria, cioè alle disposizioni che disciplinano i
rapporti tra sindacati e datore di lavoro.
A tal proposito, sono stati individuati dei criteri oggettivi per rendere il
contratto collettivo aziendale efficace erga omnes, cioè nei confronti di
tutti i lavoratori dell’impresa. I criteri in questione, differenziati a seconda
della presenza nel contesto aziendale di Rsu o di Rsa, sono i seguenti:
- nel caso in cui a livello aziendale vi siano Rsu, il contratto aziendale
deve essere approvato dalla maggioranza dei componenti della Rsu
presente in azienda. Una volta approvato, esso diviene vincolante per
tutti i lavoratori, anche per quelli non iscritti ai sindacati stipulanti o
comunque dissenzienti.
- nel caso in cui a livello aziendale vi siano Rsa, è necessaria
l’approvazione delle Rsa costituite nell’ambito delle associazioni sindacali
che, singolarmente o insieme ad altre, risultino destinatarie della
maggioranza delle deleghe relative ai contributi sindacali conferite dai
lavoratori dell’azienda nell’anno precedente a quello in cui avviene la
stipulazione. Il contratto collettivo aziendale stipulato dalle Rsa può
essere, poi, sottoposto a referendum. In caso di voto favorevole a
maggioranza semplice, il contratto aziendale è definitivamente
approvato, in caso di voto negativo espresso dalla maggioranza semplice
dei votanti, il testo contrattuale si intende respinto.
200
A pochi mesi quindi dal succitato Accordo, la manovra correttiva 2011,
disciplina, all’articolo 8, la «contrattazione di prossimità», con l’effetto di
aumentare notevolmente il potere regolativo e dispositivo della
contrattazione aziendale e territoriale. L’effetto è quello di uno strappo
nelle relazioni tra Governo e parti sociali, che genera nuovi tensioni tra le
Confederazioni Cgil, Cisl e Uil. La disciplina dell’art. 8 della manovra
correttiva si sovrappone infatti a quella dell’accordo interconfederale,
tanto da essere percepita come un’invasione del legislatore politico in
ambito tradizionalmente appannaggio dell’autonomia sindacale (la
contrattazione collettiva e il rapporto tra contratto collettivo nazionale e
contratto decentrato).
Il provvedimento, in effetti, mette al centro del sistema della
negoziazione tra sindacati e controparte datoriale il contratto territoriale
o aziendale, a cui è riconosciuta ampia potestà di regolamentazione, cioè
di concludere intese «alla maggiore occupazione, alla qualità dei contratti
di lavoro, all’adozione di forme di partecipazione dei lavoratori, agli
incrementi di competitività e salario, alla gestione delle crisi aziendali e
occupazionali». Tale intese stipulate a livello aziendale possono derogare
anche le disposizioni di legge e le regolamentazioni contenute nei
contratti collettivi nazionali di lavoro, avendo come unico limite il
rispetto della Costituzione, nonché i vincoli derivanti dalle normative
comunitarie.
Anche se formalmente si fa riferimento a quanto convenuto nell’accordo
interconfederale del 28 Giugno 2011, i soggetti collettivi che possono
stipulare i contratti di livello aziendale o territoriale possono essere anche
totalmente scollegati dai sindacati firmatari del contratto collettivo
nazionale. Le intese così stipulate hanno carattere vincolante per tutti i
lavoratori interessati se sottoscritte sulla base di un criterio maggioritario.
201
Successivamente le parti firmatarie dell’accordo hanno ratificato
l’accordo stesso dichiarando che le «materie delle relazioni industriali e
della contrattazione collettiva sono affidate alle autonome determinazioni
delle parti». Di conseguenza le parti sociali hanno formalmente assunto
l’impegno che le proprie strutture, a tutti i livelli, si attengono a quanto
concordato nell’accordo stesso.
La predisposizione della legge di riforma determina il definitivo
abbandono del metodo della concertazione sociale.
Infatti, anche se inizialmente le trattative vedono un forte
coinvolgimento delle parti sociali, la difficoltà per il raggiungimento di
una posizione comune e la netta opposizione della Cgil soprattutto sulle
proposte di modifica concernenti i licenziamenti economici, portano il
Governo a dichiarare formalmente concluso il metodo della
concertazione sociale. Il metodo seguito è conforme al modello del
dialogo sociale, che vede come primario e unico interlocutore del
Governo il Parlamento. I sindacati sono informati e consultati, ma il
Governo afferma che «a nessuno è riconosciuto un potere di veto», cioè
di condizionare unilateralmente il risultato finale. Di conseguenza l’esito
delle trattative non è la sottoscrizione di un accordo triangolare, tipico
della concertazione sociale, bensì un verbale in cui si limita a dar conto
delle posizioni delle parti sociali.
Dopo l’Accordo interconfederale, tuttavia, le preoccupazioni della Fiat in
Italia sono di altro genere. Il 29 novembre inizia a Torino la trattativa per
estendere il modello Pomigliano a tutti gli 86 000 dipendenti italiani di
Fiat e Fiat Industrial. Giunge così a compimento il progetto avviato nel
giugno 2010 in Campania. L’inizio della trattativa è caratterizzato da
tensioni all’esterno della sede dell’Unione Industriale. Di conseguenza la
Fiom abbandona il tavolo perché non è stato consentito l’ingresso di una
202
parte della sua delegazione. Si riprende nei giorni successivi a ranghi
completi.
L’acursi poi della crisi finanziaria che ha investito l’area dell’euro, a
partire dal 2011, determina il rapido deterioramento della posizione
dell’Italia, il cui debito pubblico raggiunge livelli elevatissimi.
Le trattative per il «decreto Salva Italia», determinano una nuova
divaricazione nell’ambito delle tre Confederazioni sindacali, Cgil, Cisl e
Uil, soprattutto in merito al tema più delicato della tutela conto i
licenziamenti illegittimi. La riforma, mantenendo intatta la tutela contro i
licenziamenti discriminatori ed in parte quelli disciplinari, interviene sui
licenziamenti per motivi economici, sostituendo, la tutela dell’art. 18
dello Statuto dei Lavoratori, cioè la reintegrazione, con un mero
risarcimento economico. A tale riguardo, comunque, prima dell’avvio del
provvedimento per l’ordinario iter parlamentare, si è giunti ad un testo
più equilibrato, con il ripristino della possibilità di reintegro, anche se in
casi limitati (cioè solo quando il giudice accerti la manifesta infondatezza
dei motivi addotti dall’azienda).
La spaccatura avviene proprio sul disegno di riforma dell’art. 18,
giudicato in prima battuta pacatamente dalla Cisl e Uil e, in senso,
diametralmente opposto, come un modo per addivenire a licenziamenti
più facili, dalla Cgil.
Nonostante la difficile situazione in cui si trova l’Italia, le parti hanno
avviato una negoziazione il 6 luglio 2012, volto a rinnovare il contratto
del 2011 per il triennio 2013-15, firmato solo da FIM-CISL e UILM-
UIL.
203
4.4. Verso quale direzione sindacale? Conflittualità o
partecipazione?
In una fabbrica governata con il World Class Manufacturing, introdotto
nel 2005, la risorsa più preziosa è il lavoro. I confini delle conoscenze e
delle abilità dei lavoratori sono differenti rispetto alla produzione di
massa o a quella artigianale, rendendo più complessa la rappresentanza
dei lavoratori e, allo stesso tempo, l’organizzazione dell’intera struttura
sindacale. Nonostante i lavori e le mansioni siano strettamente definiti,
nella fabbrica lean i lavoratori si spostano da una mansione all’altra
secondo il principio della rotazione, spesso da un lavoro all’altro,
acquisendo sempre nuove competenze e abilità e lavorando secondo la
logica del problem-solving. In questo modo, l’acquisizione e la diffusione
delle conoscenze tra i lavoratori ricompongono molte delle tradizionali
divisioni, ad esempio, tra i lavoratori addetti alla produzione e lavoratori
specializzati, oppure tra lavoratori, ingegneri e manager. Vi è così sempre
di più la spinta verso forme di «sindacalismo d’impresa», il sindacato
deve essere aziendale e collaborativo. È un modello organizzativo che
per funzionare ha bisogno di un cambio di ruolo dei sindacati, in azienda
entrano solo quelli disponibili a condividere le finalità d’impresa per non
interferire con la partecipazione in via gerarchica dei lavoratori. Essa è
presidiata dalla clausola di responsabilità e dalla limitazione del diritto di
sciopero, perché nei sistemi di produzione integrati imposti dal “just in
time” la lotta anche di un numero piccolo di lavoratori può provocare
gravi blocchi produttivi. Del resto, è esattamente questa la vulnerabilità
del sistema, i sindacati dissenzienti sono esclusi.
All’interno del sindacalismo, sembrano quindi prevalere due
opposte linee d’azione, quella di una linea d’azione partecipativa e
204
cooperativa e quella conflittuale. Si può osservare che la linea d’azione
seguita dalla Cisl e Uil è impiantata sulla cooperazione nell’impresa, sul
dialogo con l’azione governativa. Prendendo, invece, ad emblema la
strenua difesa dell’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori, si può dire che la
linea d’azione della Cgil, e soprattutto della sua componente più radicale,
la Fiom, è quella della difesa dei diritti della classe lavoratrice, considerati
un patrimonio acquisito e non negoziabile.
In tale contesto, sembra quindi superata l’idea stessa di un’unità
sindacale in termini di unità di linea d’azione, è stato infatti osservato che
non esiste un modello giusto, in assoluto, ma che invece si debba pensare
alla linea più adeguata in termini dinamici, valutando volta per volta la
strategia da porre in essere in base al comportamento della controparte.
Allo stesso tempo, numerosi sono gli studiosi che, riflettendo sulla
crescente necessità di tutela dei lavoratori nell’epoca della competizione
globale, ritengono ancora proficua la ricerca dell’unità sindacale come
unica strada affinchè il sindacato continui a svolgerla funzione di
promozione dello sviluppo economico e sociale del Paese.
Quale che sia la strada che sarà intrapresa, è certo che la rottura
dell’unità sindacale fa emergere problematiche del tutto nuove,
considerato che la prassi delle relazioni industriali nel nostro Paese è stata
a lungo caratterizzata dall’unità sindacale di fatto.
205
206
Capitolo 5
L’impatto del World Class Manufacturing in termini
di partecipazione sul sistema aziendale sulle
relazioni industriali e sui lavoratori
5.1 Premessa
Dopo aver esaminato nei capitoli precedenti le trasformazioni legate
all’introduzione di nuove forme di organizzazione del lavoro e della
produzione, partendo dall’organizzazione scientifica del lavoro (Taylor)
fino ad arrivare alla sperimentazione del WCM all’interno del gruppo
Fiat, la nostra attenzione è stata rivolta all’importanza che il gruppo
riveste nel contesto italiano, e in particolare a tutte le vicende che sono
ormai oggetto di attenzione da parte degli ambienti economici, sociali e
politici del paese.
Abbiamo poi cercato di offrire un’analisi della contrattazione collettiva
sindacale alla Fiat, partendo dagli anni Ottanta fino ad arrivare ai giorni
nostri, per comprendere appieno i cambiamenti in atto.
Cambiamenti che hanno portato, attraverso l’introduzione del nuovo
paradigma organizzativo del lavoro e della produzione (WCM), a un
modello di contrattazione collettiva che da “normativo” diventa
“partecipativo”.
Attraverso delle interviste a rappresentanti delle principali sigle sindacali,
manager e lavoratori Fiat, si cercherà nei paragrafi successivi di capire,
dopo una breve ricostruzione del contesto torinese e delle condizioni in
cui perversa, quale impatto ha avuto il World Class Manufacturing in
termini di partecipazione non soltanto a livello più generale del sistema
207
aziendale ma anche sul coinvolgimento dei lavoratori e nel
comportamento e sulle strategie degli attori sindacali.
A tal riguardo lo scopo della ricerca è quello di capire qual è il
collegamento tra questo nuovo paradigma organizzativo, sperimentato
dal 2006 in poi, e le relazioni industriali.
In particolare, se il WCM, centrato sul coinvolgimento attivo dei
lavoratori, richiede o meno l’intermediazione del sindacato. Quali
caratteristiche questo deve avere, partecipativo o conflittuale.
Qual è il ruolo del sindacato e la sua effettiva partecipazione all’interno
dell’azienda. Qual è il rapporto con l’azienda, se quest’ultima cerca il
rapporto con i sindacati oppure preferisce interagire direttamente con i
lavoratori. Se esistono ancora dei meccanismi di tipo partecipativo,
rappresentato dalle commissioni, se queste funzionano effettivamente o
il coinvolgimento del sindacato è soltanto formale.
Si cercherà dunque di capire quali sono i nuovi equilibri e le nuove
strategie manageriali finalizzate ad acquisire il consenso sui nuovi metodi
di produzione e come questo ha influito in modo determinante
sull’organizzazione e sulle modalità di azione del sindacato.
208
5.2 La Fiat Chrysler Automobiles di Mirafiori
La Fiat Chrysler Automobiles di Mirafiori è uno stabilimento industriale
a Torino, si trova nel quartiere Mirafiori Sud. Fu progettato fin
dal 1936 essendosi ormai rivelato insufficiente il precedente stabilimento,
quello del Lingotto. Nel suo comprensorio lavorano oggi circa 5.400
operai e nel 2012 vi sono state prodotte circa 41.600 autovetture (l'unica
vettura attualmente in produzione è l'Alfa Romeo MiTo).
La Fiat Chrysler Automobiles di Mirafiori ha costituito la realizzazione
maggiore dell'industrialismo italiano. Nessun impianto, nessuna unità
produttiva ha mai eguagliato Mirafiori, che apparve e venne descritta, al
momento della sua costruzione, come una realtà fuor di misura30.
Oltre ad essere stata un luogo emblematico della produzione, è stata e
continua ad essere uno dei teatri principali della nostra vita collettiva. Di
volta in volta, Mirafiori è stata il laboratorio dove sono state messe a
punto e attivate le tecnologie della "mass production" di ispirazione
fordista, lo spazio dove si è sviluppata la conflittualità permanente
cresciuta sull'onda dell'autunno caldo del '69, il grande alveare sociale
nelle cui pieghe si è annidata la minaccia del terrorismo fino al cambio di
ciclo sancito dalla marcia dei quarantamila dell'ottobre 1980.
E ora? Che cos’è oggi Mirafiori? Realtà decaduta da un luogo simbolo,
insediata da una sorte che non lascia più molto scampo a quella
vocazione manifatturiera di cui la città era andata orgogliosa?
Ora sembra che per il discorso pubblico, Mirafiori sia soltanto un
capitolo in sospeso, un interrogativo aperto. Di quella che ancora resta
«la più grande fabbrica d'Italia», si discute solo per misurarne le chance di
sopravvivenza nel tempo. Oggi in tutta Europa si parla dei luoghi della
30 Berta G., «I 70 anni di Mirafiori e le sfide del gigantismo», Il sole 24 ore, 2009.
209
produzione automobilistica soltanto allo scopo di valutare in quale
misura riusciranno a sussistere dopo i tagli della capacità produttiva che
potrà imporre la crisi globale. Nessuno o quasi si sofferma sull'atipicità di
una fabbrica che, tra continuità e mutamenti, è ancora in funzione
quando complessi analoghi e comparabili per storia, importanza e
ampiezza sono stati dismessi da tempo. La possibilità di durare e di
adattarsi ai nuovi cicli produttivi di una fabbrica dipende da tanti fattori.
Alcuni sono legati ai suoi criteri progettuali, alla sua attitudine a ospitare
processi differenziati, ad adeguarsi a cambiamenti connessi anche ai
paradigmi organizzativi. È chiaro che a nessun produttore verrebbe più
in mente di costruire grandi fabbriche quale fu Mirafiori negli anni della
sua massima estensione, quando costituiva il fulcro del sistema dell'auto
Fiat. Eppure, la sua storia non si è conclusa con quella della produzione
di massa e Mirafiori si è così trasformata in un soggetto della
metamorfosi di Torino, grazie a un processo di riassetto degli spazi
urbani che ha mescolato i luoghi dell'industria con quelli delle altre
attività. Il suo futuro non dipende perciò dalla capacità di prevedere e
calcolare i volumi produttivi di domani, ma dalle funzioni che essa potrà
assolvere entro il distretto torinese dell'auto. E dipende anche dal fatto
che si consideri la fabbrica non come un'entità residuale, ma un
organismo sottoposto a un cambiamento continuo. Dove si
sperimentano metodi e forme di lavoro che mantengono un valore di
punto di riferimento per far avanzare e progredire la frontiera
dell'organizzazione. Un terreno, questo, fondamentale per un sindacato
industriale intenzionato a misurarsi sull'evoluzione dell'impresa.
210
5.3 L’impatto del World Class Manufacturing in termini
di partecipazione sul sistema aziendale
Il World Class Manufacturing è un sistema di produzione adottato da
molti tra i più importanti costruttori mondiali e finalizzato a migliorare
l’organizzazione della fabbrica nel suo complesso. Abbiamo incontrato il
Dott. Luciano Massone, responsabile del World Class Manufacturing e
tra i principali artefici dell’autentica rivoluzione che sta interessando la
multinazionale torinese a livello produttivo e il Dott. Roberto Cortese,
responsabile delle relazioni industriali, per avere maggiori dettagli sulla
concreta applicazione del programma e ottenere un quadro complessivo
dei rapporti con il sindacato e i lavoratori.
In questa direzione va osservato che il WCM non significa soltanto
implementare metodi e sistemi tecnici ma l’azienda deve sostenere
l’operatività delle persone attraverso l’introduzione di un sistema sociale
coerente, capace di coinvolgere l’intera organizzazione e di fare in modo
che tutte le persone si sentano impegnate a contribuire per il
miglioramento continuo delle performance dello stabilimento, come
afferma Luciano Massone, responsabile del WCM “normalmente i sistemi che
si vedono in giro sono molto focalizzati sulla tecnica, noi ci siamo concentrati su un
sistema che si nutre del coinvolgimento delle persone, si nutre della diffusione della
conoscenza, si è nutrito di quella parte manageriale di cui non si sono potuti nutrire
gli altri sistemi. È un sistema ricco di knowledge, che fa dialogare tutti usando un
linguaggio comune, un sistema che è riuscito a coinvolgere oggi il 100% delle persone in
Fiat, puoi intervistare l’ultimo operaio che ti dice che la settimana scorsa ha fatto
quattro suggestions e ha partecipato a tre o quattro major kaizen”31 .
31 Intervista Luciano Massone, capo del World Class Manufacturing EMEA Region & WCM
Dev. Center VP, 2014
211
Diverse sono state le motivazioni che hanno portato ad adottare il WCM
a partire dal 2004, in un contesto di crisi in cui era necessario dare una
svolta all’interno dell’azienda, come afferma Luciano Massone,
responsabile del WCM “sono state la non competitività del sistema manifatturiero
che nel 2004 con uno spietato benchmarck fece fare il Dott. Marchionne sbattendoci
in faccia i risultati, quando abbiamo visto che rispetto ai nostri competitors eravamo
molto indietro si è deciso di avviare un programma di rottura”.
Così come molteplici sono state le difficoltà incontrate nella sua
implementazione, dal momento che un possibile processo di imitazione
delle imprese giapponesi da parte delle aziende occidentali è stato reso
complicato non tanto per la superiorità competitiva delle prime ma
riconducibili a fattori esterni (culturali, istituzionali), replica Luciano
Massone, responsabile del WCM “il Giappone ha dalla sua un sistema-paese,
dal momento che ho vissuto lì e mi sono formato lì, il Giappone produce un sistema
scolastico meritocratico e selettivo, non si può scegliere che cosa fare da grande e nel
percorso scolastico che una persona viene indirizzata a fare un mestiere piuttosto che
un altro. Gli investimenti nel mondo scolastico li fa l’impresa, lavorare lì è fantastico,
non bisogna convincere qualcuno a fare qualcosa, con i sindacati si dialoga benissimo,
il sindacato gioca la stessa partita dell’azienda. In Italia abbiamo dovuto investire
dieci anni per creare una cultura rispetto che in Giappone. In Italia vi è stata una
scarsa comprensione di quella che era la filosofia del miglioramento continuo che
proponeva questo modello, difficoltà legate alla gestione con il sindacato, abbiamo
quindi dovuto creare tutto il sistema”.
Delle difficoltà che derivano quindi secondo Roberto Cortese,
responsabile delle relazioni industriali “da un punto di vista culturale, vi è una
diffidenza al cambiamento, qui in Italia. La propensione al cambiamento rispetto
212
abbiamo sempre fatto così, è stato uno di quei muri da abbattere o di quelle reti un pò
da strappare che hanno probabilmente teso a rallentare questo progetto” 32.
In tutti gli stabilimenti Fiat Chrysler Automobiles, il lancio e
l’implementazione del programma WCM sono stati accompagnati da un
massiccio miglioramento delle condizioni di lavoro attraverso un
rinnovamento dell’ambiente, introducendo i più avanzati criteri
ergonomici, come afferma Luciano Massone, responsabile del WCM
“Siamo partiti da lì, prima ancora di affrontare gli aspetti più complessi e tecnici,
abbiamo affrontato la sicurezza, l’ambiente del posto di lavoro, la pulizia, l’ordine.
Abbiamo fatto grossissimi investimenti sull’ergonomia di processo, abbiamo finanziato
una cattedra all’università di Torino, lo abbiamo alimentato con contributi e
consulenze delle più prestigiose università presenti al mondo e oggi ci alimentiamo dei
dottorandi che escono da quel percorso per rivedere il nostro processo per arricchirlo nei
contenuti”.
Il commitment quindi da parte del management, per realizzare un
ambiente di fabbrica favorevole che tocchi i diversi aspetti, è essenziale
per il successo del nuovo sistema di produzione basato sui principi del
WCM, come afferma Roberto Cortese, responsabile delle relazioni
industriali “l’azienda deve mettere nelle migliori condizioni le persone per lavorare
bene e in sicurezza, è uno dei compiti del datore di lavoro, se si lavora in una fabbrica
confusa, sporca, buia, rumorosa, i risultati non possono venire. Se c’è luminosità nelle
fabbriche, se ci sono postazioni di lavoro ergonomicamente standard, se il prodotto è
stato studiato per quelle postazioni di lavoro, chi ci lavora è messo nelle condizioni di
poter fare bene il suo lavoro e non esistono possibilità per avere degli errori”.
È importante che i miglioramenti all’interno dell’azienda siano introdotti
con il coinvolgimento dei lavoratori al fine di attivare una loro prima
32 Intervista Roberto Cortese, responsabile Relazioni Industriali FCA EMEA, 2014
213
mobilitazione intellettuale, attraverso il suggerimento di idee che le
persone stesse ritengono possano migliorare le loro condizioni di lavoro.
L’applicazione del WCM richiede che ognuno collabori alla gestione
dell’azienda, che ogni dipendente sia coinvolto nel perseguimento rapido
e continuo del cambiamento. Il WCM deve essere uno stile di vita, come
afferma Roberto Cortese, responsabile delle relazioni industriali “la
riuscita del progetto dipende dal commitment che viene dato al progetto, lo si deve
vivere e praticare quotidianamente, dall’altro vi deve essere l’entusiasmo, la capacità o
anche la voglia di guardare in maniera diversa il modo di lavorare, in ambienti dove
c’è una curiosità culturale, una vivacità data chiaramente dall’età delle persone
all’interno dello stabilimento, questo è molto più facile. La partecipazione delle
persone secondo me è straordinaria da questo punto di vista, le persone se sono messe
nelle condizioni di dare un contributo, e questo significa che qualcuno glielo chiede, non
si tirano mai indietro, e se si tirano indietro bisogna indagare che cosa porta le persone
a non interessarsi del posto in cui passa molte ore della loro vita”.
Senza quindi la piena adesione al programma da parte delle persone e
senza l’impegno concreto di ciascuno nell’applicazione del nuovo sistema
di produzione nessun progresso verso il livello Worl Class è pensabile, i
lavoratori giocano un ruolo importantissimo e in merito al grado di
coinvolgimento, Luciano Massone, responsabile del WCM, afferma“il
rapporto con il lavoratore è diverso rispetto a quello di ieri, abbiamo ricevuto un
milione e mezzo di proposte, l’indicatore di assenteismo è un terzo o un quarto rispetto
a quando siamo partiti in questa nuova avventura e nelle fabbriche più evolute, quelle
gold per intenderci, come Gian Battista Vico, gli indicatori di partecipazione sono
rilevanti, poi la partecipazione dipende molto dagli stabilimenti in cui vi è una
maggiore maturità e quelli in cui c’è una minore maturità, però, non ci sono oggi degli
stabilimenti che sono rimasti fuori dal programma e anche quelli con una minore
maturità hanno delle medie di partecipazione che sono al di sopra delle medie di
214
mercato”. E come afferma Roberto Cortese, responsabile delle relazioni
industriali “la partecipazione delle persone è diversa in base alle condizioni in cui si
trovano sia come località geografica, cioè in cui si trova lo stabilimento, e sia come
modo di operare all’interno dello stabilimento. La parte geografica è nei fatti e non si
può quindi spostare uno stabilimento per cambiare la cultura delle persone, bisogna
saper prendere coscienza di una diversità culturale, lavorarci sopra, poi è chiaro che le
proposte devono essere inserite in un programma ben specifico, dove tutti possono dare
il loro contributo altrimenti sono proposte che rischiano, se non c’è un grande
commitment, rischiano di perdersi e le persone non sono invogliate a dare un loro
contributo”.
La diffusione del World Class Manufacturing all’interno di Fiat Chrysler
Automobiles, che ha richiesto un forte livello di partecipazione e
coinvolgimento individuale, introduce anche grandi trasformazioni nelle
rappresentanza collettiva dei lavoratori. Il sindacato, infatti, sta vivendo
oggi più che mai una fase di notevole trasformazione rispetto alle
esperienze precedenti assumendo delle caratteristiche strutturali nuove,
da organismo di tipo tradizionalmente “conflittuale” a “sindacato
partecipativo”, caratterizzato da forme più accentuate di cooperazione
con il management aziendale, come afferma Roberto Cortese,
responsabile delle relazioni industriali “il rapporto sicuramente è diverso, io
ritengo importante, da parte di tutte e due deve esserci un cambio di passo, nel senso
che non deve essere visto più come un rapporto tipicamente conflittuale
azienda/padrone e sindacato. Il sistema di partecipazione in Fiat è abbastanza
radicato già a partire dagli anni Ottanta, adesso si è evoluto, si è finalizzato ed è
diventato molto più creativo, operativo, nel senso che si discute e si lavora sui problemi
della fabbrica, questo comporta un approccio biunivoco, da parte dell’azienda io credo
che debba essere fatto uno sforzo importante per mettere a fattor comune aspetti della
215
vita di fabbrica che servano ad avere un livello di condivisione e di linguaggio comune
con i propri interlocutori sindacali”.
Alla domanda se l’azienda quindi stia spingendo verso un “sindacato
partecipativo”, Roberto Cortese, risponde così “è una scelta obbligata, io non
credo molto in chi dice che la Fiat con il WCM vuole bypassare il sindacato e avere
un rapporto diretto con i lavoratori, semplicemente perché il rapporto diretto con i
lavoratori non può non esserci nel senso che l’azienda paga dei lavoratori e si aspetta
che facciano un certo tipo di mestiere, poi con il WCM, c’è stato l’interesse reciproco a
mettere le persone nelle condizioni di poter lavorare meglio, è un modo di lavorare
tende ad abbassare i rapporti gerarchici ed avere il direttore che oltre a vestirsi come le
persone che lavorano sulle linee, la direzione è molto più presente in fabbrica. Questo
dal sindacato che vuole essere parte di un progetto, è un salto culturale importante”.
Sembrerebbe, pertanto, che la logica del nuovo metodo spinga nella
direzione di un modello d’impresa della rappresentanza dei lavoratori
proprio per la natura delle sue caratteristiche produttive e proprio perché
si presta meglio ad organizzare delle conoscenze specifiche.
Conoscenze che il sindacato dovrebbe approfondire, come afferma
Roberto Cortese “da parte del sindacato deve essere fatto uno sforzo culturale di
crescita e di apprendimento, un rappresentante sindacale deve sapere che cos è il
WCM, deve sapere quali sono i problemi all’interno della fabbrica, la pluralità poi
dei sindacati non aiuta, questi molto spesso vedono il problema in maniera diversa a
seconda della convenienza o della volontà di tutelare in maniera diversa un lavoratore
piuttosto che un altro, se un problema esiste è un problema e non ha colore”.
Per poter cambiare culturalmente bisogna avere gli elementi giusti,
Luciano Massone da questo punto di vista da delle soluzione pratiche
“occorre training, formazione. Negli Stati Uniti il sindacato ha fatto un Accademy
proprio per formare le sue persone, per renderli dei partecipanti attivi, operano con un
programma di formazione che li rende degli interlocutori credibili. Questi grandi
216
cambiamenti sul piano sindacale non si realizzano poi se non vi è grande commitment,
e commitment per il sindacato sono le segreterie generali, sono i capi intermedi, cioè la
stessa struttura dell’azienda se vogliamo, ma il taglio di strutture che è stato fatto in
azienda non è stato fatto parimenti nel sindacato, è ancora molto gerarchico, io credo
che anche lui potrebbe fare una sana riforma per essere più efficace e per interloquire
territorialmente e per stabilimento al fine di generare la stessa condizione di
partecipazione.
217
5.4 L’impatto del World Class Manufacturing in termini
di partecipazione sulle relazioni industriali
In questa fase di sperimentazione del World Class Manufacturing, la
questione aperta è quella di come operare affinchè si possa riattivare un
gioco interattivo in un contesto in cui le identità dei soggetti partecipanti
(azienda, sindacato e lavoratori) cercano di ritrovare una loro dimensione
e un loro equilibrio. Questa situazione di metamorfosi che sta vivendo la
Fiat Chrysler Automobiles e in particolare Mirafiori mette in discussione
il ruolo delle relazioni industriali, come infatti afferma il responsabile
della Fim-Cisl, Alberto Cipriani “Per molti anni il sindacato è stato abituato a
fare le cose sempre in uno stesso modo, questi cambiamenti organizzativi mettono un
pò in gioco le regole di sempre e allora spingono a modificare le strutture stesse della
contrattazione, i cambiamenti sono sempre ricchi di problemi ma anche di opportunità.
Per ora l’impatto che ha avuto il WCM sulle relazioni industriali è abbastanza
residuale, è tutto un pò in divenire. Sono convinto però che nei prossimi mesi e anni ci
sarà più contaminazione tra il modo di lavorare nelle fabbriche e le relazioni
industriali” 33.
Un cambiamento che mette quindi radicalmente in discussione assetti
consolidati e certezze, ma che assieme al loro carico di trasformazione e
di distruzione, può anche liberare un grande potenziale di rinnovamento
e un ampliamento delle prospettive. Come afferma la segretaria
provinciale della Uilm-Uil, Flavia Aiello “Come tutte le cose nuove, quindi per
il problema che non si conoscono, spaventano. Poi ci deve essere la volontà di
migliorare, non ho detto che ci siamo riusciti e che ci riusciremo ma c’è uno spirito di
miglioramento. E’ un percorso difficile che bisogna iniziare, altrimenti siamo morti. In
Italia siamo partiti in ritardo rispetto agli altri paesi, come la Germania o l’America,
33 Intervista Alberto Cipriani, responsabile FIM-CISL, 2014
218
ma è un grande obiettivo da raggiungere in futuro, io ritengo che se mai si parte mai si
arriva” 34.
Il progetto aziendale d’innovazione organizzativa viene visto dalle tre
sigle sindacali (Fim-Cisl, Fiom-Cgil e Uilm-Uil) nel complesso
favorevolmente, sia pur con sfumature diverse derivanti dalla diversa
concezione del rapporto con l’azienda. Il responsabile della Fim-Cisl,
Alberto Cipriani, afferma “Il WCM è un metodo organizzativo che va a
modificare in profondità tutti i sistemi gestionali e produttivi all’interno di un sistema
aziendale. Il fatto che ci sia un attacco agli sprechi la vedo come una cosa positiva,
soprattutto nella nostra società. Sono due le cose che mi colpiscono particolarmente la
sicurezza, senza la quale non si può fare un processo di eccellenza e la partecipazione
delle persone, le persone messe al centro del processo produttivo e in particolare gli
operai che vengono visti normalmente come quelli che non devono pensare, partecipare,
ma solo obbedire. Queste sono in sintesi le cose che mi colpiscono, bisogna poi vedere
come vengono implementate, tra la teoria e la pratica c’è uno scarto importante, spesso
viene gestito male e quindi di conseguenza le persone lo subiscono al posto di viverlo da
protagonisti e quindi questo può produrre delle conseguenze negative”.
La segretaria provinciale della Uilm-Uil, Flavia Aiello, afferma“ È un
ottimo sistema di lavoro, bisogna avere una grande volontà di partecipazione di
entrambi, nel senso che è orientato rispetto a quello che è il lavorare meglio e con
attenzione, nel senso facciamo i pezzi e li mandiamo avanti questo sistema qui, lo
boccia da subito. Il lavorare attentamente è un salto avanti in quella che è l’attività
produttiva in azienda”.
Il segretario responsabile della Fiom-Cgil, Edi Lazzi, afferma“È una
metodologia di organizzazione del lavoro, banalmente, secondo me ha delle buone
caratteristiche, c’è un idea un po’ più concettuale che riguarda l’organizzazione del
lavoro nel complesso. Una cosa che il sindacato ha detto da un sacco di anni, piuttosto
34 Intervista Flavia Aiello, segretaria provinciale UILM-UIL, 2014
219
che insistere sul lavoratore bisogna guardare un pò il tutto. È evidente che se la mia
postazione è pulita, intanto io lavoratore starò meglio, se i pezzi che devo montare
sull’autovettura sono già sequenziali è meglio, perché vuol dire che farò meno fatica a
cercarli. Il WCM è di per se una cosa positiva, dovrebbe essere applicato correttamente
tenendo conto dell’aspetto e dell’idea che hanno i lavoratori, bisognerebbe ritornare ad
una contrattazione tra i lavoratori tramite le loro rappresentanze sindacali e
aziendali, cosa che al momento non c’è, è la cosa negativa è che fa peggiorare le
condizioni lavorative delle persone. Un altro aspetto è che il WCM non parla mai del
sindacato, il WCM parla dell’azienda e del lavoratore, quindi se dobbiamo andare a
vedere che cosa è effettivamente il ruolo del sindacato nel WCM, e nell’intervenire sul
WCM, nel rappresentare i lavoratori dentro il WCM e dentro la Fiat è nullo” 35.
Nell’ambito del WCM, l’innovazione impatta quindi su vari fronti, sulla
sicurezza, sulle modalità di lavoro derivanti da analisi ergonomiche, sulla
creazione di un ambiente idoneo per le esigenze del lavoratore. Il WCM
implica quindi un vero e proprio mutamento paradigmatico nel modo di
intendere il lavoro, è inoltre richiesto un contributo armonico di tutti i
dipendenti aziendali. L’operaio deve guardare al suo lavoro in modo
nuovo e si deve interrogare su cosa può essere fatto per produrre meglio
con minore fatica, senza spreco. I dipendenti vengono quindi coinvolti
nell’azienda, questi non devono più soltanto fare ma anche pensare.
Per alcune sigle sindacali come Fim-Cisl e Uilm-Uil, il WCM, ha inciso in
maniera positiva maggiormente su alcuni aspetti, come l’impegno di
intelligenza e l’ergonomia del posto di lavoro con l’introduzione del
sistema Ergo-Uas, come afferma Alberto Cipriani: “I lavoratori dicono che
per certi versi aumenta l’impegno d’intelligenza, anche se lo dicono molto di più le
realtà dove il WCM è in una fase più avanzata e molto meno dove non lo è.
Contemporaneamente, dicono anche che la fatica c’è, non diminuisce, riconoscono che è
35 Intervista Edi Lazzi, segretario responsabile FIOM-CGIL, 2014
220
aumentata moltissimo la sicurezza e la salute, alla ricerca delle soluzioni migliori da
un punto di vista ergonomico partecipano anche gli stessi lavoratori, questa è un pò
una novità, nel senso mentre prima la progettazione era ad esclusivo appannaggio dei
progettisti, ingegneri, oggi viene chiesto agli stessi addetti di linea o team leader, che
sanno come avvengono i movimenti, le varie lavorazioni, come sarebbe meglio fare”.
Critica invece per quanto riguarda questi due aspetti è la posizione della
Fiom-Cgil, Edi Lazzi, afferma:
“Più intelligente in assoluto no, anche questa cosa qua che si vuole dipingere il fatto
che l’operaio mette del suo, mette l’intelligenza, sono tutte balle! È propaganda,
assolutamente, anzi possibilmente per l’azienda più sei uomo scimmia e meglio è!
Quando sento parlare gli altri sindacalisti che fanno da apoteosi, cioè ho prendono in
giro se stessi e sono proprio convinti che si stanno prendendo in giro, oppure a chi la
raccontano. Non c’è un elemento in più di intelligenza che i lavoratori mettono sul
lavoro in catena di montaggio, non lo vuole neanche l’azienda. Non è vero che
l’azienda vuole gente più colta, più preparata, si magari la vuole un pò più colta
perché così non deve stare lì troppo dietro a rompersi le scatole a spiegargli una
semplice operazione, però colta fin a un certo punto perché se poi sei troppo colto e
inizi a rompermi le scatole non vai più bene.
Per quanto riguarda il miglioramento delle condizioni di salute e di sicurezza, l’Ergo-
Uas è una metodologia come le altre. La cosa che in Fiat è stata ed è devastante è il
fatto che nel passato c’erano degli accordi che intervenivano direttamente sulle
condizioni di lavoro e sulla metrica del lavoro, accordi che permettevano di stare meglio
e di avere la possibilità tramite l’organizzazione sindacale di intervenire quando
qualcosa non andava, mentre prima il lavoratore non poteva essere saturato più
dell’87% del suo tempo, ora dal momento che la Fiat ha disdetto quelli accordi che le
altre organizzazioni hanno condiviso, il lavoratore può essere saturato fino al 99% del
suo tempo. Oppure prima c’erano 40 minuti di pausa, hanno tagliato le pause di 10
221
montaggio sono fondamentali, importantissimi, vuol dire 10 minuti in meno di
lavoro”.
La Fiat Chrysler Automobiles punta ad arrivare a un modello di
organizzazione del lavoro basato su una forte partecipazione dei
lavoratori. Una partecipazione che per le sigle sindacali resta ancora
molto debole, come afferma il responsabile della Fim-Cisl, Alberto
Cipriani “Il modello partecipativo ancora non si è realizzato, siamo ancora in una
fase che si sta sviluppando, se si fa riferimento ai lavoratori nel processo di
miglioramento continuo, ci sono delle punte avanzate in alcuni stabilimenti dove si è
riusciti ad arrivare ad un buon livello di partecipazione e di coinvolgimento ma sono
ancora abbastanza poche in Europa, quattro in tutto, gli altri sono decisamente più
indietro”.
La segretaria della Uilm-Uil, Flavia Aiello, afferma “E’ debole, ma io lo
attribuisco al fatto che non ci sia il lavoro, stiamo vivendo un periodo di cassa
integrazione, degli investimenti che per mille ragioni, hanno tardato. C’è stato un
rallentamento del programma, se poi uno la teoria non la mette nella pratica, è tutto
da rivedere”. Il segretario responsabile della Fiom-Cgil, Edi Lazzi, afferma
“Oggi c’è il WCM, la qualità totale degli anni Ottanta, di che cosa stiamo parlando?
La qualità totale è di nuovo la campagna della Fiat sulla qualità totale, zero difetti,
il coinvolgimento, non è mai stato coinvolto nessuno. Ripeto il WCM è una cosa
positiva sulla carta ma il suo concretizzarsi non tiene conto dei lavoratori come
portatori di una istanza che a volte può essere differente”.
È indubbio poi, da decenni, che le relazioni sindacali in Fiat Chrysler
Automobiles si basino su un equilibrio precario, dovuto a un sistema di
partecipazione debole della rappresentanza sindacale, come afferma il
responsabile della Fim-Cisl, Alberto Cipriani “Le relazioni industriali sono
un po’ indietro, sarebbe necessario fare di più, utilizzare questo sistema per misurare
in modo più trasparente, equo i vari risultati e le cose che avvengono all’interno della
222
fabbrica. Non ha senso che le cose che avvengono in un azienda non vengano trattate
dalle relazioni sindacali, l’unica cosa che fino ad ora abbiamo fatto ed è stato trattato
nella contrattazione, è un riconoscimento economico a fronte di un risultato dello
stabilimento nel suo insieme, che porta ad assegnare delle medaglie, oro, argento,
bronzo fino ad arrivare al World Class. Alle medaglie viene associato un premio
economico per ciascun lavoratore dello stabilimento, questo è quello che abbiamo fatto
fino ad adesso, l’intenzione è approfondire e andare oltre”.
La crisi del sistema di relazioni sindacali si evidenzia nell’insofferenza
della Fiat Chrysler Automobiles per le regole del confronto sindacale e
conferma la minor attenzione aziendale al tema dei rapporti sociali. Le
tre sigle sindacali ritengono che l’azienda tenda a gestire le cose in
maniera unilaterale e a individualizzare in qualche modo il rapporto con
il lavoratore, come afferma la segreteria provinciale della Uilm-Uil, Flavia
Aiello“L’azienda come tutte le aziende, tendono a fare i propri interessi, dicendo che
solo io ho la verità in tasca, solo io so come fare. L’azienda tende il più delle volte a
comunicare piuttosto che a dialogare. Su questo non andiamo molto d’accordo, non ci
possono essere solo le difficoltà dell’azienda, che capiamo, ma ci sono anche i
lavoratori, su questo facciamo fatica a farlo comprendere”. L’azienda dovrebbe
così riuscire a cambiare radicalmente mentalità, cioè dovrebbe accettare il
sindacato come suo interlocutore, come accompagnatore dei processi,
come afferma il segretario responsabile della Fiom-Cgil, Edi Lazzi “sedersi
e guardarsi negli occhi alla stessa altezza, se invece tu Fiat ti siedi dieci metri sopra
non ci potrà mai essere quella forma di partecipazione vera, ma sarà sempre finta,
sarà una partecipazione sulla carta, semplicemente dettata dalle mode del momento”.
Il conflitto positivo non può essere visto quindi come una
contrapposizione pura, se due persone si siedono di fronte a un tavolo, e
sullo stesso argomento vi sono due punti di vista differenti, ci deve
essere la capacità di trovare due punti di mediazione. Il dialogo è utile se
223
ci sono dei soggetti che si ci ascoltano e che riescono a trovare dei giusti
compromessi. Il sindacato dovrebbe essere visto quindi dall’azienda
come un formidabile strumento da utilizzare, soprattutto per ciò che
attiene alla partecipazione, ovvero la gestione quotidiana delle
problematiche del rapporto tra azienda e rappresentanti dei lavoratori,
attraverso anche il lavoro delle commissioni, ossia quei luoghi in cui si
cerca di discutere le varie problematiche relative all’organizzazione del
lavoro, ma come afferma il responsabile della Fim-Cisl, Alberto Cipriani
“in alcuni stabilimenti funzionano abbastanza, c’è un buon livello di concretezza, non
sono dei luoghi formali dove si ci scambia qualche informazione, esistono proprio dei
casi che vengono affrontati, risolti. Purtroppo in molte realtà questo non avviene, per
varie ragioni, dipende molte volte dalla cultura sindacale ma anche da quella
manageriale, che a mio avviso non considera questi strumenti come qualcosa di utile
per gestire le problematiche quotidiane, gli stessi manager preferiscono fare da soli
senza coinvolgere i rappresentanti, e questo credo che sia profondamente sbagliato ma
fai conti con una cultura che è quella Fiat, che non ha mai investito in relazioni
sindacali serie, come avviene altrove”.
Ambigua in questo momento per quanto riguarda la gestione del
rapporto con l’azienda è la situazione che sta vivendo la Fiom-Cgil, come
afferma Edi Lazzi “c’è una situazione anomala in questo periodo, nel senso che la
Fiom ha deciso di non firmare un accordo alla Fiat, e quindi noi siamo stati esclusi
dal rapporto con la Fiat. Un rapporto che noi ci siamo conquistati con le sentenze e
giudici dall’altro, rapporti di forza che abbiamo con l’alto. La Fiat non coinvolge la
Fiom per questa ragione. Io per quello che vedo non coinvolge neanche gli altri
sindacati. Non c’è dialogo, le commissioni ci sono ma si riuniscono poco e quando si
riuniscono siamo solo alla comunicazione e non è finalizzato a trovare dei punto di
compromesso”.
224
Una Partecipazione concreta della rappresentanza sindacale che in Fiat
ancora non si è realizzata, come sostengono tutti i sindacalisti, Alberto
Cipriani della Fim-Cisl “È tutto da costruire, questo anche per responsabilità del
sindacato, faccio anche un po’ di autocritica, ma soprattutto per responsabilità
dell’azienda”. Flavia Aiello, della Uilm-Uil “Non spinge assolutamente, non ci
stende i tappeti rossi, non ci apre la porta, ci siamo e cerchiamo di parlarci per il bene
dei lavoratori. Per l’azienda se c’è o non c’è il sindacato non gliene importa”.
Edi Lazzi, della Fiom-Cgil “La Fiat sulla carta spinge verso questo sindacato
partecipativo ma in realtà non vuole nessun sindacato. La Fiat il sindacato non l’ha
mai accettato come un soggetto che magari può avere un punto di vista differente, l’idea
è del comando assoluto, mi dispiace dirla così ma è la realtà”.
225
5.5 L’impatto del World Class Manufacturing in termini
di partecipazione sui lavoratori
Con l’introduzione del World Class Manufacturing, l’innovazione più
importante è stata quella di mettere il lavoratore al centro del processo
produttivo. Nessun lavoratore può chiudersi in se stesso perché il WCM
produce e richiede maggiore flessibilità, sia funzionale che mentale. Se ne
ha riscontro soprattutto nella richiesta al singolo lavoratore di individuare
gli intoppi e di risolvere i problemi che sorgono, mentre prima gli si
vietava ogni iniziativa, come afferma l’addetto di linea di Mirafiori
Carrozzeria, Antonella Palumbo “il lavoro sicuramente diventa più intelligente.
Non è più come una volta che ti mettevi lì in catena di montaggio, ti facevi le 8 ore e
facevi sempre quello, non eri tenuto a pensare, oggi ci sono delle postazioni in cui puoi
compilare un modulo, puoi fare appunto una proposta di miglioramento continuo” 36.
A fronte di una partecipativa attiva da parte dei lavoratori, molti
ritengono insoddisfacente le ricompense che da l’azienda a seguito dei
suggerimenti che fornisce il lavoratore per migliorare il lavoro, come
afferma Pino Di Castri, l’addetto di linea di Mirafiori Carrozzeria “delle
magliette o dei gadget che da l’azienda, noi non ce ne facciamo niente. Il lavoratore
propone delle modifiche dove l’azienda risparmia milioni di euro, il lavoratore ha
bisogno di denaro”. Benchè vi sia libertà di proporre delle soluzioni, anche
innovative, molti ritengono che il cambiamento debba passare attraverso
il vaglio di tutta una serie di livelli gerarchici prima che possa essere
implementato, come affermano gli addetti di linea di Mirafiori
Carrozzeria, Antonella Palumbo e Pino Di Castri “si dovrebbe cercare di
ridurre questa burocrazia, attualmente vi è stata una riduzione dei livelli gerarchici,
perché nello stacco dall’operaio al dirigente, vi erano troppo figure”.
36 Intervista Antonella Palumbo, operaia Mirafiori Carrozzeria – Montatura, 2014
226
“All’interno dell’azienda c’è una gerarchia, a volte questa gerarchia interrompe questi
processi perché trovi la persona che non riesce a capire il modo con cui si deve porre al
lavoratore”.
Le novità più cospicue con l’introduzione del WCM, oltre ad essere stata
quella di richiedere al lavoratore una cooperazione intelligente, vale a dire
una “partecipazione diretta”, hanno riguardato l’ambiente di fabbrica nel
suo complesso, dal miglioramento delle condizioni di salute e di
sicurezza, un ambiente di fabbrica luminoso e pulito, come afferma
l’addetto di linea di Mirafiori Carrozzeria, Giuseppe Buscicchio “l’aspetto è
globale della cosa, non solo a livello di postazioni di lavoro ma bensì anche di pulizia,
sicurezza, un contenuto a 360 gradi” 37.
Un metodo di organizzazione del lavoro che ha richiesto a imprenditori e
manager un diverso modo di gestire e di intendere l’impresa e la sua
stessa natura, non soltanto da un punto di vista operativo, l’azienda oggi
deve saper "ascoltare", deve "apprendere", il rapporto tende ad essere
così meno piatto ed impersonale, alcuni lavoratori ritengono che il
rapporto con l’azienda sia cambiato rispetto a quello di dieci anni fa,
come afferma, l’addetto di linea di Mirafiori Carrozzeria, Antonella
Palumbo “ oggi c’è più competenza, sono materie che bisogna studiare, analizzare, e
quindi è utile confrontarsi con chi come noi si occupa dell’aspetto pratico e chi magari
la guarda dal lato tecnico”. C’è invece chi ritiene che il rapporto con
l’azienda sia ancora soggettivo, come afferma l’addetto di linea, Pino Di
Castri “come tutti gli ambienti di lavoro, c’è la simpatia e no, non dovrebbe esserci
però. Ci deve essere un rapporto umano, rispetto a qualche anno fa è migliorato sotto
alcuni punti di vista, sotto altri è diventato più rigido perché dal momento che siamo
in un periodo di crisi a volte la casta è usata come clava sui lavoratori come ricatto”.
37 Intervista Giuseppe Buscicchio, operaio Mirafiori Carrozzeria – Verniciatura, 2014
227
In questo nuovo scenario, in cui l’azienda mostra un maggiore senso di
apertura e a ricercare forme di “individualizzazione”con il lavoratore,
come afferma l’addetto di linea di Mirafiori Carrozzeria, Antonella
Palumbo “molte volte si, è normale che l’azienda cerchi di mettere da parte il
sindacato per avere un rapporto direttamente con il lavoratore”, il sindacato resta
tuttavia per i lavoratori uno strumento imprescindibile per la tutela delle
loro condizioni di lavoro, come afferma l’addetto di linea di Mirafiori
Carrozzeria, Antonella Palumbo “è importantissimo il sindacato. Per noi
lavoratori è uno strumento che abbiamo a disposizione, fa da portavoce” o come
afferma l’addetto di linea di Mirafiori Carrozzeria, Pino Di Castri “il
sindacato ci vuole, deve crescere, se non ci fosse sarebbe molto peggio” 38.
Alla visione sul sindacato i lavoratori riconoscono che in tempi di crisi ci
sia una disaffezione soprattutto da parte dei giovani, alcuni ritengono che
il sindacato vada riformato al suo interno, arrivando magari alla
formazione di un unico sindacato di categoria, anche se vedono questo
possibile percorso come irrealizzabile, altri invece ritengono che il
sindacato porti avanti una sua linea politica, una propria ideologia che
rende difficile così il dialogo con le altre organizzazioni sindacali.
In conclusione, i lavoratori valutano positivamente l’azienda e
l’introduzione del World Class Manufacturing, ritengono che ci sia
ancora molto da fare in termini di partecipazione, in quanto è un metodo
di lavoro che richiede di essere studiato e praticato quotidianamente e
per questo occorre il tempo necessario, occorre soprattutto un rapporto
elastico tra azienda, sindacati e lavoratori, altrimenti come afferma
l’addetto di linea di Mirafiori Carrozzeria, Antonella Palumbo “sono cose
che rimarranno soltanto scritte sulla carta e non si potrà vedere la praticità sul posto
di lavoro”.
38 Intervista Pino Di Castri, operaio Mirafiori Carrozzeria, 2014
228
Sul futuro dell’azienda, i lavoratori si dividono tra chi ritiene che
l’acquisizione di Chrysler sia stata una scelta straordinaria, e chi ritiene
invece che sia stata una scelta di sopravvivenza, come afferma l’addetto
di linea di Mirafiori Carrozzeria, Pino Di Castri “dieci anni fa era impensabile
che Fiat potesse acquistare un’azienda, qualsiasi essa sia, soprattutto americana, è
incredibile” o come afferma l’addetto di linea di Mirafiori Carrozzeria,
Giuseppe Buscicchio “oggi la Fiat che ha comprato Chrysler è stato il massimo,
oggi ci chiamiamo Fiat-Chrysler. Io non penso che questa sia l’ultima operazione che
farà Marchionne, penso che oggi per stare sul mercato ti devi per forza alleare, come le
altre case, se vuoi rimanere sul mercato. Oggi dire che la Fiat ha comprato Chrysler,
mi sento più sicuro a livello lavorativo, se fosse stata solo Fiat per me oggi poteva
essere pericoloso”, e c’è invece chi ritiene che la scelta fatta da Marchionne
sia stata dettata dal sistema politico e governativo, come afferma
l’addetto di linea di Mirafiori Carrozzeria, Antonella Palumbo
“Marchionne ha spostato la parte più importante all’estero, le vetture che fa in
Chrysler le poteva fare anche qui in Italia, e il governo non ha fatto nulla per
mantenere la Fiat qui in Italia, e parliamo del governo Berlusconi”.
Diversa è la situazione per quanto riguarda la mancata implementazione
del World Class Manufacturing tra gli impiegati all’interno della Fiat
Chrysler Automobiles, come afferma l’impiegata delle strutture centrali
di Fiat Chrysler Automobiles, Claudia Di Rosso “il WCM dove sono io non è
entrato, lo conosco perché l’ho un po’ studiato, da me si dovrebbe fare più che altro il
World Class Tecnologies, che poi non è partito tra gli impiegati e non ho capito il
perché” 39. Il modello viene valutato positivamente dall’impiegata,
soprattutto per quanto riguarda l’ergonomia e la sicurezza del posto di
lavoro, tuttavia “potrà rilevarsi un effettivo sistema per ridurre gli sprechi soltanto
39 Intervista Claudia Di Rosso, impiegata strutture centrali Fiat Chrysler Automobiles, 2014
229
quando sarà esteso a tutti gli attori, adesso è entrato nelle fabbriche più nuove e a
livello di officina, ma non tocca altre persone che comunque ci lavorano in fabbrica”.
Dall’intervista si percepisce immediatamente la diversità che caratterizza i
due ambienti di lavoro, quello operaio in cui sembra esserci una
maggiore predisposizione al lavoro di gruppo e quello degli impiegati
dove invece prevale una concezione individualista, come afferma
l’impiegata Claudia Di Rosso “c’è un divario culturale causato dalla differenza
culturale, l’impiegato ha una culturale un pò da arrogante, pensa di potersi risolvere il
problema da solo, l’operaio invece cerca di portare i problemi e di farseli risolvere,
l’impiegato non ce l’ha, proprio per la presunzione. Un altro aspetto è che l’operaio fa
squadra, c’è un concetto d’insieme, tra gli impiegati no”.
Alla visione sull’azienda, l’impiegata ritiene che ci sia una parte
dell’azienda con una mentalità molto propositiva, aperta al cambiamento
e al rinnovamento, e una buona parte di Fiat ancora con una mentalità
chiusa. Molto spesso in commissione l’azienda cerca di interpretare le
cose a suo modo non trovando punti di convergenza con il sindacato,
infatti afferma “facciamo l’esempio della commissione assenteismo, l’azienda ti
convoca ma non ti da dei dati, tu non sai se c’è una maggiore concentrazione di
assenteismo in un’aria piuttosto che in un’altra, non ti da gli strumenti per poter
interagire, tende ancora a manipolare e gestirsi la situazione da sola”.
Per quanto riguarda la presenza del sindacato all’interno dell’azienda,
come strumento di tutela delle condizioni di lavoro tra gli impiegati,
afferma “oggi lo schifano abbastanza, ti parlo dei miei impiegati. A me piacerebbe
tanto un sindacato unitario. Io sono per il sindacalista che lavora in azienda con e per
gli altri, un sindacato alla tedesca, sono fuori dagli schemi dei vecchi sindacalisti, ossia
quelli che sono fuori i cancelli, quelli che vogliono solo farsi vedere o fare carriera”.
Sulle prospettive future e dell’acquisizione di Chrysler, ammette che
nonostante l’azienda giochi la sua partita e faccia i suoi interessi gli
230
stabilimenti sono stati salvati e tutto ciò che è stato messo a tavolino è
stato fatto, anche se al momento vi è una disaffezione generale delle
persone nel vedere Fiat Chrysler Automobiles non più come un’azienda
italiana ma americana.
231
Interviste Rappresentanti Sindacali
Alberto Cipriani (Responsabile FIM-
CISL)
Edi Lazzi (Segretario responsabile
FIOM-CGIL)
Flavia Aiello (Segretaria provinciale
UILM-UIL)
Interviste Rappresentanti Sindacali
Alberto Cipriani
(Responsabile FIM-CISL)
Edi Lazzi
(Segretario responsabile FIOM-CGIL)
Flavia Aiello
(Segretaria provinciale UILM-UIL)
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Intervista Alberto Cipriani
(Responsabile FIM-CISL )
Mi può raccontare la sua esperienza all’interno del Gruppo Fiat oppure del
sindacato? Qual è stato il suo percorso?
Ho iniziato dalla gavetta. Ho fatto il rappresentante sindacale in azienda. Ad un
certo punto ho deciso, anche spinto dai compagni di lavoro, di candidarmi alle
elezioni. Le prime elezioni delle Rsu si svolsero nel ‘95, e da lì iniziai un percorso di
impegno sindacale proprio a partire dalla fabbrica. Tutto è partito da lì e
l’impegno è cresciuto. Io facevo un lavoro interessante, anche da un punto di
vista professionale. Ma cresceva parallelamente sia l’impegno lavorativo e sia
quello sindacale e quindi, ad un certo punto, le due cose insieme non ci stavamo
più, anche in vista del tempo che era necessario dedicare ad entrambe. Mi è stato
chiesto di fare questa esperienza a tempo pieno nel sindacato e ho cominciato ad
essere un operatore sindacale esterno, che coordina l’attività di vari settori . Ho
seguito sia alcune piccole-medie imprese, al di fuori del mondo Fiat, ma
soprattutto realtà che appartengono al gruppo Fiat, che sono di una certa
consistenza numerica. Negli ultimi anni mi sono occupato anche a livello
nazionale delle questioni sull’organizzazione del lavoro e quindi anche del WCM.
1) Che cos’è il World Class Manufacturing?
Il Wcm è sostanzialmente un programma, un metodo organizzativo che va a
modificare in profondità tutti i sistemi gestionali e produttivi all’interno di un
sistema aziendale. E’ quindi un’esperienza di Lean Production che potrebbe
essere applicata a qualsiasi processo non necessariamente produttivo inteso in
senso stretto. Tant’è che viene implementato anche in banche, diverse da quelle
233
di natura manifatturiera. È quindi un processo di miglioramento continuo, molto
articolato. Vi è l’idea di abbattere, fino ad azzerare, tutti gli sprechi, le perdite e
generare un processo di eccellenza, con un contenimento molto serio dei costi.
Inoltre, si vorrebbero raggiungere degli obiettivi di qualità, di prodotto e di
processo elevatissimi. Tenere insieme queste cose è uno degli obiettivi in generale
dei processi di miglioramento continuo e nel WCM è implementato in maniera
molto strutturata.
2) Come vede il WCM? Qual è la sua percezione?
Da un punto di vista etico, il fatto che ci sia un attacco agli sprechi, la vedo come
una cosa positiva, soprattutto nella nostra società. Una cosa da evitare. Puntare
poi sulla qualità è un'altra cosa che a me colpisce abbastanza: è il primo pilastro
del WCM. Anche la sicurezza, trovo particolarmente interessante da un punto di
vista sindacale e dei lavoratori, perché senza la sicurezza non si può fare un
processo di eccellenza. Qualcuno magari ritiene che la sicurezza è un costo e che
bisognerebbe evitarla. Viene vista come un investimento. Questa cosa, 10 anni fa,
nessuno l’avrebbe detta in questi termini. Un altro punto è la richiesta di
partecipazione delle persone. C’è uno spazio di partecipazione senza la quale non
si riesce a realizzare un processo di eccellenza. Questo mi sembra, anche da un
punto di vista sindacale, antropologico. L’innovazione più importante sono le
persone che devono essere messe al centro del processo produttivo, in particolare
gli operai che, invece, normalmente, vengono considerati come quelli che non
devono pensare, partecipare ma solo obbedire. Queste sono in sintesi le cose che
mi colpiscono. Bisogna poi vedere come vengono implementate. Tra la teoria e la
pratica c’è uno scarto importante che spesso viene gestito male. Quindi, di
conseguenza, le persone lo subiscono al posto di viverlo da protagonisti e ciò può
produrre delle conseguenze negative.
234
3) Il coinvolgimento dei lavoratori è un elemento essenziale data la
vulnerabilità del programma? Che cosa fate per favorire il loro coinvolgimento?
Quali sono i principali strumenti che vengono adottati per motivare/valorizzare
i lavoratori all’interno della nuova organizzazione?
Questo è un terreno da esplorare. Fino ad ora l’azienda ha gestito le cose in modo
unilaterale. Vi sono molte proposte di miglioramento continuo, ma è
impressionante, come tutto sia gestito unilateralmente dall’azienda. Ciò non è
condivisibile per molti versi. Il sindacato sta iniziando ad occuparsene proprio in
questa fase. Fino ad ora l’unica cosa che abbiamo fatto, e che oltre tutto è stato
trattato nella contrattazione, dunque fa parte del contratto, è un riconoscimento
economico a fronte di un risultato dello stabilimento nel suo insieme. In ogni
stabilimento vengono misurate le performance: c’è un indicatore sintetico,
attraverso degli “audit”, e il punteggio sintetico poi produce un premio, una
medaglia che può essere Oro, Argento, Bronzo fino ad arrivare al World Class.
Alle medaglie viene associato un premio economico per ciascun lavoratore dello
stabilimento. Questo è quello che abbiamo fino ad adesso. L’intenzione è
approfondire e andare oltre, ragionare su premi un po’ più organizzati e
strutturati, legati alle idee e ai suggerimenti, da ragionare se a gruppi, a livello di
team, di aree di lavoro o anche a livello individuale. Io non sono propenso ai
premi individuali, anche se capisco che alcune idee possono produrre dei risparmi
molto corposi, ed è giusto che vengono riconosciuti a colui che li ha generati.
Questo, già in alcune aziende tedesche e giapponesi avviene, e si spera di andare
in questa direzione. Di fatto già un po’ è così. L’azienda riconosce delle cifre in
questi casi, però è tutto molto arbitrario, a seconda degli stabilimenti, delle
situazioni, ecc.
4) In seguito all’introduzione del WCM, il modello partecipativo si è realizzato
concretamente o ancora vi è una partecipazione debole?
235
Non si è realizzato. Siamo ancora in una fase che si sta sviluppando. Poi dipende!
Se si fa riferimento ai lavoratori nel processo di miglioramento continuo, ci sono
delle punte avanzate in alcuni stabilimenti dove si è riusciti ad arrivare ad un
buon livello di partecipazione di coinvolgimento. Ma sono ancora abbastanza
poche in Europa. Sono tre gli stabilimenti che hanno ottenuto questi risultati. In
Italia un paio, quattro in tutto, due in Italia, gli altri sono decisamente più
indietro. Abbiamo realizzato una ricerca importante, e questa ricerca dice proprio
questo, ed è emerso quello che dicevo adesso.
5) E da parte del sindacato vi è partecipazione?
Le relazioni sindacali sono un po’ indietro. Sarebbe necessario fare di più!
Bisognerebbe utilizzare questo sistema anche per misurare in modo più
trasparente, equo, più preciso i vari risultati e le cose che avvengono all’interno
della fabbrica, per dare un valore che sia compreso dalle persone, che sia noto a
tutti, meno discrezionale, più oggettivo. Questo farebbe bene anche all’azienda e
noi faremmo il nostro lavoro sindacale; maggiore equità, giustizia e anche per far
tornare ai lavoratori risultati concreti che possono essere in termini economici,
ma anche di altra natura. Quello che è certo è che non ha senso che tutti i
miglioramenti e le cose che avvengono in un’azienda non vengano trattate dalle
relazioni sindacali.
6) Questo proprio perché il sindacato in Italia è istituzionalizzato, quindi vi deve
essere un coinvolgimento?
Si, per anni è stato abituato a fare le cose sempre in uno stesso modo. Questi
cambiamenti organizzativi mettono un po’ in gioco le regole di sempre, e allora
spingono a modificare le strutture stesse della contrattazione. Io lo vedo
interessante! I cambiamenti sono sempre ricchi di problemi e opportunità.
236
7) Forme di disaffezione e di protesta, quali la non partecipazione alle attività
di miglioramento continuo della qualità, l’assenteismo, lo sciopero, vengono
praticate? Quali sono i livelli di assenteismo? Ci sono dei dati?
Si, ci sono dei dati che variano a secondo dello stabilimento. Quando si parla di
Mirafiori, si fa riferimento ad un mondo molto ampio: qui ci stanno 18.000
addetti. Lo stabilimento della carrozzeria di Mirafiori conta circa 5.000 addetti,
tutti gli altri sono sparsi in altre realtà. C’è una struttura molto importante di
ingegneria, commerciale, ecc. in cui vi sono circa 6.000 persone. Ci sono le
meccaniche, ci sono le presse. Non è come gli altri stabilimenti. Se si va a Cassino,
lì producono le auto. Nel caso di Mirafiori ci sono anche quelle che producono le
auto: separiamo lo stabilimento, cosiddetto terminale, quello che fa le auto ed
attualmente ne fa molto poche. C’è la Mito che vende relativamente poco. E’
comunque in corso la ristrutturazione dello stabilimento stesso per andare a
produrre modelli di alta gamma. Quindi parlare dell’assenteismo oggi a Mirafiori
bisogna vedere di che cosa si parla; l’assenteismo nella struttura centrale è molto
diverso da uno stabilimento che sta facendo cassa integrazione o delle
meccaniche. È in corso in questi ultimi anni un ulteriore cambiamento
organizzativo, perché un’azienda che si chiamava Bertone è stata acquisita dalla
Fiat. In quello stabilimento che è vicino Mirafiori vengono prodotti attualmente
due modelli di Maserati. Questo sta lavorando tantissimo e, molti degli
stabilimenti Mirafiori carrozzeria, sono stati trasferiti lì. Questi due stabilimenti,
insieme ad uno più piccolo che fa le scocche, in realtà, sono diventati un tutt’uno
e si chiama “polo produttivo Torino”. Quindi la vecchia Mirafiori carrozzeria, non
esiste proprio più; c’è stato un coinvolgimento organizzativo che è in corso e che
ha prodotto questi cambiamenti. Se parliamo, quindi, di produzione di auto,
parliamo, di polo produttivo Torino, se parliamo, invece, di Mirafiori, come
complesso produttivo e organizzativo, è una cosa molto diversa e ampia. Per
quanto riguarda lo sciopero, se c’è qualche elemento di conflitto, può riguardare
lo stabilimento di Maserati perché si lavora molto, e le persone sono stanche e
237
vorrebbero avere qualche riconoscimento in più. Lì c’è stato qualche ragione
conflittuale che ha portato anche a piccoli episodi di sciopero. È importante
riuscire a comprendere che ci sono realtà molto diverse. Pomigliano sta
lavorando, però, c’è tanta gente ancora in cassa integrazione, a Cassino simile,
Mirafiori Carozzeria, Melfi sta facendo un salto produttivo di nuovi modelli però
stabilimenti che lavorano a tempo pieno e che fanno straordinario sono davvero
pochi, sono solo la Sevel la Maserati di Grugliasco (ex Bertone).
8) Secondo lei il lavoro diventa più autonomo e intelligente? oppure soltanto
più gravoso, o forse entrambe le cose insieme?
Non ti do il mio giudizio. Ti dico quello che hanno detto i lavoratori nella ricerca. I
lavoratori dicono che per certi versi aumenta l’impegno d’intelligenza, anche se lo
dicono molto di più le realtà dove in WCM è una fase più avanzata e molto meno
dove non lo è. Contemporaneamente, dicono anche che la fatica c’è, non
diminuisce. Riconoscono che è aumentata moltissimo la sicurezza e la salute e
anche la qualità del prodotto, ecc. Però la fatica, lo stress permangono.
9) Il WCM ha portato ad un miglioramento delle condizioni di salute e sicurezza
del posto di lavoro? A tal proposito, nel quadro del WCM, è stato inserito un
sistema specifico chiamato Ergo-Uas, cosa ne pensa? Ha portato ad una
riduzione della fatica dello stress, e delle malattie di tipo muscolo-scheletrico?
Oggettivamente il fatto di progettare e realizzare di conseguenza delle stazioni di
lavoro con criteri ergonomici, ha diminuito il carico biomeccanico che il
lavoratore subisce. La progettazione delle nuove stazioni di lavoro avviene
utilizzando l’innovazione tecnologica migliore rispetto a quella disponibile al
momento. Se tu utilizzi un azzeratore di peso, o degli avvitatori sono molto più
leggeri di quelli di una volta o utilizzare delle pedane che portano ad una certa
altezza; per cui tu non lavori con le braccia sopra le spalle. Sono tutti una serie di
238
accorgimenti, di innovazione tecnologiche o organizzative che diminuiscono
oggettivamente la fatica e questo si può misurare attraverso delle checklist. Alla
ricerca delle soluzioni migliori, da un punto di vista ergonomico, partecipano
anche gli stessi lavoratori e questa è un po’ una novità, nel senso che, mentre
prima la progettazione era ad esclusivo appannaggio dei progettisti, ingegneri,
oggi viene chiesto agli stessi addetti di linea o team leader, che sanno come
avvengono i movimenti, le varie lavorazioni, come sarebbe meglio fare. Gli viene
chiesto in un fase preventiva, perché ovviamente progettare delle nuove posizioni
di lavoro quando ancora l’auto è in una fase di disegno, quando ci sono più
prototipi, ha dei costi irrisori pari a zero; invece, modificare delle strutture che già
sono state disegnate in un certo modo è impossibile se non addirittura molto
oneroso, e questo processo di co-design anticipato è anche una delle novità del
WCM. Il WCM non interviene solo sulla fabbrica, così come oggi, ma tutte le
conoscenze, tutto il kow-how che si acquisiscono, oggi servono a progettare la
fabbrica del domani, coinvolgendo i lavoratori stessi. Questo è interessante! Il
sistema Ergo-Uas prova a fare esattamente questo: attraverso un software, cioè
attraverso l’uso del virtuale, computer, le immagini possono aiutare tantissimo a
capire abbastanza da vicino la realtà, per immaginarla e cambiarla meglio in
anticipo, perché se lo fai in anticipo puoi farlo, dopo è difficile farlo. In questo
senso, in ordine all’ergonomia, ci sono stati cambiamenti importanti che,
ovviamente, hanno riguardato gli stabilimenti nuovi. Gli stabilimenti che hanno le
linee già lì da 10 anni non hanno potuto beneficiare di tutti i cambiamenti
tecnologici: può implementare alcune cose, ma altre cose strutturali, se li deve
tenere, e quindi i lavoratori non hanno percepito questo beneficio.
Il sistema Ergo-Uas, dato che ha l’ambizione di misurare in modo oggettivo, se
implementato bene dovrebbe garantire una spalmatura del lavoro e della fatica,
del carico equo. Il problema è che la cosa affinché avvenga, bisogna fare le cose
bene, cioè in termini tecnici si parla di saturazione e queste devono essere
calcolate in modo corretto: il tempo assegnato al lavoratore per svolgere le sue
mansioni e il ciclo di lavoro che si ripete “n” volte. Questa è una sfida con
239
qualsiasi sistema. Ergo-Uas ha questi due pregi, uno di avere un’attenzione molto
spiccata sull’ergonomia che tra l’altro, andando a misurarla, produce una
maggiorazione di tempo, un tempo di riposo aggiuntivo se il carico meccanico è
più elevato; l’altra è quella di spalmare la fatica, il lavoro più equo possibile, a
bilanciarlo tra le persone. Altri sistemi lo fanno anche, per come ho visto io, dal
momento che ho visitato le fabbriche in Germania, applicano Ergo-Uas da
tantissimi anni e ha un equità abbastanza garantita. Il problema sono alcune
postazioni che, per loro natura e per come è conformata l’automobile, restano
complicate da modificare e lì si può soltanto intervenire organizzando, magari,
assegnando più tempo, ruotando, ecc.
10) Qual è la situazione attuale all’interno del gruppo rispetto alla
sperimentazione del WCM nei vari stabilimenti? Perché alcuni stabilimenti sono
più avanti e altri no, dipende dalla capacità dei lavoratori, dal management
aziendale?
È una scelta del sistema. Il sistema è strutturato così, anche se la logica in Fiat è
stata quella di un’applicazione top-down. C’è un forte “commitment” della
dirigenza e poi viene esteso a tutta la fabbrica, non però proprio a tutti, ma si va
aree modello, si va per sperimentazioni successive. Prima si sceglie una zona
attraverso dei criteri normalmente, attraverso dei criteri magari la zona più
critica e da quella si procede una volta che le cose funzionano ad estendere in
altre aree e zone fino a convincere tutto il “plant”. E così vale adesso per i vari
“plant”che non sono partiti tutti insieme, ma abbastanza insieme. Qualcuno ha
fatto un po’ da lepre, come si dici in gergo. Il primo a sperimentare il WCM è
stato Mirafiori e gli altri, la Fiat Industrial dopo.
11) Qual è il tasso di sindacalizzazione?
240
A livello generale, in Italia sul 30% ovvero, 1/3 dei lavoratori sono iscritti al
sindacato, però l’85% vota all’elezione dei rappresentanti. Per sindacalizzazione si
intende l’iscrizione al sindacato, che va a misurare la rappresentatività. Invece, in
termini di rappresentanza, abbiamo percentuali molto elevate di partecipazione
al voto, il 95%.
12) Che impatto ha avuto il WCM sulle relazioni industriali?
Per ora abbastanza residuale, a parte il tema delle medaglie. E’tutto un po’ in
divenire. Però sono convinto che nei prossimi mesi e anni ci sarà più
contaminazione tra il modo di lavorare nelle fabbriche e le relazioni industriali.
13) Qual è il rapporto con l’azienda? Siete interpellati? Il sindacato ha la
possibilità di discutere o deve sempre scendere a patti con l’azienda? Qual è la
dialettica dei problemi del dialogo con l’azienda?
C’è un sistema partecipativo in essere all’interno della fabbrica. Ci sono delle
commissioni, esistono dei luoghi dove quasi quotidianamente vengono utilizzate
per discutere le varie problematiche relative all’organizzazione del lavoro, della
saturazione; poi ci sono delle commissioni specifiche per la salute e la sicurezza; ci
sono delle commissioni che si occupano di servizi aziendali, mensa, trasporti,
varie problematiche interne. Quindi, il sistema di relazioni, anche quotidiane
all’interno dell’azienda esiste, così come esiste un sistema di relazione con il
territorio a livello nazionale. Tieni conto che in Fiat le relazioni sono gestite a
livello nazionale, soprattutto, c’è una forte centralizzazione nella fase di
contrattazione, per ciò che riguarda la quotidianità, la gestione partecipativa
esistono questi strumenti contrattuali.
241
14) Funzionano effettivamente o il coinvolgimento del sindacato è solo
formale? Nel senso che l’azienda riferisce le cose che ha già stabilito, cioè vi è
un predominio dell’azienda sul sindacato?
Più o meno, in alcune stabilimenti funzionano abbastanza. C’è un buon livello di
concretezza per quanto riguarda il lavoro delle commissioni. Non sono dei luoghi
formali dove si ci scambia qualche informazione, cioè dove si ci incontra una
tantum, ma esistono proprio dei casi che vengono affrontati, risolti. Purtroppo, in
molte realtà questo non avviene, per varie ragioni. Ciò dipende molte volte dalla
cultura sindacale, ma anche da quella manageriale che, a mio avviso, non
considera questi strumenti come qualcosa di utile per gestire le problematiche
quotidiane.
Non si considera nell’interlocuzione qualcosa che è utile, per gestire i problemi,
avere degli strumenti. A volte c’è un “gap”, un defict di capacità e conoscenza da
parte dei rappresentanti sindacali che noi paghiamo poi e non è sempre colpa dei
manager; altre volte gli stessi manager preferiscono fare da soli senza
coinvolgere i rappresentanti, e questo, credo sia profondamente sbagliato, ma fai
conti con una cultura che è quella Fiat, che non n’è che abbia mai investito in
relazioni sindacali serie, come avviene altrove.
15) Non c’è mai stato un buon rapporto con il sindacato?
È un rapporto politico, non concreto, non legato al lavoro, legato più ad aspetti di
ordine ideologico.
16) Secondo lei, con l’implementazione del WCM, l’azienda sta cercando di
“individualizzare” sempre di più il rapporto con il lavoratore? Senza
l’intromissione del sindacato?
242
Si, cerca di individualizzare, secondo me, una fabbrica senza sindacato produce
molto problemi, ma io sono di parte perché sono un sindacalista.
Parlando di processi di miglioramento continuo, il sindacato è ovviamente un
sindacato partecipativo, potrebbe essere uno formidabile strumento da utilizzare
per l’azienda. Quest’ultima paga dei consulenti esterni per farsi osservare da
qualcuno all’esterno, proprio per andare oltre il conformismo aziendale. Quindi
penso che le relazioni sindacali, proprio nell’ottica dei sistemi di miglioramento
continuo, possano avere un ruolo diverso rispetto al passato, in ruolo
all’organizzazione. Poi questo non sostituisce completamente la contrattazione
perché ci sarà sempre uno spazio di contrattazione che avverrà ogni tanto, in cui
si decide magari anche di litigare, si decide di cambiare alcune regole, però, per
ciò che attiene alla partecipazione, ovvero la gestione quotidiana delle
problematiche del rapporto tra azienda e rappresentanti dei lavoratori, credo che
il sindacato possa avere un ruolo utile all’azienda stessa. Questo in Fiat non c’è
ancora, non c’è questa visione che consente di far fare un salto di qualità alla
partecipazione.
17) Quindi, secondo Lei, non c’è ancora questo “sindacato d’impresa” o
partecipativo?
No, è tutto da costruire. Questo anche per responsabilità del sindacato. Faccio
anche un po’ di autocritica, ma soprattutto per responsabilità dell’azienda.
18) Se questo dovesse avvenire, potrebbe tradursi in un sindacato al servizio
dell’azienda?
Questo è un rischio! In Giappone è un po’ così. Il rischio dell’aziendalismo c’è,
però il problema è che io, da tantissimi anni, sento dire che il sindacato deve
essere più vicino al lavoratore, dove è il luogo di lavoro. Poi, però, magari rischi di
sentirti dire che sei aziendalista. È chiaro che i rischi ci sono, però, in questa fase
243
storica un sindacato solo politicizzato, che ha delle istanze che non tengono conto
del contesto lavorativo di quell’azienda, non ha più spazio. Tu sei costretto ad
essere lì e provare a tutelare i lavoratori partendo dalla loro situazione concreta,
sennò tutto il resto rischia di non incidere per niente. Questo penso sia una scelta
obbligata. Il rischio dell’azienda c’è, bisogna adottare qualche contromisura che
venga in aiuto. Io non lo vedo così complesso da gestire.
19) Qual è il suo rapporto con le altre organizzazioni sindacali? Cercate un
dialogo?
Assolutamente si! Uno dei nostri problemi in Italia è quello di avere troppe sigle
sindacali. Si è più preoccupati a litigare con il proprio collega che con l’azienda e
questo è un altro tratto culturale che dovremmo superare. Al lavoratore non
interessa l’organizzazione, a volte neanche lo sa, ma interessa che tu,
sindacalista, sia in grado di risolvere il problema, di tutelarlo, di rappresentarlo.
Poi non è vero che ci sono ancora molti lavoratori che sono ideologicamente
affezionati, perché c’è una visione un po’ politica del sindacato, anche se la
stragrande maggioranza dei lavoratori non la pensa più così. Il fatto che noi
abbiamo più un rapporto conflittuale con le altre organizzazioni che di
collaborazione, non va a favore del sindacato stesso. Io sarei per il superamento
di tutte queste barriere. Troppe sigle sindacali. Rischiamo il modello francese, un
sindacato poco rappresentativo e istituzionale. Io credo che serva di più un
sindacato rappresentativo, che sta lì, conosce i problemi, piuttosto che tanti
sindacati.
20) Il ruolo delle Rsu che hanno potere di contrattazione, alla fine che fanno?
Come si comportano?
Il realtà non hanno grande potere di contrattazione. Nello schema del contratto
Fiat svolgono una “gestione partecipativa”. Magari alcune cose le contrattano
244
anche, tipo le ferie, il calendario annuo, ma non è che possono contrattare, in
quanto anche questo è uno schema vecchio. Più che altro devono gestire e perciò
gli vengono affidati degli strumenti. Hanno un impianto partecipativo e devono
farlo funzionare. Esso è un lavoro imponente, però l’idea della contrattazione
continua appartiene al passato. Che tu sei lì ad usare il micro-conflitto per ogni
volta fare qualcosa, nello schema partecipativo questo si chiama gestione
partecipativa. Non è che ogni volta rivedi il contratto, le regole, perché la
contrattazione è questa: le regole le scriviamo per tre anni. Poi sono quelle non è
che ogni giorno ci mettiamo a discutere che regola usiamo, perché questa è
proprio la pecca italiana che facciamo le regole e poi non le rispettiamo, per poi
discuterle non ha senso. Le regole si scrivono, dopo di che ci sono degli strumenti
e delle strutture per farle funzionare, perché servono ad affrontare questa e la
partecipazione.
21) Come avviene la contrattazione? Chi negozia? Che cosa viene negoziato?
La contrattazione avviene soprattutto a livello nazionale. C’è un contratto che
definisce le regole, ovviamente in stretto rapporto con i vari territori, i
rappresentanti di fabbrica; cioè un elaborazione che ciascuna organizzazione fa
al suo interno e che poi vengono messe insieme producendo un documento che si
chiama “piattaforma”, in cui poi si discute con l’azienda. L’azienda ha poi la sua
piattaforma che si confronta con la nostra e si litiga, e si prova trovare una
soluzione che si chiama contratto.
22) Secondo lei, ci stiamo avviando verso il decentramento della contrattazione
collettiva e delle relazioni industriali? Come valutate la scelta di un contratto a
livello aziendale, unico dell’auto?
No, ci possono essere anche degli spazi di contrattazione a livello territoriale,
però tu hai uno schema di contrattazione che prevede varie cose, alcune generali
245
altre più dedicate, specifiche. La gestione poi dei problemi si chiama
“partecipazione”. Ma non c’entra la contrattazione. Spesso noi confondiamo le
due cose pensando che siano un'unica cosa. E’ un salto, un cambiamento
culturale che ancora non abbiamo fatto e io ritengo che sia fondamentale.
Chiaro che io mi riferisco ad una grande impresa globale, anzi, addirittura noi
potremmo pensare ad una contrattazione globale e questo si mi piacerebbe: un
contratto mondiale, unico del gruppo Fiat Chrysler e poi alcune cose definite a
livello locale. Ormai siamo nel mondo. Il WCM è un sistema globale. Loro
utilizzano lo stesso linguaggio; ciò che avviene a Mirafiori avviene anche in Cina,
in quanto utilizzano gli stessi termini. Quindi, se noi guardassimo a questi nuovi
sistemi, dovremmo cambiare anche la nostra impostazione e a me piacerebbe
avere uno sguardo più globale che poi scende nel dettaglio. Però capisco che
questo vale per un gruppo, una multinazionale come può essere adesso Fiat
Chrysler. Se pensi ad una piccola media-impresa le cose sono diverse. Lì avrei un
po’ di dubbi se lasciare tutto solo a livello aziendale, in quanto, in una piccola
realtà, il potere che hanno i sindacati territoriali può essere molto relativo e c’è il
rischio di molta frammentazione, allora lì bisogna ragionarci un po’ meglio.
Servono delle regole che preservino un quadro più ampio, generale che potrebbe
essere un contratto dell’industria, e poi scendere a livello nazionale. In Fiat, il più
viene gestito a livello nazionale, però in questo contratto si tiene conto delle varie
realtà. Penso si possano trovare delle forme per venire incontro ad esigenze
diverse. Marchionne ha adottato un contratto specifico perché dice: “Io cosa
c’entro con la siderurgia, informatici, discutiamo di quello che ci interessa”.
Questo, Volkswagen l’ha fatto parecchio tempo fa. Io dico che sarebbe
interessante trovare delle forme più intelligenti per dare delle risposte anche sul
piano locale, però in un contesto contrattuale nazionale.
23) Con le vertenze di Pomigliano e Mirafiori, che cosa è cambiato? Cancellano
diritti e garanzie per i lavoratori?
246
No, non cancellano diritti e garanzie per i lavoratori, anzi ne aggiungono
qualcuno, ad esempio, il sistema Ergo-Uas, ovvero il diritto del lavoratore a far
controllare la propria postazione di lavoro, cosa che prima nei contratti Fiat non
c’era. Sono state modificate delle tutele, è stato modificato il regime delle
flessibilità. Per quanto riguarda gli orari di lavoro, però, quello che ti dicevo
prima, la nostra idea è che la contrattazione, intesa come attività quotidiana.
Invece, qui si pensa ad un sistema in cui la contrattazione la fai “una tantum” e
poi usi la partecipazione per la gestione quotidiana.
24) Secondo Lei, la costituzione della New Company ha un fine antisindacale?
Dal momento che quest’ultima non aderendo a Confindustria rende
inapplicabili non solo i contratti nazionali ma anche quelli interconfederali sulla
rappresentanza sindacale?
È un po’ datata, perché non c’era il contesto giuridico e anche contrattuale che
non consentiva alla Fiat e Marchionne di fare alcune operazioni. C’era dentro
Confindustria e ora non è più necessario. Infatti, la “New-co” non esiste più.
25) Negli USA la contrattazione avviene a livello aziendale invece che a livello
nazionale, è possibile secondo Lei un’analoga strada anche in Italia dove vi
sono sindacati che collaborano e altri invece dissenzienti?
Gli Stati Uniti sono una struttura federale, quindi è molto diverso. In Germania
non esistono i contratti nazionali così come li trattiamo noi, perché gli Stati Uniti
sono federali, ma esiste una struttura basata sui “Land”, e quindi è una ragione di
carattere giuridico. Poi ci sono norme sul lavoro molte diverse tra l’Italia, Stati
Uniti e Germania. Io credo che, pensando a Fiat, non vedo nessun problema per
una contrattazione aziendale, perché in realtà per noi è come se fosse un
contratto nazionale, non è cambiato nulla. Si chiama in un altro modo, è un
contratto di fatto nazionale, specifico perché riguarda solo quel gruppo di
247
lavoratori ma è un contratto di fatto nazionale perché Fiat ha stabilimenti in tutte
le regioni italiane che riguarda 86.000 persone sparse sul territorio. Pensando al
resto, secondo me, non è che non si può rinunciare al contratto nazionale, l’unica
cosa è che è necessario garantire, pensando com’è la struttura produttiva
italiana con troppe piccole imprese che non avrebbero la forza di fare la
contrattazione. Bisogna garantire comunque un livello di base per tutti e questo è
importante. Se lo fai attraverso un contratto nazionale oppure attraverso dei
contratti di settore o di territorio, non è che mi scandalizzo. Rinunciare al
contratto nazionale e fare solo quello aziendale è una cretinata in Italia, va bene
per Fiat, ma per le piccole-medie imprese, porterebbe ad un impoverimento della
contrattazione e quindi dei lavoratori.
26) Cosa ne pensa dell’acquisizione di Chrysler?
Chrysler è stata un operazione incredibile. La Fiat ha salvato Chrysler e la Chrysler
ha salvato Fiat. Chrysler l’ho visitata nel 2009, era un azienda morta, non
sapevano fare le auto, abbandonati a se stessi. Senza l’operazione la Fiat non ce
l’avrebbe fatta. Non è che adesso ce l ha fatta solo perché si chiama Fiat-Chrylser,
la sfida è aperta, difficile e complicata. Oggi, per competere nel mondo e per
produrre automobili, sono necessarie alcune condizioni: una di queste è quella di
essere grandi, di avere una massa critica importante e spalmare i costi di
un'unica piattaforma su tantissime vetture. L’operazione Fiat-Chrysler ha
consentito di realizzare, almeno in linea teorica, questa massa critica,ma ora
dipende dal mercato. Mel mondo, la Toyota e Volkswagen sono quelli che hanno
ottenuto importanti risultati. Anche se ora nessuno può sentirsi al sicuro, è tutto
in divenire, in quanto chi è più bravo riesce a vincere. È una competizione
continua. Si ha avuto l’opportunità di allargare ad altri mercati. Le Maserati che
vengono prodotte qui a Grugliasco, vengono vendute nella gran parte dagli Stati
Uniti, in Cina. Senza Chrysler non si potrebbero vendere queste Maserati negli
248
Stati Uniti, senza la rete commerciale di Chrysler non si farebbero tutte queste
migliaia di auto che costano 80-160 mila euro ciascuna.
249
Intervista Edi Lazzi
(Segretario responsabile FIOM-CGIL)
Mi può raccontare la sua esperienza all’interno del Gruppo Fiat oppure del
sindacato? Qual è stato il suo percorso?
Il mio percorso è che semplicemente sono arrivato lì grazie alla FIOM-CGIL. Sono
un funzionario della FIOM e lo facevo già da un po’ di anni. Poi, ogni tanto, noi
ruotiamo nei vari territori, anche perché se stiamo sempre nello stesso posto,
dopo un po’, uno, da tutto per scontato di aver già conosciuto tutti, e quindi ogni
tanto ruotiamo. E nella rotazione io sono arrivato lì a Mirafiori, e per la FIOM
sono arrivato alla carrozzeria che di Mirafiori è il pezzo più grosso e poi
successivamente sono diventato il segretario responsabile di tutto il sito di
Mirafiori.
1) Che cos’è il World Class Manufacturing? Come vede il WCM? Qual è la sua
percezione?
È una metodologia di organizzazione del lavoro. Banalmente, secondo me, ha
delle buone caratteristiche, nel senso che c’è una filosofia di fondo che parte dal
presupposto che più il lavoro è organizzato in maniera strutturata, scientifica, in
maniera che tutto sia al suo posto meglio, è per la produttività. Diciamo che c’è
una logica che spinge molto, non sullo sfruttamento semplicemente del lavoro,
quindi vai più veloce, ma c’è un idea un po’ concettuale che riguarda
l’organizzazione del lavoro. Molte delle cose, e con questo non voglio svilire il
WCM, sono cose di buon senso. Altra cosa che il sindacato ha detto da un sacco
di anni, piuttosto che insistere sul lavoratore bisogna guardare un po’ il tutto. È
evidente che se la mia postazione è pulita, intanto io, lavoratore, starò meglio, se
i pezzi che devo montare sull’autovettura sono già sequenziali, è meglio, perché
vuol dire che farò meno fatica a cercarli. Se nella filosofia aziendale c’è l’idea di
250
andare a ricercare gli sprechi, ridurre gli sprechi e per quella via, poter abbassare
il prezzo del prodotto ci da più possibilità di rimanere sul mercato. Quind, sotto
questo punto di vista, il WCM è una cosa positiva. Arriva da lontano, non l ha
inventato la Fiat il WCM, c’era il kaizen, il WCM è una forma di evoluzione e di
adattamento del kaizen giapponese alla realtà Fiat.
2) Come si inseriscono i lavoratori nella nuova organizzazione? Cosa cambia per
loro?
Per loro cambia poco e nulla, perché in realtà c’è una discrepanza. Questo, sono i
lavoratori che c’è lo raccontano, tra ciò che è il WCM, cioè rispetto al manuale del
WCM e poi come viene applicato concretamente in Fiat. La Fiat piano piano sta
cambiando, ma ha, però, un entourage culturale che si porta dietro da un po’ di
anni e che la gerarchia aziendale ha tramandato di generazione in generazione
rispetto ai responsabili delle officine. Che poi alla fine, al di là di quello che viene
detto dall’alto, l’importante è fare i pezzi, quindi traduco: magari i lavoratori
dicono qui c’è un problema, il capo risponde tu non ti preoccupare comunque vai
avanti, che è un contraddizione di termini. Il WCM come principio è: se c’è
qualcosa che non va bisogna segnarla e intervenire nell’immediato. Invece,
troppo spesso ancora adesso, quando ci si trova in difficoltà all’interno
dell’officina, quando il lavoratore fa presente che ci sono delle cose che non
vanno, troppo spesso la risposta da parte del diretto capo è tu non ti preoccupare
comunque vai avanti. C’è questa idea che la produzione deve essere spinta, nel
vero senso della parola, quindi la sua applicazione. Adesso ho fatto un macro
esempio ne potrei fare altri, è ancora zoppicante. La fabbrica è più pulita,
menomale! Santo Dio! Le fabbriche dell’immaginario collettivo, quelle buie, dove
c’erano le scintille non ci sono più. Qualcuna ancora sì, di quelle piccole, ma delle
multinazionali, delle aziende moderne. Non ci sono più queste fabbriche, sono
quasi tutte sufficientemente pulite. Il WCM spinge molto in questa direzione,
infatti, sotto questo punto di vista, c’è sicuramente un miglioramento, c’è un
251
miglioramento delle condizioni ambientali. Diciamo che rispetto alle cose che il
WCM dice, la sua applicazione c’è ancora molto strada da fare, anche perché c’è
la mentalità ancora spinta in Fiat. Alla fine, il peso della gerarchia aziendale c’è e
si fa sentire. Un altro esempio, i suggerimenti di miglioramento. Molte volte
questi o, non vengono presi proprio in considerazione e quindi sottovalutati,
oppure sono suggeriti dai capi dell’azienda, che cosa devono scrivere nei
suggerimenti, quanti ne devono mettere e poi magari riescono anche a pilotare
quattro premi che vengono dati. Quindi ci sono due lati della medaglia del WCM,
una che è sicuramente positiva altro che ha sicuramente ancora un aspetto
chiaro-scuro.
3) Il coinvolgimento dei lavoratori è un elemento essenziale data la
vulnerabilità del programma? Che cosa fate per favorire il loro coinvolgimento?
Quali sono i principali strumenti che vengono adottati per motivare/valorizzare
i lavoratori all’interno della nuova organizzazione?
Queste cose ci sono, ma le organizza l’azienda. Rispetto al ruolo del sindacato e
appunto dei lavoratori, no al momento non ci sono. C’è una situazione anomala
in questo periodo, nel senso che la FIOM ha deciso di non firmare un accordo alla
Fiat, e quindi noi siamo stati esclusi dal rapporto con la Fiat. Un rapporto che noi
ci siamo conquistati con le sentenze e giudici dall’altro, rapporti di forza che
abbiamo con l’alto. La Fiat non coinvolge la FIOM, per questa ragione. Io, per
quello che vedo, non coinvolge neanche gli altri sindacati. L’idea della Fiat del
sindacato è una cosa che deve essere funzionale, strumentale al suo interesse. Il
sindacato come accompagnatore dei processi. Nel momento in cui il sindacato
inizia, in qualche modo, a dire alla Fiat anche su cose che dovrebbe la stessa
condividere, come il WCM, e vuole essere davvero protagonista, portatore di un
idea che magari vuole essere anche parzialmente differente da quello che pensa
l’azienda ma che può essere in qualche modo lo specchio di quello che pensano i
lavoratori, la Fiat non lo vuole.
252
4) Il sindacato non viene visto quindi come parte integrante?
No! Poi, un altro aspetto è che il WCM non parla mai del sindacato. Il WCM parla
dell’azienda e del lavoratore. Quindi, l’organizzazione sindacale entro questo
meccanismo, in realtà, non c’è neanche. Poi, ovviamente all’azienda e ai
sindacati, che in qualche modo voglio semplicemente accompagnare i processi, fa
comodo darsi una reciproca affidabilità per accreditarsi. Ma se dopo dobbiamo
andare a vedere che cosa è effettivamente il ruolo del sindacato nel WCM, e
nell’intervenire sul WCM, nel rappresentare i lavoratori dentro il WCM e dentro la
Fiat, è nullo.
5) In seguito all’introduzione del WCM, il modello partecipativo si è realizzato
concretamente o ancora vi è una partecipazione debole? sia da parte del
sindacato che da parte dei lavoratori.
La partecipazione è debole per le cose che dicevo prima. Per arrivare a quello che
ha sulla carta la stessa FIM, di strada bisogna farne tanta. Anzitutto,
bisognerebbe che la Fiat decidesse radicalmente di cambiare mentalità, e che è
quello che dicevo prima, ovvero quello di accettare il sindacato come un tuo
interlocutore, che si siede e ti guarda negli occhi alla stessa altezza. Se invece tu
pensi Fiat, che il sindacato non è un tuo interlocutore e che quando ti siedi, tu
Fiat, sei seduta dieci metri sopra, non ci potrà mai essere quella forma di
partecipazione vera, sarà sempre finta, sarà una partecipazione sulla carta,
semplicemente dettata dalle mode del “momento”. Oggi c’è il WCM, la qualità
totale di qualche anno fa, degli anni ottanta … Ma di che cosa stiamo parlando?
La qualità totale è di nuovo campagna della Fiat sulla qualità totale, zero difetto,
il coinvolgimento, non ne mai stato coinvolto nessuno. Se allora il cambiamento
ci deve essere, questo cambiamento deve essere reale. Ripeto il WCM sulla carta
è una cosa positiva, come dicevo prima, tra l’altro, una cosa che il sindacato ha
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già detto da anni, in Fiat e altrove. Adesso piano piano anche le aziende arrivano,
ma il concretizzarsi di questo WCM non tiene conto del sindacato e dei lavoratori
come portatori di un’istanza che, come dicevo prima, può essere differente.
Occorre un profondo cambio di mentalità. Tra l’altro il conflitto positivo non può
sempre essere visto come contrapposizione pura: se due persone si siedono di
fronte a un tavolo, e sullo stesso argomento hanno due punti di vista differenti,
devono avere la capacità di trovare dei punti di mediazione. Se stiamo parlando
di organizzazione del lavoro, è evidente che a tavolino gli ingegneri che
progettano il lavoro, il WCM, che dalle direttive su come determinate cose
devono essere fatte. Hanno un loro punto di vista. Gli operai, nella catena di
montaggio, ne hanno sicuramente un altro, ma non perché gli uni o gli altri sono
più cattivi, perché fanno due cose differenti: quello che vede l’ingegnere non lo
vede l’operaio e quello che vede l’operaio non lo vede l’ingegnere. Bisognerebbe
avere la capacità di stare intorno a quel tavolo e capire che se l’operaio o il
sindacato che rappresenta gli operai ti stanno dicendo che quella cosa fatta così
non va bene e si potrebbe fare in un altro modo. Bisognerebbe dargli ascolto,
bisognerebbe trovare dei punti di convergenza, cosa che ti assicuro in Fiat non
accade mai!
6) Forme di disaffezione e di protesta quali la non partecipazione alle attività di
miglioramento continuo della qualità, l’assenteismo, lo sciopero, vengono
praticate? Quali sono i livelli di assenteismo? Ci sono dei dati?
I livelli di assenteismo, al momento, credo che siano intorno al 5%, poi bisogna
vedere che cosa si intende per assenteismo. La Fiat dà dei dati che sono
comprensivi delle persone che sono in malattia, anche di quelle che sono in ferie,
in maternità. Teoricamente non si può immischiare. Se parliamo di assenteismo a
livello di malattia abbiamo dati inferiori. Gli operai che si mettono in mutua per
protestare contro l’azienda ci sono, ma sono una minoranza, perché, pensare che
la malattia e la mutua siano usati in maniera impropria dalla stragrande
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maggioranza dei lavoratori, è una sciocchezza. La stragrande maggioranza dei
lavoratori sta in malattia quando sta male e sta in malattia, magari, quando non
sta male, ma in logoro dalle condizioni di lavoro. La fabbrica è pulita e luminosa
ma lavorare in catena di montaggio è dura, fanno operazioni che stanno sotto il
minuto, quindi vuol dire che per ogni minuto della loro vita quei lavoratori
ripetono lo stesso movimento e lo fanno per 8 ore al giorno per 5 giorni la
settimana per 22 giorni al mese per 365 giorni l’anno. Se la si vede da
quest’ottica c’è quasi da impazzire. Quindi, io non mi scandalizzo se un operaio
dopo 3 mesi di lavoro consecutivo, anche se non sta male, va dal medico e dice,
mi sento un po’stanco ed esaurito. Non fa l’ingegnere, non sta seduto dietro una
scrivania. Secondo me è legittimato a chiedere dei giorni, questo però non si può
confondere con il fatto che i lavoratori non hanno voglia di lavorare o che usano
la mutua come protesta nella generalità dei casi. Quindi lì, l’assenteismo è
fisiologico e delegato alle condizioni di lavoro. È normale che un operaio chiede
una mutua più di un ingegnere. Io vorrei vedere il contrario, se un ingegnere lo si
prende e lo si mette in catena di montaggio, improvvisamente, fa più mutua di
quel lavoratore che ha sempre lavorato in catena di montaggio, e allora di che
cosa stiamo parlando?
7) Secondo lei il lavoro diventa più autonomo e intelligente? oppure soltanto
più gravoso, o forse entrambe le cose insieme?
Più gravoso dipende dalla tempistica che viene applicata, quanto tempo tu devi
fare un’operazione. Più intelligente in assoluto no! Anche questa cosa qua si
vuole dipingere il fatto che l’operaio mette del suo, mette l’intelligenza, sono
tutte balle! È propaganda assolutamente, anzi, possibilmente per l’azienda: più
sei uomo scimmia è meglio è! È così! Bisogna raccontarsi le cose come sono.
Quando sento parlare gli altri sindacalisti che fanno da opoteosi, cioè, o
prendono in giro se stessi e sono proprio convinti che si stanno prendendo in giro,
oppure a chi la raccontano. Non c’è un elemento in più di intelligenza che i
255
lavoratori mettono sul lavoro in catena i montaggio e non lo vuole neanche
l’azienda. Non è vero che l’azienda vuole gente più colta, più preparata. Sì,
magari la vuole un po’più colta perché così non deve stare lì troppo dietro a
rompersi le scatole a spiegargli una semplice operazione, però colta fino a un
certo punto, perché se poi sei troppo colto e inizi a rompermi le scatole non vai
più bene. Sono delle forzature, e poi di nuovo stiamo parlando di una tipologia di
lavoro in cui oggettivamente, cosa vuoi mettere della tua testa, quando devi fare
la stessa operazione, un po’ di rispetto per delle persone che fanno un lavoro che
è dignitoso ma che, nei contenuti, è quello che è. Valorizzarlo così astrattamente,
io penso che sia anche mancanza di rispetto nei riguardi di chi lo fa veramente.
8) Il WCM ha portato ad un miglioramento delle condizioni di salute e sicurezza
del posto di lavoro? A tal proposito, nel quadro del WCM, è stato inserito un
sistema specifico chiamato Ergo-Uas, cosa ne pensa? Ha portato ad una
riduzione della fatica dello stress, e delle malattie di tipo muscolo-scheletrico?
L’Ergo-Uas è una metodologia come le altre, che ti scompone in tempi preordinati
i movimenti e vengono applicati. Non mi sento di esprimere neanche un giudizio,
è una cosa così tecnica. Ma non per il tecnicismo, da un certo punto in avanti, a
partire dall’organizzazione scientifica del lavoro che si prova a scomporre i
movimenti per dargli un tempo standard. È giusto così! Le aziende devono
produrre, devono avere la redditività, produttività ed è giusto che sappiano
quanto tempo ci vuole, almeno sulla carta, a fare una determinata situazione.
Quindi non mi sento di dare un giudizio nei confronti dell’Ergo-Uas, forse nella
parte ergonomica punta anche a dare degli elementi in più rispetto alla fatica che
il lavoratore fa e quindi gli interventi necessari per evitare, insomma, possa
ammalarsi a livello professionale, il tunnel carpale e quant’altro. La cosa che in
Fiat è stata ed è devastante, è il fatto che nel passato c’erano degli accordi che
intervenivano direttamente sulle condizioni di lavoro e sulla metrica del lavoro.
Accordi che permettevano di stare meglio e di avere la possibilità, tramite
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l’organizzazione sindacale, di avere degli interventi quando qualcosa non andava.
Faccio un esempio: c’erano degli accordi che dicevano, al di là della metrica che
veniva applicata, che comunque tu non potevi essere saturato sulla linea di
montaggio più del 87% del tuo tempo, cioè i movimenti reali che tu facevi, al di là
di quanto tempo ti veniva assegnato, non potevano essere superiori rispetto a
una determinata percentuale della tua presenza all’interno dell’officina.
Ovviamente questo riduceva la tua fatica. Adesso, dato che la Fiat ha dato la
disdetta di quegli accordi che le altre organizzazioni hanno condiviso, il lavoratore
può essere saturato fino al 99% del suo tempo. Quindi vuol dire che lavora minuti
attivi in più, mentre prima le cose le doveva fare in un tempo minore. Non voglio
entrare troppo nel tecnicismo perché sarebbe più articolato, ma se il tempo è
100, prima lavoravo l’87% ora arrivo fino al 99%, quindi c’è un aumento. Tramite
questa via c’è la cosa negativa, che non è riferita al WCM di per sé: la cosa
negativa è che adesso la prestazione si è intensificata, ma perché sono stati
disdetti quegli accordi sindacali, e, di nuovi accordi la Fiat non ne vuole più fare,
perché ha stabilito che il tempo di saturazione è il 99% perché la metodologia
prevede quello, ho capito la metodologia prevede non c’è scritto in nessun libro
sacro che se la metodologia prevede che tu puoi essere saturato al 99% ma il
lavoratore fa fatica, alla fine stabiliamo per accordo che non sarà l’87 ma magari
il 90 o 92%. Oppure prima c’erano 40 minuti di pausa. Hanno tagliato le pause di
10 minuti. Uno può dire va bè 10 minuti … Ma 10 minuti, per chi lavora in catena
di montaggio, sono fondamentali, importantissimi, vuol dire 10 minuti in meno di
lavoro: posso riposare gli arti, rilassarmi. Però, ripeto, non sono seduti dietro una
scrivania. Quello che mi fa arrabbiare di tutta questa vicenda è vedere come
coloro che dovrebbero in qualche modo capire, oggettivamente capire, quel
punto di vista, si rifiutano semplicemente, perché non ci lavorano loro lì, perché
ascoltano troppo poco le persone. Devo dire di nuovo che lo faccia l’azienda ci
può anche stare, anche se sbaglia e in qualche modo che ci siano dei
rappresentanti del lavoro che condividano queste cose un po’ meno. Non può
passare tutto dal fatto che, o si va così o non c’è la produttività, perché la
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produttività deve essere ricercata, non tramite l’intensificazione di quella
prestazione, ma tramite il WCM e la corretta applicazione del WCM, non di fronte
al fatto che poi alla fine mi tagliano le pause, mi fanno saltare la saturazione al
100% e poi con l’applicazione del WCM. Il capo mi dice va bè vai avanti lo stesso.
Non può funzionare in questo modo! Però, al momento, è così! Sotto il punto di
vista dei lavoratori i miglioramenti non ci sono stati.
9) Qual è la situazione attuale all’interno del gruppo rispetto alla
sperimentazione del WCM nei vari stabilimenti? Perché alcuni stabilimenti sono
più avanti e altri no, dipende dalla capacità dei lavoratori, dal management
aziendale?
Perché alcuni stabilimenti sono partiti prima e quindi sono più avanti, rispetto ad
altri, c’è una scansione temporale. Poi la Fiat ha deciso di concentrarsi nei luoghi
dove si lavora di più, dal momento che la maggioranza degli stabilimenti in Italia
sono fermi, lavorano a Pomigliano e la Maserati. Adesso speriamo che ci sia una
ripresa! Sono otto anni che stanno aspettando quei lavoratori, però si spera che
arrivi. Melfi dovrebbe ripartire. La Carrozzeria di Mirafiori, forse, arriva il modello
alla fine del 2015. Quelli che sono più avanti sono quelli partiti prima e dove c’è
lavoro. Su questo, devo dire, che la Fiat si sta impegnando a portare il WCM
dappertutto. Io ripeto, il WCM è di per se una cosa positiva, dovrebbe essere
applicato correttamente tenendo conto dell’aspetto e dell’idea che i lavoratori
hanno. Bisognerebbe ritornare ad una contrattazione tra i lavoratori tramite le
loro rappresentanze sindacali e aziendali, cosa che al momento non c’è, e la cosa
negativa è che fa peggiorare le condizioni lavorative delle persone.
10) Qual è il tasso di sindacalizzazione?
Adesso non te lo so più dire, essendo in questa situazione di conflitto in senso
negativo, anzi di contrapposizione con la Fiat. Non perché lo vogliamo noi, ma è
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la Fiat che lo vuole. Abbiamo perso alcuni dati. Prima li avevamo perché ce li dava
l’azienda, adesso noi sappiamo orientativamente quanti iscritti possiamo avere
della FIOM, però, quanti ne hanno gli altri, non te lo so dire. Siamo
abbondantemente sotto il 50%. Negli anni passati, il tasso di sindacalizzazione
era più alto. Ti dovresti fare delle domande: come mai adesso si è abbassato? Se
tutto va così bene, i lavoratori dovrebbero essere tranquilli e continuare ad
iscriversi al sindacato, se il sindacato avesse un utilità. Ma dal momento che il
sindacato, per i lavoratori, l’utilità dentro la Fiat ce ne ha poco e niente, perché
gli altri sono spariti, perché accompagnano i processi aziendali e perché la FIOM è
stata messa così ai margini dal gruppo Fiat, che facciamo una fatica immane, è
evidente che quel tasso diminuisce, ma non è un seno positivo che la gente sta
meglio, ma perché le persone pensavo che entro la Fiat essere iscritti ad un
organizzazione sindacale non serva a nulla.
11) Qual è il rapporto con l’azienda? Siete interpellati? Il sindacato ha la
possibilità di discutere o deve sempre scendere a patti con l’azienda? Qual è la
dialettica dei problemi del dialogo con l’azienda?
Non c’è un dialogo! Che l’azienda mi chiami al tavolo e mi dia delle comunicazioni
a un sindacato, non serve a niente. Ma non al sindacato di per sè, quando parlo di
sindacato immagino sempre che siano i lavoratori lì di fronte all’azienda. Il
sindacato è strumento di rappresentanza dei lavoratori, dovrebbero avere. Il
fatto che ci sia dialogo con l’azienda è del tutto inutile e quel dialogo non è
finalizzato a trovare dei punti di compromesso. Se io e te parliamo e parli solo tu
e mi dici semplicemente delle cose e mi riempi la testa di dati, concetti e alla fine
io non posso risponderti, che senso ha questo dialogo? Semplicemente un
prendere atto, che può avvenire guardando, leggendo i giornali. Allora il dialogo
è utile e positivo, se finalizzato alla ricerca di compromessi tra due punti di vista
che in alcuni momenti posso essere differenti, altre volte, invece, si ha una
comunanza di punti di vista. La funzione del dialogo deve essere costruttiva se
259
l’azienda dice, possiamo anche stare ore e ore intorno ad un tavolo, possiamo
essere chiamati ogni giorno, quel non vuol dire essere coinvolti, essere coinvolti
vuol dire essere incisivo e riesci a migliorare coloro che rappresenti. Che cosa
serve un dialogo se poi, alla fine, nel momento in cui il sindacato fa una proposta,
la tua risposta è sempre no? Francamente, non mi serve a niente, oppure solo su
delle cose minime e, in questo periodo, neanche queste. Allora bisogna capire che
cosa si intende per dialogo. Per me il dialogo è utile se ci sono dei soggetti che si
siedono di fronte in cui parlano entrambi, entrambi si ascoltano e raggiungono
dei compromessi.
12) Per quanto riguarda gli strumenti, cioè meccanismi di tipo partecipativo,
esistono ancora le commissioni paritetiche? Chi ne fa parte? Quali temi
affronta? Funzionano effettivamente o il coinvolgimento del sindacato è solo
formale? Nel senso che l’azienda riferisce le cose che ha già stabilito, cioè vi è
un predominio dell’azienda sul sindacato?
Si ci sono, però si riuniscono poco, e quando si riuniscono siamo solo alla
comunicazione. Un sindacato di rappresentanti di lavoratori servono se possono
essere incisivi e che sia dall’altra parte qualcuno che sia disposto a dargli ascolto.
Se non c’è nessuno disposto a dargli ascolto dovrebbero riuscire a darsi ascoltare
con il conflitto costruttivo. La Fiat, lo sciopero non lo tollera più. Nell’accordo, che
è una delle motivazioni per cui non abbiamo firmato, ci sono comunque delle
clausole che tendono ad inibire lo sciopero, non a proibirlo perché nella
Costituzione Italiana lo sciopero è un diritto del singolo lavoratore, per cui
neanche un contratto può andare contro la costituzione, ma che ci siano dei punti
che inibiscono lo sciopero è fuori dubbio. Vuoi un esempio? Lo sciopero lo
possono dichiarare anche i lavoratori, però solitamente lo dichiara il sindacato.
Gli operai aderiscono allo sciopero che ha dichiarato il sindacato, ma se tu in un
contratto metti che, se tu sindacato, dichiari uno sciopero, sei legato a delle cose
che tu hai già contrattualizzato e, io azienda ti posso sanzionare. Io, come
260
sindacato, non ho più nessun interesse, e qui c’è il soggetto sindacato avulso dal
rapporto con i lavoratori a dichiarare quello sciopero, perché se dichiaro lo
sciopero mi togli i permessi, non mi fai le trattenute in busta paga dei miei
tesserati che ovviamente mi servono per sopravvivere. E’quindi evidente che io ti
inibisco la tua possibilità di dichiarare lo sciopero che non può essere confuso con
il fatto che bisogna mettersi delle regole, ma Santo Dio! È vero che io ho
contrattualizzato e che ci sono dei sabati di lavoro straordinario obbligatorio,
però, magari, in quel periodo lì, sto passando un periodo di attrito con l’impresa
per altre ragioni e, una delle mie armi è dire: anche se avevamo stabilito che quel
sabato è obbligatorio, dichiaro lo stesso lo sciopero agli straordinari perché
stiamo litigando su alcune argomenti. Perché devo non poterlo fare? Se eravamo
in un periodo di tranquillità non mi sarei mai sognato di dichiarare lo sciopero
agli straordinari, quindi anche se lo abbiamo contrattualizzato, secondo me, è
giusto che anche se si sta litigando io posso tutelarmi. E’ un’arma che io ho, ma
se mi viene tolta con la scusa che l’abbiamo già contrattualizzata, e non stai
quindi rispettando l’accordo, è una forzatura. Hanno messo delle clausole che
inibiscono lo stesso sindacato. Tanto è vero che da quando c’è quel contratto
chiedi anche alle altre organizzazioni, quanti scioperi hanno organizzato in Fiat,
zero! Eppure in un gruppo così grande non ci sono mai state motivazioni per non
fare uno sciopero? Ma dai, non scherziamo! Impossibile in due lunghi anni,
neanche un problema? Non lo fanno perché hanno l’idea di non rappresentare
più direttamente quelle persone.
13) Potremmo dire un sindacato al servizio dell’azienda?
Sì! Un sindacato aziendale, al servizio dell’azienda forse è un po’ eccessivo, ma
sindacato aziendalista. Adesso c’è un’idea che per me è sbagliata che la
centralità è impresa. L’impresa è quella che deve decidere tutto, perché l’impresa
deve essere competitiva sul mercato, e lo può decidere solo lei come rimanere
competitiva sul mercato. Stiamo facendo un salto indietro, quando nel 1800,
261
quando c’era la battaglia per la riduzione dell’orario di lavoro oppure la battaglia
per impedire il lavoro ai fanciulli, gli imprenditori/padroni spiegavano che se i
fanciulli non potevano andar più a lavorare, loro avrebbe chiuso le fabbriche
perché determinati lavori li potevano fare solo i ragazzini, dicevano questo. Poi,
per fortuna, il lavoro minorile è stato proibito e nessuna fabbrica ha chiuso per
questa ragione. Quando l’orario di lavoro era di 60 ore alla settimana,
spiegavano che, se lo avessero abbassato a 50 ore, sarebbe stata la rovina,
sarebbero fallite tutte, che sarebbero già andate, all’epoca, a produrre all’estero
con la microscopica globalizzazione che c’era. Sono tutte cose che sono state
dette, ma perché sono insite in quel conflitto positivo che c’è il capitale e il lavoro.
Non voglio usare termini del passato ma sono attualissimi, siamo in un sistema
capitalistico, Santo Dio! Prevede chi detiene i mezzi di produzione e chi non li
detiene, va a lavorare per chi c’è li ha. Quindi, tornando a quello che dicevo
prima, se diminuivi l’orario di lavoro era morte per tutte le aziende.
Assolutamente non è vero, perché per l’impresa, giustamente, l’impresa punta ad
avere il massimo profitto, di far lavorare le persone il più possibile. Ma è giusto!
Se io fossi da quella parte, la penserei esattamente in quel modo, ovviamente
l’interesse del lavoratore è di lavorare meno ore possibili e guadagnare il più
possibile. Tramite questi due punti che sono in antitesi, avere la capacità di
trovare i giusti compromessi. In questo periodo questa capacità non c’è più,
anche perché coloro che dovrebbero rappresentare gli interessi di chi lavora,
sempre i più, sono stati catturati cognitivamente, dall’ideologia che l’impresa è al
centro di tutto, che l’impresa deve poter fare quello che vuoi. Il dibattito che c’è
sull’articolo 18 adesso è una follia. L’articolo 18 dice che l’impresa non ti può
licenziare se non c’è una giusta causa, e stanno spiegando che le imprese non
vengono ad investire in Italia, perché c’è l’articolo 18. Una follia, non è così! A
parte che le imprese possono licenziare, anche quando inattivo, perché c’è una
legge che prevede la riduzione del personale. Cos’è che non possono fare le
imprese? Non possono scegliere la riduzione del personale, chi licenziare. Devono
usare de criteri oggettivi, cioè, io ho un reparto in cui devo calare in 5 persone da
262
10 che lavorano. Devo tenere i riferimenti che il legislatore ha messo che sono i
carici familiari, la professionalità. Quindi, se uno ha 10 figli e uno non ha figli,
andrà via chi non ha figli. Se uno ha una professionalità più elevata, andrà via chi
ha la professionalità meno elevata. Sono dei criteri oggettivi, ma non si vogliono
più avere questi criteri oggettivi perché l’impresa vuole poter scegliere, perché
vuole avere sempre di più il comando all’interno dell’azienda, togliendo una parte
di dignità delle persone. Però l’ideologia dice, se c’è l’articolo 18, le imprese non
investono, le imprese straniere non vengono perché c’è una burocrazia che fa
schifo, perché c’è la criminalità. Ma sono altri i motivi perché le imprese non
vengono ad investire in Italia.
14) Il WCM che sta sperimentando la Fiat, sta spingendo verso un “sindacato
d’impresa” o partecipativo?
La Fiat, sulla carta, spinge verso questo sindacato partecipativo, ma in realtà non
vuole nessun sindacato. Il sindacato ti deve servire per accompagnare i processi.
Io devo poter dire: sapete che si ci fa così! Se poi riesco, addirittura, a dire ai
lavoratori che è giusto fare così, ancora meglio! Evito di farlo io direttamente,
azienda. A Fiat è sempre stata così e continuare ad essere così. Poi, a seconda dei
periodi, cambia un po’ le sfumature, cambia un po’ la faccia da ferocia, a volte è
un pò più gentile. La Fiat, il sindacato non l ha mai accettato. Al limite l’ha subito,
come negli anni 70, che c’era la forza dei lavoratori, ma non l ha mai accettato
come soggetto portatore di quelle istanze che possono essere differenti dalle tue
ma che ti possono servire per migliorare tutti quanti insieme. L’idea è del
comando assoluto, mi dispiace dirlo così, ma è la realtà.
15) Qual è il suo rapporto con le altre organizzazioni sindacali? Cercate un
dialogo?
263
In questo periodo pessimo! Io non personalizzo mai, non ce l’ho con nessuno
però, in quanto organizzazione, non si ci parla neanche, ed è perfetto per la Fiat.
A parte che il sindacato dovrebbe essere un unico sindacato. In Italia questo non
è possibile per ragioni storiche, siamo più sindacati. Bisognerebbe avere un legge
sulla rappresentanza che stabilisce chi è il sindacato maggiormente
rappresentativo, ma la legge sulla rappresentanza non c’è, quindi, sindacati che
hanno punto di vista differenti e litigano tra di loro, perché ognuno pensa di
avere un punto di vista che è migliore dell’altro, è legittimo. Il vero problema è
che litigando le imprese sono più forti e la Fiat, in questo litigio, si ci è infilata in
maniera più che decisa. Talmente decisa che alla fine il risultato è quello che
dentro le sue aziende non esiste più un risultato. Di nuovo, quel sindacato che
contratta e rappresenta i lavoratori, chi è legittimato, i sindacati firmatari non
contrattano più nulla chi non è legittimato come noi in questa fase di crisi , non
abbiamo la forza. E’normale che i lavoratori sono spaventati, sono intimoriti
anche di fare lo sciopero.
16) Il ruolo delle Rsu che hanno potere di contrattazione, alla fine che fanno?
Come si comportano?
Non ce l’hanno più. Una gestione partecipativa dove l’azienda ti dice che va bene.
Non ce l hanno, non ce l hanno! Mi dispiace dire queste cose. Poi mi rendo conto
che quei lavoratori sono stati lasciati soli da tutti, prima dalla politica. Non c’è più
nessun rappresentante in Parlamento. Le leggi che hanno fatto contro il lavoro in
questi anni sono state fatte perché di lavoratori in Parlamento non ce ne sono
più. Prima c’era qualcuno, erano organizzati anche in un partito. Adesso non c’è
più un operaio in Parlamento, non c’è più un partito che li rappresenta in senso
stretto. Sono stati lasciati soli, a livello parlamentare, politico anche a livello
sindacale.
17) Come avviene la contrattazione? Chi negozia? Che cosa viene negoziato?
264
Non c’è.
18) Adesso si è fuori dal sistema Confindustriale, il contratto dei
metalmeccanici in fiat non si applica, è meglio o peggio?
È peggio, perché intanto, se parti dal salario, è sempre più legato alle
performance aziendali. Il contratto nazionale e le regole che c‘erano
precedentemente prevedevano che i lavoratori ricevessero un aumento legato
all’inflazione. Quindi, se c’è stato l’1% di inflazione, l’1% di aumento, anche
perché così mantieni costante il tuo livello di acquisto. Se io ho un salario che sta
sotto il tasso d’inflazione e quindi se l’inflazione è del l1% e il mio salario è
cresciuto del 0,5%, io quest’anno sono più povero dell’anno scorso perché in
termini assoluti, il mio potere di acquisto è diminuito. Poi appunto, il contratto
nazionale garantiva di avere degli aumenti legati al tasso d’inflazione. Poi la
contrattazione aziendale, tramite le performance aziendali faceva più
produttività, ti permetteva addirittura di salire con il tuo salire in termini reali,
con un concetto giusto ed equo, se c’è produttività ci sono più soldi e quindi
guadagni di più. E’saltata, nel gruppo Fiat, è stata scardinata completamente,
non c’è nessun meccanismo che ti tiene agganciato perché la Fiat non lo vuole al
tasso inflazione e gli aumenti, quando ci sono, devono essere solo legati alla
performance aziendale. Che lo decide l’azienda quale deve essere, siamo al
paradosso dei paradosso. Quindi non siamo neanche insieme che lo decidiamo
ma è l’azienda che decide quali devono essere i parametri per stabilire che c’è
stata produttività, redditività, e al quel punto redistribuzione tra i lavoratori con
un sistema di questo tipo nei periodi di crisi e non solo nei periodi di crisi perché
anche nei periodi in cui le cose vanno paradossalmente meglio, se tu non hai un
meccanismo, ti tiene agganciato all’inflazione. Tu, rispetto agli altri
metalmeccanici guadagni meno, tanto è vero che adesso nel gruppo Fiat le
persone guadagnano di meno. Su alcune cose che prima erano fisse ora sono
265
sempre più variabili e l’ultimo che contratto che stanno discutendo adesso,
stanno già dicendo, non ci sono aumenti dove ci sono, saranno stabilimento per
stabilimento, quindi anche la divisione tra lavoratore che fanno lo stesso lavoro,
lo stesso mestiere che lavorano in stabilimenti differenti si troveranno ad avere
una paga differente. Questo è quello che sta succedendo nel gruppo Fiat che è
stato frutto del CCSL. Io non penso che gli altri sindacati non se ne rendano conto.
Loro sanno che cosa hanno firmato e che cosa hanno deciso di fare, però solo il
tempo e la storia, andando indietro, tireranno le somme sul disastro che è stato
fatto. La cosa peggiore che quel modello che la Fiat sta riuscendo a far passare è
un modello che si estende, prima a Pomigliano poi a Mirafiori e noi dicevamo
quella roba lì rischia di contaminare negativamente anche il resto dei lavoratori,
cosa che sta succedendo. Tanto è vero che molti gruppi hanno dato disdetta da
Confindustria, dall’accordistica interna come ha fatto Fiat per arrivare ad una
finta ricontrattualizzazione.
19) Secondo Lei, la costituzione della New Company ha un fine antisindacale?
Si, perché hanno creato una nuova compagnia e, di conseguenza, piazza pulita di
tutti gli accordi che c’erano precedentemente. Una roba totalmente nuova che ha
permesso la ricontrattualizzazione, ovviamente al ribasso. Però non si può dire i
sacrifici bisogna farli, alcuni dipende quali e quanti, perché se l’idea è se non si fa
così le fabbriche chiudono e tu inizi una corsa senza fine, perché domani ti
spiegheranno che devi lavorare il doppio e guadagnare la metà. Scusa
l’estremizzazione però è esemplificativa, quando c’è la fine, mai! Perché
l’interesse dell’impresa è quello che dicevo prima portato alle estreme
conseguenze: farti lavorare il più possibile e pagarti meno. E’come per l’operaio
lavorare il meno possibile e guadagnare il più possibili.
20) Quindi, secondo Lei, le vertenze di Pomigliano e Mirafiori cancellano diritti
e garanzie per i lavoratori?
266
Sì, annientano diritti e garanzie per i lavoratori. Li hanno nei fatti annientati e la
gente sta sempre peggio e starà sempre peggio. Questa storia non finirà. Ogni
anno c’è un pezzettino in più che se ne va. L’azienda stabilisce, ad esempio,
quando farti fare i tuoi permessi individuali che prima potevi scegliere così.
L’azienda agisce unilateralmente.
21) Le prospettive alla luce del nuovo contratto e dell’acquisizione di Chrysler?
Noi abbiamo parlato a lungo della Fiat, ma la Fiat non c’è più. Adesso c’è FCA,
non è più italiana non è più torinese, non lo è più nei fatti, è quotata a New York,
a sede legale in Olanda e paga le tasse in Inghilterra. Di che cosa stiamo
parlando? Anche quando si dice: ma la Fiat è ancora italiana, chi? cosa? dove?
perché?
Le prospettive al momento per l’Italia, sono state negative, nel senso che
purtroppo uno stabilimento, Termini Imerese, è stato chiuso. A Mirafiori ci sono
ancora della carrozzeria. Su 5400, 3500 sono ancora in cassa integrazione, gli
altri sono andati alla Bertone. Menomale che esiste l’ex bertone, ora Maserati,
che lavora! L’unica cosa positiva di questo periodo della Fiat, è che a Melfi sono
ancora praticamente in cassa e stanno riprendendo adesso a Pomgliano non sono
mai rientrati tutti, il 30% dei lavoratori è in cassa, e secondo me non rientreranno
mai. Stanno andando avanti con gli ammortizzatori sociali. Quando arriveranno
al termine dichiareranno gli esuberi, i licenziamenti. Cassino idem. Quindi, al
momento, quelle grosse positività non si sono viste, abbiamo visto, viceversa,
molte produzioni al di là dell’oceano, gli accordi prevedono questo. Il Governo
Statunitense si è comportato correttamente, ha provato a tutelare i lavoratori
della sua nazione convocando Marchionne, pretendendo delle cose chiare da
Marchionne. In cambio, ovviamente, gli ha regalato la Chrysler. Gli ha detto
anche esattamente che cosa doveva fare. Non c’è stato nessun Governo che ha
convocato Marchionne per dire come mai fino al 2007, in questo paese, si
267
facevano un milione di autovetture e adesso se ne fanno meno di quattrocento
mila. Nessuno che ha chiesto conto. Quindi, per quanto riguarda questa fusione,
alcuni analisti dicono si sono salvati a vicenda, altrimenti la Fiat sarebbe fallita.
Sì, può darsi! E’ positivo, ma se lo devo guardare a livello generale e fare un
paragone che si vede e che prima si facevano più automobili in Italia, prima c’era
occupazione, adesso hanno chiuso Termini Imerese, Industrial, la Cnh, Iribus di
Valle Ufita. Ci sono stati anche licenziamenti. E poi lavoratori sono in cassa, non li
hanno ancora licenziati perché per fortuna ci sono gli ammortizzatori sociali. Alla
faccia del Governo Renzi che vuole togliere gli ammortizzatori sociali, così
sarebbero stati sbattuti tutti fuori senza un’occupazione. Un prospettiva grigia!
Vedremo! Speriamo che queste produzioni arrivino. A Mirafiori è dal 2008 che i
lavoratori aspettano la produzione che è stata più volte annunciata, ma che non
è mai arrivata. Adesso siamo nel 2015. Uno poi non ci crede più! Adesso un
autovettura a Mirafiori arriverà! Sarà sufficiente a saturare le 3500 persone che
sono ancora in cassa? La risposta è no, non sarà sufficiente. Bisognerà avere
almeno 2/3, poi dipende dalla gamma. Adesso alla Maserati lavorano 2200
persone, producono due autovetture e arriveranno intorno alle trentasette mila
auto vendute. Se tu ne hai tremilacinque in cassa, e fanno auto della stessa
gamma, due auto di gamma alta non ti sono sufficienti. Meglio che arrivi il
modello, almeno uno. Tutto questo ottimismo che sento poi è di volontarismo
non della ragione, poi noi facciamo i conti con la dura realtà.
268
Intervista Flavia Aiello
(Segretaria provinciale UILM-UIL)
Mi può raccontare la sua esperienza all’interno del Gruppo Fiat oppure del
sindacato? Cioè come siete entrati.
Ho iniziato da giovanissima. Mi sono avvicinata al sindacato grazie a mio padre
che era un delegato e, per farmi un’esperienza come si faceva quarant’anni fa,
mentre andavo a scuola, mi sono avvicinata al sindacato. Finita la scuola, mi ha
assunto un’azienda e, dà lì, proprio perché avevo fatto questo percorso
all’interno, mi ha affascinato e quindi ho fatto il percorso da delegata e di una
volontà di uscire fuori per intraprendere quello che è all’esterno. Io ho iniziato nei
tessili. Ho fatto il mio percorso lavorativo che è durato fino al 2001. Dopo di che,
dato che sono una persona alla quale piace mettersi in gioco, a un certo punto,
mi hanno proposto il grande mondo dei metalmeccanici che a Torino è il fulcro.
Dopo tre anni, c’è stata questa richiesta di seguire Fiat, una proposta del genere
mi ha spaventato, subito, però, ho accettato.
1) Che cos’è il World Class Manufacturing? Come vede il WCM? Qual è la sua
percezione?
È un ottimo sistema di lavoro. Bisogna avere una grande volontà di
partecipazione di entrambi, nel senso che è orientato, rispetto a quello che è il
lavorare meglio e con attenzione, nel senso facciamo i pezzi e li mandiamo
avanti, questo sistema qui lo boccia da subito. Il lavorare attentamente è un salto
avanti in quella che è l’attività produttiva in azienda, ma io ritengo che sia un
salto che ancora non abbiamo fatto, però ritengo che se mai si perde mai si
arriva. Quindi è un grande obiettivo da raggiungere positivo in futuro. Siamo
partiti in ritardo in Italia rispetto agli altri paesi, la Germania, l’America. In Italia
269
dobbiamo cambiare mentalità che ancora molto radicata e qui parlo, sia del
sindacato che l’azienda, ovvero, i capi, i team leader. È un percorso difficile che
bisogna iniziare, altrimenti siamo morti.
2) Come si inseriscono i lavoratori nella nuova organizzazione? Cosa cambia per
loro?
Cosa dovrebbe cambiare, siamo lontani. Quando facciamo riunioni con l’azienda,
diciamo che è un sistema che se c’è, richiede una partecipazione. La mentalità
che c’è in azienda e in Italia, anche questo sindacato che è ancora conflittuale, in
azienda si ci confronta tra il capo che dice fai questo pezzo e lo devi fare, non ti
interessa come e questo fa a cazzotti su quello che è. Il sistema dovrebbe essere
diverso. Il fatto di dire: perché faccio questo pezzo? Perché lo devo fare bene? Il
mio pezzo bene vuol dire che, quello che viene a lavorare dopo di me se si trova il
pezzo che è fatto bene, può continuare e andare avanti. Se il pezzo fatto da me
non viene guardato da quello che sta avanti, il difetto va avanti. Questo
comporta un dialogo più severo e non conflittuale tra chi ha un certo incarico di
portare avanti la linea. In azienda c’è chi sta al montaggio, chi dirige una squadra
chi dirige lo stabilimento, ecc. Se non c’è un dialogo tra queste figure e, dialogo
vuol dire vediamo come poterlo farlo meglio, perché oggi c’è l’ordine e non il
dialogo, oggi c’è fai questo, fai quell’altro, non ti interessa se c’è un problema vai
avanti. Come può scomparire? Con un dialogo più continuo. La filosofia di questo
sistema è che comunque devono uscire i pezzi ben fatti, e se tu lavori in un
ambiente sereno e tranquillo dove tu hai rispettato quello che è la sicurezza.
Parlo anche dell’ambiente di lavoro, se tu lavori in un ambiente brutto, grigio,
diverso è entrare in posto pulito, ad esempio la mensa. Quindi l’ambiente, il modo
di lavorare, la sicurezza a lungo termine, serve un dialogo e non un comando, io ti
dico e tu devi fare senza perché ti interessi quello che devi fare.
270
3) Come valuta il rapporto con i lavoratori? Quali sono le loro priorità?
Il rapporto con i lavoratori in questo momento è difficile in un contesto generale.
In questo contesto siamo presenti anche noi come sindacato. Oggi le persone
hanno tutte le ragioni, per la situazione economica, ci stiamo rendendo conto
solo adesso di tutte le ruberie e le furbate. Ognuno, nel suo piccolo, ha contribuito
a questo sistema. E, quindi, è sempre più facile prendersela con gli altri. Ma negli
altri ci siamo anche noi. Io non ritengo che il sindacato abbia sempre agito nella
maniera giusta perché ci sono stati anche degli errori. Io non sono figlia del ’68,
sono nata dopo, quindi a volte sento una nostalgia di quegli anni. Sento dire che
in quegli anni ci sono state delle conquiste, quelle conquiste lì, rispondo io, e
perché c’era un boom economico, un’economia che tira e più facile chiedere e
stato facile per il sindacato, perché quando il sindacato chiede e porta a casa e un
buon sindacato, quando poi prova a portare a casa ma non sempre ci riesce, io
dico che bisogna sempre fare i conti con quella che è la storia e il momento. Al
sindacato vengono attribuite anche delle cose che non sono del sindacato. Io,
quando faccio le assemblee a volte per battuta, dico, ormai è colpa del sindacato
anche quando piove! Perché il governo fa delle leggi ed è colpa dl sindacato. Non
le facciamo noi e ma il sindacato non ha fatto niente, ho capito ma più che fare
degli scioperi non è che c’è molto da fare. Stiamo vivendo oramai da troppi anni
una crisi che sta logorando tutti e c’è un tutto contro tutti.
4) Il coinvolgimento dei lavoratori è un elemento essenziale data la
vulnerabilità del programma? Che cosa fate per favorire il loro coinvolgimento?
Quali sono i principali strumenti che vengono adottati per motivare/valorizzare
i lavoratori all’interno della nuova organizzazione?
Certo, all’interno degli accordi abbiamo chiesto che ci sia un dialogo continuo.
Questo passa attraverso quelli che sono dei corsi di formazione, a gruppi, a step,
271
proprio per spiegare, prima in maniera teorica e poi pratica, anche se non è
facile.
5) In seguito all’introduzione del WCM, il modello partecipativo si è realizzato
concretamente o ancora vi è una partecipazione debole? sia da parte del
sindacato che da parte dei lavoratori?
È debole, ma io lo attribuisco al fatto che non ci sia il lavoro. Stiamo vivendo un
periodo di cassa integrazione e di investimenti che, per mille ragioni, hanno
tardato, uno stabilimento vecchio che stanno ristrutturato. Io, per quanto seguo
Fiat, quando si discuteva di uno stabilimento vecchio, per quanto potessi
immaginare, soltanto vedendo dentro, mi sono resa conto. C’è stato un
rallentamento del programma. Se poi uno, la teoria non la mette nella pratica, ci
sono delle società il cui il WCM è andato avanti. È tutto ancora una teoria.
6) Forme di disaffezione e di protesta quali la non partecipazione alle attività di
miglioramento continuo della qualità, l’assenteismo, lo sciopero, vengono
praticate? Quali sono i livelli di assenteismo?
Nell’ultimo contratto abbiamo cercato di mettere dei paletti, cioè bisogna fare
attenzione. Per quanto riguarda l’assenteismo abbiamo cercato di tutelare quello
che è l’assenteista che sta male, e questo non si può in alcun modo toccare. C’è
poi una forma di assenteismo denunciata dall’azienda dove alcune persone
allungavano il weekend, tipo il lunedì o il venerdì, oppure l’allungamento di un
ponte o di una festività, che devo dire anche lì può succedere, ma se questo
diventa sistematico, come abbiamo potuto vedere dai dati forniti, ci si è cercato
di intervenire. Valutare l’assenteismo adesso con la cassa integrazione, potrebbe
essere per protesta.
272
7) Secondo lei il lavoro diventa più autonomo e intelligente? oppure soltanto
più gravoso, o forse entrambe le cose insieme?
L’auspicio è quello che dovrebbe essere più intelligente. Io ritengo che, a partire
dall’usciere fino al capo del personale, devono contribuire tutti per fare un buon
prodotto, per poterlo vendere, non solo per farlo, perché se questo si vende vuol
dire che ci sono i soldi non solo per pagare i dipendenti ma ci sono anche delle
possibilità per l’azienda per fare avere più soldi ai lavoratori.
8) Il WCM ha portato ad un miglioramento delle condizioni di salute e sicurezza
del posto di lavoro? A tal proposito, nel quadro del WCM, è stato inserito un
sistema specifico chiamato Ergo-Uas, cosa ne pensa? Ha portato ad una
riduzione della fatica dello stress, e delle malattie di tipo muscolo-scheletrico?
Questo sicuramente! C’erano delle postazioni dove la gente dove lavorava
piegandosi, curvandosi e l’azienda ha fatto degli investimenti per poter
migliorare la salute.
9) Qual è la situazione attuale all’interno del gruppo rispetto alla
sperimentazione del WCM nei vari stabilimenti? Perché alcuni stabilimenti sono
più avanti e altri no, dipende dalla capacità dei lavoratori, dal management
aziendale?
Dipende dagli investimenti che ha messo in pratica l’azienda. Decide l’azienda
anche rispetto al prodotto. In Maserati ci sono linee nuove, improntante in quel
che deve essere proprio un modo di lavorare, anche se c’è una sperimentazione.
Poi siamo sempre in un contesto di crisi.
273
10) Qual è il tasso di sindacalizzazione? Ci sono dei dati?
Credo che sia, tra tutti, complessivamente il 40%.
11) Che impatto ha avuto il WCM sulle relazioni industriali?
Come tutte le cose nuove, quindi per il problema che non si conosco, spaventano.
Poi vi deve essere la volontà di migliorare. Non ho detto che ci siamo riusciti e che
ci riusciremo, ma c’è quello che è uno spirito di miglioramento.
12) Qual è il rapporto con l’azienda? Siete interpellati? Il sindacato ha la
possibilità di discutere o deve sempre scendere a patti con l’azienda? Qual è la
dialettica dei problemi del dialogo con l’azienda?
L’azienda, come tutte le aziende, tende a fare l’azienda, dicendo che solo io ho la
verità in tasca e so come fare. L’azienda tende il più delle volte a comunicare
piuttosto che a dialogare. Su questo non andiamo molto d’accordo. Non ci
possono essere solo le difficoltà dell’azienda che capiamo, ma ci sono anche dei
lavoratori. L’azienda riuscirà a fare delle macchine belle se tiene conto quelli che
sono i lavoratori e su questo facciamo un po’ fatica a farlo comprendere.
L’azienda dice, sappiamo noi come dobbiamo fare, ma è giusto che ci sia un
dialogo.
13) Per quanto riguarda gli strumenti, cioè meccanismi di tipo partecipativo,
esistono ancora le commissioni paritetiche? Chi ne fa parte? Quali temi
affronta? Funzionano effettivamente o il coinvolgimento del sindacato è solo
formale? Nel senso che l’azienda riferisce le cose che ha già stabilito, cioè vi è
un predominio dell’azienda sul sindacato?
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Certo, nelle commissioni si discute. L’azienda dà le notizie, ma diverse sono le
informazioni da quello che deve essere. Ci sono vari commissioni che si riuniscono
sia che lo chiede l’azienda e sia se lo chiediamo noi sindacato. Per noi non deve
essere solo un’informazione ma una discussione.
14) Secondo lei, con l’implementazione del WCM, l’azienda sta cercando di
“individualizzare” sempre di più il rapporto con il lavoratore? Senza
l’intromissione del sindacato?
Non lo credo! Sono convinta che, fin tanto che ci sono i lavoratori, c’è bisogno del
sindacato e questo è un modo diverso di rapportarsi. In Italia facciamo fatica,
mentre in Germania c’è un sindacato dentro il Consiglio di Amministrazione,
quindi decide insieme all’azienda. In America il sindacato sostiene l’azienda,
anche economicamente, attraverso dei fondi pensioni. In Italia vi è un sindacato
conflittuale. Dobbiamo cambiare entrambi il modo di rapportarci.
15) Il WCM che sta sperimentando la Fiat, sta spingendo verso un “sindacato
d’impresa” o partecipativo sul modello di quello giapponese? Questa scelta
potrebbe tradursi in un sindacato al servizio dell’azienda?
All’azienda, c’è o non c’è il sindacato, non gli importa. Ci siamo e quindi è giusto
parlarci, ma non spinge assolutamente, non ci stende i tappeti rossi, non ci apre
la porta. Ci siamo e cerchiamo di parlarci per il bene dei lavoratori. Già da un po’
di anni l’azienda sta cercando un sindacato più vicino a loro. La marcia dei
quarantamila la dice lunga. Negli anni ’80, quando i capi sono scesi, hanno
formato poi un’associazione capi e quadri.
16) Qual è il suo rapporto con le altre organizzazioni sindacali? Cercate un
dialogo?
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Io cerco sempre il dialogo con chiunque, nel rispetto delle proprie idee. In Italia ci
sono più sindacati. Se io faccio parte di questo sindacato è perché evidentemente
non la penso come gli altri.
17) Il ruolo delle Rsu che hanno potere di contrattazione, alla fine che fanno?
Come si comportano?
Le rsa sono tutelate dalla legge 300, quindi hanno tutti i poteri. C’è una differenza
tra rsu e rsa. Le rsu sono votate per legge dai lavoratori e passato per più di un
decennio che, essendo votate dai lavoratori, io devo rispondere ai lavoratori,
quindi anche magari andando contro l’organizzazione. La rsa è nominata
dall’organizzazione, anche se poi viene votata dai lavoratori. La pecca delle rsu è
quello di chiedere ai lavoratori i loro desideri. Anche a me sarebbe piaciuto, ma
purtroppo non sempre è possibile.
18) Come avviene la contrattazione? Chi negozia? Che cosa viene negoziato?
Il contratto nazionale serve per tutelare le aziende piccole dove non c’è una tutela
sindacale per avere un minimo tabellare. Lo dico per tutelare i lavoratori ma
anche per evitare la concorrenza tra le aziende. Fiat è uscito da Federmeccanica.
E’ un semplice contratto Fiat, quindi non viene più tutelato il contratto di primo
livello, perché è un azienda unica e non c’è concorrenza con le altre imprese. Si ci
sta orientando sempre più verso un contratto di secondo livello rispetto a quello
che è l’azienda. Non siamo ancora pronti.
19) Adesso si è fuori dal sistema Confindustriale, il contratto dei
metalmeccanici in fiat non si applica, è meglio o peggio?
È meglio! Per i lavoratori non è cambiato nulla, anche se un po’ di guadagno
l’hanno avuto rispetto a Federmeccanica. Confindustria è uscita da
276
Federmeccanica, ha fatto un contratto e il lavoratore non ci ha rimesso nulla. Già
Fiat non rispettavano il contratto Federmeccanica perché aveva le maggiorazioni
rispetto allo straordinario, alla mutua, grazie a degli accordi che avevamo fatto
all’interno, quindi aveva già un contratto diverso da Federmeccanica. Quando è
uscita da Confindustria non abbiamo fatto altro che fare un contratto rispetto a
quello che c’era, rispetto a un contratto che già c’era modificato.
20) Come valutate la scelta di un contratto a livello aziendale?
Il contratto aziendale ha un vantaggio, cioè quello di valorizzare i lavoratori,
perché lì si valorizzano i lavoratori.
21) Che cosa è cambiato dopo le vertenze di Pomigliano e Mirafiori? Cancellano
diritti e garanzie per i lavoratori?
Non ci sono diritti cancellati, assolutamente! Quello che è presente in Fiat
continua ad esserci, l’abbiamo riportato. Dicono che non c’è più diritto allo
sciopero. L’azienda dice: se c’è un problema perché non ci chiedete prima di
affrontarlo, poi vediamo di risolvere, poi, soltanto se non lo risolviamo, potete
fare lo sciopero. Mi pare una questione di buon senso. Nel senso che se andiamo
nella logica che l’azienda deve lavorare bene, per ottenere degli utili, ma non per
Marchionne, ma per distribuirli ai lavoratori. La Fiat non è un azienda piccola, in
cui il proprietario vigila su tutto e quindi ci sono dei problemi che non vengono
neanche riportati agli alti dirigenti e allora di fronte al fatto di dire, c’è un
problema, ci chiedete un incontro, noi ve lo diamo entro tre giorni. Ci date il
tempo di risolverlo e se poi non lo risolviamo e siamo liberi di fare lo sciopero o
meno, questo non vuol dire togliere il diritto a fare lo sciopero, vuol dire fare lo
sciopero dopo che ho tastato tutte le possibilità. Abbiamo fatto scioperi rispetto a
delle questioni urgenti. Abbiamo fatto un accordo con l’azienda dicendo che se
c’è un problema vediamo di risolverlo, altrimenti fate uno sciopero. Nel caso in
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cui facciamo lo sciopero, non ci rimette il lavoratore ma il sindacato, a cui
vengono fatte delle penalizzazioni. Quindi, tutta questa roba che era stata
montata volutamente dai giornalisti, ormai neanche la FIOM in assemblea lo
dice.
22) Prospettive alla luce del nuovo contratto e dell’acquisizione Chrysler?
Io sono orgogliosa che un’azienda italiana abbia comprato un’azienda
americana. Poi c’è magari chi dice chi gliel’ha regalata, ma a me non interessa,
per me è stata acquisita. È un orgoglio da italiana. Poi si dice che è un’azienda
sempre di più all’estero. C’è una globalizzazione iniziata parecchio tempo fa.
Marchionne ci ha spiegato già da 9 anni fa, da quando si è insediato, che se la
Fiat non fosse diventata grande, avrebbe fallito. Ha fatto poco il Governo
Italiano. La sede legale è a Londra, ma è solo per un questione economica. Lì si
pagano meno tasse e, quando un’azienda paga meno tasse perché vuole fare
degli investimenti per far lavorare i lavoratori, io non poso dire niente. Per me
avere un’azienda con sede legale in Italia e mi fa lavorare i polacchi, preferisco il
contrario. Questo era un compito del Governo, tenere la Fiat in Italia. Marchionne
non ha chiesto niente al Governo Italiano, ma non voleva neanche buttare i soldi.
Io non credo che diventerà più americana, sarà sempre più multinazionale.
Quello che dobbiamo sfruttare è il made in Italy: chi compra una Ferrari vuole che
sia fatta in Italia.
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Interviste Management Fiat Chrysler Automobiles
Roberto Cortese
(Responsabile Relazioni Industriali FCA – EMEA)
Luciano Massone
(Capo del World Class Manufacturing EMEA
Region & WCM Dev. Center VP)
279
Roberto Cortese
(Responsabile Relazioni Industriali FCA - EMEA)
1) Che cos’è il World Class Manufacturing?
Io l’ho sempre definito come il “buon senso applicato”, nel senso è quello che
probabilmente ognuno, a casa propria, dovrebbe fare, cercando di applicare
buon senso ma con metodo, avendo sempre costanza di risultati e costanza di
applicazioni. Questa è una cosa che, sui grandi numeri e le grandi fabbriche, è
chiaro che richiede un metodo più spinto, un’attività dedicata, persone che se ne
occupano. E’ per noi, inteso come italiani, un quadro culturale non indifferente.
2) Come vede il WCM? Qual è la sua percezione?
Sicuramente è un acceleratore di buone pratiche. Penso che spesso si
ripercorrono gli stessi passi, soprattutto nelle grandi organizzazioni si
ripercorrono gli stessi passi per arrivare a risultati se vogliamo molto simili. Per
cui, il fatto di avere un metodo comune è questa, una “crossing education” di
attività tra uno stabilimento e l’altro, quindi uno scambio di esperienze molto più
spinto di quanto fosse in passato. È chiaro che consente di utilizzare queste buone
pratiche e di applicarle in maniera più veloce. È chiaro che questo deve avere alla
base un terreno fertile. Ci vuole un approccio culturale, un approccio sicuramente
tecnico e la differenza poi la fanno le persone che devono essere molto più
portate ad accettare, magari, un buon lavoro fatto da un altro e, in maniera
umile, dire: ok se lui è riuscito a portare a casa questo, posso sicuramente
arrivarci anch’io ed applicarlo. E lì si genera un circolo virtuoso.
280
3) Quali sono state le motivazioni che hanno portato ad adottare il WCM? Per
iniziativa di chi?
Per come la vedo io, come osservatore distaccato rispetto alla realtà operativa di
fabbrica, vi era questa necessità di avere un linguaggio comune delle pratiche
comuni; delle possibilità di avere delle basi per poter rilanciare sempre il
miglioramento su cui ovviamente è basata la competizione internazionale del
mondo dell’auto, dove se ti fermi un attimo, chi ti passa davanti, ci mette cinque
minuti. Quindi, la velocità di realizzare un “’improvement” è sicuramente una
delle basi su cui si fonda questo progetto.
4) Quali sono state le difficoltà connesse all’implementazione del WCM,
soprattutto in un’azienda tradizionale come quella di Mirafiori?
Per come la penso io, l’approccio culturale e sicuramente, anche, credo, la
tendenza passata di ogni fabbrica ad essere un ambiente assestante. Quindi la
capacità, la possibilità e la volontà di condividere esperienze è stato quello che
mancava da un punto di vista operativo. Da un punto di vista culturale,
certamente, soprattutto qui in Italia, vi è una diffidenza nei livelli operativi, o
medio-bassi se intendiamo una scala gerarchica, al cambiamento. La
propensione al cambiamento rispetto, “abbiamo sempre fatto così”, è stato uno
di quei muri da abbattere o di quelle reti un po’ da strappare che hanno
probabilmente teso a rallentare questo progetto.
5) Qual è la situazione attuale all’interno del gruppo rispetto alla
sperimentazione del WCM nei vari stabilimenti? Perché alcuni stabilimenti
sono più avanti e altri no? dipende dalla capacità dei lavoratori, dal
management aziendale?
281
Io credo che dipenda principalmente dal “commitment” che viene dato al
progetto. Se ci si crede, non solo a parole, ma lo si vive e lo si applica
quotidianamente, diventa anche più facile da un punto di vista della trasmissione
della forza e della spinta che c’è. Quindi questo è un problema che riguarda il
circuito di regolazione, quindi il team direzionale dello stabilimento. Dall’altra è
chiaro che l’entusiasmo o la capacità o anche la voglia di guardare in maniera
diversa il modo di lavorare, lo fanno, evidentemente, anche le persone che
lavorano in uno stabilimento. Noi abbiamo visto chiaramente, in ambienti dove
c’è una curiosità culturale, una vivacità data chiaramente dall’età delle persone
all’interno dello stabilimento e questo è molto più facile. Torna, ma non vuole
essere una ripetizione l’approccio culturale o la “forma mentis” che si trova nei
diversi stabilimenti. In Polonia il modo di operare dei colleghi polacchi è sempre
stato molto più metodico, ha un matrice di natura germanica. Quindi, dove noi
siamo in Polonia, è una regione della Slesia, zone più vicine alla Germania, quindi,
vi è un approccio molto più metodico. Una volta definito lo standard, viene
applicato, e il WCM ha questo come uno delle sue basi di successo. Direi anche le
esperienze precedenti, direi anche che un altro stabilimento che abbia dei buoni
risultati e che sta lavorando molto bene. Lascio un attimo da parte Pomigliano
che è una realtà a sé e, forse, merita un’attenzione diversa. Sono quei
stabilimenti che in passato hanno lavorato in maniera molto spinta su
metodologie di cui il WCM è interconnessione. Tipica è quella del TPM (Total
Productive Maintenance), su cui già aveva un background anche di metodologia
culturale che li ha portati ad essere più facilmente inseriti in questo progetto.
Pomigliano è nata con logiche di WCM. È ’stato molto utile avere una fabbrica
che, di pari passo, cambiava pelle da un punto di vista tecnologico, ma aveva un
percorso di formazione, di costruzione e di addestramento delle persone che lì
sarebbero andate a operare. Quindi, il match tra queste due è evidentemente,
che è stato uno sforzo sia economico che di impegno personale e professionale
delle persone, ha sicuramente avuto un successo straordinario. E questo lo stiamo
vedendo in una fabbrica, come quella della Serbia, che ha recentemente, mi pare
282
la scorsa settimana, ottenuto il Bronzo nel WCM. E’ una fabbrica che lavora solo
da due anni e mezzo, un tempo molto limitato, ed è già riuscita a raggiungere dei
punteggi di WCM in un tempo relativamente breve. Parliamo di una fabbrica che
è partita ed ha dovuto, subito, dare una performance produttiva molto
importante. Quindi non ha avuto il tempo di costruirsi radamente, dal momento
che la 500L è una macchina di assoluto successo, ed ha dovuto rispondere alle
richieste di mercato nei suoi primi mesi o anni dall’uscita.
6) Dobbiamo ancora dimostrare di essere come i giapponesi? Nel senso che
dobbiamo ancora migliorare il livello di credibilità e di fiducia in un contesto
sempre più competitivo e concorrenziale?
Su questa necessità di essere e di dimostrare di essere come i giapponesi non
sono particolarmente d’accordo, nel senso che noi non saremo mai giapponesi e i
giapponesi non saranno mai italiani. Secondo me, noi dobbiamo essere capaci,
come sono stati capaci loro, di prendere aspetti positivi delle metodologie
applicate e farli nostri con la capacità italiana di realizzare dei salti di qualità
molto più alti, in maniera veloce. Il pericolo che non dobbiamo cercare di fare è
quello di voler saltare dei passaggi del metodo per cercare di arrivare ai risultati.
Questo è quello che siamo forse portati a fare. Invece, il metodo ci insegna che un
passo dietro altro serve a rafforzare e a rendere solido il percorso che si sta
facendo. La nostra tendenza è quella, ogni tanto, di prendere delle scorciatoie e
questo tende a far dimenticare qualche passaggio importante.
7) La produttività sta migliorando? La qualità del prodotto è migliorata? Vi è
realmente una riduzione degli sprechi?
Si, sono tutti passaggi importanti del WCM anche se non sono gli unici. Questi
sono poi effetti indiretti, perché gli effetti diretti sono quelli di avere fabbriche che
lavorano meglio, in quanto, se le fabbriche lavorano meglio, le persone lavorano
283
meglio e di conseguenza gli altri risultati sono una derivata quasi naturale di
questo processo. E’chiaro che, se si lavora in una fabbrica confusa, sporca, buia,
rumorosa o con situazioni interne, anche dal punto di vista del prodotto che si
costruisce non studiate in una logica ergonomica o di WC, i risultati non possono
venire. Se c’è luminosità nelle fabbriche, se ci sono postazioni di lavoro
ergonomicamente standard, se il prodotto è stato studiato per quelle postazioni
di lavoro, chi ci lavora è messo nelle condizioni di poter fare bene il suo lavoro e
non esistono possibilità per avere degli errori che l’oggettivazione che c’è, negli
stabilimenti per migliorare il prodotto, tende a ridurlo.
8) Il WCM ha portato ad un miglioramento delle condizioni di salute e sicurezza
del posto di lavoro? A tal proposito, nel quadro del WCM, è stato inserito un
sistema specifico chiamato Ergo-Uas, mi può spiegare nel dettaglio in che cosa
consiste questa nuova metrica? Consente di eliminare tutto ciò che nei
movimenti dei lavoratori è considerato uno spreco e con ciò di aumentare la
produttività?
Ritengo di sì. Ha portato ad un miglioramento dell’attenzione di tutta l’azienda,
agli aspetti di sicurezza ed ergonomia dei posti di lavoro. Questa è un’altra cosa,
come dicevamo prima a proposito del commitment, che ha doppio senso.
L’azienda deve mettere nelle migliori condizioni le persone per lavorare bene e in
sicurezza. È un compito del datore di lavoro, ma è anche vero che il lavoratore
deve lui stesso mettersi nelle condizioni e usare gli accorgimenti necessari per
lavorare in maniera ergonomicamente efficace e in sicurezza. E ha doppio senso,
in quanto, da un lato, più uno è invogliato a lavorare per cercare di creare un
ambiente sicuro ed ergonomicamente accettabile, tanto più da l’altro diventa
normale utilizzare questi strumenti. Le faccio un esempio: se lei va in una casa
dove tutto è pulito e in ordine, si sente a disagio a mettere in disordine; se entra
in un magazzino dove ci sono ragnatele, polvere, se lei butta un pezzo di carta tra
tante non se ne accorge nessuno. Viceversa, credo che questo sia un
284
cambiamento importantissimo nelle nostre fabbriche. Che poi questo, da parte di
qualcuno, sia percepito come un’accelerazione nei confronti del lavoro o una
maggior faticosità, secondo me, è più un fatto ideologico che reale. Se ha avuto
modo di visitare uno stabilimento, fa fatica ad accorgersi delle aree dove si sta
lavorando intensamente o meno intensamente, nel senso che la linea continua ad
andare avanti con una cadenza ben precisa, perché sulla cadenza della linea sono
poi definiti i cicli di lavoro, il tempo e le operazione che vengono fatte, la linea è
talmente ordinata e asservita, avvolta da strutture tecnologiche e strumenti per
organizzare meglio il lavoro che apparentemente lei non si accorge del lavoro che
fanno le persone. O meglio, se si ferma a guardare la persona, la vede lavorare
con tempi e con metodi di lavoro che certamente che se uno pensa alla fabbrica,
il classico pensiero è quello di Charlie Chaplin in tempi moderni. In mezzo alla
ruota si perde. Da noi si dice: si imbarca perché non riesce più ad effettuare le
operazioni, ma questo non avviene più. È un grande salto di qualità. Ognuno fa il
proprio mestiere in un certo posto, in un posto studiato per far quel mestiere e
non un altro, non ostacola il suo collega, non può sbagliare e soprattutto non fa
sbagliare le persone che sono vicine a lui.
9) Come si inseriscono i lavoratori nella nuova organizzazione? Cosa cambia per
loro?
Intanto, cambia l’approccio al lavoro. È richiesta una partecipazione e un
contributo alla produzione o al sistema all’interno della quale sono. Anche in
passato, noi avevamo con alcuni programmi, il TQM, il sistema di suggerimenti o
di proposte di miglioramento continuo. Se, però, queste sono lasciate a se stesse
e non inserite in un programma ben specifico, dove tutto è finalizzato,
migliorato, i diversi pilastri, dove tutti possono dare il loro contributo, rischiano
di essere proposte che dopo un po’, se non c’è un grande “commitment”, si
perdono o le persone non sono invogliate a dare un loro contributo. In un
ambiente che lavora costantemente per migliorare, per fare salti di qualità, è
285
chiaro che, se interiorizzata questo miglioramento, diventa un acceleratore. Le
persone nella fabbrica devono, hanno un approccio diverso. La possibilità di
cambiare e la facilità con cui si può lavorare, su questo, dipendono dai fattori che
dicevamo prima, quindi certamente culturale, dal background da cui
provengono, dalla tipologia del prodotto, i lavori e gli sforzi che vengono fatti in
stabilimenti.
10) Come valuta il rapporto con i lavoratori? Questi concorrono alla definizione
degli obiettivi e dei valori aziendali? Quali sono le loro priorità? E quelle
dell’azienda?
Possono essere inizialmente dei punti distanti gli uni dagli altri. Io ritengo che ci
siano due rette che tendono a convergere, con livelli di angolazioni diversi, con
punti di convergenza che possono essere più o meno vicini nel tempo. Tra l’altro,
questo, lo danno i punteggi del WCM. Penso che molto dipende da come si pone
la direzione, da quanto l’azienda si spenda e creda in questo tipo di progetto, in
questa sfida. Le persone, se vedono che quanto si sta facendo porta a dei
miglioramenti, anche da un punto di vista della giornata lavorativa, dello sforzo
fatto, e vedono, soprattutto, che c’è una coerenza fra il detto e l’agito, alla fine
poi seguono. La tendenza è quella di essere diffidenti ai cambiamenti. Questi
sono cambiamenti molto importanti ed epocali, però oramai abbiamo un
numero di anni alle spalle di WCM e una pervasività di questo progetto che
ormai è talmente diffusa che penso faccia parte almeno fino ad un certo livello
della scala gerarchica e livelli di profondità diversi nei diversi stabilimenti per la
storia che hanno o la situazione attuale, che tende sicuramente ad alzarsi.
11) Il coinvolgimento dei lavoratori è un elemento essenziale data la
vulnerabilità del programma? Che cosa fate per favorire il loro coinvolgimento?
Quali sono i principali strumenti che vengono adottati per motivare/valorizzare
i lavoratori all’interno della nuova organizzazione?
286
Sicuramente si, è essenziale. Quello che si sta facendo è far diventare il WCM
come una pratica. E’ un modo di lavorare quotidiano rispetto al passato, nel
senso che, rispetto a programmi passati, si andava un po’ per moda. Il WCM ha il
pregio di essere molto legato al metodo e avere la necessità di essere attuato e
agito costantemente e quotidianamente. Io dico che il WCM funzionerà
perfettamente quando diventerà negli stabilimenti un automatismo, come quello
di entrare, bollare, strisciare in badge per la presenza e ristrisciare il badge per
l’uscita. Diventa, non dico un fatto di routine, ma un ambito mentale o un modo
di pensare in fabbrica. È chiaro che se uno entra in fabbrica a qualsiasi livello sia
stacca la testa e passa otto ore lì dentro, sperando che passi il tempo, non è il
miglior modo per arrivare a raggiungere i risultati del WCM.
12) In seguito all’introduzione del WCM, il modello partecipativo si è realizzato
concretamente o ancora vi è una partecipazione debole? Sia da parte dei
lavoratori che del sindacato
Le persone hanno dato risposte diverse in base alle condizioni in cui si sono
trovate, sia come località geografica in cui si trova lo stabilimento e sia come
modo di operare all’interno dello stabilimento. La parte geografica è nei fatti, e
uno non è come può spostare gli stabilimenti per cambiare la cultura delle
persone. Bisogna saper prendere coscienza di una diversità culturale, lavorarci
sopra, magari, anche toccando dei tasti diversi a secondo del posto in cui si ci
trova. La partecipazione delle persone, secondo me, è straordinaria da questo
punto di vista. Le persone, se sono messe nelle condizioni di dare un contributo
e, quindi, significa che qualcuno glielo chiede, non si tirano mai indietro. Se si
tirano indietro c’è un motivo che bisogna cercare di indagare, e capire cosa porta
le persone a non interessarsi del posto in cui passa molte ore della sua vita e
dove più facile passarci in maniera armonica e più efficace, che non sperando di
uscire. Poi è chiaro: il lavoro è il lavoro, la vacanza è la vacanza. Sul sindacato
287
credo che, dopo un momento di diffidenza, esso abbia fatto un salto culturale
importantissimo sul WCM, ma non solo anche sul modo con cui Fiat sta portando
avanti i propri programmi strategici, perché ha capito che la velocità e la
competizione a livello mondiale sul mercato dell’auto, ha cambiato il paradigma
dei rapporti interni. Uso un paradosso su questo: la crisi ha scellerato questo
livello di consapevolezza, soprattutto nella cultura Italiana che quando si ci trova
con l’acqua alla gola, la capacità di reazione è straordinariamente più alta
rispetto ad altri posti. Quindi, questa crisi che ha avvolto, non soltanto il mercato
dell’auto, ma il mondo intero dal 2008 in avanti, paradossalmente è stato uno
stimolo importante per cercare di accelerare e di comprendere che il modo
passato di fare le macchine o di fare sindacato o di agire all’interno delle
fabbriche, non poteva più esistere.
13) Secondo lei il modello adottato consente di superare quelle relazioni
manager-dipendenti di tipo rigidamente gerarchico e di adottare invece un
clima aziendale stimolante e pacificato che consente una sorta di fusione tra gli
obiettivi dell’impresa e i bisogni dei lavoratori?
Questo sì! Nei fatti lo è nella maggior parte degli stabilimenti. Probabilmente
meno in quelli in cui vi è una fase di transizione tra vecchi prodotti, vecchio modo
di lavorare e nuovi prodotti e nuovo contesto di fabbrica. Noi stiamo portando
avanti un piano industriale che vede toccati tutti gli stabilimenti qui in Italia. Fiat
ha fatto delle scelte coraggiose dicendo che vuole mantenere in Fiat una
presenza industriale importante. Sarebbe stato più semplice, meno popolare e
forse più sociale quello che anni passati, negli anni ottanta, a fronte di grandi
crisi, erano state fatte grande ristrutturazione e delle scelte drastiche anche sul
contesto industriale. Questo Fiat non ha ritenuto di farlo. Si è accollata anche
l’onore di mantenere stabilimenti per certi versi con una bassissima produttività.
Per certi periodi, noi abbiamo degli stabilimenti che lavorano ben poco, come
Mirafiori, però la scelta è stata quella di non denunciare eccedenze di personale
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rispetto ad una situazione che gli altri costruttori hanno percorso. Se lei guarda
altri grandi costruttori come la Pegeout, Renault, Opel, Volkswagen, tra gli anni
2008 e 2012, hanno fatto piani di ridimensionamento e di ristrutturazioni
importanti con uscite, esodi, licenziamenti. Noi abbiamo fatto una scelta diversa,
abbiamo e crediamo in un piano industriale molto più ambizioso, legato anche
l’operazione con Chrysler che ha aperto per Fiat un’opportunità e per Chrysler
sicuramente opportunità diverse a livello mondiale, che ci consentiranno di
portare un piano diverso.
14) In questo nuovo modello quanto conta il dialogo con il sindacato? E il suo
coinvolgimento? Importante oppure marginale?
Sicuramente diverso. Io ritengo importante. Da parte di tutte e due deve esserci
un cambio di passo, nel senso che la storia delle relazioni industriali in Italia e in
particolare Fiat, questo perché quando si parla delle relazioni industriali o
sindacali in Italia, l’immagine è quella del rapporto sindacato – Fiat. È normale,
siamo stati per tantissimo tempo un punto di riferimento, non fosse altro per la
nostra dimensione. Fortunatamente lo siamo ancora ora, perché siamo una delle
ultime aziende manifatturiere che hanno scelto e vogliono operare in Italia e
quindi non andarsene altrove, e questo è un punto importantissimo. Deve essere
un rapporto diverso, basato su aspetti diversi, nel senso che alcune cose devono
essere date per scontate. Fortunatamente il WCM, da questo punto di vista lo fa,
nel senso che quello che in passato era una delle attività tipiche del sindacato,
quali la tutela della condizione del lavoro all’interno delle fabbriche, fossero le
nostre o altre, lo sviluppo, e se vuole anche l’ammodernamento e l’evoluzione
che c’è stato nel modo di concepire le fabbriche, le macchine che si costruiscono
all’interno delle fabbriche e il modo di lavorare, credo che possa considerarsi, da
questo punto di vista, un aspetto non più di dibattito tra l’azienda e sindacato,
diverso, perché bisogna probabilmente lavorare sulla spinta che anche il
sindacato può dare, e l’azienda deve metterlo in condizione per accelerare il
289
livello di partecipazione delle persone all’interno della fabbrica. Tant’è che su
questo stiamo discutendo con il sindacato del nostro CCSL che l’hanno firmato. E
uno degli aspetti cardine è quello di legare anche gli aspetti economici e
retributivi, non a fenomeni esterni, come può essere l’aumento del costo della
vita, al di là del momento che oggi l’inflazione è a livelli talmente bassi che
probabilmente non si tratta neanche di quello, ma i sistemi di rewarding o
sistemi di partecipazioni da un punto di vista economico, legati alle performance
della fabbrica, customizzati sulla fabbrica, sullo stabilimento, sulle persone.
Quando la persona contribuisce è uno degli aspetti determinanti sulle quali può
essere basata una retribuzione variabile al netto di quello che è un minimo
salariale che ogni contratto può e deve avere. Probabilmente ci deve essere un
bilanciamento e con il sindacato bisognerà trovare un equilibrio.
15) Quando ci sono dei problemi il sindacato ne discute con l’azienda ed
insieme cercate di risolverli? Qual è la dialettica dei problemi del dialogo con il
sindacato? E la tempistica di risposta ai problemi?
Io questo, lo vedo molto spinto negli stabilimenti, soprattutto quando si sta
lavorando su nuovi progetti. Il funzionamento delle commissioni che abbiamo
definito anche nel nuovo contratto, sono più operative e le abbiamo sfrondate di
una serie di orpelli che ci portiamo, perché il sistema della partecipazione in Fiat
è abbastanza radicato. Noi partiamo accordi, della fine degli anni ottanta, già
individuando dei sistemi abbastanza elementari. Però, allora, erano una grande
novità rispetto al rapporto con cui si usciva, che era un rapporto tipicamente
conflittuale: azienda padrone e sindacato. Quindi, questo sistema di
partecipazione si è evoluto, si è finalizzato ed è diventato molto probabilmente
anche più creativo, nel senso c’è un circuito di regolazione con incontri con le
organizzazioni sindacali diciamo più a livello di segreterie nazionali, con la
direzione aziendale, con il top manager aziendale per avere un quadro sul dove si
sta andando a livello di stabilimento. Il dialogo e il lavoro con il sindacato è molto
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più operativo, nel senso si discute e si lavora sui problemi della fabbrica. Questo
che cosa comporta? Come sempre, quando si parla, si è in due, quindi l’approccio
deve essere biunivoco. Da parte dell’azienda, io credo, che debba essere fatto
uno sforzo importante per mettere a fattor comune aspetti della vita di fabbrica
che servano ad avere un livello di condivisione e di linguaggio comune con i
propri interlocutori sindacali. Da parte del sindacato deve essere fatto uno sforzo
culturale di crescita, di apprendimento di quelli che sono i temi della fabbrica. Un
rappresentante sindacale deve conoscere come funziona la fabbrica, deve sapere
cos’è il WCM, deve sapere quali sono i problemi che esistono all’interno della
fabbrica, ma usarli probabilmente, ed è qui lo snodo importante che a volte,
dovuto anche alla pluralità di sindacati che abbiamo in Italia, non aiuta, nel senso
che non può esserci un’interpretazione diversa di un problema. Semplifico: se c’è
una postazione di lavoro che non funziona, non può esistere che se ci sono
cinque organizzazioni sindacali che vedono il problema in maniera diversa o a
seconda della convenienza o della volontà di tutelare in maniera diversa un
lavoratore piuttosto che un altro. Se un problema esiste, è un problema non ha
un colore. Se lo allarghiamo vale anche per l’Italia. Se noi abbiamo un problema
di occupazione, di non capacità di attrarre investimenti o non rendere il nostro
paese allettante per un investitore straniero, non è un problema che se lo guardi
da sinistra o da destra è un problema. Quindi, o si ci concentra sul problema o, se
ci si concentra sul problema, sul bisticciare a chi arriva prima al gioco del
fazzoletto, ad accaparrarsi la genitura del problema, non si va tanto distanti. In
fabbrica le commissioni lavorano, e lavorano molto meglio dove si stanno
costruendo i passi per fare i futuri modelli. Dopodiché, il continuos improvement
nelle fabbriche può probabilmente migliorare ancora grazie all’approccio
culturale di cui parlavo prima.
16) Il WCM che sta sperimentando la Fiat, sta spingendo verso un “sindacato
d’impresa” o partecipativo?
291
È una scelta obbligata. Io non credo molto in chi dice che la Fiat con il WCM
vuole bypassare il sindacato e avere un rapporto diretto con i lavoratori,
semplicemente perché il rapporto diretto con i lavoratori non può non esserci,
nel senso che il lavoro che l’azienda fa, lo fa, cioè paga dei lavoratori e si aspetta
che facciano un certo tipo di mestiere. Con il programma WCM c’è un interesse
reciproco a mettere le persone nelle condizioni di poter lavorare meglio e per le
persone lavorare meglio, quindi certamente il modo di lavorare tende ad
abbassare i rapporti gerarchici ed avere il direttore che oltre a vestirsi come le
persone che lavorano sulle linee, la direzione è molto più presente in fabbrica,
perché è un’esigenza reale. Se si crede nel WCM lo si vive quotidianamente e
allora il direttore è lì dove ci sono i problemi. Conosco diversi direttore che non
hanno nessun tipo di problema, anzi, favoriscono e spingono questo rapporto
diretto con le persone, andando là dove c’è un problema per capire qual è il
problema. Questo dal sindacato, che vuole fare un salto evolutivo, essere parte
di un progetto che cambia radicalmente il modo di lavorare in fabbrica in tutti i
sensi, sia del sindacato sia per fare le macchine sia dell’azienda, è un salto
culturale importante anche se ideologico. Uno vuole tenersi nella tasca una
merce di scambio con cui contrattare per avere e dimostrare la sua importanza
piuttosto che la capacità di indirizzare le persone, e allora stiamo perdendo del
tempo. Se, invece, il sindacato capisce e ha ben compreso qual è la finalità del
WCM, probabilmente, diventa interprete delle esigenze dei lavoratori, diverse da
quelle che erano precedentemente. Citavo il fatto che, oramai, le fabbriche si
stanno portando tutte a dei livelli di standard, di vivibilità, assolutamente fuori
dallo stereotipo a cui normalmente è abituato a pensare la persona che non ha
visto i nostri stabilimenti. Probabilmente il sindacato deve essere interprete di
esigenze diverse, contrattare certamente con l’azienda magari diversi sistemi di
remunerazione, ma anche essere un facilitatore di questo cambiamento culturale
che all’interno delle fabbriche, se è spinto da diverse direzioni, probabilmente è
molto più facile che proceda. Il sindacato americano e i colleghi della Chrysler
che hanno visto la loro fabbrica o la loro azienda cadere nel vuoto, negli anni
292
2008-2009, quando poi Fiat è intervenuta iniziando un percorso con Chrysler,
hanno compreso che questo è uno strumento straordinario di miglioramento per
tutti, in primo luogo per le persone che lavorano nella fabbrica. Qui da noi non
abbiamo un sindacato unico. Avere una comunità di intenti così spinta o, è una
cosa che deve avvenire e quindi c’è un piano di convergenza, un’unità sindacale
su determinati obiettivi che in parte si è realizzata e in parte continuano ad avere
una costola del sindacato a considerare il modo di lavorare di Fiat e degli altri
sindacati come un modo diverso rispetto all’ideologia di questo sindacato o, se
no è chiaro questa pluralità, tende ad essere un freno.
17) Secondo Lei, cercano un dialogo queste organizzazioni sindacali?
Sì, però a livello di stabilimento deve essere migliorato, nel senso che c’è
probabilmente una maggiore comunità di intenti, a livello medio-alto, a livello
sindacale all’interno degli stabilimenti. Ci sono margini di miglioramento su
questo aspetto. Tende ancora prevalere il personalismo o l’interesse di bottega
che spesso tende a dividere piuttosto che a unire.
18) Il ruolo delle Rsu che hanno potere di contrattazione, alla fine che fanno?
Come si comportano?
Il ruolo delle rsa, secondo me, è uno snodo importante però nel quadro che
cercavo di tratteggiarle prima. È un sindacato che cerca il suo ruolo all’interno
degli stabilimenti. Se il ruolo delle rsa viene vissuto alla maniera tradizionale,
probabilmente non c’è più tempo e quindi il tempo non è sufficiente per la
velocità con cui la competizione sul mercato sta andando avanti. Non si può
decidere in mesi se cambiare dei turni di lavoro o se fare diverse produzioni,
perché nei mesi l’opportunità di vendita l’hai già persa. E’ un retaggio, che
fortunatamente con il nostro contratto nella scelta di Fiat e delle organizzazioni,
accettato. Stanno correndo con noi questa sfida. È stato in parte superato, ma
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può essere ancora migliorato perché da entrambe le parti, nei momenti di
maggior difficoltà, la tendenza è quella di ritirarsi un po’ e usare gli strumenti
vecchi anziché osare e andare sul nuovo. Questa è la sfida dei prossimi anni, nei
rapporti all’interno dei nostri stabilimenti.
19) Come avviene la contrattazione? Chi negozia? Che cosa viene negoziato?
Lo sforzo che è stato fatto rispetto al CCNL metalmeccanico nazionale, ed è uno
dei motivi perché Fiat è uscita dal contesto confindustriale, è che non era
attagliata rispetto al nostro modo di operare e delle fabbrica. Il nostro contratto
è molto più operativo, nel senso che disegna la realtà dei nostri stabilimenti e ne
disciplina gli aspetti importanti: gli orari di lavoro, l’inquadramento delle persone
all’interno degli stabilimenti, o modi per utilizzare l’organizzazione del lavoro e
l’orario, insomma, è disegnato sulle nostre fabbriche. Questo, credo, ha al suo
interno una serie di regole che le parti hanno inteso definire come regole della
vita degli stabilimenti e, una volta che si ci è messi d’accordo su quelle regole, le
regole sono quelle, non si discute più. La contrattazione, per certi versi, è già
avvenuta, nel senso che nello stabilimento le relazioni tra azienda e sindacato
sono già definiti nel contratto. Non è più necessario mettersi d’accordo su delle
cose perché il contratto già le disciplina. Se c’è un problema significa che una
delle due parti, all’interno dello stabilimento, ha fatto qualcosa che non andava
bene. Evidentemente deve fare un passo indietro o deve resettare, perché nel
contratto gli elementi ci sono tutti; in esso è disciplinato come si passa da un
turno ad un altro; è disciplinato come sono gli orari di lavoro, e, all’interno di
questo, ci sono sempre dei rapporti con i rappresentanti sindacali, i quali
vengono preventivamente consultati. Vengono cercate anche soluzioni
eventualmente diverse. Il momento dell’eventuale scontro o conflitto è un
insuccesso del contratto, nel senso che uno delle due parti non lo sta utilizzando,
o lo sta utilizzando male nei confronti dell’altro. Ecco perché ci sono dei
meccanismi di regolazione o di responsabilizzazione delle organizzazioni sindacali
294
perché nel momento in cui si sono decise delle cose e il contratto le ha
disciplinate, all’interno di quel contratto stiamo. Il sindacato ha degli strumenti
per chiamare l’azienda nel momento in cui rileva dei problemi che, a suo modo di
vedere, l’azienda non sta operando come, invece, il contratto prevede che lei
faccia. Questa interconnessione di responsabilità del sindacato e dall’altro la
possibilità per il sindacato di chiamare l’azienda con i meccanismi di
raffreddamento, quindi passaggi, se vuole, di progressione, prima di arrivare allo
scontro e, quindi, meccanismi di autoregolazione del sistema che sono a cerchi
concentrici, partono dove c’è il problema e poi, se il problema non si riesce a
risolvere mano mano, allargano il livello di responsabilità fino ad arrivare ad una
discussione tra organizzazioni sindacali esterne allo stabilimento che possono
essere un circuito di regolazione insieme alla direzione di Fiat per risolvere o
interpretare il problema. Su questo stiamo lavorando per migliorare questo
meccanismo di relazione con il sindacato.
20) Come valutate la scelta di un contratto a livello aziendale? Secondo lei, ci
stiamo avviando verso il decentramento della contrattazione collettiva e delle
relazioni industriali?
Questo, in realtà, rispetto a quello che si crede, avviene moltissimo in Italia, nel
senso che moltissime aziende hanno un loro contratto a livello aziendale. Le
Ferrovie dello Stato, la Telecom, noi, l’IBM, hanno dei contratti che disciplinano
la loro vita. Se vuole, la specializzazione e le esigenze di ogni singola azienda
portano necessariamente a questa scelta. Un CCNL che prenda all’interno tutto,
probabilmente non disciplina nulla, perché deve essere talmente la mediazione
di interessi. Prenda il CCNL, disciplina dalla piccola bottega che si occupa di
meccaniche di precisione, alla grande fabbrica come la Fiat, passando anche
all’installazione di impianti, ma poi, magari, da un punto di vista produttivo non è
interessato. All’interno ci sono anche, da un punto di vista dell’inquadramento
contrattuale, le figure più disparate: vanno da chi si occupa dei forni a chi della
295
manutenzione, ecc. E’ un contratto utile alla vita di una fabbrica che è
concentrare su altro, su una competizione, con dei concorrenti e deve avere degli
strumenti sicuramente più agili, che le consentano di rispondere alle esigenze di
mercato. Quindi, probabilmente, con il sindacato si deve andare verso questo
tipo di soluzione, cioè avere una sicurezza, anche da un punto di vista salariale
minimo o adeguato rispetto alle esigenze, per garantire un potere di acquisto
delle persone. Però poi la contrattazione avviene all’interno dell’azienda con
contratti specifici, perché probabilmente soltanto così si riesce a disegnare delle
situazioni che sono completamente disparate, infatti, fare automobili è diverso
da fare lavatrici. Sembra banale la cosa, eppure le persone sono all’interno di un
CCNL che disciplina chi monta le ruote di una moto, chi quelle di Maserati ghibli.
Sono cose diverse, non possono coesistere.
21) Che cosa è cambiato dopo le Vertenze di Pomigliano e Mirafiori?
Per il sindacato, che ha fatto una scelta coraggiosa, è cambiato molto. E’
cambiato il modo di rapportarsi, sono cambiati i prodotti, il piano strategico di
Fiat rispetto ai propri stabilimenti in Italia. Non so se non ci fossero state che
cosa Fiat avesse fatto, non voglio pensarci.
22) Prospettive alla luce del nuovo contratto e dell’acquisizione di Chrysler?
Il nuovo contratto va nella direzione che le stavo dicendo, di avere sicuramente
avanti una soluzione nelle aree dove stiamo lavorando in Africa, dei risultati,
dovuti anche alla crisi, non ancora sufficientemente adeguati. EMEA perde soldi,
quindi è chiaro che se un contratto, e un contratto deve riconoscere ai lavoratori
anche i risultati di un’azienda, l’azienda in questo momento fa fatica a trovarli,
quindi certamente deve essere un rinnovo di un contratto che deve essere di
prospettiva. Noi abbiamo presentato a Maggio di quest’anno un piano strategico
che va fino al 2018 che vede in Italia una forte responsabilità, dico io di
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sviluppare e fare una serie di prodotti per il risultato di questo piano. Questi
risultati, che saranno raggiunti, dovranno dare un beneficio per tutti. Noi stiamo
cercando, con le organizzazioni sindacali, il modo e i meccanismi per realizzare
un contratto che abbia questa prospettiva sul piano Fiat, quindi un contratto non
più annuale, come era nato il CCSL, ma un contratto di prospettiva triennale
dove, in questo triennio, viene, da una parte riconosciuta la situazione attuale e
ragionare su un paradigma diverso, cercando di riconoscere gli sforzi e i successi
raggiunti e i miglioramenti fatti all’interno dell’azienda. Un primo embrione, se
vuole, lo abbiamo già avuto, quello del premio sul WCM. Lì ci stiamo
indirizzando. Avevamo definito che il WCM riconoscesse, anche da un punto di
vista economico, il livello raggiunto, quello oro, argento e bronzo, e questo ha
pagato all’interno degli stabilimenti tutti quelli che hanno raggiunto questi
risultati. Portare un’evoluzione a questo meccanismo, calzarlo e calarlo in
maniera più puntuale può essere un ulteriore miglioramento e sicuramente
anche un acceleratore del WCM.
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Luciano Massone
(Capo del World Class Manufacturing EMEA
Region & WCM Dev.Center VP)
1) Che cos’è il World Class Manufacturing? Quali sono state le principali
innovazioni introdotte dal WCM?
È un programma, un sistema di regole e di opzioni, tools, metodologie che nel
complesso agite in un certo modo, perché la parte più importante di questo
programma sono i dieci pilastri manageriali che hanno la stessa dignità dei
pilastri tecnici. E’ l’unico Production System presente al mondo oggi che ha un
bilanciamento importante tra manageriali e tecnici. Normalmente, i sistemi che
si vedono in giro, sono molto focalizzati sulla tecnica. Noi ci siamo concentrati
molto su come far capitare le condizioni che volevamo fossero alla base del
nostro sistema. E’ un sistema che si nutre del coinvolgimento delle persone, si
nutre della conoscenza, quindi, ha dentro un sistema di knowledge management
molto importante e si nutre della diffusione della conoscenza. Noi abbiamo un
internal-facebook dentro l’azienda con la quale connettiamo tutti i paesi del
mondo, tutti gli stabilimenti, che sono 230, dove ognuno può postare un quesito
e viene aiutato dal tutto mondo affinché lui possa risolvere il problema. Un
sistema di common-knowledge, sulle best pratices, sugli standard, anche quello
si nutre di una serie di coordinate, ove puoi farti aiutare direttamente da colui il
quale ha pensato quella cosa perché la porti anche in un altro posto. È un
sistema di misura, di metrica su tutto quello che si fa. Il sistema di misura e di
audit dà anche la qualità di quello che stai facendo. La cosa importante è che in
un sistema, normalmente, per essere un sistema capace, questo deve avere
all’interno una serie di ecosistemi che rendono il sistema capace, con un sistema
di misure, con un sistema di audit e con un sistema anche sanzionatorio. Alla fine
dell’anno mettiamo in graduatoria i nostri plant. I migliori tre o cinque vengono
298
premiati, gli altri vengono puniti, nel senso che si rimuovono e si cambiano i
team, si fanno delle correzioni affinché questi possano riprendere a correre
l’anno successivo. È un sistema competitivo e meritocratico che vale per le
persone, per i plant e per i manager.
2) Come vede il WCM? Qual è la sua percezione?
È diventato un sistema maturo, sicuramente tra i più maturi tra quelli che ci sono
in giro, proprio per le connotazioni che abbiamo detto prima. Si è nutrito di tutta
quella parte manageriale di cui non si sono potuti nutrire gli altri sistemi.
È un sistema riconosciuto perché ormai non c’è più discussione, nel senso che sia
gli shareholders i planner manager, la popolazione intera di chi fa industria sa di
che cosa stiamo parlando quando parliamo di WCM. Ha garantito un comune
linguaggio anche da un punto di vista tecnico. Il WCM ha 350 tools, è un sistema
ricco di knowledge, che fa dialogare tutti usando un linguaggio comune e questa
è una altra cosa importante. Per quanto riguarda il coinvolgimento delle persone,
questo sistema è riuscito a coinvolgere oggi, all’interno della Fiat, il 100% delle
persone. Puoi intervistare l’ultimo operaio che ti dice che la settimana scorsa ha
fatto quattro suggestions e ha partecipato a tre o quattro major kaizen.
3) Quali sono state le motivazioni che hanno portato ad adottare il WCM? Per
iniziativa di chi?
Sono state la non competitività del sistema manifatturiero o che nel 2004, con
uno spietato benchmarck, fece fare il dottor Marchionne sbattendoci in faccia
quali sono stati i risultati, parte sempre da una base. Quando nel 2004 arrivò il
nuovo amministratore delegato, il mondo intero ha vomitato numeri. E quando
abbiamo visto che, rispetto ai nostri competitors, eravamo molto indietro, si è
deciso di avviare un programma di rottura. Il WCM, di tutti i sistemi che abbiamo
valutato, abbiamo fatto becnhmarck su metodi, c’era sembrato il sistema più
299
adatto, soprattutto per la robustezza della parte manageriale che ci avrebbe poi
consentito di spingere in un certo modo in un paese occidentale. Io sono stato in
Giappone, ho vissuto lì e uno dei collanti di questi sistemi sono la religione, la
cultura, l’appartenenza e, quindi, questa roba qua bisognava realizzarla con un
sistema che facesse “push”.
4) Quali sono state le difficoltà connesse all’implementazione del WCM?
Le difficoltà sono state tante, caratterizzate da una scarsa comprensione di
quella che era la filosofia del miglioramento continuo che proponeva questo
modello. Sono state delle difficoltà legate alla gestione delle relazioni industriali
con il sindacato; vi sono state delle difficoltà anche a livello operativo, farlo
comprendere alle persone, ai nostri capi che si poteva operare in maniera
totalmente differente. Ci sono state delle difficoltà di interpretazione, di quello
che si voleva fare del management. Come al solito, quando c’è un momento di
rottura, le cose che si sono sempre fatte, c’è stato un momento di grande
difficoltà. Le difficoltà bisogna leggerle tutte e quante insieme, come un grande
elefante, poi bisogna affettare l’elefante e mangiare un pezzettino alla volta.
5) Qual è la situazione attuale all’interno del gruppo rispetto alla
sperimentazione del WCM nei vari stabilimenti? Perché alcuni stabilimenti
sono più avanti e altri no? dipende dalla capacità dei lavoratori, dal
management aziendale?
Sicuramente dipende da un molteplicità di fattori. Quelli nei quali sono stati
impattati da grandi livelli di innovazione; sui quali noi abbiamo investito in
formazione, in training, anche nella messa a disposizione dei migliori manager
che avevamo; quelli nei quale è, ovviamente, ancora in corso un processo di
ristrutturazione o addirittura hanno avuto molta discontinuità lavorativa o dove
hanno avuto una continuità con il passato che non è stata mai rotta. Devo dire
300
che tutte le company al mondo hanno stabilimenti che sono più avanti e altri che
sono più indietro. Non è facile sopportare una rivoluzione culturale come questa
nell’insieme.
6) Dobbiamo ancora dimostrare di essere come i giapponesi? Nel senso che
dobbiamo ancora migliorare il livello di credibilità e di fiducia in un contesto
sempre più competitivo e concorrenziale?
Il Giappone ha dalla sua un sistema-paese. Quindi, dal momento che ho vissuto lì
e mi sono formato lì, il Giappone produce un sistema scolastico meritocratico e
selettivo. Lì non si può scegliere che cosa fare da grande ed è nel percorso
scolastico che una persona viene indirizzata a fare un mestiere, piuttosto che un
altro. Le sue caratteristiche vengono individuate nel mondo della scuola e viene
indirizzato. Non è la persona che sceglie. Lei decide di mettersi nella barca che è
sul fiume e poi strada facendo. E’ indipendente dalla persona. Se poi si va a
vedere che cosa produce quella scuola, è un elite estremamente raffinata. Non è
un caso che i migliori ingegneri poi nascono da lì. C’è una cura maniacale del
dettaglio. Il sistema scolastico è estremamente ricco, perché gli investimenti nel
mondo scolastico li fa l’impresa. Vengono educati a questo dettaglio a questa
cura, a questa religione del lavoro fin dall’inizio. Lavorare lì è fantastico, non
bisogna convincere qualcuno a fare qualcosa, è un mondo ideale. Con il
sindacato si dialoga benissimo perché le posizioni sono intercambiabili e, quindi,
tutti hanno fatto esperienze sedendo nelle varie parti del tavolo. Il sindacato
gioca la stessa partita che gioca l’azienda, perché è l’azienda che deve vincere sul
mercato, gli avversari sono fuori dall’azienda. Con questa cultura giapponese non
si ci combatte dentro, ma si combatte con quello che è fuori, e questo non è una
roba da niente. Qui, per fare il WCM, abbiamo dovuto investire per dieci anni per
creare questa cultura rispetto che in Giappone. Quando il sistema-paese produce
delle persone con un grado di interpretazione del chanchelled e, con questa
301
ferocia e questa determinazione nel voler giocare quella partita lì, devi poi solo
fare il contorno. Quando invece devi creare il sistema, la visione è un po’ diversa.
7) La produttività sta migliorando? La qualità del prodotto è migliorata? Vi è
realmente una riduzione degli sprechi?
La qualità è un altro mondo. La riduzione degli sprechi anche. Il nostro
amministratore delegato ha detto che sprecare è anetical, quindi i guasti, gli
sprechi sono stati classificati come anetical. Oggi, non è più un’azienda che
lavorava sul mettere d’accordo, su mettere le pezze. Le macchine hanno
continuità e un’efficienza. Ci sono degli stabilimenti dove il livello di sicurezza è
invidiabile. Ci sono stabilimenti dove è da cinque anni che non capita un
infortuni. E quindi cambiato l’intero mondo a livello di qualità. La difettosità si è
ridotta a minimi termini, è un sistema che nella sua globalità. Mentre dieci anni
fa il manufacturing era un costo, oggi è un centro di profitto. Qui dentro noi
abbiamo un training consultant. Noi facciamo consulenza esterna per i terzi e
abbiamo un attivo rilevante,. La manifattura non produce solo per Fiat, noi
facciamo automobili per Ford, Peugeout, Citroen, in Canada per Volkswagen. Se
qualcuno ti dà, da fare la sua automobile e tu ne ricavi un beneficio, significa che
sei diventato talmente bravo a fare quella roba che la fai meglio di lui e che ci
ricavi anche dei denari. Ecco, dieci anni fa, questa cosa era impensabile. Oggi è
così! Facciamo motori per noi e ne facciamo di più per darli a terzi. Se c’è
qualcuno che ci compra un motore vuol dire che quel motore è meglio del suo,
quindi la situazione si è ribaltata completamente.
8) Il WCM ha portato ad un miglioramento delle condizioni di salute e sicurezza
del posto di lavoro? A tal proposito, nel quadro del WCM, è stato inserito un
sistema specifico chiamato Ergo-Uas, mi può spiegare nel dettaglio in che cosa
consiste questa nuova metrica? Consente di eliminare tutto ciò che nei
302
movimenti dei lavoratori è considerato uno spreco e con ciò di aumentare la
produttività?
Assolutamente sì! Da lì siamo partiti. Il WCM ha affrontato, prima ancora di
affrontare gli aspetti più complessi e tecnici, la sicurezza, l’ambiente del posto di
lavoro. Pulizia, ordine, messa in sicurezza degli impianti e delle persone, formare
le persone sulla sicurezza. Abbiamo fatto un programma che è costato
tantissimo. Abbiamo formato tutte le persone per avere figure professionali, il
capitano della sicurezza per rendere pervasivo ed invasivo l’approccio alla
sicurezza, e oggi le condizioni sono completamente diverse. Abbiamo fatto
grossissimi investimenti sull’ergonomia di processo. Abbiamo finanziato una
cattedra all’università di Torino che non aveva una cattedra di ergonomia di
processo. Oggi esiste grazie a noi, e l’abbiamo alimentato con contributi e
consulenze delle più prestigiose università oggi presenti al mondo. Abbiamo
pagato noi la consulenza affinché venissero professori di altre università e oggi
noi ci stiamo alimentando dei dottorandi che escono da quel percorso per
rivedere il nostro processo, per arricchirlo nei contenuti. Oggi noi abbiamo tutte
le stazioni di lavoro che sono state governate con un approccio ergonomico fin
dal momento in cui sono state pensate. Un tempo si faceva l’impianto, si
sceglievano gli uomini che avrebbe potuto lavorare lì dentro. Oggi si ristruttura il
processo all’origine facendo questo mestiere a monte. E nel momento in cui si
faceva la WPI vengono ad operare anche i lavoratori, gli operai della linea che
danno i loro suggerimenti e i loro contributi, fin dal momento in cui si sta
pensando quel processo produttivo con quel prodotto, e ciò non era mai stato
fatto prima.
9) Come valuta il rapporto con i lavoratori? Questi concorrono alla definizione
degli obiettivi e dei valori aziendali? Quali sono le loro priorità? E quelle
dell’azienda?
303
Sicuramente il rapporto con i lavoratori è molto diverso da quello di ieri.
Abbiamo ricevuto un milione e mezzo di proposte, a livello di partecipazione. Se
può essere espresso da un indicatore, abbiamo un indicatore di assenteismo che
è terzo o un quarto rispetto a quando siamo partiti in questa grande avventura e,
nelle fabbriche più evolute, quelle gold per intenderci, come Gian battista Vico,
gli indicatori di partecipazione sono rilevanti, anche sulla parte del sociale
interno abbiamo messo su un’ingegneria all’interno dei pilastri del WCM, che
hanno dato il loro contributo.
10) Il coinvolgimento dei lavoratori è un elemento essenziale data la
vulnerabilità del programma? Che cosa fate per favorire il loro coinvolgimento?
Quali sono i principali strumenti che vengono adottati per motivare/valorizzare
i lavoratori all’interno della nuova organizzazione?
Sì, c’è tutto un sistema di riconoscimento che, ovviamente, dal percorso di
carriera che può fare il lavoratore, se mostra di avere un certo tipo di approccio
al lavoro e un certo numeri di contributi, c’è il riconoscimento sulla base della
suggestion, c’è un riconoscimento sulla base del kaizen che ha proposto,
vengono dati premi tipo gadget vari; se funziona la proposta che ha fatto,
vengono date una tantum; se la proposta è interessante, vengono fatti
partecipare a visite in fabbriche estere per stimolare la vena creativa. Il
lavoratore più capace è quello che ruota su più postazioni e, quello che diventa il
cambista, quello che da il cambio alle persone, può diventare poi team leader e
poi, può diventare capo Ute.
La cosa importante è essere riconosciuto come meritevole di queste attenzioni.
Ci sono una serie di azioni che vengono fatte ove il gruppo riconosce il contributo
distintivo delle persone che poi vengono premiate.
11) Rispetto al pilastro “People Development”, investite nella formazione e
nell’addestramento dei dipendenti dal momento che per produrre beni di alta
304
qualità ad un basso costo in tempi brevi è necessaria una forza lavoro
altamente motivata e competente?
È fondamentale! Senza farlo, non si riuscirebbe ad avere questi risultati.
Mediamente, in ogni programma nuovo che variano, c’è una quota
considerevole di training, formazione, di partecipazione a tutte le attività che
vengono fatte attraverso il coaching. Ci sono diversi sistemi di gestione del
training. Noi abbiamo il training in aula per dare il knowledge di base; il training
on the job che è quello che si fa sulle postazioni di lavoro. Ma in mezzo, c’è tutta
una serie di momenti di training fatti in ambienti asettici, non sulla linea, ma
dentro il nuovo mini plant, c’è un training che facciamo nelle accademy, sempre
in un ambiente diverso da quello del lavoro, apprendi in aula determinati
concetti e li sperimenti come un gioco per poi arrivare al training job sulla linea
che è fatta più in condizioni di lavoro che di start-up. Anche l’ingegneria del
training è molto maturata in questi ultimi, per non parlare di tutto il training che
facciamo sul management per creare la condizione culturale a coloro i quali
devono gestire tutto il processo che sono gli ingegneri, i capi Ute, gli ingegneri di
processo.
12) Secondo lei il modello adottato consente di superare quelle relazioni
manager-dipendenti di tipo rigidamente gerarchico e di adottare invece un
clima aziendale stimolante e pacificato che consente una sorta di fusione tra gli
obiettivi dell’impresa e i bisogni dei lavoratori?
Assolutamente sì! Ha abbattuto tutte le barriere della vecchia gerarchia.
Quest’ultima non c’è più, nel senso che la fabbrica è molto più schiacciata, ci
sono gli operai, ci sono i capi Ute, ci sono i team leader, questa è una fabbrica
che aveva sette livelli.
305
13) In seguito all’introduzione del WCM, il modello partecipativo si è realizzato
concretamente o ancora vi è una partecipazione debole?
Al momento si è realizzato completamente. Poi ci sono stabilimenti in cui c’è una
maggiore maturità, e quelli in cui c’è una minore maturità. Però, non ci sono oggi
stabilimenti che sono rimasti fuori dal programma e, anche quelli con una minore
maturità, hanno delle medie di partecipazione che sono sopra le medie di
mercato, e questo anche in Italia è stata una sfida perché le reazioni che
abbiamo avuto inizialmente in Polonia e in Turchia siamo a livello di venti
suggestions per person, bene al di sopra del miglior benchmarck possibile. La
cosa interessante è vedere che siamo al di sopra dei diciassette, diciotto plant in
Italia, siamo sotto i dieci degli stabilimenti che sono un po’ più resistenti.
14) In questo nuovo modello quanto conta il dialogo con il sindacato? E il suo
coinvolgimento?
Il sindacato è sempre parte in causa. Il sindacato vive la fabbrica. I rappresentanti
sindacali vivono all’interno della fabbrica, quindi, non possono essere a lato da
questo punto di vista del processo. Quello che è capitato in tutti questi anni, è
che c’è stata una sana contrapposizione. Non è stato compreso immediatamente
il modello. Oggi c’è una maturità. Riceviamo delle proposte dal sindacato,
lavoriamo all’interno delle commissioni con il sindacato. In fabbrica c’è un clima
completamente diverso da quello rispetto a cui siamo partiti.
15) Quali potrebbero essere le azioni concrete per migliorare il rapporto con il
sindacato?
Sicuramente training, formazione. Per poter cambiare culturalmente bisogna
avere gli elementi che caratterizzano questo cambiamento. L’esperienza che ho
avuto negli Stati Uniti è stato determinante. Quando noi siamo partiti anche loro
306
non avevano nessuna conoscenza di sistemi di questa natura. L’hanno scelto
perché, pragmaticamente, hanno visto che era efficace e quindi si sono posti
immediatamente il problema di come far partecipare le persone all’interno della
fabbrica e come renderle partecipanti attivi, come renderli attori e quindi come
gestire e come operare con loro un programma di formazione adeguato che li
rendesse interlocutori credibili, come fare in modo che loro e le loro rispettive
aree di lavoro fossero operativamente messe in condizione di lavorare. In
Americana, noi abbiamo fatto un Accademy. Quest’ultima l’ha voluta il sindacato
prima ancora della Chrysler. L’Accademy degli Stati Uniti di Warren l’ha
finanziata il sindacato. Quest’ultimo ha fatto lavorare l’Accademy anche per
formare le sue persone. C’è stato un grande commitment. Questi grandi
cambiamenti, anche sul piano sindacale, non si realizzano se non c’è
commitment, e il commitment per il sindacato sono le segreterie generali, sono i
capi intermedi, cioè la stessa struttura dell’azienda se vogliamo. Il taglio delle
strutture che è stato fatto in azienda, non è stato fatto, parimenti, nel sindacato.
E’ ancora molto gerarchico il sindacato. Io credo che potrebbe anche lui fare una
sana riforma per essere più efficace e interloquire territorialmente e per
stabilimento, al fine di generare la stessa condizione di partecipazione.
16) Prospettive alla luce del nuovo contratto e dell’acquisizione di Chrysler?
Un’azienda unica, che sia capace di mettere insieme processi trasversali e globali
al punto di realizzare una migliore condizione per il cliente finale dovunque esso
si trovi. Una supply chain capace di governare tutti i processi logistici, una
capacità di gestire il management a livello globale in modo che in ogni angolo del
mondo siano capaci di identificarsi in questa nuova realtà.
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Interviste Lavoratori Fiat Chrysler
Automobiles
Pino Di Castri
(Operaio Mirafiori Carrozzeria)
Antonella Palumbo
(Operaia Miarfiori Carrozzeria – Montatura)
Giuseppe Buscicchio
(Operaio Mirafiori Carrozzeria–Verniciatura)
Claudia Di Rosso
(Impiegata strutture centrali Fiat Chrysler
Automobiles)
308
Pino Di Castri
(Operaio Mirafiori Carrozzeria)
1) Che cos’è secondo lei il World Class Manufacturing? Come vede il Wcm? Qual
è la sua percezione?
È un metodo di lavoro che sta applicando Fiat e non solo. Il WCM, per come
l’hanno spiegato, se viene applicato in maniera corretta, può essere un buon
metodo per i lavoratori. Questo fa riferimento alle posture, una riduzione di tutte
quelle malattie patologiche che vengono fuori facendo sempre delle mansioni
ripetitive, soprattutto negli arti superiori.
2) Prima si lavorava in un modo, adesso che cosa è cambiato?
Il lavoratore non lo percepisce. Ci sono, ad esempio, di tutti i materiali a portata
di mano, lo sforzo è minore. Però, c’è uno stress maggiore. È aumentato lo stress
psicologico perché avendo tutto lì a portata di mano, hanno risicato un po’ i
tempi e quindi se, mentre prima facevo due passi, adesso non li faccio. I passi
servivano proprio allo stacco dai movimenti. Non so se è meglio l’uno o l’altro.
3) Il WCM ha portato ad un miglioramento delle condizioni di salute e sicurezza
del posto di lavoro? A tal proposito, cosa ne pensa del sistema Ergo-Uas? Ha
portato ad una riduzione della fatica dello stress, e delle malattie di tipo
muscolo-scheletrico?
Sì, sicuramente. È stato positivo.
309
4) In seguito all’introduzione del WCM, quale settore è migliorato
particolarmente? Ambiente/sicurezza/pulizia/ordine/fatica/tempi
Ambiente e sicurezza soprattutto. Pulizia ottima, anche l’ordine.
5) Secondo lei il lavoro diventa più autonomo e intelligente? oppure soltanto
più gravoso, o forse entrambe le cose insieme?
Non diventa autonomo. Noi non siamo autonomi. Però più intelligente sì.
6) Dato il principio di rotazione delle mansioni, è in grado di operare su
differenti postazioni di lavoro? Questo permette di rompere la routine della
ripetizione delle stesse operazioni?
Sicuramente sì. Anche se l’azienda non è in grado di applicarlo come vorrebbe.
7) Il WCM porta realmente ad una riduzione degli sprechi? La qualità del
prodotto è migliorata?
Sì, penso entrambi.
8) Come valuta il rapporto con i superiori (capi UTE e manager)?
È soggettiva la cosa. Come in tutti gli ambienti di lavoro c’è la simpatia e non.
Non dovrebbe esserci, però c’è. Ci deve essere un rapporto umano. Rispetto a
qualche anno fa è migliorato, sotto alcuni punti di vista, sotto altri, è diventato
più rigido perché, dal momento che siamo in un periodo di crisi, a volte la casta è
usata come clava sui lavoratori, come ricatto.
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9) L’azienda si preoccupa dei vostri bisogni?
Direi di no.
10) Fate delle proposte di miglioramento?
Queste non sono una novità, già c’erano. si potrebbe fare di più. Il lavoratore
deve essere molto più coinvolto. Speriamo che questo avvenga. Vediamo se
l’azienda vuole. Poi c’è da dire che l’azienda è fatta di uomini, c’è una gerarchia a
volte, questa gerarchia interrompe questi processi perché trovi la persona che
non riesce a capire il modo con cui si deve porre al lavoratore.
11) È soddisfatto delle ricompense/premi che da l’azienda a seguito dei
suggerimenti che fornite per migliorare il lavoro?
Assolutamente no! Della maglietta o del gadget non ce ne facciamo niente. Il
lavoratore porta delle modifiche dove l’azienda risparmia milioni di euro. Il
lavoratore ha bisogno di denaro.
12) Sebbene vi sia libertà di proporre soluzioni, anche innovative, qualsiasi tipo
di cambiamento deve passare attraverso il vaglio di tutta una serie di livelli
gerarchici aziendali prima che possa essere implementato?
L’azienda deve prendere in considerazione soprattutto proposte di miglioramento
sulla sicurezza. Quando il lavoratore fa una segnalazione, già quella è una
proposta. Ovviamente l’azienda vuole che tutti lavoriamo in sicurezza, perché
qualcuno potrebbe incorrere in qualche denuncia. Se io posso fare una proposta
in cui l’azienda effettivamente dice, si risparmia il minimo, non la prende neanche
in considerazione. Quindi la proposta non è soltanto, io lavoro meglio, deve avere
311
anche un abbattimento dei costi. Poi ci sarà la persona che la valuterà, e se è
positiva verrà applicata e viene premiato.
13) Sono i team leader a decidere quali procedure di lavoro possono essere
modificate e in che modo?
Assolutamente no! Il lavoratore la fa, poi sarà il team leader che di fatto la
porterà al capo Ute. Quest’ultimo la porterà alla tecnologia che se ne occuperà, e
la tecnologia valuterà se questa effettivamente è buona oppure no.
14) Secondo Lei, in seguito all’introduzione del WCM, il modello partecipativo si
è realizzato concretamente o ancora vi è una partecipazione debole?
Attualmente è abbastanza debole.
15) Forme di disaffezione, quali la non partecipazione alle attività di
miglioramento continuo della qualità, l’assenteismo, lo sciopero, vengono
praticate?
Non è più così. Il lavoratore si mette in mutua se ha un problema di salute.
16) È soddisfatto della sua ricompensa economica?
No. Marchionne ha detto che ci avrebbe portato ai livelli dei tedeschi di 2000
euro al mese. Metalmeccanici come me che montano le macchine, il lavoro è
identico.
17) Se dovesse dare un voto all’azienda da una scala da una 1 a 10, quanto gli
darebbe? Questa azienda è un buon posto di lavoro?
312
L’azienda, la valuto positivamente, perché è un’azienda che dà lavoro.
Guardandomi in giro chiudono le aziende. E’ vero che abbiamo fatto cassa
integrazione, ma non è stato chiuso niente, a parte Termini Imerese ci potrà
essere qualche sbocco. Alla fine la valuto positivamente perché non ha dismesso
nessun stabilimento.
18) Come vede il rapporto con il sindacato? È necessario per lei la presenza del
sindacato oppure preferisce interagire direttamente, cioè attraverso
un’interlocuzione diretta?
Io potrei anche interagire personalmente, ma non tutti sono in grado di farlo. Il
sindacato ci vuole, deve crescere. È vero che c’è una disaffezione da parte del
sindacato in generale. Poi c’è stata la crisi, che è portata da tante cose, ma se
non ci fosse il sindacato sarebbe molto peggio.
19) Quando ci sono dei problemi il sindacato ne discute con l’azienda ed
insieme cercano di risolverli oppure deve scendere a patti con l’azienda?
Certo, ci sono delle commissioni che sono istituite per fare questo.
20) Secondo lei, con l’implementazione del WCM, l’azienda sta cercando di
“individualizzare” sempre di più il rapporto con il lavoratore? Senza
l’intromissione del sindacato?
Penso di no, anche se vuole escludere il sindacato. Ma non penso che riesca a fare
una cosa del genere.
313
21) Qual è il rapporto tra le varie organizzazioni sindacali? Cercano un dialogo
e di collaborare tra di loro?
Pessimo, perché sono in troppi e ci dovrebbe essere soltanto un sindacato di
categoria. Queste divisioni non portano a nulla. Andrebbe riformato, ma è
difficile, non avverrà mai, secondo me.
22) Come vede le RSU ? Vi è una disponibilità immediata delle RSU all’interno
dell’azienda?
Sì di molti sì. Anche lì poi è soggettiva la cosa. C’è la rsa ipocrita che si fa i fatti
suoi e ci sono poi, quelli che si mettono a disposizione dei lavoratori.
23) Cosa ne pensa dell’acquisizione di Chrysler?
Dieci anni fa era impensabile che fiat potesse acquistare un’azienda, qualsiasi
essa sia, soprattutto americana, è incredibile. La General Motors voleva in
qualche modo acquisire la Fiat. È stata pagata una penale per non farci
acquistare e da lì poi ci sono stati tutti una serie di progetti che ci hanno portato
ad acquisire Chrysler. È fantastica la sopravvivenza di entrambe!
314
Antonella Palumbo
(Operaia Mirafiori Carrozzeria - Montatura)
Giuseppe Buscicchio
(Operaio Mirafiori Carrozzeria – Verniciatura)
1) Che cos’è secondo voi il World Class Manufacturing?
Entrambi: E’ un modello di gestione aziendale, una tesi che ha lanciato
Marchionne, è una modalità di lavoro.
2) Come vedete il Wcm? Qual è la vostra percezione? Prima si lavorava in un
modo, adesso che cosa è cambiato?
Lei: Sicuramente una cosa positiva. Rispetto a vent’anni fa, quando c’erano le
malattie professionali perché comunque si lavorava con carichi di lavoro diversi,
era diversa la catena di montaggio. Oggi dovrebbe essere positiva perché con la
ASL di mezzo, l’Ergo-Uas è proprio una materia d’ingegneria, bisogna calcolare
leve, posture, ci formule, è quasi matematica. Dovrebbe essere poi attuata nella
maniera giusta proprio per evitare le malattie professionali.
Lui: È migliorato tantissimo l’aspetto lavorativo a livello di postazione di lavoro,
che può aiutare tantissimo la condizione lavorativa del lavoratore.
3) Il WCM ha portato ad un miglioramento delle condizioni di salute e sicurezza
del posto di lavoro? A tal proposito, cosa ne pensate del sistema Ergo-Uas? Ha
portato ad una riduzione della fatica dello stress, e delle malattie di tipo
muscolo-scheletrico?
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Entrambi: Sì, assolutamente sì, molte malattie professionali.
4) In seguito all’introduzione del WCM, quale settore è migliorato
particolarmente? Ambiente/sicurezza/pulizia/ordine/fatica/tempi
Lei: Sicuramente l’ambiente e l’ordine. Anche se la cosa fondamentale del WCM
deve essere la postazione di lavoro. Da noi, sia in montaggio, sia in verniciatura,
c’erano delle postazioni rosse. Quando si faceva un’analisi e si andava ad
analizzare la postazione, questa poteva essere gialla, verde o se era rossa era
tutta da rivedere. Queste sono migliorate. Parliamo, attenzione, di uno
stabilimento dove in questo momento è chiuso, perché carrozzeria sono 3 anni
che non lavoriamo, lavoriamo a step, un tot di giorni al mese e quindi è tutto da
rivedere con la nuova vettura. Per quanto riguarda la vecchia catena di
montaggio, dove comunque le cose sono migliorate.
Lui: L’aspetto è globale della cosa, non solo a livello di postazione di lavoro ma
bensì anche di pulizia, sicurezza. Un contenuto a 360 gradi.
5) Secondo voi il lavoro diventa più autonomo e intelligente? oppure soltanto
più gravoso, o forse entrambe le cose insieme?
Lei: Sicuramente più intelligente, fare delle proposte. Non è più come una volta
che ti mettevi lì in catena di montaggio, ti facevi 8 ore e facevi sempre quello e
non eri tenuto a pensare. Oggi ci sono proprio delle postazioni in cui puoi
compilare un modulo, puoi fare appunto una proposta di miglioramento.
Lui: L’aspetto è molto più positivo. Sei già più qualificato e quantificato, sai già
come che stai facendo. In passato mettevi una vite e non sapevi quello che stavi
facendo, oggi sai il tuo posto di lavoro, e sai quantificare, quel tipo di vite, un tipo
di sigillatura, insomma puoi migliorare il tuo posto di lavoro.
316
6) Dato il principio di rotazione delle mansioni, siete in grado di operare su
differenti postazioni di lavoro? Questo permette di rompere la routine della
ripetizione delle stesse operazioni?
Lei: In pratica sì, perché ogni lavoratore, comunque, ha la possibilità. Certo è il
capo che ti inserisce in un certo sistema, di poter lavorare su più postazioni. Non è
il WCM che ti porta a fare più mansioni. Quando fai un corso di formazione hai in
quella settimana la possibilità di apprendimento e da lì puoi fare diverse
mansioni. Con il WCM, puoi lavorare in base al WCM, alla possibilità del
lavoratore.
Lui: Questo metodo di lavoro ha migliorato molto l’aspetto lavorativo, nel senso
che se tu sei una persona idonea, ti può permettere di essere un “jolly”, nel senso
che puoi fare qualsiasi tipo di postazione, ruotare nella giornata nell’arco di otto
postazioni, cosa che prima magari non si faceva. Questo metodo di lavoro
migliora l’aspetto migliorativo.
7) Il WCM porta realmente ad una riduzione degli sprechi? La qualità del
prodotto è migliorata?
Entrambi: Per quanto riguarda la riduzione degli sprechi sì. Per quanto riguarda
la qualità del prodotto bisogna vedere su quale piano la vogliamo mettere,
profilo aziendale, profilo politico, dovrebbe essere così. La qualità deve
migliorare, è fondamentale.
8) Come valutate il rapporto con i superiori (capi UTE e manager)?
Entrambi: L’azienda è cambiata molto su questo rispetto a dieci, quindici anni fa.
C’è anche più competenza. Sono materie dove bisogna studiare, analizzare, tutto
fa il suo percorso, in meglio, c’è la tecnica, la teoria e la pratica. Chi è sul lato
pratico, come noi operai, confrontarci con chi la guarda dal lato tecnico,
317
comunque c’è un confronto. Non è detto che quello che è su carta sia giusto e in
pratica vada tutto nel verso giusto, non è così. Bisogna trovare una via di mezzo,
perché sulla carta è molto semplice, nella pratica non è sempre così.
9) L’azienda si preoccupa dei vostri bisogni? Quali sono le vostre priorità? E
quelle dell’azienda?
Entrambi: L’assenza dalle postazioni di lavoro per qualsiasi bisogno privato.
10) Quali strumenti vengono adottati dall’azienda per motivare/valorizzare voi
lavoratori all’interno della nuova organizzazione? Vi sono meccanismi di
incentivazione e di gratificazione?
Entrambi: Prima davano un compenso monetario per la proposta di
miglioramento che era andata a buon fine. Adesso no.
11) Sebbene vi sia libertà di proporre soluzioni, anche innovative, qualsiasi tipo
di cambiamento deve passare attraverso il vaglio di tutta una serie di livelli
gerarchici aziendali prima che possa essere implementato?
Entrambi: Sì, c’è una burocrazia, si dovrebbe cercare di ridurla un pò. Adesso c’è
stata una riduzione dei livelli gerarchici perché nello stacco dall’operaio al
dirigente c’erano troppo figure, e quindi adesso parecchie neanche esistano più.
12) Sono i team leader a decidere quali procedure di lavoro possono essere
modificate e in che modo?
Entrambi: No, c’è il capo Ute e il capo Officina che decidono in quella Ute quale
scelte fare, non ha potere decisionale.
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13) Secondo voi, in seguito all’introduzione del WCM, il modello partecipativo si
è realizzato concretamente o ancora vi è una partecipazione debole?
Entrambi: Partecipazione debole perché è una materia difficile, occorre tempo.
Non è una materia che si può solo studiare, ma è una materia pratica, bisogna
praticarla sul luogo di lavoro. Bisogna essere molto più partecipativi, molto più
elastici tra azienda, sindacato e chi c’è al lavoro. Altrimenti, sono cose che
rimarranno soltanto scritte e non si potrà vedere la praticità sul posto di lavoro.
14) Forme di disaffezione, quali la non partecipazione alle attività di
miglioramento continuo della qualità, l’assenteismo, lo sciopero, vengono
praticate?
Entrambi: Una volta c’era lo sciopero, è cambiato il sistema, mettiamola così. I
nostri genitori hanno fatto tanto per acquistare diritti che oggi noi abbiamo e li
hanno acquistati con lo sciopero, la marcia dei quarantamila. Poi, se ci sono delle
cose errate, il sistema lo troviamo. Nessuno ha il diritto di calpestare il diritto di
un essere umano, non siamo macchine o robot.
15) Siete soddisfatti della vostra ricompensa economica?
Entrambi: No, si tratta di lavori usuranti, che fa i turni, che si alza alle 4.00 del
mattino tutti i giorni per tutta la vita. Siamo in una catena di montaggio, non è
un lavoro di scrivania. Dovrebbero pagarci di più, oppure ricompensarci in
maniera diversa.
319
16) Se dovreste dare un voto all’azienda da una scala da una 1 a 10, quanto gli
dareste? Questa azienda è un buon posto di lavoro?
Entrambi: La sufficienza, c’è ancora da fare. È un buon posto di lavoro, questo sì,
E’ un colosso nazionale. Abbiamo sempre detto un governo dentro un governo.
Non c’è stato un controllo e questo ci ha portati allo sbaraglio. Alcuni nostri
politici, non si sono resi conto che quello che non è stato fatto dalla Fiat ha
lesionato il sistema nazionale e oggi ne stiamo pagando le conseguenze. La Fiat
era l’indotto che c’era intorno, adesso non esiste più e questo dobbiamo
ringraziare i nostri politici.
17) Come vedete il rapporto con il sindacato? È necessario per voi la presenza
del sindacato oppure preferite interagire direttamente, cioè attraverso
un’interlocuzione diretta?
Lei: È importantissimo il sindacato. Per noi lavoratori è uno strumento che
abbiamo a disposizione. Quindi, fare da portavoce all’azienda, il sindacato ci deve
essere, anche se qualcuno cerca di debellarlo, soprattutto i giovani non credono
più nel sindacato, ed è sbagliato perché comunque è il portavoce del cittadino e
del lavoratore.
Lui: Anche perché noi serviamo all’azienda, per gli accordi, andiamo a prendere
atto, anche se non è questo il nostro lavoro, ci stanno dando ancora fiducia.
18) Quando ci sono dei problemi il sindacato ne discute con l’azienda ed
insieme cercano di risolverli oppure deve scendere a patti con l’azienda?
Entrambi: Certo, si cerca di arrivare ad una mediazione, nel senso di risolvere il
problema. Il sindacato non deve scendere a patto con l’azienda.
320
19) Per quanto riguarda gli strumenti, cioè meccanismi di tipo partecipativo,
funzionano le commissioni paritetiche?
Entrambi: Sì, funzionano. Ci sono degli incontri.
20) Secondo voi, con l’implementazione del WCM, l’azienda sta cercando di
“individualizzare” sempre di più il rapporto con il lavoratore? Senza
l’intromissione del sindacato?
Entrambi: Purtroppo sì. È normale che l’azienda cerchi di mettere da parte il
sindacato per avere un rapporto direttamente con il lavoratore. A volte sì.
21) Qual è il rapporto tra le varie organizzazioni sindacali? Cercano un dialogo
e di collaborare tra di loro?
Entrambi: A volte sì, a volte no, dipende dalla motivazione, non abbiamo tutti le
stesse idee, il sindacato ha la sua linea politica. Si ci parla se è un problema che
dobbiamo condividere insieme, ma di certo non si va a braccetto.
22) Come vedete le RSA ? Vi è una disponibilità immediata delle RSU all’interno
dell’azienda?
Entrambi: Come lavoratori dovremmo rivolgerci alla nostra rsa, quindi per far
portavoce con l’azienda per problematiche che abbiamo, quindi sì.
23) Che cosa è cambiato dopo le vertenze di Pomigliano e Mirafiori? Si dice che
siano stati cancellati “diritti e garanzie” per i lavoratori
Entrambi: No, non è cambiato niente. Come si lavorava prima si lavora adesso.
Un piccolo inconveniente è che adesso c’è un contratto che ci lega con l’azienda
321
che abbiamo firmato. Se prima avevi un esigenza, magari il capo Ute e del
Personale erano più rigidi, adesso sono finite, nel senso che adesso poni il
problema, hai delle tue regole ma anche dei vincoli che abbiamo firmato per
salvare i posti di lavoro. Per quelli che dicono, come la Cgil e la Fiom, che
abbiamo firmato questi accordi, lo abbiamo fatto per firmare i posti di lavoro. Ci
sono degli aspetti migliorativi come ad esempio la postura, l’Ergo-Uas, rispetto
agli anni precedenti.
24) Cosa ne pensate dell’acquisizione di Chrysler?
Lei: La rispondo a livello personale e non come lavoratrice o delegata sindacale:
secondo me Marchionne ha dovuto fare questa scelta per il sistema politico e
governativo che c’era al momento, infatti sono state spostate le sedi legali e ecc.
Marchionne ha spostato la parte più importante all’estero. Le vetture che fa in
Chrysler le potevamo fare anche qui in Italia, però è stata fatta questa scelta. Il
Governo che c’è stato allora non ha fatto nulla per mantenere la fabbrica Fiat qui
in Italia, parliamo del Governo Berlusconi.
Lui: Oggi Fiat, 108 anni di azienda, oggi la Fiat che ha comprato Chrysler è stato il
massimo. Oggi ci chiamiamo Fiat-Chrysler. Io non penso che questa sia l’ultima
operazione che farà Marchionne. Penso che oggi, per stare sul mercato, ti devi
per forza alleare, come le altre case, se vuoi rimanere sul mercato. Oggi dire che
la Fiat ha comprato Chrysler, mi sento più sicuro a livello lavorativo. Se fosse
stato solo Fiat per me, oggi, poteva essere pericoloso. La possono vedere in
diversi modi, come uno spreco di denaro. Quando si faceva sindacato, allora, si
diceva che le macchine piccole danno il lavoro. Oggi il mercato è cambiato,
l’esigenza del cliente è cambiata. Oggi c’è il polo del lusso. Quando facevo la
Panda, nessuno comprava le macchine del segmento C o del segmento B, perché
non attiravano. Oggi c’è il polo del lusso e all’estero questo tipo di macchina è
apprezzata. Quindi quando partirà Mirafiori, potremo fare un lancio come la
Maserati. C’erano dei pregiudizi quando è stata avviata la Ex Bertone, però gli
322
esiti sono stati positivi. Firmando il contratto sono stati dati dei posti di lavoro. Mi
sarebbe piaciuto sentire solo il nome Fiat, ma adesso anche se si chiama Fiat-
Chrysler la cosa è indifferente perché ha permesso di salvare posti di lavoro.
Adesso si stanno facendo dei sacrifici, si lavora lì anche il sabato in Maserati, si
vuole fare ciò, anche per garantire un qualcosa per le nuove generazioni.
Non sono io che devo difendere Fiat, perché ha pregi e difetti, io penso che i lavori
lì stiano facendo. Il problema è quando facciamo la macchina, quella è la cosa
importante. Per quanto riguarda i sindacati, quelli della Fiom, un punto
d’incontro non lo vogliono trovare, dicono di no a tutto, poi se le cose vanno male
loro dicono “ma io lo avevo già detto”.
323
Claudia Di Rosso
(Impiegata strutture centrali Fiat Chrysler
Automobiles)
1) Che cos’è il World Class Manufacturing?
É un sistema, un nuovo tipo di organizzazione del lavoro che si prefigge
principalmente due fini: la riduzione degli sprechi e una maggiore competitività
nei mercati. Poi ovviamente legato ci sono altre cose, ma se vogliamo sintetizzare
queste sono le due cose più importanti.
2) Come vede il WCM? Qual è la sua percezione?
Devo dire che il WCM, dove sono io, non è entrato. Lo conosco perché l’ho un po’
studiato e conosciuto, però, da me, si dovrebbe fare più che altro il World Class
Tecnologies, che poi non è partito tra gli impiegati e non ho capito il perché.
Come WCM, i nostri colleghi, che studiano le linee di lastratura, applicano delle
cose che sicuramente sono necessarie nelle fabbriche, ma io direttamente non lo
conosco. Secondo me è uno strumento che, se ben impiegato, è molto utile a
raggiungere un livello di competitività con le altre aziende, ma soprattutto a dare
l’innovazione del progresso. Per me è un sistema per raggiungere la cosiddetta
“fabbrica del futuro”. È un buon sistema.
3) Il WCM ha portato ad un miglioramento delle condizioni di salute e di
sicurezza del posto di lavoro? A tal proposito, cosa ne pensa del sistema Ergo-
Uas? Ha portato ad una riduzione della fatica dello stress e delle malattie di
tipo muscolo-scheletrico?
324
Io lavoro come RLS, rappresentante per la sicurezza dei lavoratori. Sicuramente
ha avuto, soprattutto per quanto riguarda l’ergonomia, dei fattori positivi.
Sicuramente ha portato dei grandi miglioramenti per quanto riguarda la postura
e anche per quanto riguarda la sicurezza a livello generale. Uno dei pilastri del
WCM è il safety.
4) In seguito all’introduzione del WCM, quale settore è migliorato
particolarmente? Ambiente/sicurezza/pulizia/ordine/fatica/tempi
Quello che ho percepito, sempre incrociando gli operai, e che mi ha colpito che
molti parlano di più luminosità, non sono più ambienti bui, sono più puliti. Quello
che io ho percepito da loro e che le postazioni sono più pulite, c’è luminosità, la
postazione di lavoro è migliorata, devono spostarsi di meno, hanno tutto a
portata di mano e questo può evitare malattie che potevano manifestarsi nel
tempo.
5) Secondo lei il lavoro diventa più autonomo e intelligente? oppure soltanto
più gravoso, o forse entrambe le cose insieme?
Se la persona recepisce bene il WCM, la persona assume un ruolo importante nel
migliorare lui stesso, la postazioni di lavoro. C’è valore aggiunto da parte
dell’operaio, con tutta la sua capacità, con tutta la sua esperienza che si è fatto.
Può incidere in questo WCM, può suggerire dei miglioramento affinché tutto
diventi più snello, più veloce, più attento alla sicurezza, con molta riduzione degli
sprechi. E’ un ruolo che l’operaio può giocarsi bene.
6) Il WCM porta realmente ad una riduzione degli sprechi? La qualità del
prodotto è migliorata?
325
Sicuramente la riduzione degli sprechi ci sarà stata, ma fino a che il WCM non
verrà esteso a tutti gli attori, è chiaro che una buona riduzione degli sprechi non
è ancora effettiva. A livello di officina, immagino di sì, e lo dicono gli operai.
Dovrebbe ampliarsi, e a quel punto, quando toccherà tutti i poli, tutte le persone
che fanno parte di quel lavoro, potrebbe rilevarsi un effettivo sistema per ridurre
gli sprechi. Adesso è entrato nelle fabbriche più nuove ma non toccate altre
persone che comunque ci lavorano in fabbrica.
7) L’azienda si preoccupa dei vostri bisogni? Quali sono le vostre priorità? E
quelle dell’azienda?
L’azienda in questo momento è attenta al bisogno e alla vita dell’operaio. Non
sono sicura che sia attenta anche alla vita dell’impiegato. Secondo me c’è questo
divario, un po’ causato dalla differenza di culturale. L’impiegato ha una culturale
un po’ da arrogante, pensa di potersi risolvere il problema da solo quindi, il
rapporto che l’operaio ha con la struttura nel cercare di portare i problemi e
farseli risolvere, l’impiegato non ce l’ha, proprio per la presunzione che io posso
risolvere i problemi. Un altro aspetto è che l’operaio fa squadra c’è un concetto
di insieme. Tra gli impiegati non c’è, ed è uno scoglio. Bisognerebbe far fare un
corso di comunicazione a tutti. Qui il corso di comunicazione, non si capisce bene
come viene gestito, ma certo non cade capillarmente su tutti. In questo corso, in
cui io ero l’unica donna in una platea di uomini, ho percepito che lavorare in
team è un ostacolo. Io ho l’impressione che gli operai in squadra lavorino meglio
rispetto agli impiegati in squadra.
8) Quali strumenti vengono adottati dall’azienda per motivare/valorizzare voi
lavoratori all’interno della nuova organizzazione?
Gli aumenti sono fermi in seguito alla crisi. C’è solo un sistema di valutazione tra
gli impiegati che è stata estesa a tutti gli impiegati. In realtà è usata male perché
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diventa uno strumento per incentivare qualcuno al posto di qualcun altro. È utile,
ma viene usato male, ci sono pochi soldi, non ci soldi e quindi viene utilizzato
male.
9) Secondo Lei, in seguito all’introduzione del WCM, il modello partecipativo si
è realizzato concretamente o ancora vi è una partecipazione debole?
Il sistema partecipativo, penso, sia stato ben iniziato, capito e somatizzato da
alcune sigle sindacali e alcuni delegati. Trova difficoltà a decollare perché è una
società che in questo momento è individualista, c’è arroganza. Dal punto di vista
sindacale, è ancora visto come quello che ti crea problemi, quindi non è
completamente decollato. Io ci credo moltissimo. Io lo sto applicando, infatti
cerco di essere partecipativa, però c’è ancora un grosso passo culturale da fare
che paradossalmente tra gli operai che con gli impiegati, te lo dico da impiegata.
10) È soddisfatto della sua ricompensa economica? Vi sono possibilità di
crescita professionale all’interno dell’azienda?
Io sono inquadrata come assistente, che in Italia non ha ragione di esistere.
Quindi sono una segretaria, e da lì non mi muovo. Io non mi posso aspettare
nulla, però spero che l’azienda posso riqualificarmi per farmi fare altre attività. In
questo ho fiducia.
11) Se dovesse dare un voto all’azienda da una scala da una 1 a 10, quanto gli
darebbe?
C’è una parte dell’azienda che ha una mentalità molto propositiva, culturalmente
già avanzata; e una buona fetta Fiat che ha ancora una mentalità della vecchia
Fiat. Alla ricerca di Alberto Cipriani sul WCM, l’azienda si è messa positivamente,
quindi potrei darle un bel sette o otto. Su altri aspetti la sufficienza. C’è chi crede
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in questo cambiamento e in questo rinnovamento, e c’è, invece, chi tira ancora
indietro.
12) Questa azienda è un buon posto di lavoro?
Sì, lo è. L’azienda gioca sul ruolo. In un periodo in cui le altre aziende hanno
chiuso, questa azienda ha continuato a garantire il posto di lavoro a tutti. Quindi
è ancora un buon posto di lavoro.
13) Come vede il rapporto con il sindacato? È necessario per lei la presenza del
sindacato oppure preferisce interagire direttamente, cioè attraverso
un’interlocuzione diretta?
A me piacerebbe tanto un sindacato unitario. Io sono per un sindacato, dove il
sindacalista lavora in azienda, lavora con gli altri e per gli altri, non per una punta
di voglio farmi vedere, voglio fare carriera. Io sono fuori dagli schemi dei vecchi
sindacalisti. Quello che sento adesso dai miei colleghi, è che sono bacchettati
perché il sindacato vien identificato come quello che non ha voglia di lavorare,
un fancazzista. Io sono invece per la parte attiva, un sindacato alla tedesca,
partecipativo, dove partecipa realmente alla vita dell’azienda. Questo tipo di
sindacato fa bene al lavoratore e permette all’azienda di essere competitiva, non
il sindacato alla vecchia maniera, tutti fuori i cancelli.
14) Quando ci sono dei problemi il sindacato ne discute con l’azienda ed
insieme cercano di risolverli oppure deve scendere a patti con l’azienda?
Io e la FIM, sicuramente cerchiamo il tavolo. Portiamo il problema e delle
possibili soluzioni. Quando mi portano il problema cerco di capire in che misura
è, quanti lavoratori colpisce, ascolto le soluzioni. Io non vedo nell’azienda il boia
cattivo, ma vedo nell’azienda, l’azienda che fa il suo lavoro io il mio e troviamo
328
una soluzione, per il bene il tutti. E secondo me è ancora fattibile, solo che
purtroppo, vuoi per un certo sindacato del passato, vuoi perché gli errori sono
stati fatti, la gente oggi lo schifa abbastanza. Ti parlo dei miei impiegati e non dei
quadri, perché è passato l’idea che i quadri sono un sindacato e non è vero, e se
vai dai quadri loro sono amici dell’azienda quindi tu non ti fai nemico con
l’azienda. Quindi già un partenza sbagliata. Ognuno ha bisogno di giocare il
proprio ruolo, ma di parlarci e di confrontarci, e poi se passi dai quadri sei visto di
buon occhio.
15) Per quanto riguarda gli strumenti, cioè meccanismi di tipo partecipativo,
funzionano le commissioni paritetiche?
Abbiamo qualche difficoltà. L’azienda cerca di interpretarla a modo suo, invece
sono degli ottimi strumenti di lavorare. Perché anche qui, se l’azienda si fidasse
del sindacato e viceversa, sarebbe un campo su cui confrontarsi per risolvere i
problemi. Facciamo l’esempio della commissione assenteismo: l’azienda ti
convoca, ti da dei dati, ma tu non sai se c’è una maggiore concentrazione di
assenteismo in un’aria, piuttosto che un'altra. Non ti da gli strumenti per poter
interagire, tende ancora a manipolare e gestirsi la situazione da sola.
16) Secondo lei, con l’implementazione del WCM, l’azienda sta cercando di
“individualizzare” sempre di più il rapporto con il lavoratore? Senza
l’intromissione del sindacato?
C’è una fetta di azienda che lo fa ancora, ma io sono fiduciosa che i rapporti
cambiano. C’è l’altra fetta che ha un’idea di partecipazione.
17) Qual è il rapporto tra le varie organizzazioni sindacali? Cercano un dialogo e
di collaborare tra di loro?
329
Io, finora, con i coordinatori delle altre sigle, ho fatto un buon lavoro. Sono
riuscita a metterli insieme. Non so abbia giocato anche il fatto di essere donna e
quindi a portare un po’ l’idea della donna in mezzo agli uomini. Sono riuscita a
farli calmare un attimo, a farli incontrare e capire meglio. Ogni sindacato ha una
sua ideologia. Se fossimo un po’ più a rete sarebbe diverso, e su questo l’azienda
ci gioca.
18) Come vede le RSU ? Vi è una disponibilità immediata delle RSU all’interno
dell’azienda?
Io vedo in certi ambienti che la donna viene ancora limitata, come se non avesse
la competenza di gestire alcune cose. Fa fatica ad imporsi. Oggi ha lo spazio per
muoversi, dipende dalla persona. L’ambiente Fiat è particolare, bisogna acquisire
un certo modo di comportarsi, di dialogare, e, in questo, le rsa della Fim abbiano
capito come muoversi in questo senso partecipativo. Le rls, dovrebbero
ragionare non a livello di sigla ma di sicurezza.
19) Cosa è cambiato dopo le vertenze di Pomigliano e Mirafiori?
Non è cambiato niente. Per la FIOM, noi siamo quelli che stiamo dietro l’azienda.
Io li vedo come un gruppo di persone che non sanno sottostare a certe regole. È
cambiato che adesso lavorano per i fatti loro, ma non vedo risultati. Vedo gli altri
sindacati che cercano di parlarsi e di fare delle cose insieme. Loro sono sempre
sul pian di guerra. A me non danno fastidio, io parlo con tutti, loro sono molto
rigidi sulle loro posizioni.
20) Cosa ne pensa dell’acquisizione di Chrysler?
Penso che se non si fossero fatti alcuni ragionamenti, adesso non si potrebbe
neanche parlare di Fiat. Partiamo con l’idea che l’azienda è azienda e fa il suo
330
ruolo. Sicuramente nel suo gioco si preoccupa dei sui investimenti, dei suoi soldi
e forse meno dell’operaio, però è anche vero che gli stabilimenti sono stati
salvati. Tutto quello che hanno detto che avrebbero fatto l’hanno fatto. Mirafiori
sta partendo; Maserati è già avviato. Molto dipende dall’andamento del
mercato. Il popolo Fiat che frequento, vede soltanto all’interno di Fiat. Questa
azienda deve essere vista in un insieme globalizzato. Di quello che sta
succedendo fuori, gli altri, non si sono fatti problemi a chiudere. Quello che è
stato messo sul tavolino si sta facendo, non vedo tutta questa negatività. La
negatività l’avrei vista se adesso fossero chiusi i cancelli. C’è questa disaffezione
perché la gente è diventata un po’ stronza. Ci sono epoche ed epoche. È molto
più facile dal brutto andare al bello e non viceversa. Bisogna tornare a mettere il
lavoro al centro e tornare a lavorare, accontentandosi di una vita basata su cose
semplici. Non si può rimanere fermi, ma cambiare, crescere. Se non fosse stato
così oggi che cosa si farebbe.
331
Considerazioni conclusive
Negli ultimi cinquant’anni abbiamo assistito ad una vera e propria
rivoluzione del mondo delle fabbriche, legate a fattori economici,
tecnologici e sociali. L’industria dell’automobile è stata per molti anni la
più rappresentativa dell’evoluzione dei processi produttivi, dell’ambiente
di fabbrica e della relazione tra fornitori e clienti finali.
La maggior parte dei processi industriali ha raggiunto livelli di
automazione importanti, specialmente nelle aree che devono garantire
stabilità e qualità del prodotto, ovvero per la riduzione della fatica degli
operai e per assicurare a quest’ultimi un ambiente di fabbrica sicuro con
rischi di infortuni ridotti al minimo. Indubbiamente il livello di
automazione raggiunto è frutto di tutta una serie di cambiamenti
progressivi consentiti dall’avvento di nuove tecnologie, ma gli aspetti
organizzativi e gestionali hanno giocato e continueranno a giocare un
ruolo fondamentale nell’evoluzione degli ambienti di fabbrica,
soprattutto per quanto riguarda il rapporto uomo-macchina ed il livello
di coinvolgimento del management nell’impostazione e gestione dei
processi produttivi.
Oggi, le realtà industriali tendono quindi ad attuare un processo di
organizzazione che non guarda più soltanto all’introduzione di nuove
tecnologie ma bensì alla sperimentazione di nuovi “modelli organizzativi
del lavoro umano”, che portano ad una diversa combinazione tra lavoro
e tecnologia, maggiore partecipazione dei lavoratori, formazione, nuova
visione dei rapporti tra management aziendale e sindacato.
La ricerca sottolinea i profondi cambiamenti che sono avvenuti
nell’organizzazione del lavoro in fabbrica a partire dalla sperimentazione
del “World Class Manufacturing” avviata nel 2006 dal Gruppo Torinese.
332
Un primo dato significativo mostra come le innovazioni organizzative
abbiano portato ad un miglioramento oggettivo delle condizioni di
lavoro, ad un ambiente idoneo per le esigenze del lavoratore, che si
traducono in una maggiore attenzione alla pulizia ed alla luminosità degli
ambienti, un miglioramento delle condizioni di salute e di sicurezza del
posto di lavoro, con una maggiore attenzione per quel che riguarda
l’ergonomia delle postazioni abbinata alla metrica.
Oltre alle innovazioni organizzative, il World Class Manufacturing mira a
ricostruire e a migliorare il rapporto tra direzione aziendale e lavoratori,
vi è una maggiore propensione dell’azienda verso le esigenze dei
lavoratori, soprattutto per quel che riguarda la sicurezza e l’ergonomia
del posto di lavoro, training, formazione sui principi e gli strumenti del
World Class Manufacturing, partecipazione attiva e coinvolgimento dei
lavoratori alle attività di miglioramento continuo. Dall’altra parte, i
lavoratori riconoscono che vi è stato un miglioramento generale delle
condizioni di lavoro, lo sforzo fisico è diminuito anche se lo stress tende
a permanere, il lavoro diviene più intelligente, anche se quello che
sembra mancare è un adeguato sistema di ricompense a seguito dei
suggerimenti che forniscono per migliorare il lavoro, un rapporto con
l’azienda che rispetto al passato è migliorato anche se in alcuni casi
permangono ancora delle logiche particolaristiche, una partecipazione
debole in quanto è un metodo di lavoro che richiede di essere studiato e
praticato quotidianamente e soprattutto richiede un rapporto “elastico”
tra azienda, sindacati e lavoratori.
La diffusione del World Class Manufacturing ha richiesto non soltanto
un forte livello di partecipazione e di coinvolgimento dei lavoratori ma
ha introdotto grandi trasformazioni nella rappresentanza sindacale. Il
sindacato, infatti, sta vivendo oggi più che mai una fase di notevole
333
trasformazione rispetto alle esperienze precedenti assumendo delle
caratteristiche strutturali nuove, da organismo di tipo tradizionalmente
“conflittuale” a “sindacato partecipativo”.
Questo apre nuovi spazi di relazioni maggiormente consensuali o
partecipative tra management e sindacato all’interno dei luoghi di lavoro,
con il management alla ricerca di un partner affidabile (Streeck, 1987;
Fortunato, 2000). Il management ha spesso avuto bisogno di un certo
sostegno da parte delle rappresentanze sindacali per implementare con
successo i nuovi metodi di lavoro di produzione snella (Kochan,
Lansbury, MacDuffie, 1997). Lo stesso sembra valere oggi per
l’implementazione del programma World Class Manufacturing.
In questo quadro di trasformazione, il ruolo del sindacato è sempre più
cruciale nella misura in cui è chiamato a collaborare “responsabilmente”
e a partecipare attivamente alla ristrutturazione organizzativa.
Dalla ricerca è emerso che da parte del management vi è la volontà di
coinvolgere il sindacato, questo coinvolgimento tuttavia può avvenire
soltanto se, da una parte, il sindacato effettua una “rivisitazione” della
sua struttura che si presenta ancora oggi molto gerarchica, dal momento
che il taglio delle strutture che è stato fatto in azienda non è stato fatto
parimenti nel sindacato, e dall’altra, attraverso uno sforzo in termini di
commitment, di apprendimento e di formazione di quelli che sono i
principi del World Class Manufacturing, di quelli che sono i temi e i
problemi all’interno della fabbrica e infine un rapporto collaborativo tra
le diverse sigle sindacali, che si presenta ancora oggi molto frammentato
e diviso.
Dall’altra parte, vi è la considerazione da parte del sindacato che l’azienda
adotti un “approccio duale”, cioè che cerchi da una parte di
“individualizzare” con il lavoratore e dall’altra di dialogare con il
334
sindacato plasmandolo nella misura in cui gli è possibile (Fortunato,
2001). Quello che emerge è che il coinvolgimento del sindacato
all’interno dell’azienda è ancora abbastanza debole, fino ad ora quello
che è stato trattato nella contrattazione è solo un riconoscimento
economico a fronte di un risultato dello stabilimento nel suo insieme,
che porta ad assegnare delle medaglie e un premio economico per
ciascun lavoratore dello stabilimento.
Quello che sembra mancare all’interno di Fiat Chrysler Automobiles è
una “gestione partecipativa”, cioè di gestione delle problematiche
quotidiane, infatti, è interessante notare, come, a differenza degli anni
Novanta, in questo caso non ci sono commissioni o meccanismi in cui la
partecipazione è istituzionalizzata. Molti ritengono che in alcuni
stabilimenti vi sia un buon livello di concretezza per quanto riguarda le
commissioni, in molte realtà questo non avviene in quanto l’azienda
tende il più delle volte a comunicare, piuttosto che a dialogare o discutere
preventivamente di molti dei temi collegati al WCM.
In questa direzione, i sindacati seguono le decisioni dell’azienda si
adattano a questo modello spinti da esigenze di sopravvivenza piuttosto
che da un effettivo potere o capacità di tutelare i lavoratori. In questo le
nuove regole e il contratto dell’auto per FCA agevolano questa prassi.
È inoltre interessante notare nella ricerca, come al cambiamento della
natura del sindacato cambi anche l’idea della contrattazione, vi è sempre
di più la tendenza verso il decentramento della contrattazione collettiva.
La richiesta di un livello contrattuale aziendale è avvenuto a partire dal
2000 e si è concretizzato in diversi accordi separati tra Confindustria, Cisl
e Uil (e altre sigle) con l’astensione della Cgil, fino all’accordo sulle nuove
relazioni industriali del 2009. Nessuno di questi accordi ha soppiantato il
contratto nazionale di settore, ma è ovvio che la creazione di uno spazio
335
di contrattazione autonoma aziendale, nonché le possibilità di deroga al
contratto nazionale sono tutti elementi che hanno eroso potere e ruolo al
contratto nazionale. La vicenda della Fiat, con la scelta quindi di un
contratto di lavoro aziendale in sostituzione di quello nazionale e con
l’uscita poi da Confindustria per non sottostare all’accordo del 1993, è un
segno del cambiamento dei tempi, il contratto collettivo di lavoro ha
ancora un ruolo da ricoprire se saprà adattarsi alle nuove condizioni,
rivestendo un ruolo di guida e di riferimento anche per la politica
economica del paese.
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Indice
INTRODUZIONE ......................................................................................................... 1
CAPITOLO 1
1.1 L’evoluzione dell’organizzazione: dalla produzione artigianale al fordismo … ..... 6
1.2 Il post-fordismo: i pilastri del “modello giapponese”.............................................. 11
1.3 Il processo produttivo nella lean production ........................................................... 23
1.4 La struttura organizzativa della fabbrica integrata .................................................... 28
1.5 Le risorse umane e le relazioni industriali nella lean production .......................... 38
CAPITOLO 2
2.1 Il “World Class Manufacturing” come modo di lavorare ....................................... 53
2.2 Strumenti e metodologie ............................................................................................. 57
2.3 L’implementazione del World Class Manufacturing ................................................ 64
2.4 Il sistema Ergo-Uas ....................................................................................................... 66
CAPITOLO 3
3.1 Dinastia Agnelli .............................................................................................................. 75
3.2 Il nascere della crisi ....................................................................................................... 78
3.3 Le ragioni della crisi ..................................................................................................... 85
3.4 E poi arriva Marchionne............................................................................................. 105
3.5 Nasce Fiat Chrysler Automobiles (FCA) ................................................................. 125
CAPITOLO 4
4.1 Le relazioni industriali in Fiat .................................................................................... 128
4.2 Affare Chrysler e tentativi di acquisizione della Opel............................................ 175
4.3 Le Vertenze di “Pomigliano” e “Mirafiori” ............................................................ 184
4.4 Verso quale direzione sindacale: partecipazione o conflittualità? ........................ 203
CAPITOLO 5
5.1 Premessa ........................................................................................................................ 206
5.2 La Fiat Chrysler Automobiles di Mirafiori .............................................................. 208
5.3 L’impatto del World Class Manufacturing in termini di partecipazione sul
sistema aziendale ................................................................................................................ 210
5.4 L’impatto del World Class Manufacturing in termini di partecipazione sulle
relazioni industriali ............................................................................................................. 217
5.5 L’impatto del World Class Manufacturing in termini di partecipazione sui
lavoratori ............................................................................................................................. 225
Intervista Alberto Cipriani (Responsabile Fim-Cisl) .................................................... 232
Intervista Edi Lazzi (Segretario responsabile Fiom-Cgil) ............................................. 249
Intervista Flavia Aiello (Segretaria provinciale Uilm-Uil) ............................................. 268
Intervista Roberto Cortese (Responsabile relazioni industriali FCA-EMEA) .......... 279
Intervista Luciano Massone (Capo del WCM Region & WCM Dev. Center VP ..........
.............................................................................................................................................. 297
Intervista Pino Di Castri (Operaio Mirafiori Carrozzeria) .......................................... 308
Intervista Antonella Palumbo e Giuseppe Buscicchio (Operai Mirafiori
Carrozzeria Montatura e Verniciatura) ............................................................................ 314
Intervista Claudia Di Rosso ( Impiegata struttura centrali) .......................................... 323
Considerazioni conclusive ............................................................................................331
Riferimenti Bibliografici .............................................................................................. 336
1
Introduzione
Il lavoro di tesi entra nel merito delle trasformazioni legate
all’introduzione di nuove forme di organizzazione del lavoro e della
produzione, partendo dai temi classici dell’organizzazione scientifica del
lavoro, la fabbrica taylor-fordista, fino ad arrivare all’ultima frontiera dell’
organizzazione del lavoro e della produzione, il “World Class
Manufacturing”.
A partire dal 2006, in un contesto di crisi globale, il manager italo-
canadese Sergio Marchionne, si lancia in una vera e propria crociata per
l'aumento della produttività, adottando all’interno del Gruppo Fiat un
nuovo programma il “World Class Manufacturing”, un nuovo modo
guardare all’organizzazione, un metodologia di miglioramento continuo
delle prestazioni della fabbrica, attraverso cui si riescono ad ottenere
importanti vantaggi di competitività relativi a qualità, costi e tempi di
risposta. L’applicazione del WCM richiede che ognuno collabori alla
gestione dell’azienda, che ogni dipendente sia coinvolto nel
perseguimento rapido e continuo del cambiamento. È importante che i
miglioramenti all’interno dell’azienda siano introdotti con il
coinvolgimento dei lavoratori al fine di attivare una loro prima
mobilitazione intellettuale, attraverso il suggerimento di idee che le
persone stesse ritengono possano migliorare le loro condizioni di lavoro.
Altrettanto importante per un corretto funzionamento del programma
non è tanto quello di costruire un nuovo modello di relazioni industriali
ma quello di dare spessore a forme di partecipazione concrete, di aprire
dei canali di comunicazione e di dialogo costruttivi finalizzati alla ricerca
di compromessi tra l’azienda e il sindacato.
2
La tesi è strutturata in cinque capitoli (o parti) tra loro strettamente
collegati e interdipendenti. Nel primo capitolo si affronta il tema
dell’evoluzione delle formule organizzative. L’enfasi è posta sul rapporto
tra i vari modelli organizzativi, i fattori che ne hanno determinato il
superamento e la sostituzione con altri modelli più o meno innovativi
rispondenti alle esigenze del mercato. Per ciascuna tipologia sono state
ricostruite le principali caratteristiche organizzative, l’impatto della nuova
organizzazione e delle tecnologie disponibili sui lavoratori, le strategie
gestionali da parte della direzione. Si partirà dall’organizzazione
scientifica del lavoro, la fabbrica taylor-fordista, fino ad arrivare al
modello giapponese (lean production) che, a partire dagli anni Novanta,
ha rivoluzionato il settore dell’auto e sulla sua recente evoluzione nota
come World Class Manufacturing.
Nel secondo capitolo si entrerà nel dettaglio del World Class
Manufacturing, e in particolare delle tecniche e degli strumenti utilizzati,
delle fasi necessarie per la sua implementazione e un’ approfondimento
del sistema Ergo-Uas, utilizzato per migliorare le condizioni di salute e di
sicurezza dei lavoratori all’interno della nuova organizzazione.
Il terzo capitolo ripercorre la storia della Fiat, tutte le vicende che sono
ormai oggetto di attenzione da parte degli ambienti economici, sociali e
politici del paese, e soprattutto sui numerosi problemi che l’azienda sta
vivendo fino ad arrivare all’ingresso sulla scena, nel 2004, del nuovo
amministratore delegato Sergio Marchionne che ha risollevato le sorti
dell’azienda, la cui attenzione si è concentrata soprattutto sugli Stati Uniti
che è sfociata nel Gennaio 2014 nell’acquisizione di Chrysler, con la
nascita di “Fiat Chrysler Automobiles”, che ha segnato di fatto l’inizio di
un nuovo capitolo per l’azienda italiana.
3
Il quarto capitolo focalizza l’attenzione sul tema delle relazioni industriali
in Fiat, abbiamo cercato di offrire un’analisi della contrattazione
collettiva sindacale alla Fiat, partendo dagli anni Ottanta fino ad arrivare
ai giorni nostri, per comprendere appieno i cambiamenti in atto.
Cambiamenti che hanno portato, attraverso l’introduzione del nuovo
paradigma organizzativo del lavoro e della produzione (WCM), a un
modello di contrattazione collettiva che da “normativo” diventa
“partecipativo”.
Il quinto capitolo si riferisce alla ricerca empirica, dopo una breve
descrizione dello stabilimento Fiat Chrysler Automobiles di Mirafiori,
della realtà di fabbrica, e delle condizioni in cui perversa, le numerose
domande su cui si basa la ricerca tentano di ricostruire, a partire dai
luoghi di lavoro e dalle rappresentazioni sociali dei protagonisti, operai,
impiegati, manager e rappresentanti sindacali, le nuove prassi
organizzative e le dinamiche che si instaurano tra i diversi attori.
Obiettivi e ipotesi della ricerca
Particolare enfasi in questo studio sul World Class Manufacturing è posta
sulle relazioni che intercorrono tra azienda, sindacato e lavoratori nello
stabilimento di Fiat Chrysler Automobiles di Mirafiori.
È possibile osservare come l’azienda si stia dirigendo sempre di più verso
l’adozione di una strategia gestionale basata sulla flessibilità, sulla
riduzione dei livelli gerarchici, sul lavoro in team, sulla qualità totale ma
anche e soprattutto sulla partecipazione e formazione dei lavoratori
rispetto alle necessità produttive. Un aspetto particolarmente
interessante, in seguito all’introduzione del WCM, riguarda l’evoluzione
delle relazioni industriali che sembrano orientarsi verso nuovi scenari che
4
richiedono non soltanto la partecipazione collettiva sindacale, ma in
qualche modo determina il passaggio ad una forma di “sindacalismo
partecipativo”, vale a dire caratterizzato da un rapporto di forte
integrazione con l’azienda e soprattutto sulla eliminazione di ogni forma
di conflittualità.
A tal riguardo lo scopo della ricerca è quello di capire qual è il
collegamento tra questo nuovo paradigma organizzativo, sperimentato
dal 2006 in poi, e le relazioni industriali.
In particolare, se il WCM, centrato sul coinvolgimento attivo dei
lavoratori, richiede o meno l’intermediazione del sindacato. Quali
caratteristiche questo deve avere, partecipativo o conflittuale.
Qual è il ruolo del sindacato e la sua effettiva partecipazione all’interno
dell’azienda. Qual è il rapporto con l’azienda, se quest’ultima cerca il
rapporto con i sindacati oppure preferisce interagire direttamente con i
lavoratori. Se esistono ancora dei meccanismi di tipo partecipativo,
rappresentato dalle commissioni, se queste funzionano effettivamente o
il coinvolgimento del sindacato è soltanto formale.
Si cercherà dunque di capire quali sono i nuovi equilibri e le nuove
strategie manageriali finalizzate ad acquisire il consenso sui nuovi metodi
di produzione e come questo ha influito in modo determinante
sull’organizzazione e sulle modalità di azione del sindacato.
Considerazioni metodologiche e strumenti
Per quanto riguarda gli aspetti metodologici, la ricerca è stata svolta
attraverso delle interviste in profondità a rappresentanti sindacali, in
particolare al responsabile della Fim-Cisl, Alberto Cipriani, al segretario
della Fiom-Cgil, Edi Lazzi e alla segretaria provinciale della Uilm-Uil,
5
Flavia Aiello. Per quanto riguarda il Management Fiat Chrysler
Automobiles, il responsabile delle relazioni industriali FCA – EMEA,
Roberto Cortese, il capo del World Class Manufacturing EMEA Region
& WCM Dev. Center VP, Luciano Massone, e i lavoratori di Mirafiori
Carrozzeria, Pino Di Castri, Antonella Palumbo, Giuseppe Buscicchio e
l’impiegata delle strutture centrali Fiat Chrysler Automobiles, Claudia Di
Rosso.
I principali contenuti delle interviste hanno riguardato le strategie
manageriali legate alla nuova organizzazione del lavoro e della
produzione, le caratteristiche e i problemi legati all’introduzione del
World Class Manufacturing, le relazioni di lavoro, in termini di
coinvolgimento dei lavoratori, l’evoluzione delle relazioni sindacali, i
ruoli delle diverse figure, le forme della rappresentanza, le modalità e le
procedure dell’azione sindacale.
L’osservazione diretta all’interno dello stabilimento Maserati di
Grugliasco, mi ha inoltre permesso di capire come i lavoratori si
inseriscono all’interno della nuova organizzazione e come è cambiato
l’ambiente di fabbrica nel complesso.
6
Capitolo 1
Dall’organizzazione scientifica del lavoro (Taylor)
al “sistema produttivo Toyota”
1.1. L’evoluzione dell’organizzazione: dalla produzione
artigianale al fordismo
L’organizzazione di fabbrica, come organizzazione della produzione per
il mercato, nasce nel XVIII secolo. Tuttavia l’ampliamento e il controllo
della produzione da parte dell’imprenditore aveva già conosciuto una
forma che non richiedeva la concentrazione di mezzi di produzione e
persone, si trattava del putting-out system, in cui il lavoro veniva
effettuato da artigiani o braccianti che lavorano a domicilio usando
materie prime e telai di proprietà del mercante-imprenditore.
Il passaggio dal lavoro artigianale al lavoro in fabbrica avviene col
raggruppamento degli artigiani e dei macchinari in un unico complesso,
sotto un’unica direzione, appunto, la fabbrica, per dare più continuità,
precisione e maggiore regolazione al processo di lavoro attraverso la
disciplina del tempo rispetto all’inizio in cui la produzione procedeva a
sbalzi, per interruzioni, seguendo i ritmi di ciascun artigiano.
L’avvento dell’impianto produttivo moderno ebbe un enorme
impatto sociale descritto per la prima volta da Marx1. Venne innanzitutto
meno la possibilità di scegliere quando lavorare, se lavorare e anche se
lavorare di meno, rinunciando ad una parte del proprio reddito,
1 Fortunato V., Della Rocca G., «Lavoro e organizzazione. Dalla fabbrica alla società
postmoderna», Roma-Bari, Editori Laterza, 2006, p. 8
7
quest’ultima possibilità era consentita nel lavoro a domicilio ma non nella
fabbrica, il cui il tempo era disciplinato da orari di lavoro nella giornata o
nella settimana.
Le ragioni per cui la fabbrica surclassò il lavoro a domicilio non
sono tuttavia solo legate all’innovazione tecnologica, al controllo sul
come l’operaio lavorava o allo sfruttamento da parte del padrone
imprenditore. Mettere tutti i lavoratori sotto lo stesso tetto assicurava
una maggiore possibilità di trasmissione delle informazioni tra gli stessi
operai. La concentrazione in fabbrica serviva quindi a stimolare o
costringere gli operai appartenenti a diversi mestieri a interagire tra loro o
a rendere disponibili le loro conoscenze. Per costoro ovviamente la
fabbrica non rappresentava la sola possibile soluzione al problema, i
sindacati e le associazioni di mestiere (meccanici, macchinisti, tessitori,
fonditori, ecc.) avevano un ruolo importante nello scambio delle
conoscenze.
All’interno della fabbrica vennero quindi introdotte le prime
«macchine universali», che potevano essere adoperate per diverse
operazioni, vi è un rapporto uomo-macchina del tutto peculiare in cui
l’abilità, il mestiere del singolo operaio è ancora preponderante.
L’imprenditore sceglie cosa produrre e assicura le condizioni
generali della produzione, ma l’esecuzione del prodotto è in larga parte
lasciata all’autonomia e all’abilità professionale degli operai, nell’uso delle
macchine, organizzati in squadre. Queste sono composte da operai più
esperti e anziani, da apprendisti più giovani e da molti manovali non
qualificati che eseguivano i lavori più semplici. Gli operai dotati di
professionalità di questa fase, pochi rispetto ai manovali, sono chiamati
operai di mestiere.
8
Osservata con gli occhi della fabbrica che si è imposta nei decenni
successivi, essa appare alquanto «disorganizzata». Uno stesso lavoro
poteva richiedere tempi di attuazione differenti a seconda delle squadre,
essere fatto in modi diversi, essere diversamente remunerato a seconda
degli accordi del caposquadra con gli operai che lui stesso assumeva e
così via.
Da queste considerazioni nasce l’idea di introdurre un metodo
nell’organizzazione del lavoro, la proposta più compiuta fu la cosiddetta
organizzazione scientifica del lavoro (Scientific Management), ideata in
America da Frederick W. Taylor.
Taylor partì dall’idea che per acquistare efficienza era necessario
progettare un’organizzazione centralizzata, nella quale fossero
rigidamente divisi i compiti di decisione e pianificazione del lavoro
(spostati alla direzione) da quelli di esecuzione. Il processo complessivo
di lavorazione doveva essere smontato in una serie di operazioni
parcellizzate, ognuna (o una serie limitata) delle quali definisse un posto
di lavoro. Le singole operazioni potevano essere standardizzate,
fissandone tempi e metodi, e tenuto conto dello sforzo necessario,
Taylor propose un incremento del salario fino al 60% circa della paga
giornaliera, per il lavoratore che avesse eseguito fedelmente e nei tempi
unitari previsti i compiti definiti dall’ufficio.
Opportune tecniche di selezione e valutazione avrebbero trovato
«l’uomo giusto al posto giusto», diversamente remunerato a seconda
dell’apporto che dava alla produzione.
Tuttavia tutto ciò non bastò a evitare vivaci reazioni, perché il
nuovo metodo sottraeva ai lavoratori poteri e autonomia. Secondo molti
sociologi industriali e del lavoro la netta separazione tra la fase di
ideazione e la fase di esecuzione, affidata agli operai, segnò la fine di un
9
era nell’organizzazione del lavoro, svuotando il lavoro operaio di quei
contenuti intelligenti che erano alla base del «mestiere», sancendo il
passaggio dall’operaio professionale della manifattura al cosiddetto
operaio di massa. Concentrando le aeree vitali della pianificazione e del
design nelle mani della direzione, il taylorismo ha eliminato
un’importante fonte di potere e di conoscenza-controllo del processo
produttivo dalle mani dei lavoratori, generando una forza lavoro
dequalificata e meno costosa.
L’opera di Taylor costituisce tuttavia la base dalla quale riparte un
altro illustre personaggio dell’epoca: Henry Ford. Il grande successo di
Ford sta proprio nell’essere riuscito dove Taylor ha in qualche modo
fallito, vale a dire nell’adattare al lavoro operaio grandi masse
dequalificate (Accornero, 2002).
La nuova divisione tecnica del lavoro è organizzata attraverso la
catena di montaggio (assembly line): «un tipo di organizzazione del
lavoro per cui le diverse operazioni, ridotte alla medesima durata o ad un
multiplo o sottomultiplo semplice di tale durata, vengono eseguite senza
interruzione tra loro e in un ordine costante nel tempo e nello spazio».
Fig. 1.1 Catena di montaggio della Ford (Touraine, 1955)
10
La genialità di Ford è stata quella di comprendere ed esaltare gli enormi
vantaggi di un sistema quasi chiuso e massimamente stabile, questo ha
consentito l’enorme aumento della produttività anche grazie all’operare
di due meccanismi: la specializzazione dei compiti e la standardizzazione
dei componenti.
La specializzazione dei compiti richiedeva dai lavoratori una forma
di cooperazione passiva intesa come fedele esecuzione di quanto stabilito
dalle norme organizzative2.
La standardizzazione del prodotto, era quello di scomporlo in un
insieme di pezzi perfettamente intercambiabili e dotati di massima
predisposizione all’incastro, la cui differenziazione era riservata alla sola
fase finale di assemblaggio, il processo veniva quindi semplificato fino ad
arrivare a lavorazioni mono-prodotto a ciclo continuo.
La produzione in grandi quantità di prodotti standardizzati permetteva,
inoltre, di ridurre i costi unitari di produzione sfruttando le cosiddette
economie di scala.
Nascono in questo ambito i sindacati industriali, che organizzano sia gli
operai specializzati sia quelli comuni senza l’esclusione di nessuno. Si
estende come principio per la tutela del lavoro la contrattazione
collettiva, con essa gli operai acquisiscono diritti universali di tutela del
lavoro, quali quello del salario minimo, dell’orario standard massimo di
lavoro (8 ore giornaliere).
Intorno agli anni Settanta il modello fordista inizia ad entrare in
crisi per una molteplicità di motivi, primo fra tutti, la crescente pressione
del movimento operaio al fine di ottenere condizioni di lavoro migliori in
2 Fortunato V., Della Rocca G., «Lavoro e organizzazione. Dalla fabbrica alla società
postmoderna», cit., p. 35
11
un contesto che è pur sempre quello della fabbrica taylorista, alienante e
gerarchica. Con l’aumento poi dell’individualismo e del senso di identità
attraverso il consumo, le aziende hanno dovuto venire incontro ai nuovi
bisogni fornendo varietà e diversità in moltissimi tipi di prodotti. E
infine lo sviluppo dei paesi emergenti, che ha permesso alle nuove
industrie di produrre e immettere sul mercato esterno gli stessi prodotti
con un costo del lavoro inferiore, soddisfando, allo stesso tempo, la
nuova domanda di beni dei mercati interni.
1.2. Il post-fordismo: il “sistema produttivo Toyota”
La rigidità della fabbrica taylorista viene progressivamente sostituita dal
«sistema produttivo Toyota» o «sistema produttivo giapponese», punto di
riferimento delle grandi imprese internazionali, soprattutto nel settore
automobilistico. Il padre fondatore Taiichi Ohno, nel 1956, facendo un
viaggio in America per visitare gli stabilimenti di General Motor e Ford,
si rese conto che ciò che lo colpì di più erano i supermercati, nei quali
vedeva già realizzate alcune sue idee sul just in time.
“Combinare automobili e supermercati può sembrare una strana idea.
Tuttavia per molto tempo, dopo avere analizzato l’organizzazione di un supermercato
americano, studiammo le analogie tra quell’organizzazione produttiva e la produzione
di automobili per mezzo del just in time. Un supermercato è un luogo dove il cliente
può prendere ciò di cui ha bisogno nel tempo e nelle quantità desiderati”
… “Dal supermercato abbiamo così mutuato l’idea di concepire il processo che
sta ‘a monte’ nella linea produttiva come una sorta di negozio. Il processo che sta ‘a
valle’ (cliente) procede verso quello iniziale (supermercato) per acquistare i pezzi
12
necessari (merci) nei tempi e nella quantità desiderati. È allora che il processo iniziale
produce immediatamente la quantità appena prelevata (rifornimento degli scaffali)”
Fig. 1.2 I supermarket americani realizzano in parte il just in time con i cartellini (kanban)
Fonte: L. Pero, Taylor e Ford, World Class Manufacturing, 2008
Agli inizi degli anni Novanta è sembrato quindi che la produzione snella
(lean production), potesse dare un volto e una connotazione precisa al
nuovo modo di organizzare il lavoro e la produzione. In tale prospettiva,
il capitale umano, assume nuovi connotati che lo rendono la più
importante risorsa strategica all’interno della fabbrica.
Mentre la produzione di massa, standardizzata, era basata sull’idea
che si sarebbero trovati clienti per tutto ciò che si produceva, nella nuova
situazione si tratta invece di produrre soltanto quello che è già richiesto
dal cliente. Il nuovo modello organizzativo viene definito, da gran parte
della letteratura, come market driven ovvero guidati dal mercato e
dall’andamento della domanda in contrapposizione a una vecchia
13
concezione di produzione, quella dell’industria di massa, per cui era la
fabbrica e la sua produzione che guidavano il mercato3.
Nel fordismo le decisioni su cosa e quanto produrre erano fissate dalla
direzione «a monte», i componenti, i prodotti in fabbrica o da fornitori
esterni, affluivano nei magazzini e da qui passano all’assemblaggio lungo
la catena. Se le auto non venivano vendute subito, venivano parcheggiate
nei piazzali in attesa di essere vendute, mentre i componenti prodotti in
eccesso si accumulavano. Rovesciando lo schema organizzativo, con la
lean production, è l’ordinazione di un certo numero di auto pervenuta
agli uffici commerciali che mette in moto lungo la linea produttiva, la
richiesta dei diversi componenti, i quali vengono prodotti solo nella
quantità necessaria. In fabbrica non circola più nessun componente che
già non si sappia a che auto è destinato, è la cosiddetta produzione «just
in time», un principio cardine che regola gli approvvigionamenti di
materiali e componenti, in base al quale ogni attività lavorativa deve
essere alimentata con i componenti richiesti, nel tempo richiesto e nella
quantità esattamente richiesta per l’assemblaggio del prodotto finale. In
questo modo, ciascun componente arriva alle varie postazioni sulla linea
di montaggio nei tempi e nelle quantità designate soltanto quando vi è
una richiesta da parte del cliente, prevenendo la necessità di mantenere
scorte in magazzini o polmoni intermedi.
3 Fortunato V., Della Rocca G., «Lavoro e organizzazione. Dalla fabbrica alla società
postmoderna», cit., p. 56
14
Fig. 1.3 Eliminare magazzini e polmoni intermedi
Fonte: L. Pero, Taylor e Ford, World Class Manufacturing, 2008
Il just in time punta, infatti a ridurre i costi elevati di stoccaggio, tipici
della produzione di massa in grandi serie, attraverso la valorizzazione
solo di quelle operazioni in grado di generare effettivamente valore
aggiunto al prodotto ed eliminando ogni tipo di spreco (in giapponese,
“muda”).
Fig. 1.4 Attività “a valore aggiunto” e “non valore aggiunto”
Fonte: Metodi e strumenti per il Fiat Auto Production System, Fiat Group Automobiles,
2007
15
È spreco tutto ciò che consuma risorse, in termini di costo e tempo,
senza però creare valore per il cliente. Questi vengono classificati in sette
tipologie, tra cui la più grave è la sovrapproduzione, in quanto è
all’origine degli altri tipi di sprechi, in particolare delle scorte, dei difetti e
dei trasporti.
Fig. 1.5 I sette tipi di spreco
Fonte: Metodi e strumenti per il Fiat Auto Production System, Fiat Group Automobiles, 2007
16
Se il just in time rappresenta il pilastro dell’organizzazione del flusso e
del processo di produzione, lo strumento usato nella pratica per rendere
effettivo questo principio è rappresentato dal sistema di comunicazione
interna, “kanban”, che consente di stabilire i volumi produttivi
giornalieri.. È una forma di comunicazione, costituto da un punto di
vista materiale da un foglio di carta contenuto in un involucro di vinile e
recante una serie di informazioni, ma anche da segnali luminosi e sonori
che servono a controllare il rispetto dei tempi di lavoro e di consegna
previsti. In sostanza, il kanban opera come ordine di lavoro, e ciò si
traduce nel fatto che il segmento produttivo precedente deve fabbricare i
pezzi nella quantità indicata dal cartellino, ossia deve produrre
esattamente la quantità di merci prelevata dal processo produttivo
successivo, nel tempo indicato e rispettando i parametri qualitativi
stabiliti. Altra regola fondamentale è, infatti, quella che prescrive di non
consegnare nulla di difettoso alla stazione di lavoro successiva.
Fig. 1.6 Kanban - schema di funzionamento
Fonte: Confindustria Vicenza, Produzione snella. La riduzione degli sprechi nel reparto
produttivo, 2012
17
L’uso diffuso del kanban consente quindi di rovesciare l’intero sistema di
programmazione della produzione, si passa infatti da una logica push a
una logica pull.
La logica pull, che in inglese vuol dire “tirare” significa che i materiali
non devono essere spinti verso la produzione, ma è necessario adottare
un sistema che tiri i materiali verso la fabbrica. I materiali escono dai
magazzini e la produzione inizia in un determinato reparto solo quando è
richiesto da una operazione a valle o dalla domanda, cioè quando vi è
una richiesta di mercato. I risultati di tale approccio sono livelli inferiori
di scorte, migliore qualità del prodotto, flusso di produzione più
armonico, maggior coinvolgimento dei lavoratori.
Fig. 1.7 “Logica Pull”
Fonte: L. Pero, Taylor e Ford, World Class Manufacturing, 2008
Rispetto alla logica pull, che mantiene code di lavorazioni davanti
ciascuna macchina e cumuli di parti componenti in attesa di lavorazione.
I materiali dovrebbero essere spinti (to push,“spingere”) fuori dai
magazzini o dai reparti produttivi in base a prestabiliti programmi.
Magazzini polmone, tempi di anticipo di sicurezza e altre tattiche sono
18
spesso usate per assicurarsi che i materiali siano disponibili non appena
richiesti.
Fig. 1.8 “ Logica Push”
Fonte: L. Pero, Taylor e Ford, World Class Manufacturing, 2008
Dal momento che il kanban è la tecnica che consente di realizzare il just
in time, affinchè il sistema possa operare correttamente e in modo
efficiente, i processi produttivi devono essere articolati in modo da
ottenere il miglior livello possibile di continuità del flusso. Per realizzare
questa finalità e consentire la sequenza della produzione, la produzione
snella adotta la disposizione degli impianti ad U (in contrapposizione alle
linee di lavorazione meccanica e di montaggio allungate su di una linea
dritta), la cui caratteristica principale è data dal fatto che le entrate e le
uscite devono trovarsi l’una di fronte all’altra.
A ciascun lavoratore, addetto a più macchine, vengono assegnate un
numero variabile di operazioni. Con la disposizione ad U i lavoratori
possono parlarsi, vedere il prodotto in tutte le fasi e possono scambiarsi
tra di loro. Questa disposizione ha permesso una riduzione dei tempi
d’attesa, di stoccaggio e di trasferimento, e il lavoratore opera nella
19
condizione di dovere necessariamente massimizzare il suo tempo
operativo.
Le catene di montaggio moderne non sono né totalmente manuali né
totalmente automatizzate, ma degli “ibridi”, in cui l’uomo serve la
macchina (es. regolarla e controllarla), la macchina serve l’uomo (es.
spostare pesi), l’uomo fa quel che la macchina non sa fare (es. montaggi
interni), la macchina fa, quel che l’uomo non è capace di fare (es.
controllo elettronici).
La vecchia catena
manuale
La nuova catena
come ibrido-uomo
macchina
20
Il cambiamento si accompagna a molte altre innovazioni organizzative,
come il principio di «autoattivazione» (Jidoka), un particolare uso delle
macchine e del rapporto uomo-macchina diretto a permettere
all’apparato produttivo di retroagire con l’ambiente, intervenendo
direttamente nel caso si producano difetti del prodotto e auto-
correggendo l’errore in tempo reale, nell’esatto momento e nell’esatto
segmento del ciclo lavorativo in cui il difetto si è generato.4 In caso di
errore, la macchina che sta operando si ferma automaticamente, e allo
stesso modo, in caso di anomalie riscontrate in una fase di lavorazione
manuale, il lavoratore può interrompere la linea, intervenendo
tempestivamente, senza che gli errori si ripetano e si accumulino,
effettuando anche un controllo di qualità che prima veniva svolto solo
alla fine di una linea produttiva.
L’autoattivazione costituisce quindi uno dei principali fattori di flessibilità
del sistema, in grado di garantire il corretto e ininterrotto dispiegarsi di
un processo produttivo che, a differenza di quello fordista, si presenta
privo di “reti di salvataggio” (Bonazzi, 1993). L’autoattivazione si
propone i ovviare due punti di debolezza della produzione di massa, da
una parte la mancata possibilità di arrestare la catena di montaggio, anche
in presenza di difetti gravi, rimandando quindi la possibilità di interventi
correttivi alle fasi successive a valle del processo produttivo, dall’altra la
tendenza dei macchinari, dedicati alla produzione in grandi quantità, a
riprodurre e moltiplicare all’infinito i difetti perché incapaci di bloccarli
alla fonte. Per questo, la fabbrica lean si avvale di macchine autoattivate,
dotate cioè di dispositivi di arresto automatico e di meccanismi di
4 Fortunato V., «Ripensare la Fiat di Melfi. Condizioni di lavoro e relazioni industriali nell’era
del World Class Manufacturing», Roma, Carocci editore, 2008, p. 34
21
prevenzione delle difettosità, chiamati poka yoke che, secondo Ohno
conferirebbero alla macchina un tocco di sensibilità umana.
All’interno della fabbrica snella, in cui tutto ciò che è superfluo deve
essere portato alla luce e quindi eliminato, la trasparenza e la
supervisione del processo produttivo è garantita da una serie di
procedure che rientrano nella cosiddetta «direzione con gli occhi» (Ohno
1978), si tratta di rendere visibile ogni evento che può verificarsi nello
svolgimento delle attività lavorative all’interno della fabbrica.
L’andon è un indicatore luminoso il cui funzionamento è simile a quello
del semaforo, la luce verde indica che le attività procedono normalmente,
la luce arancione indica che un lavoratore deve compiere un’operazione
di regolazione sulla linea e necessita di aiuto, la luce rossa indica che la
linea è ferma in seguito a dei problemi. L’andon fornisce, quindi, tutta
una serie di informazioni che sono immediatamente disponibili e visibili
dai lavoratori e dalla direzione aziendale e che permettono al lavoratore e
alla squadra di intervenire immediatamente senza che l’anomalia si
ripercuota sull’intero processo.
Fig. 1.9 “L’andon”
Fonte: Università degli studi di Trieste, Produzione snella e Just in time, gestione della
produzione, 2009
22
La fabbrica lean opera inoltre secondo uno spirito improntato al
«miglioramento continuo» (Kaizen) del prodotto e dei processi, sia nel
breve che nel medio e lungo periodo. Il controllo della qualità sulla linea
è un elemento, ma il kaizen costituisce un ulteriore fase che non guarda
solo alla qualità, guarda anche all’innovazione e razionalizzazione dei
processi e dei prodotti, la nuova modalità di funzionamento dell’intera
organizzazione è basata sul trasferimento e la devoluzione delle
responsabilità della gestione a team permanenti interfunzionali o ai
circoli di qualità che operano secondo la logica del problem-solving. Al
lavoratore, che opera all’interno di un team, non viene più chiesto
soltanto di eseguire ripetitivamente una sola mansione, ma anche di
eseguire il controllo della qualità di ciò che produce, gli interventi di
manutenzione preventiva, secondo la logica Total Productive
Maintenance (Tpm).
Entrambi i principi si propongono di superare una serie di limiti
strutturali tipici della produzione di massa, ossia la presenza di ingenti
scorte in magazzino, e quindi, elevati costi di stoccaggio, la scarsa
responsabilizzazione degli operai e la proliferazione di errori di
lavorazione a causa di un’organizzazione della produzione incapace di
intervenire tempestivamente, e trovare, perciò, una soluzione ai difetti di
produzione bloccandoli alla fonte. Entrambi tentano di farlo attraverso
un sostanziale riavvicinamento della funzione umana (del ruolo del
lavoro vivo) al processo lavorativo.
Il sistema Toyota quindi “meno sprecone” e più capace di adattarsi
al mercato, richiede un attento gioco di squadra da parte di tutti, richiede
soprattutto un ambiente sociale assolutamente collaborativo.
23
Fig. 1.10 “La casa lean”
Fonte: Immagini internet
1.3. Il processo produttivo nel sistema Toyota
Il perseguimento del tendenziale azzeramento delle scorte, in maniera
tale da ridurre i costi di produzione e, quindi, favorire incrementi di
produttività evitando di fare ricorso alle economie di scala tipiche della
produzione fordista, si esprime strutturalmente nella linearizzazione del
layout di fabbrica.5 Un sistema di fabbricazione a “flusso monopezzo”
5 Caputo P., «Lavorare in team alla Fiat. Da Melfi a Cordoba», ImmaginaNapoli, Pozzuoli,
2004, p. 17
24
(Shingo, 1985), orientato e guidato dal principio del just in time.
Quest’ultimo implica la tendenziale realizzazione degli obiettivi zero
scorte e zero difetti, tanto dei componenti provenienti dall’esterno (dai
fornitori), quanto di quelli in processo di lavorazione lungo la linea, così
da mantenere “teso” il flusso produttivo e ridurre i costi determinati dal
capitale circolante.
Secondo tale principio è necessario che, sempre e in tutti i punti della
linea di produzione, le parti vengano prodotte nella quantità di fatto
richiesta dalla successiva fase di lavorazione.
Come si può facilmente constatare, il sistema di produzione Toyota si
muove all’interno di una logica operativa diametralmente opposta
rispetto a quella del sistema fordista, in cui la lavorazione sequenziale di
ogni singolo prodotto era limitata soltanto alle operazioni di
assemblaggio finale, quest’ultima si basava su una produzione a lotti, e
pertanto, sui vantaggi derivanti dalle economie di scala, che favoriva però
riserve di materiali, che si traducevano necessariamente in incrementi nei
costi di produzione.
Il sistema di produzione Toyota invece, punta sullo snellimento
dell’intero processo produttivo, sia per quanto riguarda la struttura
organizzativa interna all’azienda madre sia per quanto concerne i rapporti
con le imprese fornitrici, linearizzando il ciclo di fabbricazione e
operando attraverso l’integrazione sinergica con i fornitori stessi,
generando così un disegno organizzativo più ampio di “fabbrica
integrata”.
Il sistema produttivo così organizzato, tuttavia, presenta un’estrema
fragilità strutturale. Il nuovo apparato produttivo linearizzato, pur
prevedendo e consentendo potenzialmente la massima flessibilità dei
risultati e la minimizzazione del tempo di attraversamento del prodotto
25
in formazione (cioè la realizzazione di elevati tassi di produttività),
implica nel contempo un’elevata vulnerabilità, ogni problema imprevisto,
disfunzione, che si verifica in un punto qualsiasi del flusso produttivo
tende a diffondersi sull’intera struttura.
L’ambivalenza intrinseca del processo produttivo linearizzato è stata
raffigurata da Bonazzi (1993) con l’efficace metafora del “tubo di
cristallo”. In effetti, descrivere la nuova organizzazione della produzione
attraverso l’immagine di una forma lineare semplice quale quella del
tubo, significa richiamare alla mente concetti di essenzialità, agilità e
rapidità di attraversamento. Paradossalmente, però, la struttura del tubo
evoca contemporaneamente idee di rigidità e di precisione, infatti, per
perseguire la massima flessibilità dei risultati è indispensabile rispettare
alcune rigidità di processo. Al suo ingresso il tubo è potenzialmente
aperto alla domanda del mercato, inoltre l’ordine in cui disporre il mix
produttivo può essere il più vario possibile, ma poi le pareti del tubo si
presentano rigide. In altri termini, una volta deciso il mix, la sua
sequenzialità deve essere rispettata lungo tutta la linea fino all’uscita dal
tubo. Inoltre, tempi morti, ricircoli di materiale e inversioni d’ordine
sono problemi sistemici da prevenire e, nel caso in cui insorgano,
rimuoverli il più presto possibile.
Le condizioni di fragilità della produzione, derivanti dalla concatenazione
lineare “a flusso teso”, sono state affrontate attraverso la
cellularizzazione del processo produttivo, la flessibilizzazione del lavoro
e puntando su pratiche manageriali di gestione delle risorse umane dirette
a indurre la responsabilizzazione e l’attivazione dei lavoratori nella
realizzazione delle performances assegnate.
A fronte della rigidità del layout linearizzato è stata realizzata la
scomposizione “cellulare” del processo produttivo in “team o lavoro di
26
squadra” , che costituisce un’unità di lavoro deputata a portare a termine
in maniera relativamente autonoma, grazie al coordinamento e alla
direzione del proprio team leader, la produzione programmata di
specifici segmenti del processo di fabbricazione.
Fig. 1.11 Un esempio del modello snello di micro-organizzazione del team operaio. Organizzazione
senza team operaio, organizzazione basata su team operaio
Fonte: L. Pero, Taylor e Ford, World Class Manufacturing, 2008
L’organizzazione è strutturata in maniera tale da prevedere la presenza
diretta, sulla linea, anche di alcune figure specialistiche (tecnologi,
manutentori, ecc.) che nella fabbrica fordista erano relegate negli uffici.
Fig. 1.12 Le diverse figure specialistiche
Fonte: L. Pero, Taylor e Ford, Wor Class Manufacturing, 2008
27
Dal canto loro, gli addetti di linea, oltre a svolgere le tradizionali attività
manuali di fabbricazione, devono effettuare un’ulteriore serie di
operazioni tradizionalmente appartenenti a funzioni di staff, come il
controllo di qualità, la manutenzione ordinaria degli strumenti di lavoro,
la prevenzione di guasti tecnici, il problem-solving.
Gli operai presentano caratteristiche di polivalenza esecutiva in quanto,
per il principio della rotazione, devono essere in grado di operare su
differenti postazioni di lavoro.
Fig. 1.13 Gli operai possono ruotare sulle postazioni
Fonte: L. Pero, Taylor e Ford, World Class Manufacturing, 2008
Il prerequisito strutturale di base affinché i lavoratori possano operare in
maniera sinergica risiede nell’evitare di creare “isole isolate”, cioè
postazioni di lavoro reciprocamente separate. “Se i lavoratori sono
troppo lontani l’uno dall’altro, non possono aiutarsi reciprocamente, si
producono disfunzioni e la produttività ne risente negativamente. Ma se
le funzioni lavorative sono combinate attraverso linee multifunzionali e
se la distribuzione del lavoro e delle postazioni sono studiate
correttamente, allora l’organizzazione del lavoro può raggiungere la
28
massima efficienza, i lavoratori possono cooperare tra loro e il loro
numero può essere ridotto”(Ohno, 1993).
Fig. 1.14 Le “Isole isolate”
Fonte: L. Pero, Taylor e Ford, World Class Manufacturing, 2008
1.4. La struttura organizzativa della Fabbrica Integrata
L’insieme di questi orientamenti, sul flusso di produzione e sulla
partecipazione attiva del lavoro, ha prodotto anche un disegno più ampio
di «fabbrica integrata». Si può dire che nella fabbrica integrata
l’innovazione non riguarda solo l’area della produzione dei beni, ma tutte
29
le aree funzionai e il rapporto di fornitura con le altre imprese, si ha il
passaggio “dalla centralità delle funzioni a quella dei processi”.
L’importanza assunta dall’integrazione tra funzioni e unità produttive è
dovuta al nuovo principio per cui la frontiera dell’efficienza operativa
viene raggiunta anche con una riduzione significativa dei tempi di
progettazione e di ingegnerizzazione del nuovo prodotto (time to
market) e di attraversamento dei prodotti (lead time).6 La
differenziazione dei gusti e la conseguente necessità di fornire con
frequenza ai consumatori sempre nuovi modelli fa sì che la riduzione dei
tempi dalla progettazione al lancio sul mercato del nuovo prodotto
risutino fondamentali. Lo stesso fenomeno implica la capacità di dare in
tempi brevi il modello richiesto dal cliente. Di qui l’importanza dei tempi
di attraversamento, fuori e dentro a fabbrica, dei componenti, di sub
prodotti e del prodotto finale senza incorrere in eccessive attese dei
materiali o in fermate per rottura di impianti. Di conseguenza sia il time
to market che i lead time con il flusso teso di produzione e la riduzione
delle scorte richiedono in primo luogo una maggiore integrazione ed una
più stretta collaborazione tra azienda e fornitori. In pratica, nella fabbrica
integrata il management delega ad aziende fornitrici, definite capo filiera,
la produzione, la gestione, e anche la co-progettazione di componenti
complessi, dando loro anche il potere di controllo sulle altre aziende
fornitrici ai livelli più bassi. Secondo questa prassi, definita dalla
letteratura «outsourcing» o «esternalizzazione», i fornitori operano
secondo una logica di partnership con l’azienda e il loro coinvolgimento
incide ormai per il 70% circa sul prodotto finale.
6 Fortunato V., Della Rocca G., «Lavoro e organizzazione. Dalla fabbrica alla società
postmoderna», cit., p. 62
30
Cambia anche la distinzione delle funzioni tra line e staff, ovvero il
nucleo operativo e la tecnostruttura. Nella fabbrica snella integrazione tra
l’integrazione tra line e staff si ottiene tramite lo slittamento verso il
basso degli staff, il baricentro del nuovo modello organizzativo si sposta
dagli uffici alle officine. Con questo passaggio si realizza un
appiattimento della struttura gerarchica dell’organizzazione aziendale.
I tecnici e gli ingegneri vanno in officina, affiancano gli operai di
produzione quando intervengono anomalie o per migliorare la qualità o
ancora per definire i tempi, i programmi, le priorità di consegna mentre il
prodotto è in produzione. Così come i manutentori si integrano nelle
squadre e per buona parte non risiedono più in reparti separati.
Mentre i precedenti comportamenti legati al modello tayloristico
gerarchico-funzionale prevedevano di portare i problemi operativi su e
giù, lungo la gerarchia dell’organizzazione, strutturata per funzioni. La
nuova logica è quasi opposta: prevede che i problemi siano risolti là dove
si originano e da chi li ha visti crescere e ha la competenza professionale
per risolverli.
Il cuore della Fabbrica Integrata è rappresentato dalla Ute (Unità
tecnologica Elementare) che rimpiazza, nel nuovo modello, i gruppi di
lavoro tradizionali. Queste presentano, così come le Unità Operative,
una struttura cellulare in quanto integrano al loro interno una pluralità di
funzioni interconnesse (fabbricazione, presidio degli impianti, controllo
della qualità, gestione dei materiali e dei componenti in entrata)
necessarie a gestire un “segmento compiuto” del processo produttivo.
All’interno dello stabilimento ci sono 35 Ute suddivise all’interno di
quattro Unità Operative (il risultato dell’evoluzione delle vecchie
Officine) che rappresentano delle strutture indipendenti ed omogenee
dal punto di vista sia tecnico che logistico. La finalità dell’Unità
31
Operativa consiste nel garantire la realizzazione del programma di
produzione al minimo costo di trasformazione e ai livelli di qualità e
servizio previsti, di garantire la manutenzione dei mezzi di lavoro e lo
sviluppo di adeguati obiettivi di prevenzione/ miglioramento continuo
del processo / prodotto di competenza.
In base al percorso seguito dalla vettura, dal suo ingresso in fabbrica fino
alla verifica finale nel piazzale, le Unità Operative si dividono in:
Stampaggio, Lastratura, Verniciatura e Montaggio. In particolare
Stampaggio, Lastratura e Verniciatura, sono aree ad alta automazione,
cioè aree in cui prevale la componente tecnologica rispetto al fattore
umano, in contrapposizione al Montaggio che è quasi esclusivamente
caratterizzato dal tocco umano.
L’Unità Operativa include al suo interno due distinte funzioni: la
“Produzione” e “l’Ingegneria di Produzione”.
Dalla prima dipendono direttamente sia la Programmazione e la
Gestione Materiali, con compiti di programmazione della produzione e
controllo del rifornimento del materiale diretto, sia la Gestione
Operativa, che si occupa del presidio delle attività finalizzate alla
realizzazione dei programmi produttivi assegnati e del bilanciamento
delle risorse umane e dei servizi di supporto alla produzione.
L’Ingegneria di Produzione invece ha il compito di garantire la
funzionalità tecnico produttiva globale del sistema, si occupa
dell’avviamento dei nuovi prodotti e delle relative variazioni, del
controllo e del miglioramento dei tempi, dei cicli e dei metodi di
trasformazione e dell’assistenza specialistica alle strutture produttive. In
questo lavoro si avvale dei servizi di Manutenzione, Servizi Tecnici (che
comprendono i Tecnologi di linea e i Tecnologi specialistici), Tecnologia
di prodotto / processo (grosso modo corrispondente al vecchio Ufficio
32
Metodi) e Utilizzo Fattori (a grandi linee corrispondente al tradizionale
ufficio Analisi Lavoro).
L’ effetto più vistoso della nuova struttura organizzativa è la riduzione
dei livelli gerarchici che, dai quattordici degli anni Settanta (sette
responsabili più sette vice), passano a cinque. In particolare vengono
eliminati i ruoli di vice-capo Officina e di capo Reparto. Scendendo
lungo l’organigramma dello stabilimento, al cui vertice è posto il
Direttore, troviamo il Capo Unità (uno per ogni Unità Operativa), quindi
il responsabile della Produzione (che si occupa anche della gestione
tecnica dei materiali, oltre che del processo) e, al livello successivo, il
Gestore Operativo. Quest’ultimo rappresenta il livello gerarchico
immediatamente superiore al capo Ute.
Il team della Ute è composto mediamente da un minimo di 12 ad un
massimo di circa 100 lavoratori, senza una netta formalizzazione dei ruoli
tra i vari componenti. La logica prevalente è quella del problem-solving,
dell’auto-attivazione dei lavoratori e dell’apprendimento continuo nello
svolgimento del processo produttivo. Il lavoratore viene addestrato per
compiere diverse attività, per conoscere tutta la sua Ute, e avere un
quadro generale. Si tratta sempre di monitorare dei particolari,
l’operazione di per sé non cambia, però cambiano ogni giorno i
particolari ed il modo di lavorare. Se questo è positivo, perché non
genera stress da ripetizione, dall’altro lato genera una forma di stress che
si potrebbe definire da apprendimento o cambiamento. Le figure più
importanti della Ute sono:
- Il responsabile di Ute (o capo Ute) è il leader del team, deve gestire le
risorse umane ed assicurare il raggiungimento degli obiettivi di
produzione, qualità e costi della Ute di sua competenza. Rientrano nelle
mansioni compiti quali la gestione delle rotazioni sulle postazioni, la
33
valutazione delle skills individuali, delle performance dei lavoratori, la
concessione dei permessi, ecc., documentate attraverso la Gestione a
Vista. È importante sottolineare come gran parte del lavoro del
responsabile di Ute avvenga secondo la logica della prevenzione, cioè
operare in modo tale da evitare che il problema si possa verificare. Per
ciascuna Ute ci sono tre responsabili, uno su ogni turno di lavoro.
- Il Conduttore di Processo Integrato (Cpi) è uno dei principali
collaboratori del responsabile Ute. Infatti l’eliminazione del ruolo di capo
reparto ha determinato un ampliamento significativo delle funzioni del
responsabile Ute. Pertanto, sebbene il Cpi non abbia, almeno in teoria,
alcun autorità gerarchica sui lavoratori, egli dovrebbe assorbire parte
della complessità organizzativa che emerge dalla linea di produzione e
ridurre i carichi di lavoro del responsabile di Ute in termini di
coordinamento e attività. I suoi compiti sono l’addestramento dei
lavoratori alle diverse mansioni da svolgere all’interno della Ute, la
prevenzione e il controllo sull’andamento della qualità. Nelle aree ad alta
automazione alla figura del Cpi si sovrappone quella del Conduttore di
Impianto Automizzato (Cia) con compiti di controllo degli impianti e di
verifica della conformità del prodotto.7
- L’addetto di linea è l’operaio, una figura che nella Fabbrica Integrata si
arricchisce di nuovi compiti e nuovi significati. Infatti, il suo ruolo non è
più semplicemente quello di mero esecutore di compiti definiti da altri,
bensì è promotore attivo del miglioramento e della prevenzione.
- Il tecnologo di Ute fa capo all’Ingegneria di Produzione, ma risponde
funzionalmente al responsabile di Ute. Il suo compito è quello di
7 Negrelli S., «Prato verde, prato rosso. Produzione snella e partecipazione dei lavoratori nella Fiat
del duemila», Rubbettino Editore, Catanzaro, 2000, p. 76
34
assicurare il mantenimento dell’efficienza tecnica ed economica degli
impianti.
Tra le altre figure organizzative che, pur non facendo direttamente parte
della Produzione, intervengono all’interno della Ute, ci sono:
- Il manutentore, che opera alle dipendenze dell’Ingegneria di
produzione, ha il compito di prevenire l’insorgere di anomalie nel
funzionamento degli impianti e di assicurare il ripristino nel minor tempo
e nel miglior modo possibile. Il manutentore non è posizionato
direttamente sulla linea, ma in apposite aree dedicate al fine di consentire
sempre rapidità di intervento. L’attività di manutenzione avviene, inoltre,
in modo programmato nel tempo che intercorre tra un turno e l’altro.
- il rifornitore di Ute si occupa di tutto ciò che riguarda
l’approvvigionamento dei materiali nel tipo e nelle quantità richieste per
la produzione, secondo la logica del just in time. Il suo ruolo è di
fondamentale importanza per assicurare il corretto e regolare
funzionamento delle attività della Ute.
Un punto di raccordo tra Ute e Unità Operativa è costituito dal team
tecnologico, che rappresenta fondamentalmente un gruppo di problem-
solving, si riunisce nel momento in cui insorgono specifiche emergenze o
problemi tecnici e organizzativi nelle Ute o, più in generale, al fine di
ricercare soluzioni ed innovazioni per miglioramenti complessivi dei
processi.
Tutti gli aspetti poi che riguardano da vicino le attività ed il personale
della Ute (rotazioni sulle postazioni, skills individuali, assenteismo, dati
sulla produzione, ecc.) sono documentati e gestiti attraverso il sistema
della Gestione a Vista (GAV), una tecnica che consiste nel raccogliere e
nel rendere disponibili a tutti i componenti del team (sotto forma di
grafici e tabelle esposte nella Ute) le informazioni relative ai parametri
35
fondamentali del processo produttivo in modo da far fronte
tempevistamente, ed in modo flessibile, a qualsiasi evenienza.
Unitamente alla GAV, le Proposte di Miglioramento Continuo (PMQ)
rappresentano lo strumento principale per valorizzare la risorsa umana
creando motivazione e coinvolgimento. In particolare, il sistema delle
PMQ si basa sul contributo attivo dei lavoratori che, a fronte di proposte
di miglioramento della qualità del prodotto, di facilitazione dell’attività
lavorativa, di riduzione dei costi relativi a materiali e/o energia, di
migliore efficienza degli impianti, ricevono un premio in denaro. Le
proposte devono essere presentate al responsabile di Ute che, insieme al
team di Ute, verifica l’effettiva realizzabilità della proposta, sulla base di
criteri economici, tecnico-produttivi, organizzativi e qualitativi.
Nell’ottica del coinvolgimento e della partecipazione dei lavoratori
rientrano anche le cosiddette riunioni del team di Ute, alle quali
partecipano tutti i componenti del team, allo scopo, di affrontare e
discutere i vari problemi che, nel corso di un’attività così complessa e
difficile, si possono presentare e per discutere degli obiettivi (qualità,
costi, produzione) che si devono raggiungere.
L’organizzazione del management all’interno della fabbrica vede al
vertice il direttore dello stabilimento, dal quale dipendono gli Enti di
Staff (Personale e Organizzazione, Amministrazione) e, sullo stesso
livello, i responsabili delle quattro Unità Operative che, insieme,
compongono il team direzionale.
Il responsabile del Personale è impegnato su molti fronti e deve gestire
quotidianamente problemi di diversa natura a livello dell’intero
stabilimento, secondo una logica che non vede più la funzione del
personale come la risultante di funzioni specialistiche tra loro
indipendenti, bensì come attività connesse e coerenti con
36
l’organizzazione e le strategie generali dell’impresa. Nello svolgimento
della sua attività, il responsabile del Personale, si avvale di alcuni
collaboratori, innanzitutto il responsabile delle Relazioni Sindacali ed il
responsabile del settore Sviluppo e Organizzazione, con competenze
anche in materia di formazione. Sono inoltre alle sue dipendenze il
responsabile per la sicurezza dello stabilimento, il responsabile per
l’amministrazione del personale e il responsabile della sala medica.
All’interno del quattro Unità Operative, il Personale è rappresentato dalla
figura del Repo, cioè del Responsabile del Personale di Officina. I Repo
dipendono funzionalmente dall’uomo delle Relazioni Sindacali, ma
gerarchicamente dal responsabile del Personale. Il Repo rappresenta il
capo del personale all’interno della sua Unità e, in quanto tale, deve
affrontare tutti i problemi che derivano dalla gestione della risorsa
umana. Egli è inoltre, il referente naturale della Rsu in caso di problemi
con i lavoratori.
37
Fig. 1.15 Organizzazione della “Fabbrica Integrata”
Team leader
Team operaio
Fonte: Propria elaborazione
Direzione
Amm. e
controllo
Personale e
Organiz.
Qualità
Sistemi
Utilizzo fattori
Acquisti
Servizi generali
Unità operativa
Ingegneria di
produzione
Produzione
Definizione
Prodotto procedure
Manutenzione
Tecnologia specialistica
Tecnologia di
linea
Gestione operativa
Planning/ gestione materiali
Responsabile UTE
38
1.5. Le Risorse umane e le relazioni industriali nella lean
production
Sembra ormai largamente diffusa la convinzione che i nuovi sistemi di
“produzione snella”, che si vanno diffondendo in modo sempre più
esteso anche nelle imprese occidentali dopo aver determinato il successo
del capitalismo giapponese, abbiamo effetti sostanzialmente positivi sul
lavoro e sui lavoratori, sollecitando in quest’ultimi un coinvolgimento
quasi naturale e un senso di maggior lealtà verso le direzioni aziendali.
Il legame stretto tra lean production e partecipazione attiva dei lavoratori
costituisce del resto il fondamento dello “spirito Toyota”.
La convinzione relativa al necessario coinvolgimento del lavoratore nella
lean production è stata rafforzata soprattutto dai risultati di quella che
può essere considerata l’analisi comparata più completa sullo sviluppo
della produzione snella, sintetizzata nel libro di Womack, Jones e Roos,
“The Machine that Changed the World”(1990).
Tale analisi costituisce un contributo fondamentale alla descrizione
dell’evoluzione dei sistemi produttivi e dell’organizzazione del lavoro nel
settore dell’automobile, nelle tre fasi della produzione artigianale, di
massa e snella. La prima, fa ricorso a lavoratori specializzati e a
tecnologie generiche e flessibili, realizza produzioni su scala ridotta,
secondo i desideri del consumatore, si caratterizza per strutture
altamente decentrate e mercati concorrenziali. La seconda tende invece a
sviluppare un’organizzazione del lavoro parcellizzata e utilizza addetti
non qualificati o semi-qualificati, è basata su impianti costosi, dedicati e
progettati per produrre quantità elevate, è realizzata in grandi stabilimenti
che si caratterizzano per la loro struttura verticale, concentrata, e per le
forti economie di scala, si afferma in mercati oligopolistici.
39
La produzione snella, introdotta dai produttori auto giapponesi, è in
grado di combinare i vantaggi di entrambe, poiché riduce i costi della
prima e le rigidità della seconda “utilizzando meno di tutto”, meno
risorse, meno ore di progettazione, minor spazio produttivo e minori
investimenti in impianti. Ricorre a lavoratori qualificati e motivati grazie
ad una gestione strategica delle risorse umane e al concetto di azienda-
comunità (Dore, 1987), realizza produzione diversificate e flessibili, che
si adattano alle richieste della nuova domanda e crescita lenta e
personalizzata, grazie ai metodi del just in time e della qualità totale.
Sulla base di tale considerazioni, viene avanzata l’ipotesi centrale nel libro
di Womack e colleghi che non esistano alternative alla produzione snella
per i produttori americani ed europei. È la conferma empirica di uno
scenario mondiale futuro orientato esclusivamente alla lean production.
Va ribadito che lo studio di Womack e colleghi costituisce ormai il testo
fondamentale da cui partire per un’analisi dell’evoluzione e degli scenari
delle strategie e strutture aziendali, oltre che dell’organizzazione del
lavoro e della gestione delle risorse umane nel settore mondiale
dell’automobile. Anche se questo studio tende a ad essere accompagnato
da critiche di determinismo o di edizione aggiornata del taylorismo che
sono state da più parti avanzate (Kochan et al., 1997). In particolare i
maggiori limiti che emergono dallo loro ricostruzione degli scenari futuri
dell’industria dell’automobile derivano dalla adesione forse troppo
ingenua e la non considerazione del peso delle relazioni industriali e dei
rapporti di lavoro collettivi.
40
Fig. 1.16 “La macchina che ha cambiato il mondo”
Fonte: S. Negrelli, Prato verde, prato rosso. “Produzione snella” e partecipazione dei lavoratori
nella Fiat del duemila, 2000
Al superamento di entrambi questi limiti tendono i principali risultati di
una seconda importante fase di ricerca comparata dell’International
Motor Vehicle Program (IMVP) del MIT lanciata da Kochan e altri
(1997), dopo quella di Womack e colleghi.
In questa nuova indagine sugli effetti della lean production è stato dato
maggior spazio al ruolo del contesto sociale e istituzionale e alle
interazioni tra questo e le strategie aziendali, si sono osservate meglio le
modalità di sviluppo dei sistemi di lean production che tendono ad
affermarsi nei diversi paesi o modelli di capitalismo.
Globalizzazione dei mercati
Tecnologie automatizzate e
flessibili
Sistemi innovativi di gestione delle risorse umane
Lean Production
41
Fig. 1.17 After Lean Production
Fonte: S. Negrelli, Prato verde, prato rosso. “Produzione snella” e partecipazione dei lavoratori
nella Fiat del duemila, 2000
L’oggetto di analisi sono diventate esplicitamente le relazioni industriali e
la gestione delle risorse umane.
Le ipotesi principali di scenario che emergono da questo secondo studio
comparato del settore dell’automobile a livello mondiale riguardano da
un lato la tendenza verso una certa complementarietà tra le pratiche
innovative di gestione di risorse umane e quelle di relazioni industriali, e
dall’altro lato l’evoluzione verso differenti tipi di lean production, e non
di uno solo come sembrava prefigurare l’analisi di Womack e colleghi.
Dallo studio di Kochan e colleghi risulta, ad esempio, che si potrebbero
individuare almeno nove idel-tipi di produzione snella. Accanto a quella
ormai classica “toyotista” largamente conosciuta (Ohno, 1978), vi
sarebbero infatti molti altri tipi che si sono affermati fuori dal Giappone
secondo le diverse combinazioni dell’idea originaria con i sistemi e le
Globalizzazione dei mercati
Tecnologie automatizzate e
flessibili
Contesto sociale e istituzionale
Pratiche
innovative di relazioni
industriali e di gestione delle risorse
umane
Vari tipi di Lean Production
42
tradizioni nazionali e locali. La ricerca comparata dell’IMVP consente di
fare un’ulteriore passo avanti nella definizione di modelli evolutivi di
relazioni industriali abbinando all’evoluzione dell’organizzazione della
produzione l’evoluzione dei sistemi di contrattazione collettiva. Se nella
produzione artigianale prevaleva il sindacato di mestiere e la
regolamentazione sindacale unilaterale, con la produzione di massa si
affermano i sindacati industriali, la contrattazione collettiva e la rigida
codificazione delle regole di lavoro. Alla produzione snella sembra
accompagnarsi invece un modello di contrattazione collettiva che da
“normativo” diventa “partecipativo”.8 Ovvero tendono a costituirsi
gruppi di lavoro e comitati paritetici “problem-solving”, la dimensione
individuale dei rapporti di lavoro e le iniziative di gestione strategica delle
risorse umane possono crescere spesso accanto e non solo in alternative
alle relazioni industriali e ai rapporti collettivi.
Il problema delle relazioni industriali e della gestione delle risorse
umane nell’auto, nelle imprese occidentali in questa fase di transizione
della produzione di massa alla lean production sembra dunque essere
soprattutto quello di ricostruire una base di fiducia tra impresa, sindacati
e lavoratori.
Un modello partecipativo di rapporti di lavoro sia da parte dei
lavoratori e si da parte dei sindacati.
Per quanto riguarda i lavoratori, la partecipazione diretta di
quest’ultimi, nei gruppi problem-solving, nei sistemi di qualità totale o
nei team di lavoro, dipende essenzialmente dalla capacità manageriale di
sviluppare adeguate politiche di gestione delle risorse umane, in termini
8 Negrelli S., «Prato verde, prato rosso. Produzione snella e partecipazione dei lavoratori nella Fiat
del duemila», cit., p. 18
43
di formazione, sicurezza del posto di lavoro, valorizzazione e ricompense
(Heller et al., 1998; Barton, Delbridge, 2000).
A tal proposito, nelle esperienze occidentali di implementazione del
modello lean production giapponese, l’enfasi è posta sull’adozione delle
strategie comunemente denominate Human Resource Management
(HRM), le cui origini devono essere ricercate negli Stati Uniti, già a
partire dagli anni Settanta, quando il management ha cercato di
sviluppare un nuovo approccio gestionale ed organizzativo delle risorse
umane. L’elemento chiave, assunto, interpretando l’esperienza
giapponese, è stato quello di cercare una “comunicazione diretta” con il
lavoratore con l’intento di stabilire in contratto individuale alle volte
associato ad una strategia di marginalizzazione del sindacato. Alto
elemento chiave è stato il coinvolgimento del management strategico
dell’organizzazione mettendo in luce l’importanza del Hrm e gli aspetti
fondamentali della motivazione, del commitment, della formazione dei
lavoratori per il successo del business dell’impresa.
Non sono state fatte analisi comparative approfondite su questo
aspetto, ma il tentativo di comunicazione diretta con il singolo lavoratore
è avvenuto in modi differenti. Storey (1992) distingue una versione forte
e una versione debole del Hrm.
Mentre la versione forte rappresenta un approccio distintivo nella
gestione del lavoro, la versione debole rappresenta, invece, un termine
diverso per connotare la tradizionale gestionale del personale. Secondo
Storey, all’interno della visione forte possiamo ulteriormente distinguere
una versione hard e una versione soft del Hrm. Nella versione hard
l’enfasi è posta sul lavoro come risorsa al pari degli altri fattori produttivi
da utilizzare in modo razionale. La versione soft, invece, pone l’accento
44
sul termine human, cioè sui lavoratori come individui che devono essere
opportunamente stimolati e integrati all’interno della logica aziendale.
Per l’implementazione del HRM sono considerati, inoltre, come
condizioni importanti, la localizzazione in un ambiente green-field, la
presenza di manager esperti, una forza lavoro non sindacalizzata,
attentamente selezionata e priva di cultura industriale, l’incentivo di
trovare una occupazione. Quindi, come evidenziano Bean (1994) e
Storey e Bacon (1996) i valori che sottointendono all’approccio HRM
sono direttamente riconducibili a una visione unilaterale e individualistica
piuttosto che al collettivismo dell’impresa come comunità e come
sistema di relazioni industriali partecipate. Tuttavia esistono importanti
differenze tra la visione statunitense del HRM e le forme adottate in altri
paesi, soprattutto europei. Infatti, mentre negli Stati Uniti l’adozione del
HRM è stata accompagnata dalla marginalizzazione del sindacato, in altri
paesi, ad esempio la Gran Bretagna e l’Italia, si è optato per una visione
neopluralista (Keenoy 1990), sulla quale si sono adottati una serie di
accordi consensuali.
Sicuramente non ci troviamo di fronte ad una nuova era nella gestione
del personale caratterizzata da una “umanizzazione” del lavoro,
dall’autonomia decisionale dei lavoratori, da relazioni di “fiducia”, e così
via, tuttavia, non è sufficiente né corretto trarre la conclusione, che
l’HRM possa essere interpretato soltanto come mera ideologia
manageriale. Il problema, consiste piuttosto nel cogliere i nessi che
legano il controllo sul lavoro e la gestione del personale, ossia la nuova
logica che governa la struttura materiale e organizzativa del processo
produttivo post-fordista nei suoi nessi con la gestione delle risorse
umane e le relazioni industriali. In altre parole, è la natura stessa del
controllo ad essere cambiata, divenendo meno arbitraria e più sistemica.
45
La fabbrica snella, richiede conoscenze allargate, capacità di relazione,
disponibilità al lavoro di gruppo, responsabilizzazione e si basa
soprattutto sulla valorizzazione delle competenze e degli skills della forza
lavoro quale “risorsa organizzativa” strategica in grado di generare
competitività all’interno di un sistema lean intrinsecamente fragile, privo
di quelle risorse “cuscinetto” che rappresentavano la difesa migliore
dell’organizzazione fordista tradizionale (scorte, magazzini, ecc.).
Il lavoro, per così dire si “intellettualizza”, si “mentalizza”, pur
rimanendo lavoro vivo faticoso.
Il lavoratore, oltre ad essere saturato in maniera più intensa e razionale
(“integrata”), deve fornire un apporto ulteriore, cioè un contributo attivo
che si esprime in attività quali l’autocontrollo della qualità, la
segnalazione tempestiva di anomalie, i suggerimenti e le proposte di
miglioramento, lo sviluppo e l’approfondimento della cooperazione
produttiva, l’aiuto reciproco. Occorrono quindi “meccanismi” di
motivazione al lavoro e di dominio sul lavoro, orientati a combinare
efficienza e consenso, che generalmente si differenzia a seconda dei
differenti contesti istituzionali, sociali, di strategie aziendali, sindacali.
Per quanto riguarda poi il grado di coinvolgimento delle relazioni
industriali, queste si configurano non in maniera univoca dovunque, ma
si sviluppa in contesti territoriali diversi. Nel caso del Giappone si
manifestano in modo peculiare, cioè sono parti integranti, viene utilizzata
una cooperazione labour-management allo scopo di implementare le
strategie aziendali, nel contesto statunitense vi è un modello di relazioni
industriali di tipo giapponese ma tutto ciò avviene senza un reale
coinvolgimento del sindacato e, soprattutto, senza garanzie
occupazionali, questa versione della lean production enfatizza il ruolo
chiave del management, ma ignora aspetti considerati centrali per i
46
lavoratori quali, ad esempio, la sicurezza occupazionale, la crescita dei
salari, le promozioni, la risoluzione delle controversie, la rappresentanza
degli interessi. Nei paesi europei si ha l’adozione di strutture e comitati
paritetici management-sindacato che permettono ai lavoratori di essere
rappresentati ad ogni livello dell’organizzazione aziendale.
Il tema più discusso che permette meglio di definire le differenze
tra i paesi e possibili trend di sviluppo della contrattazione collettiva, è
quello dell’accentramento-decentramento della struttura contrattuale.9
La differenza più evidente è quella che intercorre come abbiamo
già accennato tra i paesi di tradizione anglosassone e anche il Giappone,
maggiormente aperti, sia per condizioni strutturali che culturali al
mercato, e i paesi dell’Europa continentale in cui le relazioni d’impiego
sono maggiormente istituzionalizzate.
Nel primo caso equivale quasi esclusivamente una struttura
decentrata della contrattazione, i contratti si fanno solo a livello
d’impresa, di unità produttiva se non anche a livello di singolo mestiere e
danno luogo ad una variegata e diversificata crescita di norme formali e
informali. La contrattazione decentrata ha gravi limiti di estensione e
istituzionalizzazione. Nei paesi in cui l’unico livello contrattazione delle
condizioni di lavoro è quello d’impresa, i dipendenti di molte aziende, in
cui il sindacato non è presente o non è riconosciuto come agente
negoziatore, sono esclusi dai benefici della contrattazione collettiva. Il
grado di istituzionalizzazione è piuttosto basso, lasciato alle convenzioni
o ai rapporti di forza contrattuali tra le parti. La contrattazione decentrata
segue più di quella centralizzata, la logica della flessibilità rispetto al
9 Fortunato V., Della Rocca G., «Lavoro e organizzazione. Dalla fabbrica alla società
postmoderna», cit., p. 161
47
mercato. Ciò che il livello decentrato perde in estensione e
istituzionalizzazione, lo guadagna in incisività e in coinvolgimento della
base sindacale. Incisività significa capacità della rappresentanza sindacale
di contrattazione degli incentivi, orari, mobilità, carriere e di tutti quegli
aspetti inerenti le specifiche condizioni di lavoro. Coinvolgimento
significa, invece, elevata partecipazione della base alla contrattazione sia
attraverso i delegati di fabbrica, eletti quasi sempre direttamente dai
lavoratori, sia attraverso rappresentanti delle sezioni sindacali territoriali.
Nel secondo caso, quello dei paesi dell’Europa continentale, il
grado di accentramento è maggiore, prevalgono gli accordi nazionali su
quelli decentrati. La contrattazione risponde principalmente a fattori di
tipo politico solidale, prevalgono dimensioni quali l’estensione della
contrattazione alle condizioni di lavoro e dei sistemi di assistenza sociale
a tutti i lavoratori, l’istituzionalizzazione di regole e procedure che
definiscono in maniera rigorosa e stabile il processo contrattuale
attraverso il legislatore o il contratto collettivo interconfederale o
nazionale. La centralizzazione ha segnato il periodo dell’industria di
massa e della grande impresa grazie alla “contrattazione nazionale di
categoria” che costituisce il perno intorno al quale è costruito, in questo
caso, l’intero sistema di relazioni industriali. I contenuti del contratto
riguardano tutti gli aspetti fondamentali delle relazioni di lavoro, dal
salario minimo alla definizione dell’orario, dalle condizioni di lavoro in
generale ai diritti sindacali. Il contratto ha un estensione che può variare
a seconda del settore e il grado di istituzionalizzazione è piuttosto alto. Il
coinvolgimento della base, delle rappresentanze sui luoghi di lavoro e dei
sindacati locali, rimane parziale, così come l’adattamento alle specifiche
condizioni di lavoro nelle diverse realtà produttive.
48
Il livello “interconfederale”o “intersettoriale” da luogo ad una maggiore
centralizzazione rispetto alla contrattazione nazionale di categoria,
riguarda i singoli aspetti della condizioni di lavoro o economico-sociali
che interessano tutti i lavoratori indipendentemente dall’appartenenza ad
uno specifico settore, prevede un’attività negoziale bilaterale, tra le
principali confederazioni sindacali e associazioni imprenditoriali, oppure
trilaterale con il coinvolgimento attivo dello Stato. Complessivamente la
contrattazione interconfederale si caratterizza per un elevata estensione,
centralizzazione e incisività (in quanto gli accordi interconfederali
possono essere trasformati in leggi dello Stato). Al contrario, si ha un
basso livello di coinvolgimento, soprattutto delle strutture decentrate del
sindacato e delle associazioni imprenditoriali, nella definizione e gestione
degli accordi.
Contratto collettivo nazionale di lavoro e accordi interconfederali
sono considerati da tempo la migliore espressione di un sistema di
cittadinanza e di gestione paritetica del mondo del lavoro. Lo sono
proprio perché, a differenza della contrattazione decentrata, consentono
la massima estensione nella tutela dei lavoratori e l’istituzionalizzazione
delle relazioni tra sindacati e imprenditori. Il contratto nazionale
definisce le condizioni minime per tutti i lavoratori e il tipo di disciplina
nella regolamentazione dei rapporti di lavoro in ciascun settore. Quello
interconfederale estende all’esterno dei luoghi di lavoro la tutela e la
gestione congiunta di altre condizioni della vita del lavoratore.
Questo modello centralizzato, tuttavia, incontra i propri limiti
nell’adattarsi alle diverse condizioni economiche dei settori e delle
imprese e allo tempo di rappresentare tutti i lavoratori. Con
l’intensificarsi della concorrenza sui mercati, la contrattazione
centralizzata e quella decentrata sono in parte in competizione per la
49
capacità di quest’ultima di essere più flessibile e di rispondere meglio ai
cambiamenti. La contrattazione decentrata o d’impresa consente
maggiore flessibilità, si adegua alle variazioni di mercato, permette un
adattamento più facile delle condizioni di lavoro e delle retribuzioni,
favorisce di fatto la forza lavoro delle imprese e dei settori più forti sul
mercato. Tale rilievo assunto dal decentramento si accompagna a
crescenti difficoltà di tutela generale della contrattazione centralizzata.
Essa non riesce a tutelare tutti i lavoratori per la dispersione della
struttura industriale in piccole imprese, per la nascita di un’economia dei
servizi, per la crescita del lavoro precario e per il parziale declino del
capitalismo organizzato e dell’intervento dello Stato.
Il tema del decentramento viene letto da diversi punti di vista,
Locke, Kochan e Piore (1995), ad esempio sottolineano l’importanza
delle strategie competitive poste in essere dal management che guida i
cambiamenti in atto nelle imprese. Non è più il sindacato dei diritti a
condurre il gioco, ma sono le imprese. Di fatto, il decentramento è
interpretato come un ribaltamento del successo del sindacato nell’usare la
contrattazione centralizzata quale strumento per tenere i salari fuori dalla
competizione tra imprese e di garantire, per quanto possibile, condizioni
di lavoro uguali per tutti. Il decentramento è di fatto intervenuto in aree
forti dell’economia e del mercato del lavoro con la tendenza, di una parte
dei lavoratori, delle rappresentanze sui luoghi di lavoro e dei membri del
sindacato, ad uscire dagli schemi troppo stretti ed egualitari della
contrattazione nazionale.
Katz (1993) individua tre possibili ipotesi per spiegare la tendenza
verso il decentramento. La prima ipotesi considera il decentramento
come risultato dell’aumento del potere manageriale, pertanto è una
lettura basata su un ribilanciamento degli equilibri di poteri interni al
50
sistema di relazioni industriali. La seconda ipotesi sottolinea l’importanza
della riorganizzazione del lavoro e delle tecnologie più flessibili che
hanno portato management e organizzazioni sindacali a collaborare per
gestire questo cambiamento. La terza, infine, focalizza l’attenzione
sull’accresciuta diversificazione sia della struttura sia degli interessi dei
lavoratori. La spinta al decentramento è legata alla pressione e
all’incertezza del cotesto economico, al passaggio dai mercati di massa ai
prodotti specializzati, al mutamento delle prestazioni e della natura del
mercato del lavoro. Si tratta, quindi, di un decentramento di natura
strutturale e di lunga durata. Alla luce di tutto ciò si solleva alcuni
importanti interrogativi sullo sviluppo futuro delle relazioni industriali
nel settore dell’automobile a livello mondiale. Attualmente il sindacato
sta vivendo una fase di notevole trasformazione, cioè da organismo di
tipo «conflittuale» a «sindacato partecipativo», e in particolare verso un
«sindacalismo d’impresa».
Per comprendere le trasformazioni in atto bisogna sottolineare come
nella fabbrica lean la direzione aziendale stia utilizzando tecniche più o
meno sofisticate di Human Resource Management (HRM) per
incentivare e motivare adeguatamente la forza. Questi incentivi sono
direttamente collegati alla fragilità della fabbrica lean, poiché la sua
vulnerabilità aumenta qualora i lavoratori non prestano attenzione, e
sono chiamati a risolvere i problemi in prima persona.
La crescita del coinvolgimento individuale ha quindi importanti
conseguenze in merito ai mutamenti nelle forme di resistenza dei
lavoratori. In particolare, viene meno la logica della contrapposizione
espressa tradizionalmente dallo sciopero, pur essendo formalmente
previsto e riconosciuto dalla legge, è percepito dai lavoratori solo come
ultima istanza, si ricorre allo sciopero solo quando tutti gli altri strumenti
51
predisposti per la risoluzione delle controversie non abbiamo prodotto
l’esito desiderato. Tendono invece a manifestarsi nuove e più strategiche
forme di resistenza operaia, quali ad esempio, l’inversione del controllo o
della non partecipazione alle attività tipiche di miglioramento continuo.
Tuttavia, se da una parte l’introduzione della lean production pone dei
rischi all’azione sindacale, dall’altro offre nuove potenzialità per la
rappresentanza collettiva dei lavoratori all’interno delle fabbriche. La
logica della prevenzione può accrescere il potere del sindacato, in un
sistema produttivo che si basa sul just in time, il sindacato può facilmente
infliggere seri danni all’azienda attraverso l’azione organizzata e mirata di
fermi delle linee produttive, di scioperi, oppure attraverso la semplice
minaccia dello sciopero per aumentare il proprio potere contrattuale.
Un ulteriore spazio per il sindacato deriva dal fatto che, anche a fronte di
relazioni dirette tra management e lavoratori, sul fronte della
contrattazione collettiva, possono cercare di ottenere salari più alti e
maggiori benefici per i lavoratori della categoria, miglioramento delle
condizioni di lavoro, con particolare attenzione alla salute ed alla
sicurezza sul luogo di lavoro, alla gestione dei tempi e degli straordinari e
allo stress psico-fisico legato all’intensificazione dei ritmi di lavoro.
Il successo del sindacato è notevole proprio in virtù della stretta
connessione esistente nella lean production tra performance economica
aziendale e condizione (fisica e morale) del lavoratore.
Quali tipi di sindacato e di relazioni industriali tenderanno ad
affermarsi in Europa e negli Stati Uniti? Dal momento che ormai si ci sta
dirigendo in modo irreversibile verso il decentramento della
contrattazione collettiva e delle relazioni industriali (Katz, 1993) e verso
la sempre maggior valorizzazione della gestione individuale delle risorse
umane (Negrelli, Treu, 1995), quanto decentramento sono in grado di
52
sopportare i sistemi dell’Europa continentale, tradizionalmente più
centralizzati di quelli anglo-sassoni? Qual è sarà il livello di
complementarietà che tenderà a prevalere tra le relazioni industriali e la
gestione delle risorse umane?
Nelle imprese occidentali, flessibilità del lavoro, nuove forme di
motivazione e di incentivazione, paghe legate ai risultati di qualità,
produttività e redditività stanno portando a tipi differenti di
combinazione tra rapporti collettivi e rapporti individuali di lavoro, che
in alcune realtà sembrano orientate alla complementarietà mentre in altre
più verso la competizione oppure l’antagonismo (Negrelli, 1995).
53
Capitolo 2
Il World Class Manufacturing come modo di
lavorare
2.1. La nuova metodologia organizzativa: il “World Class
Manufacturing”
«World Class Manufacturing significa realizzare prodotti:
più rapidamente…..
meglio….
in modo più economico…. insieme»
Sono molte le case automobilistiche che possono vantare modelli che
sono più avanzati sul piano strettamente tecnologico, che dispongono di
motorizzazioni più performanti, che vantano un’immagine più ricercata,
che presentano tratti stilistici più sofisticati. Tuttavia non esiste alcuna
casa automobilistica che abbia conseguito nel tempo i risultati della
Toyota, sia in termini di espansione nelle quote di mercato che sotto il
profilo economico-finanziario. Il fulcro su cui Toyota ha fatto e continua
a far leva, per costruire la sua invidiabile posizione nell’arena competitiva
dell’industria automobilistica, è rappresentato dall’attività di
manufacturing. I suoi prodotti infatti sono realizzati con un altissimo
livello di produttività e affidabilità, e nessuna casa automobilistica vanta
un grado di soddisfazione della clientela paragonabile a quello della
Toyota.
54
Per reggere la sfida competitiva non basta produrre automobili dalle linee
accattivanti e di elevate prestazioni, bisogna essere in grado di assicurare
alla clientela un rapporto qualità/prezzo, quello che in inglese viene
indicato come money for value, migliore dei propri concorrenti.10
In questo panorama sempre più competitivo la Fiat Chrysler
Automobiles si è posta l’obiettivo di costruire un “Fiat Production
System” (FAPS), vale a dire un modello integrato, costituito da
un’insieme di metodologie e strumenti la cui applicazione consente il
miglioramento radicale delle prestazioni del sistema produttivo. Ciò
permette di consegnare il prodotto al cliente nei tempi e nella qualità
richiesti e di eliminare contemporaneamente le attività a non valore
aggiunto e qualunque altro tipo di perdita di persone, impianti, materiali
ed energia. Quest’ultimo deve conseguire i rigorosi standard
internazionali, gli standard codificati dal “World Class Manufacturing”,
che riguarda la competitività, questo nei diversi paesi in cui viene
applicato, prende nomi diversi, dalla Lean Production (produzione
snella), Value Management, Qualità totale. È una metodologia di
organizzazione e di miglioramento continuo delle prestazioni della
fabbrica, attraverso cui si riescono ad ottenere importanti vantaggi di
competitività relativi a qualità, costi e tempi di risposta. L’aspetto più
importante di questa impostazione è che il raggiungimento della qualità e
dell’efficienza nascono dall’utilizzo di tecniche quali il Just in time, la
Qualità totale e soprattutto dai suggerimenti migliorativi del personale
che lavora nella fabbrica.
10 Volpato G., «Fiat Group Automobiles. Un’Araba Fenice nell’industria automobilistica
internazionale», Bologna, il Mulino, p. 168
55
Entriamo del merito di queste tecniche, il Just in time significa fornire un
servizio quando è effettivamente necessario, né prima, né dopo. Ciò
richiede notevoli sforzi da parte di dipendenti, macchinari e materiali che
devono essere perfetti e capaci di garantire i migliori risultati, per questo
sono stati realizzati una serie di strumenti, quali ad esempio il Kanban,
un sistema di controllo visibile, Jidoka, un processo per connettere ai
macchinari sistemi a basso consumo, di avvio/spegnimento e di
segnalazione, l’Andon, un sistema di preallarme, e così via.
La vera essenza del Jit consiste nell’individuazione degli sprechi, e
quindi nella loro eliminazione completa, in alternativa in una loro
riduzione significativa. Il 90% degli sprechi aziendali complessivi sono
attribuibili ai sistemi, ai metodi e ai processi che il management aziendale
impone ai dipendenti. Tutto ciò implica quindi un cambio di mentalità in
chi dirige l’azienda, occorre che i manager si rendano conto di essere non
solo i responsabili delle possibili soluzioni, ma spesso anche la causa dei
problemi.
Per quanto riguarda la Qualità totale, la “International Standard
Organisation”, ha introdotto una serie di standard qualitativi, il più
recente nel 2000, genericamente chiamati ISO 9000. Tali standard sono
costituiti da una serie di punti riguardanti gli elementi fondamentali di un
sistema di base, questo ha avuto un impatto significativo e positivo
sull’industria, anche se tuttavia non sono mancati gli aspetti negativi. Gli
standard richiedono che un impresa nomini un manager o comunque un
responsabile della qualità. Ciò ha comportato che la questione della
qualità all’interno di un’azienda avesse una figura specifica, preposta a
tale incarico, ma ha avuto anche l’effetto di concentrare la qualità solo in
un determinato settore.
56
Il sistema della Qualità Totale (TQM), sviluppa processi produttivi
talmente perfetti da rendere impossibili errori, e si differenzia rispetto ai
precedenti sistemi tradizionali di controllo della qualità, in cui gli errori
venivano riscontrati soltanto dopo che si erano verificati. La qualità non
è quindi una caratteristica che può essere semplicemente aggiunta ad un
prodotto, dopo che è stato realizzato, da un ispettore di qualità. La
qualità viene attribuita ad un prodotto o servizio, soltanto durante le fasi
di lavorazione. Questo processo inizia dal lavoro dei progettisti e
continua lungo tutto il percorso produttivo aziendale, finchè il cliente
finale non riceve il prodotto.
Questa consapevolezza della qualità e del modo in cui tutti i dipendenti
sono importantissimi per la qualità di base del prodotto, deve essere
presentata allo staff, da parte di un management impegnato, che si
preoccupa dell’azienda e dei sui clienti. Per l’eliminazione degli sprechi di
un’azienda l’avvalersi di un team per la soluzione dei problemi è un
elemento chiave in un approccio legato al modello World Class
Manufacturing, uno dei mezzi più efficaci usati da questi gruppi di lavoro
è la tecnica del “brainstorming”, che consiste nel riunire il team,
individuando e definendo il problema da risolvere, e cercando di trovare
il maggior numero possibile di idee che possano chiarire la questione.
Nel realizzare i principi del JIT e del TQM importanti sono i
suggerimenti migliorativi del personale, mentre prima si affidava
essenzialmente all’automazione degli impianti la qualità della produzione
motoristica e dell’assemblaggio delle autovetture, la stessa esperienza
della Fiat ha poi mostrato che sia nelle lavorazioni tipicamente
meccaniche, ma anche, nelle fasi di assemblaggio, il contributo del
personale al raggiungimento del risultato è assolutamente fondamentale.
57
Il Wcm mostra tutta la sua potenzialità quando diventa un “abito
mentale”, quando l’operaio guarda al suo lavoro in modo nuovo e si
interroga su cosa può essere fatto per produrre meglio, con minore
fatica, senza spreco. Esso viene promosso e sostenuto dall’alto, ma la sua
realizzazione segue uno schema tipicamente bottom-up, cioè ogni
problema viene normalmente affrontato dall’addetto che è più a contatto
con la manifestazione del problema. I dipendenti vengono quindi
attivamente coinvolti nell’azienda, questi non devono più soltanto fare
ma anche pensare.
Fig. 2.1 Le tre aree dei metodi del miglioramento continuo
Fonte: L. Pero, Taylor e Ford, World Class Manufaturing, 2008
2.2. Strumenti e metodologie
Il Wcm si basa su una varietà di strumenti, alcuni di questi anche
complessi che richiedono competenze statistiche, ma l’essenza del Wcm
è di procedere sistematicamente alla decomposizione dei problemi in
problemi più semplici e di sviluppare accorgimenti per semplificare ogni
58
forma di controllo del funzionamento degli apparati, proprio per mettere
ogni operatore in condizione di affrontare le problematiche del proprio
lavoro. Il primo passo verso un sistema di World Class Manufacturing
consiste nella piccola manutenzione, che inizia proprio dal tenere in
ordine e pulito il proprio posto di lavoro. Sembra un dettaglio
trascurabile, ma non è così, è solo il primo passo verso un addestramento
a cogliere il manifestarsi di comportamenti anomali delle attrezzature e a
studiare come ovviarli. Ad esempio nello stampaggio dei pannelli che
costituiscono la carrozzeria di un automobile se un moscerino si
appoggia al foglio piano di lamiera che sta per essere stampato da una
pressa idraulica che esprime una forza di migliaia di tonnellate,
l’impronta del moscerino, sottilissima, ma percepibile, si trasferirà sulla
portiera o sul cofano di lamiera stampata.
All’interno della Fiat, il FAPS (Fiat Auto Production System) è un
modello integrato che ottimizza tutti i processi di produzione-logistica e
che consente di attuare un miglioramento continuo dei fattori
fondamentali, qualità, produttività, sicurezza, delivery. La sua
applicazione consente al Management di concentrarsi sul miglioramento,
invece di rincorrere i problemi quotidiani. Si pone l’obiettivo di
raggiungere significativi risultati di efficienza e di soddisfazione del
cliente, avendo come riferimento le metodologie applicate dalla migliore
concorrenza, strutturate e definite nel World Class Manufacturing.
Il Wcm realizzato alla Fiat viene quindi presentato come una
matrice nella quale le diverse aree operative dello stabilimento, indicate
come «pilastri», vanno monitorate sistematicamente per migliorare le
prestazioni attraverso l’applicazione di una molteplicità di strumenti11. Vi
11 «Metodi e strumenti per il Fiat Auto Production System», Fiat Group Automobiles, 2007
59
sono 10 pilastri tecnici e 10 pilastri manageriali o gestionali. I pilastri
tecnici si riferiscono ad una precisa metodologia, i pilastri manageriali,
sono di supporto ai criteri tecnici di pilastro, necessari per
un’applicazione ottimale del sistema di produzione. Sono azioni che
deve svolgere il coordinatore centrale del Team WCM (il WCM leader o
il direttore di stabilimento), finalizzate a favorire l'impegno e l'auto-
responsabilità dei vari preposti ai singoli pilastri di attività. Responsabilità
che, applicando tecniche e metodi di gestione per obiettivi, consiste nel
realizzare piani e progetti attraverso la diffusione di Know-How. Questi
riguardano il “commitment”, cioè l’impegno, la motivazione
coinvolgimento totale, vi è poi la cultura orientata al dettaglio.
Fig. 2.2 I pilastri tecnici e manageriali
Fonte: L. Massone, World Class Mnufaturing. Il percorso verso l’eccellenza
Il percorso di evoluzione di ogni pillastro tecnico è vincolato a 7 steps.
Prendiamo in considerazione, per motivi di semplificazione, il solo
pilastro “Sicurezza”.
60
Fig. 2.3 Pilastro “Safety” (Sicurezza)
Fonte: Metodi e strumenti per il Fiat Auto Production System, Fiat Group Automobiles, 2007
Safety Sicurezza
Perché si fa
Per soddisfare le esigenze degli addetti, assicurando il miglioramento continuo della sicurezza sul posto di lavoro.
A che cosa serve
• a ridurre drasticamente il numero degli incidenti • a sviluppare la cultura della prevenzione per quanto riguarda la sicurezza • a migliorare continuamente l’ergonomia del posto di lavoro • a sviluppare le competenze professionali specifiche
Principali attività
• audit interni periodici sulla sicurezza degli impianti • identificazione e valutazione dei rischi • analisi sistematica degli incidenti avvenuti • miglioramenti tecnici sulle macchine e sul posto di lavoro • formazione, addestramento e controllo
61
Fig. 2.4 I sette step del pilastro “Safety” (Sicurezza)
Piena implementazione del sistema sicurezza
Standard autonomi
Ispezione autonoma (contromisure contro i
potenziali problemi)
Ispezione generale per la sicurezza (addestramento
e formazione delle persone)
Standard iniziali di sicurezza (lista di tutti i problemi)
Contromisure ed estensione sulle aree simili
Analisi degli infortuni e delle cause di infortunio
Fonte: Metodi e strumenti per il Fiat Auto Production System, Fiat Group Automobiles, 2007
All’interno di ciascun pilastro possono essere utilizzati alcuni strumenti.
Step 1
step 2
Step 3
Step 4
Step 5
Step 6
Step 7
Sette step della Safety
62
Fig. 2.5 Gli strumenti del World Class Manufacturing
Fonte: Propria elaborazione
Vi sono poi continue verifiche interne ("audit"), che costituiscono uno
degli elementi per valutare, guidare e supportare l’applicazione di Fiat
Auto Production System seguendo il percorso verso il World Class
Manufacturing. Ha lo scopo di verificare l’avanzamento dei risultati e di
indirizzare il management ad una applicazione corretta dei metodi del
Sistema di Produzione, tramite i KPI (Key Performance Indicator) sulle
seguenti aree tematiche:
• Cost (costi)
• Quality (qualità)
4M Techinque (machine-material-method-man)
5 “S”: separare, ordinare, pulire, standardizzare, sostenere e migliorare
5W e 1H: Who (chi), What (che cosa), Where (dove), When (quando), Why (perché), How (come)
5 WHYS (5 perché)
AM Tag (Cartellino AM)
Equipment ABC Prioritization (Classificazione ABC delle macchine)
FMEA – Failure Mode ancd Effect Analysis (Analisi dei guasti e dei loro effetti
Kanban (Cartellino) NVVA – Not Value Added Activity (Attività a non valore aggiunto)
OPL – One Point Lesson (lezione su un punto)
Poka Yoke (evitare l’errore)
QA Matrix (la matrice assicurazione qualità)
QM Matrix (la matrice manutenzione per la qualità)
Six Sigma (sei sigma)
Value Stream Map (mappa del flusso del valore)
X Matrix (la matrice x
SMED - Single Minute Exchange of Die (Attrezzaggio in un tempo inferiore ai 10 minuti)
63
• Productivity (produttività)
• Safety (sicurezza
• Human Resource (risorse umane)
• Production System (sistema produttivo)
• Delivery (livello di servizio)
• Stock (scorte)
A tal fine sono previsti sia autovalutazioni periodiche, realizzate dal
management di stabilimento per il monitoraggio dell’avanzamento delle
attività dei pilastri, sia valutazioni esterne, a cura di manager
indipendenti, per la certificazione dei livelli raggiunti.
Lo stabilimento viene valutato per ogni metodologia con un punteggio
che varia da 0 a 5. La valutazione complessiva dello stabilimento viene
riassunta in un indicatore chiamato Indice di Implementazione
Metodologie (IIM), che può essere applicato anche a livello di Unità
Operativa e di Ute. L’IIM si ottiene come somma di tutti i livelli
raggiunti nell’implementazione di ciascuna metodologia.
La valutazione, una volta verificata da parte di esperti esterni, porta lo
Stabilimento all’assegnazione di specifici riconoscimenti (Bronzo 50
punti, Argento 65 punti, Oro 80 punti).
Fig. 2.6 Il “sistema audit”
Fonte: L. Massone, World Class Manufaturing. Il percorso verso l’eccellenza
64
2.3. L’implementazione del World Class Manufacturing
Il modello del World Class Manufacturing, costituisce, un nuovo modo
di guardare all’organizzazione, la sua implementazione è sempre un
elemento cruciale. Il vantaggio del WCM è dato dal modo in cui lo si
introduce in azienda e dai benefici che permette di ricavare. Mostreremo
di seguito i 5 passi attraverso cui applicare un programma World Class:
1) Diagnostica dell’impresa
È una verifica di tutti i settori chiave dell’impresa, il vantaggio di questa
fase è l’individuazione delle priorità d’intervento all’interno
dell’organizzazione, problemi che devono essere risolti rapidamente, ed è
proprio già in questa fase che si hanno indicazioni concrete su come
risolvere il problema. Al fine di ottenere migliori risultati , questa fase di
diagnosi dovrebbe essere condotta da un consulente esterno, libero da
pregiudizi, cioè da esperienze aziendali quotidiane o da preconcetti
consolidati dall’operare da lungo tempo in impresa.
2) Consapevolezza e autovalutazione
I programmi del WCM sono in genere guidati dalla direzione, questa
deve avere una chiara visione di quello che implica il WCM, in modo da
poterlo trasmettere al resto dell’impresa. I dipendenti devono
comprendere a pieno i principi del WCM in modo da contribuire a
migliorare il loro modo di operare in azienda. Una volta che tutta
l’impresa è giunta ad una cognizione esatta dei principi di base del
modello, potrà confrontare i risultati della fase diagnostica con il modello
65
WCM ed effettuare una sorta di autovalutazione che costituirà, poi, la
base per il piano di miglioramento.
3) Programma d’implementazione
La combinazione delle due fasi precedenti permette all’impresa di
mettersi all’opera per creare un piano di implementazione per
concretizzare i presupposti teorici. Un programma d’attuazione che deve
essere pratico e flessibile, soprattutto nella fase di pianificazione, dal
momento che man mano che si sviluppa il processo si avranno maggiori
possibilità di utilizzare al meglio le idee che proverranno dall’interno
dall’interno dello staff, sia ai livelli manageriali, sia ai livelli operativi.
4) Il cambiamento
L’azienda ha recepito il modello World Class Manufacturing e lo ha
interpretato in base alla propria situazione specifica, ed è giunto il
momento di attuare i cambiamenti. Questa rappresenta sia una fase
stimolante dal momento che i dipendenti assistono ai maggiori
cambiamenti in termini di miglioramento, ma anche una fase rischiosa,
poiché attraverso la trasformazione, le reazioni e le impressioni dello
staff devono essere gestite di conseguenza, e quindi è proprio in questo
punto che emerge l’importanza di aver svolto con efficacia le fasi
precedenti. 12
12 Keegan R., «Introduzione al World Class Manufacturing. Casi di studio ed applicazioni pratiche
di produzione snella, qualità totale ed innovazion», Milano, Franco Angeli, 2003, p. 20
66
5) Miglioramento costante
Le fasi iniziali di un programma WCM condurranno a dei miglioramenti
immediati nel sistema operativo generale dell’azienda, tuttavia
quest’ultima deve continuare a tendere il processo di miglioramento
anche in futuro.
Il sistema del WCM è stato applicato a tutti gli stabilimenti Fiat, da parte
dell’ Ad Sergio Marchionne, nel 2005 a Mirafiori, Cassino, Melfi
estendendolo infine a tutte le aziende del gruppo.
In Italia tra il 2006 e il 2009, la Fiat ha dichiarato un risparmio di 730
milioni di euro con il Wcm, incassando riconoscimenti internazionali. La
medaglia d'oro assegnata allo stabilimento di Tychy, in Polonia, e a
quello di Pomigliano, e allo stabilimento di Mirafiori la medaglia
d’argento.
2.4. Il sistema Ergo-Uas
Nel quadro del Wcm, è stato poi inserito un sistema specifico, chiamato
Ergo-Uas che, con lo stesso obiettivo di eliminare perdite e sprechi per
massimizzare il “valore aggiunto interno”, interviene sulle postazioni di
lavoro con innovazioni incrementali derivate da analisi ergonomiche,
consentendo di eliminare tutto ciò che nei movimenti dei lavoratori è
considerato uno spreco e con ciò aumentare la produttività.
Vediamo nel dettaglio in che cosa consiste questa nuova metrica, vi è
inanzittutto la presenza di due sigle nella denominazione Ergo-Uas,
dovuta al fatto che la nuova metrica è la fusione di due tecniche di
misura, una tecnica di misura dell’ergonomia basata sul sistema Eaws
67
(European Assembly Work-Sheet), è un metodo di misura dei tempi
basato sul sistema tabellare Uas (Universal Analysing System).
Uas (universal analisys system) è un sistema MTM13 (method time
measurement) che, per definire “tempi e metodi di lavoro”, descrive la
sequenza di operazioni di uno specifico compito lavorativo attraverso
l’aggregazione dei movimenti elementari effettuati dal lavoratore (ad es. i
movimenti elementari “raggiungere, afferrare, muovere, ruotare,
posizionare, rilasciare ecc.” vengono aggregati nelle operazioni “prendere
e piazzare”). Per rendere più chiara la comprensione di Ergo-Uas è utile
una descrizione sintetica dei sistemi di misurazione della prestazione
lavorativa ed, in particolare, di quello MTM.
MTM rientra nella categoria dei cosiddetti sistemi a tempi predeterminati
(PTS, predetermined time system), si tratta di sistemi che suddividono i
compiti lavorativi nei movimenti degli arti, e del corpo, ed assegnano ad
ognuno di essi un determinato valore in termini di tempo; si
propongono, cioè, di definire i tempi ed il ritmo standard di una
prestazione lavorativa. Il sistema MTM, uno dei PTS più utilizzati a
livello internazionale, scompone qualsiasi operazione manuale nei
movimenti elementari (nel senso che non sono ulteriormente
suddivisibili) necessari per eseguirla ed assegna ad ognuno di essi, sulla
base della natura del movimento e delle condizioni in cui viene
effettuato, un tempo standard predeterminato. L'operazione “prendere e
posizionare un oggetto”, ad esempio, viene suddivisa nei movimenti
elementari “raggiungere, afferrare, muovere, ruotare, posizionare,
rilasciare ecc.”. Sulla base di analisi statistiche sono state definite delle
tabelle, la cui validità scientifica è relativa e discutibile, che assegnano i
tempi standard per i movimenti elementari degli arti, è stato definito, ad
13 Tuccino F., «World Class Manufacturing e sistema Ergo-Uas», Roma, 2010, p.5
68
esempio, che il tempo necessario per raggiungere un oggetto a distanza
di 20 centimetri è di 10,5 TMU (l'unità di misura più utilizzata da MTM;
27,8 TMU corrispondono ad 1 secondo).
Tutti i sistemi MTM si basano sulle tabelle originarie, la differenza
tra MTM1 e gli altri MTM consiste essenzialmente nella tendenza ad
assemblare i movimenti elementari in azioni più complesse.
MTM-UAS, ad esempio, invece delle azioni (raggiungere,
afferrare, muovere, ruotare, posizionare, rilasciare) considera solo "
prendere e posizionare ".
Per definire i ritmi di lavoro in un'azienda, l’analista “tempi e
metodi”, sulla base dei tempi predeterminati delle tabelle MTM , osserva
un lavoratore “con un rendimento medio” ed assegna i valori del tempo
“base” per uno specifico compito lavorativo, considerando, ad esempio,
100 il valore dei tempi predeterminati l'analista, sulla base delle
caratteristiche del compito, assegna un valore inferiore (ad esempio 75) o
superiore allo standard (ad esempio 133). Dopo aver definito il tempo
“base”, o normalizzato, l'analista assegna le percentuali di tempo che
derivano dai cosiddetti fattori di “maggiorazione”, si arriva così, infine,
alla definizione di un tempo effettivo per l'esecuzione di uno specifico
compito lavorativo. La specificità di Ergo-UAS, rispetto agli altri sistemi
di misurazione del lavoro, risiede proprio nella metodologia utilizzata per
definire il fattore di “maggiorazione” (o fattore di “riposo”) del tempo
relativo ad uno specifico compito.
I sistemi “tradizionali” si focalizzano prevalentemente sui fattori di
“maggiorazione” di tipo tecnico-organizzativo, rientrano tra queste le
cosiddette operazioni “extra”(ad esempio quelle dovute ad imprevisti,
rifornimenti ecc.) che i fattori di riposo fisiologico.
69
Ergo-Uas, invece, si propone un’analisi articolata anche dei fattori di
rischio ergonomico. La particolarità di Ergo-Uas , rispetto ai sistemi
“tradizionali”, consiste essenzialmente nel tentativo di definire i fattori di
riposo, non in modo generico, ma sulla base di una metodologia per
l'analisi del carico bio-meccanico sia statico (l’assunzione ed il
mantenimento di posture a rischio) che dinamico (la frequenza dei
movimenti degli arti superiori), questa metodologia è la checklist Eaws.
Eaws, la parte Ergo del sistema Ergo-Uas, è una checklist (lista di
controllo) che, in quanto tale, si propone di effettuare una prima e veloce
“mappatura” del rischio ergonomico, sia nelle fasi di progettazione delle
postazioni di lavoro che su quelle già esistenti.
La checklist è suddivisa in 5 sezioni ognuna delle quali si occupa di
uno specifico fattore potenziale di rischio ergonomico:
• Postura: la tipologia di posture statiche assunte durante lavoro,
• Forza: il livello di applicazione di forza,
• Movimentazione manuale dei carichi,
• Fattori “extra”, presenza di vibrazioni, utilizzo di martelli ecc.,
• Movimenti ripetitivi degli arti superiori
Sulla base del confronto tra le caratteristiche di una postazione di
lavoro e le tabelle di riferimento della checklist vengono assegnati dei
valori per ognuna delle sezioni; i valori delle prime quattro sezioni (a-b-c-
d) si sommano per ottenere un indice di rischio ergonomico relativo al
“corpo intero” (whole body), i valori della sezione E (movimenti
ripetitivi), invece, vengono considerati a parte.
L'indice di rischio finale della checklist deriva dalla scelta del
valore più elevato tra quello ottenuto dalla somma dei valori delle sezioni
A-D (whole body) e quello della sezione E, relativa agli arti superiori; il
70
rischio viene classificato “verde” (assente- lieve) per valori tra 0-25,
giallo (rischio medio) tra 26-50, rosso (rischio elevato) per valori oltre 50.
Dopo la compilazione della checklist si passa alla fase
d’integrazione tra Eaws (la parte Ergo) ed Uas (la parte relativa alla
metrica del lavoro) per la definizione del fattore di maggiorazione
ergonomico (F.ergo), il valore del F.ergo viene infine sommato a quello
del fattore di maggiorazione “tecnico-organizzativo” (F.to). Si ottiene,
così, il fattore di maggiorazione complessivo del tempo di ciclo di una
postazione lavorativa ( o della cadenza di una linea di montaggio), fattore
che corrisponde al cosiddetto tempo passivo, o d’insaturazione,
dell'attività del lavoratore.
Nel sistema Ergo-Uas è stata definita una tabella per la
conversione dei valori dell’indice di rischio ergonomico, ricavati da
Eaws, nelle percentuali di maggiorazione di tempo da assegnare ad uno
specifico compito lavorativo, per valori EAWS tra 0-25, ad esempio, non
si assegna nessuna maggiorazione, tra 25-30 si ha una maggiorazione del
1,5% del tempo di ciclo, tra i 50-55 si ha una maggiorazione del 21%, per
valori oltre 80 si assegna una maggiorazione del 51%.
I dati ottenuti con la checklist Eaws, oltre alla definizione dei fattori di
maggiorazione del tempo di ciclo, possono essere utilizzati anche per
individuare delle misure di prevenzione possibili per ridurre il rischio
ergonomico, già nella fase di progettazione delle postazioni di lavoro.
71
Fig. 2.7 Il Sistema “Ergo-Uas”
72
Fig. 2.8 Prima e dopo l’introduzione del World Class Manufacturing
73
74
Fonte: L. Massone, World Class manufacturing. Il percorso verso l’eccellenza
75
Capitolo 3
La Fiat: tra crisi e rinnovamento
3.1. Dinastia Agnelli
La Fiat (sigla di Fabbrica Italiana Automobili Torino) fu fondata a
Torino l’11 Luglio 1899 da Giovanni Agnelli e altri soci.
Il primo nome Fia della neonata società (Fabbrica Italiana di
Automobili) decise ben presto di cambiare nome in Fiat (Fabbrica
Italiana Automobili Torino).
La FIAT iniziò la costruzione del famoso stabilimento produttivo
denominato Lingotto nel 1916 e lo fece entrare in funzione nel 1923.
Dopo un primo periodo di difficile sviluppo, segnato da diverse
ricapitalizzazioni e da modifiche nella composizione del capitale
azionario, non sempre in maniera pacifica ma anche sfociate in processi
clamorosi per l'epoca, la proprietà della casa automobilistica viene
assunta quasi integralmente da Giovanni Agnelli, che
diventerà senatore durante il Fascismo e resterà a capo dell'azienda sino
al termine della seconda guerra mondiale.
In questo periodo la Fiat adottò una politica di diversificazione delle
attività, rispetto a quella principale di produzione di automobili, iniziò dal
1903 la produzione di autocarri e di motori diesel e dal 1908 quella di
motori di aviazione, nel 1929 si estese nei settori dell’ingegneria civile e
dei trattori agricoli e alla fine del 1970 in settori quali l’energia e le
telecomunicazioni. Il suo ruolo nei processi di industrializzazione e di
motorizzazione della società è stato primario, privilegiando la strategia
76
della produzione di vetture utilitarie (nel 1932 la Ballila 508 e nel 1936 la
500 Topolino).
Dopo aver rischiato tuttavia di perdere la proprietà dell'azienda per la
propria compromissione con il regime fascista, Giovanni Agnelli passa il
comando a Vittorio Valletta, dal momento che l'unico figlio maschio,
Edoardo, morì in un incidente aereo. Valletta rese possibile la più ampia
diffusione dell’automobile grazie all’affermazione della produzione su
larga scala basata sulla progressiva automazione degli impianti e la
standardizzazione dei processi produttivi. La posizione di quasi
monopolio nel mercato automobilistico italiano e di grande rilievo in
quello internazionale è stata raggiunta attraverso la progressiva
incorporazione di altre società del settore, le Ferriere piemontesi nel
1917, le società Ligure piemontese automobili, Aeronautica d’Italia e
Anonima metalli nel 1947, la OM e l’Autobianchi nel 1967, la Lancia nel
1969, l’Alfa Romeo nel 1987, la Ferrari nel 1988, la Maserati nel 1993. La
FIAT ha inoltre rafforzato la dimensione internazionale, e non solo nel
settore automobilistico, attraverso una strategia di accordi e alleanze
volte al consolidamento del gruppo, soprattutto a partire dall’accordo
con l’URSS (1966), che portò alla realizzazione in quel paese di impianti
per la produzione della Fiat 124 e di una nuova città denominata
Togliattigrad.
Valletta riuscì non solo a risollevare le sorti dell’azienda ma
contemporaneamente fornì l'opportuna preparazione al ruolo che
appena possibile avrebbe dovuto assumere il giovane discendente "primo
in linea dinastica".
Gianni Agnelli, l'erede, nonché nipote del senatore Giovanni Agnelli
divenne presidente della Fiat nel 1966 e lo rimase fino al compimento del
75º compleanno, quando le norme statutarie lo obbligarono a cedere la
77
presidenza. La carica viene assunta prima (1996) dall'ex amministratore
delegato Cesare Romiti e poi (1998) da un dirigente genovese che per
molti anni lavorò alla General Electric negli USA, Paolo Fresco.
La trasformazione della Fiat in un gruppo polisettoriale e multinazionale
è stato frutto di un processo di completa riorganizzazione avviato alla
fine degli anni ’60, che ha portato alla scomposizione della struttura
rigidamente accentrata e pur sempre a spiccata vocazione
automobilistica.
L’azienda opera con i marchi Fiat Spa, composto dalle attività
concernenti, le autovetture (Fga, Maserati e Ferrari), la sezione di Fiat
Powertrain Technolgies, dedicata a motori e trasmissioni per autovetture,
la componentistica e i sistemi di produzione (Magneti Marelli, Teksid e
Comau), le altre attività fra le quali quelle editoriali (La stampa) e un
secondo gruppo denominato Fiat Industrial Spa con controllo su Iveco,
Cnh e la sezione di Fiat Powertrain Techologies concernenti i veicoli
industriali e i motori marini. Attraverso il centro di ricerche Fiat e le
società Elais, Isvor Fiat, il gruppo svolge attività di ricerca nei campi
dell’ingegneria automobilistica, dei processi produttivi e delle
metodologie tecnico-gestionali.
Altri settori d’interesse, considerati non più strategici sono stati via via
dismessi nel corso degli anni ’90 e nei primi anni del 2000, nel quadro di
un progetto di ristrutturazione e di rilancio aziendale.
Tra questi, costruzioni ferroviarie (Fiat Ferroviaria), costruzioni aeroplani
e componenti per veivoli (Fiat Avio), energia (Italenergia), servizi
finanziari (Toro Assicurazioni e Fidis Retail Italia).
Il ritardo nel lancio e il poco successo di alcuni modelli, tuttavia, hanno
portato la Fiat, dal 2000 al 2003, sull’orlo di una grave crisi. Una crisi che
78
porta il fratello Umberto alla presidenza nel 2003 e dopo la morte di
Umberto nel 2004 è la volta di Luca Cordero di Montezemolo.
L'erede designato dalla famiglia Agnelli, John Elkann, è stato
nominato vice presidente all'età di 28 anni e altri membri della famiglia
fanno parte del consiglio di amministrazione. L'Amministratore
Delegato, Giuseppe Morchio, dimissionario, viene sostituito da Sergio
Marchionne, dal 1 giugno 2004, che risolleva le sorti dell’azienda con una
netta riconquista di quote di mercato. I principali poli di attività all’estero
sono costituiti dai paesi dell’UE, dal Sudamerica (Brasile e Argentina) e
da alcuni paesi dell’Est europeo. Nel 2009 la società ha stabilito un
alleanza strategica globale con la statunitense Chrysler, acquisendo il 20%
e aumentando progressivamente la sua partecipazione fino a portarla nel
2011 al 53,5% e a raggiungere la completa acquisizione nel 2014.
3.2. Il nascere della crisi
Da molti anni, le vicende Fiat sono oggetto di attenzione da parte degli
ambienti economici, sociali e politici del paese, ed è proprio questo ad
indicare l’importanza che il gruppo riveste nel contesto italiano.14 Oggi,
tuttavia, a far discutere con crescente preoccupazione sono soprattutto i
numerosi problemi che l’azienda sta vivendo. Non si tratta certo della
prima crisi con cui essa ha avuto a che fare, già nel 1907, solo dopo otto
anni dalla sua nascita, l’azienda vive un momento di difficoltà. Qui ci
soffermeremo, tuttavia, solo sulle vicende più recenti e in particolare su
14 Comito V., «L’ultima crisi. La Fiat tra mercato e finanza», l’Ancora, 2005, Napoli, p. 5
79
quella manifestatasi in modo eclatante nel 2002, già iniziata in modo
strisciante nel decennio precedente.
Negli anni di forte sviluppo economico successivi alla seconda guerra
mondiale Fiat Auto aveva attraversato una fase caratterizzata
sostanzialmente dagli elementi propri del modello fordista. Fase nella
quale, aveva lanciato delle piccole vetture a costi assai contenuti, grazie
anche alle forti economie di scala consentite da standardizzazione e di
meccanizzazione dei processi produttivi.
Questa evoluzione era favorita anche dal fatto di manifestarsi in un
periodo nella quale la concorrenza internazionale risultava ancora assai
modesta per effetto delle marcate barriere tariffarie all’import-export
allora presenti, che in Europa cadranno nel luglio del 1968 con la
costituzione del Mercato comune europeo dell’automobile. Questa
strategia competitiva, basata su aspetti caratteristici del modello fordista e
sulla volontà di mantenere l’interlocutore sindacale in posizione
subordinata, si mostrò negli anni ’60 sempre meno adeguata, ponendo in
discussione sia la governante dell’impresa, sia il suo assetto organizzativo
e le relazioni sindacali. La crisi scoppiò nell’autunno del 1969 (“autunno
caldo”) con una contestazione sindacale che impose l’inizio di un lungo
processo di riorganizzazione che, sul piano dell’assetto aziendale, diede
inizio alla strutturazione della Fiat per settori industriali,
precedentemente organizzata su rigidi criteri di natura funzionale.
La crisi alla Fiat, apertasi con l’autunno caldo, si protrasse a lungo anche
per il cumularsi del primo shock petrolifero del 1973, le cui ripercussioni
furono particolarmente gravi in Italia e successivamente per il
deteriorarsi delle relazioni sindacali e il manifestarsi di una grave deriva
politica rappresentata dal terrorismo (Brigate Rosse). Nel 1980 l’azienda
riuscì a riprendere l’iniziativa sia sul piano sindacale che su quello politico
80
e nel 1983 si aprì una stagione di forte ripresa economica dell’intero
gruppo Fiat, e di Fiat Auto in particolare, a seguito del lancio della Uno,
una piccola vettura che presentava forti elementi innovativi rispetto
all’offerta concorrente. A questo modello seguiranno altri prodotti di
successo come la Fiat Croma, la Fiat Tipo e la Lancia Thema. Nel 1987
la Fiat aveva da poco acquisito la società Alfa Romeo, superando
l’offerta della Ford. Venne così costituita la cosiddetta Alfa-Lancia
Industriale ai quali furono assegnati obiettivi particolarmente ambiziosi.
La seconda metà degli anni ’80 premiò questa impostazione, anche se gli
obiettivi di crescita dei marchi Alfa Romeo e Lancia risultarono di gran
lunga inferiori a quelli ipotizzati, Fiat Auto concluse il decennio con
risultati decisamente brillanti.
Per mantenere anche nel decennio successivo il livello di competitività
raggiunto alla fine degli anni ’80, è necessario sottolineare che erano in
atto profonde trasformazioni tanto sul versante della domanda
automobilistica, in quanto nelle fasi di crisi e di espansione i marchi
controllati dalla Fiat partivano da una posizione quasi monopolistica, per
effetto della crescita della motorizzazione, la domanda automobilistica
italiana si stava progressivamente orientando verso una preferenza per la
varietà, che portava a dilatare la quota delle vetture appartenenti ai
mercati di nicchia nella quale la Fiat risultava poco presente, e sia nella
riorganizzazione dell’offerta automobilistica, in quanto l’intensificarsi
della multimotorizzazione, da inizio ad un processo di segmentazione del
mercato in comparti e nicchie sempre più ristrette, con lo scopo di
realizzare offerte mirate su specifici consumatori. Questa evoluzione
aveva impattato significativamente sugli spazi di manovra di Fiat Auto
che forzata da una normativa fiscale italiana particolarmente penalizzante
81
nei confronti delle vetture di grossa cilindrata. E infine la pressione dei
concorrenti giapponesi che si stava facendo sempre più importante.
Già alla fine degli anni ’80 era quindi evidente che si sarebbe profilata
una stagione caratterizzata da una forte accentuazione del confronto
competitivo in Europa, soprattutto per marchi collocati nella parte
inferiore della gamma di segmenti, come nel caso di Fiat Auto che, pur
avendo goduto di un periodo favorevole fino al 1989, avrebbe comunque
dovuto realizzare profonde trasformazioni per mantenere inalterate le
proprie chance di successo. In particolare gli obiettivi da realizzare erano
quello di raggiungere un maggior equilibrio delle vendite nelle diverse
aree commerciali, alla fine degli anni ’80 la distribuzione geografica delle
vendite del gruppo era troppo sbilanciata sul mercato domestico e su
quello dell’Europa occidentale, era quindi necessario impostare una
nuova e più incisiva politica di internalizzazione. Una più chiara
definizione del posizionamento dei marchi, era necessario trovare una
corretta collocazione ai tre marchi (Fiat, Alfa Romeo, Lancia) cercando
di realizzare economie con la condivisione di parti componenti e di
piattaforme, ma stando attenti a non sovrapporre i ruoli dei marchi e
soprattutto a mantenere l’individualità dei modelli per quanto riguarda le
caratteristiche delle motorizzazioni, prestazioni, ecc. inoltre vi era
l’obiettivo di riposizionare i marchi del gruppo, e quello della Fiat in
primo luogo, verso la parte superiore dei segmenti della propria offerta.
L’innalzamento complessivo della qualità, la fiat in questo campo aveva
maturato scarse competenze soprattutto per il fatto di poter contare per
decenni su un mercato interno in forte crescita, ma alla fine degli anni ’80
era evidente che i produttori giapponesi avevano ormai stabilito dei
nuovi standard di affidabilità ai quali nessuno poteva più sottrarsi.
82
Purtroppo i cambiamenti avvenuti al vertice di Fiat Auto nel 1989
risultarono gravemente inadeguati alla sfida competitiva che doveva
essere affrontata, soprattutto per l’inadeguatezza del nuovo top
management che, anche nei casi in cui si mosse nella direzione richiesta
dallo scenario competitivo in via di formazione, lo fece con una gestione
contraddistinta da ritardi ed errori.
L’aspetto più rilevante è che se le carenze strategiche furono di non poco
conto, anche la gestione operativa risultò gravemente carente. Cesare
Romiti divenuto Ad di Fiat Auto alla fine del 1988, era innanzitutto
ansioso di ridurre il peso del settore auto, all’interno del gruppo. Ciò si
tradusse in uno spostamento dei profitti generati dal settore aut
automobilistico verso altri settori, facendo così crescere le attività
diversificate. Per quanto riguarda il rinnovo dei modelli vi fu indubbio un
rallentamento, si diede l’avvio a un programma di «Qualità Totale»
mirante ad innalzare la qualità delle autovetture e la loro affidabilità.
Tuttavia questo processo imitativo delle pratiche giapponesi basate sui
circoli di qualità, sulla sollecitazione di suggerimenti migliorativi da parte
dei dipendenti, pur ottenendo risultati inizialmente incoraggianti, si
dimostrarono non duraturi. Il risultato fu una netta contrazione delle
quote di mercato tanto in Italia che in Europa occidentale. Questo
risultato non mancò di allarmare Gianni Agnelli che indusse Romiti a
cedere nel dicembre del 1990 la posizione di amministratore delegato di
Fiat Auto a Paolo Cantarella.
L’ingegnere Cantarella, diede l’impressione di poter ridare impulso al
gruppo automobilistico procedendo al rinnovo della gamma. Nel 1993 si
ebbe l’importante successo rappresentato dal lancio del modello Punto,
che sostituiva il modello Uno, a cui seguì l’ampliamento della gamma
Fiat e Alfa Romeo. Tuttavia, anche forse per l’attivismo seguito alla stasi
83
nel lancio di novità dal 1989 al 1992, non tutti i modelli apparvero
all’altezza del compito loro assegnato, soprattutto dal punto di vista
qualitativo. Per alcuni ci furono rilevanti problemi di affidabilità, mentre
altre vetture risultarono stilisticamente inadeguate. Sia la stampa sia la
clientela furono concordi nel bocciare la nuova gamma di modelli e le
vendite complessive si ridussero drasticamente.
Nel 1995, con il lancio dei modelli abbinati Fiat Bravo/Brava si sarebbe
dovuta ottenere una svolta, ma fin dall’inizio si manifestarono dei
problemi di qualità che minarono alla base le notevoli possibilità del
modello Bravo, mentre le vendite della Brava non decollarono mai.
Nel febbraio del 1996 Giovanni Agnelli assunse la posizione di
presidente onorario e la sua precedente posizione venne assegnata a
Cesare Romiti. Nel marzo successivo si ebbe il passaggio dall’Ingegner
Cantarella alla posizione di amministratore delegato del gruppo Fiat ed il
subentro nella sua precedente posizione dell’ingegner Roberto Testore.
In nuovo assetto manageriale non ottenne i risultati sperati ed anzi la
situazione si fece sempre più difficile. La necessità di investire nelle
attività prevalenti del Gruppo Fiat spinse Gianni Agnelli a cedere
numerose imprese del gruppo e ad inserire nel Consiglio di
amministrazione di Fiat Spa una persona in grado di negoziare accordi
internazionali, Paolo Fresco, che vantava una lunga esperienza nella
General Elettric. Nel 1998 la posizione di Romiti, venne presa da Paolo
Fresco e Paolo Cantarella venne riconfermato Ad del Gruppo Fiat.
Nel biennio 1998-2000 il Gruppo Fiat effettuò importanti acquisizioni
fra le quali la società americana Case, per il consolidamento delle attività
del settore Macchine per il movimento terra e la Progressive tools &
Industries Co. (Pico), per il consolidamento della società Comau,
specializzata nei sistemi di produzione.
84
Queste acquisizioni, effettuate a prezzi particolarmente elevati, ebbero
un effetto rilevante nell’accentuare il fabbisogno finanziario dell’intero
Gruppo Fiat. Il prolungarsi della crisi, e la continua perdita di quote di
mercato nei principali mercati di riferimento avrebbe dovuto imporre un
pronto rinnovo del top management al quale invece la famiglia Agnelli, e
l’avvocato in prima persona, rinnovarono la fiducia.
Il progressivo accentuarsi della crisi di fiat Auto cominciò ad innescare
un circolo vizioso nel quale la situazione di deficit derivante dalla
gestione industriale spingeva verso un maggior indebitamento e una
contemporanea riduzione delle risorse interne in termini di occupazione,
investimenti industriali, ecc.
La massa di capitali da reperire allo scopo di attuare il progetto di
globalizzazione della Fiat, soprattutto per l’acquisizione della società
Case (macchine movimento terra) e Pico (sistemi di produzione), era
così rilevante che il suo autofinanziamento sarebbe risultato
inevitabilmente insufficiente e si sarebbe dovuto far ricorso in misura
rilevante al mercato internazionale dei capitali. Era quindi necessario che
la Fiat potesse presentarsi di fronte alla comunità internazionale come un
società guidata dagli stessi canoni propri di questa comunità.
Consisteva nel riuscire a mantenere livelli qualitativi e di affidabilità del
prodotto su standard comparabili a quelli della concorrenza, ma con una
struttura snella, e quindi meno costosa.
Il gioco tuttavia non riuscì, sia perché le scelte stilistiche dei modelli non
risultarono felici, sia perché la qualità percepita dal cliente del complesso
dei modelli costitutivi dei tre marchi del gruppo non apparvero allineati a
quelli della concorrenza.
La situazione di crisi del gruppo torinese si manifestò in maniera
eclatante nel dicembre del 2001 con le dimissioni di Roberto Testore, Ad
85
di Fiat Auto, mentre Paolo Cantarella restava al suo posto di presidente
di Fiat Auto e Ad del gruppo Fiat.
A Testore succedette Giancarlo Boschetti, data la sua formazione
tipicamente commerciale egli comprese subito che il punto più critico
della situazione era rappresentato dal rapporto con la clientela finale, che
si era gravemente deteriorato nel tempo. Un altro passo importante
dell’azione di Boschetti fu lo sviluppo di una nuova versione della Panda
e la riorganizzazione delle responsabilità gestionali dei tre marchi: Fiat,
Alfa Romeo e Lancia.
Di fatto però la sua azione si configurò come una gestione-ponte dal
momento che egli era ormai prossimo alla pensione e lasciò il gruppo a
metà 2003.
Il 2003 è l’anno in cui viene a mancare l’avvocato Agnelli il cui posto
venne preso dal fratello Umberto a sua volta mancato nel maggio del
2004. La casa automobilistica, oltre che l’intero Gruppo Fiat, si trovò
quindi in una fase di continui cambi di governante che hanno certamente
reso più difficile l’azione di risanamento.
3.3. Le ragioni della crisi
Le spiegazioni che si possono offrire per cercare di capire le ragioni di un
tale disastro sono di varia natura, alcune di esse sono esterne, altre
interne al mondo delle imprese.15
Per quanto riguarda le ragioni esterne, si può far riferimento alla
progressiva apertura dei mercati internazionali, alle crisi petrolifere, alla
ormai raggiunta maturità delle economie occidentali, all’emergere di
15 Comito V., «L’ultima crisi. La Fiat tra mercato e finanza», l’Ancora, 2005, Napoli, p. 15
86
nuovi paesi che si sviluppano fortemente le loro attività economiche, ma
questi sono fattori con cui hanno dovuto fare i conti, e da tempo, anche
le grandi imprese delle altre nazioni.
Nel caso specifico dell’Italia, il carattere dell’intervento pubblico verso le
nostre imprese ha avuto un peso rilevante nello sviluppo della crisi, non
tanto per la quantità delle risorse messe a disposizione dal mondo
politico, che spesso si sono rilevate sin troppo abbondanti, quanto per la
loro scarsa qualità. L’intervento pubblico si è concentrato, in genere,
soprattutto sul piano delle erogazioni finanziarie, e meno, invece, su
quello della politica economica e industriale qualificata. Le risorse sono
state poi stanziate prevalentemente in maniera casuale o attraverso criteri
politici, senza guardare agli interessi di lungo termine del paese e delle
stesse imprese. Non si sono saputi difendere i settori maturi, né,
peraltro, incoraggiare quelli innovativi e l’innovazione in generale. Così,
per esempio, per quanto riguarda la politica di alleanze con l’estero, che
in particolare il settore pubblico avrebbe dovuto perseguire, si è
proceduto per molto tempo in maniera del tutto casuale o distorta
(Gallino, 2003).
Per quanto riguarda le responsabilità del mondo imprenditoriale, le cause
che si possono citare sono molte.
Innanzitutto, a livello gestionale vi è, nell’impresa italiana, una spiccata
tendenza alla diversificazione, non appena si raggiungono solidi risultati
nel proprio core business, si manifesta una irrefrenabile spinta a deviare
l’attenzione verso settori diversificati, trascurando spesso i business
primari.
Il sistema imprenditoriale italiano ha poi tendenzialmente trascurato tutte
quelle attività portatrici i risultati nel lungo periodo, quali la ricerca,
l’innovazione, la formazione. In particolare, per quanto riguarda la
87
ricerca, è noto come l’Italia sia tra i paesi occidentali a spendere di meno
per questa funzione, e ciò da attribuirsi soprattutto alle imprese. Le
nostre imprese si sono sempre più spesso orientate all’innovazione di
processo, in particolare alla ricerca esasperata di metodologie finalizzate
all’abbattimento del costo del lavoro in fabbrica e molto meno, invece,
verso l’innovazione di prodotto, le esigenze di mercato, i movimenti
della concorrenza. (Gallino, 2003).
Dopo questa premessa di carattere generale sulle possibili crisi del
sistema delle imprese passiamo ad analizzare nel dettaglio la situazione
della Fiat, che sul fronte della finanza si presenta cruciale sin dai primi
anni della sua vita. Così quando nel 1907 si manifesta la prima e lunga
serie di crisi d’azienda, una delle banche principali, l’allora Credito
Italiano, interviene decisamente per salvare la situazione.
Il reperimento delle fonti di finanziamento è stata sempre una questione
molto tormentata, in relazione sia alla grande carenza di mezzi propri
delle imprese, sia alla struttura del sistema bancario e all’assenza della
borsa dall’Unità d’Italia ad oggi.
Bisogna ricordare che sino al 1968, la Fiat riusciva ad autofinanziare gran
parte delle necessità derivanti dalla gestione operativa e dallo stesso
sviluppo. Questa situazione era da collegare anche al fatto che i singoli
mercati nazionali erano, in quel periodo, in forte crescita, essi erano,
inoltre, sostanzialmente chiusi, nonché dominati da uno o pochissimi
produttori locali. Ma la grave crisi industriale italiana dei primi anni
Settanta, con la riduzione dei livelli di crescita del mercato, l’apertura
progressiva delle frontiere, la contestazione operaia, l’inflazione in forte
salita, la prima crisi petrolifera, pone dei problemi molto rilevanti.
A questi problemi si rispose ricorrendo nuovamente all’assistenza di
Mediobanca. La situazione economica e finanziaria della Fiat migliora
88
per quasi tutti gli anni ‘80, in relazione al notevole incremento dei
risultati produttivi e di mercato.
Negli anni ’90, a seguito dei contrasti tra la famiglia Agnelli e Enrico
Cuccia si verifica la rottura tra la Fiat e Mediobanca, mentre la stessa
banca d’affari nel mutato contesto dei mercati finanziari ormai aperti,
appare in sempre maggiori difficoltà. Si pone, così, fine al meccanismo
delle relazioni privilegiate. La Fiat non ha più un ancoraggio stabile dal
punto di vista finanziario.
Negli ultimi anni, l’azienda ha, in parte, cercato di rimediare alla perdita
del legame privilegiato con Mediobanca, creando un rapporto abbastanza
stretto con quattro grandi banche nazionali (Capitalia, IntesaBci,
SanPaolo Imi, Unicredit).
Al manifestarsi e all’intensificarsi di risultati economici negativi e
parallelamente alla riduzione di mezzi propri, il livello dell’indebitamento
è di recente notevolmente cresciuto, collocandosi anche sull’onda
dell’accettazione dei nuovi paradigmi che, in campo finanziario, sono
venuti, nell’ultimo periodo, dagli Stati Uniti.
Bisogna sottolineare come l’origine della crisi della società non sia solo di
tipo finanziario ma vada fatta risalire alle decisioni errate che sono state,
prese, a livello operativo, dalla famiglia e dal management. La Fiat ha
speso somme molto rilevanti per un forte sviluppo dei processi di
diversificazione e per la cancellazione di alcuni titoli del gruppo dal
listino (Fidis, Magneti Marelli, Toro, Comau).
Le vicende mostrano come la famiglia Agnelli, e in particolare, Gianni,
non siano riusciti ad esercitare un adeguato ruolo di guida, e non siano
stati in grado, più in generale, di risolvere in modo soddisfacente i
numerosi conflitti di potere che, nel tempo, si sono scatenati all’interno
del gruppo.
89
Per quanto riguarda la politica delle acquisizioni, la Fiat ha cercato di
muoversi in molte direzioni, senza mai ottenere i risultati sperati. Furono
numerosi i tentativi della famiglia Agnelli e di alcuni suoi dirigenti di dare
al settore dell’auto una dimensione più rilevante, giudicando che, da sola,
l’azienda non ce l’avrebbe fatta.
A parte gli sfortunati episodi dell’acquisizione temporanea della Citroën,
un progetto che non si realizzò per l’opposizione degli altri produttori
francesi, e della cessione della Seat negli anni ’60, un altro tentativo,
molto rilevante, fu l’ipotesi di fusione con la Ford Europa nel 1985,
un’opportunità poi sfumata anche per l’opposizione di Romiti.
Negli anni ’90, ci furono poi tentativi di acquisizione di Volvo, di
Chrysler, Bmw e, più recentemente, di Daewoo, ma anche di Renault e
quello più limitato con la Mitsubishi.
Risale ormai a diversi anni fa l’intesa, limitata ai veicoli commerciali e alle
monovolume, con Peugeot. Si perfezionò un accordo con la Suzuki per
la realizzazione di fuoristrada. È ovviamente, riuscito, a suo tempo, il
tentativo di acquisire l’Alfa Romeo.
Tutti questi casi indicano come la Fiat, da una parte, mostra molto
timore a lanciarsi veramente in un’avventura impegnativa, forse
conoscendo i propri limiti in termini di risorse umane e finanziarie,
dall’altra, bisogna registrare la grande diffidenza che, a livello finanziario
e politico, circonda spesso, all’estero, le imprese italiane, di frequente
escluse dalle possibili contese per la conquista di qualche preda ambita.
L’internalizzazione preconizzata dall’Avvocato Agnelli prese invece
corpo nella seconda metà degli anni ’90 con un diverso schema di
internalizzazione, basato sulla costruzione di un world car orientata ai
mercati di prima motorizzazione e denominato Progetto 178. Si trattava
di realizzare una famiglia di vetture a partire dallo stesso pianale da
90
produrre in un pluralità di paesi, ma in modo rigorosamente
standardizzato.
La globalizzazione della vettura era mirata ai paesi in fase di prima
motorizzazione come il Brasile, l’Argentina, la Polonia, la Turchia,
l’India, la Cina. L’obiettivo era quello di arrivare verso il 2003 a cumulare
una produzione complessiva di circa un milione di unità da produrre in
una dozzina di paesi. L’idea aveva del buono anche se la crisi finanziaria
internazionale del 1998 portò a un forte rallentamento del progetto.
L’accordo di Fiat con la General Motors realizzato nel 2000 può essere
considerato un nuovo sviluppo del progetto di internalizzazione che la
casa torinese intendeva realizzare.
Il modello seguito poi nell’attività di produzione della Fiat, per quanto
riguarda i rapporti con i fornitori esterni, è quello della fabbrica integrata.
Una scelta dettata, per la Fiat, da uno stato di necessità, poiché
mancavano, all’epoca, da una parte imprese esterne in grado di produrre
materie prime, componenti, dall’altro era invece da attribuire a scelte
originate da considerazioni di tipo economico, sociale e politico.
Questo modello iniziale subì nel tempo delle modifiche, quando nel
periodo dell’autunno caldo, per uscire dalla crisi, la Fiat iniziò a dislocare
verso l’esterno alcune lavorazioni importanti, affidandole di frequente a
dirigenti o ex dirigenti del gruppo. Si mirava così a ridurre i costi e ad
acquisire flessibilità nei rapporti con la manodopera.
Dai primi anni ’90, invece, ci troviamo di fronte a un nuovo ciclo che
tocca tutti i settori e tutti i paesi, la cosiddetta fase di outsourcing, che
comporta oltre a un aumento dei livelli di esternalizzazione, anche
rapporti più stretti e di lungo periodo tra imprese e fornitori.
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Si colgono i segni di una più generale tendenza al passaggio dall’impresa
organica, altamente integrata, all’impresa a rete, o comunque a
organizzazioni molto più agili e flessibili che nel passato.
Questa tendenza si traduce, qua e là, anche nel fatto che i produttori di
auto si liberano delle aziende da loro controllate nel settore della
componentistica.
La tendenza all’esternalizzazione non è spinta solo dalla necessità di
ridurre i costi e l’intensità di capitale delle proprie attività, ma anche
dall’esigenza di assicurarsi capacità di progettazione e di
ingegnerizzazione. Viene cioè richiesto ai fornitori di assumersi crescenti
responsabilità nella progettazione e nel miglioramento dei prodotti loro
assegnati.
Queste trasformazioni hanno creato problemi a tutte le imprese
automobilistiche e nello specifico, per la Fiat.
L’introduzione della fabbrica integrata e poi della fabbrica modulare
porta a una nuova selezione dei fornitori, che riflette il passaggio
dall’acquisto di singoli particolari a quello di sistemi e moduli.
Gli stessi piccoli fornitori legati tradizionalmente alla Fiat, a seguito di
tale mutamenti, oltre che per le pressioni verso una riduzione dei costi e
per le ricorrenti crisi del gruppo, tendono a diversificare gli sbocchi e a
cercare di dipendere meno di prima dalla società di Torino.
Una specificità del gruppo è rappresentata dal fatto che, mentre le altre
società dell’auto si allontano sempre di più dalla componentistica (il caso
della General Motors e della Ford), la Fiat investe somme ingenti, che in
parte sottrae al settore dell’auto. Magneti Marelli, Comau, Teksid
rappresentano delle imprese tecnologicamente avanzate, che hanno
bisogno di rilevanti investimenti ma che non danno grandi redditi.
92
Nell’ultimo periodo, la Fiat ha tentato di ridurre la dipendenza di tali
società dal gruppo, aprendole maggiormente al mercato esterno.
L’azienda inoltre nei primissimi anni del nuovo millennio, presenta,
rispetto agli altri concorrenti, maggiori difficoltà a ridurre i tempi di
introduzione sul mercato dei nuovi modelli, e questo in relazione ad
almeno tre fattori, da una parte, essa ha investito poco nella ricerca e
nell’innovazione, dall’altra, ha continuato a mostrare a lungo una
preoccupante lentezza di reazione agli eventi, in relazione ad una
struttura organizzativa molto pesante e molto lenta a reagire e infine ha
scontato una mancanza di risorse finanziarie adeguate.
L’esternalizzazione spinta praticata dalla Fiat nell’ultimo periodo ha
comportato in positivo un risparmio di risorse finanziarie, ma forse,
anche, la perdita di competenze rilevanti. Per alcuni autori, il
decentramento del gruppo si è accompagnato a un impoverimento
strutturale del ciclo industriale, svuotando l’impresa di alcune
competenze fondamentali.
Può essere questo a questo punto importante fornire anche alcune breve
indicazioni per quanto riguarda l’evoluzione della struttura di fabbrica.
La tradizionale organizzazione del settore vedeva al centro del sistema, la
catena di montaggio, classico esempio di lavoro ripetitivo, di ambiente di
lavoro nocivo, di concentrazione in un unico luogo di grandi masse di
persone, di rigidità di comportamento e grande reazione ai mutamenti
dell’ambiente. È noto a quali resistenze questo tipo di organizzazione
abbia comportato, in particolare nei grandi stabilimenti come Mirafiori,
con la sua lata concentrazione di lavoro operaio. A partire dagli anni ’70,
la Fiat ha cercato di intervenire in modo massiccio su questo tema e la
situazione, nel tempo si è evoluta. Il problema è stato affrontato dal
management con vari strumenti, quali ad esempio la riduzione delle
93
dimensioni degli stabilimenti, anche attraverso il ricorso massiccio
all’esternalizzazione, lo spostamento di una parte delle produzioni al Sud,
l’aumento della produttività grazie anche all’automazione di molte
lavorazioni.
Dietro tutti questi mutamenti è tuttavia rimasta, da parte della dirigenza
Fiat, una visione di fondo della fabbrica come un luogo in cui controllare
strettamente e con metodi fortemente autoritari il comportamento e le
prestazioni della forza lavoro. Le agitazioni operaie, mostrano come la
Fiat continui a trascurare largamente il fattore umano, imponendo
condizioni di lavoro alla lunga insostenibili, nonché salari molto bassi.
Non si può comprendere forse molto della situazione e dei problemi
della Fiat se non si coglie il senso dell’evoluzione dei suoi rapporti con i
poteri pubblici e con la società civile. Nelle difficoltà, ma anche nei
periodi di prosperità, la Fiat è stata a più riprese aiutata dal governo.
Sicuramente i rapporti fra la dirigenza dell’azienda e i decisori pubblici
non hanno avuto un andamento costante è indubbio che tutti i governi
hanno dovuto tener conto delle richieste della Fiat e, più in generale, del
suo potere d’influenza.
Dalla fine degli anni ’80 agli inizi degli anni ’90 lo Stato ha continuato ad
intervenire frequentemente in favore dell’azienda torinese con vari
strumenti (protezionismo, incentivi di diverso genere), a partire dagli
anni ’90 fino ai giorni nostri, il sostegno pubblico alla Fiat si è
progressivamente ridotto come conseguenza della intensificazione del
processo di europeizzazione.
La Fiat ha avanzato richieste ai decisori pubblici che non hanno lesinato
l’aiuto quando riscontravano comunanza di interessi con la dirigenza
dell’azienda, mentre lo hanno negato quando le loro priorità erano
diverse da quelle dalla Fiat.
94
Gli aiuti concessi dallo Stato italiano alla Fiat sono stati di varia natura,
quelli più consistenti sono certamente stati quelli volti ad incentivare gli
investimenti del Gruppo Fiat nel Mezzogiorno d’Italia, vi sono stati poi
incentivi per le attività di ricerca e sviluppo (R&S), sostegni per
ristrutturazione degli impianti meridionali e innovazione, sgravi fiscali,
barriere alle importazioni e barriere fiscali, gli ammortizzatori sociali
utilizzati per attenuare gli effetti negativi, in termini di stabilità sociale,
derivanti dalla crisi delle aziende. Le tre forme più usate di
ammortizzatori sociali sono il «prepensionamento», con il quale viene
concessa ai lavoratori in esubero la possibilità di fruire anticipatamente
delle prestazioni pensionistiche, la messa in «mobilità», che permette di
dislocare i lavoratori in eccedenza presso altre unità produttive carenti di
personale. La «cassa integrazione guadagni ordinaria e straordinaria» (Cig
e Cigs) che consistono nell’erogazione di un trattamento salariale
integrativo o sostitutivo per quei lavoratori sospesi dall’attività lavorativa
o costretti a ridurre il proprio orario di lavoro, a causa di momentanee
difficoltà dell’azienda.
L’analisi fin qui svolta ci permette ora di individuare delle conclusioni
plausibili sui vari aspetti della gestione aziendale della Fiat.
Si può innanzitutto, trarre la convinzione che nel gruppo di Torino,
dopo la conclusione del suo periodo d’oro alla fine degli anni Ottanta,
fosse maturata, a torto o a ragione, l’idea che esistessero rilevanti
difficoltà, in Europa, a competere da soli nel business dell’auto o,
comunque, che non fosse possibile individuare significative potenzialità
di crescita di tale area. La Fiat valutava, a maggior ragione, di non essere
in grado di entrare in maniera significativa nel mercato delle altre aree
sviluppate, come Stati Uniti e Giappone. Questa convinzione si intreccia
contemporaneamente con una crisi istituzionale al vertice della società e
95
l’uscita dal gruppo degli specialisti che avevano fatto, almeno per un
certo periodo, la fortuna dell’auto e della stessa Fiat.
I risultati negativi ottenuti sul fronte economico e finanziario si
sommano agli inizi del nuovo millennio, alla situazione generale del
gruppo, aggravata in Italia anche dalla perdita progressiva di una serie di
punti di forza nel campo della finanza, della gestione dei fornitori, di
egemonia sulla Confindustria, nella politica e nell’opinione pubblica. Gli
anni che vanno dal 2000 al 2005 portano l’azienda in un’impasse
rilevante, dalla quale cerca di premunirsi, almeno in parte, predisponendo
un possibile vendita del settore auto alla General Motors.
Così, per gli Agnelli del 2000, la Gm restava il partner più forte del
mondo, il migliore possibile per assicurare la continuità del prodotto
Fiat, in un campo in cui sembrava ormai improbabile fare da soli.
Agnelli diceva di aver preferito diventare socio della Gm piuttosto che
vendere ad altri. Tale infatti era l’alternativa reale, se la Fiat non avesse
scelto il partner americano avrebbe dovuto accettare l’altra offerta,
secondo molti interessante, che le era stata avanzata dalla
DaimlerChrysler e che prevedeva la cessione del settore auto.
La fiducia risposta nella Gm consisteva in due elementi distinti ma
convergenti, il primo era di sicuro rappresentato dalla certezza di Agnelli
circa la superiorità del modello americano, secondo la visione che gli era
stata trasmessa dal nonno, il secondo, determinante, stava nella gradualità
con cui gli americani intendevano la propria egemonia sul settore e la
amministravano.
Si trattava di operare uno scambio azionario che avrebbe sancito la
cooperazione nel campo della produzione di motori e delle piattaforme,
proiettando l’eventualità di un’incorporazione in un futuro non ben
definito. Era quanto bastava a salvare, almeno nel breve periodo,
96
l’autonomia della Fiat e a far dire che gli Agnelli non avevano rinunciato
alla produzione automobilistica, dismettendo la missione industriale che
era stata del fondatore.
Difendendo il valore della put option, destinata a diventare la pietra dello
scandalo nelle pratiche di divorzio tra la Fiat e la Gm, insisteva sul fatto
che essa rappresentava una clausola di salvaguardia, in un certo senso
estrema, di ultima istanza.
Fatto sta che la famiglia Agnelli, per bocca del suo capofila, escluse nel
2000 un’uscita dal settore automobilistico, quanto meno nell’immediato e
negli anni a venire.
Per la Fiat, il teatro della globalizzazione possedeva un’innegabile
impronta americana, che bisognava rispettare.
Le speranze che nel marzo del 2000 la Fiat aveva riposte nella Gm,
scorgendo in essa il porto sicuro in cui trovare riparo alle insidie della
concorrenza su scala globale, dovevano rivelarsi illusorie. 16La Gm non
era più il titano industriale che Gianni Agnelli aveva evocato quando si
era soffermato sui vantaggi dell’alleanza. Dopo d’allora, infatti, doveva
incominciare la stagione più difficile per quello che era, sì, il colosso di
Detroit, ma un colosso dai piedi d’argilla, per di più con incrinature
evidenti. Dal 2000 la quota di Gm sul mercato statunitense scende
rapidamente. La reazione sarà affidata a politiche di promozione
commerciale spericolate, gli sconti concessi ai dipendenti verranno estesi
a tutta la clientela e, pur di vendere, la Gm parrà disposta a incentivi mai
così vantaggiosi per i consumatori americani.
La Gm ansima poi sotto i colpi di una concorrente spietata e
inarrestabile, una tendenza che doveva far parlare, negli Stati Uniti, della
16 Berta G., «La Fiat dopo la Fiat. Storia di una crisi, 2000-2005», Milano, Mondadori, 2006,
p. 57
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«fine di Detroit», a causa di un offensiva giapponese che ha eroso la
storica supremazia che le grandi case americane detenevano da sempre
nel settore.
A impressionare e sconcertare più di tutto è stata l’ascesa inarrestabile
della Toyota, legittimatasi come il modello industriale di maggior
successo, oggi inattaccabile dai produttori occidentali per
organizzazione, qualità, performance.
Insomma, l’egemonia dell’Asia nel sistema mondiale dell’auto agli inizi
del XXI secolo è fuori discussione, questa è divenuta la scacchiera che
simboleggia il mutamento degli assi produttivi sui quali si disloca il
sistema dell’auto. La Cina e l’India, dopo il Giappone e la Corea,
completano l’immagine di un settore radicalmente trasformatosi nel
corso dei primi anni di questo secolo.
Questa è la cornice in cui è affiorata e si è inasprita la crisi della Fiat.
Il profilo di una Fiat che individuava fuori dall’Italia i suoi assi di
sviluppo e che induceva d’altronde disaffezione e rafforzava le spinte
all’opposizione frontale all’interno dello schieramento sindacale. La
punta radicale del sindacato, la Fiom-Cgil, si spingeva addirittura a
parlare di una «strategia dell’abbandono».
Il patto del 2000 non potè essere risolutivo. Servì soltanto a dare a
l’avvio a una procedura che tutti comunque pensavano incamminata a
segnare la fine, in un arco medio di tempo, della storia dell’automobile
italiana. Dello scatto d’orgoglio dell’azionista, che si proclamava poco
disposto a liquidare per un cumulo di marchi o di dollari una tradizione
industriale centenaria. E può anche darsi che gli Agnelli temessero di
incappare nelle resistenze del governo e del sistema politico, restii ad
accettare il passaggio integrale della produzione d’auto sotto il controllo
straniero, con tutti i prevedibili interrogativi sul mantenimento degli
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impianti in Italia e sui volumi dell’occupazione che un tale cambiamento
poteva implicare. È altresì vero che per l’azionista di riferimento della
Fiat si sarebbe aperta la possibilità di presentare quella cessione non
come una ritirata, bensì come un’ascesa internazionale senza precedenti
per un gruppo italiano.
Era poi evidente, in quell’inizio del 2000, che Torino stava smarrendo
autorevolezza e presa anche nel mondo imprenditoriale. Trascorsi i
festeggiamenti del centenario, la Fiat veniva a scoprire che il suo peso
specifico, anche sul terreno politico che le era più prossimo, quello
dell’associazione industriale, era in rapida contrazione. Subito dopo
l’intesa con la Gm ci fu il rinnovo della presidenza della Confindustria,
contrariamente alle previsioni ufficiali, il candidato lanciato da Torino, il
suo ex manager Carlo Callieri, uno fra gli uomini Fiat di spicco, venne
clamorosamente battuto ai voti a vantaggio di una candidatura
alternativa, quella dell’industriale napoletano Antonio D’Amato.
Con Callieri risultò sconfitta una politica e, forse di più, uno stile di
condotta, della rappresentanza degli interessi imprenditoriali, sia per il
processo di erosione interna che avevano subito nel periodo della
concertazione sia per la sbrigativa avventatezza con cui la sua
candidatura era stata sostenuta proprio nell’ambiente dal quale aveva
tratto origine. Di sicuro, per la Fiat suonò a quel punto un campanello
d’allarme che non era possibile non ascoltare. Liquidata la svolta della
Confindustria con la battuta piena di disappunto di Gianni Agnelli, da
allora iniziarono a mutare i toni con cui la Fiat si inseriva negli schemi del
gioco politico italiano. La Fiat modificava in maniera percettibile la
propria dislocazione politica, avendo cura soprattutto di non apparire
iscritta in via di principio fra gli oppositori del blocco del centrodestra,
com’era avvenuto invece dal 1994 in avanti. Tentava insomma di ridurre
99
il solco che la separava da Berlusconi, di cui preconizzava il successo.
Agiva comunque nei modi che erano più congeniali a se stessa e al suo
leader, per esempio favorendo l’ingresso di personalità di prestigio
nell’esecutivo che si sta per formare, Renato Ruggiero, che della Fiat era
stato vicepresidente, poteva essere raccomandato come un eccellente
ministro degli Esteri. Su una scala minore, veniva eletto a Torino per
Forza Italia il direttore della Fondazione Agnelli, Marcello Pacini, un
cattolico vicino un tempo a Umberto Agnelli.
Come volevano far intendere i molti che alludevano all’urgenza per la
Fiat di ricorrere all’appoggio, o quanto meno al consenso, del governo in
vista delle scadenze, in Italia e all’estero, che incombevano.
Sebbene non si osasse parlarne apertamente, l’aria di Torino s’era fatta
brutta. Fra il gennaio e il maggio 2002, l’azienda visse una delle
congiunture più precarie, che la davano sull’orlo del collasso, sotto la
pressione delle banche creditrici, a cui si aggiungeva il clima ostile del
sindacato.
Giovanni Agnelli è lontano da Torino, la malattia lo tiene a New York,
togliendolo dall’arena dove la Fiat gioca la sua partita. Al lingotto non
esiste chi possa assicurare un ruolo politico minimamente paragonabile al
suo e sia in grado di parlare all’opinione pubblica, alle istituzioni
nazionali e locali, ai sindacati.
Nel 2002, la Fiat sigla un’intesa con le banche creditrici per un prestito
convertendo di 3 miliardi di euro, che ha lo scopo di far fronte alla sua
emergenza finanziaria.
La Fiat elabora poi un «piano industriale» che altro non è se non una
radicale razionalizzazione e revisione delle strutture di costo, in modo da
far corrispondere la capacità produttiva alle possibilità di assorbimento
della produzione automobilistica da parte del mercato.
100
Il piano della Fiat è accolto male sin da principio, prevede la sospensione
totale delle attività a Termini Imerese, l’impianto che la Fiat possiede in
Sicilia, uno dei primi ad aver concretato la svolta verso gli investimenti
nel Mezzogiorno negli anni Settanta. Per tutto il resto dell’anno, Termini
Imerese diverrà perciò il simbolo degli effetti sociali della crisi Fiat e dei
suoi costi umani. L’urgenza di arginare le falle che si aprono nel sistema
dell’occupazione spiana la strada all’ingresso della politica sulla scena
della crisi industriale, con un ruolo di primo attore che fino ad allora non
aveva conquistato. Il piano della Fiat, con l’instabilità sociale che
immediatamente determina, è l’antefatto dell’incontro di Arcore fra
Silvio Berlusconi e il vertice Fiat, in cui vengono fissate nuove gerarchie
fra l’autorità politica e il ceto dirigente dell’industria. Dopo la riunione
nella residenza di Berlusconi diverrà chiaro a tutti che il tempo in cui era
Torino a mediare per la legittimazione del centrodestra è tramontato,
tocca adesso al potere politico far circolare ipotesi sul futuro dell’auto
italiana.
Stretta fra la pressione delle banche creditrici, che enfatizzano le tappe
del risanamento finanziario, e i tentativi della Gm di segnare le distanze
dal partner italiano, la Fiat non è riuscita a convincere di star seguendo
un proprio senso di marcia.
Il problema e che i tre attori principali della vicenda Fiat (l’azionista
storico, le banche creditrici maggiori e la Gm) si condizionano tutte e tre
a vicenda, contribuendo a determinare una situazione per molti aspetti
paralizzata.
All’azionista, cioè alla famiglia Agnelli, le banche chiedono di fare fino in
fondo la propria parte. È ben difficile immaginare che essa possa resister
alla richiesta degli istituti di credito di mettere in vendita quelli che
appaiono i gioielli residui del gruppo Fiat. Un rifiuto, a questo punto
101
sarebbe impossibile, perché potrebbe voler dire delegare ad altri il
tentativo di risanamento. Un’ipotesi che certo la famiglia Agnelli non
può sottoscrivere. Le banche recitano la parte di chi deve esigere i propri
crediti e non è disposto a con concedere altri prestiti a un interlocutore
verso il quale ci si è già esposti troppo in passato e in cui perciò non si è
autorizzati a riporre fiducia ulteriore. Per un tratto non breve, le banche
saranno inclini a pensare che, prima o poi, la Fiat possa accedere alla
famosa opzione put nei confronti della Gm, liberandosi dell’impaccio
dell’Auto.
Quanto al terzo attore, la Gm vede nell’opzione put una minaccia alla
stabilità dei propri conti aziendali, già messi in pericolo dalla falla record
creata dal suo fondo pensionistico. La Gm intende mantenere la
collaborazione industriale con la Fiat senza addentrarsi in alcuna nuova e
pericolosa alchimia societaria. Coltiva semmai per un po’ il progetto di
appropriarsi delle attività della Fiat in Brasile, l’unica ragione che
potrebbe giustificare dal suo punto di vista una trattativa con Torino,
grazie alla posizione di forza che la Fiat mantiene su un mercato
promettente. Ma per la Fiat, al contrario, ciò equivarrebbe a rinunciare a
un autentico centro dinamico del suo sistema e al tassello migliore della
strategia di globalizzazione che aveva tentato di attuare.
Lo sbocco finale dipende, in ultima analisi, dall’intervento del quarto
attore, su cui grava il peso del rilancio aziendale della Fiat, assente per
tutto il 2002 e nel primo scorcio del 2003, il management. La crisi Fiat,
infatti, si è radicalizzata a causa di un vuoto di guida imprenditoriale.
Tutto questo passa direttamente in eredità alla nuova gestione, che
dichiara di porsi una scadenza ravvicinata per rendere conto del proprio
progetto strategico. Il piano di rilancio diffuso il 26 giugno 2003
dovrebbe, prima di tutto negli intenti dell’azienda, il punto di vista della
102
crisi Fiat. Vuole simboleggiare la fine prolungata fase di incertezze
gestionali che hanno dato luogo ad un grave dissesto aziendale.
Il 27 ottobre la Fiat comunica di aver deciso di posticipare di un anno
l’esercizio dell’opzione put con la Gm. In pratica, era una realistica presa
d’atto circa il venir meno sia degli scenari tratteggiati all’atto della grande
alleanza del 2000 sia delle possibilità di perseguire l’intesa con gli
americani sul piano finanziario. La Fiat mostra così di credere di non
poterla spuntare con la Gm, risoluta a ricorrere alle vie legali pur di
impedire una cessione che incontra a Detroit un’opposizione
intransigente, alimentata dall’insostenibilità dei costi di un’eventuale
incorporazione della società automobilistica del Lingotto. Anche in
questo caso, la Fiat farà buon viso a cattiva sorte, sottoscrivendo quella
che è di fatto una rinegoziazione dell’accordo, perché consapevole del
rischio di una contesa legale con la Gm, affidata al giudizio di un
tribunale americano, come prevede il complesso protocollo d’intesa.
L’ultimo scorcio del 2003 riserba alla fiat qualche elemento di
soddisfazione, benché i conti aziendali inducano a posticipare le
aspettative di un vero turnaround. La nuova Panda riceve il premio come
«auto dell’anno» da parte della stampa specializzata europea, quel che
basta per legittimare la tendenza a un certo apprezzamento per la politica
di rinnovamento del prodotto.
Il risanamento, tuttavia, procede con passo più lento e, soprattutto, più
incerto, alla politica delle dismissioni (nel febbraio 2004 vengono cedute
la quota di maggioranza della Fiat Engineering pari al valore di 54 milioni
di euro e azioni Edison per un valore di 65 milioni) non si accompagna
una razionalizzazione interna incisiva.
Uno degli effetti indesiderati era quello poi di attribuire centralità, e
dunque potere contrattuale, ai 5000 dipendenti di Melfi. Nei primi mesi
103
del 2004 quella centralità era evidente al punto che i dipendenti non
accettavano più di essere, contrattualmente parlando, la serie B del
pianeta Fiat in Italia. Iniziano così una serie di scioperi contro la
cosiddetta «doppia battuta», un sistema di organizzazione del lavoro che
finisce per costringere i dipendenti a svolgere per due settimane
consecutive lo stesso turno di lavoro. La conseguenza immediata è che,
in questo caso, il turno di notte dura per dodici giorni consecutivi. Un
ritmo di vita insopportabile per chi alle otto ore di lavoro notturno ne
deve sommare tre o quattro di trasferimento della casa alla fabbrica e
viceversa. A questo si aggiunge la differenza di trattamento salariale, lo
stesso lavoro a Mirafiori viene pagato 1550 euro lordi annui in più
rispetto a quanto non sia pagato a Melfi. Nella prima fase a organizzare
gli scioperi è principalmente la Fiom, seguita dai Cobas. Tuttavia la
situazione precipita quando di fronte ai cancelli la polizia interviene con
durezza contro gli scioperanti. Cariche e manganellate finiscono per
costringere anche i sindacati moderati a unirsi agli scioperanti nei giorni
successivi.
Sotto la minaccia dello sciopero ad oltranza del suo stabilimento più
redditizio, il Lingotto concede sia l’abolizione del sistema della «doppia
battuta» sia il sostanziale adeguamento della busta paga dei dipendenti di
Melfi a quella degli altri dipendenti del Gruppo. L’accordo sarà unitario,
uno degli ultimi firmati a livello aziendale in Fiat.
La vicenda della rivolta di Melfi è la dimostrazione che, quando entrano
in sciopero i lavoratori di uno stabilimento nevralgico, dove la
produttività è alta e il prodotto è decisivo per le sorti dell’azienda, il
Lingotto è costretto al compromesso. Dalla rivolta del 2004 in poi la Fiat
sarà particolarmente attenta a non favorire il prevalere in fabbrica della
linea della Fiom e, in generale, dei sindacati meno moderati. E non
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cesserà di tentare di sterilizzare gli effetti della contrattazione pregressa
cercando di ripartire da zero.
La morte di Umberto Agnelli non arriva imprevista, perché da settimane
circolavano voci allarmanti sul suo stato di salute, non di meno,
costituisce un evento traumatico perché riapre immediatamente i travagli
nel gruppo dirigente della Fiat, proprio quando l’azienda è nel momento
più grave e problematico della sua storia centenaria. Il suo decesso mette
a rischio il cammino del risanamento aziendale che appariva avviato.
La candidatura di Montezemolo, annunciata ufficialmente nel gennaio
del 2004, si propone come un ponte gettato a riunire tutte le anime
dell’industria italiana, la sua collocazione e suoi legami personali con gli
Agnelli ne facevano un uomo dell’establishment, ma la posizione nella
Ferrari lo distingueva anche come alfiere del made in Italy e dei successi
italiani nel mondo, accentuandone la capacità di parlare nel nome di tutti.
D’altronde, Montezemolo non poteva neppure essere catalogato a priori
fra gli avversari di Berlusconi, giacchè era stato proprio lui a offrirgli una
carica nel suo governo all’indomani della vittoria nelle elezioni politiche
del 2001.
Con Montezemolo la Confindustria sembra essere riuscita nell’intento di
recuperare non soltanto ruolo e visibilità nel sistema politico italiano ma
anche nelle relazioni industriali, terreno cui, da subito, Montezemolo ha
mandato i primi messaggi di distensione. È improbabile che il desiderio
di rivalutare l’esperienza della concertazione si possa tradurre in una
prassi conseguente. Anzitutto, perché la concertazione necessita di un
contesto politico favorevole e di un ruolo attivo da parte del governo.
Qui si è ormai in un ambito che non è più quello della concertazione, se
qualcosa vi è da concertare ciò riguarda la decisione di ridisegnare
l’ordinamento della contrattazione collettiva, un’ipotesi che ha trovato
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nella Cgil un interlocutore assolutamente indisponibile. L’apertura
iniziale di Montezemolo alla Cgil ha prodotto la conseguenza di
restaurare un’unità minimale fra i tre sindacati metalmeccanici. Per la
Fiom, la stagione delle trattative separate è finita e non c’è più margine se
non per accordi che vedevano assieme tutte e tre le sigle sindacali.
Rimarrà l’auspicio che il sindacato ritrovi una linea unitaria e realistica in
materia di relazioni industriali per evitare che si interrompa il dialogo con
la Confindustria. Proprio quest’ultima invocherà un corso improntato
alla collaborazione nel negoziato coi sindacati.
3.4. E poi arriva Marchionne
Persone, persone, persone!
Non più forza lavoro. Non più manodopera. Non più dipendenti. E nemmeno risorse
umane. Ma soltanto persone. E collaboratori.
« Le aziende trovano la loro forza nei collaboratori capaci e motivati».
«Abbiamo bisogno di persone competenti, determinate, coinvolte».
«All’impresa non servono lavoratori usa e getta».
Il 1° giugno 2004, Sergio Marchionne diventa amministratore delegato di
una Fiat che possiede dimensioni ridotte rispetto a quelle che l’avevano
caratterizzata in passato. 17
Nel primo semestre della sua nuova carica, Marchionne vuole giocare la
partita intorno all’opzione put dell’accordo con la Gm.
17 Berta G., «La Fiat dopo la Fiat. Storia di una crisi, 2000-2005», Milano, Mondadori, 2006,
p. 147
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Quanto più si ci avvicina alla data in cui la Fiat potrà esercitare il suo
diritto di vendita, tanto più Marchionne ostenta sicurezza nelle buone
ragioni dell’azienda. Nessuno può immaginare che la Gm, che procede
ad azzerare in bilancio il valore della sua partecipazione nella Fiat Auto,
sia davvero disposta a gravarsi di un simile peso. La casa americana fa
circolare voci di un’offerta molto bassa al partner italiano per lo
scioglimento dell’alleanza, inizialmente si parla di una somma di 200
milioni di dollari. In passato, la Gm s’era disposta a negoziare l’opzione
put, ma a costi che sarebbero stati altissimi per la Fiat, come la cessione
delle attività automobilistiche in Brasile, la realtà più attrattiva grazie al
primato detenuto sul mercato.
Il gioco sta tutto nelle mani di Marchionne, il quale nelle poche
dichiarazioni che fa pervenire dà prova di un’inattaccabile sicurezza. Fin
dalle prime battute della trattativa, i manager della Gm capiscono che
l’interlocutore con cui devono vedersela è «uno di loro», un dirigente di
scuola nordamericana, e lo stesso Marchionne che dichiarerà di pensare e
di fare i conti in inglese. A metà febbraio, dopo mesi di trattative incerte,
la contrattazione si chiude con un accordo che permette di sventare una
soluzione per via giudiziaria, troppo rischiosa per entrambi per entrambi
i contendenti.
Negli ambienti d’affari italiani, si enfatizzano le doti di negoziatore
dell’amministratore delegato della Fiat, l’essere riuscito a strappare due
miliardi di dollari appare come un successo insperato, dopo l’iniziale
fermezza esibita dalla Gm.
Con la cifra ottenuta dalla Gm, la Fiat può tamponare le perdite
dell’Auto, ma non risolve ancora nessuno dei problemi strutturali che
l’affliggono.
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Sciolto il patto con la Gm, Marchionne ha di fronte a sé due nodi che
condizionano il destino della Fiat, il primo, riguarda il ricambio di alcuni
uomini collocati in posizioni decisionali di rilievo. La pronunciata crisi di
Fiat Auto e poi la scomparsa delle figure di riferimento come Gianni
Agnelli nel gennaio 2003 e Umberto Agnelli nel maggio 2004 aveva
innescato una girandola di cambiamenti nelle posizioni di vertice del
gruppo. Come succede in queste situazioni, il rinnovo dei vertici aveva
marcatamente rallentato l’iniziativa aziendale di dirigenti e quadri che si
venivano a trovare di fronte a scenari mutevoli e senza idee di indirizzo
precise.
Il secondo nodo di tipo finanziario, riguarda il cosiddetto «prestito
convertendo», stipulato con le banche nel 2002.
Marchionne lo prende di petto con analoga determinazione e lo risolve
nello stesso stile reciso in cui era venuto a capo del legame con la Gm.
L’amministratore delegato e il presidente della Fiat incontrano a Milano i
responsabili delle banche che tre anni prima avevano emesso il prestito a
favore della Fiat di 3 miliardi di euro. È un vero incontro di vertice
perché di fronte a Marchionne e Montezemolo siedono i quattro
amministratori delegati di BancaIntesa, Capitalia, SanPaolo-Imi,
Unicredit. Ne uscirà un comunicato stringatissimo in cui si dichiara che
la Fiat ha confermato tutti gli obiettivi annunciati per il 2005, 2006, 2007,
mentre le banche hanno ribadito la loro volontà di supportare i vertici
del gruppo impegnati nel conseguimento degli obiettivi dei prossimi tre
anni. La storia della Fiat volta pagina perché, con la trasformazione dei
crediti in azioni, la quota del capitale detenuta dalle banche sarà superiore
a quella in possesso della famiglia Agnelli.
È evidente che l’ingresso di Marchionne nella nuova compagine
aziendale comportò inevitabilmente una forte ventata di cambiamento.
108
Infatti se si comparano i programmi di Fiat Auto successivi all’ingresso
di Marchionne con quelli precedenti all’entrata non si avvertono grandi
differenze. La differenza sta però nel fatto che con Marchionne la Fiat ha
fatto quello che veniva dichiarato, mentre in precedenza le dichiarazioni
e gli obiettivi del piano assumevano un ruolo di «proclama» da usare
soprattutto nei confronti della stampa, ma senza un effettivo impegno,
che avrebbe dovuto essere sistematico e generalizzato a tutti i livelli per
la loro traduzione in fatti.
Marchionne ha inciso profondamente nella struttura troppo burocratica
e routinaria della Fiat, con iniziative che possono essere definite
management by stress.
Il problema prioritario di Marchionne consisteva nell’individuare,
soprattutto all’interno dell’azienda, le persone che per formazione,
attitudine e capacità di coinvolgimento personale potevano far parte
dell’avanguardia necessaria a dare uno scossone alla struttura aziendale
lanciando il rinnovamento della cultura manageriale, tante volte decretato
in passato ma mai effettivamente attuato. Naturalmente non c’era tempo
da perdere, non bastava seguire le nuove linee occorreva farlo a passo di
carica, dal momento che si trattava di recuperare terreno nei confronti
della concorrenza e delle opportunità perdute. Ognuno doveva prendersi
le proprie responsabilità, impegnandosi al raggiungimento degli obiettivi,
ma in tempi estremamente rapidi.
Con riferimento quindi ai contenuti della gestione manageriale la Fiat
prima di Marchionne viaggiava su due livelli. Da un lato vi era il grande
corpo aziendale dei quadri e dei dirigenti di medio livello che avrebbero
dovuto ispirare la loro azione ai criteri di efficacia e di efficienza e ai quali
si richiedeva di applicare le competenze manageriali più avanzate.
Dall’altro vi era un top management che, pur dichiarando di affidarsi agli
109
stessi principi di cultura e competenza manageriale, in realtà trasgrediva
liberamente a tutti questi principi, in quanto applicava un modello
decisionale e manageriale altamente accentrato e i massimi livelli
dirigenziali pretendevano dai loro collaboratori assoluta fedeltà e acritica
accettazione degli obiettivi e delle strategie verticisticamente definite.
Il fatto che, negli anni precedenti, in Fiat vi fosse questa radicale discrasia
tra i modelli manageriali insegnati ai quadri e ai dirigenti e quelli
quotidianamente applicati dal top management dà ampiamente conto di
come la cultura manageriale non si sia mai potuta radicare in modo
profondo nell’impresa torinese. Termini come meritocrazia e
responsabilità assumevano un significato del tutto peculiare nell’azienda
che era da tempo la più importante impresa privata italiana, ma che nei
suoi gangli più importanti si uniformava alla logica della gerarchia e
dell’attuazione dei principi di tipo burocratico.
Sul piano più propriamente organizzativo Marchionne decide di attivare
una struttura operativa decisamente piatta, basata su un elevato numero
di dirigenti di primo livello che interagiscono direttamente con il Ceo e
sul principio di una organizzazione matriciale nella quale si cerca di
esaltare lo sforzo di collaborazione fra le diverse funzioni.
La sfida che deve vincere Fiat Auto è quella di fare di più con meno
dotazioni di risorse umane, tecniche e finanziarie.
Naturalmente le strutture organizzative sono importanti ma ancora più
importante il commitment con il quale persone svolgono i propri
compiti, un commitment fatto di cura e di passione. Il compito di
trasferire dai vertici verso i livelli operativi sottostanti l’impegno a
svolgere professionalmente il proprio lavoro esercitandosi a crescere
nella capacità di esercitare una leadership nei confronti dei collaboratori è
stato affidato al programma «avanti & veloci». Le finalità da raggiungere
110
sono state espresse con riferimento a due macro aree denominate leading
change e leading people.
La macro area leading change si focalizza su una consapevolezza della
necessità di rompere i vecchi schemi comportamentali avendo il coraggio
di introdurre e di gestire forme di cambiamento.18
Quella della leading people si concentra nello sviluppo, da parte di ogni
manager, delle attitudini necessarie a guidare e sostenere il lavoro dei
propri collaboratori aiutandoli a sviluppare le loro capacità sia tecnico-
professionali che relazionali. Con questo strumento, Marchionne ha
veramente iniziato ad incidere sulle strutture e sui comportamenti.
Dal punto di vista strategico la più grave carenza di Fiat Auto era
rappresentata dal forte prevalere della cultura ingegneristica rispetto alle
altre funzioni aziendali e da una scarsa sensibilità alle istanze espresse dal
mercato. Bisogna aver presente il fatto che la validità di un prodotto si
misura sempre in termini di adeguatezza alle esigenze della clientela. Un
prodotto ha o non ha successo nella misura in cui risponde alle esigenze
espresse o latenti della clientela.
Le preferenze della clientela da un prodotto ad un altro mutano di segno
e di intensità. L’affidabilità del prodotto è un requisito necessario per
competere. Se un produttore non ha un produttore affidabile viene
estromesso dal mercato molto rapidamente, ma l’affidabilità non è più un
fattore di supremazia sulla concorrenza. Anche il prezzo assume un
significato completamente diverso, non vince chi ha il prezzo più basso,
ma chi è in grado di offrire un rapporto più conveniente e convincente
tra il valore percepito dal cliente e il prezzo da pagare.
18 Volpato G., «Fiat Group Automobiles. Un’Araba Fenice nell’industria automobilistica
internazionale», Bologna, il Mulino, 2008, p. 71
111
Fare in modo che la voce della clientela potesse giungere nel modo più
diretto possibile ad un elevato livello decisionale era effettivamente la
cosa più urgente. Si doveva fare in modo che la customer satisfaction e,
più in generale, la customer care venissero poste al centro delle strategie
di rilancio del gruppo automobilistico. Si è iniziato così un marcato
irrobustimento del call center dal quale dipende il flusso di
comunicazioni con la clientela. La possibilità di monitorare il tempo reale
il sorgere delle richieste di aiuto da parte della clientela e il ritmo
mantenuto nell’evasione delle richieste stesse ha impresso una forte
accelerazione alla risposta assicurata dall’azienda.
La direzione custode ha quindi attivato una serie di strumenti che vanno
dall’assistenza virtuale, un programma software attivabile dal cliente
attraverso il portale web dei marchi della casa, al programma di
generazione di segnalazioni ai concessionari con la trasmissione del
nominativo del potenziale cliente.
Dal punto di vista dei concetti manageriali, il passo successivo allo
sviluppo di un una nuova sensibilità nel contatto con la clientela, per far
in modo che le sue esigenze trovino immediato riscontro nelle scelte
strategiche dell’impresa, è rappresentato dalla definizione dei programmi
di sviluppo dei nuovi prodotti. Questo passo prende la veste in tutte le
case automobilistiche dello sviluppo e del continuo aggiornamento del
Piano Gamma/Prodotto (Pgp). La fissazione del Pgp significa vincolare
il futuro di una impresa a scelte di investimento elevatissime, che una
volta iniziate risulta quasi impossibile annullare e molto onerose da
rivedere anche solo parzialmente. In altre parole la definizione del Pgp
può essere considerato il cuore della strategia competitiva di una casa
automobilistica.
112
La critica principale che può essere rivolta ai Pgp precedenti alla scolta
impressa da Marchionne è che l’impostazione del piano rifletteva molto
più le esigenze della produzione e della progettazione che non quelle del
mercato. Tempi e modalità di sviluppo del piano erano pensati
soprattutto in modo da massimizzare le esigenze degli stabilimenti di
produzione più che le esigenze segnalate dal mercato. Inutile sottolineare
che questo prevalere della dimensione tecnica ha portato a squilibri non
indifferenti e a investimenti che non si sono ripagati, in qualche caso in
modo davvero eclatante.
L’esempio più evidente di lancio di un prodotto assolutamente
sconsigliabile, alla luce delle prospettive di marketing dei marchi
dell’azienda, è rappresentato dal modello Lancia Thesis. Un modello per
il quale si sono effettuati investimenti superiori ai 500 milioni di euro, ma
che non ha nemmeno lontanamente avvicinato l’obiettivo di vendita
fissato dalla casa. Senza dubbio il segmento in cui si colloca il modello
considerato è assai difficile, in esso si trovano le punte di diamante dei
marchi tedeschi: Mercedes, Bmw e Audi, ma quello che stupisce è
proprio il posizionamento del modello della Lancia. Si è scelto di
posizionare il modello verso la parte premium del segmento, per di più in
presenza di un ciclo di vita negativo del modello Lancia Lybra, lanciato
nel 1999 e radiato nel 2005, ma già in netta difficoltà nel 2002.
Il rilancio dell’immagine Fiat e dei suoi prodotti è iniziato con la nuova
Panda, piccola vettura, prodotta in Polonia, che ha meritato il titolo di
«Auto dell’anno 2004», che ha consentito significativi margini di
guadagno, sia per la casa automobilistica sia per la rete distributiva. A
questo modello sono seguiti con risultati significativi il lancio della nuova
Croma nel primo trimestre del 2005, quello dell’Alfa Romeo 159 nel
primo trimestre del 2006, dell’Alfa Romeo Brera nel 3° trimestre e quello
113
della Bravo nel primo trimestre 2007, la linea nel 2° trimestre e la 500 nel
3° trimestre.
Tra i modelli sviluppati sotto la gestione Marchionne sono due quelli di
particolare importanza: la Bravo e la 500. Nel primo caso si tratta di un
modello appartenente al segmento C, il più importante in Europa nel
quale primeggiano modelli come la Volkswagen Golf, l’Opel Astra, la
Peugeout 307. Si tratta di un modello di grande importanza per il rilancio
della Fiat, che ha consolidato la sua immagine aziendale, dove in passato
l’azienda ha sofferto l’insuccesso di un modello come la Stilo.
La 500 rappresenta un chiaro esempio del nuovo approccio sviluppato
dalla Fiat verso il segmento della clientela più giovane. Come è noto gli
automobilisti più giovani sono particolarmente sensibili ai fenomeni di
trend e di moda. Le difficoltà incontrate dall’azienda negli anni scorsi
hanno avuto l’effetto di allontanare molti potenziali acquirenti delle fasce
di età più basse dai prodotti dei marchi del gruppo. L’invecchiamento
della clientela dei marchi Fiat rappresentava quindi una minaccia per il
futuro che si doveva cercare di recuperare, dal momento che tutte le case
automobilistiche cercano di fidelizzare la propria clientela.
Per il marchio Lancia vi è già grande attesa per il lancio del modello
Delta, che dovrebbe dare un forte impulso alle immatricolazioni del
marchio che in questo momento può fare affidamento soprattutto sul
modello Ypsilon e sul minivan Musa, entrambi recentemente rinfrescati.
Invece per quanto riguarda il Piano Gamma/Prodotto dell’Alfa Romeo
le novità più interessanti riguardano il lancio del nuovo modello Mito,
appartenente al segmento B, un segmento prima non servito dal marchio
e che anche in questo caso punta a servire soprattutto una clientela
giovane.
114
Con la progressiva maturazione del mercato automobilistico,
Marchionne ha voluto quindi puntare sulle politiche di innovazione del
prodotto, non si trattava di puntare alla costruzione di nuove mission,
quanto a dimostrarsi coerenti con quelle che erano le tradizioni dei
marchi, innalzando però i contenuti tecnici dei prodotti e il livello di
immagine e di modernità. Bisogna ridefinire il posizionamento dei
marchi Fiat, Alfa Romeo e Lancia, cercando di creare delle mission fra
loro distinte e in sintonia con le opportunità offerte dal mercato.
Il problema era che l’azienda non era stata in grado di esprimere le
iniziative necessarie per concretizzare queste mission. Che esse fossero,
in estrema sintesi, quelle di produrre vetture per un pubblico popolare
nel caso della Fiat, vetture dal tono spiccatamente sportivo nel caso
dell’Alfa Romeo, vetture di marcato signorilità e comfort nel caso della
Lancia. Il problema è che l’azienda aveva prodotto modelli che non
rispettavano la missione e che quindi disaffezionavano la clientela.
Le iniziative di posizionamento del prodotto attuate dalla Fiat sembrano
aver colto nel segno. Sia nella fase a monte del lancio del nuovo modello,
che si estrinseca nella definizione delle specifiche di prodotto, che nella
fase a valle nella quale il prodotto è disponibile e tocca alle campagne di
comunicazione riuscire a creare nella mente del consumatore il
posizionamento che si ritiene migliore per il successo commerciale.
La Fiat aveva bisogno, così, di un ambiente che nella delicatissima fase di
attuazione del piano di riorganizzazione del 2004 e di lancio dei nuovi
modelli riscuotesse simpatia e partecipazione. Marchionne
evidentemente si rendeva conto che bisognava cercare di voltare pagina,
che occorreva disegnare una posizione della Fiat che fosse tutta
all’interno dei valori di un capitalismo responsabile non solo verso gli
azionisti, ma anche la società civile e improntata da relazioni industriali
115
nelle quali il momento del confronto e del negoziato con le
organizzazioni sindacali non precludesse momenti di partecipazione
rivolti agli interessi delle due parti, ma in primo luogo agli interessi dei
lavoratori sia nei luoghi di lavoro che nelle attività ad esse collegate.
Questo intersecarsi di posizioni e interessi, tante volte ripetuto nelle crisi
precedenti, non aveva mancato di manifestarsi anche alla fine del 2002 in
occasione del negoziato dell’azienda con il governo e i sindacati per
l’approvazione del piano di risanamento che chiedeva la cassa
integrazione straordinaria per 8100 lavoratori. Alla fine anche in questa
occasione ne uscì un accordo al ribasso che faceva perdere credibilità a
tutte le parti, ma soprattutto alla Fiat. Anche perché il piano andava a
colpire Termini Imerese, lo stabilimento siciliano che per la Sicilia
rappresentava la più importante realtà industriale.
In sostanza, il sindacato, pur con gli inevitabili distinguo,
complessivamente percepisce un senso di maggior apertura (tra il
management aziendale non c’è più la visione del sindacalista
rompiscatole), ma gli spazi obiettivi di confronto e di costruzione
assieme delle questioni che più direttamente coinvolgono il personale
sono ancora marginali. Probabilmente si è realizzato di più nelle
occasioni di lavoro congiunto tra azienda e sindacato sui temi della
sicurezza del lavoro, dell’ergonomia e della salute, dove questi ultimi due
temi solo di recente sono entrati tra le questioni da affrontare insieme.
Anche l’iniziativa di ristrutturare le mense del personale è un iniziativa
direttamente voluta da Marchionne. Nei primi 40 giorni della sua presa di
contatto con le diverse sedi aziendali l’Amministratore delegato aveva
rilevato che si trattava di ambienti assai poco confortevoli. Così è nato il
Progetto Benessere che prevede varie innovazioni fra le quali: il restyling
dei locali della palazzina di Mirafiori, che sono state riarredate con i
116
simboli del marchio di appartenenza: Fiat, Alfa Romeo, Lancia e Fiat
Professional, l’organizzazione dell’asilo nido per le mamme che lavorano
a Mirafiori. Al momento quello che si può dire è che sono iniziate delle
prove di dialogo, vi è un cambiamento significativo anche nel modo di
guardare all’azienda, accettando ad esempio il significato di meritocrazia,
che in passato era invece apertamente osteggiata. Ed è attraverso le
forme di partecipazione che si diffondono e si cementano il senso di
condivisione delle sorti dell’azienda e lo spirito di collaborazione, che
sono ingredienti necessari non per delle buone relazioni industriali, ma
anche per il nuovo modello di lavoro nelle fabbriche orientato al World
Class Manufacturing.
Data l’esigenza che ha Fiat Group Automobiles di crescere rapidamente,
e soprattutto nei mercati esteri, Sergio Marchionne punta
sull’internalizzazione, ossia stabilire accordi di collaborazione che
riducessero la massa di investimenti da finanziare e mettessero in
comune competenze sui nuovi mercati.
Quella delle fusioni-acquisizioni può essere, in molti casi, un passaggio
obbligato per andare avanti nel business e governare le dinamiche del
mercato e le pressioni competitive.
In particolare Fiat Auto e Psa-Peugeot-Citroën hanno realizzato da
tempo un accordo industriale doppio. Nel complesso questa partnership
ha lavorato bene e c’è da auspicarsi che venga allargata anche ad altre
iniziative. Peccato che Psa abbia già realizzato accordi per la
progettazione comune di motori con Ford e con Bmw, opportunità che
sono sfuggite a Fiat Group Automobiles.
Lo sviluppo delle attività di Fiat in Turchia è iniziato nel 1968, attraverso
la costituzione della Tofas e la realizzazione di uno stabilimento,
localizzato a Bursa, per la produzione su licenza di alcuni modelli Fiat. Se
117
i programmi di Tofas verranno mantenuti, lo stabilimento turco diverrà
uno dei più importanti stabilimenti europei e potrà dare un consistente
contributo agli obiettivi di vendita che Fga ha fissato nel 2012.
Per quanto riguarda il subcontinente indiano, la Fiat ha fatto il suo
ingresso nel 1999 con la costituzione di Fiat India. L’accordo con Tata
che avverrà nel marzo del 2006 ha consentito di comporre un puzzle
complesso di opportunità. L’accordo assume certamente l’ampiezza di
un accordo strategico, si tratta infatti di un grande gruppo industriale,
operante in vari comparti. Il mercato automobilistico cinese è destinato a
uno sviluppo decisamente accentuato, secondo le dichiarazioni di Sergio
Marchionne la prosecuzione del rapporto con Chery nel 2008 prevede un
programma di importazioni in Cina di nuovi modelli.
Dopo la Cina, la Russia è certamente il mercato più compromettente a
livello globale. Nel 2006 la Fiat siglerà un primo accordo con la Severstal,
che si amplierà l’anno successivo con la realizzazione di uno stabilimento
a Yelabuga. In Polonia, lo stabilimento di Tychy è la sede operativa
dell’accordo tra Fiat e Ford per utilizzare la linea di montaggio della 500.
Va inoltre segnalato che lo stabilimento di Tychy è stato il primo ad
iniziare l’implementazione del World Class Manufacturing e raggiunge
attualmente il miglior livello qualitativo tra gli stabilimenti europei del
gruppo.
Lo stabilimento di Betim costituisce il fiore all’occhiello fra gli
stabilimenti di Fiat Group Automobiles, è il più grande stabilimento del
gruppo e uno dei più grandi al mondo.
Una forte incisività di Fga in questi mercati «giovani» è molto importante
e molto urgente perché i prodotti dell’azienda torinese sono
relativamente poco conosciuti in questi mercati emergenti, a differenza
118
dei mercati europei nei quali le vetture italiane si presentano con una
fisionomia ormai consolidata e non troppo favorevole.
Un elemento importante per cercare di rafforzarsi in questi paesi,
caratterizzati da un processo di motorizzazione molto dinamico, è
rappresentato dalla specializzazione dell’azienda italiana nelle
motorizzazioni di piccola cilindrata a benzina e a gasolio e nelle
motorizzazioni di tipo bipower a benzina e a metano. Questi tipi di
motorizzazioni presentano un impatto ambientale assai ridotto e danno
all’azienda torinese una posizione di leva competitiva potenzialmente
determinante.
Nella primavera del 2007 lo scenario competitivo nell’industria
automobilistica internazionale aveva iniziato a mutare in modo
significativo. 19Questo mutamento delle prospettive del settore derivano
dal rincaro del costo dei carburanti. Si apre così una fase ascendente del
prezzo del petrolio greggio e, a ruota, dei carburanti che poi opererà da
innesco della successiva crisi finanziaria internazionale.
Il segnale era molto chiaro, i paesi industrializzati avevano ormai
raggiunto un alto livello di saturazione degli mercati e il comportamento
dei consumatori, di fronte al rincaro dei prezzi del carburante, andava ad
incidere direttamente sul livello delle immatricolazioni di nuove vetture.
Questa evoluzione non ha mancato di incidere sui bilanci dei maggiori
gruppi automobilistici internazionali, prima nelle quotazioni di borsa
della società e quindi nei bilanci annuali. Nel 2007 questo effetto si è
registrato soprattutto tra i cosiddetti Big Three, General Motors, Ford e
Chrysler.
19 Volpato G., «Fiat Group Automobiles. Un’Araba Fenice nell’industria automobilistica
internazionale», cit., p. 237
119
La crisi petrolifera ha sicuramente introdotto un fattore di incertezza
nell’industria automobilistica internazionale, ma non ha influenzato
negativamente i risultati ottenuti da Fiat sia nel 2007 e nel 2008. Anzi la
politica di incentivazione del governo alla rottamazione, prorogata alla
fine del 2006 attraverso il cosiddetto «mille proroghe», ha comportato un
effetto favorevole sull’ammontare delle immatricolazioni in Italia che in
quell’anno toccherà il suo massimo storico, e di questo trend ne ha tratto
beneficio la Fiat, che in questo modo ha potuto superare gli obiettivi del
piano 2006-2010 precedentemente fissati.
Così Marchionne nella presentazione consuntiva del 2007, fatta nel
gennaio dell’anno successivo, può manifestare la propria soddisfazione
per una situazione finanziaria dell’intero gruppo Fiat ormai risanata,
grazie al contributo dato dai nuovi modelli, la Grande Punto, presentata
nel 2005, la Bravo, presentata nel 2006, e le novità in assoluto presentate
dalla 500, la nuova croma, la Musa, alle quali si affiancano la Linea e il
Fiorino prodotti in Turchia. Ai quali seguiranno la Junior Alfa Romeo ,
poi commercializzata con il nome di Mito che sarà effettivamente
lanciata nel 2008. Per il 2009 si nomina il modello del segmento C che
dovrà sostituire la 147 che sarà effettivamente lanciata con il nome di
Giulietta, ma con un sensibile ritardo nel 2010.
Tra le iniziative del periodo vi è la separazione di Fiat Spa in due gruppi,
un primo ancora denominato Fiat Spa, composto dalle attività
concernenti, le autovetture (Fga, Maserati e Ferrari), la sezione di Fiat
Powertrain Technolgies, dedicata a motori e trasmissioni per autovetture,
la componentistica e i sistemi di produzione (Magneti Marelli, Teksid e
Comau), le altre attività fra le quali quelle editoriali (La stampa) e un
secondo gruppo denominato Fiat Industrial Spa con controllo su Iveco,
Cnh e la sezione di Fiat Powertrain Techologies concernenti i veicoli
120
industriali e i motori marini. Le motivazioni di questo scorporo hanno
natura essenzialmente finanziaria , si sta aprendo una stagione di possibili
fusioni e di accordi di collaborazione che sono più difficili da negoziare
tra l’intero Gruppo Fiat e il partner di turno, soprattutto nel caso che si
rendano necessari degli scambi azionari.
Tuttavia anche il consuntivo del 2007 mostra che la Fiat si trova in una
situazione che potrebbe divenire instabile a breve periodo, dal momento
che questi risultati sono maggiormente il frutto di un favorevole
andamento sul mercato italiano, piuttosto che un consistente e
sostenibile recupero competitivo a livello continentale.
Questo dovuto in parte a un mancato rafforzamento sui modelli di classe
superiore Lancia e Alfa Romeo, in considerazione del fatto che la loro
collocazione di mercato dovrebbe orientarsi verso i prodotti premium.
Un ulteriore punto di debolezza strutturale dell’offerta Fga riguarda la
presenza in tre dei quattro paesi Bric. Salvo il Brasile, dove la posizione è
molto buona, ma vede una progressiva riduzione della quota per effetto
delle strategie aggressive di nuovi entranti come Hyundai, Renault e
Peugeot, negli altri paesi gli accordi di jont venture non hanno ancora
dato risultati apprezzabili. La politica di internalizzazione della Fiat in
questi paesi è iniziata da diversi anni, ma per un molteplicità di ragioni
non si è ancora concretizzata in significativi volumi di vendita, a
differenza degli altri costruttori più importanti che hanno raggiunto
traguardi significativi.
Del resto l’amministratore delegato aveva da sempre espresso forti
perplessità sulla validità di assorbimenti e fusioni tra gruppi industriali a
cause delle molte modifiche di coordinamento e integrazione tra aziende
aventi storie e culture diverse. Tuttavia il mutamento delle prospettive
strategiche del settore devono avergli fatto cambiare idea, infatti,
121
secondo Marchionne il nuovo assetto economico prodotto dalla crisi
finanziaria, con i suoi pensanti riflessi sull’ammontare della domanda
automobilistica globale, forza interventi drastici motivati soprattutto dal
fatto che la filiera automobilistica internazionale patisce da tempo un
elevato livello di saturazione degli impianti produttivi e di assemblaggio,
ciò genera un carico di costi fissi che le imprese hanno sempre più
difficoltà a coprire.
Ne deriva la tesi che prevede un grosso processo di fusione finanziaria e
di integrazione/razionalizzazione delle attività dei principali gruppi
automobilistici, accompagnato dalla chiusura degli impianti meno
efficienti per pervenire sostanzialmente ad un solo operatore per
continente.
In effetti tutti gli operatori sono concordi nel segnalare il pesante fardello
rappresentato dall’eccesso di siti produttivi. Tuttavia, le iniziative di
chiusura degli impianti comportano problemi di riallocazione dei
dipendenti, assai difficile da gestire, soprattutto in una fase di crisi come
quella attuale. In pratica questa soluzione trova attuazione solo nelle
imprese per le quali non esiste altra alternativa percorribile, come è
successo nel caso della General Motors e della Chrysler. Negli altri casi è
lo Stato a dover intervenire con iniziative di sostegno allo scopo di
limitare drastiche riduzioni dei livelli occupazionali del settore che si
produrrebbero a cascata per la chiusura di ogni impianto di
assemblaggio. Di fatto il marcato processo ipotizzato da Marchionne
non sì è ancora verificato, da un lato per la forte resistenza delle singole
case automobilistiche dall’altro per l’espletarsi di un intervento pubblico
che ritiene socialmente insostenibile una drastica riduzione dei livelli
occupazionali.
122
L’attenzione di Marchionne si è concentra soprattutto sugli Stati Uniti e
quindi sulla Chrysler, per poter sfruttare le forme di complementarietà
che questa soluzione gli avrebbe consentito e per il fatto che la
dimensione di questo gruppo e la sua delicata situazione competitiva
rendeva compatibile l’assunzione da parte della Fiat di un ruolo di guida
di entrambi i gruppi.
Le difficoltà della Chrysler erano così pronunciate che nulla poteva
essere dato per scontato. In sostanza quando toccò al presidente Obama
trovare una soluzione per Chrysler, limitando al massimo l’esborso di
denaro pubblico, egli aveva di fronte ben poche alternative possibili.
Si è così arrivati, all’inizio del 2009, all’investitura ufficiale di Fiat, da
parte del presidente Obama, come «cavaliere bianco» nel salvataggio della
Chrysler. Si è trattata di un’opportunità davvero straordinaria che Sergio
Marchionne ha saputo cogliere al volo. Questa investitura presidenziale
ha avuto una grande importanza nel far percepire la Fiat non come un
colonizzatore di Chrysler, ma come un partner che individuava nel
rilancio della Chrysler una componente essenziale del rilancio della stessa
Fiat in campo internazionale, predisponendo in senso favorevole
l’opinione pubblica americana che, purtroppo, conservava un brutto
ricordo della qualità dei prodotti Fiat.
Il 21 Aprile 2010 Sergio Marchionne e il suo staff presentano il piano del
Gruppo Fiat per il quinquennio 2010-2014, nel quale la parte riguardante
Fga gioca un ruolo di primo piano in quanto in questo periodo si deve
completare il processo di integrazione tra Fga e Chrysler.
Il piano prevede di sfruttare appieno la potenzialità produttiva degli
impianti, senza attuare ulteriori investimenti ma saturandoli, crescere nei
volumi di vendita dei paesi Bric, sfruttare appieno l’accordo con
Chrysler, utilizzando quindi un numero ristretto di piattaforme, scambio
123
reciproco delle competenze tecnologiche ed organizzative,
potenziamento reciproco delle reti commerciali, integrare la produzione
della gamma Lancia e Chrysler in Europa ad eccezione della Gran
Bretagna in cui il brand Lancia non è presente e quello Chrysler è più
conosciuto, rafforzare il marchio Alfa Romeo non solo in Europa ma
anche nei mercati del Nord America (Usa, Canada e Messico) utilizzando
il marchio Maserati come produttore affine ad Alfa Romeo per i modelli
più elevati della gamma.
Tutto questo complesso di iniziative dovrà produrre un ampio
riposizionamento del mix dei prodotti Fiat, prodotti che devono riuscire
a dilatare la propria presenza sui segmenti di vetture con taglia maggiore.
Su questo piano si è avuto un intenso dibattito legato al fatto che
Marchionne ha subordinato la realizzabilità del piano all’ottenimento di
alcune modifiche contrattuali.
La Fiat punta decisamente ad arrivare a un nuovo modello di
organizzazione del lavoro basato su un forte impegno da parte delle
maestranze, ricorrendo anche alla costituzione di new company, non
iscritte alla Confindustria e quindi organizzabili secondo modalità che
possono essere difformi da quelle previste dal contratto nazionale del
lavoro per il settore metalmeccanico. Questo programma ha preso corpo
attraverso un nuovo accordo presentato alle diverse rappresentanze
sindacali il 9 giugno 2010 concernente lo stabilimento di Pomigliano
d’Arco. L’accordo è stato accettato da alcune sigle sindacali, Fim-Cisl e
Uilm-Uil e rigettato dalla Fiom-Cgil. Quest’ultima manifesta la propria
contrarietà al nuovo contratto soprattutto per la nuova normativa
concernente l’assenteismo, per la clausola di responsabilità e per le
clausole integrative del contratto individuale di lavoro, che secondo la
Fiom costituirebbero una decisa regressione rispetto agli attuali standard
124
contrattuali e che potrebbero configurare delle violazioni al dettato
costituzionale.
Appare criticabile il fatto che Sergio Marchionne abbia proposto il
contratto con la formula «prendere o lasciare». Non si sottolinea
l’importanza di una collaborazione fra impresa e sindacati e di un
coinvolgimento dei lavoratori, ma di un comportamento che di fatto
azzera il ruolo della contrattazione sindacale e appare anche in contrasto
con al politica di dialogo portata avanti da Sergio Marchionne nella fase
precedente.
Lo stesso schema di accordo di Pomigliano d’Arco è stato poi riproposto
per lo stabilimento di Mirafiori.
La critica più importante all’impostazione seguita da Marchionne deriva
dal fatto che nel piano 2010-2014 l’applicazione del World Class
Manufacturing gioca un ruolo essenziale ai fini del successo del piano,
nella difficile sfida di elevare qualità e l’immagine percepite dai
consumatori nei confronti dei marchi Fiat. Come si può pensare di
vincere questa sfida, che postula una forte collaborazione e condivisione
di obiettivi tra direzione e lavoratori , se nel contempo si apre una fase di
conflittualità soprattutto con uno dei maggiori sindacati, la Fiom?
Certamente Marchionne ha ragione di chiedere l’eliminazione di
comportamenti lavorativi che impediscono il corretto funzionamento
delle fabbriche, ma questo va fatto puntando innanzitutto ad una
collaborazione con tutto lo schieramento sindacale e negoziando una
soluzione che non appaia come un gioco a somma zero risolto in modo
negativo per il lavoratori e per il sindacato, bensì come un gioco a
somma positiva in cui entrambe le parti contribuiscono a un
miglioramento del comportamento dei lavoratori.
125
In sostanza si tratta di un quadro molto complesso e in continua
evoluzione che invece dovrebbe trovare al più presto una propria stabile
definizione.
3.5. Nasce Fiat Chrysler Automobiles (FCA)
Alla fine Fiat e Chrysler hanno ufficializzato la loro intesa. La data da
segnare è il 29 gennaio 2014, quando il Consiglio d’amministrazione di
Fiat Spa, ha approvato la riorganizzazione societaria. L’acquisizione, il
primo gennaio di quest’anno, della quota di minoranza del 41,5 per cento
in Chrysler Group LLC che era detenuta da VEBA, il fondo
pensionistico sanitario del sindacato americano UAW, ha permesso a
Fiat di acquisire il 100 per cento della società di Auburn Hills. Un grande
risultato strategico di tutto il management Fiat frutto di un lungo e duro
lavoro iniziato nel 2009.
La nascita di “Fiat Chrysler Automobiles” segna l’inizio di un nuovo
capitolo per l’azienda italiana. Il viaggio che è iniziato più di dieci anni fa
con la ricerca di soluzioni che assicurassero a Fiat il proprio posto in un
mercato sempre più complesso è culminato nell’unione di due
organizzazioni, ognuna con una grande storia nel panorama
automobilistico ma con caratteristiche e punti di forza geografici
differenti e complementari.
L’obiettivo è quello di costruire un’azienda che, per dimensioni e
capacità di attrazione sui mercati finanziari, sia comparabile ai migliori
concorrenti internazionali, il Consiglio ha deciso di costituire Fiat
Chrysler Automobiles N.V., società di diritto olandese che diventerà la
holding del Gruppo. Le azioni ordinarie di FCA saranno quotate a New
York e a Milano.
126
Così l’Amministratore Delegato di Fiat Auto, Sergio Marchionne, ha
raccontato l’inizio nel 2009 dell’avventura con Chrysler che ha portato,
alla nascita di Fiat Chrysler Automobiles:
“La chiami fortuna, istinto, visione, quel che vuole. Resta il fatto che in quel momento
di crisi spaventosa abbiamo visto nei rottami dell’industria americana la possibilità di
far nascere una grande azienda in forma completamente diversa. È l’America ha
creduto nelle nostre idee e ci ha aperto le porte.
Per tante ragioni storiche ed culturali noi europei siamo condizionati dal passato,
l’idea di chiuderlo per nascere una cosa nuova ci spaventa. Da loro no, c’è una
disponibilità quasi naturali verso il cambiamento. Questa operazione ha messo al
riparo Fiat e i suoi lavoratori dalla tempesta della crisi italiana ed europea, che non è
affatto finita. Ora potrà ripartire con basi, dimensioni e reti più forti. L’Alfa è
centrale nella nostra nuova strategia. Come Jeep è venduta in tutto il mondo, ma è
americana fino al modello, così il dna Alfa dev’essere tutto italiano. Fiat andrà nella
parte alta del mass market, con le famiglia Panda e Cinquecento. Lancia diventerà
un marchio del mercato italiano. La vera scommessa è il nuovo sviluppo dell’Alfa”.20
20 D’Amico C., “ FCA, Fiat Chrysler Automobiles. Nasce un gruppo mondiale”, 2014, p. 5
127
128
Capitolo 4
Storia delle relazioni industriali in Fiat: dall’autunno
caldo ai giorni nostri
4.1. Le relazioni industriali in Fiat
Alla Fiat, la contrattazione sindacale ha assunto modalità e formulazioni
specifiche. Osservando la storia della Fiat si resta colpiti dalla radicalità
dei conflitti sociali e sindacali, sembra mancare quell’insieme di processi
e di regole che attenuano i conflitti, che impediscono l’eccessivo
accumularsi di problemi e contraddizioni.
In altre parole, nella storia delle relazioni sindacali alla Fiat sono
sempre mancate le «valvole di sicurezza» che consentissero la riduzione
programmata della «pressione», al dunque ogni grande conflitto si risolve
con la negazione della controparte, della legittimità degli interessi che
rappresenta, creando nuovi squilibri e nuove tensioni.
Cercheremo adesso di offrire un’analisi della contrattazione
sindacale alla Fiat, partendo dagli anni Ottanta fino ad arrivare ai giorni
nostri, per comprendere appieno i cambiamenti in atto.
Gli anni Ottanta si aprono in una fase in cui le relazioni sindacali
avevano già operato una brusca conversione in senso negativo.21
La situazione del mercato dell’auto denunciava un peggioramento
generalizzato in tutto il mondo, ma la situazione si presentava ancora più
grave per la Fiat che scontava gravi errori di previsione e un ritardo nel
21 Damiano C., Pessa P., «Dopo lunghe e cordiali discussioni. La storia della contrattazione
sindacale alla Fiat in 600 accordi dal 1921 al 2003», Ediesse, Roma, 2003, p. 211
129
rinnovo dei modelli, perdendo conseguentemente quote di mercato sul
territorio nazionale, a questo peggioramento si aggiunge inoltre una
situazione di squilibrio dei conti aziendali.
La perdita di quote di mercato e l’aggravamento dei conti aziendali
favorirono le posizioni aziendali più oltranziste nei confronti del
sindacato e rafforzarono l’ipotesi di arrivare a uno scontro risolutivo che
rovesciasse definitivamente le relazioni in azienda.
Le incertezze e gli errori di gestione economica e industriale
accumulati dalla Fiat nel corso degli anni Settanta hanno
progressivamente portato all’esigenza di un rapido recupero di
produttività, mentre i limiti e le debolezze della strategia sindacale hanno
convinto il management Fiat che la strada della rottura delle relazioni
sociali fosse il percorso più agevole.
La sensazione di un aggravarsi della situazione economica e di
mercato della Fiat, portò il sindacato a rivendicare al governo e al
Parlamento un «piano nazionale dell’auto», che avrebbe comportato
sostanziali contributi statali alla Fiat, soprattutto nel campo della ricerca e
dell’innovazione del prodotto. Ciò sembrò detestare qualche interesse da
parte Fiat, che però, per bocca dello stesso Giovanni Agnelli, restava
dubbiosa sull’effettiva tempestività del governo nell’intervenire in
relazione ai tempi della crisi.
In ogni modo lo stesso incalzare della crisi e le scelte della Fiat
finiranno per accantonare la piattaforma rivendicativa.
L’azienda, anzi, annuncia il ricorso massiccio alla cassa
integrazione e alla mobilità esterna per migliaia di lavoratori, che
prevedeva la possibilità di riassunzione presso altre aziende dei lavoratori
in Cigs, ma in assenza di tale possibilità prevedeva in ogni caso il
licenziamento del lavoratore dopo un certo periodo.
130
La risposta sindacale è negativa, contemporaneamente viene
chiesto l’intervento del governo. Da parte sua il governo Cossiga si
mosse chiedendo alla Fiat di non procedere ai licenziamenti, ma non
ottenne risposte positive e Umberto Agnelli rassegnò le dimissioni dalla
carica di amministratore delegato del gruppo. La mossa fu interpretata
come un defilarsi di un rappresentante della famiglia Agnelli da
un’operazione rischiosa e impopolare, che comportava evidenti problemi
di immagine pubblica. I poteri furono affidati a Cesare Romiti, un
manager assunto nel 1974 in Fiat, che governerà l’impresa fino al 1998.
La strategia aziendale, secondo le interpretazioni sindacali, non
riguardava solamente l’esigenza di un riequilibrio economico, ma si
proponeva anche di riacquistare mano libera nel campo della gestione
della forza lavoro e assestare un colpo mortale al sindacato.
Come si seppe in seguito, la strategia aziendale venne decisa con
una parte importante del capitalismo italiano, vale a dire quella di
Mediobanca di Cuccia che preparava il rilancio finanziario della Fiat,
subordinandolo però al ridimensionamento del sindacato in azienda.
In un incontro tra Fiat e governo, l’azienda ribadirà la sua
intenzione di licenziare, o quanto meno di porre i lavoratori in mobilità
esterna, argomentando che la situazione del mercato del lavoro torinese
consentiva il riassorbimento dei lavoratori eccedenti. Contrario a ciò il
sindacato che invece proponeva la cassa integrazione a rotazione, il
blocco del turn-over, le dimissioni incentivate e corsi di riqualificazione
professionale. Ma la scelta aziendale non prevedeva mediazioni con il
sindacato, nei fatti la trattativa si interruppe, e la Fiat annunciò l’avvio
della procedura per il licenziamento di 14.469 lavoratori tra il settore
Auto e Teksid.
131
Nel frattempo, la preoccupazione da parte sindacale, riguardava le forme
di lotta e il rischio di uno sciopero a oltranza, che era considerato un
elemento di debolezza a fronte di uno scontro che si preannunciava di
non breve durata.
Il segretario generale del Pci, Enrico Berlinguer, portò solidarietà e
l’appoggio del partito ai lavoratori in lotta, cosa che darà l’avvio a un
fiume di polemiche poiché alcuni passi del discorso di Berlinguer
verranno interpretati come un avallo all’ipotesi sindacale di occupare la
Fiat. Le parole «incriminate» furono: «le forme della lotta dovranno
essere decise dai lavoratori nelle assemblee con i dirigenti del sindacato.
Se queste decisioni riguarderanno anche forme di occupazione, il nostro
partito darà il suo pieno appoggio e la sua solidarietà».
Nei fatti all’inizio della vertenza vi fu un ampio e crescente
movimento di solidarietà politica nei confronti della lotta dei lavoratori
Fiat da parte dell’insieme del movimento sindacale, di associazioni e
forze politiche.
Il 27 settembre cade il governo Cossiga e viene meno
l’interlocutore istituzionale della vertenza, l’azienda coglie l’occasione per
sospendere i licenziamenti e mettere in cassa integrazione 24.000
lavoratori per tre mesi dal 6 ottobre.
A fronte della revoca dei licenziamenti il sindacato decise di
sospendere lo sciopero generale di tutte le categorie a sostegno della
vertenza Fiat, indetto per il 2 ottobre, ciò generò polemiche nei confronti
delle confederazioni sindacali da parte dei delegati sindacali di Torino,
che vedevano in questa decisione un segno di minor convinzione
sindacale.
Il 29 settembre la Fiat annuncia che è disponibile a prendere in
esame soluzione alternative ai licenziamenti, ma il 30 settembre rende
132
pubbliche le liste dei lavoratori posti in cassa integrazione, esposte ai
cancelli della Fiat.
La decisone unilaterale della Fiat viene interpretata dall’assemblea
dei delegati come uno schiaffo al sindacato, poiché tutti comprendono
che con questa scelta vengono selezionati i lavoratori da escludere e la
discussione può avvenire solamente sui criteri scelti dall’azienda.
Pur respingendo l’ipotesi, presentata dalla parte più radicale dei
delegati, di occupare la fabbrica, l’assemblea dei delegati decise il presidio
dei cancelli e lo sciopero ad oltranza.
Il 10 ottobre fu attuato lo sciopero generale che ebbe una grande
adesione, con manifestazioni in molte città italiane e in particolare a
Torino, dove la manifestazione si tenne a Mirafiori. Un corteo di capi e
lavoratori Fiat, con la partecipazione di altre persone, sfila per Torino in
una manifestazione antisindacale, è la cosiddetta «marcia dei
quarantamila».
La precipitosa conclusione della vertenza, con l’approvazione
dell’accordo, e la mancanza di tempo adeguato per un confronto
sull’accordo finale viene indicato come uno dei principali elementi
negativi che determinarono la «sindrome della sconfitta».
Spesso è stata utilizzata polemicamente la categoria del
«tradimento» da parte dei vertici sindacali e del Pci per spiegare l’esito
della vertenza.
Si può quindi sostenere che la radicalità della vertenza del 1980
nacque certamente dalla volontà della Fiat di riacquistare mano libera
nella gestione dei processi di ristrutturazione, piegando il sindacato. Ma
da parte del sindacato vi furono certamente errori di gestione, che
nascevano da limiti culturali e contraddizioni irrisolte, sedimentate nel
corso degli anni, che derivavano anche dal non avere avuto la capacità di
133
affrontare i problemi della competitività aziendale, e dalla difficoltà a
costruire una rappresentanza complessiva dei lavoratori,
conseguentemente determinava una selezione degli obiettivi rivendicativi
in relazione soprattutto agli interessi di alcune categorie di lavoratori.
L’esito della vertenza dei 35 giorni chiudeva inevitabilmente una
fase delle relazioni industriali in Fiat e nel paese.
I mutati rapporti di forza, le trasformazioni organizzative e sociali
della fabbrica contribuirono a mettere nell’ombra i lavoratori
dell’industria e i loro sindacati, mentre nuove ideologie teorizzavano la
progressiva scomparsa della classe operaia. Per Torino iniziava un
periodo tormentato, contrassegnato da processi di deindustrializzazione
e, secondo molti commentatori, dalla decadenza economica e sociale
della città, in cui i sindacati stentavano a ritrovare un rapporto con i
lavoratori della Fiat.
La restaurazione aziendale dopo il 1980 completò il cambiamento
del sistema di relazioni sindacali in Fiat. Il ripristino della disciplina
aziendale fu accompagnato da licenziamenti di rappresaglia che
contribuirono ad alimentare la paura di perdere il posto di lavoro. La
Fiat, infatti, continuò dopo il 1980 una violenta politica antisindacale,
con l’obiettivo di scompaginare completamente il sindacato in azienda.
In quella fase l’azienda teorizzava che i tempi della contrattazione
sindacale erano incompatibili con la velocità richiesta dai processi di
riorganizzazione produttiva.
Conseguentemente il ruolo dei delegati sindacali doveva essere
ridotto al minimo, mentre il sindacato poteva avere un ruolo solamente
come agente regolatore esterno alla fabbrica per concordare la gestione
dei processi di ristrutturazione, soprattutto nei loro effetti occupazionali.
134
In generale vi fu un evidente arretramento della capacità sindacale di
intervenire sull’insieme degli aspetti della condizione di lavoro, mentre
l’azienda riuscì a realizzare un notevole incremento della produttività del
lavoro a partire dalla seconda metà degli anni ottanta, quando si fece
sentire la ripresa della domanda di mercato.
In gran parte questo incremento fu dovuto ai processi
d’innovazione tecnologica, ma anche al fatto che ormai Fiat applicava
unilateralmente le trasformazioni tecniche e organizzative, senza un
confronto con le rappresentanze sindacali, inoltre la cassa integrazione e
i timori relativamente alla sicurezza del posto di lavoro avevano ridotto
significativamente l’assenteismo per malattia.
L’innovazione tecnologica e soprattutto l’automazione divennero
le linee guida dei processi di ristrutturazione, la stessa immagine che la
Fiat proiettava all’esterno era quella di una fabbrica in cui gli operai erano
scomparsi, sostituiti da tecnici in camice bianco il cui unico lavoro
consisteva nel controllare i computer e pigiare bottoni.
Prevaleva in Fiat una concezione negativa del fattore umano,
considerato come una variabile imprevedibile e sostanzialmente
inaffidabile, da ridurre progressivamente sul piano quantitativo. A
differenza degli anni settanta l’automazione non aveva più l’obiettivo di
migliorare le condizioni di lavoro ma era diretta, in prima istanza, a un
forte recupero di produttività e flessibilità con la costruzione appunto
della fabbrica ad alta automazione.
In sintesi la strategia della Fiat prevedeva l’automazione spinta sul
piano produttivo, mentre sul piano sociale negava la necessità della
contrattazione collettiva nei luoghi di lavoro e affermava il concetto di
un rapporto individuale azienda-lavoratore.
135
Nella prima metà degli anni ottanta la maggior parte della
contrattazione sindacale si limitò alla gestione dei processi di
ristrutturazione e delle eccedenze di personale.
L’avvio del nuovo modello, la Uno, consentì alla Fiat di uscire
dalla situazione di crisi economica, inaugurando un periodo che dal 1984
al 1989 garantirà all’azienda alcuni dei migliori risultati economici dei
suoi cent’anni di vita.
Il confronto poi per il rinnovo del Contratto nazionale di lavoro
dei metalmeccanici durò più di un anno, dato che la piattaforma
rivendicativa fu varata il 6 aprile 1982. Le trattative si bloccarono
immediatamente per le pregiudiziali di Federmeccanica e Confindustria.
Il 23 gennaio 1983 fu raggiunta una prima intesa tra Governo,
Confindustria e Federazione Cgil, Cisl e Uil, il cd. «Protocollo Scotti», in
cui vi fu una indubbia espressione del metodo concertativo, avviato già
alla fine degli anni Settanta, periodo in cui, posti di fronte al problema
delle ristrutturazioni aziendali conseguenti all’introduzione di nuove
tecnologie nell’apparato produttivo dell’industria italiana ed alle connesse
modificazioni del mercato del lavoro, i sindacati appartenenti alle tre
confederazioni maggiormente rappresentative (Cgil, Cisl e Uil) decisero
di intraprendere strade di gestione partecipativa dei processi di
riconversione industriale.
La novità è che, il Governo figura non come semplice mediatore
tra le parti, ma come vero e proprio attore di un’intesa triangolare,
imponendo in modo esplicito alle parti sociali i termini dello scambio
politico.
Il passo successivo delle pratiche concertative è dato, dalla rottura
sindacale in occasione della firma di un altro accordo, il Protocollo sul
costo del lavoro del 14 febbraio 1984, il cd. «Protocollo di S. Valentino»,
136
con cui si proponeva la rinegoziazione del precedente protocollo
d’intesa. Esso costituì la base della frattura tra Cgil, che si opponeva ai
contenuti dell’accordo, da un lato, e Cisl e Uil, dall’altro, che risulteranno
poi essere le uniche firmatarie del patto.
Ciò fu interpretato come un fatto dirompente nell’assetto delle
relazioni industriali, caratterizzato fino a quel momento da una
concertazione a tre e dall’assenza di atti autoritativi (cioè del Governo) in
materia tradizionalmente di pertinenza sindacale. A ciò fa seguito, nella
seconda metà degli anni Ottanta, un ridimensionamento della
concertazione sociale e degli accordi triangolari, anche se non vi è una
interruzione dei rapporti tra Governo e parti sociali, che vengono
consultate separatamente prima dell’adozione di importanti
provvedimenti di natura politico-economica.
La forte ripresa produttiva e di mercato connessa con
l’affermazione della Uno aprì un periodo molto contradditorio per il
sindacato poiché, già dal 1984, la Fiat iniziò a chiedere la possibilità di
ricorrere allo straordinario al sabato per alcune produzioni, ma
contemporaneamente proseguiva la cassa integrazione settimanale e
molte migliaia di lavoratori erano ancora sospesi a «zero ore» senza una
chiara prospettiva di rientro in azienda. La nuova situazione di tensione
produttiva rischiava quindi di collocare le organizzazioni sindacali in una
situazione difficile. In tal occasione esse posero la questione di
riprendere normali relazioni sindacali dopo una fase di «gelo» che era
durata alcuni anni.
La Fiat diede una risposta parzialmente positiva, la Direzione
aziendale si dichiarava disponibile a riprendere le relazioni sindacali.
137
Secondo la Fiat, la contrattazione doveva svilupparsi in base alla
logica dello «scambio», cioè secondo concessioni reciproche che
entrambe le parti dovevano prevedere.
Gli effetti di questa politica furono una serie di accordi alla fine del
1985 e nel 1986. Si aprì così una nuova fase di negoziazione in cui i
rappresentanti sindacali svolgevano un effettivo ruolo contrattuale, anche
se si presentavano situazioni molto diverse tra gli stabilimenti.
Uno degli effetti di questa mutata situazione fu la ripresa del
tesseramento sindacale, che in precedenza aveva subito un crollo
evidente.
Per quanto riguarda quindi la contrattazione aziendale il decennio
si può dividere in due fasi distinte: la prima parte, caratterizzata da una
sorta di «gelo nelle relazioni industriali», dove la contrattazione era
finalizzata quasi completamente a regolare i processi di ristrutturazione
in termini di gestione del personale eccedente.
Nella seconda metà degli anni ottanta, vi fu una ripresa della
contrattazione su molti aspetti attinenti alle prestazioni di lavoro, alla
contrattazione di straordinari, agli incrementi nell’utilizzo degli impianti,
alle assunzioni di giovani, ecc.
Nell’insieme però la Fiat aveva posto alcuni limiti alla
contrattazione a livello di stabilimento, vi era un rifiuto da parte di
quest’ultimo di aprire canali d’informazione preventiva e consultiva sui
processi di cambiamento tecnologico e organizzativo, che
inevitabilmente avrebbero allargato gli strumenti di partecipazione a
disposizione delle rappresentanze sindacali. Il rapporto della Fiat con i
sindacati si poteva definire strumentale, nel senso che l’azienda ricorreva
alla contrattazione collettiva quando ciò era strettamente indispensabile,
in termini di legge o per interessi immediati, come l’acquisizione di un
138
consenso sociale più ampio per acquisire strumenti di flessibilità della
forza lavoro, mentre quando ciò non era necessario regolava le relazioni
sociali interne con i rapporti individuali.
Questo è stato possibile anche per l’evidente divisione e le
differenti strategie che proprio su questi aspetti caratterizzavano i
sindacati, infatti su alcuni aspetti delicati come la prestazione di lavoro
mancava una reale capacità di coordinamento delle scelte di politica
contrattuale.
Gli anni novanta si presentano particolarmente ardui per la Fiat
dopo un periodo di prosperità. Il punto critico è rappresentato da Fiat
Auto, che doveva affrontare la progressiva accentuazione della
concorrenza internazionale, alimentata da una sovracapacità produttiva
strutturale e dal nuovo fenomeno dei prodotti giapponesi
particolarmente competitivi. Ormai successi come la Uno erano
improbabili, perché non era più possibile basare il risultato economico su
un modello di vettura, ma era necessaria una presenza articolata su una
moltitudine di segmenti e di nicchie di mercato per competere con una
concorrenza sempre più agguerrita.
La scena del 1990 è occupata dal rinnovo del Contratto nazionale
di lavoro dei metalmeccanici, dopo un faticoso confronto tra Fim, Fiom
e Uilm, le divisioni sindacali comportarono un’incapacità a selezionare le
rivendicazioni, perciò la piattaforma dava la sensazione di essere una
sommatoria delle proposte rivendicative di ciascun sindacato. La
conclusione contrattuale comportò molti strascichi polemici tra i
lavoratori, tra i quali era largamente diffuso un giudizio d’insufficienza
sui risultati conseguiti.
Tuttavia vi sono alcuni accordi significativi che è opportuno
rilevare. L’accordo del 27 aprile 1990 sottoscritto da Fiat Avio e i
139
rappresentanti sindacali in azienda, che introduceva una sperimentazione
di scaglionamento delle ferie. Questa è stata probabilmente l’unica intesa
sul tema che ha effettivamente funzionato in Fiat e che tuttora in vigore.
Il positivo funzionamento dell’accordo derivò dalla flessibilità con cui fu
attuato, lasciando ai singoli lavoratori spazi di discrezionalità nel gestire i
propri periodo di ferie.
Una forte innovazione rappresentava invece l’accordo del 18
dicembre 1990, che stabiliva l’insediamento di due nuovi stabilimenti al
Sud, a Pratola Serra (Avellino) per la produzione di propulsori e a Melfi
(Potenza) per quella di vetture, i cui lavori di costruzione inizieranno nel
maggio dell’anno successivo. Questo accordo produsse alcuni contrasti
all’interno delle organizzazioni sindacali poiché era evidente il rischio che
gli elevati volumi produttivi, connessi con il nuovo regime d’orario (18
turni settimanali per la produzione e 21 turni per la manutenzione),
significassero una riduzione delle attività produttive degli stabilimenti
esistenti al Nord, anche se i massimi dirigenti della Fiat si affrettarono a
garantire pubblicamente che i nuovi insediamenti meridionali erano
aggiuntivi e non sostitutivi di quelli già esistenti.
Un ulteriore particolare significativo fu quello connesso agli assetti
sociali dei due stabilimenti, che formalmente non facevano parte di Fiat
Auto, ma costituivano due società a se stanti: Sata (Società
automobilistica tecnologie avanzate) per Melfi e Fma (Fabbrica motori
automobilistici) per Pratola Serra. Tra l’altro ciò serviva a evitare
l’applicazione degli accordi sindacali del Gruppo Fiat in questi nuovi siti
industriali.
Con questi investimenti la Fiat imprimeva un nuovo corso alla
produzione automobilistica con effetti che cambieranno gli assetti
complessivi di Fiat Auto, infatti, i timori dei sindacati erano giustificati,
140
poiché Fiat Auto procedette, nel 1992, alla riduzione della capacità
produttiva al Nord, con la chiusura degli stabilimenti di Desio e
Chivasso.
Con l’inizio degli anni novanta furono avviate una serie di
sperimentazioni organizzative, il più famoso dei quali era quello
denominato «fabbrica integrata» e si proponeva di cambiare
l’organizzazione produttiva. Il modello di riferimento era quello dei
produttori giapponesi, come il just in time, la riduzione dei materiali e
delle scorte e di tutte le risorse necessarie per produrre, nonché il
miglioramento continuo del processo e del prodotto, in sostanza gli
aspetti caratteristici della lean production, di cui la Fiat voleva importare
la capacità di gestire gli elementi d’incertezza con risorse ridotte.
La novità fu colta immediatamente anche al di fuori dell’azienda e
del mondo sindacale poiché era evidente anche una sorta di autocritica
sul precedente modello organizzativo. Tuttavia, era anche evidente la
contraddizione tra la partecipazione richiesta ai lavoratori nel
miglioramento del processo produttivo e il fatto che il cambiamento era
gestito senza un rapporto contrattuale con i sindacati. Il realtà il progetto
poteva anche essere considerato una sfida nei confronti dei sindacati,
proprio per l’implicita esigenza aziendale di conquistare il consenso dei
lavoratori necessario alla partecipazione richiesta dal nuovo modello
organizzativo.
Nel corso del tempo emersero una serie di contraddizioni
nell’applicazione del nuovo modello organizzativo, in particolare vi era
un’evidente differenza tra il progetto elaborato dalla Fiat e la sua effettiva
realizzazione. Molte delle nuove modalità organizzative, quelle meno
formali e più sostanziali che attenevano ai comportamenti e ai ruoli,
restarono solo sulla carta o furono realizzate in alcuni reparti, ma non in
141
altri. Queste difficoltà e differenze furono attribuite alle resistenze
interne della gerarchia aziendale, nei fatti, anche per quanto riguarda il
rapporto con il sindacato, una parte del management Fiat lasciò trapelare
che era in atto uno scontro di opinioni tra chi pensava di tenere fuori le
rappresentanze sindacali dal nuovo progetto organizzativo e chi invece
riteneva che queste potessero dare un contributo utile all’innovazione
organizzativa e a rimuovere le resistenze della gerarchia aziendale.
Per le organizzazioni sindacali, quindi, il progetto aziendale
d’innovazione organizzativa era visto favorevolmente, sia pure con
sfumature diverse derivanti dalla diversa concezione del rapporto
contrattuale, era considerato un’occasione per un ruolo più definito delle
relazioni sindacali in azienda, date le istanze di partecipazione dei
lavoratori che erano alla base del progetto. Diversa però era la situazione
tra i rappresentanti sindacali in azienda, le cui posizioni erano molto
articolate, se da una parte vi era chi riteneva che il nuovo modello
organizzativo fosse un’occasione per un ruolo più incisivo del
rappresentante sindacale, all’estremo opposto vi era chi lo riteneva un
cambiamento limitato che in realtà non avrebbe cambiato nulla o,
peggio, un disegno per «fregare» i lavoratori. Ovviamente queste diversità
determinavano atteggiamenti diversi nei vari stabilimenti e gli stessi
comportamenti della gerarchia aziendale giustificavano sia l’una sia l’altra
posizione.
In ogni modo, alla prova dei fatti, il rapporto azienda-sindacati
non andò molto oltre l’informazione sullo sviluppo dell’innovazione
organizzativa, che restava ancorata a regole unilaterali. Mentre la
contrattazione rimaneva sostanzialmente legata a logiche di
centralizzazione, anche quando furono definite alcune sperimentazioni di
stabilimento su un sistema di premi individuali che incentivava le
142
proposte di miglioramento della qualità da parte dei lavoratori. In
definitiva mentre il management Fiat sembrava che fosse ancorato alla
visione tradizionale del sistema di relazioni sindacali, i sindacati, anche
per le loro divisioni, non furono in grado di proporsi un’impostazione
comune che allargasse gli spazi d’intervento sull’organizzazione
produttiva.
Il periodo che va dal 1991 al 1995 vede dal un punto di vista della
contrattazione, la ripresa della concertazione sociale nella forma degli
accordi triangolari, data l’esigenza dei Governi di rientrare nei vincoli
posti dal Trattato di Maastricht del 1991.
Vi furono un’alternanza di accordi che gestirono gli aspetti di
ristrutturazione, dai licenziamenti collettivi (la cosiddetta «mobilità») per
250 lavoratori ad una riduzione della capacità produttiva al Nord
attraverso la chiusura dello stabilimento di Desio e quello della Lancia di
Chivasso.
La stessa azienda si impegnò nell’attivare una serie di iniziative
industriali che avevano un duplice scopo, da una parte assorbire una
quota dei lavoratori, dall’altra costruire un indotto qualificato in relazione
ai nuovi criteri organizzativi basati sul just in time. Per i lavoratori furono
utilizzati gli strumenti tradizionali come la Cigs, i prepensionamenti e le
dimissioni incentivate, ma alla fine tutti trovarono una collocazione, in
parte nelle nuove attività produttive, in parte con trasferimenti in altri
stabilimenti Fiat.
La complessità delle trattative era anche determinata dalle divisioni
sindacali in merito alla conduzione delle trattative, dove la Fiom insisteva
molto sugli aspetti della verifica democratica con i lavoratori, prima di
firmare definitivamente gli accordi, mentre le altre organizzazioni lo
consideravano un aspetto secondario. La questione fu particolarmente
143
evidente nella trattativa per lo stabilimento di Chivasso, dove la Fiom
decise, da sola e con successo, di dichiarare due ore di sciopero per
effettuare l’assemblea con i lavoratori alla conclusione della trattativa.
Dal punto di vista dell’assetto complessivo di Fiat Auto i due
accordi smentivano i precedenti impegni della Fiat, accentuando
fortemente la tendenza alla riduzione delle capacità produttive e
dell’occupazione al Nord, contribuendo a spostare il baricentro
produttivo nel Mezzogiorno. Però nel merito della ristrutturazione non
furono utilizzate contro il sindacato ma comportarono un certo grado di
cooperazione. Del resto sarebbe stato controproducente per la Fiat una
politica antisindacale, per gli effetti negativi in termini d’immagine e
perché ciò avrebbe contrastato con le scelte di politica organizzativa e di
relazioni industriali ampiamente pubblicizzate.
Nello stesso periodo furono sottoscritti una serie di accordi che
sembravano affermare una politica di partecipazione nelle relazioni
industriali, con l’introduzione di nuovi organicismi congiunti che
avevano obiettivi consultivi o informativi come il «Comitato di
consultazione» a livello nazionale, o le «Commissioni di partecipazione»,
con il compito di monitorare l’introduzione di un nuovo istituto
premiante legato alle «Proposte di miglioramento qualità», un premio
destinato a favorire il coinvolgimento dei lavoratori, incentivando coloro
che presentavano proposte che miglioravano la qualità del processo
produttivo e del prodotto, in un’ottica molto giapponese.
L’accordo non indicava l’entità del premio, prevedeva in ogni caso
che il premio fosse limitato agli operai e intermedi, mentre erano esclusi
gli operai. La sua diffusione non fu omogenea tra i diversi reparti e
stabilimenti. In realtà si constatò che influivano molto i comportamenti
della line aziendale, che in alcuni casi favoriva il processo, in altri lo
144
osteggiava, in altri ancora lo utilizzava a favore di alcuni lavoratori in una
logica di scambio reciproco di favori. Dall’altra parte anche
l’atteggiamento dei rappresentanti sindacali aveva un’influenza rilevante
nel promuovere ed osteggiare la diffusione delle proposte a fronte una
certa diffidenza da parte dei lavoratori.
Questo sistema premiante è ancora in vigore, ma negli ultimi anni
sembra abbia perso interesse per la Direzione aziendale, che non ne
promuove più la diffusione, pur continuando a stabilire un budget di
spesa annua.
Il 1993 è stato l’anno peggiore per la Fiat, poiché al pessimo
andamento delle vendite si aggiunse il coinvolgimento dei dirigenti
aziendali e dell’amministratore delegato nelle inchieste connesse con
«tangentopoli» accomunando alle perdite economiche anche una caduta
dell’immagine pubblica.
La Fiat avviò così dei processi di ristrutturazione delle società i cui
conti economici erano negativi, come la Comau, la Teksid, l’Iveco, la Fiat
Avio, alcune società della componentistica, oltre Fiat Auto. Quasi tutti
questi accordi prevedevano una riduzione del personale attraverso la
procedura di mobilità e l’adozione dei criteri già visti per Fiat Auto
(mobilità incentivata con «aggancio» alla pensione).
Procedere poi al licenziamento dei propri quadri era un fatto
assolutamente nuovo, mai successo nella storia della Fiat, per il
particolare significato che avevano sempre rivestito queste figure nelle
filosofie aziendali, inoltre era evidente che con la loro estromissione la
Fiat rinunciava a competenze professionali non facilmente rimpiazzabili.
In effetti, durante il conflitto del 1980 la Fiat aveva fatto ricorso ai
quadri per piegare il sindacato, sancendo una sorta di «alleanza» sociale,
perciò la cosa ebbe immediatamente una risonanza nazionale.
145
La Fiat motivò questa scelta con l’esigenza di alleggerire la
struttura dei costi che era diventata troppo «pesante», soprattutto sul
versante degli impiegati, perciò propose di licenziare i quadri e gli
impiegati che avevano superato un certo limite di età, per dare loro la
possibilità di andare in pensione al termine della mobilità.
Fu richiesto da parte del sindacato l’intervento del governo. La
vertenza durò alcuni mesi e vide la straordinaria mobilitazione degli
interessati in accordo con i sindacati. I contrasti maggiori si
determinarono soprattutto sul piano industriale di rilancio della Fiat e
sulla tipologia di strumenti da utilizzare per ridurre le eccedenze, tra i
quali la Fiat insisteva sulla procedura di mobilità, mentre i sindacati si
proponevano di utilizzare soprattutto manovre di riduzione temporanea
dell’orario di lavoro con il ricorso ai contratti di solidarietà. Su
quest’ultimo punto la Fiat aveva espresso sempre viva contrarietà,
facendone un punto di principio, ma alla fine dovette parzialmente
cedere. Furono così raggiunti una serie di accordi che misero fine alla
vertenza di Gruppo.
La grave crisi economica e produttiva dei primi anni novanta,che
portò il paese sull’orlo della bancarotta, impose la necessità di nuove
regole nel sistema di relazioni industriali, che mettesse fine a un più che
decennale contenzioso sul costo del lavoro, individuando anche un
sistema di relazioni e di concertazione che avrebbe aiutato il risanamento
dell’economia.
La crisi fu superata con il Protocollo del 23 luglio 1993 sulla
politica dei redditi, sottoscritto dalla confederazioni sindacali, da quelle
degli imprenditori e dal governo. Quest’ultimo accordo rappresentò un
punto fermo e un’ancora di salvezza per il paese rispetto alla grave crisi
economica e politica della prima metà degli anni novanta, poiché stabilì i
146
cardini della politica di concertazione sociale e definì un ruolo forte per il
sindacato confederale, con un sistema di relazioni industriali basato su
due livelli di contrattazione.
Il Protocollo rappresenta uno spartiacque nell’evoluzione delle
relazioni industriali, formalizzando quindi il metodo della concertazione
sociale, sottoscritto unitariamente dalle Confederazioni (Cgil, Cisl e Uil),
attraverso un accordo triangolare (Governo, organizzazioni sindacali e
datoriali).22 Esso individua due differenti livelli di contrattazione (un
primo livello, nazionale di categoria, e un secondo livello di
contrattazione, aziendale o territoriale). È il contratto nazionale di
categoria a determinare le competenze del secondo livello mediante
clausole di rinvio. Di fatto, però, la competenza della contrattazione
decentrata è risultata abbastanza circoscritta, in quanto le materie e gli
istituti ivi regolamentati devono essere diversi rispetto a quelli retributivi
propri del contratto nazionale di categoria.
È quindi prevalsa una netta ripartizione delle competenze tra
contratto collettivo nazionale e contrattazione di secondo livello che
consente di evitare possibili conflitti tra i diversi livelli di negoziazione. Il
principio invalso nella pratica contrattuale per lungo tempo è quello del
«ne bis idem», esso fa sì che la contrattazione di secondo livello debba
esplicarsi su materie ed istituti che non siano già stati negoziati in altri
livelli di contrattazione.
Sul fronte delle relazioni tra il management e il sindacato,
l’accordo ha introdotto un meccanismo di consultazione bilaterale tra le
parti su una vasta gamma di temi e diversi livelli (azienda, stabilimento,
unità operativa). Attraverso delle «commissioni congiunte», composte da
22 Del Giudice F., Mariani F., «Compendio di diritto sindacale», Simone, Napoli, 2012, p. 144
147
responsabili aziendali e da rappresentanti delle organizzazioni sindacali
(Rsu) firmatarie degli accordi. Le commissioni affrontano argomenti
diversi, prevenzione e risoluzione del conflitto, monitoraggio del premio
di competitività, formazione, pari opportunità, sicurezza sul lavoro, ecc.
Il Protocollo ha permesso il raggiungimento di importanti obiettivi
per il nostro Paese (come l’accesso alla moneta unica europea) ed ha
svolto una incontestabile funzione regolatoria delle relazioni industriali
durata oltre 15 anni, cioè, alla stipulazione nel 2009 del nuovo Accordo
Interconfederale sugli assetti contrattuali.
A completare quanto stabilito da detto Protocollo fu sottoscritto
un accordo interconfederale, il 20 dicembre 1993, che regolamentava le
elezioni della rappresentanza sindacale in azienda, che sarebbe stata
denominata «Rappresentanza sindacale unitaria» e avrebbe detenuto
specifiche competenze contrattuali.
Nel successivo rinnovo contrattuale del 5 luglio 1994 furono
recepite le norme del Protocollo del 23 luglio 1993, stabilendo precisi
diritti di contrattazione a livello aziendale. Tra le altre cose furono
stabilite normative più precise sull’utilizzo delle riduzioni d’orario e sul
trattamento di malattia, fu concordato un nuovo sistema di previdenza
integrativa finanziato mediante quote di Tfr, infine, un aumento medio
mensile dei minimi retributivi.
Tra la fine del 1995 e l’inizio del 1996 il rinnovo del vertice
aziendale indica che la fase più acuta di crisi della Fiat è ormai passata.
Per i sindacati il miglioramento delle condizioni economiche dell’azienda,
consentirono alla Fiat la riapertura di una vertenza di Gruppo.
Furono formulate una serie di proposte, tra le quali quella di
raggruppare in un’unica vertenza l’insieme delle società del Gruppo Fiat,
compresa la Magneti Marelli, che in precedenza aveva proceduto
148
autonomamente. Tuttavia questa ipotesi resse solamente in parte, poiché
le rappresentanze sindacali della Sata e della Fma rivendicarono
l’autonomia contrattuale e pretesero di condurre una trattativa parallela a
quella della restante parte del Gruppo.
Nella fase finale della trattativa la proposta della Fiat sul premio di
risultato determinò una spaccatura tra le organizzazioni sindacali, in
merito alla risposta da dare, secondo la Fiom il meccanismo premiante
proposto dalla Fiat era molto distante dalle rivendicazioni presentate, era
legato ad indicatori estremamente aleatori per il lavoratori ed era basato
su previsioni di sviluppo poco credibili, mentre per le altre
organizzazioni poteva essere un terreno possibile d’intesa. In realtà la
Fiat aveva formulato una proposta ultimativa, un «prendere o lasciare»,
avendo compreso la divisione e la conseguente debolezza sindacale. Alla
fine la Fiom, dopo aver chiesto inutilmente la riunione del
Coordinamento nazionale Fiat, ricorse al regolamento unitario per
chiedere la riunione delle Rsu e un voto esplicito sulla proposta Fiat. Le
Rsu a maggioranza votarono a favore dell’accordo e la Fiom dichiarò di
accettare il voto delle Rsu, aderendo all’intesa ma mantenendo il
«giudizio negativo sulla proposta salariale della Fiat». Un supplemento di
trattativa servì ad includere il premio di risultato nella base del calcolo del
Tfr.
Un’ulteriore valutazione, su cui la Fiom è stata più cauta nei
giudizi attendendo di vederne gli sviluppi concreti, era quella relativa alla
parte sulle relazioni sindacali. Il fatto che la conclusione dell’accordo Fiat
sia avvenuta senza scioperi ha contribuito ad alimentare la tesi che questo
accordo abbia rappresentato una svolta sul terreno della partecipazione.
In particolare, da parte dei mezzi d’informazione era stato messo in
evidenza come una fase di passaggio e un cambiamento di mentalità nei
149
rapporti tra azienda e lavoratori richiedevano una reciproca fiducia e una
reciproca assunzione di responsabilità a tutti i livelli, ciò in conseguenza
del fatto che nelle moderne teorie organizzative il fattore umano
assumeva importanza prioritaria rispetto alle tecnologie, proprio perché
la competizione globale costringeva le aziende ad affrontare sfide difficili
per mantenere o rafforzare le proprie posizioni di mercato. In tal senso
un sistema di relazioni sindacali partecipative rappresentava un elemento
di grande potenzialità.
Nell’insieme, il sistema individuato dell’accordo del 18 marzo 1996
presenta troppe ambiguità per affermare che la Fiat abbia avuto una reale
intenzione di attuare la scelta della partecipazione con le organizzazioni
sindacali, mentre quest’ultime erano segnate dalle divisioni interne che
non consentivano un ruolo efficace nell’incalzare l’azienda su questo
terreno.
Il periodo successivo è stato caratterizzato dalla gestione dei
processi di ristrutturazione e anche da una certa ripresa produttiva e di
mercato, come dimostrano molti accordi su assunzioni, straordinari e
introduzione di terzi turni. Un accordo importante fu quello sottoscritto
il 28 giugno 1996, partito con divisioni da parte sindacale, alimentate da
preoccupazioni relative agli stabilimenti di Torino, Arese e Pomigliano,
che erano generate dalle crescenti attenzioni manifestate dalla Fiat per gli
investimenti all’estero e dai nuovi insediamenti produttivi al Sud.
L’accordo faceva il punto della situazione sul piano industriale e
delle allocazioni produttive, con i relativi effetti occupazionali, in
particolare sui risultati degli strumenti individuati per risolvere il
problema degli esuberi del personale.
Si trattava di un impegno rilevantissimo, resosi necessario per
recuperare la caduta di competitività del prodotto Fiat Auto e per
150
favorire il continuo rinnovo della gamma del prodotto. Nel confronto
era coinvolto il governo, non solamente per gli aspetti relativi agli
ammortizzatori sociali ma anche per la necessità di individuare politiche
di sostegno a favore del settore automobilistico che dessero prospettive
all’insieme degli stabilimenti esistenti.
Questi accordi si potevano considerare come una gestione
concordata del processo di rilancio della Fiat che portarono al successivo
provvedimento legislativo del governo Prodi in favore della cosiddetta
«rottamazione» delle autovetture nel 1997. Si trattava di un
provvedimento già adottato d altri paesi europei che consisteva
nell’assegnare una cospicua incentivazione fiscale a coloro che
decidevano di rottamare la propria vettura, con almeno dieci anni di
anzianità, e acquistarne una nuova. In favore del provvedimento si
spesero anche i sindacati per gli effetti positivi che implicava in termini di
stabilizzazione occupazionale, anche per favorire la conclusione della
vertenza per il rinnovo del biennio economico del Contratto nazionale di
lavoro che avverrà l’8 giugno 1999, dopo sette mesi di trattative e 36 ore
di sciopero. Oltre ad adeguare i minimo contrattuali ai tassi d’inflazione,
l’accordo prevede alcune significative innovazioni sul versante dell’orario
di lavoro, affrontando il delicato tema della flessibilità d’orario e
trasformare gli straordinari in riposi compensativi.
Oltre ai tradizionali processi di ristrutturazione, si faceva strada
una nuova modalità di riorganizzazione aziendale basata sui processi di
outsourcing , consistente nella cessione a società specifiche, di proprietà
Fiat o di terzi, di parti importanti della propria struttura produttiva.
L’obiettivo era di procedere a una razionalizzazione di queste
attività e di realizzare una presenza organizzata in un mercato, quello dei
servizi, che si prospettava particolarmente promettente.
151
Tutto ciò comporta problemi nuovi per la Fiat, poiché la
frammentazione dei lavoratori e delle responsabilità tra proprietà diverse
rappresenta concretamente una tendenza inversa all’integrazione
propugnata dal progetto «fabbrica integrata», in tal senso l’outsourcing
strategico presenta modalità organizzative e aspetti di conflitto-
collaborazione interna del tutto nuovi, che rimettono in discussione
alcuni assunti organizzativi degli anni precedenti. Dal punto di vista
sindacale le conseguenze dell’outsourcing generano una certa
frammentazione delle Rsu e una maggiore difficoltà ad organizzare la
rappresentanza dei lavoratori, il che comporta maggiori ostacoli nella
gestione dei problemi e richiede probabilmente l’individuazione di nuovi
strumenti contrattuali.
In alcune trattative con società del Gruppo Fiat, relative alla
cessione del ramo d’azienda, sono emersi tentativi aziendali di applicare
ai lavoratori «terziarizzati», una normativa contrattuale diversa da quella
del Contratto nazionale dei metalmeccanici. La proposta è stata respinta
da parte del sindacato, che pur non opponendosi ai processi di
outsourcing, ritiene indispensabile evitare una frammentazione della
normativa contrattuale all’interno della stessa azienda, perché ciò
implicherebbe strutture sindacali di diverse categorie che rappresentano
lavoratori all’interno dello stesso stabilimento, con un’evidente perdita di
controllo sulle possibilità di tutela dei lavoratori e anche con rischi di
conflitti interni.
Il Contratto nazionale di lavoro scadeva il 31 dicembre 1998, ma il
rinnovo fu particolarmente difficile per la complessità degli argomenti
posti nella piattaforma rivendicativa. L’accordo fu raggiunto l’8 giugno
1999 e prevedeva alcune significative innovazioni sul versante dell’orario
di lavoro. È il periodo in cui viene sancita la definitiva
152
istituzionalizzazione della concertazione sociale, che da prassi negoziale
diviene «metodo di condivisione di obiettivi» vincolante per tutte le parti
coinvolte, il Governo, i sindacati e le organizzazioni datoriali.
Gli anni novanta sono stati un decennio di relazioni sindacali e di
contrattazione molto contradditori, segnati dalla speranza di avviare un
nuovo e più stabile sistema di relazioni sindacali, che alla fine viene
puntualmente delusa. Gli stessi radicali processi di ristrutturazione e
riorganizzazione aziendale, che hanno modificato gli assetti produttivi e
organizzativi della Fiat, hanno contribuito ad alimentare questa speranza,
proprio perché i sistemi di partecipazione sono comunemente
considerati come più adeguati alle nuove logiche organizzative. In effetti,
alcuni momenti di «contrattazione collaborativa» si sono sviluppati, alla
metà degli anni novanta, attorno alla conduzione dei processi di
ristrutturazione, anche con la gestione concordata di tutti gli strumenti
consentiti dalla legislazione per il contenimento delle eccedenze di
personale (mobilità incentivata con accompagnamento alla pensione, Cig,
ecc.), ma ciò non ha comportato un avanzamento sostanziale del sistema
di relazioni industriali.
L’efficacia della contrattazione è stata alquanto limitata anche se,
rispetto agli anni ottanta, sono progressivamente aumentati gli argomenti
che sono stati oggetto di confronto. Una particolare incisività si è
manifestata sul governo dei processi di ristrutturazione, mentre i
sindacati hanno saputo farsi carico di incrementare la competitività
dell’azienda regolando la flessibilità, come dimostrano i molti accordi su
turni, straordinari e cassa integrazione.
Il principale successo della contrattazione è stato quello di
affrontare le ristrutturazioni e le conseguenti crisi occupazionali senza
utilizzare i metodi tipici di alcune multinazionali statunitensi, consistenti
153
nel licenziamento di migliaia di lavoratori al di fuori di qualsiasi
regolazione attuata attraverso gli accordi sindacali e gli ammortizzatori
sociali, ciò anche per effetto delle tutele legislative tipiche
dell’ordinamento italiano e dell’esistenza della cassa integrazione.
Tuttavia è indubbio che le relazioni sindacali in Fiat si basano su
un equilibrio precario, dovuto all’unione tra un sistema di contrattazione
centralizzato e un sistema di partecipazione «debole».
In realtà la Fiat continua ad affermare e praticare un sistema di
relazioni sindacali basato sulla centralizzazione dei rapporti e sulla
limitazione della contrattazione nei luoghi di lavoro, proprio per favorire
le prerogative manageriali nella gestione delle risorse umane. In tal
contesto si è determinato un andamento altalenante dei rapporti tra
azienda e organizzazioni sindacali, mentre negli ultimi anni si ravvisa una
marcata tendenza al peggioramento.
È anche opportuno rilevare la contraddittorietà di alcune posizioni
sindacali, da una parte Fim, Uilm e Fismic sembrano maggiormente
inserite nella logica di relazioni proposta dalla Fiat, cui chiedono la
legittimazione e il riconoscimento come agenti contrattuali, dall’altra
parte la Fiom si divideva tra un’impostazione più «conflittuale» e una più
disponibile a misurarsi con gli strumenti della partecipazione. Tuttavia
entrambe le posizioni hanno dimostrato molte incertezze nell’articolare
una strategia rivendicativa adeguata, in particolare non sono state
sufficientemente chiarite le impostazioni sul ruolo e sulle competenze
delle Rsu, sull’equilibrio di poteri e competenze tra strutture sindacali e
rappresentanti sindacali interni. Con qualche approssimazione si può
affermare che lo schieramento sindacale andava da chi era
ideologicamente contro la partecipazione e quindi non operava
certamente per una sua affermazione, a chi era ideologicamente a favore
154
ma non traduceva questa posizione in iniziative concrete. Ovviamente
tra questi due estremi vi erano molte posizioni intermedie, con quadri
sindacali che tentavano pragmaticamente di avviare un processo
negoziale, ma senza un coordinamento e una strategia comune, quindi
non erano in grado di sviluppare una sufficiente «massa critica» di
contrattazione.
Le incertezze nel campo delle relazioni sindacali hanno trovato
conferma anche per effetto degli accordi separati di Cassino, non
sottoscritti dalla Fiom. Il primo è quello del 15 marzo 2001 che, oltre a
tracciare un programma per l’avvio del nuovo modello della «Stilo»,
introduce la stessa metrica del lavoro di Melfi (il Tmc2) e la stessa
procedura di reclamo in caso di contestazione da parte del lavoratore che
comporta un’evidente intensificazione della prestazione lavorativa. Per
questo motivo non è stato sottoscritto dalla Fiom.
Il secondo accordo separato, del 30 luglio 2001, riguardava
l’introduzione di un regime d’orario a 20 turni (4 squadre che si alternano
sui 7 giorni della settimana) per 80 lavoratori delle manutenzioni dello
stabilimento di Cassino. L’accentuarsi delle divisioni sindacali è anche un
effetto indotto dall’accordo «separato», sottoscritto solamente da Fim e
Uilm, per il rinnovo del biennio economico dei metalmeccanici il 3 luglio
2001, con la logica conseguenza che la Fiom ha continuato con le
iniziative di mobilitazione dei lavoratori. In questo clima è anche
maturata la scelta della Fiom di dichiarare due ore di sciopero alla Fiat, il
12 ottobre 2001, per il rilancio della vertenza aziendale, tuttavia senza
esiti apprezzabili. Un risultato indiretto di questa situazione d’incertezza
e di disagio nelle relazioni sindacali si è anche misurata nella tendenza a
una generale crescita dell’assenteismo per malattia, che negli stabilimenti
più «vecchi», come Mirafiori, è arrivato a dati a due cifre, con valori che
155
erano considerati normali negli anni settanta. È logico dedurre che i
rilevanti e continui cambiamenti produttivi e occupazionali, che
caratterizzano gli attuali sistemi di produzione, generano forti elementi di
disagio tra i lavoratori. In definitiva questi aspetti continuano a segnalare
una situazione di incertezza e deterioramento delle relazioni sindacali.
Nel corso degli anni novanta si sono ulteriormente accentuati i
fattori di competizione per le imprese, con un incremento delle variabili
e quindi delle incertezze per chi opera sui mercati internazionali.
In alcuni settori la politica di globalizzazione ha consentito la
realizzazione di grandi gruppi, come la Cnh Global, che hanno occupato
posizioni di rilevo nel mercato mondiale, il rafforzamento della New
Holland e della Comau con l’acquisizione, nel 1999, di importanti
società quali la Case (macchine agricole), la Pico e la Renault Automation
(sistemi di produzione), che consentono alle due società del gruppo di
diventare leader mondiali nei rispettivi settori. Una serie di allenze
produttive (Magneti Marelli con Bosch, Teksid con Eaton, Iveco con
Renault sui bus) completano il quadro degli anni novanta.
Negli ultimi anni però non ci sono state solo acquisizioni, ma
anche rilevanti cessioni di imprese importanti, come la Fiat Ferroviaria la
cui quota di maggioranza è stata ceduta al gruppo francese Alstom, la
vendita di alcune unità produttive che compongono la Magneti Marelli.
Ovviamente le cessioni dovevano consentire anche di avere le
risorse finanziarie per coprire una parte dei rilevanti debiti generati dalle
operazioni di acquisizione. Si devono però aggiungere anche gli
insuccessi, infatti, nonostante i reiterati tentativi, dopo l’acquisizione
dell’Alfa Romeo nel 1987 la Fiat non è più riuscita ad acquisire altri
marchi di produttori internazionali di autoveicoli, come dimostra anche il
tentativo compiuto con la Volvo, che alla fine è stata acquisita dalla Ford.
156
In sintesi si può affermare che la Fiat, nel corso degli anni novanta,
accentua il tentativo di diversificare le proprie attività, cercando di
diminuire il peso specifico del settore degli autoveicoli.
Il risultato negativo di Fiat Auto è avvenuto quindi per effetto di
un mercato notevolmente cambiato nella sua composizione e
nell’accentuarsi della competizione. Inoltre si devono tener presente la
maggiore debolezza del prodotto Fiat sui segmenti di mercato medio-alti,
che sono quelli più difficili da conquistare ma che garantiscono i margini
più elevati, la riduzione dell’occupazione derivante in parte dai processi
di outsourcing, ma anche le riduzioni di personale attuate nell’ultimo
decennio. L’insufficienza dei risultati economici arriva dopo un decennio
in cui sono state investite notevoli risorse finanziarie, soprattutto nella
prima metà degli anni novanta, ma evidentemente non sono state
utilizzate in modo adeguato o con sufficiente coerenza.
L’annuncio così di una nuova fase di ristrutturazione, deciso dal
consiglio di amministrazione della Fiat del 10 dicembre 2001, non giunge
inaspettato a coloro che seguono da vicino le vicende del Gruppo e
conferma la gravità della crisi aziendale, che ha al proprio centro il
settore auto. Il piano di ristrutturazione presentato dall’azienda
prevedeva la chiusura di 18 stabilimenti (2 in Italia e 16 nel resto del
mondo) nel periodo 2002-2004, con una riduzione dell’organico di 6000
lavoratori, tutti impiegati in stabilimenti esteri, una riorganizzazione di
Fiat Auto in quattro business unit (Fiat Lancia, Alfa, Sviluppi
internazionali, Servizi per i clienti), dismissioni per circa due miliardi di
euro nel 2002, tra queste quella della Magneti Marelli, della Teksid, della
Comau, delle produzioni militari e altre ancora.
Nell’insieme si tratta di una serie di interventi che confermano la
gravità della situazione aziendale, che si dimostra ancora peggiore della
157
crisi del 1993, soprattutto per l’entità del debito che proporzionalmente
risultava superiore e per il contesto di mercato che presenta aspetti di
competitività molto più accentuati.
Un fattore importante riguarda il rapporto con i sindacati, che non
sono stati coinvolti in una trattativa sindacale preventiva sulla crisi e sui
modi per risolverla, gli stessi organismi di partecipazione, istituiti con
l’accordo del 18 marzo 1996, non sono stati attivati nei tempi e con le
modalità preventive che la gravità della situazione avrebbe richiesto. Ciò
evidenzia il fallimento del modello partecipativo aziendale che, alla prova
dei fatti, ha dimostrato la propria inconsistenza.
Nei fatti, l’azienda ha avviato il confronto sul piano di
ristrutturazione solamente nella primavera del 2002, in concomitanza
con l’apertura della procedura di riduzione del personale, mentre la
gravità della crisi era già evidente nel corso del 2001 ed era stata oggetto
di più richieste di chiarimento da parte sindacale a cui l’azienda aveva
sempre dato risposte che minimizzavano la criticità della situazione,
evidentemente per escludere un confronto reale sui problemi aziendali.
In ogni caso la trattativa ha generato una differenza di valutazione
tra i sindacati, a cui sono seguiti accordi separati. Con l’entrata in scena di
una nuova maggioranza di Governo, si assiste al progressivo abbandono
del «metodo concertativo», fondato sugli accordi triangolari (Governo,
organizzazioni sindacali e datoriali), che avevano contraddistinto per più
di un decennio il sistema di relazioni sindacali. Con la concertazione
sociale, le parti sociali non si limitano ad un ruolo di mera negoziazione
delle proprie istanze, bensì partecipano attivamente alla definizione delle
politiche economiche e sociali dell’Esecutivo. Si apre così la strada ad un
nuovo metodo che va sotto il nome di «dialogo sociale», in cui la
partecipazione delle parti sociali alla determinazione delle politiche del
158
Governo viene confinata nell’ambito di pareri e raccomandazioni cui
quest’ultimo può decidere o meno di dare seguito. Inoltre,
differentemente dalla concertazione sociale che è dotata di una portata
generale, occupandosi sostanzialmente di tutti i principali aspetti delle
politiche economiche e sociali del Governo, il dialogo sociale è settoriale
e specifico. Inoltre quest’ultimo sostituisce «alla regola della unanimità,
che era seguita sempre in passato, la regola della maggioranza, aprendo
così la strada alla conclusione di accordi tra Governo e parti sociali
“separati”».
La tecnica sostitutiva del dialogo sociale ha trovato attuazione nel
recente «Patto per l’Italia», siglato il 5 Luglio 2002 e sottoscritto dalle sole
Cisl e Uil senza la Cgil. 23
L’elemento qualificante del Patto, su cui peraltro si è prodotta la
rottura con la Cgil, è stato rappresentato dalla proposta di
modifica/sospensione dell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori in materia
di licenziamenti individuali, che però veniva vista dalla Cgil come una
radicale abolizione di un istituto di tutela dei lavoratori. Si può rilevare
come il rapporto tra l’azienda e l’insieme dei sindacati abbia toccato uno
dei punti più bassi nella storia degli ultimi anni.
La crisi del sistema di relazioni sindacali si evidenzia
nell’insofferenza della Fiat per le regole del confronto sindacale e
conferma la minor attenzione aziendale al tema dei rapporti sociali.
Nei fatti, l’azienda ha proceduto modificando i piani di
ristrutturazione con un accordo diretto con il governo senza un reale
confronto sindacale, ha previsto la continuazione del confronto sindacale
solamente a livello di stabilimento per gestire gli effetti occupazionali.
23 Del Giudice F., Mariani F., «Compendio di diritto sindacale», cit., p. 148
159
Ciò ha il significato di mantenere al minimo il confronto sindacale,
quello previsto dalle normative legislative per la gestione del personale
esuberante, mentre non è più previsto un tavolo nazionale di confronto e
quindi la possibilità di ridiscutere il piano industriale complessivo.
La situazione sembra successivamente aggravarsi poiché a Melfi si
stanno per preparare giorni molto difficili per la Fiat, con una situazione
sociale così tesa da indurre una ripresa delle forme radicali del conflitto
industriale, quelle di cui sembrava essersi persa la memoria, che risale a
un periodo che appartiene alla storia, invece che all’attualità, come quello
del sindacalismo militante.
Nel gennaio del 2004 si decide di concentrare la produzione della
Punto (che resta il modello più venduto e importante della gamma Fiat) a
Melfi, ma è un atto destinato ad aprire questioni più gravi di quante ne
risolva. Intanto perché la decisione aziendale getta un’ombra profonda
sulla sorte dello stabilimento di Mirafiori, contribuendo a irrobustire le
resistenze sindacali e a corroborare nelle sue posizioni la Fiom, sempre
più persuasa che il futuro di Torino finirà coll’assomigliare a una foresta
pietrificata dell’industria, con spazi enormi desertificati e abbandonati a
loro stessi da un sistema manifatturiero in rapida ritirata.
Melfi, a mezzo del decennio Novanta, era stata presentata come la
realtà che incorporava la capacità della Fiat di progettare insieme lavoro e
organizzazione. Melfi era il green-field industriale che si sostituiva ai
luoghi dell’industria dove la Fiat era cresciuta, era l’immagine del nuovo
Mezzogiorno dinamico, dove lo sviluppo industriale significava non
soltanto quantità ma anche qualità, qualità sociale per giunta.24
Tuttavia il ristagno e poi il vero e proprio declino del sistema aziendale
avevano finito col tradire le promesse di Melfi o almeno col
24 Berta G., “La Fiat dopo la Fiat, storia di una crisi. 2000-2005”, cit., p. 102
160
disattenderle, lasciando che si scavasse un divario fra i programmi
dichiarati e una condizione di fatto, in cui naufragavano le aspettative di
mobilità sociale nutrite dal modello della fabbrica integrata. Invece di una
sede di sperimentazione nella quale ibridare e mettere alla prova i
principi giapponesi della responsabilità sul lavoro, per fare di Melfi la
versione italiana di Toyota City, la routine gestionale l’avevano semmai
assimilata a Torino, ma a una Torino più povera, con salari, norme e
garanzie inferiori a quelli vigenti nel bacino storico della Fiat.
Preparata da un’azione rivendicativa che investe l’intero
comprensorio Fiat, a cominciare dalle fabbriche di componenti, il 19
aprile 2004 gli impianti lucani della Fiat si bloccano totalmente e così, a
cascata, dopo l’arresto dello stabilimento che costituisce il cuore
dell’auto, si fermerà tutta la produzione in Italia.
A lanciare l’agitazione sono la Fiom e i Cobas, cioè l’anima
radicale del sindacato, in aperto e violento conflitto con le altre
organizzazioni, la Uilm ma soprattutto la Fim-Cisl, che dei sindacati di
categoria è quello che si è speso di più per accreditare la strategia della
partecipazione. Ma la Fiom sa che la protesta trova un terreno fertile
nello scontento diffuso tra i lavoratori per le condizioni retributive e i
turni lavorativi. A Melfi si lavora di più che altrove nel sistema Fiat ed è
oneroso il meccanismo della «doppia battuta», che non intervalla
abbastanza le turnazioni più faticose, dal momento che molti lavoratori
giungono in fabbrica da lontano, dopo ore trascorse sui mezzi di
trasporto.
Nel 2004, la Fiom aveva quindi mosso il proprio attacco alla Fiat
con un’azione vasta e ben articolata. Fra il 16 e il 17 aprile aveva
sostenuto uno sciopero presso i fornitori della Fiat che aveva provocato
un arresto della produzione nello stabilimento Sata, imponendo, come si
161
dice nel gergo di fabbrica, la «messa in liberta» dei lavoratori. La mossa
seguente era stata il blocco totale della Sata e del suo comprensorio fra il
19 e il 29, mediante un picchettaggio duro ai cancelli che non s’era più
visto alla Fiat dall’ottobre dell’80. L’azione era sfociata in una progressiva
mancanza di componenti che aveva finito col paralizzare l’intera branca
italiana della Fiat Auto. Sotto l’urgenza di uno scontro che aveva effetti
dilaceranti, in un incontro a Roma con Fim, Uilm e Fismic, la Fiat aveva
accettato di andare verso il superamento della «doppia battuta». Ma
l’intesa sottoscritta il 24 aprile senza la Fiom sortì l’esito opposto a quello
sperato, acutizzò infatti la protesta della Fiom, esacerbando la
contrapposizione con le altre componenti sindacali, la Fim in primo
luogo. I picchetti si fecero ancora più duri, con lanci di sassi verso i
pullman che cercavano di portare i lavoratori in fabbrica e con scambi
d’accuse e minacce che spinsero i rappresentanti della Fim a denunciare
quelli della Fiom. La presenza della polizia, che si produsse in una carica
ai manifestanti, sembrò un salto all’indietro, in un clima antisindacale che
non sussisteva in Italia da decenni. Per la rimozione dei blocchi si
dovette attendere la fine del mese, di preciso la giornata del 29, senza
però che si interrompessero gli scioperi. La ripresa della produzione
avvenne gradualmente il 3 e il 4 maggio, mentre la trattativa si riaprì a
Roma il 5, alla presenza delle segreterie nazionali dei tre sindacati
metalmeccanici, per concludersi con la stipula di un accordo il 9.
La Fiat in un primo momento oscilla nei suoi atteggiamenti, per
qualche giorno sembra volersi tenere a una linea di intransigenza, ma in
seguito, si dirà su pressione delle banche creditrici che temono quella
sovraesposizione mediatica così negativa, sceglierà la via della soluzione
negoziale, in cui il meccanismo della «doppia battuta» veniva
ufficialmente revocato, con l’introduzione di una nuova distribuzione
162
delle ore di lavoro che permetteva turni non così stringenti come quelli
che erano stati all’origine della protesta e una congrua rivalutazione delle
paghe, che in prospettiva doveva portare al loro allineamento a quelle in
vigore presso gli stabilimenti più importanti, come Mirafiori.
Al termine della vertenza, sarà chiaro che non ci sarebbe poi
voluto molto per riuscire a evitarla. Sarebbe bastata una politica di
fabbrica meno burocratica e routinaria, più attenta, in modo da evitare
che si condensasse un denso involucro di malessere, sedimentato da un
eccessivo accorpamento di lavoratori tutti inquadrati allo stesso modo e
accomunati dai medesimi problemi.
Il ricordo dell’agitazione della primavera del 2004 che si è
depositata a Melfi, non si è affatto sopito e i contrasti precedenti non
appaiono metabolizzati dall’organizzazione di fabbrica né dalle
rappresentanze sindacali.
Il 18 settembre 2005, alle 22, era previsto nello stabilimento Sata,
l’avvio del turno aggiuntivo (il diciottesimo) sulla linea di produzione
della Grande Punto. Ma a Melfi quella sera, la linea non entra in funzione
e accadrà lo stesso nelle due domeniche successive, il 25 settembre e il 2
ottobre, quando uno sciopero organizzato unitariamente dalle tre
maggiori sigle sindacali, e appoggiato anche dalle altre, impedirà che si
attui il diciottesimo turno presentato in origine dal piano produttivo della
Fiat. Attorno alla questione dei diciotto turni riprende così un confronto
fra la direzione aziendale e i sindacati, che ripete un copione tanto
ricorrente da apparire scontato, da un lato, l’impresa ha l’intenzione di
assicurarsi la possibilità di effettuare quel turno (secondo lo schema dei
tre turni per sei giorni lavorativi) che, oltre a poter soddisfare una
domanda di mercato in crescita, garantirebbe l’economicità di gestione
dell’impianto. Dall’altro, la pressione per il turno della domenica sera si
163
scontra con una resistenza sindacale che è unitaria di facciata, ma
modulata nella sostanza, Fim, Uilm e Fismic (il sindacato di matrice
aziendale) sarebbero disposte a venire incontro all’azienda, permettendo
l’esecuzione del turno fino alla primavera, la Fiom, fedele alla sua linea di
intransigenza, parrebbe incline tutt’al più a lasciarlo effettuare fino a
gennaio.
L’episodio non rivestirebbe in sé un significato particolare, se non
si innestasse sul lungo stallo delle relazioni industriali. A Melfi il sistema
delle relazioni che lega l’impresa ai sindacati e ai lavoratori ha subito una
lacerazione che non sarà facile ricomporre. Difficile dire, infatti, chi
uscisse vincitore da quella prova di forza, le elezioni per le
rappresentanze sindacali doveva, sì, porre in evidenza un certo recupero
della Fiom, ma ottenuto a scapito dei Cobas, che perdevano oltre il 2 per
cento. L’organizzazione più penalizzata era in definitiva la Fim, quella
che aveva investito di più sia su un rapporto di concorrenza con la Fiom
sia sulla possibilità di dare un’impronta partecipativa alle relazioni
industriali. Per il resto, le variazioni non erano molte, la più rilevante era
costituita dall’incremento dell’1,5 per cento che era andato al sindacato di
destra, Ugl, sempre pronto a cavalcare la protesta sociale, specie nel
Mezzogiorno. Ma certo a perdere più di tutti era stata la Fiat, che aveva
assistito alla crisi del suo modello industriale proprio nella fabbrica
progettata, alla metà degli anni novanta, come una soluzione
organizzativa di tipo nuovo, capace di andare al di là delle vecchie
logiche di autorità del fordismo che avevano imperato a Mirafiori.
Quando anche i giorni della lotta saranno trascorsi, a Melfi
permarrà un indicatore, inquietante, del malessere che vi serpeggia, il
tasso di assenteismo più alto che negli altri stabilimenti italiani della Fiat
(imparagonabile, poi, a quello dell’impianto polacco), perfino più elevato
164
che a Pomigliano d’Arco, di cui a Torino ci si era più lamentati in
passato, perché considerata una fabbrica ostica dal punto di vista sociale.
Il fatto è che a Melfi si è fatta strada la delusione, delusi per primi i
lavoratori, o almeno quella parte di loro che ha giudicato tradite le
promesse di mobilità sociale diffuse al momento della nascita della Sata,
nei primi anni Novanta, quando si era compiuta una meticolosa selezione
del personale, poi inviato a Torino per un periodo di formazione presso
l’Isvor, la scuola interna della Fiat. Allora, l’idea dell’Unità tecnologica
elementare, Ute, era stata associata a un’immagine nuova e vincente del
lavoro industriale al Sud, come strumento, al contempo, di coesione
produttiva, di crescita professionale e di identità sociale. Una
rappresentazione che per funzionare avrebbe avuto bisogno di una
coerente e ininterrotta politica aziendale, volta a tener in vita l’obiettivo
della creazione di un’èlite industriale nel Mezzogiorno. Ma, il declino
della Fiat aveva comportato un progressivo oscuramento della qualità
della nuova forza-lavoro di Melfi, che si è trovata invece ad essere
livellata in una massa piuttosto grigia e omogenea, ben diversa da quel
nucleo industriale che avrebbe dovuto formare il punto di forza della
«fabbrica integrata» post-fordista. Una massa, per di più, che si è sentita
penalizzata, oltre che sotto il profilo retributivo e professionale, anche da
una disagevole condizione lavorativa, per la cattiva distribuzione dei
turni, per la distanza che spesso separa i lavoratori dalla localizzazione
dell’impianto e, infine, perché non piace a nessuno dover andare in
fabbrica la domenica sera, spezzando la pausa estiva.
Per giunta, lo sfasamento della vita interna della fabbrica, ormai
punteggiata da episodi di disaffezione, era stato fronteggiato per via
amministrativa, con la somministrazione di multe e provvedimenti
disciplinari che erano serviti soltanto ad acutizzare il malcontento.
165
È naturale che questa delusione o disaffezione si sia riversata sulla
componente sindacale che aveva creduto alla scommessa della «fabbrica
integrata» e aveva tentato di immedesimarsi, delineando una strategia
contrattuale non più centrata sul conflitto, ma tesa alla ricerca di spazi di
partecipazione. La Fim-Cisl, pur con incertezze e oscillazioni, aveva
impersonato quest’ultima più della Uilm o il Fismic, portatrici di un
sindacalismo moderato, piuttosto che per una convinzione maturata in
autonomia. Semmai, è proprio la Fiom a non rimanere delusa
dell’andamento di Melfi, perché vi ha trovato la riprova della via del
conflitto e di un rilancio dell’azione sindacale che faccia perno sul
ribaltamento dei rapporti di forza, invece che su un atteggiamento di
problem-solving dinanzi ai contrasti che si dischiudono continuamente
nella vita di fabbrica.
I dati di fonte aziendale ci dicono che il numero degli iscritti a un
sindacato è pari al 36,7 per cento del totale di operai, impiegati e quadri
attivi nelle strutture italiane del gruppo Fiat. Un lavoratore su tre,
dunque, esprime il proprio consenso a una forma di rappresentanza
sindacale attraverso la delega concessa all’azienda affinchè essa prelevi
dalla sua busta paga la quota mensile che verrà versata all’organizzazione
cui ha scelto di appartenere.
Non si sta più nel sindacato sull’onda di un entusiasmo collettivo
come quello che s’era divulgato nelle fabbriche al termine degli anni
Settanta. Ci si sta, magari per routine e senza una convinzione molto
salda, perché il sindacato resta uno strumento di tutela di cui è meglio
disporre, o perché, bene o male, offre pur sempre un servizio.
L’ipotesi di costruire nei decenni precedenti un sistema di relazioni
industriali in cui la fase negoziale e quella partecipativa si equilibrassero e
si compensassero non è andata in porto. Nessuna delle due parti aveva
166
saputo mettersi in gioco veramente. L’azienda e il sindacato avrebbero
dovuto rischiare di più, ma il timore era stato più forte della volontà di
trasformazione. Per avere vera partecipazione sono necessarie due
condizioni di base, un sindacato che nel suo insieme vi scommetta e
un’azienda che, dal responsabile delle relazioni industriali fino al
capofficina, ci creda. Entrambi questi presupposti sono mancati.
La Fiat ha sempre preferito avere un «sindacato subalterno», che
magari ogni tanto proclami uno sciopero ma che non entri mai nella
gestione dell’azienda e nelle sue scelte. E questo è proprio il contrario di
ciò che richiede la partecipazione.
Tuttavia, in una delle sue rarissime sortite pubbliche, l’ultimo
amministratore delegato della Fiat, Sergio Marchionne, dirà nell’ottobre
2005: «Apprezzo i leader sindacali».25 E per rincarare il valore delle sue
parole citerà esplicitamente i nomi dei segretari di Cgil, Cisl e Uil, stimati
per aver «condiviso con noi della Fiat strategie importanti».
«Considero il sindacato un nostro partner nello sviluppo del
gruppo, e non lo dico per avere la loro simpatia, ho lavorato soprattutto
all’estero, e in Francia o Germania un dialogo così aperto e intelligente
con le parti sociali se lo sognano».
L’estate del 2004 verrà così ricordata da molti dirigenti intermedi
Fiat come quella della grande epurazione. Marchionne, il nuovo
amministratore delegato di Fiat auto, porta una diversa idea di
organizzazione del lavoro e implementa i principi della fabbrica snella,
che portano ad un appiattimento della piramide del comando.
Appiattire la piramide significa ridurre la distanza tra chi decide e
chi produce. E in fabbriche gigantesche come Mirafiori quella distanza
25 Berta G., «La Fiat dopo la Fiat, storia di una crisi. 2000-2005», cit., p. 138
167
era spesso abissale. Si procede così ad uno sfoltimento di capi e figure
intermedie, contemporaneamente Marchionne cerca di rendere meno
grigi gli stabilimenti, c’è una logica ferrea in questa strategia, ridurre al
minimo il numero degli improduttivi e valorizzare chi lavora in linea e
dunque produce. Tuttavia, all’inizio del 2005 la qualità del lavoro nella
grande fabbrica non doveva essere migliorata in modo significativo, se il
70 per cento degli operai di Mirafiori, rispondendo a un questionario
della Fim, dichiara che non consiglierebbe al proprio figlio di lavorare in
Fiat.
Dopo il «divorzio consensuale» tra Fiat e Gm, le due aziende
sciolgono le joint venture ma continueranno a mantenere la
collaborazione industriale, almeno per un certo periodo.
Il divorzio di San Valentino, galvanizza il mondo Fiat. Non solo e
non tanto per il miliardo e mezzo di euro che entra nelle casse
dissanguate del Lingotto quanto per quella libertà e quell’orgoglio
ritrovati che Montezemolo sintetizza nella frase: “Da oggi la Fiat è tutta
italiana”.
Le organizzazioni sindacali aveva seguito le vicende della trattativa
con lo stato d’animo di chi sa che una vendita forzata con l’arrivo di Gm
avrebbe potuto significare la catastrofe. Dopo il divorzio dalla Gm e
liberata dal gioco delle banche convertendo, nell’autunno del 2005, la
Fiat deve dimostrare di saper fare da sola. I timori sulla chiusura di
Termini Imerese e di Mirafiori non si erano mai del tutto sopiti, mentre
su Termini Imerese i rischi sono legati ai problemi logistici dello
stabilimento siciliano, troppo piccolo per giustificare gli investimenti
necessari a produrre nuovi modelli, Mirafiori soffre della malattia
opposta, il gigantismo.
168
Nel 2006, il clima di collaborazione tra le parti produce i maggiori effetti
proprio a Torino, luogo storico del conflitto sociale del Novecento. Fin
dall’anno precedente è chiaro che per avere diritto a un futuro a Mirafiori
non può basarsi solo sulla produzione delle monovolume e dei modelli di
gamma alta. Ad aprile 2005 il Lingotto annuncia un paino di cassa
integrazione dovuta ai cali di mercato che coinvolge sia 5000 operai della
carrozzeria sia 1500 impiegati.
Tra i sindacati e gli osservatori si fa strada l’idea che senza grandi
volumi produttivi la fabbrica è destinata a una inesorabile agonia. Quel
che preoccupa Fiom, Fim, Uilm è che l’assenza di una produzione di
massa finisca per avere conseguenze negative anche sull’indotto,
costituito da medie e piccole aziende che nel Torinese lavorano per il
Lingotto.
Il primo passo per rendere competitiva Mirafiori è ridurla di
dimensioni. Il secondo è quello di portare una produzione di grandi
volumi. È su questi due punti che inizia una trattativa a tre, istituzioni
locali, Fiat, sindacati.
L’accordo viene firmato il 23 dicembre 2005 nella sede della
regione Piemonte, prevede appunto che gli enti locali torinesi
costituiscano, insieme alla Fiat una società per rilevare e gestire una fetta
di 300 000 metri quadri della fabbrica da utilizzare per insediare altre
aziende. Gli enti locali torinesi spendono circa 70 milioni di euro, in
cambio la Fiat promette di attrezzare una delle linee per produrre circa
80 000 Grande Punto all’anno che siano aggiuntive a quelle realizzate
nello stabilimento di Melfi. La festa per l’inizio della produzione della
Grande Punto a Mirafiori è uno dei momenti in cui il clima di
collaborazione tra Fiat e sindacati è più evidente.
169
La Fiat ha l’occasione di voltare davvero pagina quando l’amministratore
delegato incontra a Palazzo Chigi i rappresentanti di governo e sindacati.
Marchionne porta con sé un dossier di venticinque pagine contenente il
piano industriale 2007-2010.
Per la prima volta il piano mette nero su bianco i problemi di
Termini Imerese. La fabbrica che eredita Marchionne intorno al 2005
risente già del ridimensionamento decretato gli anni precedenti.
Nel 2005 le aziende dell’indotto vengono pesantemente ridotte e si
stabilisce che le parti per assemblare la Ypsilon, il modello Lancia
prodotto nello stabilimento siciliano, arriveranno dal polo della fornitura
della piana di San Nicola, l’area industriale che circonda lo stabilimento
lucano di Melfi. Si deve aggiungere a questo particolare il fatto che a
Termini non c’è mai stato un reparto presse. Tutto congiura, insomma,
verso la chiusura. Le pari della Ypsilon, compresi i pezzi di lamiera già
stampati, arrivano dalla Basilicata e dagli altri stabilimenti italiani della
fornitura. Raggiungono Termini, vengono assemblati, diventano
automobile e in grandissima parte ripartono dalla Sicilia verso i
concessionari sparsi lungo lo Stivale. Un viaggio di andata e ritorno che
influisce pesantemente sui costi di produzione. Se si aggiunge che quei
costi si distribuiscono un numero limitato di automobili, meno di 100
000 all’anno, è difficile dar torto a chi ritiene che quella sia una realtà
industriale economicamente insostenibile.
Avendo promesso che «nessuno stabilimento italiano verrà
chiuso», Marchionne deve ora trovare una soluzione per rendere
economica la produzione in Sicilia.
Gli incontri tra azienda, sindacati e istituzioni iniziano in giugno a
Palermo e proseguono fino a novembre. Si segue un principio base, per
vivere, Termini deve diventare più grande, perché solo con i grandi
170
volumi produttivi si giustificherà il ritorno nell’isola delle aziende della
fornitura, che non sopravvivono su piccole commesse. Poi si tratterà di
realizzare un reparto presse.
Il 25 gennaio, a Siena, Luca Cordero di Montezemolo interviene
come presidente di Confindustria a un convegno di imprenditori, e dice
che quel che gran parte dell’Italia pensa: «Mentre gli imprenditori siciliani
combattono contro il pizzo, il governatore della Sicilia viene condannato
a cinque anni di reclusione e decide di restare al suo posto». Salvatore
Cuffaro era stato condannato per rivelazione di segreto d’ufficio e
favoreggiamento nei confronti di alcuni esponenti di famiglie mafiose.
Il giorno dopo la dura dichiarazione di Montezemolo, Cuffaro si
dimette non senza essersi rifiutato di approvare il provvedimento che
avrebbe sbloccato i finanziamenti per Termini. Qualcuno vede in questo
gesto una ritorsione per le dichiarazioni del presidente della Fiat.
Si chiude così di fatto la possibilità di rilanciare lo stabilimento di
Termini Imerese che sembra oramai nei piani della Fiat, aver perso il
treno. Il lancio della 500 segna l’ultima tappa della rinascita del Lingotto
a cui si somma quella della nuova Bravo.
È l’anno 2007, quando, nonostante un ripresa del metodo
concertativo (il Protocollo su «previdenza, lavoro e competitività» segna
la ripresa insoddisfacente del metodo concertativo.26 La nuova
compagine governativa di centro-sinistra dichiara, nel proprio
programma elettorale, la volontà di far riprendere corso alla
concertazione per acquisire il consenso sociale indispensabile per la
realizzazione degli obiettivi urgenti e difficili. In realtà i primi passi della
nuova concertazione sono avvenuti su un terreno alquanto accidentato,
26 Del Giudice F., Mariani F. «Compendio di diritto sindacale», cit., p. 149
171
non essendo stata agevole la mediazione tra sindacati e parte
imprenditoriale, ed hanno messo in evidenza il permanere delle
problematiche che sin dalle origini hanno riguardato il metodo
concertativo, quest’ultimo presuppone che la parte sindacale che firma
sia forte e radicale, in modo da non veder poi ripudiato quanto da essa
convenuto), l’amministratore delegato spiega che tra le ragioni che
avevano consentito alla Fiat una ripresa così rapida era la difesa di un
modello di relazioni sindacali basate sul dialogo e sul confronto. Questo,
del resto era stato uno degli ingredienti che a Torino aveva consentito la
sopravvivenza di uno stabilimento come Mirafiori. Marchionne teorizza
pubblicamente quel modello: «In Fiat abbiamo ottenuto risultati
importanti sulla via del dialogo. Dopo dieci anni, e senza un’ora di
sciopero che è caso più unico che raro in Italia, è stato rinnovato il
contratto integrativo aziendale. Dopo dieci anni sono stati assunti in
fabbrica i primi giovani, in cambio di turni straordinari di lavoro.
Abbiamo siglato un importante accordo con le istituzioni locali per la
riqualificazione di Mirafiori. I risultati raggiunti da Fiat dimostrano che
trasformazioni simili sono possibili anche in un paese con una forte
coscienza sindacale e con quello che la maggior parte dei commentatori
anglosassoni chiamerebbe “struttura del lavoro poco flessibile”.
In seguito al resoconto fatto da Marchionne sullo stato di salute
della Fiat, il 4 dicembre 2007, il Lingotto annuncia l’avvio dell’operazione
Pomigliano. La fabbrica napoletana che produce i modelli dell’Alfa
Romeo non è evidentemente in grado di tenere il ritmo degli altri
stabilimenti italiani e anche i finanziamenti pubblici per
l’ammodernamento concessi negli anni precedenti non sembrano aver
sortito l’effetto sperato, o comunque non sembrano essere stati utilizzati
in maniera in modo efficace per raggiungere l’obiettivo. Il problema non
172
dichiarato da nessuno, ma da tutte le parti sussurrato con certezza, è che
la fabbrica napoletana fosse in parte fuori controllo. O, se si preferisce,
in parte influenzata dai poteri delle stesse organizzazioni criminali che
spadroneggiano nel territorio circostante. Il Lingotto annuncia così la
chiusura dello stabilimento per due mesi, dal 7 gennaio al 2 marzo 2008,
decide l’investimento di 70 milioni per «riorganizzare il processo
produttivo secondo i principi del World Class Manufacturing» e
promette un vasto piano di formazione per tutti i dipendenti.
Il piano prevedeva che oltre ai modelli dell’Alfa venisse realizzata
anche la Bravo, una produzione trasferita da Cassino, dove intanto
venivano preparate le linee della nuova Lancia Delta. «In prospettiva,
dice Marchionne, Pomigliano e Cassino diventeranno un unico polo
produttivo».
L’annuncio del piano di ristrutturazione viene accolto con favore
dai sindacati. «Una proposta innovativa, una sfida per tutti» commenta il
leader della Cisl, Raffaele Bonanni. Si dice soddisfatto il segretario della
Uil, Luigi Angeletti. Ma soprattutto è buono il giudizio di Gianni
Rinaldini, segretario generale della Fiom «Il piano è una sfida positiva
che, in quanto tale, deve coinvolgere le strutture sindacali». L’unica
eccezione è rappresentata dai Cobas, che indicono due ore di sciopero
contro la «serrata toyotista» di Marchionne. Le posizioni dei sindacati in
questa fase sono importanti perché è proprio nella gestione
dell’operazione Pomigliano del 2008 che cominciano a intravedersi i
germi del futuro scontro sull’accordo del 2010. È evidente infatti che
l’operazione di restyling della fabbrica presenta problemi a livello locale
sia per i sindacati sia per la Fiat.
173
I problemi sindacali sono legati a una presenza dei Cobas
particolarmente combattiva, che mette la Cgil nella condizione di dover
far da cuscinetto tra gli altri sindacati confederali.
La sera del 3 dicembre, prima dell’annuncio pubblico, Sergio
Marchionne aveva illustrato il piano per Pomigliano a Guglielmo Epifani,
Raffaele Bonanni e Luigi Angeletti, i tre segretari generali di Cgil, Cisl e
Uil. Un passaggio necessario ma anche un segno di rispetto dell’Ad del
Lingotto nei confronti dei sindacati. La questione, di cui non è certo
responsabile Marchionne ma che è nei fatti, è che, come si vedrà,
Epifani, a differenza dei suoi colleghi, non ha la forza di imporre ai suoi
metalmeccanici una linea diversa da quella scelta dalla Fiom. E questa
difficoltà sarà all’origine degli scontri successivi a Pomigliano.
Il rovescio della medaglia è in casa Fiat dove si manifestano, per la
prima volta, segnali di un evidente conflitto tra vecchio e nuovo che
esploderanno anch’essi nello scontro del 2010. Perché un conto è far
nascere «la nuova Fiat» negli spot pubblicitari, un altro è applicarla nella
realtà delle fabbriche, dove gran parte dei capi intermedi oppone
resistenza passiva perché più a suo agio nella vecchia logica dello scontro
che nella nuova della collaborazione.
Così, all’inizio di gennaio, i corsi di formazione partono sotto i
peggiori auspici. In fabbrica si presenta un buon numero di sorveglianti
che controlla lo svolgimento delle lezioni. Questo fatto, in evidente
violazione degli accordi, diventa l’occasione per una serie di scioperi e
cortei interni che, di fatto, bloccano i corsi. La Fiat reagisce con sette
lettere di licenziamento. Tutti i sindacati le giudicano una «inaccettabile
forzatura». Da Torino arriva l’ordine di evitare lo scontro, il 17 febbraio
la Fiat incontra i sindacati all’Unione industriale di Napoli e annuncia il
ritiro delle lettere di licenziamento. I sette lavoratori verranno retribuiti
174
anche per i giorni che hanno trascorso fuori dallo stabilimento in seguito
ai provvedimenti di sospensione.
La tempesta si placa perché nessuno dei protagonisti ha interesse,
nel momento più delicato della riconversione di Pomigliano, a forzare i
toni. E forse perché ciascuno vuole provare a credere fino in fondo alla
possibilità che la ristrutturazione dello stabilimento coincida con il
superamento delle vecchie logiche dello scontro di fabbrica. Che,
insomma, la «nuova Fiat» possa davvero esistere anche sul piano delle
relazioni sindacali. Ma per ambedue i fronti il conflitto è solo rimandato
di due anni.
Il piano di sviluppo 2007-2010 si fondava su una domanda
tendenzialmente in crescita in cui la Fiat riusciva a consolidare e
migliorare la sua quota del 30 per cento del mercato italiano e tentava di
avvicinarsi al 10 per cento di quello europeo. Il crollo dei consumi
tuttavia toglie la sedia su cui poggiava questo progetto e torna a mettere a
rischio l’occupazione degli stabilimenti italiani. Per il momento la
risposta della Fiat è un massiccio ricorso alla cassa integrazione che, a
cavallo delle vacanze di Natale, coinvolge circa 48 000 dipendenti italiani
lasciandoli a casa per un mese. Quel che sarebbe necessario, dicono i
sindacati durante uno sciopero, è un intervento del governo italiano a
sostegno del settore.
Il governo italiano, invece, non particolarmente incline ad
accogliere le istanze di Torino, sceglie la strada dell’astensione
trincerandosi dietro i sacri principi del liberismo che francesi e tedeschi
stanno calpestando per salvare le loro industrie nazionali.
Bloccata quindi la strada di un piano europeo per l’auto che metta
tutti sullo stesso piano, la Fiat tenta di far fronte alla crisi agendo su due
fronti. Quello interno dell’organizzazione del lavoro e quello esterno
175
delle alleanze. I due aspetti sono strettamente legati, all’inizio di dicembre
Marchionne dichiara che «in futuro rimarranno solo cinque, sei
costruttori e per far fronte alla crisi è necessario allearsi, perché
l’indipendenza non è più sostenibile». Ma se l’alleanza non è possibile
realizzarla nell’Europa del welfare, evidentemente occorre cercarla fuori
dal vecchio continente, dove le regole della competizione e
dell’organizzazione del lavoro sono diverse.
4.2. Affare Chrysler e tentativi di acquisizione della Opel
È il novembre del 2008 quando sull’altra sponda dell’Atlantico la crisi si
stava mangiando il mercato dell’Auto colpendo particolarmente i
costruttori americani. Le tre case di Detroit (Chrysler, Gm e Ford)
chiedono all’amministrazione Obama 25 miliardi di dollari per non
morire27. La crisi divampa in un momento delicato. Il presidente eletto,
Barack Obama, non è ancora in carica mentre il suo predecessore,
George Bush, lascerà il comando il 31 dicembre. Si verifica così negli
ultimi giorni del 2008 un autentico paradosso della storia. Dopo
settimane di braccio di ferro, con il Senato che rifiuta di approvare il
piano da 25 miliardi chiesto dalle case americane, tocca proprio al
repubblicano George Bush autorizzare il prestito ponte di denaro
pubblico che dà a Chrysler e Gm il respiro necessario per salvarsi. Ford
ha già fatto orgogliosamente sapere che non ha bisogno di aiuti pubblici.
Il prestito concesso da Bush e approvato da Obama non è a costo
zero, le due case automobilistiche si impegnano entro il 30 marzo a
presentare un piano di rientro e di ritorno alla profittabilità. Dunque
27 Griseri P. «La Fiat di Marchionne. Da Torino a Detroit», Einadi, Torino, 2012, p. 137
176
Chrysler ha ora tre mesi di tempo per trovare una soluzione che le
consenta di uscire dalla strada stretta che conduce al fallimento. E per
dare un futuro alle decine di migliaia di dipendenti che lavorano negli
stabilimenti di Detroit e dintorni, dove la chiusura significa la
disoccupazione immediata.
Nel primo pomeriggio del 20 gennaio, il Lingotto diffonde un
comunicato intitolato «Fiat Group, Chrysler Llc e Cerberus Capital
management Lp» annunciando un’alleanza strategica globale. È la
conferma alle voci che circolavano da qualche settimana
sull’interessamento di Torino per la moribonda casa automobilistica
americana. Cerberus è il fondo di investimento che nel 2007 ha rilevato il
pacchetto di azioni Chrysler precedentemente posseduto dai Tedeschi di
Daimler-Mercedes.
La lettera prevede che la Fiat dia a Chrysler l’accesso alle
piattaforme e alle tecnologie in grado di realizzare automobili a basso
impatto ambientale e a integrare la gamma dei prodotti della casa
americana. Inoltre gli italiani concedono a Chrysler di utilizzare la loro
rete di concessionari, soprattutto in Sudamerica e in Europa dove e più
capillare il loro insediamento. In cambio Fiat otterrebbe il 35 per cento
delle azioni Chrysler senza alcun esborso economico.
In realtà i primi contatti tra Fiat e Chrysler risalivano all’estate del
2008. Nei primi sette mesi dell’anno la piccola di Detroit cominciava ad
avvertire gli effetti della grave crisi del mercato. Si provò a ricorrere ai
ripari intervenendo su due fronti, quelle delle alleanze industriali per
integrare la gamma con modelli medio piccoli a basso consumo e quello
dei tagli di organico. Sul piano delle alleanze era stato costruito un solido
rapporto con la Nissan. In questa logica erano nati i primi contatti anche
con Torino, perché uno degli obiettivi di Marchionne era quello di
177
valorizzare il marchio Alfa riportandolo sul mercato americano dopo
decenni di assenza.
Tuttavia, più trascorrono i mesi più l’aggravarsi della crisi rende
urgenti misure drastiche. In due anni Chrysler ha già tagliato 33 000 posti
di lavoro su 100 000, entro un mese dovevano lasciare gli uffici 5000
impiegati. I vertici ella società studiano possibili fusioni. Si ipotizza
addirittura la nascita di un unico gruppo con Gm. Una scelta che avrebbe
conseguenze sociali catastrofiche per le evidenti sovrapposizioni tra le
due società, si brucerebbero istantaneamente 400 000 posti di lavoro.
È in questo quadro drammatico che nasce l’idea dell’alleanza
globale fra Torino e Detroit. Agli occhi della Chrysler la Fiat ha le
caratteristiche non dissimili dai Giapponesi della Nissan, già da tempo
alleati con i Francesi della Renault.
L’idea dell’alleanza con gli Italiani incontra incoraggiamenti e
diffidenze oltreoceano. Ma la situazione è talmente grave da rendere
superfluo il dibattito tutto ideologico sull’opportunità di mettere
un’azienda americana in mani straniere. I veri ostacoli verranno semmai
da un trattativa dura tra la Fiat, il Tesoro Usa e i sindacati americani. E
sovente saranno proprio i sindacati a trovarsi nell’angolo. Nasce in quei
giorni l’idea che per ristrutturare, per tornare all’utile, è necessario
smantellare buon parte delle conquiste sindacali degli anni precedenti.
Una scelta giustificata in Chrysler con il rischio di fallimento ma che
verrà riproposta da Marchionne in Italia successivamente. Alcuni punti
significativi dell’accordo che verrà stretto all’inizio del 2009 con il
sindacato Usa si ritroveranno dodici mesi dopo nella contestata
accordistica che in Italia andrà sotto il nome di «contratto di
Pomigliano».
178
Si passa così «dalla cultura dei diritti a quella della povertà», fin dal 2007
c’era un accordo che istituiva il doppio salario, i nuovi assunti venivano
pagati 14 dollari l’ora, esattamente la metà dei 28 dollari della paga base
prevista dagli accordi. Per evitare che i 14 dollari diventassero la nuova
paga per tutti, l’accordo prevedeva che il salario dimezzato fosse
corrisposto a non più del 12 per cento dei dipendenti. In questo modo
man mano che andavano in pensione i più anziani, i più giovani li
sostituivano nella paga piena. In sindacato concede a Marchionne di
alzare la percentuale di lavoratori con la paga dimezzata. Ma questa
misura non è considerata sufficiente dal manager di Torino, che chiede al
sindacato altri sacrifici per ridurre ulteriormente il costo del lavoro. La
trattativa entra in una fase di stallo al punto che si pensa alla cessione di
Chrysler alla Gm con le inevitabili conseguenze sociali , un taglio di 40
000 posti di lavoro. Tocca agli uomini di Obama avanzare la proposta
che porterà all’accordo con Marchionne e che farà discutere anche in
Italia, il sindacato si impegna a non chiedere aumenti delle paghe per due
anni, fino a tutto il 2011 e, soprattutto, a non scioperare fino a tutto il
2015. Al termine degli incontri, l’accordo viene firmato e il
capodelegazione della fiat si alza sul tavolo porgendo la mano al
capodelegazione del Uaw che non fa altrettanto e rifiuta la stretta.
Diventerà d’attualità anche in Italia la frase del negoziatore di Obama alla
Fiat «Avete appena cancellato un secolo di contrattazione collettiva»,
punti dell’accordo di Detroit che, dodici mesi dopo, la Fiat inizierà a
imporre in Italia a partire da Pomigliano.
La trattativa di Marchionne non finisce con l’accordo in Usa,
perché Chrysler possiede stabilimenti anche in Canada. Qui però il
manager di Torino gioca in casa, avendo vissuto a Toronto
dell’adolescenza fino agli anni Duemila. L’accordo si trova sulla stessa
179
falsariga di quello americano. Al termine della trattativa Obama elogia il
sacrificio dei lavoratori che hanno accettato di ridurre la propria
retribuzione. In quel momento Torino avrà così conquistato il 51 per
cento della casa di Detroit.
Non si sono ancora spenti i riflettori sulla nuova alleanza
americana che Marchionne procede con l’operazione Opel, un sogno che
nemmeno Marchionne sulla cresta dell’onda del 2009 riuscirà a
trasformare in realtà. In Germania i sindacati vedono con diffidenza
l’arrivo di Marchionne perché temono tagli e chiusure di stabilimenti.
Nonostante le rassicurazioni dell’Ad, si capirà soltanto nelle settimane
successive che nei piani di Marchionne c’è la chiusura dello stabilimento
berga di Anversa.
La Germania, a differenza di quanto farà l’Italia nei mesi successivi,
condiziona l’assenso del governo e vincola le scelte di Marchionne a
precisi parametri per difendere gli interessi dei lavoratori tedeschi.
Il manager del Lingotto rispetta i vincoli imposti dal governo di Berlino e
chiede in cambio un finanziamento pubblico di 5-7 miliardi a garanzia
dei debiti ereditati dalla precedente gestione di Opel. Indiscrezioni
lasciano capire che, al termine della trattativa, Fiat sarebbe disposta a
mettere sul piatto un miliardo di euro.
I sindacati tedeschi alzano invece un fuoco di sbarramento, il piano di
Marchionne creerebbe grandi problemi alla Fiat. Secondo un sindacalista
tedesco la Fiat non poteva entrare nella Opel solo per risolvere i suoi
problemi usufruendo delle garanzie statali.
Improvvisamente nella trattativa in cui si discute di un’azienda tedesca
sull’orlo del fallimento la discussione vira sui problemi della Fiat, come
se fossero i Tedeschi a fare un favore agli acquirenti italiani.
180
«Non ci può essere nessun tentennamento, noi difenderemo tutti gli
stabilimenti italiani», risponde il leader della Cgil, Guglielmo Epifani. «la
Fiat sta meglio di Chrysler e Opel, non si vede perché debba essere
sacrificata», replica il leader della Uilm, Luigi Angeletti.
Preoccupazioni e timori che perderanno presto di attualità perché nella
notte tra il 28 e 29 maggio Sergio Marchionne si conclude
traumaticamente.
In sostanza Berlino aveva chiesto a Torino un finanziamento immediato
al buio per tamponare la falla dei disastrosi bilanci della Opel, senza che
si conoscesse la reale entità del deficit. Nel frattempo il governo tedesco
avrebbe studiato un prestito ponte da concedere alla stessa Opel per
evitare il fallimento in attesa dell’arrivo di una nuova proprietà. A queste
condizioni Marchionne preferisce lasciare. La lezione tedesca per
Marchionne è stata dura. Ha insegnato al manager di Torino che non è
facile trattare quando si ha di fronte un governo che mette al primo
posto la difesa degli insediamenti produttivi e dei posti di lavoro,
variabile indipendente negli Stati Uniti ma non nella vecchia Europa di
tradizione socialdemocratica. Gli ha anche insegnato che uno non smette
mai di portarsi dietro la propria carta d’identità, «I Tedeschi non mi
hanno dato Opel perché ero italiano», dirà due anni dopo l’Ad.
Lo smacco tedesco rischia di avere ripercussioni di immagini anche in
America, incominciano a chiedersi in quei giorni se la Fiat abbia la
solidità necessaria per salvare la Chrysler, la stessa domanda che era
riecheggiata sulla stampa tedesca riferita alla Opel.
Deluso dalla campagna tedesca, Marchionne troverà soddisfazione nei
risultati americani. Ora la battaglia principale si sposta nuovamente in
Europa e in particolare in Italia.
181
Molti, infatti, cominciano a chiedersi quali saranno le sorti degli
stabilimenti italiani. Il «Progetto Fenice», presentato da Marchionne
prevedeva la chiusura di due stabilimenti, uno al Nord e uno al Sud. Il
Lingotto smentisce seccamente ma i sindacati italiani chiedono
chiarimenti. L’incontro tra Marchionne, le parti sociali e il governo si
svolge il 18 giugno 2009. Se anche il «Progetto Fenice», fosse un piano
del tutto inesistente , un fondo di verità lo conterebbe comunque, perché
effettivamente, in fondo alla prima pagina del comunicato ufficiale, il
Lingotto annuncia la chiusura di Termini Imerese il 31 dicembre 2011.
L’idea di realizzare nello stabilimento siciliano produzioni diverse da
quella automobilistica, sembra più un escamotage per addolcire la pillola
che una possibilità reale.
L’annuncio della chiusura provoca scioperi e proteste a Termini, dove
vengono bloccate le linee e viene occupata l’autostrada Messina-Palermo.
Sono i primi giorni di una battaglia che non non raggiungerà l’obiettivo
di far cambiare idea a Marchionne, ma solo di trovare un’alternativa
produttiva, a partire dal 2012, non prova di punti interrogativi.
Quello che l’amministratore delegato del Lingotto presenta a Palazzo
Chigi nel giugno 2009 è un programma-ponte in attesa dell’annuncio dei
progetti per il quinquennio 2010-2014 che verrà fatto nell’aprile del 2010.
Già nel giugno del 2009 Marchionne chiede un rigoroso contenimento
dei costi di struttura e la possibilità di rispondere con tempestività alle
richieste di mercato. Questo non richiede solo il rispetto della normativa
sulla flessibilità ma significa anche essere consapevoli che azioni di
conflitto immotivate portano solo danni perché non fanno altro che
regalare occasioni d’oro alla concorrenza. Passaggio importante alla luce
dello scontro che si scatenerà dodici mesi dopo proprio sulla questione
dello sciopero.
182
Per il momento comunque lo scontro sullo sciopero è ancora
un’eventualità lontana. La Fiat cerca di far fronte alla crisi con altri
mezzi. Soprattutto chiedendo al governo italiano e anche all’Europa di
tamponare la situazione con nuovi incentivi all’acquisto di auto.
I sindacati e le forze politiche chiedono di conoscere nell’immediato
quale sarà il futuro degli insediamenti italiani. Ma il Lingotto è restio a
fornire indicazioni mentre ancora si stanno studiando le sinergie
possibili. Dunque, il 22 dicembre 2009, all’incontro di palazzo Chigi con
governo e parti sociali, Marchionne arriva con il progetto produttivo
2010-2011, un antipasto del piano quinquennale che verrà invece
illustrato il 21 aprile successivo. Nel piano di dicembre la Fiat conferma
la chiusura della produzione automobilistica a Termini Imerese al 31
dicembre 2011.
La vera novità del piano di dicembre è la scelta di portare a Pomigliano la
produzione della nuova Panda, questa scelta sembra andare nella
direzione di riequilibrare i paesi tra Italia ed estero, che porteranno ad
una radicale trasformazione delle relazioni sindacali per rinegoziare
l’accordo sia a livello nazionale che locale.
Rimane invece insoluto il problema degli stabilimenti dove si realizzano i
modelli della gamma medio alta. Non tanto Cassino, che con la
produzione di Bravo, Delta, Croma e in un prossimo futuro Giulietta,
sembra comunque aver garantito un pacchetto di modelli in grado di
mantenere l’equilibrio della fabbrica, quanto Mirafiori. La produzione
della Grande Punto, giunta grazie alle pressioni per salvare il futuro dello
stabilimento, è stata una breve fiammata durata alcuni mesi. Poi la linea è
stata utilizzata per produrre la Punto Classic. Nel 2010 il resto della
gamma dello stabilimento è costituito da modelli che stanno per andare
in pensione, la Multipla, la Thesis e l’Alfa 166, le due piccole
183
monovolume Idea e Musa. Le aspettative per il futuro sono legate
principalmente alle vendite dell’Alfa Mito, l’ultima arrivata. Ma è difficile
pensare che uno stabilimento di 5000 persone come Mirafiori
Carrozzeria possa reggersi sulla sola produzione della Mito. Per questo i
sindacati sono preoccupati e temono che, rimanendo questo il mix
produttivo, siano a rischio tra i 2000 e 2500 posti nello stabilimento
torinese. Ipotesi che il Lingotto smentisce seccamente con un
comunicato ufficiale.
Il giorno della verità è il 21 aprile 2010, quando al Lingotto Sergio
Marchionne disegna le strategie del gruppo fino a tutto il 2014. Ognuno
dei quattro stabilimenti italiani di produzione automobilistica,
confermata la chiusura di Termini Imerese, raggiungerà secondo il piano
industriale, la sua massima capacità produttiva. A Mirafiori l’arrivo di
nuovi modelli dei segmenti B e C (utilitarie e medie) dovrebbe portare a
un aumento di 100 000 auto all’anno, praticamente il raddoppio della
produzione. A Cassino i volumi produttivi saranno addirittura
quadruplicati rispetto al livello molto basso del 2009. Nello stabilimento
laziale verranno prodotti i modelli del segmento medio alto dei marchi
Lancia, Alfa e Fiat. Pomigliano produrrà 250 000 Panda all’anno mentre
Melfi si confermerà lo stabilimento principale tra quelli italiani. Come si
vede dallo schema, già nel piano di Fabbrica Italia la fabbrica di Mirafiori
è quella che ha la missione meno definita o, se si vuole, più dipendente
dai cambiamenti anche marginali del mercato.
Sul piano della finanza Marchionne annuncia all’Investor Day la
decisione di scindere il business in due diverse società, Fiat Spa, che
continuerà ad occuparsi di automobili e Fiat Industrial dove verranno
concentrate le attività di produzione dei camion (Iveco) e delle macchine
agricole e movimento a terra (Cnh).
184
4.3. Le Vertenze di “Pomigliano” e “Mirafiori”
Quando Marchionne parla all’Investor Day, la trattativa sindacale per la
produzione della Panda a Pomigliano è già in corso da tempo28. Si
procede su un sentiero con molte difficoltà. La Fiat chiede una modifica
sostanziale delle regole. Propone diciotto turni di lavoro settimanali, il
mancato pagamento del primo giorno di malattia in caso di assenteismo
elevato, la possibilità per l’azienda di comandare fino a 120 ore annue di
straordinario senza aprire una trattativa e l’impegno dei sindacati a non
proclamare scioperi su materie già regolate dall’accordo. Inoltre l’azienda
chiede la riduzione delle pause da 40 a 30 minuti e lo spostamento a fine
turno della mezz’ora di mensa. Nella prima fase della trattativa si trova il
modo di aggirare il nodo dei 18 turni. Bisogna infatti evitare che chi
inizia a lavorare il sabato notte finisca la domenica e non abbia più
l’intervallo di non-lavoro previsto al contratto per poter riprendere con
un turno diverso nella settimana successiva . Si decide così di spostare il
diciottesimo turno del sabato alla domenica sera. Rimangono invece i
punti più critici, la malattia non pagata e l’impegno dei sindacati a non
scioperare. Questioni sulla quale la Fiat chiede una deroga al contratto
nazionale. Sulla possibilità di derogare al contratto i sindacati si erano già
divisi l’anno precedente. La strada delle deroghe era infatti stata
introdotta con il contratto dei metalmeccanici del 2009, che seguiva di
un solo anno il precedente contratto unitario firmato da tutti nel 2008 e
approvato negli stabilimenti. In base al nuovo regime, la struttura della
contrattazione è articolata su due livelli, il contratto collettivo nazionale,
28 Griseri P., «La Fiat di Marchionne. Da Torino a Detroit», cit., p. 171
185
con la funzione di garantire la certezza dei trattamenti economici e
normativi per tutti i lavoratori del settore ovunque impiegati nel
territorio nazionale. In particolare, il contratto collettivo nazionale di
lavoro di categoria definisce le modalità e gli ambiti di applicazione della
contrattazione di secondo livello.
Vi è poi la contrattazione di secondo livello (territoriale o aziendale)
stipulato per le materie delegate, in tutto o in parte, dal contratto
nazionale o dalla legge e deve riguardare materie ed istituti che non siano
già stati negoziati in altri livelli di contrattazione. È previsto che la
contrattazione territoriale può anche derogare in via temporanea sui
singoli istituti economici e normativi disciplinati dai contratti nazionali
(cd. clausole di uscita). L’efficacia della deroga è però subordinata ad una
esplicita previsione da parte del contratto collettivo nazionale.
La deroga al contratto è comunque ammessa per far fronte, direttamente
nel territorio o in azienda, a situazioni di crisi o per favorire lo sviluppo
economico ed occupazionale. L’efficacia delle intese è comunque
subordinata alla preventiva approvazione delle parti stipulanti i contratti
collettivi nazionali di lavoro della categoria interessata.
Uno degli obiettivi dell’accordo è stato proprio quello di valorizzare la
contrattazione collettiva di secondo livello, territoriale o aziendale, quale
strumento di ripresa della crescita della produttività e quindi delle
retribuzioni reali.
La concertazione sociale è ormai fuori scena e le relazioni tra governo e
parti sociali sono improntate a dinamiche diverse che non sembrano
seguire uno schema prestabilito. Non si tratta di un «Protocollo», cioè un
patto triangolare che trova come parti firmatarie Governo e parti sociali
ma di un «vero e proprio accordo interconfederale» il Governo non ha
partecipato alle trattative ma ha sottoscritto l’Accordo unicamente nella
186
veste di datore di lavoro pubblico. Costituisce un «accordo separato», dal
momento che è stato sottoscritto dalla Cisl e dalla Uil senza la Cgil. La
mancata sottoscrizione della Cgil incrina definitivamente la prospettiva
dell’unità d’azione sindacale ed apre una difficile fase nel sistema delle
relazioni industriali. Questo quindi rappresenta un fatto di rilievo, oltre
che sul piano delle relazioni sindacali, con la prospettiva di scenari
inquietanti (Accornero) e di una fase di anarchia conflittuale (Mariucci),
ma anche sotto il profilo delle conseguenze di ordine tecnico-giuridico.
Sotto quest’ultimo aspetto, la problematica che si pone è quella di
un’eventuale regolamentazione negoziale non unitaria e, in sostanza,
della sussistenza, in riferimento ad una stessa categoria, di diversi
contratti collettivi.
La Fiom non potendo in ogni caso riconoscere deroghe al contratto del
2008 senza sconfessare la sua scelta di non firmare quello del 2009,
sostiene che «non c’è alcun bisogno di derogare ai contratti, alle leggi e ai
diritti per garantire il massimo utilizzo degli impianti. Come sostiene
Landini «siamo disponibili a cercare con l’azienda tutte le strade per
garantire la necessaria flessibilità senza modificare le regole».
Nella prima parte della vertenza il Lingotto sembra orientato a evitare un
accordo separato a Pomigliano per due motivi, il primo è quello di
evitare di escludere dal governo della fabbrica il sindacato più grande, il
secondo è direttamente legato al primo, l’obiettivo di Marchionne è
quello di far funzionare le linee senza interruzioni legati a
microconflittualità. Per questo la Fiat pretende dai sindacati l’impegno a
non avallare gli scioperi spontanei proclamati dai delegati su questioni
regolate dagli accordi.
Quella che appare una richiesta di buon senso nasconde però una
mancanza di fiducia che sarà all’origine degli scontri successivi. Perché è
187
evidente che gli impegni più solidi sono quelli non scritti sulla carta ma
praticati concretamente.
Per questo dunque la Fiat, nella prima fase, non vuole accordi separati,
non solo per non infilarsi negli scontri tra organizzazioni sindacali ma
anche perché sa che, se un grande sindacato sta fuori dall’accordo,
l’obiettivo principale, la pace sindacale sulle linee, è già saltato.
Sul versante opposto, la Fiom pensa che l’Ad del Lingotto non entrerà in
rotta di collisione con il sindacato più rappresentativo del gruppo
scatenando un conflitto interno dagli effetti sicuramente negativi sulla
produzione.
C’è un retroscena che può spiegare l’accelerazione decisa dell’Ad, quando
Guglielmo Epifani, segretario generale della Cgil va sul palcoscenico e
dice «Pomigliano non ha alternative. Servono sviluppo, investimenti e
occupazione». Molti leggono in quel passaggio il segnale di un’apertura
della Cgil rispetto al no secco della Fiom. La Cgil è quindi in clamorosa
rotta di collisione con la Fiom.
La Fiom, quel giorno, ha già rifiutato di firmare l’accordo sottoscritto
dagli altri sindacati e ha sostenuto le ragioni del no pur non dando
un’indicazione di voto esplicita «perché non chiediamo ai lavoratori di
fare gli eroi».
Secondo questa versione, Marchionne si sarebbe deciso ad accettare
l’idea del referendum quando qualcuno del vertice Cgil aveva garantito
che alla fine anche la Fiom avrebbe accettato l’esito della consultazione.
Annunciato il referendum però la stessa Fiom aveva dichiarato che non
lo considerava legittimo «non si può chiedere ai lavoratori di votare con
la pistola puntata alla testa». Deve essere stato dopo questi avvenimenti
che, in una notte di aprile, l’Ad del Lingotto aveva deciso che era venuto
il momento di aprire uno scontro duro con la stessa Fiom.
188
Scelta la strada, in quelle settimane tutto si svolge secondo un copione
collaudato. E non per caso in quei giorni si ripetono le stesse scene della
battaglia dell’80 ai cancelli di Mirafiori. Il 19 giugno parte il corteo dei
lavoratori del sì che attraversa Pomigliano chiedendo lavoro. Il
referendum si svolge con i Cobas che accolgono i lavoratori del sì al
grido di «servi del padrone». Il 22 giugno alla consultazione partecipa il
95 per cento dei dipendenti, un livello alto e prevedibile perché non
arrecarsi alle urne significa annunciare all’azienda la propria posizione
non favorevole all’accordo. Ma qual che sorprende è il risultato, in u’aria
socialmente depressa, con una grande fame di lavoro, il sì supera di poco
il 62 per cento e il no raggiunge il 36.
Il voto dice che a Pomigliano più di un terzo dei lavoratori, ben oltre la
somma degli iscritti di Fiom e Cobas, è contrario alla proposta della Fiat
al punto da avversarla nell’urla. Considerando che una parte del sì non è
un voto dettato dalla convinzione ma dalla necessità, Marchionne può
misurare quanto risicata sia l’adesione convinta al suo progetto.
L’amministratore delegato sa che il quadro è tutt’altro che rassicurante.
Dopo il voto di Pomigliano infatti inizierà una vera battaglia tra Fiat e
Fiom destinata a caratterizzare l’estate e i mesi successivi.
Come garantire la governabilità delle fabbriche, cioè come impedire che
la Fiom diventi un ostacolo in azienda quando i metalmeccanici della
Cgil rappresentano il punto di vista di circa un terzo dei dipendenti
rimane un problema non semplice da risolvere.
Il voto di Pomigliano ha dimostrato che, a differenza di quanto accade in
America, il numero di iscritti a un sindacato non coincide con il suo
consenso. Tradizionalmente in Fiat la percentuale dei dipendenti
sindacalizzati è relativamente bassa, ma la capacità dei sindacati di
orientare l’opinione dei dipendenti è molto superiore. Dunque il lavoro
189
per eliminare l’ostacolo Fiom è più arduo di quel che appare. Nell’estate
2010 il Lingotto preme su Federmeccanica perché l’associazione degli
industriali metalmeccanici trovi un sistema di deroghe al contratto
nazionale di lavoro che consenta di risolvere il problema. Lavoro lungo
che si rileverà infruttuoso dal momento che non si possono cambiare in
corso d’opera le leggi e anche gli accordi firmati nei decenni tra
Confindustria e Cgil, Cisl e Uil. Questi accordi terranno sempre in
fabbrica la Fiom perché la Cgil è firmataria con Confindustria
dell’accordo interconfederale del 1993 che istituisce i delegati con le
rappresentanze sindacali unitarie. Solo a fine settembre, mentre
Federmeccanica alza le braccia in segno di resa, nasce nei colloqui dal
Lingotto e il Fismic l’idea della newco, se la Fiat crea a Pomigliano una
nuova società che non si associa a Confindustria, quella società non sarà
obbligata a rispettare gli accordi presi dall’associazione degli imprenditori
con i sindacati confederali. In quel caso varranno nella newco solo le
leggi sul lavoro italiane. In particolare varrà l’articolo 19 dello Statuto dei
lavoratori, quella che affida la rappresentanza in azienda ai sindacati
firmatari dei contratti collettivi di lavoro applicati nell’unità produttiva.
Nella versione originaria, quella modificata da un referendum nel giugno
1995, la rappresentanza era garantita anche alle confederazioni
maggiormente rappresentative sul piano nazionale. Ma quel punto venne
abrogato al termine di una campagna referendaria in cui da sinistra si
voleva ridurre il monopolio della Cgil, Cisl e Uil. Così, per paradosso,
l’abrogazione di un articolo fatta per allargare la rappresentanza in
fabbrica finiva per ridurla ai soli sindacati firmatari di accordi con
l’azienda. Un’arma potentissima in mano agli imprenditori per scegliersi
gli interlocutori sindacali. E anche una mutazione genetica, con quella
modifica i delegati in fabbrica non rappresentano più il punto di vista di
190
chi lavora ma l’opinione di chi firma e dunque l’opinione di chi ritiene
ragionevoli o comunque non contrastabili le proposte aziendali.
Dall’estate 2010 in poi, man mano che lo scontro con la Fiom si fa più
duro, il Fismic andrà assumendo un peso sempre maggiore tra i sindacati
del fronte del sì. Per poter applicare alla newco di Pomigliano l’articolo
19 dello Statuto dei lavoratori che esclude la Fiom bisogna però aspettare
il 1 gennaio 2012, perché fino al giorno prima è in vigore il contratto
nazionale dei metalmeccanici firmato anche dalla Fiom nel 2008. Un
ostacolo che si supererà facendo uscire la newco da Confindustria e
firmando nel dicembre 2010 un nuovo contratto tra Fiat e sindacati
favorevoli che ha valenza di contratto nazionale.
La campagna per garantire la governabilità degli stabilimenti coincide con
una serie di provvedimenti disciplinari che colpiscono delegati della
Fiom.
Il caso più clamoroso è quello di Melfi. Nella principale fabbrica italiana
del gruppo Fiat, la notte del 7 luglio 2010 tre operai vengono accusati
dall’azienda di aver bloccato un carrello trasportatore durante uno
sciopero. In questo modo avrebbero impedito di lavorare anche a chi
non aderiva alla fermata, che non aveva più il materiale per proseguire la
produzione. I tre sono iscritti alla Fiom e vengono licenziati dall’azienda
con l’accusa di aver interrotto la produzione. Negli stessi giorni a Torino
un altro delegato della Fiom un impiegato viene licenziato perché
avrebbe spedito con il computer aziendale una mail in cui un sindacato
polacco solidarizzava con i tre licenziati di Melfi.
A Melfi i tre licenziati vincono un primo ricorso di fronte al giudice, che
ordina immediatamente il loro reintegro sul posto di lavoro in base
all’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori. Ma quando i tre operai si
presentano all’ingresso della fabbrica, l’azienda si rifiuta di rimetterli a
191
lavorare e accompagna i due delegati nella saletta sindacale, non potendo
impedire che svolgano il loro compito di rappresentanti dei lavoratori.
Nei mesi successivi, mentre i tre operai rimangono a casa pagati
dall’azienda, va in scena un drammatico appello di secondo grado. Può
capitare di vedere in aula sindacalisti come il leader del Fismic,
testimoniare contro i lavoratori e a favore dell’azienda. Il secondo
processo si conclude il 25 luglio 2011 con la vittoria della Fiat, il giudice
giudica legittimo il licenziamento. Nel febbraio 2012 però il processo di
appello darà nuovamente torto al Lingotto imponendo il reintegro dei tre
licenziati. La Fiat reagirà con un telegramma in cui annuncia che, pur
pagandoli come impone il giudice, non intende avvalersi della loro
attività lavorativa. Le parti attendono ora il giudizio della Cassazione. La
Fiom ha già annunciato che in caso di annullamento definitivo del
licenziamento chiederà i danni morali.
Lo scontro duro contro la Fiom e soprattutto la vicenda di Melfi
intaccano l’immagine di Marchionne nell’opinione pubblica. Perché se è
normale che azienda e sindacato entrino in rotta di collisione, non è
normale che a farne le spese siano i singoli lavoratori.
Il manager di Torino illustra la sua filosofia «è finito il tempo in cui le
relazioni industriali si devono basare sul conflitto tra operai e padroni».
La nuova occasione per sperimentare quella filosofia è a Mirafiori, fin
dall’estate si rincorrono le voci sulla possibile nascita di una joint venture
tra Fiate Chrysler per la produzione di Suv nello stabilimento torinese.
La joint venture, naturalmente, sarebbe una nuova società e come tale
potrebbe diventare anch’essa una newco con caratteristiche simili a
quella di Pomigliano, fuori da Confindustria e dai contratti nazionali dei
metalmeccanici con un accordo che escluda dalla possibilità di essere
presenti in fabbrica quei sindacati che non firmano l’intesa. Per lunghe
192
settimane l’ipotesi rimane tale. Un nuovo referendum a Mirafiori con la
nascita di una newco anche a Torino metterebbe in difficoltà gli stessi
sindacati che hanno detto «sì» a Pomigliano. Impostazione contestata dai
sindacati contrari (Fiom e Cobas), secondo i quali invece ciò che si stava
sperimentando a Pomigliano sarebbe stato successivamente applicato in
tutto l’universo Fiat e avrebbe dunque cambiato in modo radicale le
stesse relazioni industriali italiane. L’idea di un nuovo accordo a Mirafiori
sembra confermare in pieno quest’ultima analisi.
Alla prima riunione tra azienda e sindacati la trattativa viene inaugurata
da un discorso di Marchionne, un intervento che per qualche giorno
lascia immaginare una nuova svolta, un ritorno a relazioni industriali
meno conflittuali. Discorso di ampio respiro dopo le risse di Pomigliano
e Melfi. La partenza è buona, tutti i sindacati, Fiom compresa,
apprezzano. Addirittura l’organizzazione di Landini avanza un’apertura
sulla possibilità di creare una newco per gli impianti di Mirafiori, «non
siamo contro le newco, dice il responsabile auto Giorgio Airaudo, siamo
contro le newco che vengono pensate per ridurre i diritti ed escludere un
sindacato, qualsiasi esso sia». Posizione che, in breve tempo, provocherà
una spaccatura all’interno della Fiom con gli altri esponenti sindacali
della stessa, contrari a contrattare su un argomento come quello della
newco di cui la Fiom ha sempre respinto il modello.
La tregua dura pochi giorni, nella proposta di accordo che la Fiat illustra
alla prima riunione con i sindacati non ci sono sostanziali differenze sui
punti che a Pomigliano avevano creato divisione, per quanto riguarda le
assenze per malattia, diritto di sciopero e pause. C’è una proposta nuova
dell’azienda che prevede la possibilità di turni di 10 ore per quattro giorni
di lavoro su sette. Un’idea che non incontra il favore dei sindacati, anche
dei firmatari dell’accordo di Pomigliano.
193
Il 29 novembre, quando la trattativa entra nel vivo, il sindacato di
Landini si presenta con una proposta sul tema più controverso, quella
«clausola di responsabilità» che limita il diritto di sciopero ai soli
argomenti che non siano già stati regolati dal contratto aziendale. «Se il
problema è quello di ridurre la microconflittualità, dice la Fiom, si può
risolvere introducendo una norma per raffreddare i conflitti. Prima di
proclamare uno sciopero sindacato e azienda si impegnano a provare a
risolvere il problema che ha generato lo scontro.
«Siamo disponibili a trattare su tutto, dice il nuovo segretario generale
della Cgil, Susanna Camusso, ma non è possibile accettare deroghe al
contratto nazionale». Anche Cisl e Uil parlano di «una trattativa
incamminata sul binario giusto». L’unica organizzazione che chiede
esplicitamente di riprodurre il contratto fatto in Campania è il Fismic
«chiediamo che a Mirafiori nasca una società identica a quella di
Pomigliano». Le proposte della Fiom vengono rapidamente archiviate.
La delegazione della Fiat non accetta nemmeno di metterle in
discussione e ripropone il suo impianto originario. All’inizio di dicembre
è ormai chiaro che si va verso un nuovo accordo separato e una
sostanziale replica di Pomigliano. Ma per arrivarci bisogna superare
anche le resistenze di Fim e Uilm che non accettano l’idea di un nuovo
stabilimento fuori dal contratto nazionale e da Confindustria. Il manager
del Lingotto si lamenta perché Federmeccanica non accetta tutte le
proposte della Fiat in deroga ai contratti nazionali e minaccia di uscire da
Confindustria, ciò che effettivamente avverrà dodici mesi dopo.
Lo scontro tra Fiat e sindacati su Mirafiori e quello tra Fiat e
Confindustria vanno di pari passo. La notte del 4 dicembre è ancora il
Fismic ad annunciare per primo che senza un accordo su Mirafiori,
l’azienda non fa investimento. Il 10 dicembre l’ultimatum di Sergio
194
Marchionne è la puntuale conferma «Vogliamo una società senza il
contratto dei metalmeccanici, altrimenti non investiremo». La Fiom
blocca il paese, la drammatizzazione serve a spingere verso l’accordo
separato, quest’ultimo arriva alla vigilia di Natale.
Il rappresentante della Uilm parla di «accordo importante che garantisce
il lavoro a Mirafiori», quello della Fim fornisce una versione più
problematica «abbiamo accettato di lasciare Mirafiori fuori dal contratto
nazionale ma contiamo di farla rientrare presto». Molto soddisfatto il
Fismic «un accordo storico che modifica le relazioni industriali in Italia».
L’ultimo a pronunciarsi è il rappresentante della Fiom, che non ha
firmato «è stato accettato un accordo vergognoso, costruito per escludere
alla fabbrica il sindacato che più dà fastidio». Per la prima volta dal 1945
la Cgil non avrà rappresentanti nel più grande stabilimento
automobilistico d’Europa. Il clima di tensione fra i sindacati diventa
fortissimo nelle due settimane che precedono il referendum del 14
gennaio 2011 ancora una volta i dipendenti sono costretti a scegliere se
perdere il lavoro o accettare l’accordo voluto dall’azienda. La Fiom si
trova per questo in una situazione difficile avendo giudicato illegittimo il
referendum di Pomigliano, proprio perché i dipendenti non erano liberi
di votare contro senza perdere il lavoro, non può certo giudicare
legittima la consultazione di Torino che ha le medesime caratteristiche.
Ma non può nemmeno stare alla finestra e non partecipare alla battaglia
referendaria. Nascono così in azienda spontanei comitati per il «no»
organizzati dai lavoratori, ai quali il sindacato di Landini dà il suo
appoggio. Nelle giornate e nelle ore che precedono il voto, la tensione
crea non pochi incidenti. Davanti ai cancelli di Mirafiori gruppi di
sostenitori del no bruciano le bandiere della Fim, accusata di aver scelto
di stare con l’azienda.
195
All’alba del 15 gennaio il sì prevale per 400 voti. Ma nelle linee, tra gli
operai il sì prevale per 9 voti. La sostanza è che il sì prevale grazie ai
colletti bianchi, cioè quella parte dei dipendenti che non sono toccati
dagli aspetti più controversi dell’accordo, come le pause, la mensa e i
turni di lavoro. Un’analisi mette in evidenzia che il no è più forte là dove
il lavoro è più vincolato al ritmo della catena. Al montaggio il no
raggiunge il 53 per cento e prevale, con una percentuale leggermente
inferiore, anche in lastratura. Il sì vince invece tra gli impiegati, in
verniciatura e tra gli addetti dei turni di notte, un lavoro più faticoso ma
considerato un privilegio, per via della paga più alta, accordato spesso a
chi ha buoni rapporti con le gerarchie aziendali.
Il 70 per cento di coloro che hanno votato sì lo ha fatto perché l’accordo
è necessario e meno del 10 per cento perché lo considera un accordo
positivo. Quasi 80 per cento dei no ha votato contro perché si è sentito
ricattato. Solo il 64 per cento degli iscritti ai sindacati firmatari ha
coerentemente votato sì mentre più dell’80 per cento degli iscritti della
Fiom e ai Cobas ha votato no. Il risultato finale, 54 per cento sì e 46 per
cento no, consegna al Lingotto una fabbrica sostanzialmente spaccata in
due in cui chi dovrebbe sopportare maggiormente il peso del cambio di
regole è contrario. Un quadro sicuramente peggiore di quello uscito dalle
urne di Pomigliano. L’amministratore delegato conferma che in caso di
sconfitta avrebbe rinunciato all’investimento a Mirafiori. E chiarisce
«certo non mi sarei seduto a rinegoziare con il sindacato, perché questo
contratto c’è già a Pomigliano e non si possono avere due sistemi diversi
nella stessa azienda». Marchionne annuncia quindi la volontà di tirare
dritto senza esitazione.
Lo scontro si trasferisce nelle aule di tribunale dove la Fiom ha trascinato
l’azienda di Marchionne per comportamento antisindacale, che in base a
196
una interpretazione contestata dell’articolo 19 dello Statuto dei lavoratori,
tiene fuori i metalmeccanici della Cgil dalla rappresentanza in fabbrica.
La sentenza sarà la base dei pochi tentativi successivi di trovare una
mediazione al conflitto tra Marchionne e Landini. Contrariamente a
quanto sostenevano i legali della Fiom, infatti il giudice dà ragione alla
Fiat valutando legittimo il contestato accordo di Pomigliano. Ma dà torto
all’azienda sulla interpretazione dell’articolo 19 dello Statuto dei
lavoratori, condannando la Fiat a ripristinare la rappresentanza in
fabbrica della Fiom. Implicito è in questo caso lo scambio, la Fiom
rinunci a contrastare in fabbrica gli accordi che non condivide e che sono
però stati approvati dalla maggioranza dei lavoratori. La Fiat rinunci a
pretendere la firma dell’accordo come requisito per riconoscere la
rappresentanza in fabbrica dei delegati della Fiom.
Per i metalmeccanici della Cgil non è questione solo una questione di
principio. L’esclusione della fabbrica comporta pesanti conseguenze sul
piano pratico ed economico, senza delegati che possano liberamente
svolgere attività tra le postazioni sulle linee, l’organizzazione di Landini
rischia di perdere perso, perché dopo un periodo di adesione militante i
lavoratori si rivolgeranno ai delegati che ci sono e che possono mediare
con i capi, cioè i delegati delle altre organizzazioni. Negli stessi mesi nelle
forze politiche di sinistra c’è chi propone una legge che ripristini la
vecchia formula dell’articolo 19 dello Statuto dei lavoratori, quella
precedente alla modifica referendaria. In quel modo, essendo la Fiom-
Cgil una delle organizzazioni maggiormente rappresentative sul piano
nazionale, non potrebbe essere espulsa dagli stabilimenti della Fiat. Ma
anche queste proposte rimangono sulla carta. I partiti di centrosinistra
temono infatti che aprire una discussione sulla modifica dell’articolo 18
della stessa legge, quello che impedisce i licenziamenti individuali senza
197
una giusta causa. Articolo che le aziende e lo stesso Marchionne
vorrebbero abolire. Va in questa stessa direzione l’articolo 8 della
manovra finanziaria scritto dal ministro Sacconi, che include tra le
materie su cui i sindacati in azienda possono derogare i contratti
nazionali e le leggi dello Stato anche il punto dei licenziamenti.
La disciplina poi in materia di contrattazione collettiva contenuta
nell’Accordo quadro del 2009 è stata integrata, a pochi anni di distanza,
da un successivo accordo che, nuovamente, la partecipazione delle sole
associazioni dei lavoratori e dei datori di lavoro (senza il Governo).
L’accordo interconfederale del 28 Giugno 2011, siglato tra Confindustria,
Cgil, Cisl e Uil, ha la finalità di realizzare un «sistema di relazioni
industriali che crei condizioni di competitività e produttività tali da
rafforzare il sistema produttivo, l’occupazione e le retribuzioni».29
L’Accordo, intervenuto dopo una fase di profonda lacerazione tra le
Confederazioni, vede la sottoscrizione unanime delle stesse (questa volta
siglato anche dalla Cgil) e costituisce un atto di portata «storica»,
considerato che esso non solo pone regole certe con riguardo ai soggetti,
ai livelli, ai tempi e ai contenuti della contrattazione collettiva, ma
perviene anche al risultato impensato di definire le regole in materia di
rappresentatività delle organizzazioni sindacali dei lavoratori.
Il presupposto dell’Accordo è rappresentato:
- da un lato, per le Confederazioni sindacali, dalla necessità di porre
rimedio alle conseguenze delle divisioni interne, che esponevano la
contrattazione collettiva al rischio di accordi separati (la componente
della Cgil, la Fiom, non aveva aderito al rinnovo del Ccnl del settore
29 Del Giudice F., Mariani F., «Compendio di diritto sindacale», cit., p. 152
198
metalmeccanico e non aveva sottoscritto alcuni contratti collettivi
aziendali nel medesimo settore).
- dall’altro, per la Confindustria, dall’intento di prevenire il recesso di una
delle sue principali associate, l’azienda Fiat, a seguito dell’incertezza
venutasi a creare dagli accordi separati, aveva manifestato, a giugno 2011,
la volontà di «uscire da Confindustria», cosa di fatto poi avvenuta, la
ragione di una decisione clamorosa è nella scelta di Confindustria, Cgil,
Cisl e Uil di impegnarsi a non applicare quella parte dell’articolo 8 della
manovra Sacconi che consente di derogare alla legge sui licenziamenti.
L’impegno era stato preso il 21 settembre, nel momento in cui la Cgil
aveva formalmente firmato il protocollo di giugno. Questo atto, spiega
Marchionne nella lettera a Marcegaglia «rischia quindi di snaturare
l’impianto previsto dalla nuova legge e di limitare fortemente la
flessibilità gestionale».
L’Accordo interconfederale segna un notevole passo in avanti rispetto
alla possibilità di effettuare, mediante contrattazione decentrata, intese
derogatorie. Il principio fondamentale è, tuttavia, che la possibilità di
deroga da parte del contratto collettivo aziendale deve comunque
esplicarsi nei limiti e con le procedure previste dagli stessi contratti
collettivi nazionali di lavoro.
L’accordo definisce, poi, una disciplina transitoria, finalizzata a rendere
possibile la stipulazione delle intese aziendali nell’immediato, cioè anche
prima che il contratto collettivo nazionale definisca i limiti e le procedure
delle stesse. In particolare, potranno essere stipulati accordi in deroga
rispetto alle determinazioni del contratto collettivo nazionale, aventi la
finalità di gestire situazioni di crisi o in presenza di investimenti
significativi per favorire lo sviluppo economico ed occupazionale
dell’impresa. Le deroghe potranno riguardare la prestazione lavorativa,
199
gli orari e l’organizzazione del lavoro. Tale intese avranno efficacia
generale, così si applicheranno a tutto il personale dell’azienda e
vincolano tutte le associazioni sindacali presenti nell’azienda, che
aderiscono alle Confederazioni firmatarie dell’accordo interconfederale
di riforma (sindacati di categoria aderenti a Cgil, Cisl e Uil). L’efficacia
erga omnes del contratto aziendale è limitata, tuttavia, alla sola parte
normativa (comprendente anche gli aspetti economici) e non si estende
anche alla cd. parte obbligatoria, cioè alle disposizioni che disciplinano i
rapporti tra sindacati e datore di lavoro.
A tal proposito, sono stati individuati dei criteri oggettivi per rendere il
contratto collettivo aziendale efficace erga omnes, cioè nei confronti di
tutti i lavoratori dell’impresa. I criteri in questione, differenziati a seconda
della presenza nel contesto aziendale di Rsu o di Rsa, sono i seguenti:
- nel caso in cui a livello aziendale vi siano Rsu, il contratto aziendale
deve essere approvato dalla maggioranza dei componenti della Rsu
presente in azienda. Una volta approvato, esso diviene vincolante per
tutti i lavoratori, anche per quelli non iscritti ai sindacati stipulanti o
comunque dissenzienti.
- nel caso in cui a livello aziendale vi siano Rsa, è necessaria
l’approvazione delle Rsa costituite nell’ambito delle associazioni sindacali
che, singolarmente o insieme ad altre, risultino destinatarie della
maggioranza delle deleghe relative ai contributi sindacali conferite dai
lavoratori dell’azienda nell’anno precedente a quello in cui avviene la
stipulazione. Il contratto collettivo aziendale stipulato dalle Rsa può
essere, poi, sottoposto a referendum. In caso di voto favorevole a
maggioranza semplice, il contratto aziendale è definitivamente
approvato, in caso di voto negativo espresso dalla maggioranza semplice
dei votanti, il testo contrattuale si intende respinto.
200
A pochi mesi quindi dal succitato Accordo, la manovra correttiva 2011,
disciplina, all’articolo 8, la «contrattazione di prossimità», con l’effetto di
aumentare notevolmente il potere regolativo e dispositivo della
contrattazione aziendale e territoriale. L’effetto è quello di uno strappo
nelle relazioni tra Governo e parti sociali, che genera nuovi tensioni tra le
Confederazioni Cgil, Cisl e Uil. La disciplina dell’art. 8 della manovra
correttiva si sovrappone infatti a quella dell’accordo interconfederale,
tanto da essere percepita come un’invasione del legislatore politico in
ambito tradizionalmente appannaggio dell’autonomia sindacale (la
contrattazione collettiva e il rapporto tra contratto collettivo nazionale e
contratto decentrato).
Il provvedimento, in effetti, mette al centro del sistema della
negoziazione tra sindacati e controparte datoriale il contratto territoriale
o aziendale, a cui è riconosciuta ampia potestà di regolamentazione, cioè
di concludere intese «alla maggiore occupazione, alla qualità dei contratti
di lavoro, all’adozione di forme di partecipazione dei lavoratori, agli
incrementi di competitività e salario, alla gestione delle crisi aziendali e
occupazionali». Tale intese stipulate a livello aziendale possono derogare
anche le disposizioni di legge e le regolamentazioni contenute nei
contratti collettivi nazionali di lavoro, avendo come unico limite il
rispetto della Costituzione, nonché i vincoli derivanti dalle normative
comunitarie.
Anche se formalmente si fa riferimento a quanto convenuto nell’accordo
interconfederale del 28 Giugno 2011, i soggetti collettivi che possono
stipulare i contratti di livello aziendale o territoriale possono essere anche
totalmente scollegati dai sindacati firmatari del contratto collettivo
nazionale. Le intese così stipulate hanno carattere vincolante per tutti i
lavoratori interessati se sottoscritte sulla base di un criterio maggioritario.
201
Successivamente le parti firmatarie dell’accordo hanno ratificato
l’accordo stesso dichiarando che le «materie delle relazioni industriali e
della contrattazione collettiva sono affidate alle autonome determinazioni
delle parti». Di conseguenza le parti sociali hanno formalmente assunto
l’impegno che le proprie strutture, a tutti i livelli, si attengono a quanto
concordato nell’accordo stesso.
La predisposizione della legge di riforma determina il definitivo
abbandono del metodo della concertazione sociale.
Infatti, anche se inizialmente le trattative vedono un forte
coinvolgimento delle parti sociali, la difficoltà per il raggiungimento di
una posizione comune e la netta opposizione della Cgil soprattutto sulle
proposte di modifica concernenti i licenziamenti economici, portano il
Governo a dichiarare formalmente concluso il metodo della
concertazione sociale. Il metodo seguito è conforme al modello del
dialogo sociale, che vede come primario e unico interlocutore del
Governo il Parlamento. I sindacati sono informati e consultati, ma il
Governo afferma che «a nessuno è riconosciuto un potere di veto», cioè
di condizionare unilateralmente il risultato finale. Di conseguenza l’esito
delle trattative non è la sottoscrizione di un accordo triangolare, tipico
della concertazione sociale, bensì un verbale in cui si limita a dar conto
delle posizioni delle parti sociali.
Dopo l’Accordo interconfederale, tuttavia, le preoccupazioni della Fiat in
Italia sono di altro genere. Il 29 novembre inizia a Torino la trattativa per
estendere il modello Pomigliano a tutti gli 86 000 dipendenti italiani di
Fiat e Fiat Industrial. Giunge così a compimento il progetto avviato nel
giugno 2010 in Campania. L’inizio della trattativa è caratterizzato da
tensioni all’esterno della sede dell’Unione Industriale. Di conseguenza la
Fiom abbandona il tavolo perché non è stato consentito l’ingresso di una
202
parte della sua delegazione. Si riprende nei giorni successivi a ranghi
completi.
L’acursi poi della crisi finanziaria che ha investito l’area dell’euro, a
partire dal 2011, determina il rapido deterioramento della posizione
dell’Italia, il cui debito pubblico raggiunge livelli elevatissimi.
Le trattative per il «decreto Salva Italia», determinano una nuova
divaricazione nell’ambito delle tre Confederazioni sindacali, Cgil, Cisl e
Uil, soprattutto in merito al tema più delicato della tutela conto i
licenziamenti illegittimi. La riforma, mantenendo intatta la tutela contro i
licenziamenti discriminatori ed in parte quelli disciplinari, interviene sui
licenziamenti per motivi economici, sostituendo, la tutela dell’art. 18
dello Statuto dei Lavoratori, cioè la reintegrazione, con un mero
risarcimento economico. A tale riguardo, comunque, prima dell’avvio del
provvedimento per l’ordinario iter parlamentare, si è giunti ad un testo
più equilibrato, con il ripristino della possibilità di reintegro, anche se in
casi limitati (cioè solo quando il giudice accerti la manifesta infondatezza
dei motivi addotti dall’azienda).
La spaccatura avviene proprio sul disegno di riforma dell’art. 18,
giudicato in prima battuta pacatamente dalla Cisl e Uil e, in senso,
diametralmente opposto, come un modo per addivenire a licenziamenti
più facili, dalla Cgil.
Nonostante la difficile situazione in cui si trova l’Italia, le parti hanno
avviato una negoziazione il 6 luglio 2012, volto a rinnovare il contratto
del 2011 per il triennio 2013-15, firmato solo da FIM-CISL e UILM-
UIL.
203
4.4. Verso quale direzione sindacale? Conflittualità o
partecipazione?
In una fabbrica governata con il World Class Manufacturing, introdotto
nel 2005, la risorsa più preziosa è il lavoro. I confini delle conoscenze e
delle abilità dei lavoratori sono differenti rispetto alla produzione di
massa o a quella artigianale, rendendo più complessa la rappresentanza
dei lavoratori e, allo stesso tempo, l’organizzazione dell’intera struttura
sindacale. Nonostante i lavori e le mansioni siano strettamente definiti,
nella fabbrica lean i lavoratori si spostano da una mansione all’altra
secondo il principio della rotazione, spesso da un lavoro all’altro,
acquisendo sempre nuove competenze e abilità e lavorando secondo la
logica del problem-solving. In questo modo, l’acquisizione e la diffusione
delle conoscenze tra i lavoratori ricompongono molte delle tradizionali
divisioni, ad esempio, tra i lavoratori addetti alla produzione e lavoratori
specializzati, oppure tra lavoratori, ingegneri e manager. Vi è così sempre
di più la spinta verso forme di «sindacalismo d’impresa», il sindacato
deve essere aziendale e collaborativo. È un modello organizzativo che
per funzionare ha bisogno di un cambio di ruolo dei sindacati, in azienda
entrano solo quelli disponibili a condividere le finalità d’impresa per non
interferire con la partecipazione in via gerarchica dei lavoratori. Essa è
presidiata dalla clausola di responsabilità e dalla limitazione del diritto di
sciopero, perché nei sistemi di produzione integrati imposti dal “just in
time” la lotta anche di un numero piccolo di lavoratori può provocare
gravi blocchi produttivi. Del resto, è esattamente questa la vulnerabilità
del sistema, i sindacati dissenzienti sono esclusi.
All’interno del sindacalismo, sembrano quindi prevalere due
opposte linee d’azione, quella di una linea d’azione partecipativa e
204
cooperativa e quella conflittuale. Si può osservare che la linea d’azione
seguita dalla Cisl e Uil è impiantata sulla cooperazione nell’impresa, sul
dialogo con l’azione governativa. Prendendo, invece, ad emblema la
strenua difesa dell’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori, si può dire che la
linea d’azione della Cgil, e soprattutto della sua componente più radicale,
la Fiom, è quella della difesa dei diritti della classe lavoratrice, considerati
un patrimonio acquisito e non negoziabile.
In tale contesto, sembra quindi superata l’idea stessa di un’unità
sindacale in termini di unità di linea d’azione, è stato infatti osservato che
non esiste un modello giusto, in assoluto, ma che invece si debba pensare
alla linea più adeguata in termini dinamici, valutando volta per volta la
strategia da porre in essere in base al comportamento della controparte.
Allo stesso tempo, numerosi sono gli studiosi che, riflettendo sulla
crescente necessità di tutela dei lavoratori nell’epoca della competizione
globale, ritengono ancora proficua la ricerca dell’unità sindacale come
unica strada affinchè il sindacato continui a svolgerla funzione di
promozione dello sviluppo economico e sociale del Paese.
Quale che sia la strada che sarà intrapresa, è certo che la rottura
dell’unità sindacale fa emergere problematiche del tutto nuove,
considerato che la prassi delle relazioni industriali nel nostro Paese è stata
a lungo caratterizzata dall’unità sindacale di fatto.
205
206
Capitolo 5
L’impatto del World Class Manufacturing in termini
di partecipazione sul sistema aziendale sulle
relazioni industriali e sui lavoratori
5.1 Premessa
Dopo aver esaminato nei capitoli precedenti le trasformazioni legate
all’introduzione di nuove forme di organizzazione del lavoro e della
produzione, partendo dall’organizzazione scientifica del lavoro (Taylor)
fino ad arrivare alla sperimentazione del WCM all’interno del gruppo
Fiat, la nostra attenzione è stata rivolta all’importanza che il gruppo
riveste nel contesto italiano, e in particolare a tutte le vicende che sono
ormai oggetto di attenzione da parte degli ambienti economici, sociali e
politici del paese.
Abbiamo poi cercato di offrire un’analisi della contrattazione collettiva
sindacale alla Fiat, partendo dagli anni Ottanta fino ad arrivare ai giorni
nostri, per comprendere appieno i cambiamenti in atto.
Cambiamenti che hanno portato, attraverso l’introduzione del nuovo
paradigma organizzativo del lavoro e della produzione (WCM), a un
modello di contrattazione collettiva che da “normativo” diventa
“partecipativo”.
Attraverso delle interviste a rappresentanti delle principali sigle sindacali,
manager e lavoratori Fiat, si cercherà nei paragrafi successivi di capire,
dopo una breve ricostruzione del contesto torinese e delle condizioni in
cui perversa, quale impatto ha avuto il World Class Manufacturing in
termini di partecipazione non soltanto a livello più generale del sistema
207
aziendale ma anche sul coinvolgimento dei lavoratori e nel
comportamento e sulle strategie degli attori sindacali.
A tal riguardo lo scopo della ricerca è quello di capire qual è il
collegamento tra questo nuovo paradigma organizzativo, sperimentato
dal 2006 in poi, e le relazioni industriali.
In particolare, se il WCM, centrato sul coinvolgimento attivo dei
lavoratori, richiede o meno l’intermediazione del sindacato. Quali
caratteristiche questo deve avere, partecipativo o conflittuale.
Qual è il ruolo del sindacato e la sua effettiva partecipazione all’interno
dell’azienda. Qual è il rapporto con l’azienda, se quest’ultima cerca il
rapporto con i sindacati oppure preferisce interagire direttamente con i
lavoratori. Se esistono ancora dei meccanismi di tipo partecipativo,
rappresentato dalle commissioni, se queste funzionano effettivamente o
il coinvolgimento del sindacato è soltanto formale.
Si cercherà dunque di capire quali sono i nuovi equilibri e le nuove
strategie manageriali finalizzate ad acquisire il consenso sui nuovi metodi
di produzione e come questo ha influito in modo determinante
sull’organizzazione e sulle modalità di azione del sindacato.
208
5.2 La Fiat Chrysler Automobiles di Mirafiori
La Fiat Chrysler Automobiles di Mirafiori è uno stabilimento industriale
a Torino, si trova nel quartiere Mirafiori Sud. Fu progettato fin
dal 1936 essendosi ormai rivelato insufficiente il precedente stabilimento,
quello del Lingotto. Nel suo comprensorio lavorano oggi circa 5.400
operai e nel 2012 vi sono state prodotte circa 41.600 autovetture (l'unica
vettura attualmente in produzione è l'Alfa Romeo MiTo).
La Fiat Chrysler Automobiles di Mirafiori ha costituito la realizzazione
maggiore dell'industrialismo italiano. Nessun impianto, nessuna unità
produttiva ha mai eguagliato Mirafiori, che apparve e venne descritta, al
momento della sua costruzione, come una realtà fuor di misura30.
Oltre ad essere stata un luogo emblematico della produzione, è stata e
continua ad essere uno dei teatri principali della nostra vita collettiva. Di
volta in volta, Mirafiori è stata il laboratorio dove sono state messe a
punto e attivate le tecnologie della "mass production" di ispirazione
fordista, lo spazio dove si è sviluppata la conflittualità permanente
cresciuta sull'onda dell'autunno caldo del '69, il grande alveare sociale
nelle cui pieghe si è annidata la minaccia del terrorismo fino al cambio di
ciclo sancito dalla marcia dei quarantamila dell'ottobre 1980.
E ora? Che cos’è oggi Mirafiori? Realtà decaduta da un luogo simbolo,
insediata da una sorte che non lascia più molto scampo a quella
vocazione manifatturiera di cui la città era andata orgogliosa?
Ora sembra che per il discorso pubblico, Mirafiori sia soltanto un
capitolo in sospeso, un interrogativo aperto. Di quella che ancora resta
«la più grande fabbrica d'Italia», si discute solo per misurarne le chance di
sopravvivenza nel tempo. Oggi in tutta Europa si parla dei luoghi della
30 Berta G., «I 70 anni di Mirafiori e le sfide del gigantismo», Il sole 24 ore, 2009.
209
produzione automobilistica soltanto allo scopo di valutare in quale
misura riusciranno a sussistere dopo i tagli della capacità produttiva che
potrà imporre la crisi globale. Nessuno o quasi si sofferma sull'atipicità di
una fabbrica che, tra continuità e mutamenti, è ancora in funzione
quando complessi analoghi e comparabili per storia, importanza e
ampiezza sono stati dismessi da tempo. La possibilità di durare e di
adattarsi ai nuovi cicli produttivi di una fabbrica dipende da tanti fattori.
Alcuni sono legati ai suoi criteri progettuali, alla sua attitudine a ospitare
processi differenziati, ad adeguarsi a cambiamenti connessi anche ai
paradigmi organizzativi. È chiaro che a nessun produttore verrebbe più
in mente di costruire grandi fabbriche quale fu Mirafiori negli anni della
sua massima estensione, quando costituiva il fulcro del sistema dell'auto
Fiat. Eppure, la sua storia non si è conclusa con quella della produzione
di massa e Mirafiori si è così trasformata in un soggetto della
metamorfosi di Torino, grazie a un processo di riassetto degli spazi
urbani che ha mescolato i luoghi dell'industria con quelli delle altre
attività. Il suo futuro non dipende perciò dalla capacità di prevedere e
calcolare i volumi produttivi di domani, ma dalle funzioni che essa potrà
assolvere entro il distretto torinese dell'auto. E dipende anche dal fatto
che si consideri la fabbrica non come un'entità residuale, ma un
organismo sottoposto a un cambiamento continuo. Dove si
sperimentano metodi e forme di lavoro che mantengono un valore di
punto di riferimento per far avanzare e progredire la frontiera
dell'organizzazione. Un terreno, questo, fondamentale per un sindacato
industriale intenzionato a misurarsi sull'evoluzione dell'impresa.
210
5.3 L’impatto del World Class Manufacturing in termini
di partecipazione sul sistema aziendale
Il World Class Manufacturing è un sistema di produzione adottato da
molti tra i più importanti costruttori mondiali e finalizzato a migliorare
l’organizzazione della fabbrica nel suo complesso. Abbiamo incontrato il
Dott. Luciano Massone, responsabile del World Class Manufacturing e
tra i principali artefici dell’autentica rivoluzione che sta interessando la
multinazionale torinese a livello produttivo e il Dott. Roberto Cortese,
responsabile delle relazioni industriali, per avere maggiori dettagli sulla
concreta applicazione del programma e ottenere un quadro complessivo
dei rapporti con il sindacato e i lavoratori.
In questa direzione va osservato che il WCM non significa soltanto
implementare metodi e sistemi tecnici ma l’azienda deve sostenere
l’operatività delle persone attraverso l’introduzione di un sistema sociale
coerente, capace di coinvolgere l’intera organizzazione e di fare in modo
che tutte le persone si sentano impegnate a contribuire per il
miglioramento continuo delle performance dello stabilimento, come
afferma Luciano Massone, responsabile del WCM “normalmente i sistemi che
si vedono in giro sono molto focalizzati sulla tecnica, noi ci siamo concentrati su un
sistema che si nutre del coinvolgimento delle persone, si nutre della diffusione della
conoscenza, si è nutrito di quella parte manageriale di cui non si sono potuti nutrire
gli altri sistemi. È un sistema ricco di knowledge, che fa dialogare tutti usando un
linguaggio comune, un sistema che è riuscito a coinvolgere oggi il 100% delle persone in
Fiat, puoi intervistare l’ultimo operaio che ti dice che la settimana scorsa ha fatto
quattro suggestions e ha partecipato a tre o quattro major kaizen”31 .
31 Intervista Luciano Massone, capo del World Class Manufacturing EMEA Region & WCM
Dev. Center VP, 2014
211
Diverse sono state le motivazioni che hanno portato ad adottare il WCM
a partire dal 2004, in un contesto di crisi in cui era necessario dare una
svolta all’interno dell’azienda, come afferma Luciano Massone,
responsabile del WCM “sono state la non competitività del sistema manifatturiero
che nel 2004 con uno spietato benchmarck fece fare il Dott. Marchionne sbattendoci
in faccia i risultati, quando abbiamo visto che rispetto ai nostri competitors eravamo
molto indietro si è deciso di avviare un programma di rottura”.
Così come molteplici sono state le difficoltà incontrate nella sua
implementazione, dal momento che un possibile processo di imitazione
delle imprese giapponesi da parte delle aziende occidentali è stato reso
complicato non tanto per la superiorità competitiva delle prime ma
riconducibili a fattori esterni (culturali, istituzionali), replica Luciano
Massone, responsabile del WCM “il Giappone ha dalla sua un sistema-paese,
dal momento che ho vissuto lì e mi sono formato lì, il Giappone produce un sistema
scolastico meritocratico e selettivo, non si può scegliere che cosa fare da grande e nel
percorso scolastico che una persona viene indirizzata a fare un mestiere piuttosto che
un altro. Gli investimenti nel mondo scolastico li fa l’impresa, lavorare lì è fantastico,
non bisogna convincere qualcuno a fare qualcosa, con i sindacati si dialoga benissimo,
il sindacato gioca la stessa partita dell’azienda. In Italia abbiamo dovuto investire
dieci anni per creare una cultura rispetto che in Giappone. In Italia vi è stata una
scarsa comprensione di quella che era la filosofia del miglioramento continuo che
proponeva questo modello, difficoltà legate alla gestione con il sindacato, abbiamo
quindi dovuto creare tutto il sistema”.
Delle difficoltà che derivano quindi secondo Roberto Cortese,
responsabile delle relazioni industriali “da un punto di vista culturale, vi è una
diffidenza al cambiamento, qui in Italia. La propensione al cambiamento rispetto
212
abbiamo sempre fatto così, è stato uno di quei muri da abbattere o di quelle reti un pò
da strappare che hanno probabilmente teso a rallentare questo progetto” 32.
In tutti gli stabilimenti Fiat Chrysler Automobiles, il lancio e
l’implementazione del programma WCM sono stati accompagnati da un
massiccio miglioramento delle condizioni di lavoro attraverso un
rinnovamento dell’ambiente, introducendo i più avanzati criteri
ergonomici, come afferma Luciano Massone, responsabile del WCM
“Siamo partiti da lì, prima ancora di affrontare gli aspetti più complessi e tecnici,
abbiamo affrontato la sicurezza, l’ambiente del posto di lavoro, la pulizia, l’ordine.
Abbiamo fatto grossissimi investimenti sull’ergonomia di processo, abbiamo finanziato
una cattedra all’università di Torino, lo abbiamo alimentato con contributi e
consulenze delle più prestigiose università presenti al mondo e oggi ci alimentiamo dei
dottorandi che escono da quel percorso per rivedere il nostro processo per arricchirlo nei
contenuti”.
Il commitment quindi da parte del management, per realizzare un
ambiente di fabbrica favorevole che tocchi i diversi aspetti, è essenziale
per il successo del nuovo sistema di produzione basato sui principi del
WCM, come afferma Roberto Cortese, responsabile delle relazioni
industriali “l’azienda deve mettere nelle migliori condizioni le persone per lavorare
bene e in sicurezza, è uno dei compiti del datore di lavoro, se si lavora in una fabbrica
confusa, sporca, buia, rumorosa, i risultati non possono venire. Se c’è luminosità nelle
fabbriche, se ci sono postazioni di lavoro ergonomicamente standard, se il prodotto è
stato studiato per quelle postazioni di lavoro, chi ci lavora è messo nelle condizioni di
poter fare bene il suo lavoro e non esistono possibilità per avere degli errori”.
È importante che i miglioramenti all’interno dell’azienda siano introdotti
con il coinvolgimento dei lavoratori al fine di attivare una loro prima
32 Intervista Roberto Cortese, responsabile Relazioni Industriali FCA EMEA, 2014
213
mobilitazione intellettuale, attraverso il suggerimento di idee che le
persone stesse ritengono possano migliorare le loro condizioni di lavoro.
L’applicazione del WCM richiede che ognuno collabori alla gestione
dell’azienda, che ogni dipendente sia coinvolto nel perseguimento rapido
e continuo del cambiamento. Il WCM deve essere uno stile di vita, come
afferma Roberto Cortese, responsabile delle relazioni industriali “la
riuscita del progetto dipende dal commitment che viene dato al progetto, lo si deve
vivere e praticare quotidianamente, dall’altro vi deve essere l’entusiasmo, la capacità o
anche la voglia di guardare in maniera diversa il modo di lavorare, in ambienti dove
c’è una curiosità culturale, una vivacità data chiaramente dall’età delle persone
all’interno dello stabilimento, questo è molto più facile. La partecipazione delle
persone secondo me è straordinaria da questo punto di vista, le persone se sono messe
nelle condizioni di dare un contributo, e questo significa che qualcuno glielo chiede, non
si tirano mai indietro, e se si tirano indietro bisogna indagare che cosa porta le persone
a non interessarsi del posto in cui passa molte ore della loro vita”.
Senza quindi la piena adesione al programma da parte delle persone e
senza l’impegno concreto di ciascuno nell’applicazione del nuovo sistema
di produzione nessun progresso verso il livello Worl Class è pensabile, i
lavoratori giocano un ruolo importantissimo e in merito al grado di
coinvolgimento, Luciano Massone, responsabile del WCM, afferma“il
rapporto con il lavoratore è diverso rispetto a quello di ieri, abbiamo ricevuto un
milione e mezzo di proposte, l’indicatore di assenteismo è un terzo o un quarto rispetto
a quando siamo partiti in questa nuova avventura e nelle fabbriche più evolute, quelle
gold per intenderci, come Gian Battista Vico, gli indicatori di partecipazione sono
rilevanti, poi la partecipazione dipende molto dagli stabilimenti in cui vi è una
maggiore maturità e quelli in cui c’è una minore maturità, però, non ci sono oggi degli
stabilimenti che sono rimasti fuori dal programma e anche quelli con una minore
maturità hanno delle medie di partecipazione che sono al di sopra delle medie di
214
mercato”. E come afferma Roberto Cortese, responsabile delle relazioni
industriali “la partecipazione delle persone è diversa in base alle condizioni in cui si
trovano sia come località geografica, cioè in cui si trova lo stabilimento, e sia come
modo di operare all’interno dello stabilimento. La parte geografica è nei fatti e non si
può quindi spostare uno stabilimento per cambiare la cultura delle persone, bisogna
saper prendere coscienza di una diversità culturale, lavorarci sopra, poi è chiaro che le
proposte devono essere inserite in un programma ben specifico, dove tutti possono dare
il loro contributo altrimenti sono proposte che rischiano, se non c’è un grande
commitment, rischiano di perdersi e le persone non sono invogliate a dare un loro
contributo”.
La diffusione del World Class Manufacturing all’interno di Fiat Chrysler
Automobiles, che ha richiesto un forte livello di partecipazione e
coinvolgimento individuale, introduce anche grandi trasformazioni nelle
rappresentanza collettiva dei lavoratori. Il sindacato, infatti, sta vivendo
oggi più che mai una fase di notevole trasformazione rispetto alle
esperienze precedenti assumendo delle caratteristiche strutturali nuove,
da organismo di tipo tradizionalmente “conflittuale” a “sindacato
partecipativo”, caratterizzato da forme più accentuate di cooperazione
con il management aziendale, come afferma Roberto Cortese,
responsabile delle relazioni industriali “il rapporto sicuramente è diverso, io
ritengo importante, da parte di tutte e due deve esserci un cambio di passo, nel senso
che non deve essere visto più come un rapporto tipicamente conflittuale
azienda/padrone e sindacato. Il sistema di partecipazione in Fiat è abbastanza
radicato già a partire dagli anni Ottanta, adesso si è evoluto, si è finalizzato ed è
diventato molto più creativo, operativo, nel senso che si discute e si lavora sui problemi
della fabbrica, questo comporta un approccio biunivoco, da parte dell’azienda io credo
che debba essere fatto uno sforzo importante per mettere a fattor comune aspetti della
215
vita di fabbrica che servano ad avere un livello di condivisione e di linguaggio comune
con i propri interlocutori sindacali”.
Alla domanda se l’azienda quindi stia spingendo verso un “sindacato
partecipativo”, Roberto Cortese, risponde così “è una scelta obbligata, io non
credo molto in chi dice che la Fiat con il WCM vuole bypassare il sindacato e avere
un rapporto diretto con i lavoratori, semplicemente perché il rapporto diretto con i
lavoratori non può non esserci nel senso che l’azienda paga dei lavoratori e si aspetta
che facciano un certo tipo di mestiere, poi con il WCM, c’è stato l’interesse reciproco a
mettere le persone nelle condizioni di poter lavorare meglio, è un modo di lavorare
tende ad abbassare i rapporti gerarchici ed avere il direttore che oltre a vestirsi come le
persone che lavorano sulle linee, la direzione è molto più presente in fabbrica. Questo
dal sindacato che vuole essere parte di un progetto, è un salto culturale importante”.
Sembrerebbe, pertanto, che la logica del nuovo metodo spinga nella
direzione di un modello d’impresa della rappresentanza dei lavoratori
proprio per la natura delle sue caratteristiche produttive e proprio perché
si presta meglio ad organizzare delle conoscenze specifiche.
Conoscenze che il sindacato dovrebbe approfondire, come afferma
Roberto Cortese “da parte del sindacato deve essere fatto uno sforzo culturale di
crescita e di apprendimento, un rappresentante sindacale deve sapere che cos è il
WCM, deve sapere quali sono i problemi all’interno della fabbrica, la pluralità poi
dei sindacati non aiuta, questi molto spesso vedono il problema in maniera diversa a
seconda della convenienza o della volontà di tutelare in maniera diversa un lavoratore
piuttosto che un altro, se un problema esiste è un problema e non ha colore”.
Per poter cambiare culturalmente bisogna avere gli elementi giusti,
Luciano Massone da questo punto di vista da delle soluzione pratiche
“occorre training, formazione. Negli Stati Uniti il sindacato ha fatto un Accademy
proprio per formare le sue persone, per renderli dei partecipanti attivi, operano con un
programma di formazione che li rende degli interlocutori credibili. Questi grandi
216
cambiamenti sul piano sindacale non si realizzano poi se non vi è grande commitment,
e commitment per il sindacato sono le segreterie generali, sono i capi intermedi, cioè la
stessa struttura dell’azienda se vogliamo, ma il taglio di strutture che è stato fatto in
azienda non è stato fatto parimenti nel sindacato, è ancora molto gerarchico, io credo
che anche lui potrebbe fare una sana riforma per essere più efficace e per interloquire
territorialmente e per stabilimento al fine di generare la stessa condizione di
partecipazione.
217
5.4 L’impatto del World Class Manufacturing in termini
di partecipazione sulle relazioni industriali
In questa fase di sperimentazione del World Class Manufacturing, la
questione aperta è quella di come operare affinchè si possa riattivare un
gioco interattivo in un contesto in cui le identità dei soggetti partecipanti
(azienda, sindacato e lavoratori) cercano di ritrovare una loro dimensione
e un loro equilibrio. Questa situazione di metamorfosi che sta vivendo la
Fiat Chrysler Automobiles e in particolare Mirafiori mette in discussione
il ruolo delle relazioni industriali, come infatti afferma il responsabile
della Fim-Cisl, Alberto Cipriani “Per molti anni il sindacato è stato abituato a
fare le cose sempre in uno stesso modo, questi cambiamenti organizzativi mettono un
pò in gioco le regole di sempre e allora spingono a modificare le strutture stesse della
contrattazione, i cambiamenti sono sempre ricchi di problemi ma anche di opportunità.
Per ora l’impatto che ha avuto il WCM sulle relazioni industriali è abbastanza
residuale, è tutto un pò in divenire. Sono convinto però che nei prossimi mesi e anni ci
sarà più contaminazione tra il modo di lavorare nelle fabbriche e le relazioni
industriali” 33.
Un cambiamento che mette quindi radicalmente in discussione assetti
consolidati e certezze, ma che assieme al loro carico di trasformazione e
di distruzione, può anche liberare un grande potenziale di rinnovamento
e un ampliamento delle prospettive. Come afferma la segretaria
provinciale della Uilm-Uil, Flavia Aiello “Come tutte le cose nuove, quindi per
il problema che non si conoscono, spaventano. Poi ci deve essere la volontà di
migliorare, non ho detto che ci siamo riusciti e che ci riusciremo ma c’è uno spirito di
miglioramento. E’ un percorso difficile che bisogna iniziare, altrimenti siamo morti. In
Italia siamo partiti in ritardo rispetto agli altri paesi, come la Germania o l’America,
33 Intervista Alberto Cipriani, responsabile FIM-CISL, 2014
218
ma è un grande obiettivo da raggiungere in futuro, io ritengo che se mai si parte mai si
arriva” 34.
Il progetto aziendale d’innovazione organizzativa viene visto dalle tre
sigle sindacali (Fim-Cisl, Fiom-Cgil e Uilm-Uil) nel complesso
favorevolmente, sia pur con sfumature diverse derivanti dalla diversa
concezione del rapporto con l’azienda. Il responsabile della Fim-Cisl,
Alberto Cipriani, afferma “Il WCM è un metodo organizzativo che va a
modificare in profondità tutti i sistemi gestionali e produttivi all’interno di un sistema
aziendale. Il fatto che ci sia un attacco agli sprechi la vedo come una cosa positiva,
soprattutto nella nostra società. Sono due le cose che mi colpiscono particolarmente la
sicurezza, senza la quale non si può fare un processo di eccellenza e la partecipazione
delle persone, le persone messe al centro del processo produttivo e in particolare gli
operai che vengono visti normalmente come quelli che non devono pensare, partecipare,
ma solo obbedire. Queste sono in sintesi le cose che mi colpiscono, bisogna poi vedere
come vengono implementate, tra la teoria e la pratica c’è uno scarto importante, spesso
viene gestito male e quindi di conseguenza le persone lo subiscono al posto di viverlo da
protagonisti e quindi questo può produrre delle conseguenze negative”.
La segretaria provinciale della Uilm-Uil, Flavia Aiello, afferma“ È un
ottimo sistema di lavoro, bisogna avere una grande volontà di partecipazione di
entrambi, nel senso che è orientato rispetto a quello che è il lavorare meglio e con
attenzione, nel senso facciamo i pezzi e li mandiamo avanti questo sistema qui, lo
boccia da subito. Il lavorare attentamente è un salto avanti in quella che è l’attività
produttiva in azienda”.
Il segretario responsabile della Fiom-Cgil, Edi Lazzi, afferma“È una
metodologia di organizzazione del lavoro, banalmente, secondo me ha delle buone
caratteristiche, c’è un idea un po’ più concettuale che riguarda l’organizzazione del
lavoro nel complesso. Una cosa che il sindacato ha detto da un sacco di anni, piuttosto
34 Intervista Flavia Aiello, segretaria provinciale UILM-UIL, 2014
219
che insistere sul lavoratore bisogna guardare un pò il tutto. È evidente che se la mia
postazione è pulita, intanto io lavoratore starò meglio, se i pezzi che devo montare
sull’autovettura sono già sequenziali è meglio, perché vuol dire che farò meno fatica a
cercarli. Il WCM è di per se una cosa positiva, dovrebbe essere applicato correttamente
tenendo conto dell’aspetto e dell’idea che hanno i lavoratori, bisognerebbe ritornare ad
una contrattazione tra i lavoratori tramite le loro rappresentanze sindacali e
aziendali, cosa che al momento non c’è, è la cosa negativa è che fa peggiorare le
condizioni lavorative delle persone. Un altro aspetto è che il WCM non parla mai del
sindacato, il WCM parla dell’azienda e del lavoratore, quindi se dobbiamo andare a
vedere che cosa è effettivamente il ruolo del sindacato nel WCM, e nell’intervenire sul
WCM, nel rappresentare i lavoratori dentro il WCM e dentro la Fiat è nullo” 35.
Nell’ambito del WCM, l’innovazione impatta quindi su vari fronti, sulla
sicurezza, sulle modalità di lavoro derivanti da analisi ergonomiche, sulla
creazione di un ambiente idoneo per le esigenze del lavoratore. Il WCM
implica quindi un vero e proprio mutamento paradigmatico nel modo di
intendere il lavoro, è inoltre richiesto un contributo armonico di tutti i
dipendenti aziendali. L’operaio deve guardare al suo lavoro in modo
nuovo e si deve interrogare su cosa può essere fatto per produrre meglio
con minore fatica, senza spreco. I dipendenti vengono quindi coinvolti
nell’azienda, questi non devono più soltanto fare ma anche pensare.
Per alcune sigle sindacali come Fim-Cisl e Uilm-Uil, il WCM, ha inciso in
maniera positiva maggiormente su alcuni aspetti, come l’impegno di
intelligenza e l’ergonomia del posto di lavoro con l’introduzione del
sistema Ergo-Uas, come afferma Alberto Cipriani: “I lavoratori dicono che
per certi versi aumenta l’impegno d’intelligenza, anche se lo dicono molto di più le
realtà dove il WCM è in una fase più avanzata e molto meno dove non lo è.
Contemporaneamente, dicono anche che la fatica c’è, non diminuisce, riconoscono che è
35 Intervista Edi Lazzi, segretario responsabile FIOM-CGIL, 2014
220
aumentata moltissimo la sicurezza e la salute, alla ricerca delle soluzioni migliori da
un punto di vista ergonomico partecipano anche gli stessi lavoratori, questa è un pò
una novità, nel senso mentre prima la progettazione era ad esclusivo appannaggio dei
progettisti, ingegneri, oggi viene chiesto agli stessi addetti di linea o team leader, che
sanno come avvengono i movimenti, le varie lavorazioni, come sarebbe meglio fare”.
Critica invece per quanto riguarda questi due aspetti è la posizione della
Fiom-Cgil, Edi Lazzi, afferma:
“Più intelligente in assoluto no, anche questa cosa qua che si vuole dipingere il fatto
che l’operaio mette del suo, mette l’intelligenza, sono tutte balle! È propaganda,
assolutamente, anzi possibilmente per l’azienda più sei uomo scimmia e meglio è!
Quando sento parlare gli altri sindacalisti che fanno da apoteosi, cioè ho prendono in
giro se stessi e sono proprio convinti che si stanno prendendo in giro, oppure a chi la
raccontano. Non c’è un elemento in più di intelligenza che i lavoratori mettono sul
lavoro in catena di montaggio, non lo vuole neanche l’azienda. Non è vero che
l’azienda vuole gente più colta, più preparata, si magari la vuole un pò più colta
perché così non deve stare lì troppo dietro a rompersi le scatole a spiegargli una
semplice operazione, però colta fin a un certo punto perché se poi sei troppo colto e
inizi a rompermi le scatole non vai più bene.
Per quanto riguarda il miglioramento delle condizioni di salute e di sicurezza, l’Ergo-
Uas è una metodologia come le altre. La cosa che in Fiat è stata ed è devastante è il
fatto che nel passato c’erano degli accordi che intervenivano direttamente sulle
condizioni di lavoro e sulla metrica del lavoro, accordi che permettevano di stare meglio
e di avere la possibilità tramite l’organizzazione sindacale di intervenire quando
qualcosa non andava, mentre prima il lavoratore non poteva essere saturato più
dell’87% del suo tempo, ora dal momento che la Fiat ha disdetto quelli accordi che le
altre organizzazioni hanno condiviso, il lavoratore può essere saturato fino al 99% del
suo tempo. Oppure prima c’erano 40 minuti di pausa, hanno tagliato le pause di 10
221
montaggio sono fondamentali, importantissimi, vuol dire 10 minuti in meno di
lavoro”.
La Fiat Chrysler Automobiles punta ad arrivare a un modello di
organizzazione del lavoro basato su una forte partecipazione dei
lavoratori. Una partecipazione che per le sigle sindacali resta ancora
molto debole, come afferma il responsabile della Fim-Cisl, Alberto
Cipriani “Il modello partecipativo ancora non si è realizzato, siamo ancora in una
fase che si sta sviluppando, se si fa riferimento ai lavoratori nel processo di
miglioramento continuo, ci sono delle punte avanzate in alcuni stabilimenti dove si è
riusciti ad arrivare ad un buon livello di partecipazione e di coinvolgimento ma sono
ancora abbastanza poche in Europa, quattro in tutto, gli altri sono decisamente più
indietro”.
La segretaria della Uilm-Uil, Flavia Aiello, afferma “E’ debole, ma io lo
attribuisco al fatto che non ci sia il lavoro, stiamo vivendo un periodo di cassa
integrazione, degli investimenti che per mille ragioni, hanno tardato. C’è stato un
rallentamento del programma, se poi uno la teoria non la mette nella pratica, è tutto
da rivedere”. Il segretario responsabile della Fiom-Cgil, Edi Lazzi, afferma
“Oggi c’è il WCM, la qualità totale degli anni Ottanta, di che cosa stiamo parlando?
La qualità totale è di nuovo la campagna della Fiat sulla qualità totale, zero difetti,
il coinvolgimento, non è mai stato coinvolto nessuno. Ripeto il WCM è una cosa
positiva sulla carta ma il suo concretizzarsi non tiene conto dei lavoratori come
portatori di una istanza che a volte può essere differente”.
È indubbio poi, da decenni, che le relazioni sindacali in Fiat Chrysler
Automobiles si basino su un equilibrio precario, dovuto a un sistema di
partecipazione debole della rappresentanza sindacale, come afferma il
responsabile della Fim-Cisl, Alberto Cipriani “Le relazioni industriali sono
un po’ indietro, sarebbe necessario fare di più, utilizzare questo sistema per misurare
in modo più trasparente, equo i vari risultati e le cose che avvengono all’interno della
222
fabbrica. Non ha senso che le cose che avvengono in un azienda non vengano trattate
dalle relazioni sindacali, l’unica cosa che fino ad ora abbiamo fatto ed è stato trattato
nella contrattazione, è un riconoscimento economico a fronte di un risultato dello
stabilimento nel suo insieme, che porta ad assegnare delle medaglie, oro, argento,
bronzo fino ad arrivare al World Class. Alle medaglie viene associato un premio
economico per ciascun lavoratore dello stabilimento, questo è quello che abbiamo fatto
fino ad adesso, l’intenzione è approfondire e andare oltre”.
La crisi del sistema di relazioni sindacali si evidenzia nell’insofferenza
della Fiat Chrysler Automobiles per le regole del confronto sindacale e
conferma la minor attenzione aziendale al tema dei rapporti sociali. Le
tre sigle sindacali ritengono che l’azienda tenda a gestire le cose in
maniera unilaterale e a individualizzare in qualche modo il rapporto con
il lavoratore, come afferma la segreteria provinciale della Uilm-Uil, Flavia
Aiello“L’azienda come tutte le aziende, tendono a fare i propri interessi, dicendo che
solo io ho la verità in tasca, solo io so come fare. L’azienda tende il più delle volte a
comunicare piuttosto che a dialogare. Su questo non andiamo molto d’accordo, non ci
possono essere solo le difficoltà dell’azienda, che capiamo, ma ci sono anche i
lavoratori, su questo facciamo fatica a farlo comprendere”. L’azienda dovrebbe
così riuscire a cambiare radicalmente mentalità, cioè dovrebbe accettare il
sindacato come suo interlocutore, come accompagnatore dei processi,
come afferma il segretario responsabile della Fiom-Cgil, Edi Lazzi “sedersi
e guardarsi negli occhi alla stessa altezza, se invece tu Fiat ti siedi dieci metri sopra
non ci potrà mai essere quella forma di partecipazione vera, ma sarà sempre finta,
sarà una partecipazione sulla carta, semplicemente dettata dalle mode del momento”.
Il conflitto positivo non può essere visto quindi come una
contrapposizione pura, se due persone si siedono di fronte a un tavolo, e
sullo stesso argomento vi sono due punti di vista differenti, ci deve
essere la capacità di trovare due punti di mediazione. Il dialogo è utile se
223
ci sono dei soggetti che si ci ascoltano e che riescono a trovare dei giusti
compromessi. Il sindacato dovrebbe essere visto quindi dall’azienda
come un formidabile strumento da utilizzare, soprattutto per ciò che
attiene alla partecipazione, ovvero la gestione quotidiana delle
problematiche del rapporto tra azienda e rappresentanti dei lavoratori,
attraverso anche il lavoro delle commissioni, ossia quei luoghi in cui si
cerca di discutere le varie problematiche relative all’organizzazione del
lavoro, ma come afferma il responsabile della Fim-Cisl, Alberto Cipriani
“in alcuni stabilimenti funzionano abbastanza, c’è un buon livello di concretezza, non
sono dei luoghi formali dove si ci scambia qualche informazione, esistono proprio dei
casi che vengono affrontati, risolti. Purtroppo in molte realtà questo non avviene, per
varie ragioni, dipende molte volte dalla cultura sindacale ma anche da quella
manageriale, che a mio avviso non considera questi strumenti come qualcosa di utile
per gestire le problematiche quotidiane, gli stessi manager preferiscono fare da soli
senza coinvolgere i rappresentanti, e questo credo che sia profondamente sbagliato ma
fai conti con una cultura che è quella Fiat, che non ha mai investito in relazioni
sindacali serie, come avviene altrove”.
Ambigua in questo momento per quanto riguarda la gestione del
rapporto con l’azienda è la situazione che sta vivendo la Fiom-Cgil, come
afferma Edi Lazzi “c’è una situazione anomala in questo periodo, nel senso che la
Fiom ha deciso di non firmare un accordo alla Fiat, e quindi noi siamo stati esclusi
dal rapporto con la Fiat. Un rapporto che noi ci siamo conquistati con le sentenze e
giudici dall’altro, rapporti di forza che abbiamo con l’alto. La Fiat non coinvolge la
Fiom per questa ragione. Io per quello che vedo non coinvolge neanche gli altri
sindacati. Non c’è dialogo, le commissioni ci sono ma si riuniscono poco e quando si
riuniscono siamo solo alla comunicazione e non è finalizzato a trovare dei punto di
compromesso”.
224
Una Partecipazione concreta della rappresentanza sindacale che in Fiat
ancora non si è realizzata, come sostengono tutti i sindacalisti, Alberto
Cipriani della Fim-Cisl “È tutto da costruire, questo anche per responsabilità del
sindacato, faccio anche un po’ di autocritica, ma soprattutto per responsabilità
dell’azienda”. Flavia Aiello, della Uilm-Uil “Non spinge assolutamente, non ci
stende i tappeti rossi, non ci apre la porta, ci siamo e cerchiamo di parlarci per il bene
dei lavoratori. Per l’azienda se c’è o non c’è il sindacato non gliene importa”.
Edi Lazzi, della Fiom-Cgil “La Fiat sulla carta spinge verso questo sindacato
partecipativo ma in realtà non vuole nessun sindacato. La Fiat il sindacato non l’ha
mai accettato come un soggetto che magari può avere un punto di vista differente, l’idea
è del comando assoluto, mi dispiace dirla così ma è la realtà”.
225
5.5 L’impatto del World Class Manufacturing in termini
di partecipazione sui lavoratori
Con l’introduzione del World Class Manufacturing, l’innovazione più
importante è stata quella di mettere il lavoratore al centro del processo
produttivo. Nessun lavoratore può chiudersi in se stesso perché il WCM
produce e richiede maggiore flessibilità, sia funzionale che mentale. Se ne
ha riscontro soprattutto nella richiesta al singolo lavoratore di individuare
gli intoppi e di risolvere i problemi che sorgono, mentre prima gli si
vietava ogni iniziativa, come afferma l’addetto di linea di Mirafiori
Carrozzeria, Antonella Palumbo “il lavoro sicuramente diventa più intelligente.
Non è più come una volta che ti mettevi lì in catena di montaggio, ti facevi le 8 ore e
facevi sempre quello, non eri tenuto a pensare, oggi ci sono delle postazioni in cui puoi
compilare un modulo, puoi fare appunto una proposta di miglioramento continuo” 36.
A fronte di una partecipativa attiva da parte dei lavoratori, molti
ritengono insoddisfacente le ricompense che da l’azienda a seguito dei
suggerimenti che fornisce il lavoratore per migliorare il lavoro, come
afferma Pino Di Castri, l’addetto di linea di Mirafiori Carrozzeria “delle
magliette o dei gadget che da l’azienda, noi non ce ne facciamo niente. Il lavoratore
propone delle modifiche dove l’azienda risparmia milioni di euro, il lavoratore ha
bisogno di denaro”. Benchè vi sia libertà di proporre delle soluzioni, anche
innovative, molti ritengono che il cambiamento debba passare attraverso
il vaglio di tutta una serie di livelli gerarchici prima che possa essere
implementato, come affermano gli addetti di linea di Mirafiori
Carrozzeria, Antonella Palumbo e Pino Di Castri “si dovrebbe cercare di
ridurre questa burocrazia, attualmente vi è stata una riduzione dei livelli gerarchici,
perché nello stacco dall’operaio al dirigente, vi erano troppo figure”.
36 Intervista Antonella Palumbo, operaia Mirafiori Carrozzeria – Montatura, 2014
226
“All’interno dell’azienda c’è una gerarchia, a volte questa gerarchia interrompe questi
processi perché trovi la persona che non riesce a capire il modo con cui si deve porre al
lavoratore”.
Le novità più cospicue con l’introduzione del WCM, oltre ad essere stata
quella di richiedere al lavoratore una cooperazione intelligente, vale a dire
una “partecipazione diretta”, hanno riguardato l’ambiente di fabbrica nel
suo complesso, dal miglioramento delle condizioni di salute e di
sicurezza, un ambiente di fabbrica luminoso e pulito, come afferma
l’addetto di linea di Mirafiori Carrozzeria, Giuseppe Buscicchio “l’aspetto è
globale della cosa, non solo a livello di postazioni di lavoro ma bensì anche di pulizia,
sicurezza, un contenuto a 360 gradi” 37.
Un metodo di organizzazione del lavoro che ha richiesto a imprenditori e
manager un diverso modo di gestire e di intendere l’impresa e la sua
stessa natura, non soltanto da un punto di vista operativo, l’azienda oggi
deve saper "ascoltare", deve "apprendere", il rapporto tende ad essere
così meno piatto ed impersonale, alcuni lavoratori ritengono che il
rapporto con l’azienda sia cambiato rispetto a quello di dieci anni fa,
come afferma, l’addetto di linea di Mirafiori Carrozzeria, Antonella
Palumbo “ oggi c’è più competenza, sono materie che bisogna studiare, analizzare, e
quindi è utile confrontarsi con chi come noi si occupa dell’aspetto pratico e chi magari
la guarda dal lato tecnico”. C’è invece chi ritiene che il rapporto con
l’azienda sia ancora soggettivo, come afferma l’addetto di linea, Pino Di
Castri “come tutti gli ambienti di lavoro, c’è la simpatia e no, non dovrebbe esserci
però. Ci deve essere un rapporto umano, rispetto a qualche anno fa è migliorato sotto
alcuni punti di vista, sotto altri è diventato più rigido perché dal momento che siamo
in un periodo di crisi a volte la casta è usata come clava sui lavoratori come ricatto”.
37 Intervista Giuseppe Buscicchio, operaio Mirafiori Carrozzeria – Verniciatura, 2014
227
In questo nuovo scenario, in cui l’azienda mostra un maggiore senso di
apertura e a ricercare forme di “individualizzazione”con il lavoratore,
come afferma l’addetto di linea di Mirafiori Carrozzeria, Antonella
Palumbo “molte volte si, è normale che l’azienda cerchi di mettere da parte il
sindacato per avere un rapporto direttamente con il lavoratore”, il sindacato resta
tuttavia per i lavoratori uno strumento imprescindibile per la tutela delle
loro condizioni di lavoro, come afferma l’addetto di linea di Mirafiori
Carrozzeria, Antonella Palumbo “è importantissimo il sindacato. Per noi
lavoratori è uno strumento che abbiamo a disposizione, fa da portavoce” o come
afferma l’addetto di linea di Mirafiori Carrozzeria, Pino Di Castri “il
sindacato ci vuole, deve crescere, se non ci fosse sarebbe molto peggio” 38.
Alla visione sul sindacato i lavoratori riconoscono che in tempi di crisi ci
sia una disaffezione soprattutto da parte dei giovani, alcuni ritengono che
il sindacato vada riformato al suo interno, arrivando magari alla
formazione di un unico sindacato di categoria, anche se vedono questo
possibile percorso come irrealizzabile, altri invece ritengono che il
sindacato porti avanti una sua linea politica, una propria ideologia che
rende difficile così il dialogo con le altre organizzazioni sindacali.
In conclusione, i lavoratori valutano positivamente l’azienda e
l’introduzione del World Class Manufacturing, ritengono che ci sia
ancora molto da fare in termini di partecipazione, in quanto è un metodo
di lavoro che richiede di essere studiato e praticato quotidianamente e
per questo occorre il tempo necessario, occorre soprattutto un rapporto
elastico tra azienda, sindacati e lavoratori, altrimenti come afferma
l’addetto di linea di Mirafiori Carrozzeria, Antonella Palumbo “sono cose
che rimarranno soltanto scritte sulla carta e non si potrà vedere la praticità sul posto
di lavoro”.
38 Intervista Pino Di Castri, operaio Mirafiori Carrozzeria, 2014
228
Sul futuro dell’azienda, i lavoratori si dividono tra chi ritiene che
l’acquisizione di Chrysler sia stata una scelta straordinaria, e chi ritiene
invece che sia stata una scelta di sopravvivenza, come afferma l’addetto
di linea di Mirafiori Carrozzeria, Pino Di Castri “dieci anni fa era impensabile
che Fiat potesse acquistare un’azienda, qualsiasi essa sia, soprattutto americana, è
incredibile” o come afferma l’addetto di linea di Mirafiori Carrozzeria,
Giuseppe Buscicchio “oggi la Fiat che ha comprato Chrysler è stato il massimo,
oggi ci chiamiamo Fiat-Chrysler. Io non penso che questa sia l’ultima operazione che
farà Marchionne, penso che oggi per stare sul mercato ti devi per forza alleare, come le
altre case, se vuoi rimanere sul mercato. Oggi dire che la Fiat ha comprato Chrysler,
mi sento più sicuro a livello lavorativo, se fosse stata solo Fiat per me oggi poteva
essere pericoloso”, e c’è invece chi ritiene che la scelta fatta da Marchionne
sia stata dettata dal sistema politico e governativo, come afferma
l’addetto di linea di Mirafiori Carrozzeria, Antonella Palumbo
“Marchionne ha spostato la parte più importante all’estero, le vetture che fa in
Chrysler le poteva fare anche qui in Italia, e il governo non ha fatto nulla per
mantenere la Fiat qui in Italia, e parliamo del governo Berlusconi”.
Diversa è la situazione per quanto riguarda la mancata implementazione
del World Class Manufacturing tra gli impiegati all’interno della Fiat
Chrysler Automobiles, come afferma l’impiegata delle strutture centrali
di Fiat Chrysler Automobiles, Claudia Di Rosso “il WCM dove sono io non è
entrato, lo conosco perché l’ho un po’ studiato, da me si dovrebbe fare più che altro il
World Class Tecnologies, che poi non è partito tra gli impiegati e non ho capito il
perché” 39. Il modello viene valutato positivamente dall’impiegata,
soprattutto per quanto riguarda l’ergonomia e la sicurezza del posto di
lavoro, tuttavia “potrà rilevarsi un effettivo sistema per ridurre gli sprechi soltanto
39 Intervista Claudia Di Rosso, impiegata strutture centrali Fiat Chrysler Automobiles, 2014
229
quando sarà esteso a tutti gli attori, adesso è entrato nelle fabbriche più nuove e a
livello di officina, ma non tocca altre persone che comunque ci lavorano in fabbrica”.
Dall’intervista si percepisce immediatamente la diversità che caratterizza i
due ambienti di lavoro, quello operaio in cui sembra esserci una
maggiore predisposizione al lavoro di gruppo e quello degli impiegati
dove invece prevale una concezione individualista, come afferma
l’impiegata Claudia Di Rosso “c’è un divario culturale causato dalla differenza
culturale, l’impiegato ha una culturale un pò da arrogante, pensa di potersi risolvere il
problema da solo, l’operaio invece cerca di portare i problemi e di farseli risolvere,
l’impiegato non ce l’ha, proprio per la presunzione. Un altro aspetto è che l’operaio fa
squadra, c’è un concetto d’insieme, tra gli impiegati no”.
Alla visione sull’azienda, l’impiegata ritiene che ci sia una parte
dell’azienda con una mentalità molto propositiva, aperta al cambiamento
e al rinnovamento, e una buona parte di Fiat ancora con una mentalità
chiusa. Molto spesso in commissione l’azienda cerca di interpretare le
cose a suo modo non trovando punti di convergenza con il sindacato,
infatti afferma “facciamo l’esempio della commissione assenteismo, l’azienda ti
convoca ma non ti da dei dati, tu non sai se c’è una maggiore concentrazione di
assenteismo in un’aria piuttosto che in un’altra, non ti da gli strumenti per poter
interagire, tende ancora a manipolare e gestirsi la situazione da sola”.
Per quanto riguarda la presenza del sindacato all’interno dell’azienda,
come strumento di tutela delle condizioni di lavoro tra gli impiegati,
afferma “oggi lo schifano abbastanza, ti parlo dei miei impiegati. A me piacerebbe
tanto un sindacato unitario. Io sono per il sindacalista che lavora in azienda con e per
gli altri, un sindacato alla tedesca, sono fuori dagli schemi dei vecchi sindacalisti, ossia
quelli che sono fuori i cancelli, quelli che vogliono solo farsi vedere o fare carriera”.
Sulle prospettive future e dell’acquisizione di Chrysler, ammette che
nonostante l’azienda giochi la sua partita e faccia i suoi interessi gli
230
stabilimenti sono stati salvati e tutto ciò che è stato messo a tavolino è
stato fatto, anche se al momento vi è una disaffezione generale delle
persone nel vedere Fiat Chrysler Automobiles non più come un’azienda
italiana ma americana.
231
Interviste Rappresentanti Sindacali
Alberto Cipriani (Responsabile FIM-
CISL)
Edi Lazzi (Segretario responsabile
FIOM-CGIL)
Flavia Aiello (Segretaria provinciale
UILM-UIL)
Interviste Rappresentanti Sindacali
Alberto Cipriani
(Responsabile FIM-CISL)
Edi Lazzi
(Segretario responsabile FIOM-CGIL)
Flavia Aiello
(Segretaria provinciale UILM-UIL)
232
Intervista Alberto Cipriani
(Responsabile FIM-CISL )
Mi può raccontare la sua esperienza all’interno del Gruppo Fiat oppure del
sindacato? Qual è stato il suo percorso?
Ho iniziato dalla gavetta. Ho fatto il rappresentante sindacale in azienda. Ad un
certo punto ho deciso, anche spinto dai compagni di lavoro, di candidarmi alle
elezioni. Le prime elezioni delle Rsu si svolsero nel ‘95, e da lì iniziai un percorso di
impegno sindacale proprio a partire dalla fabbrica. Tutto è partito da lì e
l’impegno è cresciuto. Io facevo un lavoro interessante, anche da un punto di
vista professionale. Ma cresceva parallelamente sia l’impegno lavorativo e sia
quello sindacale e quindi, ad un certo punto, le due cose insieme non ci stavamo
più, anche in vista del tempo che era necessario dedicare ad entrambe. Mi è stato
chiesto di fare questa esperienza a tempo pieno nel sindacato e ho cominciato ad
essere un operatore sindacale esterno, che coordina l’attività di vari settori . Ho
seguito sia alcune piccole-medie imprese, al di fuori del mondo Fiat, ma
soprattutto realtà che appartengono al gruppo Fiat, che sono di una certa
consistenza numerica. Negli ultimi anni mi sono occupato anche a livello
nazionale delle questioni sull’organizzazione del lavoro e quindi anche del WCM.
1) Che cos’è il World Class Manufacturing?
Il Wcm è sostanzialmente un programma, un metodo organizzativo che va a
modificare in profondità tutti i sistemi gestionali e produttivi all’interno di un
sistema aziendale. E’ quindi un’esperienza di Lean Production che potrebbe
essere applicata a qualsiasi processo non necessariamente produttivo inteso in
senso stretto. Tant’è che viene implementato anche in banche, diverse da quelle
233
di natura manifatturiera. È quindi un processo di miglioramento continuo, molto
articolato. Vi è l’idea di abbattere, fino ad azzerare, tutti gli sprechi, le perdite e
generare un processo di eccellenza, con un contenimento molto serio dei costi.
Inoltre, si vorrebbero raggiungere degli obiettivi di qualità, di prodotto e di
processo elevatissimi. Tenere insieme queste cose è uno degli obiettivi in generale
dei processi di miglioramento continuo e nel WCM è implementato in maniera
molto strutturata.
2) Come vede il WCM? Qual è la sua percezione?
Da un punto di vista etico, il fatto che ci sia un attacco agli sprechi, la vedo come
una cosa positiva, soprattutto nella nostra società. Una cosa da evitare. Puntare
poi sulla qualità è un'altra cosa che a me colpisce abbastanza: è il primo pilastro
del WCM. Anche la sicurezza, trovo particolarmente interessante da un punto di
vista sindacale e dei lavoratori, perché senza la sicurezza non si può fare un
processo di eccellenza. Qualcuno magari ritiene che la sicurezza è un costo e che
bisognerebbe evitarla. Viene vista come un investimento. Questa cosa, 10 anni fa,
nessuno l’avrebbe detta in questi termini. Un altro punto è la richiesta di
partecipazione delle persone. C’è uno spazio di partecipazione senza la quale non
si riesce a realizzare un processo di eccellenza. Questo mi sembra, anche da un
punto di vista sindacale, antropologico. L’innovazione più importante sono le
persone che devono essere messe al centro del processo produttivo, in particolare
gli operai che, invece, normalmente, vengono considerati come quelli che non
devono pensare, partecipare ma solo obbedire. Queste sono in sintesi le cose che
mi colpiscono. Bisogna poi vedere come vengono implementate. Tra la teoria e la
pratica c’è uno scarto importante che spesso viene gestito male. Quindi, di
conseguenza, le persone lo subiscono al posto di viverlo da protagonisti e ciò può
produrre delle conseguenze negative.
234
3) Il coinvolgimento dei lavoratori è un elemento essenziale data la
vulnerabilità del programma? Che cosa fate per favorire il loro coinvolgimento?
Quali sono i principali strumenti che vengono adottati per motivare/valorizzare
i lavoratori all’interno della nuova organizzazione?
Questo è un terreno da esplorare. Fino ad ora l’azienda ha gestito le cose in modo
unilaterale. Vi sono molte proposte di miglioramento continuo, ma è
impressionante, come tutto sia gestito unilateralmente dall’azienda. Ciò non è
condivisibile per molti versi. Il sindacato sta iniziando ad occuparsene proprio in
questa fase. Fino ad ora l’unica cosa che abbiamo fatto, e che oltre tutto è stato
trattato nella contrattazione, dunque fa parte del contratto, è un riconoscimento
economico a fronte di un risultato dello stabilimento nel suo insieme. In ogni
stabilimento vengono misurate le performance: c’è un indicatore sintetico,
attraverso degli “audit”, e il punteggio sintetico poi produce un premio, una
medaglia che può essere Oro, Argento, Bronzo fino ad arrivare al World Class.
Alle medaglie viene associato un premio economico per ciascun lavoratore dello
stabilimento. Questo è quello che abbiamo fino ad adesso. L’intenzione è
approfondire e andare oltre, ragionare su premi un po’ più organizzati e
strutturati, legati alle idee e ai suggerimenti, da ragionare se a gruppi, a livello di
team, di aree di lavoro o anche a livello individuale. Io non sono propenso ai
premi individuali, anche se capisco che alcune idee possono produrre dei risparmi
molto corposi, ed è giusto che vengono riconosciuti a colui che li ha generati.
Questo, già in alcune aziende tedesche e giapponesi avviene, e si spera di andare
in questa direzione. Di fatto già un po’ è così. L’azienda riconosce delle cifre in
questi casi, però è tutto molto arbitrario, a seconda degli stabilimenti, delle
situazioni, ecc.
4) In seguito all’introduzione del WCM, il modello partecipativo si è realizzato
concretamente o ancora vi è una partecipazione debole?
235
Non si è realizzato. Siamo ancora in una fase che si sta sviluppando. Poi dipende!
Se si fa riferimento ai lavoratori nel processo di miglioramento continuo, ci sono
delle punte avanzate in alcuni stabilimenti dove si è riusciti ad arrivare ad un
buon livello di partecipazione di coinvolgimento. Ma sono ancora abbastanza
poche in Europa. Sono tre gli stabilimenti che hanno ottenuto questi risultati. In
Italia un paio, quattro in tutto, due in Italia, gli altri sono decisamente più
indietro. Abbiamo realizzato una ricerca importante, e questa ricerca dice proprio
questo, ed è emerso quello che dicevo adesso.
5) E da parte del sindacato vi è partecipazione?
Le relazioni sindacali sono un po’ indietro. Sarebbe necessario fare di più!
Bisognerebbe utilizzare questo sistema anche per misurare in modo più
trasparente, equo, più preciso i vari risultati e le cose che avvengono all’interno
della fabbrica, per dare un valore che sia compreso dalle persone, che sia noto a
tutti, meno discrezionale, più oggettivo. Questo farebbe bene anche all’azienda e
noi faremmo il nostro lavoro sindacale; maggiore equità, giustizia e anche per far
tornare ai lavoratori risultati concreti che possono essere in termini economici,
ma anche di altra natura. Quello che è certo è che non ha senso che tutti i
miglioramenti e le cose che avvengono in un’azienda non vengano trattate dalle
relazioni sindacali.
6) Questo proprio perché il sindacato in Italia è istituzionalizzato, quindi vi deve
essere un coinvolgimento?
Si, per anni è stato abituato a fare le cose sempre in uno stesso modo. Questi
cambiamenti organizzativi mettono un po’ in gioco le regole di sempre, e allora
spingono a modificare le strutture stesse della contrattazione. Io lo vedo
interessante! I cambiamenti sono sempre ricchi di problemi e opportunità.
236
7) Forme di disaffezione e di protesta, quali la non partecipazione alle attività
di miglioramento continuo della qualità, l’assenteismo, lo sciopero, vengono
praticate? Quali sono i livelli di assenteismo? Ci sono dei dati?
Si, ci sono dei dati che variano a secondo dello stabilimento. Quando si parla di
Mirafiori, si fa riferimento ad un mondo molto ampio: qui ci stanno 18.000
addetti. Lo stabilimento della carrozzeria di Mirafiori conta circa 5.000 addetti,
tutti gli altri sono sparsi in altre realtà. C’è una struttura molto importante di
ingegneria, commerciale, ecc. in cui vi sono circa 6.000 persone. Ci sono le
meccaniche, ci sono le presse. Non è come gli altri stabilimenti. Se si va a Cassino,
lì producono le auto. Nel caso di Mirafiori ci sono anche quelle che producono le
auto: separiamo lo stabilimento, cosiddetto terminale, quello che fa le auto ed
attualmente ne fa molto poche. C’è la Mito che vende relativamente poco. E’
comunque in corso la ristrutturazione dello stabilimento stesso per andare a
produrre modelli di alta gamma. Quindi parlare dell’assenteismo oggi a Mirafiori
bisogna vedere di che cosa si parla; l’assenteismo nella struttura centrale è molto
diverso da uno stabilimento che sta facendo cassa integrazione o delle
meccaniche. È in corso in questi ultimi anni un ulteriore cambiamento
organizzativo, perché un’azienda che si chiamava Bertone è stata acquisita dalla
Fiat. In quello stabilimento che è vicino Mirafiori vengono prodotti attualmente
due modelli di Maserati. Questo sta lavorando tantissimo e, molti degli
stabilimenti Mirafiori carrozzeria, sono stati trasferiti lì. Questi due stabilimenti,
insieme ad uno più piccolo che fa le scocche, in realtà, sono diventati un tutt’uno
e si chiama “polo produttivo Torino”. Quindi la vecchia Mirafiori carrozzeria, non
esiste proprio più; c’è stato un coinvolgimento organizzativo che è in corso e che
ha prodotto questi cambiamenti. Se parliamo, quindi, di produzione di auto,
parliamo, di polo produttivo Torino, se parliamo, invece, di Mirafiori, come
complesso produttivo e organizzativo, è una cosa molto diversa e ampia. Per
quanto riguarda lo sciopero, se c’è qualche elemento di conflitto, può riguardare
lo stabilimento di Maserati perché si lavora molto, e le persone sono stanche e
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vorrebbero avere qualche riconoscimento in più. Lì c’è stato qualche ragione
conflittuale che ha portato anche a piccoli episodi di sciopero. È importante
riuscire a comprendere che ci sono realtà molto diverse. Pomigliano sta
lavorando, però, c’è tanta gente ancora in cassa integrazione, a Cassino simile,
Mirafiori Carozzeria, Melfi sta facendo un salto produttivo di nuovi modelli però
stabilimenti che lavorano a tempo pieno e che fanno straordinario sono davvero
pochi, sono solo la Sevel la Maserati di Grugliasco (ex Bertone).
8) Secondo lei il lavoro diventa più autonomo e intelligente? oppure soltanto
più gravoso, o forse entrambe le cose insieme?
Non ti do il mio giudizio. Ti dico quello che hanno detto i lavoratori nella ricerca. I
lavoratori dicono che per certi versi aumenta l’impegno d’intelligenza, anche se lo
dicono molto di più le realtà dove in WCM è una fase più avanzata e molto meno
dove non lo è. Contemporaneamente, dicono anche che la fatica c’è, non
diminuisce. Riconoscono che è aumentata moltissimo la sicurezza e la salute e
anche la qualità del prodotto, ecc. Però la fatica, lo stress permangono.
9) Il WCM ha portato ad un miglioramento delle condizioni di salute e sicurezza
del posto di lavoro? A tal proposito, nel quadro del WCM, è stato inserito un
sistema specifico chiamato Ergo-Uas, cosa ne pensa? Ha portato ad una
riduzione della fatica dello stress, e delle malattie di tipo muscolo-scheletrico?
Oggettivamente il fatto di progettare e realizzare di conseguenza delle stazioni di
lavoro con criteri ergonomici, ha diminuito il carico biomeccanico che il
lavoratore subisce. La progettazione delle nuove stazioni di lavoro avviene
utilizzando l’innovazione tecnologica migliore rispetto a quella disponibile al
momento. Se tu utilizzi un azzeratore di peso, o degli avvitatori sono molto più
leggeri di quelli di una volta o utilizzare delle pedane che portano ad una certa
altezza; per cui tu non lavori con le braccia sopra le spalle. Sono tutti una serie di
238
accorgimenti, di innovazione tecnologiche o organizzative che diminuiscono
oggettivamente la fatica e questo si può misurare attraverso delle checklist. Alla
ricerca delle soluzioni migliori, da un punto di vista ergonomico, partecipano
anche gli stessi lavoratori e questa è un po’ una novità, nel senso che, mentre
prima la progettazione era ad esclusivo appannaggio dei progettisti, ingegneri,
oggi viene chiesto agli stessi addetti di linea o team leader, che sanno come
avvengono i movimenti, le varie lavorazioni, come sarebbe meglio fare. Gli viene
chiesto in un fase preventiva, perché ovviamente progettare delle nuove posizioni
di lavoro quando ancora l’auto è in una fase di disegno, quando ci sono più
prototipi, ha dei costi irrisori pari a zero; invece, modificare delle strutture che già
sono state disegnate in un certo modo è impossibile se non addirittura molto
oneroso, e questo processo di co-design anticipato è anche una delle novità del
WCM. Il WCM non interviene solo sulla fabbrica, così come oggi, ma tutte le
conoscenze, tutto il kow-how che si acquisiscono, oggi servono a progettare la
fabbrica del domani, coinvolgendo i lavoratori stessi. Questo è interessante! Il
sistema Ergo-Uas prova a fare esattamente questo: attraverso un software, cioè
attraverso l’uso del virtuale, computer, le immagini possono aiutare tantissimo a
capire abbastanza da vicino la realtà, per immaginarla e cambiarla meglio in
anticipo, perché se lo fai in anticipo puoi farlo, dopo è difficile farlo. In questo
senso, in ordine all’ergonomia, ci sono stati cambiamenti importanti che,
ovviamente, hanno riguardato gli stabilimenti nuovi. Gli stabilimenti che hanno le
linee già lì da 10 anni non hanno potuto beneficiare di tutti i cambiamenti
tecnologici: può implementare alcune cose, ma altre cose strutturali, se li deve
tenere, e quindi i lavoratori non hanno percepito questo beneficio.
Il sistema Ergo-Uas, dato che ha l’ambizione di misurare in modo oggettivo, se
implementato bene dovrebbe garantire una spalmatura del lavoro e della fatica,
del carico equo. Il problema è che la cosa affinché avvenga, bisogna fare le cose
bene, cioè in termini tecnici si parla di saturazione e queste devono essere
calcolate in modo corretto: il tempo assegnato al lavoratore per svolgere le sue
mansioni e il ciclo di lavoro che si ripete “n” volte. Questa è una sfida con
239
qualsiasi sistema. Ergo-Uas ha questi due pregi, uno di avere un’attenzione molto
spiccata sull’ergonomia che tra l’altro, andando a misurarla, produce una
maggiorazione di tempo, un tempo di riposo aggiuntivo se il carico meccanico è
più elevato; l’altra è quella di spalmare la fatica, il lavoro più equo possibile, a
bilanciarlo tra le persone. Altri sistemi lo fanno anche, per come ho visto io, dal
momento che ho visitato le fabbriche in Germania, applicano Ergo-Uas da
tantissimi anni e ha un equità abbastanza garantita. Il problema sono alcune
postazioni che, per loro natura e per come è conformata l’automobile, restano
complicate da modificare e lì si può soltanto intervenire organizzando, magari,
assegnando più tempo, ruotando, ecc.
10) Qual è la situazione attuale all’interno del gruppo rispetto alla
sperimentazione del WCM nei vari stabilimenti? Perché alcuni stabilimenti sono
più avanti e altri no, dipende dalla capacità dei lavoratori, dal management
aziendale?
È una scelta del sistema. Il sistema è strutturato così, anche se la logica in Fiat è
stata quella di un’applicazione top-down. C’è un forte “commitment” della
dirigenza e poi viene esteso a tutta la fabbrica, non però proprio a tutti, ma si va
aree modello, si va per sperimentazioni successive. Prima si sceglie una zona
attraverso dei criteri normalmente, attraverso dei criteri magari la zona più
critica e da quella si procede una volta che le cose funzionano ad estendere in
altre aree e zone fino a convincere tutto il “plant”. E così vale adesso per i vari
“plant”che non sono partiti tutti insieme, ma abbastanza insieme. Qualcuno ha
fatto un po’ da lepre, come si dici in gergo. Il primo a sperimentare il WCM è
stato Mirafiori e gli altri, la Fiat Industrial dopo.
11) Qual è il tasso di sindacalizzazione?
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A livello generale, in Italia sul 30% ovvero, 1/3 dei lavoratori sono iscritti al
sindacato, però l’85% vota all’elezione dei rappresentanti. Per sindacalizzazione si
intende l’iscrizione al sindacato, che va a misurare la rappresentatività. Invece, in
termini di rappresentanza, abbiamo percentuali molto elevate di partecipazione
al voto, il 95%.
12) Che impatto ha avuto il WCM sulle relazioni industriali?
Per ora abbastanza residuale, a parte il tema delle medaglie. E’tutto un po’ in
divenire. Però sono convinto che nei prossimi mesi e anni ci sarà più
contaminazione tra il modo di lavorare nelle fabbriche e le relazioni industriali.
13) Qual è il rapporto con l’azienda? Siete interpellati? Il sindacato ha la
possibilità di discutere o deve sempre scendere a patti con l’azienda? Qual è la
dialettica dei problemi del dialogo con l’azienda?
C’è un sistema partecipativo in essere all’interno della fabbrica. Ci sono delle
commissioni, esistono dei luoghi dove quasi quotidianamente vengono utilizzate
per discutere le varie problematiche relative all’organizzazione del lavoro, della
saturazione; poi ci sono delle commissioni specifiche per la salute e la sicurezza; ci
sono delle commissioni che si occupano di servizi aziendali, mensa, trasporti,
varie problematiche interne. Quindi, il sistema di relazioni, anche quotidiane
all’interno dell’azienda esiste, così come esiste un sistema di relazione con il
territorio a livello nazionale. Tieni conto che in Fiat le relazioni sono gestite a
livello nazionale, soprattutto, c’è una forte centralizzazione nella fase di
contrattazione, per ciò che riguarda la quotidianità, la gestione partecipativa
esistono questi strumenti contrattuali.
241
14) Funzionano effettivamente o il coinvolgimento del sindacato è solo
formale? Nel senso che l’azienda riferisce le cose che ha già stabilito, cioè vi è
un predominio dell’azienda sul sindacato?
Più o meno, in alcune stabilimenti funzionano abbastanza. C’è un buon livello di
concretezza per quanto riguarda il lavoro delle commissioni. Non sono dei luoghi
formali dove si ci scambia qualche informazione, cioè dove si ci incontra una
tantum, ma esistono proprio dei casi che vengono affrontati, risolti. Purtroppo, in
molte realtà questo non avviene, per varie ragioni. Ciò dipende molte volte dalla
cultura sindacale, ma anche da quella manageriale che, a mio avviso, non
considera questi strumenti come qualcosa di utile per gestire le problematiche
quotidiane.
Non si considera nell’interlocuzione qualcosa che è utile, per gestire i problemi,
avere degli strumenti. A volte c’è un “gap”, un defict di capacità e conoscenza da
parte dei rappresentanti sindacali che noi paghiamo poi e non è sempre colpa dei
manager; altre volte gli stessi manager preferiscono fare da soli senza
coinvolgere i rappresentanti, e questo, credo sia profondamente sbagliato, ma fai
conti con una cultura che è quella Fiat, che non n’è che abbia mai investito in
relazioni sindacali serie, come avviene altrove.
15) Non c’è mai stato un buon rapporto con il sindacato?
È un rapporto politico, non concreto, non legato al lavoro, legato più ad aspetti di
ordine ideologico.
16) Secondo lei, con l’implementazione del WCM, l’azienda sta cercando di
“individualizzare” sempre di più il rapporto con il lavoratore? Senza
l’intromissione del sindacato?
242
Si, cerca di individualizzare, secondo me, una fabbrica senza sindacato produce
molto problemi, ma io sono di parte perché sono un sindacalista.
Parlando di processi di miglioramento continuo, il sindacato è ovviamente un
sindacato partecipativo, potrebbe essere uno formidabile strumento da utilizzare
per l’azienda. Quest’ultima paga dei consulenti esterni per farsi osservare da
qualcuno all’esterno, proprio per andare oltre il conformismo aziendale. Quindi
penso che le relazioni sindacali, proprio nell’ottica dei sistemi di miglioramento
continuo, possano avere un ruolo diverso rispetto al passato, in ruolo
all’organizzazione. Poi questo non sostituisce completamente la contrattazione
perché ci sarà sempre uno spazio di contrattazione che avverrà ogni tanto, in cui
si decide magari anche di litigare, si decide di cambiare alcune regole, però, per
ciò che attiene alla partecipazione, ovvero la gestione quotidiana delle
problematiche del rapporto tra azienda e rappresentanti dei lavoratori, credo che
il sindacato possa avere un ruolo utile all’azienda stessa. Questo in Fiat non c’è
ancora, non c’è questa visione che consente di far fare un salto di qualità alla
partecipazione.
17) Quindi, secondo Lei, non c’è ancora questo “sindacato d’impresa” o
partecipativo?
No, è tutto da costruire. Questo anche per responsabilità del sindacato. Faccio
anche un po’ di autocritica, ma soprattutto per responsabilità dell’azienda.
18) Se questo dovesse avvenire, potrebbe tradursi in un sindacato al servizio
dell’azienda?
Questo è un rischio! In Giappone è un po’ così. Il rischio dell’aziendalismo c’è,
però il problema è che io, da tantissimi anni, sento dire che il sindacato deve
essere più vicino al lavoratore, dove è il luogo di lavoro. Poi, però, magari rischi di
sentirti dire che sei aziendalista. È chiaro che i rischi ci sono, però, in questa fase
243
storica un sindacato solo politicizzato, che ha delle istanze che non tengono conto
del contesto lavorativo di quell’azienda, non ha più spazio. Tu sei costretto ad
essere lì e provare a tutelare i lavoratori partendo dalla loro situazione concreta,
sennò tutto il resto rischia di non incidere per niente. Questo penso sia una scelta
obbligata. Il rischio dell’azienda c’è, bisogna adottare qualche contromisura che
venga in aiuto. Io non lo vedo così complesso da gestire.
19) Qual è il suo rapporto con le altre organizzazioni sindacali? Cercate un
dialogo?
Assolutamente si! Uno dei nostri problemi in Italia è quello di avere troppe sigle
sindacali. Si è più preoccupati a litigare con il proprio collega che con l’azienda e
questo è un altro tratto culturale che dovremmo superare. Al lavoratore non
interessa l’organizzazione, a volte neanche lo sa, ma interessa che tu,
sindacalista, sia in grado di risolvere il problema, di tutelarlo, di rappresentarlo.
Poi non è vero che ci sono ancora molti lavoratori che sono ideologicamente
affezionati, perché c’è una visione un po’ politica del sindacato, anche se la
stragrande maggioranza dei lavoratori non la pensa più così. Il fatto che noi
abbiamo più un rapporto conflittuale con le altre organizzazioni che di
collaborazione, non va a favore del sindacato stesso. Io sarei per il superamento
di tutte queste barriere. Troppe sigle sindacali. Rischiamo il modello francese, un
sindacato poco rappresentativo e istituzionale. Io credo che serva di più un
sindacato rappresentativo, che sta lì, conosce i problemi, piuttosto che tanti
sindacati.
20) Il ruolo delle Rsu che hanno potere di contrattazione, alla fine che fanno?
Come si comportano?
Il realtà non hanno grande potere di contrattazione. Nello schema del contratto
Fiat svolgono una “gestione partecipativa”. Magari alcune cose le contrattano
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anche, tipo le ferie, il calendario annuo, ma non è che possono contrattare, in
quanto anche questo è uno schema vecchio. Più che altro devono gestire e perciò
gli vengono affidati degli strumenti. Hanno un impianto partecipativo e devono
farlo funzionare. Esso è un lavoro imponente, però l’idea della contrattazione
continua appartiene al passato. Che tu sei lì ad usare il micro-conflitto per ogni
volta fare qualcosa, nello schema partecipativo questo si chiama gestione
partecipativa. Non è che ogni volta rivedi il contratto, le regole, perché la
contrattazione è questa: le regole le scriviamo per tre anni. Poi sono quelle non è
che ogni giorno ci mettiamo a discutere che regola usiamo, perché questa è
proprio la pecca italiana che facciamo le regole e poi non le rispettiamo, per poi
discuterle non ha senso. Le regole si scrivono, dopo di che ci sono degli strumenti
e delle strutture per farle funzionare, perché servono ad affrontare questa e la
partecipazione.
21) Come avviene la contrattazione? Chi negozia? Che cosa viene negoziato?
La contrattazione avviene soprattutto a livello nazionale. C’è un contratto che
definisce le regole, ovviamente in stretto rapporto con i vari territori, i
rappresentanti di fabbrica; cioè un elaborazione che ciascuna organizzazione fa
al suo interno e che poi vengono messe insieme producendo un documento che si
chiama “piattaforma”, in cui poi si discute con l’azienda. L’azienda ha poi la sua
piattaforma che si confronta con la nostra e si litiga, e si prova trovare una
soluzione che si chiama contratto.
22) Secondo lei, ci stiamo avviando verso il decentramento della contrattazione
collettiva e delle relazioni industriali? Come valutate la scelta di un contratto a
livello aziendale, unico dell’auto?
No, ci possono essere anche degli spazi di contrattazione a livello territoriale,
però tu hai uno schema di contrattazione che prevede varie cose, alcune generali
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altre più dedicate, specifiche. La gestione poi dei problemi si chiama
“partecipazione”. Ma non c’entra la contrattazione. Spesso noi confondiamo le
due cose pensando che siano un'unica cosa. E’ un salto, un cambiamento
culturale che ancora non abbiamo fatto e io ritengo che sia fondamentale.
Chiaro che io mi riferisco ad una grande impresa globale, anzi, addirittura noi
potremmo pensare ad una contrattazione globale e questo si mi piacerebbe: un
contratto mondiale, unico del gruppo Fiat Chrysler e poi alcune cose definite a
livello locale. Ormai siamo nel mondo. Il WCM è un sistema globale. Loro
utilizzano lo stesso linguaggio; ciò che avviene a Mirafiori avviene anche in Cina,
in quanto utilizzano gli stessi termini. Quindi, se noi guardassimo a questi nuovi
sistemi, dovremmo cambiare anche la nostra impostazione e a me piacerebbe
avere uno sguardo più globale che poi scende nel dettaglio. Però capisco che
questo vale per un gruppo, una multinazionale come può essere adesso Fiat
Chrysler. Se pensi ad una piccola media-impresa le cose sono diverse. Lì avrei un
po’ di dubbi se lasciare tutto solo a livello aziendale, in quanto, in una piccola
realtà, il potere che hanno i sindacati territoriali può essere molto relativo e c’è il
rischio di molta frammentazione, allora lì bisogna ragionarci un po’ meglio.
Servono delle regole che preservino un quadro più ampio, generale che potrebbe
essere un contratto dell’industria, e poi scendere a livello nazionale. In Fiat, il più
viene gestito a livello nazionale, però in questo contratto si tiene conto delle varie
realtà. Penso si possano trovare delle forme per venire incontro ad esigenze
diverse. Marchionne ha adottato un contratto specifico perché dice: “Io cosa
c’entro con la siderurgia, informatici, discutiamo di quello che ci interessa”.
Questo, Volkswagen l’ha fatto parecchio tempo fa. Io dico che sarebbe
interessante trovare delle forme più intelligenti per dare delle risposte anche sul
piano locale, però in un contesto contrattuale nazionale.
23) Con le vertenze di Pomigliano e Mirafiori, che cosa è cambiato? Cancellano
diritti e garanzie per i lavoratori?
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No, non cancellano diritti e garanzie per i lavoratori, anzi ne aggiungono
qualcuno, ad esempio, il sistema Ergo-Uas, ovvero il diritto del lavoratore a far
controllare la propria postazione di lavoro, cosa che prima nei contratti Fiat non
c’era. Sono state modificate delle tutele, è stato modificato il regime delle
flessibilità. Per quanto riguarda gli orari di lavoro, però, quello che ti dicevo
prima, la nostra idea è che la contrattazione, intesa come attività quotidiana.
Invece, qui si pensa ad un sistema in cui la contrattazione la fai “una tantum” e
poi usi la partecipazione per la gestione quotidiana.
24) Secondo Lei, la costituzione della New Company ha un fine antisindacale?
Dal momento che quest’ultima non aderendo a Confindustria rende
inapplicabili non solo i contratti nazionali ma anche quelli interconfederali sulla
rappresentanza sindacale?
È un po’ datata, perché non c’era il contesto giuridico e anche contrattuale che
non consentiva alla Fiat e Marchionne di fare alcune operazioni. C’era dentro
Confindustria e ora non è più necessario. Infatti, la “New-co” non esiste più.
25) Negli USA la contrattazione avviene a livello aziendale invece che a livello
nazionale, è possibile secondo Lei un’analoga strada anche in Italia dove vi
sono sindacati che collaborano e altri invece dissenzienti?
Gli Stati Uniti sono una struttura federale, quindi è molto diverso. In Germania
non esistono i contratti nazionali così come li trattiamo noi, perché gli Stati Uniti
sono federali, ma esiste una struttura basata sui “Land”, e quindi è una ragione di
carattere giuridico. Poi ci sono norme sul lavoro molte diverse tra l’Italia, Stati
Uniti e Germania. Io credo che, pensando a Fiat, non vedo nessun problema per
una contrattazione aziendale, perché in realtà per noi è come se fosse un
contratto nazionale, non è cambiato nulla. Si chiama in un altro modo, è un
contratto di fatto nazionale, specifico perché riguarda solo quel gruppo di
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lavoratori ma è un contratto di fatto nazionale perché Fiat ha stabilimenti in tutte
le regioni italiane che riguarda 86.000 persone sparse sul territorio. Pensando al
resto, secondo me, non è che non si può rinunciare al contratto nazionale, l’unica
cosa è che è necessario garantire, pensando com’è la struttura produttiva
italiana con troppe piccole imprese che non avrebbero la forza di fare la
contrattazione. Bisogna garantire comunque un livello di base per tutti e questo è
importante. Se lo fai attraverso un contratto nazionale oppure attraverso dei
contratti di settore o di territorio, non è che mi scandalizzo. Rinunciare al
contratto nazionale e fare solo quello aziendale è una cretinata in Italia, va bene
per Fiat, ma per le piccole-medie imprese, porterebbe ad un impoverimento della
contrattazione e quindi dei lavoratori.
26) Cosa ne pensa dell’acquisizione di Chrysler?
Chrysler è stata un operazione incredibile. La Fiat ha salvato Chrysler e la Chrysler
ha salvato Fiat. Chrysler l’ho visitata nel 2009, era un azienda morta, non
sapevano fare le auto, abbandonati a se stessi. Senza l’operazione la Fiat non ce
l’avrebbe fatta. Non è che adesso ce l ha fatta solo perché si chiama Fiat-Chrylser,
la sfida è aperta, difficile e complicata. Oggi, per competere nel mondo e per
produrre automobili, sono necessarie alcune condizioni: una di queste è quella di
essere grandi, di avere una massa critica importante e spalmare i costi di
un'unica piattaforma su tantissime vetture. L’operazione Fiat-Chrysler ha
consentito di realizzare, almeno in linea teorica, questa massa critica,ma ora
dipende dal mercato. Mel mondo, la Toyota e Volkswagen sono quelli che hanno
ottenuto importanti risultati. Anche se ora nessuno può sentirsi al sicuro, è tutto
in divenire, in quanto chi è più bravo riesce a vincere. È una competizione
continua. Si ha avuto l’opportunità di allargare ad altri mercati. Le Maserati che
vengono prodotte qui a Grugliasco, vengono vendute nella gran parte dagli Stati
Uniti, in Cina. Senza Chrysler non si potrebbero vendere queste Maserati negli
248
Stati Uniti, senza la rete commerciale di Chrysler non si farebbero tutte queste
migliaia di auto che costano 80-160 mila euro ciascuna.
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Intervista Edi Lazzi
(Segretario responsabile FIOM-CGIL)
Mi può raccontare la sua esperienza all’interno del Gruppo Fiat oppure del
sindacato? Qual è stato il suo percorso?
Il mio percorso è che semplicemente sono arrivato lì grazie alla FIOM-CGIL. Sono
un funzionario della FIOM e lo facevo già da un po’ di anni. Poi, ogni tanto, noi
ruotiamo nei vari territori, anche perché se stiamo sempre nello stesso posto,
dopo un po’, uno, da tutto per scontato di aver già conosciuto tutti, e quindi ogni
tanto ruotiamo. E nella rotazione io sono arrivato lì a Mirafiori, e per la FIOM
sono arrivato alla carrozzeria che di Mirafiori è il pezzo più grosso e poi
successivamente sono diventato il segretario responsabile di tutto il sito di
Mirafiori.
1) Che cos’è il World Class Manufacturing? Come vede il WCM? Qual è la sua
percezione?
È una metodologia di organizzazione del lavoro. Banalmente, secondo me, ha
delle buone caratteristiche, nel senso che c’è una filosofia di fondo che parte dal
presupposto che più il lavoro è organizzato in maniera strutturata, scientifica, in
maniera che tutto sia al suo posto meglio, è per la produttività. Diciamo che c’è
una logica che spinge molto, non sullo sfruttamento semplicemente del lavoro,
quindi vai più veloce, ma c’è un idea un po’ concettuale che riguarda
l’organizzazione del lavoro. Molte delle cose, e con questo non voglio svilire il
WCM, sono cose di buon senso. Altra cosa che il sindacato ha detto da un sacco
di anni, piuttosto che insistere sul lavoratore bisogna guardare un po’ il tutto. È
evidente che se la mia postazione è pulita, intanto io, lavoratore, starò meglio, se
i pezzi che devo montare sull’autovettura sono già sequenziali, è meglio, perché
vuol dire che farò meno fatica a cercarli. Se nella filosofia aziendale c’è l’idea di
250
andare a ricercare gli sprechi, ridurre gli sprechi e per quella via, poter abbassare
il prezzo del prodotto ci da più possibilità di rimanere sul mercato. Quind, sotto
questo punto di vista, il WCM è una cosa positiva. Arriva da lontano, non l ha
inventato la Fiat il WCM, c’era il kaizen, il WCM è una forma di evoluzione e di
adattamento del kaizen giapponese alla realtà Fiat.
2) Come si inseriscono i lavoratori nella nuova organizzazione? Cosa cambia per
loro?
Per loro cambia poco e nulla, perché in realtà c’è una discrepanza. Questo, sono i
lavoratori che c’è lo raccontano, tra ciò che è il WCM, cioè rispetto al manuale del
WCM e poi come viene applicato concretamente in Fiat. La Fiat piano piano sta
cambiando, ma ha, però, un entourage culturale che si porta dietro da un po’ di
anni e che la gerarchia aziendale ha tramandato di generazione in generazione
rispetto ai responsabili delle officine. Che poi alla fine, al di là di quello che viene
detto dall’alto, l’importante è fare i pezzi, quindi traduco: magari i lavoratori
dicono qui c’è un problema, il capo risponde tu non ti preoccupare comunque vai
avanti, che è un contraddizione di termini. Il WCM come principio è: se c’è
qualcosa che non va bisogna segnarla e intervenire nell’immediato. Invece,
troppo spesso ancora adesso, quando ci si trova in difficoltà all’interno
dell’officina, quando il lavoratore fa presente che ci sono delle cose che non
vanno, troppo spesso la risposta da parte del diretto capo è tu non ti preoccupare
comunque vai avanti. C’è questa idea che la produzione deve essere spinta, nel
vero senso della parola, quindi la sua applicazione. Adesso ho fatto un macro
esempio ne potrei fare altri, è ancora zoppicante. La fabbrica è più pulita,
menomale! Santo Dio! Le fabbriche dell’immaginario collettivo, quelle buie, dove
c’erano le scintille non ci sono più. Qualcuna ancora sì, di quelle piccole, ma delle
multinazionali, delle aziende moderne. Non ci sono più queste fabbriche, sono
quasi tutte sufficientemente pulite. Il WCM spinge molto in questa direzione,
infatti, sotto questo punto di vista, c’è sicuramente un miglioramento, c’è un
251
miglioramento delle condizioni ambientali. Diciamo che rispetto alle cose che il
WCM dice, la sua applicazione c’è ancora molto strada da fare, anche perché c’è
la mentalità ancora spinta in Fiat. Alla fine, il peso della gerarchia aziendale c’è e
si fa sentire. Un altro esempio, i suggerimenti di miglioramento. Molte volte
questi o, non vengono presi proprio in considerazione e quindi sottovalutati,
oppure sono suggeriti dai capi dell’azienda, che cosa devono scrivere nei
suggerimenti, quanti ne devono mettere e poi magari riescono anche a pilotare
quattro premi che vengono dati. Quindi ci sono due lati della medaglia del WCM,
una che è sicuramente positiva altro che ha sicuramente ancora un aspetto
chiaro-scuro.
3) Il coinvolgimento dei lavoratori è un elemento essenziale data la
vulnerabilità del programma? Che cosa fate per favorire il loro coinvolgimento?
Quali sono i principali strumenti che vengono adottati per motivare/valorizzare
i lavoratori all’interno della nuova organizzazione?
Queste cose ci sono, ma le organizza l’azienda. Rispetto al ruolo del sindacato e
appunto dei lavoratori, no al momento non ci sono. C’è una situazione anomala
in questo periodo, nel senso che la FIOM ha deciso di non firmare un accordo alla
Fiat, e quindi noi siamo stati esclusi dal rapporto con la Fiat. Un rapporto che noi
ci siamo conquistati con le sentenze e giudici dall’altro, rapporti di forza che
abbiamo con l’alto. La Fiat non coinvolge la FIOM, per questa ragione. Io, per
quello che vedo, non coinvolge neanche gli altri sindacati. L’idea della Fiat del
sindacato è una cosa che deve essere funzionale, strumentale al suo interesse. Il
sindacato come accompagnatore dei processi. Nel momento in cui il sindacato
inizia, in qualche modo, a dire alla Fiat anche su cose che dovrebbe la stessa
condividere, come il WCM, e vuole essere davvero protagonista, portatore di un
idea che magari vuole essere anche parzialmente differente da quello che pensa
l’azienda ma che può essere in qualche modo lo specchio di quello che pensano i
lavoratori, la Fiat non lo vuole.
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4) Il sindacato non viene visto quindi come parte integrante?
No! Poi, un altro aspetto è che il WCM non parla mai del sindacato. Il WCM parla
dell’azienda e del lavoratore. Quindi, l’organizzazione sindacale entro questo
meccanismo, in realtà, non c’è neanche. Poi, ovviamente all’azienda e ai
sindacati, che in qualche modo voglio semplicemente accompagnare i processi, fa
comodo darsi una reciproca affidabilità per accreditarsi. Ma se dopo dobbiamo
andare a vedere che cosa è effettivamente il ruolo del sindacato nel WCM, e
nell’intervenire sul WCM, nel rappresentare i lavoratori dentro il WCM e dentro la
Fiat, è nullo.
5) In seguito all’introduzione del WCM, il modello partecipativo si è realizzato
concretamente o ancora vi è una partecipazione debole? sia da parte del
sindacato che da parte dei lavoratori.
La partecipazione è debole per le cose che dicevo prima. Per arrivare a quello che
ha sulla carta la stessa FIM, di strada bisogna farne tanta. Anzitutto,
bisognerebbe che la Fiat decidesse radicalmente di cambiare mentalità, e che è
quello che dicevo prima, ovvero quello di accettare il sindacato come un tuo
interlocutore, che si siede e ti guarda negli occhi alla stessa altezza. Se invece tu
pensi Fiat, che il sindacato non è un tuo interlocutore e che quando ti siedi, tu
Fiat, sei seduta dieci metri sopra, non ci potrà mai essere quella forma di
partecipazione vera, sarà sempre finta, sarà una partecipazione sulla carta,
semplicemente dettata dalle mode del “momento”. Oggi c’è il WCM, la qualità
totale di qualche anno fa, degli anni ottanta … Ma di che cosa stiamo parlando?
La qualità totale è di nuovo campagna della Fiat sulla qualità totale, zero difetto,
il coinvolgimento, non ne mai stato coinvolto nessuno. Se allora il cambiamento
ci deve essere, questo cambiamento deve essere reale. Ripeto il WCM sulla carta
è una cosa positiva, come dicevo prima, tra l’altro, una cosa che il sindacato ha
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già detto da anni, in Fiat e altrove. Adesso piano piano anche le aziende arrivano,
ma il concretizzarsi di questo WCM non tiene conto del sindacato e dei lavoratori
come portatori di un’istanza che, come dicevo prima, può essere differente.
Occorre un profondo cambio di mentalità. Tra l’altro il conflitto positivo non può
sempre essere visto come contrapposizione pura: se due persone si siedono di
fronte a un tavolo, e sullo stesso argomento hanno due punti di vista differenti,
devono avere la capacità di trovare dei punti di mediazione. Se stiamo parlando
di organizzazione del lavoro, è evidente che a tavolino gli ingegneri che
progettano il lavoro, il WCM, che dalle direttive su come determinate cose
devono essere fatte. Hanno un loro punto di vista. Gli operai, nella catena di
montaggio, ne hanno sicuramente un altro, ma non perché gli uni o gli altri sono
più cattivi, perché fanno due cose differenti: quello che vede l’ingegnere non lo
vede l’operaio e quello che vede l’operaio non lo vede l’ingegnere. Bisognerebbe
avere la capacità di stare intorno a quel tavolo e capire che se l’operaio o il
sindacato che rappresenta gli operai ti stanno dicendo che quella cosa fatta così
non va bene e si potrebbe fare in un altro modo. Bisognerebbe dargli ascolto,
bisognerebbe trovare dei punti di convergenza, cosa che ti assicuro in Fiat non
accade mai!
6) Forme di disaffezione e di protesta quali la non partecipazione alle attività di
miglioramento continuo della qualità, l’assenteismo, lo sciopero, vengono
praticate? Quali sono i livelli di assenteismo? Ci sono dei dati?
I livelli di assenteismo, al momento, credo che siano intorno al 5%, poi bisogna
vedere che cosa si intende per assenteismo. La Fiat dà dei dati che sono
comprensivi delle persone che sono in malattia, anche di quelle che sono in ferie,
in maternità. Teoricamente non si può immischiare. Se parliamo di assenteismo a
livello di malattia abbiamo dati inferiori. Gli operai che si mettono in mutua per
protestare contro l’azienda ci sono, ma sono una minoranza, perché, pensare che
la malattia e la mutua siano usati in maniera impropria dalla stragrande
254
maggioranza dei lavoratori, è una sciocchezza. La stragrande maggioranza dei
lavoratori sta in malattia quando sta male e sta in malattia, magari, quando non
sta male, ma in logoro dalle condizioni di lavoro. La fabbrica è pulita e luminosa
ma lavorare in catena di montaggio è dura, fanno operazioni che stanno sotto il
minuto, quindi vuol dire che per ogni minuto della loro vita quei lavoratori
ripetono lo stesso movimento e lo fanno per 8 ore al giorno per 5 giorni la
settimana per 22 giorni al mese per 365 giorni l’anno. Se la si vede da
quest’ottica c’è quasi da impazzire. Quindi, io non mi scandalizzo se un operaio
dopo 3 mesi di lavoro consecutivo, anche se non sta male, va dal medico e dice,
mi sento un po’stanco ed esaurito. Non fa l’ingegnere, non sta seduto dietro una
scrivania. Secondo me è legittimato a chiedere dei giorni, questo però non si può
confondere con il fatto che i lavoratori non hanno voglia di lavorare o che usano
la mutua come protesta nella generalità dei casi. Quindi lì, l’assenteismo è
fisiologico e delegato alle condizioni di lavoro. È normale che un operaio chiede
una mutua più di un ingegnere. Io vorrei vedere il contrario, se un ingegnere lo si
prende e lo si mette in catena di montaggio, improvvisamente, fa più mutua di
quel lavoratore che ha sempre lavorato in catena di montaggio, e allora di che
cosa stiamo parlando?
7) Secondo lei il lavoro diventa più autonomo e intelligente? oppure soltanto
più gravoso, o forse entrambe le cose insieme?
Più gravoso dipende dalla tempistica che viene applicata, quanto tempo tu devi
fare un’operazione. Più intelligente in assoluto no! Anche questa cosa qua si
vuole dipingere il fatto che l’operaio mette del suo, mette l’intelligenza, sono
tutte balle! È propaganda assolutamente, anzi, possibilmente per l’azienda: più
sei uomo scimmia è meglio è! È così! Bisogna raccontarsi le cose come sono.
Quando sento parlare gli altri sindacalisti che fanno da opoteosi, cioè, o
prendono in giro se stessi e sono proprio convinti che si stanno prendendo in giro,
oppure a chi la raccontano. Non c’è un elemento in più di intelligenza che i
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lavoratori mettono sul lavoro in catena i montaggio e non lo vuole neanche
l’azienda. Non è vero che l’azienda vuole gente più colta, più preparata. Sì,
magari la vuole un po’più colta perché così non deve stare lì troppo dietro a
rompersi le scatole a spiegargli una semplice operazione, però colta fino a un
certo punto, perché se poi sei troppo colto e inizi a rompermi le scatole non vai
più bene. Sono delle forzature, e poi di nuovo stiamo parlando di una tipologia di
lavoro in cui oggettivamente, cosa vuoi mettere della tua testa, quando devi fare
la stessa operazione, un po’ di rispetto per delle persone che fanno un lavoro che
è dignitoso ma che, nei contenuti, è quello che è. Valorizzarlo così astrattamente,
io penso che sia anche mancanza di rispetto nei riguardi di chi lo fa veramente.
8) Il WCM ha portato ad un miglioramento delle condizioni di salute e sicurezza
del posto di lavoro? A tal proposito, nel quadro del WCM, è stato inserito un
sistema specifico chiamato Ergo-Uas, cosa ne pensa? Ha portato ad una
riduzione della fatica dello stress, e delle malattie di tipo muscolo-scheletrico?
L’Ergo-Uas è una metodologia come le altre, che ti scompone in tempi preordinati
i movimenti e vengono applicati. Non mi sento di esprimere neanche un giudizio,
è una cosa così tecnica. Ma non per il tecnicismo, da un certo punto in avanti, a
partire dall’organizzazione scientifica del lavoro che si prova a scomporre i
movimenti per dargli un tempo standard. È giusto così! Le aziende devono
produrre, devono avere la redditività, produttività ed è giusto che sappiano
quanto tempo ci vuole, almeno sulla carta, a fare una determinata situazione.
Quindi non mi sento di dare un giudizio nei confronti dell’Ergo-Uas, forse nella
parte ergonomica punta anche a dare degli elementi in più rispetto alla fatica che
il lavoratore fa e quindi gli interventi necessari per evitare, insomma, possa
ammalarsi a livello professionale, il tunnel carpale e quant’altro. La cosa che in
Fiat è stata ed è devastante, è il fatto che nel passato c’erano degli accordi che
intervenivano direttamente sulle condizioni di lavoro e sulla metrica del lavoro.
Accordi che permettevano di stare meglio e di avere la possibilità, tramite
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l’organizzazione sindacale, di avere degli interventi quando qualcosa non andava.
Faccio un esempio: c’erano degli accordi che dicevano, al di là della metrica che
veniva applicata, che comunque tu non potevi essere saturato sulla linea di
montaggio più del 87% del tuo tempo, cioè i movimenti reali che tu facevi, al di là
di quanto tempo ti veniva assegnato, non potevano essere superiori rispetto a
una determinata percentuale della tua presenza all’interno dell’officina.
Ovviamente questo riduceva la tua fatica. Adesso, dato che la Fiat ha dato la
disdetta di quegli accordi che le altre organizzazioni hanno condiviso, il lavoratore
può essere saturato fino al 99% del suo tempo. Quindi vuol dire che lavora minuti
attivi in più, mentre prima le cose le doveva fare in un tempo minore. Non voglio
entrare troppo nel tecnicismo perché sarebbe più articolato, ma se il tempo è
100, prima lavoravo l’87% ora arrivo fino al 99%, quindi c’è un aumento. Tramite
questa via c’è la cosa negativa, che non è riferita al WCM di per sé: la cosa
negativa è che adesso la prestazione si è intensificata, ma perché sono stati
disdetti quegli accordi sindacali, e, di nuovi accordi la Fiat non ne vuole più fare,
perché ha stabilito che il tempo di saturazione è il 99% perché la metodologia
prevede quello, ho capito la metodologia prevede non c’è scritto in nessun libro
sacro che se la metodologia prevede che tu puoi essere saturato al 99% ma il
lavoratore fa fatica, alla fine stabiliamo per accordo che non sarà l’87 ma magari
il 90 o 92%. Oppure prima c’erano 40 minuti di pausa. Hanno tagliato le pause di
10 minuti. Uno può dire va bè 10 minuti … Ma 10 minuti, per chi lavora in catena
di montaggio, sono fondamentali, importantissimi, vuol dire 10 minuti in meno di
lavoro: posso riposare gli arti, rilassarmi. Però, ripeto, non sono seduti dietro una
scrivania. Quello che mi fa arrabbiare di tutta questa vicenda è vedere come
coloro che dovrebbero in qualche modo capire, oggettivamente capire, quel
punto di vista, si rifiutano semplicemente, perché non ci lavorano loro lì, perché
ascoltano troppo poco le persone. Devo dire di nuovo che lo faccia l’azienda ci
può anche stare, anche se sbaglia e in qualche modo che ci siano dei
rappresentanti del lavoro che condividano queste cose un po’ meno. Non può
passare tutto dal fatto che, o si va così o non c’è la produttività, perché la
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produttività deve essere ricercata, non tramite l’intensificazione di quella
prestazione, ma tramite il WCM e la corretta applicazione del WCM, non di fronte
al fatto che poi alla fine mi tagliano le pause, mi fanno saltare la saturazione al
100% e poi con l’applicazione del WCM. Il capo mi dice va bè vai avanti lo stesso.
Non può funzionare in questo modo! Però, al momento, è così! Sotto il punto di
vista dei lavoratori i miglioramenti non ci sono stati.
9) Qual è la situazione attuale all’interno del gruppo rispetto alla
sperimentazione del WCM nei vari stabilimenti? Perché alcuni stabilimenti sono
più avanti e altri no, dipende dalla capacità dei lavoratori, dal management
aziendale?
Perché alcuni stabilimenti sono partiti prima e quindi sono più avanti, rispetto ad
altri, c’è una scansione temporale. Poi la Fiat ha deciso di concentrarsi nei luoghi
dove si lavora di più, dal momento che la maggioranza degli stabilimenti in Italia
sono fermi, lavorano a Pomigliano e la Maserati. Adesso speriamo che ci sia una
ripresa! Sono otto anni che stanno aspettando quei lavoratori, però si spera che
arrivi. Melfi dovrebbe ripartire. La Carrozzeria di Mirafiori, forse, arriva il modello
alla fine del 2015. Quelli che sono più avanti sono quelli partiti prima e dove c’è
lavoro. Su questo, devo dire, che la Fiat si sta impegnando a portare il WCM
dappertutto. Io ripeto, il WCM è di per se una cosa positiva, dovrebbe essere
applicato correttamente tenendo conto dell’aspetto e dell’idea che i lavoratori
hanno. Bisognerebbe ritornare ad una contrattazione tra i lavoratori tramite le
loro rappresentanze sindacali e aziendali, cosa che al momento non c’è, e la cosa
negativa è che fa peggiorare le condizioni lavorative delle persone.
10) Qual è il tasso di sindacalizzazione?
Adesso non te lo so più dire, essendo in questa situazione di conflitto in senso
negativo, anzi di contrapposizione con la Fiat. Non perché lo vogliamo noi, ma è
258
la Fiat che lo vuole. Abbiamo perso alcuni dati. Prima li avevamo perché ce li dava
l’azienda, adesso noi sappiamo orientativamente quanti iscritti possiamo avere
della FIOM, però, quanti ne hanno gli altri, non te lo so dire. Siamo
abbondantemente sotto il 50%. Negli anni passati, il tasso di sindacalizzazione
era più alto. Ti dovresti fare delle domande: come mai adesso si è abbassato? Se
tutto va così bene, i lavoratori dovrebbero essere tranquilli e continuare ad
iscriversi al sindacato, se il sindacato avesse un utilità. Ma dal momento che il
sindacato, per i lavoratori, l’utilità dentro la Fiat ce ne ha poco e niente, perché
gli altri sono spariti, perché accompagnano i processi aziendali e perché la FIOM è
stata messa così ai margini dal gruppo Fiat, che facciamo una fatica immane, è
evidente che quel tasso diminuisce, ma non è un seno positivo che la gente sta
meglio, ma perché le persone pensavo che entro la Fiat essere iscritti ad un
organizzazione sindacale non serva a nulla.
11) Qual è il rapporto con l’azienda? Siete interpellati? Il sindacato ha la
possibilità di discutere o deve sempre scendere a patti con l’azienda? Qual è la
dialettica dei problemi del dialogo con l’azienda?
Non c’è un dialogo! Che l’azienda mi chiami al tavolo e mi dia delle comunicazioni
a un sindacato, non serve a niente. Ma non al sindacato di per sè, quando parlo di
sindacato immagino sempre che siano i lavoratori lì di fronte all’azienda. Il
sindacato è strumento di rappresentanza dei lavoratori, dovrebbero avere. Il
fatto che ci sia dialogo con l’azienda è del tutto inutile e quel dialogo non è
finalizzato a trovare dei punti di compromesso. Se io e te parliamo e parli solo tu
e mi dici semplicemente delle cose e mi riempi la testa di dati, concetti e alla fine
io non posso risponderti, che senso ha questo dialogo? Semplicemente un
prendere atto, che può avvenire guardando, leggendo i giornali. Allora il dialogo
è utile e positivo, se finalizzato alla ricerca di compromessi tra due punti di vista
che in alcuni momenti posso essere differenti, altre volte, invece, si ha una
comunanza di punti di vista. La funzione del dialogo deve essere costruttiva se
259
l’azienda dice, possiamo anche stare ore e ore intorno ad un tavolo, possiamo
essere chiamati ogni giorno, quel non vuol dire essere coinvolti, essere coinvolti
vuol dire essere incisivo e riesci a migliorare coloro che rappresenti. Che cosa
serve un dialogo se poi, alla fine, nel momento in cui il sindacato fa una proposta,
la tua risposta è sempre no? Francamente, non mi serve a niente, oppure solo su
delle cose minime e, in questo periodo, neanche queste. Allora bisogna capire che
cosa si intende per dialogo. Per me il dialogo è utile se ci sono dei soggetti che si
siedono di fronte in cui parlano entrambi, entrambi si ascoltano e raggiungono
dei compromessi.
12) Per quanto riguarda gli strumenti, cioè meccanismi di tipo partecipativo,
esistono ancora le commissioni paritetiche? Chi ne fa parte? Quali temi
affronta? Funzionano effettivamente o il coinvolgimento del sindacato è solo
formale? Nel senso che l’azienda riferisce le cose che ha già stabilito, cioè vi è
un predominio dell’azienda sul sindacato?
Si ci sono, però si riuniscono poco, e quando si riuniscono siamo solo alla
comunicazione. Un sindacato di rappresentanti di lavoratori servono se possono
essere incisivi e che sia dall’altra parte qualcuno che sia disposto a dargli ascolto.
Se non c’è nessuno disposto a dargli ascolto dovrebbero riuscire a darsi ascoltare
con il conflitto costruttivo. La Fiat, lo sciopero non lo tollera più. Nell’accordo, che
è una delle motivazioni per cui non abbiamo firmato, ci sono comunque delle
clausole che tendono ad inibire lo sciopero, non a proibirlo perché nella
Costituzione Italiana lo sciopero è un diritto del singolo lavoratore, per cui
neanche un contratto può andare contro la costituzione, ma che ci siano dei punti
che inibiscono lo sciopero è fuori dubbio. Vuoi un esempio? Lo sciopero lo
possono dichiarare anche i lavoratori, però solitamente lo dichiara il sindacato.
Gli operai aderiscono allo sciopero che ha dichiarato il sindacato, ma se tu in un
contratto metti che, se tu sindacato, dichiari uno sciopero, sei legato a delle cose
che tu hai già contrattualizzato e, io azienda ti posso sanzionare. Io, come
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sindacato, non ho più nessun interesse, e qui c’è il soggetto sindacato avulso dal
rapporto con i lavoratori a dichiarare quello sciopero, perché se dichiaro lo
sciopero mi togli i permessi, non mi fai le trattenute in busta paga dei miei
tesserati che ovviamente mi servono per sopravvivere. E’quindi evidente che io ti
inibisco la tua possibilità di dichiarare lo sciopero che non può essere confuso con
il fatto che bisogna mettersi delle regole, ma Santo Dio! È vero che io ho
contrattualizzato e che ci sono dei sabati di lavoro straordinario obbligatorio,
però, magari, in quel periodo lì, sto passando un periodo di attrito con l’impresa
per altre ragioni e, una delle mie armi è dire: anche se avevamo stabilito che quel
sabato è obbligatorio, dichiaro lo stesso lo sciopero agli straordinari perché
stiamo litigando su alcune argomenti. Perché devo non poterlo fare? Se eravamo
in un periodo di tranquillità non mi sarei mai sognato di dichiarare lo sciopero
agli straordinari, quindi anche se lo abbiamo contrattualizzato, secondo me, è
giusto che anche se si sta litigando io posso tutelarmi. E’ un’arma che io ho, ma
se mi viene tolta con la scusa che l’abbiamo già contrattualizzata, e non stai
quindi rispettando l’accordo, è una forzatura. Hanno messo delle clausole che
inibiscono lo stesso sindacato. Tanto è vero che da quando c’è quel contratto
chiedi anche alle altre organizzazioni, quanti scioperi hanno organizzato in Fiat,
zero! Eppure in un gruppo così grande non ci sono mai state motivazioni per non
fare uno sciopero? Ma dai, non scherziamo! Impossibile in due lunghi anni,
neanche un problema? Non lo fanno perché hanno l’idea di non rappresentare
più direttamente quelle persone.
13) Potremmo dire un sindacato al servizio dell’azienda?
Sì! Un sindacato aziendale, al servizio dell’azienda forse è un po’ eccessivo, ma
sindacato aziendalista. Adesso c’è un’idea che per me è sbagliata che la
centralità è impresa. L’impresa è quella che deve decidere tutto, perché l’impresa
deve essere competitiva sul mercato, e lo può decidere solo lei come rimanere
competitiva sul mercato. Stiamo facendo un salto indietro, quando nel 1800,
261
quando c’era la battaglia per la riduzione dell’orario di lavoro oppure la battaglia
per impedire il lavoro ai fanciulli, gli imprenditori/padroni spiegavano che se i
fanciulli non potevano andar più a lavorare, loro avrebbe chiuso le fabbriche
perché determinati lavori li potevano fare solo i ragazzini, dicevano questo. Poi,
per fortuna, il lavoro minorile è stato proibito e nessuna fabbrica ha chiuso per
questa ragione. Quando l’orario di lavoro era di 60 ore alla settimana,
spiegavano che, se lo avessero abbassato a 50 ore, sarebbe stata la rovina,
sarebbero fallite tutte, che sarebbero già andate, all’epoca, a produrre all’estero
con la microscopica globalizzazione che c’era. Sono tutte cose che sono state
dette, ma perché sono insite in quel conflitto positivo che c’è il capitale e il lavoro.
Non voglio usare termini del passato ma sono attualissimi, siamo in un sistema
capitalistico, Santo Dio! Prevede chi detiene i mezzi di produzione e chi non li
detiene, va a lavorare per chi c’è li ha. Quindi, tornando a quello che dicevo
prima, se diminuivi l’orario di lavoro era morte per tutte le aziende.
Assolutamente non è vero, perché per l’impresa, giustamente, l’impresa punta ad
avere il massimo profitto, di far lavorare le persone il più possibile. Ma è giusto!
Se io fossi da quella parte, la penserei esattamente in quel modo, ovviamente
l’interesse del lavoratore è di lavorare meno ore possibili e guadagnare il più
possibile. Tramite questi due punti che sono in antitesi, avere la capacità di
trovare i giusti compromessi. In questo periodo questa capacità non c’è più,
anche perché coloro che dovrebbero rappresentare gli interessi di chi lavora,
sempre i più, sono stati catturati cognitivamente, dall’ideologia che l’impresa è al
centro di tutto, che l’impresa deve poter fare quello che vuoi. Il dibattito che c’è
sull’articolo 18 adesso è una follia. L’articolo 18 dice che l’impresa non ti può
licenziare se non c’è una giusta causa, e stanno spiegando che le imprese non
vengono ad investire in Italia, perché c’è l’articolo 18. Una follia, non è così! A
parte che le imprese possono licenziare, anche quando inattivo, perché c’è una
legge che prevede la riduzione del personale. Cos’è che non possono fare le
imprese? Non possono scegliere la riduzione del personale, chi licenziare. Devono
usare de criteri oggettivi, cioè, io ho un reparto in cui devo calare in 5 persone da
262
10 che lavorano. Devo tenere i riferimenti che il legislatore ha messo che sono i
carici familiari, la professionalità. Quindi, se uno ha 10 figli e uno non ha figli,
andrà via chi non ha figli. Se uno ha una professionalità più elevata, andrà via chi
ha la professionalità meno elevata. Sono dei criteri oggettivi, ma non si vogliono
più avere questi criteri oggettivi perché l’impresa vuole poter scegliere, perché
vuole avere sempre di più il comando all’interno dell’azienda, togliendo una parte
di dignità delle persone. Però l’ideologia dice, se c’è l’articolo 18, le imprese non
investono, le imprese straniere non vengono perché c’è una burocrazia che fa
schifo, perché c’è la criminalità. Ma sono altri i motivi perché le imprese non
vengono ad investire in Italia.
14) Il WCM che sta sperimentando la Fiat, sta spingendo verso un “sindacato
d’impresa” o partecipativo?
La Fiat, sulla carta, spinge verso questo sindacato partecipativo, ma in realtà non
vuole nessun sindacato. Il sindacato ti deve servire per accompagnare i processi.
Io devo poter dire: sapete che si ci fa così! Se poi riesco, addirittura, a dire ai
lavoratori che è giusto fare così, ancora meglio! Evito di farlo io direttamente,
azienda. A Fiat è sempre stata così e continuare ad essere così. Poi, a seconda dei
periodi, cambia un po’ le sfumature, cambia un po’ la faccia da ferocia, a volte è
un pò più gentile. La Fiat, il sindacato non l ha mai accettato. Al limite l’ha subito,
come negli anni 70, che c’era la forza dei lavoratori, ma non l ha mai accettato
come soggetto portatore di quelle istanze che possono essere differenti dalle tue
ma che ti possono servire per migliorare tutti quanti insieme. L’idea è del
comando assoluto, mi dispiace dirlo così, ma è la realtà.
15) Qual è il suo rapporto con le altre organizzazioni sindacali? Cercate un
dialogo?
263
In questo periodo pessimo! Io non personalizzo mai, non ce l’ho con nessuno
però, in quanto organizzazione, non si ci parla neanche, ed è perfetto per la Fiat.
A parte che il sindacato dovrebbe essere un unico sindacato. In Italia questo non
è possibile per ragioni storiche, siamo più sindacati. Bisognerebbe avere un legge
sulla rappresentanza che stabilisce chi è il sindacato maggiormente
rappresentativo, ma la legge sulla rappresentanza non c’è, quindi, sindacati che
hanno punto di vista differenti e litigano tra di loro, perché ognuno pensa di
avere un punto di vista che è migliore dell’altro, è legittimo. Il vero problema è
che litigando le imprese sono più forti e la Fiat, in questo litigio, si ci è infilata in
maniera più che decisa. Talmente decisa che alla fine il risultato è quello che
dentro le sue aziende non esiste più un risultato. Di nuovo, quel sindacato che
contratta e rappresenta i lavoratori, chi è legittimato, i sindacati firmatari non
contrattano più nulla chi non è legittimato come noi in questa fase di crisi , non
abbiamo la forza. E’normale che i lavoratori sono spaventati, sono intimoriti
anche di fare lo sciopero.
16) Il ruolo delle Rsu che hanno potere di contrattazione, alla fine che fanno?
Come si comportano?
Non ce l’hanno più. Una gestione partecipativa dove l’azienda ti dice che va bene.
Non ce l hanno, non ce l hanno! Mi dispiace dire queste cose. Poi mi rendo conto
che quei lavoratori sono stati lasciati soli da tutti, prima dalla politica. Non c’è più
nessun rappresentante in Parlamento. Le leggi che hanno fatto contro il lavoro in
questi anni sono state fatte perché di lavoratori in Parlamento non ce ne sono
più. Prima c’era qualcuno, erano organizzati anche in un partito. Adesso non c’è
più un operaio in Parlamento, non c’è più un partito che li rappresenta in senso
stretto. Sono stati lasciati soli, a livello parlamentare, politico anche a livello
sindacale.
17) Come avviene la contrattazione? Chi negozia? Che cosa viene negoziato?
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Non c’è.
18) Adesso si è fuori dal sistema Confindustriale, il contratto dei
metalmeccanici in fiat non si applica, è meglio o peggio?
È peggio, perché intanto, se parti dal salario, è sempre più legato alle
performance aziendali. Il contratto nazionale e le regole che c‘erano
precedentemente prevedevano che i lavoratori ricevessero un aumento legato
all’inflazione. Quindi, se c’è stato l’1% di inflazione, l’1% di aumento, anche
perché così mantieni costante il tuo livello di acquisto. Se io ho un salario che sta
sotto il tasso d’inflazione e quindi se l’inflazione è del l1% e il mio salario è
cresciuto del 0,5%, io quest’anno sono più povero dell’anno scorso perché in
termini assoluti, il mio potere di acquisto è diminuito. Poi appunto, il contratto
nazionale garantiva di avere degli aumenti legati al tasso d’inflazione. Poi la
contrattazione aziendale, tramite le performance aziendali faceva più
produttività, ti permetteva addirittura di salire con il tuo salire in termini reali,
con un concetto giusto ed equo, se c’è produttività ci sono più soldi e quindi
guadagni di più. E’saltata, nel gruppo Fiat, è stata scardinata completamente,
non c’è nessun meccanismo che ti tiene agganciato perché la Fiat non lo vuole al
tasso inflazione e gli aumenti, quando ci sono, devono essere solo legati alla
performance aziendale. Che lo decide l’azienda quale deve essere, siamo al
paradosso dei paradosso. Quindi non siamo neanche insieme che lo decidiamo
ma è l’azienda che decide quali devono essere i parametri per stabilire che c’è
stata produttività, redditività, e al quel punto redistribuzione tra i lavoratori con
un sistema di questo tipo nei periodi di crisi e non solo nei periodi di crisi perché
anche nei periodi in cui le cose vanno paradossalmente meglio, se tu non hai un
meccanismo, ti tiene agganciato all’inflazione. Tu, rispetto agli altri
metalmeccanici guadagni meno, tanto è vero che adesso nel gruppo Fiat le
persone guadagnano di meno. Su alcune cose che prima erano fisse ora sono
265
sempre più variabili e l’ultimo che contratto che stanno discutendo adesso,
stanno già dicendo, non ci sono aumenti dove ci sono, saranno stabilimento per
stabilimento, quindi anche la divisione tra lavoratore che fanno lo stesso lavoro,
lo stesso mestiere che lavorano in stabilimenti differenti si troveranno ad avere
una paga differente. Questo è quello che sta succedendo nel gruppo Fiat che è
stato frutto del CCSL. Io non penso che gli altri sindacati non se ne rendano conto.
Loro sanno che cosa hanno firmato e che cosa hanno deciso di fare, però solo il
tempo e la storia, andando indietro, tireranno le somme sul disastro che è stato
fatto. La cosa peggiore che quel modello che la Fiat sta riuscendo a far passare è
un modello che si estende, prima a Pomigliano poi a Mirafiori e noi dicevamo
quella roba lì rischia di contaminare negativamente anche il resto dei lavoratori,
cosa che sta succedendo. Tanto è vero che molti gruppi hanno dato disdetta da
Confindustria, dall’accordistica interna come ha fatto Fiat per arrivare ad una
finta ricontrattualizzazione.
19) Secondo Lei, la costituzione della New Company ha un fine antisindacale?
Si, perché hanno creato una nuova compagnia e, di conseguenza, piazza pulita di
tutti gli accordi che c’erano precedentemente. Una roba totalmente nuova che ha
permesso la ricontrattualizzazione, ovviamente al ribasso. Però non si può dire i
sacrifici bisogna farli, alcuni dipende quali e quanti, perché se l’idea è se non si fa
così le fabbriche chiudono e tu inizi una corsa senza fine, perché domani ti
spiegheranno che devi lavorare il doppio e guadagnare la metà. Scusa
l’estremizzazione però è esemplificativa, quando c’è la fine, mai! Perché
l’interesse dell’impresa è quello che dicevo prima portato alle estreme
conseguenze: farti lavorare il più possibile e pagarti meno. E’come per l’operaio
lavorare il meno possibile e guadagnare il più possibili.
20) Quindi, secondo Lei, le vertenze di Pomigliano e Mirafiori cancellano diritti
e garanzie per i lavoratori?
266
Sì, annientano diritti e garanzie per i lavoratori. Li hanno nei fatti annientati e la
gente sta sempre peggio e starà sempre peggio. Questa storia non finirà. Ogni
anno c’è un pezzettino in più che se ne va. L’azienda stabilisce, ad esempio,
quando farti fare i tuoi permessi individuali che prima potevi scegliere così.
L’azienda agisce unilateralmente.
21) Le prospettive alla luce del nuovo contratto e dell’acquisizione di Chrysler?
Noi abbiamo parlato a lungo della Fiat, ma la Fiat non c’è più. Adesso c’è FCA,
non è più italiana non è più torinese, non lo è più nei fatti, è quotata a New York,
a sede legale in Olanda e paga le tasse in Inghilterra. Di che cosa stiamo
parlando? Anche quando si dice: ma la Fiat è ancora italiana, chi? cosa? dove?
perché?
Le prospettive al momento per l’Italia, sono state negative, nel senso che
purtroppo uno stabilimento, Termini Imerese, è stato chiuso. A Mirafiori ci sono
ancora della carrozzeria. Su 5400, 3500 sono ancora in cassa integrazione, gli
altri sono andati alla Bertone. Menomale che esiste l’ex bertone, ora Maserati,
che lavora! L’unica cosa positiva di questo periodo della Fiat, è che a Melfi sono
ancora praticamente in cassa e stanno riprendendo adesso a Pomgliano non sono
mai rientrati tutti, il 30% dei lavoratori è in cassa, e secondo me non rientreranno
mai. Stanno andando avanti con gli ammortizzatori sociali. Quando arriveranno
al termine dichiareranno gli esuberi, i licenziamenti. Cassino idem. Quindi, al
momento, quelle grosse positività non si sono viste, abbiamo visto, viceversa,
molte produzioni al di là dell’oceano, gli accordi prevedono questo. Il Governo
Statunitense si è comportato correttamente, ha provato a tutelare i lavoratori
della sua nazione convocando Marchionne, pretendendo delle cose chiare da
Marchionne. In cambio, ovviamente, gli ha regalato la Chrysler. Gli ha detto
anche esattamente che cosa doveva fare. Non c’è stato nessun Governo che ha
convocato Marchionne per dire come mai fino al 2007, in questo paese, si
267
facevano un milione di autovetture e adesso se ne fanno meno di quattrocento
mila. Nessuno che ha chiesto conto. Quindi, per quanto riguarda questa fusione,
alcuni analisti dicono si sono salvati a vicenda, altrimenti la Fiat sarebbe fallita.
Sì, può darsi! E’ positivo, ma se lo devo guardare a livello generale e fare un
paragone che si vede e che prima si facevano più automobili in Italia, prima c’era
occupazione, adesso hanno chiuso Termini Imerese, Industrial, la Cnh, Iribus di
Valle Ufita. Ci sono stati anche licenziamenti. E poi lavoratori sono in cassa, non li
hanno ancora licenziati perché per fortuna ci sono gli ammortizzatori sociali. Alla
faccia del Governo Renzi che vuole togliere gli ammortizzatori sociali, così
sarebbero stati sbattuti tutti fuori senza un’occupazione. Un prospettiva grigia!
Vedremo! Speriamo che queste produzioni arrivino. A Mirafiori è dal 2008 che i
lavoratori aspettano la produzione che è stata più volte annunciata, ma che non
è mai arrivata. Adesso siamo nel 2015. Uno poi non ci crede più! Adesso un
autovettura a Mirafiori arriverà! Sarà sufficiente a saturare le 3500 persone che
sono ancora in cassa? La risposta è no, non sarà sufficiente. Bisognerà avere
almeno 2/3, poi dipende dalla gamma. Adesso alla Maserati lavorano 2200
persone, producono due autovetture e arriveranno intorno alle trentasette mila
auto vendute. Se tu ne hai tremilacinque in cassa, e fanno auto della stessa
gamma, due auto di gamma alta non ti sono sufficienti. Meglio che arrivi il
modello, almeno uno. Tutto questo ottimismo che sento poi è di volontarismo
non della ragione, poi noi facciamo i conti con la dura realtà.
268
Intervista Flavia Aiello
(Segretaria provinciale UILM-UIL)
Mi può raccontare la sua esperienza all’interno del Gruppo Fiat oppure del
sindacato? Cioè come siete entrati.
Ho iniziato da giovanissima. Mi sono avvicinata al sindacato grazie a mio padre
che era un delegato e, per farmi un’esperienza come si faceva quarant’anni fa,
mentre andavo a scuola, mi sono avvicinata al sindacato. Finita la scuola, mi ha
assunto un’azienda e, dà lì, proprio perché avevo fatto questo percorso
all’interno, mi ha affascinato e quindi ho fatto il percorso da delegata e di una
volontà di uscire fuori per intraprendere quello che è all’esterno. Io ho iniziato nei
tessili. Ho fatto il mio percorso lavorativo che è durato fino al 2001. Dopo di che,
dato che sono una persona alla quale piace mettersi in gioco, a un certo punto,
mi hanno proposto il grande mondo dei metalmeccanici che a Torino è il fulcro.
Dopo tre anni, c’è stata questa richiesta di seguire Fiat, una proposta del genere
mi ha spaventato, subito, però, ho accettato.
1) Che cos’è il World Class Manufacturing? Come vede il WCM? Qual è la sua
percezione?
È un ottimo sistema di lavoro. Bisogna avere una grande volontà di
partecipazione di entrambi, nel senso che è orientato, rispetto a quello che è il
lavorare meglio e con attenzione, nel senso facciamo i pezzi e li mandiamo
avanti, questo sistema qui lo boccia da subito. Il lavorare attentamente è un salto
avanti in quella che è l’attività produttiva in azienda, ma io ritengo che sia un
salto che ancora non abbiamo fatto, però ritengo che se mai si perde mai si
arriva. Quindi è un grande obiettivo da raggiungere positivo in futuro. Siamo
partiti in ritardo in Italia rispetto agli altri paesi, la Germania, l’America. In Italia
269
dobbiamo cambiare mentalità che ancora molto radicata e qui parlo, sia del
sindacato che l’azienda, ovvero, i capi, i team leader. È un percorso difficile che
bisogna iniziare, altrimenti siamo morti.
2) Come si inseriscono i lavoratori nella nuova organizzazione? Cosa cambia per
loro?
Cosa dovrebbe cambiare, siamo lontani. Quando facciamo riunioni con l’azienda,
diciamo che è un sistema che se c’è, richiede una partecipazione. La mentalità
che c’è in azienda e in Italia, anche questo sindacato che è ancora conflittuale, in
azienda si ci confronta tra il capo che dice fai questo pezzo e lo devi fare, non ti
interessa come e questo fa a cazzotti su quello che è. Il sistema dovrebbe essere
diverso. Il fatto di dire: perché faccio questo pezzo? Perché lo devo fare bene? Il
mio pezzo bene vuol dire che, quello che viene a lavorare dopo di me se si trova il
pezzo che è fatto bene, può continuare e andare avanti. Se il pezzo fatto da me
non viene guardato da quello che sta avanti, il difetto va avanti. Questo
comporta un dialogo più severo e non conflittuale tra chi ha un certo incarico di
portare avanti la linea. In azienda c’è chi sta al montaggio, chi dirige una squadra
chi dirige lo stabilimento, ecc. Se non c’è un dialogo tra queste figure e, dialogo
vuol dire vediamo come poterlo farlo meglio, perché oggi c’è l’ordine e non il
dialogo, oggi c’è fai questo, fai quell’altro, non ti interessa se c’è un problema vai
avanti. Come può scomparire? Con un dialogo più continuo. La filosofia di questo
sistema è che comunque devono uscire i pezzi ben fatti, e se tu lavori in un
ambiente sereno e tranquillo dove tu hai rispettato quello che è la sicurezza.
Parlo anche dell’ambiente di lavoro, se tu lavori in un ambiente brutto, grigio,
diverso è entrare in posto pulito, ad esempio la mensa. Quindi l’ambiente, il modo
di lavorare, la sicurezza a lungo termine, serve un dialogo e non un comando, io ti
dico e tu devi fare senza perché ti interessi quello che devi fare.
270
3) Come valuta il rapporto con i lavoratori? Quali sono le loro priorità?
Il rapporto con i lavoratori in questo momento è difficile in un contesto generale.
In questo contesto siamo presenti anche noi come sindacato. Oggi le persone
hanno tutte le ragioni, per la situazione economica, ci stiamo rendendo conto
solo adesso di tutte le ruberie e le furbate. Ognuno, nel suo piccolo, ha contribuito
a questo sistema. E, quindi, è sempre più facile prendersela con gli altri. Ma negli
altri ci siamo anche noi. Io non ritengo che il sindacato abbia sempre agito nella
maniera giusta perché ci sono stati anche degli errori. Io non sono figlia del ’68,
sono nata dopo, quindi a volte sento una nostalgia di quegli anni. Sento dire che
in quegli anni ci sono state delle conquiste, quelle conquiste lì, rispondo io, e
perché c’era un boom economico, un’economia che tira e più facile chiedere e
stato facile per il sindacato, perché quando il sindacato chiede e porta a casa e un
buon sindacato, quando poi prova a portare a casa ma non sempre ci riesce, io
dico che bisogna sempre fare i conti con quella che è la storia e il momento. Al
sindacato vengono attribuite anche delle cose che non sono del sindacato. Io,
quando faccio le assemblee a volte per battuta, dico, ormai è colpa del sindacato
anche quando piove! Perché il governo fa delle leggi ed è colpa dl sindacato. Non
le facciamo noi e ma il sindacato non ha fatto niente, ho capito ma più che fare
degli scioperi non è che c’è molto da fare. Stiamo vivendo oramai da troppi anni
una crisi che sta logorando tutti e c’è un tutto contro tutti.
4) Il coinvolgimento dei lavoratori è un elemento essenziale data la
vulnerabilità del programma? Che cosa fate per favorire il loro coinvolgimento?
Quali sono i principali strumenti che vengono adottati per motivare/valorizzare
i lavoratori all’interno della nuova organizzazione?
Certo, all’interno degli accordi abbiamo chiesto che ci sia un dialogo continuo.
Questo passa attraverso quelli che sono dei corsi di formazione, a gruppi, a step,
271
proprio per spiegare, prima in maniera teorica e poi pratica, anche se non è
facile.
5) In seguito all’introduzione del WCM, il modello partecipativo si è realizzato
concretamente o ancora vi è una partecipazione debole? sia da parte del
sindacato che da parte dei lavoratori?
È debole, ma io lo attribuisco al fatto che non ci sia il lavoro. Stiamo vivendo un
periodo di cassa integrazione e di investimenti che, per mille ragioni, hanno
tardato, uno stabilimento vecchio che stanno ristrutturato. Io, per quanto seguo
Fiat, quando si discuteva di uno stabilimento vecchio, per quanto potessi
immaginare, soltanto vedendo dentro, mi sono resa conto. C’è stato un
rallentamento del programma. Se poi uno, la teoria non la mette nella pratica, ci
sono delle società il cui il WCM è andato avanti. È tutto ancora una teoria.
6) Forme di disaffezione e di protesta quali la non partecipazione alle attività di
miglioramento continuo della qualità, l’assenteismo, lo sciopero, vengono
praticate? Quali sono i livelli di assenteismo?
Nell’ultimo contratto abbiamo cercato di mettere dei paletti, cioè bisogna fare
attenzione. Per quanto riguarda l’assenteismo abbiamo cercato di tutelare quello
che è l’assenteista che sta male, e questo non si può in alcun modo toccare. C’è
poi una forma di assenteismo denunciata dall’azienda dove alcune persone
allungavano il weekend, tipo il lunedì o il venerdì, oppure l’allungamento di un
ponte o di una festività, che devo dire anche lì può succedere, ma se questo
diventa sistematico, come abbiamo potuto vedere dai dati forniti, ci si è cercato
di intervenire. Valutare l’assenteismo adesso con la cassa integrazione, potrebbe
essere per protesta.
272
7) Secondo lei il lavoro diventa più autonomo e intelligente? oppure soltanto
più gravoso, o forse entrambe le cose insieme?
L’auspicio è quello che dovrebbe essere più intelligente. Io ritengo che, a partire
dall’usciere fino al capo del personale, devono contribuire tutti per fare un buon
prodotto, per poterlo vendere, non solo per farlo, perché se questo si vende vuol
dire che ci sono i soldi non solo per pagare i dipendenti ma ci sono anche delle
possibilità per l’azienda per fare avere più soldi ai lavoratori.
8) Il WCM ha portato ad un miglioramento delle condizioni di salute e sicurezza
del posto di lavoro? A tal proposito, nel quadro del WCM, è stato inserito un
sistema specifico chiamato Ergo-Uas, cosa ne pensa? Ha portato ad una
riduzione della fatica dello stress, e delle malattie di tipo muscolo-scheletrico?
Questo sicuramente! C’erano delle postazioni dove la gente dove lavorava
piegandosi, curvandosi e l’azienda ha fatto degli investimenti per poter
migliorare la salute.
9) Qual è la situazione attuale all’interno del gruppo rispetto alla
sperimentazione del WCM nei vari stabilimenti? Perché alcuni stabilimenti sono
più avanti e altri no, dipende dalla capacità dei lavoratori, dal management
aziendale?
Dipende dagli investimenti che ha messo in pratica l’azienda. Decide l’azienda
anche rispetto al prodotto. In Maserati ci sono linee nuove, improntante in quel
che deve essere proprio un modo di lavorare, anche se c’è una sperimentazione.
Poi siamo sempre in un contesto di crisi.
273
10) Qual è il tasso di sindacalizzazione? Ci sono dei dati?
Credo che sia, tra tutti, complessivamente il 40%.
11) Che impatto ha avuto il WCM sulle relazioni industriali?
Come tutte le cose nuove, quindi per il problema che non si conosco, spaventano.
Poi vi deve essere la volontà di migliorare. Non ho detto che ci siamo riusciti e che
ci riusciremo, ma c’è quello che è uno spirito di miglioramento.
12) Qual è il rapporto con l’azienda? Siete interpellati? Il sindacato ha la
possibilità di discutere o deve sempre scendere a patti con l’azienda? Qual è la
dialettica dei problemi del dialogo con l’azienda?
L’azienda, come tutte le aziende, tende a fare l’azienda, dicendo che solo io ho la
verità in tasca e so come fare. L’azienda tende il più delle volte a comunicare
piuttosto che a dialogare. Su questo non andiamo molto d’accordo. Non ci
possono essere solo le difficoltà dell’azienda che capiamo, ma ci sono anche dei
lavoratori. L’azienda riuscirà a fare delle macchine belle se tiene conto quelli che
sono i lavoratori e su questo facciamo un po’ fatica a farlo comprendere.
L’azienda dice, sappiamo noi come dobbiamo fare, ma è giusto che ci sia un
dialogo.
13) Per quanto riguarda gli strumenti, cioè meccanismi di tipo partecipativo,
esistono ancora le commissioni paritetiche? Chi ne fa parte? Quali temi
affronta? Funzionano effettivamente o il coinvolgimento del sindacato è solo
formale? Nel senso che l’azienda riferisce le cose che ha già stabilito, cioè vi è
un predominio dell’azienda sul sindacato?
274
Certo, nelle commissioni si discute. L’azienda dà le notizie, ma diverse sono le
informazioni da quello che deve essere. Ci sono vari commissioni che si riuniscono
sia che lo chiede l’azienda e sia se lo chiediamo noi sindacato. Per noi non deve
essere solo un’informazione ma una discussione.
14) Secondo lei, con l’implementazione del WCM, l’azienda sta cercando di
“individualizzare” sempre di più il rapporto con il lavoratore? Senza
l’intromissione del sindacato?
Non lo credo! Sono convinta che, fin tanto che ci sono i lavoratori, c’è bisogno del
sindacato e questo è un modo diverso di rapportarsi. In Italia facciamo fatica,
mentre in Germania c’è un sindacato dentro il Consiglio di Amministrazione,
quindi decide insieme all’azienda. In America il sindacato sostiene l’azienda,
anche economicamente, attraverso dei fondi pensioni. In Italia vi è un sindacato
conflittuale. Dobbiamo cambiare entrambi il modo di rapportarci.
15) Il WCM che sta sperimentando la Fiat, sta spingendo verso un “sindacato
d’impresa” o partecipativo sul modello di quello giapponese? Questa scelta
potrebbe tradursi in un sindacato al servizio dell’azienda?
All’azienda, c’è o non c’è il sindacato, non gli importa. Ci siamo e quindi è giusto
parlarci, ma non spinge assolutamente, non ci stende i tappeti rossi, non ci apre
la porta. Ci siamo e cerchiamo di parlarci per il bene dei lavoratori. Già da un po’
di anni l’azienda sta cercando un sindacato più vicino a loro. La marcia dei
quarantamila la dice lunga. Negli anni ’80, quando i capi sono scesi, hanno
formato poi un’associazione capi e quadri.
16) Qual è il suo rapporto con le altre organizzazioni sindacali? Cercate un
dialogo?
275
Io cerco sempre il dialogo con chiunque, nel rispetto delle proprie idee. In Italia ci
sono più sindacati. Se io faccio parte di questo sindacato è perché evidentemente
non la penso come gli altri.
17) Il ruolo delle Rsu che hanno potere di contrattazione, alla fine che fanno?
Come si comportano?
Le rsa sono tutelate dalla legge 300, quindi hanno tutti i poteri. C’è una differenza
tra rsu e rsa. Le rsu sono votate per legge dai lavoratori e passato per più di un
decennio che, essendo votate dai lavoratori, io devo rispondere ai lavoratori,
quindi anche magari andando contro l’organizzazione. La rsa è nominata
dall’organizzazione, anche se poi viene votata dai lavoratori. La pecca delle rsu è
quello di chiedere ai lavoratori i loro desideri. Anche a me sarebbe piaciuto, ma
purtroppo non sempre è possibile.
18) Come avviene la contrattazione? Chi negozia? Che cosa viene negoziato?
Il contratto nazionale serve per tutelare le aziende piccole dove non c’è una tutela
sindacale per avere un minimo tabellare. Lo dico per tutelare i lavoratori ma
anche per evitare la concorrenza tra le aziende. Fiat è uscito da Federmeccanica.
E’ un semplice contratto Fiat, quindi non viene più tutelato il contratto di primo
livello, perché è un azienda unica e non c’è concorrenza con le altre imprese. Si ci
sta orientando sempre più verso un contratto di secondo livello rispetto a quello
che è l’azienda. Non siamo ancora pronti.
19) Adesso si è fuori dal sistema Confindustriale, il contratto dei
metalmeccanici in fiat non si applica, è meglio o peggio?
È meglio! Per i lavoratori non è cambiato nulla, anche se un po’ di guadagno
l’hanno avuto rispetto a Federmeccanica. Confindustria è uscita da
276
Federmeccanica, ha fatto un contratto e il lavoratore non ci ha rimesso nulla. Già
Fiat non rispettavano il contratto Federmeccanica perché aveva le maggiorazioni
rispetto allo straordinario, alla mutua, grazie a degli accordi che avevamo fatto
all’interno, quindi aveva già un contratto diverso da Federmeccanica. Quando è
uscita da Confindustria non abbiamo fatto altro che fare un contratto rispetto a
quello che c’era, rispetto a un contratto che già c’era modificato.
20) Come valutate la scelta di un contratto a livello aziendale?
Il contratto aziendale ha un vantaggio, cioè quello di valorizzare i lavoratori,
perché lì si valorizzano i lavoratori.
21) Che cosa è cambiato dopo le vertenze di Pomigliano e Mirafiori? Cancellano
diritti e garanzie per i lavoratori?
Non ci sono diritti cancellati, assolutamente! Quello che è presente in Fiat
continua ad esserci, l’abbiamo riportato. Dicono che non c’è più diritto allo
sciopero. L’azienda dice: se c’è un problema perché non ci chiedete prima di
affrontarlo, poi vediamo di risolvere, poi, soltanto se non lo risolviamo, potete
fare lo sciopero. Mi pare una questione di buon senso. Nel senso che se andiamo
nella logica che l’azienda deve lavorare bene, per ottenere degli utili, ma non per
Marchionne, ma per distribuirli ai lavoratori. La Fiat non è un azienda piccola, in
cui il proprietario vigila su tutto e quindi ci sono dei problemi che non vengono
neanche riportati agli alti dirigenti e allora di fronte al fatto di dire, c’è un
problema, ci chiedete un incontro, noi ve lo diamo entro tre giorni. Ci date il
tempo di risolverlo e se poi non lo risolviamo e siamo liberi di fare lo sciopero o
meno, questo non vuol dire togliere il diritto a fare lo sciopero, vuol dire fare lo
sciopero dopo che ho tastato tutte le possibilità. Abbiamo fatto scioperi rispetto a
delle questioni urgenti. Abbiamo fatto un accordo con l’azienda dicendo che se
c’è un problema vediamo di risolverlo, altrimenti fate uno sciopero. Nel caso in
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cui facciamo lo sciopero, non ci rimette il lavoratore ma il sindacato, a cui
vengono fatte delle penalizzazioni. Quindi, tutta questa roba che era stata
montata volutamente dai giornalisti, ormai neanche la FIOM in assemblea lo
dice.
22) Prospettive alla luce del nuovo contratto e dell’acquisizione Chrysler?
Io sono orgogliosa che un’azienda italiana abbia comprato un’azienda
americana. Poi c’è magari chi dice chi gliel’ha regalata, ma a me non interessa,
per me è stata acquisita. È un orgoglio da italiana. Poi si dice che è un’azienda
sempre di più all’estero. C’è una globalizzazione iniziata parecchio tempo fa.
Marchionne ci ha spiegato già da 9 anni fa, da quando si è insediato, che se la
Fiat non fosse diventata grande, avrebbe fallito. Ha fatto poco il Governo
Italiano. La sede legale è a Londra, ma è solo per un questione economica. Lì si
pagano meno tasse e, quando un’azienda paga meno tasse perché vuole fare
degli investimenti per far lavorare i lavoratori, io non poso dire niente. Per me
avere un’azienda con sede legale in Italia e mi fa lavorare i polacchi, preferisco il
contrario. Questo era un compito del Governo, tenere la Fiat in Italia. Marchionne
non ha chiesto niente al Governo Italiano, ma non voleva neanche buttare i soldi.
Io non credo che diventerà più americana, sarà sempre più multinazionale.
Quello che dobbiamo sfruttare è il made in Italy: chi compra una Ferrari vuole che
sia fatta in Italia.
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Interviste Management Fiat Chrysler Automobiles
Roberto Cortese
(Responsabile Relazioni Industriali FCA – EMEA)
Luciano Massone
(Capo del World Class Manufacturing EMEA
Region & WCM Dev. Center VP)
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Roberto Cortese
(Responsabile Relazioni Industriali FCA - EMEA)
1) Che cos’è il World Class Manufacturing?
Io l’ho sempre definito come il “buon senso applicato”, nel senso è quello che
probabilmente ognuno, a casa propria, dovrebbe fare, cercando di applicare
buon senso ma con metodo, avendo sempre costanza di risultati e costanza di
applicazioni. Questa è una cosa che, sui grandi numeri e le grandi fabbriche, è
chiaro che richiede un metodo più spinto, un’attività dedicata, persone che se ne
occupano. E’ per noi, inteso come italiani, un quadro culturale non indifferente.
2) Come vede il WCM? Qual è la sua percezione?
Sicuramente è un acceleratore di buone pratiche. Penso che spesso si
ripercorrono gli stessi passi, soprattutto nelle grandi organizzazioni si
ripercorrono gli stessi passi per arrivare a risultati se vogliamo molto simili. Per
cui, il fatto di avere un metodo comune è questa, una “crossing education” di
attività tra uno stabilimento e l’altro, quindi uno scambio di esperienze molto più
spinto di quanto fosse in passato. È chiaro che consente di utilizzare queste buone
pratiche e di applicarle in maniera più veloce. È chiaro che questo deve avere alla
base un terreno fertile. Ci vuole un approccio culturale, un approccio sicuramente
tecnico e la differenza poi la fanno le persone che devono essere molto più
portate ad accettare, magari, un buon lavoro fatto da un altro e, in maniera
umile, dire: ok se lui è riuscito a portare a casa questo, posso sicuramente
arrivarci anch’io ed applicarlo. E lì si genera un circolo virtuoso.
280
3) Quali sono state le motivazioni che hanno portato ad adottare il WCM? Per
iniziativa di chi?
Per come la vedo io, come osservatore distaccato rispetto alla realtà operativa di
fabbrica, vi era questa necessità di avere un linguaggio comune delle pratiche
comuni; delle possibilità di avere delle basi per poter rilanciare sempre il
miglioramento su cui ovviamente è basata la competizione internazionale del
mondo dell’auto, dove se ti fermi un attimo, chi ti passa davanti, ci mette cinque
minuti. Quindi, la velocità di realizzare un “’improvement” è sicuramente una
delle basi su cui si fonda questo progetto.
4) Quali sono state le difficoltà connesse all’implementazione del WCM,
soprattutto in un’azienda tradizionale come quella di Mirafiori?
Per come la penso io, l’approccio culturale e sicuramente, anche, credo, la
tendenza passata di ogni fabbrica ad essere un ambiente assestante. Quindi la
capacità, la possibilità e la volontà di condividere esperienze è stato quello che
mancava da un punto di vista operativo. Da un punto di vista culturale,
certamente, soprattutto qui in Italia, vi è una diffidenza nei livelli operativi, o
medio-bassi se intendiamo una scala gerarchica, al cambiamento. La
propensione al cambiamento rispetto, “abbiamo sempre fatto così”, è stato uno
di quei muri da abbattere o di quelle reti un po’ da strappare che hanno
probabilmente teso a rallentare questo progetto.
5) Qual è la situazione attuale all’interno del gruppo rispetto alla
sperimentazione del WCM nei vari stabilimenti? Perché alcuni stabilimenti
sono più avanti e altri no? dipende dalla capacità dei lavoratori, dal
management aziendale?
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Io credo che dipenda principalmente dal “commitment” che viene dato al
progetto. Se ci si crede, non solo a parole, ma lo si vive e lo si applica
quotidianamente, diventa anche più facile da un punto di vista della trasmissione
della forza e della spinta che c’è. Quindi questo è un problema che riguarda il
circuito di regolazione, quindi il team direzionale dello stabilimento. Dall’altra è
chiaro che l’entusiasmo o la capacità o anche la voglia di guardare in maniera
diversa il modo di lavorare, lo fanno, evidentemente, anche le persone che
lavorano in uno stabilimento. Noi abbiamo visto chiaramente, in ambienti dove
c’è una curiosità culturale, una vivacità data chiaramente dall’età delle persone
all’interno dello stabilimento e questo è molto più facile. Torna, ma non vuole
essere una ripetizione l’approccio culturale o la “forma mentis” che si trova nei
diversi stabilimenti. In Polonia il modo di operare dei colleghi polacchi è sempre
stato molto più metodico, ha un matrice di natura germanica. Quindi, dove noi
siamo in Polonia, è una regione della Slesia, zone più vicine alla Germania, quindi,
vi è un approccio molto più metodico. Una volta definito lo standard, viene
applicato, e il WCM ha questo come uno delle sue basi di successo. Direi anche le
esperienze precedenti, direi anche che un altro stabilimento che abbia dei buoni
risultati e che sta lavorando molto bene. Lascio un attimo da parte Pomigliano
che è una realtà a sé e, forse, merita un’attenzione diversa. Sono quei
stabilimenti che in passato hanno lavorato in maniera molto spinta su
metodologie di cui il WCM è interconnessione. Tipica è quella del TPM (Total
Productive Maintenance), su cui già aveva un background anche di metodologia
culturale che li ha portati ad essere più facilmente inseriti in questo progetto.
Pomigliano è nata con logiche di WCM. È ’stato molto utile avere una fabbrica
che, di pari passo, cambiava pelle da un punto di vista tecnologico, ma aveva un
percorso di formazione, di costruzione e di addestramento delle persone che lì
sarebbero andate a operare. Quindi, il match tra queste due è evidentemente,
che è stato uno sforzo sia economico che di impegno personale e professionale
delle persone, ha sicuramente avuto un successo straordinario. E questo lo stiamo
vedendo in una fabbrica, come quella della Serbia, che ha recentemente, mi pare
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la scorsa settimana, ottenuto il Bronzo nel WCM. E’ una fabbrica che lavora solo
da due anni e mezzo, un tempo molto limitato, ed è già riuscita a raggiungere dei
punteggi di WCM in un tempo relativamente breve. Parliamo di una fabbrica che
è partita ed ha dovuto, subito, dare una performance produttiva molto
importante. Quindi non ha avuto il tempo di costruirsi radamente, dal momento
che la 500L è una macchina di assoluto successo, ed ha dovuto rispondere alle
richieste di mercato nei suoi primi mesi o anni dall’uscita.
6) Dobbiamo ancora dimostrare di essere come i giapponesi? Nel senso che
dobbiamo ancora migliorare il livello di credibilità e di fiducia in un contesto
sempre più competitivo e concorrenziale?
Su questa necessità di essere e di dimostrare di essere come i giapponesi non
sono particolarmente d’accordo, nel senso che noi non saremo mai giapponesi e i
giapponesi non saranno mai italiani. Secondo me, noi dobbiamo essere capaci,
come sono stati capaci loro, di prendere aspetti positivi delle metodologie
applicate e farli nostri con la capacità italiana di realizzare dei salti di qualità
molto più alti, in maniera veloce. Il pericolo che non dobbiamo cercare di fare è
quello di voler saltare dei passaggi del metodo per cercare di arrivare ai risultati.
Questo è quello che siamo forse portati a fare. Invece, il metodo ci insegna che un
passo dietro altro serve a rafforzare e a rendere solido il percorso che si sta
facendo. La nostra tendenza è quella, ogni tanto, di prendere delle scorciatoie e
questo tende a far dimenticare qualche passaggio importante.
7) La produttività sta migliorando? La qualità del prodotto è migliorata? Vi è
realmente una riduzione degli sprechi?
Si, sono tutti passaggi importanti del WCM anche se non sono gli unici. Questi
sono poi effetti indiretti, perché gli effetti diretti sono quelli di avere fabbriche che
lavorano meglio, in quanto, se le fabbriche lavorano meglio, le persone lavorano
283
meglio e di conseguenza gli altri risultati sono una derivata quasi naturale di
questo processo. E’chiaro che, se si lavora in una fabbrica confusa, sporca, buia,
rumorosa o con situazioni interne, anche dal punto di vista del prodotto che si
costruisce non studiate in una logica ergonomica o di WC, i risultati non possono
venire. Se c’è luminosità nelle fabbriche, se ci sono postazioni di lavoro
ergonomicamente standard, se il prodotto è stato studiato per quelle postazioni
di lavoro, chi ci lavora è messo nelle condizioni di poter fare bene il suo lavoro e
non esistono possibilità per avere degli errori che l’oggettivazione che c’è, negli
stabilimenti per migliorare il prodotto, tende a ridurlo.
8) Il WCM ha portato ad un miglioramento delle condizioni di salute e sicurezza
del posto di lavoro? A tal proposito, nel quadro del WCM, è stato inserito un
sistema specifico chiamato Ergo-Uas, mi può spiegare nel dettaglio in che cosa
consiste questa nuova metrica? Consente di eliminare tutto ciò che nei
movimenti dei lavoratori è considerato uno spreco e con ciò di aumentare la
produttività?
Ritengo di sì. Ha portato ad un miglioramento dell’attenzione di tutta l’azienda,
agli aspetti di sicurezza ed ergonomia dei posti di lavoro. Questa è un’altra cosa,
come dicevamo prima a proposito del commitment, che ha doppio senso.
L’azienda deve mettere nelle migliori condizioni le persone per lavorare bene e in
sicurezza. È un compito del datore di lavoro, ma è anche vero che il lavoratore
deve lui stesso mettersi nelle condizioni e usare gli accorgimenti necessari per
lavorare in maniera ergonomicamente efficace e in sicurezza. E ha doppio senso,
in quanto, da un lato, più uno è invogliato a lavorare per cercare di creare un
ambiente sicuro ed ergonomicamente accettabile, tanto più da l’altro diventa
normale utilizzare questi strumenti. Le faccio un esempio: se lei va in una casa
dove tutto è pulito e in ordine, si sente a disagio a mettere in disordine; se entra
in un magazzino dove ci sono ragnatele, polvere, se lei butta un pezzo di carta tra
tante non se ne accorge nessuno. Viceversa, credo che questo sia un
284
cambiamento importantissimo nelle nostre fabbriche. Che poi questo, da parte di
qualcuno, sia percepito come un’accelerazione nei confronti del lavoro o una
maggior faticosità, secondo me, è più un fatto ideologico che reale. Se ha avuto
modo di visitare uno stabilimento, fa fatica ad accorgersi delle aree dove si sta
lavorando intensamente o meno intensamente, nel senso che la linea continua ad
andare avanti con una cadenza ben precisa, perché sulla cadenza della linea sono
poi definiti i cicli di lavoro, il tempo e le operazione che vengono fatte, la linea è
talmente ordinata e asservita, avvolta da strutture tecnologiche e strumenti per
organizzare meglio il lavoro che apparentemente lei non si accorge del lavoro che
fanno le persone. O meglio, se si ferma a guardare la persona, la vede lavorare
con tempi e con metodi di lavoro che certamente che se uno pensa alla fabbrica,
il classico pensiero è quello di Charlie Chaplin in tempi moderni. In mezzo alla
ruota si perde. Da noi si dice: si imbarca perché non riesce più ad effettuare le
operazioni, ma questo non avviene più. È un grande salto di qualità. Ognuno fa il
proprio mestiere in un certo posto, in un posto studiato per far quel mestiere e
non un altro, non ostacola il suo collega, non può sbagliare e soprattutto non fa
sbagliare le persone che sono vicine a lui.
9) Come si inseriscono i lavoratori nella nuova organizzazione? Cosa cambia per
loro?
Intanto, cambia l’approccio al lavoro. È richiesta una partecipazione e un
contributo alla produzione o al sistema all’interno della quale sono. Anche in
passato, noi avevamo con alcuni programmi, il TQM, il sistema di suggerimenti o
di proposte di miglioramento continuo. Se, però, queste sono lasciate a se stesse
e non inserite in un programma ben specifico, dove tutto è finalizzato,
migliorato, i diversi pilastri, dove tutti possono dare il loro contributo, rischiano
di essere proposte che dopo un po’, se non c’è un grande “commitment”, si
perdono o le persone non sono invogliate a dare un loro contributo. In un
ambiente che lavora costantemente per migliorare, per fare salti di qualità, è
285
chiaro che, se interiorizzata questo miglioramento, diventa un acceleratore. Le
persone nella fabbrica devono, hanno un approccio diverso. La possibilità di
cambiare e la facilità con cui si può lavorare, su questo, dipendono dai fattori che
dicevamo prima, quindi certamente culturale, dal background da cui
provengono, dalla tipologia del prodotto, i lavori e gli sforzi che vengono fatti in
stabilimenti.
10) Come valuta il rapporto con i lavoratori? Questi concorrono alla definizione
degli obiettivi e dei valori aziendali? Quali sono le loro priorità? E quelle
dell’azienda?
Possono essere inizialmente dei punti distanti gli uni dagli altri. Io ritengo che ci
siano due rette che tendono a convergere, con livelli di angolazioni diversi, con
punti di convergenza che possono essere più o meno vicini nel tempo. Tra l’altro,
questo, lo danno i punteggi del WCM. Penso che molto dipende da come si pone
la direzione, da quanto l’azienda si spenda e creda in questo tipo di progetto, in
questa sfida. Le persone, se vedono che quanto si sta facendo porta a dei
miglioramenti, anche da un punto di vista della giornata lavorativa, dello sforzo
fatto, e vedono, soprattutto, che c’è una coerenza fra il detto e l’agito, alla fine
poi seguono. La tendenza è quella di essere diffidenti ai cambiamenti. Questi
sono cambiamenti molto importanti ed epocali, però oramai abbiamo un
numero di anni alle spalle di WCM e una pervasività di questo progetto che
ormai è talmente diffusa che penso faccia parte almeno fino ad un certo livello
della scala gerarchica e livelli di profondità diversi nei diversi stabilimenti per la
storia che hanno o la situazione attuale, che tende sicuramente ad alzarsi.
11) Il coinvolgimento dei lavoratori è un elemento essenziale data la
vulnerabilità del programma? Che cosa fate per favorire il loro coinvolgimento?
Quali sono i principali strumenti che vengono adottati per motivare/valorizzare
i lavoratori all’interno della nuova organizzazione?
286
Sicuramente si, è essenziale. Quello che si sta facendo è far diventare il WCM
come una pratica. E’ un modo di lavorare quotidiano rispetto al passato, nel
senso che, rispetto a programmi passati, si andava un po’ per moda. Il WCM ha il
pregio di essere molto legato al metodo e avere la necessità di essere attuato e
agito costantemente e quotidianamente. Io dico che il WCM funzionerà
perfettamente quando diventerà negli stabilimenti un automatismo, come quello
di entrare, bollare, strisciare in badge per la presenza e ristrisciare il badge per
l’uscita. Diventa, non dico un fatto di routine, ma un ambito mentale o un modo
di pensare in fabbrica. È chiaro che se uno entra in fabbrica a qualsiasi livello sia
stacca la testa e passa otto ore lì dentro, sperando che passi il tempo, non è il
miglior modo per arrivare a raggiungere i risultati del WCM.
12) In seguito all’introduzione del WCM, il modello partecipativo si è realizzato
concretamente o ancora vi è una partecipazione debole? Sia da parte dei
lavoratori che del sindacato
Le persone hanno dato risposte diverse in base alle condizioni in cui si sono
trovate, sia come località geografica in cui si trova lo stabilimento e sia come
modo di operare all’interno dello stabilimento. La parte geografica è nei fatti, e
uno non è come può spostare gli stabilimenti per cambiare la cultura delle
persone. Bisogna saper prendere coscienza di una diversità culturale, lavorarci
sopra, magari, anche toccando dei tasti diversi a secondo del posto in cui si ci
trova. La partecipazione delle persone, secondo me, è straordinaria da questo
punto di vista. Le persone, se sono messe nelle condizioni di dare un contributo
e, quindi, significa che qualcuno glielo chiede, non si tirano mai indietro. Se si
tirano indietro c’è un motivo che bisogna cercare di indagare, e capire cosa porta
le persone a non interessarsi del posto in cui passa molte ore della sua vita e
dove più facile passarci in maniera armonica e più efficace, che non sperando di
uscire. Poi è chiaro: il lavoro è il lavoro, la vacanza è la vacanza. Sul sindacato
287
credo che, dopo un momento di diffidenza, esso abbia fatto un salto culturale
importantissimo sul WCM, ma non solo anche sul modo con cui Fiat sta portando
avanti i propri programmi strategici, perché ha capito che la velocità e la
competizione a livello mondiale sul mercato dell’auto, ha cambiato il paradigma
dei rapporti interni. Uso un paradosso su questo: la crisi ha scellerato questo
livello di consapevolezza, soprattutto nella cultura Italiana che quando si ci trova
con l’acqua alla gola, la capacità di reazione è straordinariamente più alta
rispetto ad altri posti. Quindi, questa crisi che ha avvolto, non soltanto il mercato
dell’auto, ma il mondo intero dal 2008 in avanti, paradossalmente è stato uno
stimolo importante per cercare di accelerare e di comprendere che il modo
passato di fare le macchine o di fare sindacato o di agire all’interno delle
fabbriche, non poteva più esistere.
13) Secondo lei il modello adottato consente di superare quelle relazioni
manager-dipendenti di tipo rigidamente gerarchico e di adottare invece un
clima aziendale stimolante e pacificato che consente una sorta di fusione tra gli
obiettivi dell’impresa e i bisogni dei lavoratori?
Questo sì! Nei fatti lo è nella maggior parte degli stabilimenti. Probabilmente
meno in quelli in cui vi è una fase di transizione tra vecchi prodotti, vecchio modo
di lavorare e nuovi prodotti e nuovo contesto di fabbrica. Noi stiamo portando
avanti un piano industriale che vede toccati tutti gli stabilimenti qui in Italia. Fiat
ha fatto delle scelte coraggiose dicendo che vuole mantenere in Fiat una
presenza industriale importante. Sarebbe stato più semplice, meno popolare e
forse più sociale quello che anni passati, negli anni ottanta, a fronte di grandi
crisi, erano state fatte grande ristrutturazione e delle scelte drastiche anche sul
contesto industriale. Questo Fiat non ha ritenuto di farlo. Si è accollata anche
l’onore di mantenere stabilimenti per certi versi con una bassissima produttività.
Per certi periodi, noi abbiamo degli stabilimenti che lavorano ben poco, come
Mirafiori, però la scelta è stata quella di non denunciare eccedenze di personale
288
rispetto ad una situazione che gli altri costruttori hanno percorso. Se lei guarda
altri grandi costruttori come la Pegeout, Renault, Opel, Volkswagen, tra gli anni
2008 e 2012, hanno fatto piani di ridimensionamento e di ristrutturazioni
importanti con uscite, esodi, licenziamenti. Noi abbiamo fatto una scelta diversa,
abbiamo e crediamo in un piano industriale molto più ambizioso, legato anche
l’operazione con Chrysler che ha aperto per Fiat un’opportunità e per Chrysler
sicuramente opportunità diverse a livello mondiale, che ci consentiranno di
portare un piano diverso.
14) In questo nuovo modello quanto conta il dialogo con il sindacato? E il suo
coinvolgimento? Importante oppure marginale?
Sicuramente diverso. Io ritengo importante. Da parte di tutte e due deve esserci
un cambio di passo, nel senso che la storia delle relazioni industriali in Italia e in
particolare Fiat, questo perché quando si parla delle relazioni industriali o
sindacali in Italia, l’immagine è quella del rapporto sindacato – Fiat. È normale,
siamo stati per tantissimo tempo un punto di riferimento, non fosse altro per la
nostra dimensione. Fortunatamente lo siamo ancora ora, perché siamo una delle
ultime aziende manifatturiere che hanno scelto e vogliono operare in Italia e
quindi non andarsene altrove, e questo è un punto importantissimo. Deve essere
un rapporto diverso, basato su aspetti diversi, nel senso che alcune cose devono
essere date per scontate. Fortunatamente il WCM, da questo punto di vista lo fa,
nel senso che quello che in passato era una delle attività tipiche del sindacato,
quali la tutela della condizione del lavoro all’interno delle fabbriche, fossero le
nostre o altre, lo sviluppo, e se vuole anche l’ammodernamento e l’evoluzione
che c’è stato nel modo di concepire le fabbriche, le macchine che si costruiscono
all’interno delle fabbriche e il modo di lavorare, credo che possa considerarsi, da
questo punto di vista, un aspetto non più di dibattito tra l’azienda e sindacato,
diverso, perché bisogna probabilmente lavorare sulla spinta che anche il
sindacato può dare, e l’azienda deve metterlo in condizione per accelerare il
289
livello di partecipazione delle persone all’interno della fabbrica. Tant’è che su
questo stiamo discutendo con il sindacato del nostro CCSL che l’hanno firmato. E
uno degli aspetti cardine è quello di legare anche gli aspetti economici e
retributivi, non a fenomeni esterni, come può essere l’aumento del costo della
vita, al di là del momento che oggi l’inflazione è a livelli talmente bassi che
probabilmente non si tratta neanche di quello, ma i sistemi di rewarding o
sistemi di partecipazioni da un punto di vista economico, legati alle performance
della fabbrica, customizzati sulla fabbrica, sullo stabilimento, sulle persone.
Quando la persona contribuisce è uno degli aspetti determinanti sulle quali può
essere basata una retribuzione variabile al netto di quello che è un minimo
salariale che ogni contratto può e deve avere. Probabilmente ci deve essere un
bilanciamento e con il sindacato bisognerà trovare un equilibrio.
15) Quando ci sono dei problemi il sindacato ne discute con l’azienda ed
insieme cercate di risolverli? Qual è la dialettica dei problemi del dialogo con il
sindacato? E la tempistica di risposta ai problemi?
Io questo, lo vedo molto spinto negli stabilimenti, soprattutto quando si sta
lavorando su nuovi progetti. Il funzionamento delle commissioni che abbiamo
definito anche nel nuovo contratto, sono più operative e le abbiamo sfrondate di
una serie di orpelli che ci portiamo, perché il sistema della partecipazione in Fiat
è abbastanza radicato. Noi partiamo accordi, della fine degli anni ottanta, già
individuando dei sistemi abbastanza elementari. Però, allora, erano una grande
novità rispetto al rapporto con cui si usciva, che era un rapporto tipicamente
conflittuale: azienda padrone e sindacato. Quindi, questo sistema di
partecipazione si è evoluto, si è finalizzato ed è diventato molto probabilmente
anche più creativo, nel senso c’è un circuito di regolazione con incontri con le
organizzazioni sindacali diciamo più a livello di segreterie nazionali, con la
direzione aziendale, con il top manager aziendale per avere un quadro sul dove si
sta andando a livello di stabilimento. Il dialogo e il lavoro con il sindacato è molto
290
più operativo, nel senso si discute e si lavora sui problemi della fabbrica. Questo
che cosa comporta? Come sempre, quando si parla, si è in due, quindi l’approccio
deve essere biunivoco. Da parte dell’azienda, io credo, che debba essere fatto
uno sforzo importante per mettere a fattor comune aspetti della vita di fabbrica
che servano ad avere un livello di condivisione e di linguaggio comune con i
propri interlocutori sindacali. Da parte del sindacato deve essere fatto uno sforzo
culturale di crescita, di apprendimento di quelli che sono i temi della fabbrica. Un
rappresentante sindacale deve conoscere come funziona la fabbrica, deve sapere
cos’è il WCM, deve sapere quali sono i problemi che esistono all’interno della
fabbrica, ma usarli probabilmente, ed è qui lo snodo importante che a volte,
dovuto anche alla pluralità di sindacati che abbiamo in Italia, non aiuta, nel senso
che non può esserci un’interpretazione diversa di un problema. Semplifico: se c’è
una postazione di lavoro che non funziona, non può esistere che se ci sono
cinque organizzazioni sindacali che vedono il problema in maniera diversa o a
seconda della convenienza o della volontà di tutelare in maniera diversa un
lavoratore piuttosto che un altro. Se un problema esiste, è un problema non ha
un colore. Se lo allarghiamo vale anche per l’Italia. Se noi abbiamo un problema
di occupazione, di non capacità di attrarre investimenti o non rendere il nostro
paese allettante per un investitore straniero, non è un problema che se lo guardi
da sinistra o da destra è un problema. Quindi, o si ci concentra sul problema o, se
ci si concentra sul problema, sul bisticciare a chi arriva prima al gioco del
fazzoletto, ad accaparrarsi la genitura del problema, non si va tanto distanti. In
fabbrica le commissioni lavorano, e lavorano molto meglio dove si stanno
costruendo i passi per fare i futuri modelli. Dopodiché, il continuos improvement
nelle fabbriche può probabilmente migliorare ancora grazie all’approccio
culturale di cui parlavo prima.
16) Il WCM che sta sperimentando la Fiat, sta spingendo verso un “sindacato
d’impresa” o partecipativo?
291
È una scelta obbligata. Io non credo molto in chi dice che la Fiat con il WCM
vuole bypassare il sindacato e avere un rapporto diretto con i lavoratori,
semplicemente perché il rapporto diretto con i lavoratori non può non esserci,
nel senso che il lavoro che l’azienda fa, lo fa, cioè paga dei lavoratori e si aspetta
che facciano un certo tipo di mestiere. Con il programma WCM c’è un interesse
reciproco a mettere le persone nelle condizioni di poter lavorare meglio e per le
persone lavorare meglio, quindi certamente il modo di lavorare tende ad
abbassare i rapporti gerarchici ed avere il direttore che oltre a vestirsi come le
persone che lavorano sulle linee, la direzione è molto più presente in fabbrica,
perché è un’esigenza reale. Se si crede nel WCM lo si vive quotidianamente e
allora il direttore è lì dove ci sono i problemi. Conosco diversi direttore che non
hanno nessun tipo di problema, anzi, favoriscono e spingono questo rapporto
diretto con le persone, andando là dove c’è un problema per capire qual è il
problema. Questo dal sindacato, che vuole fare un salto evolutivo, essere parte
di un progetto che cambia radicalmente il modo di lavorare in fabbrica in tutti i
sensi, sia del sindacato sia per fare le macchine sia dell’azienda, è un salto
culturale importante anche se ideologico. Uno vuole tenersi nella tasca una
merce di scambio con cui contrattare per avere e dimostrare la sua importanza
piuttosto che la capacità di indirizzare le persone, e allora stiamo perdendo del
tempo. Se, invece, il sindacato capisce e ha ben compreso qual è la finalità del
WCM, probabilmente, diventa interprete delle esigenze dei lavoratori, diverse da
quelle che erano precedentemente. Citavo il fatto che, oramai, le fabbriche si
stanno portando tutte a dei livelli di standard, di vivibilità, assolutamente fuori
dallo stereotipo a cui normalmente è abituato a pensare la persona che non ha
visto i nostri stabilimenti. Probabilmente il sindacato deve essere interprete di
esigenze diverse, contrattare certamente con l’azienda magari diversi sistemi di
remunerazione, ma anche essere un facilitatore di questo cambiamento culturale
che all’interno delle fabbriche, se è spinto da diverse direzioni, probabilmente è
molto più facile che proceda. Il sindacato americano e i colleghi della Chrysler
che hanno visto la loro fabbrica o la loro azienda cadere nel vuoto, negli anni
292
2008-2009, quando poi Fiat è intervenuta iniziando un percorso con Chrysler,
hanno compreso che questo è uno strumento straordinario di miglioramento per
tutti, in primo luogo per le persone che lavorano nella fabbrica. Qui da noi non
abbiamo un sindacato unico. Avere una comunità di intenti così spinta o, è una
cosa che deve avvenire e quindi c’è un piano di convergenza, un’unità sindacale
su determinati obiettivi che in parte si è realizzata e in parte continuano ad avere
una costola del sindacato a considerare il modo di lavorare di Fiat e degli altri
sindacati come un modo diverso rispetto all’ideologia di questo sindacato o, se
no è chiaro questa pluralità, tende ad essere un freno.
17) Secondo Lei, cercano un dialogo queste organizzazioni sindacali?
Sì, però a livello di stabilimento deve essere migliorato, nel senso che c’è
probabilmente una maggiore comunità di intenti, a livello medio-alto, a livello
sindacale all’interno degli stabilimenti. Ci sono margini di miglioramento su
questo aspetto. Tende ancora prevalere il personalismo o l’interesse di bottega
che spesso tende a dividere piuttosto che a unire.
18) Il ruolo delle Rsu che hanno potere di contrattazione, alla fine che fanno?
Come si comportano?
Il ruolo delle rsa, secondo me, è uno snodo importante però nel quadro che
cercavo di tratteggiarle prima. È un sindacato che cerca il suo ruolo all’interno
degli stabilimenti. Se il ruolo delle rsa viene vissuto alla maniera tradizionale,
probabilmente non c’è più tempo e quindi il tempo non è sufficiente per la
velocità con cui la competizione sul mercato sta andando avanti. Non si può
decidere in mesi se cambiare dei turni di lavoro o se fare diverse produzioni,
perché nei mesi l’opportunità di vendita l’hai già persa. E’ un retaggio, che
fortunatamente con il nostro contratto nella scelta di Fiat e delle organizzazioni,
accettato. Stanno correndo con noi questa sfida. È stato in parte superato, ma
293
può essere ancora migliorato perché da entrambe le parti, nei momenti di
maggior difficoltà, la tendenza è quella di ritirarsi un po’ e usare gli strumenti
vecchi anziché osare e andare sul nuovo. Questa è la sfida dei prossimi anni, nei
rapporti all’interno dei nostri stabilimenti.
19) Come avviene la contrattazione? Chi negozia? Che cosa viene negoziato?
Lo sforzo che è stato fatto rispetto al CCNL metalmeccanico nazionale, ed è uno
dei motivi perché Fiat è uscita dal contesto confindustriale, è che non era
attagliata rispetto al nostro modo di operare e delle fabbrica. Il nostro contratto
è molto più operativo, nel senso che disegna la realtà dei nostri stabilimenti e ne
disciplina gli aspetti importanti: gli orari di lavoro, l’inquadramento delle persone
all’interno degli stabilimenti, o modi per utilizzare l’organizzazione del lavoro e
l’orario, insomma, è disegnato sulle nostre fabbriche. Questo, credo, ha al suo
interno una serie di regole che le parti hanno inteso definire come regole della
vita degli stabilimenti e, una volta che si ci è messi d’accordo su quelle regole, le
regole sono quelle, non si discute più. La contrattazione, per certi versi, è già
avvenuta, nel senso che nello stabilimento le relazioni tra azienda e sindacato
sono già definiti nel contratto. Non è più necessario mettersi d’accordo su delle
cose perché il contratto già le disciplina. Se c’è un problema significa che una
delle due parti, all’interno dello stabilimento, ha fatto qualcosa che non andava
bene. Evidentemente deve fare un passo indietro o deve resettare, perché nel
contratto gli elementi ci sono tutti; in esso è disciplinato come si passa da un
turno ad un altro; è disciplinato come sono gli orari di lavoro, e, all’interno di
questo, ci sono sempre dei rapporti con i rappresentanti sindacali, i quali
vengono preventivamente consultati. Vengono cercate anche soluzioni
eventualmente diverse. Il momento dell’eventuale scontro o conflitto è un
insuccesso del contratto, nel senso che uno delle due parti non lo sta utilizzando,
o lo sta utilizzando male nei confronti dell’altro. Ecco perché ci sono dei
meccanismi di regolazione o di responsabilizzazione delle organizzazioni sindacali
294
perché nel momento in cui si sono decise delle cose e il contratto le ha
disciplinate, all’interno di quel contratto stiamo. Il sindacato ha degli strumenti
per chiamare l’azienda nel momento in cui rileva dei problemi che, a suo modo di
vedere, l’azienda non sta operando come, invece, il contratto prevede che lei
faccia. Questa interconnessione di responsabilità del sindacato e dall’altro la
possibilità per il sindacato di chiamare l’azienda con i meccanismi di
raffreddamento, quindi passaggi, se vuole, di progressione, prima di arrivare allo
scontro e, quindi, meccanismi di autoregolazione del sistema che sono a cerchi
concentrici, partono dove c’è il problema e poi, se il problema non si riesce a
risolvere mano mano, allargano il livello di responsabilità fino ad arrivare ad una
discussione tra organizzazioni sindacali esterne allo stabilimento che possono
essere un circuito di regolazione insieme alla direzione di Fiat per risolvere o
interpretare il problema. Su questo stiamo lavorando per migliorare questo
meccanismo di relazione con il sindacato.
20) Come valutate la scelta di un contratto a livello aziendale? Secondo lei, ci
stiamo avviando verso il decentramento della contrattazione collettiva e delle
relazioni industriali?
Questo, in realtà, rispetto a quello che si crede, avviene moltissimo in Italia, nel
senso che moltissime aziende hanno un loro contratto a livello aziendale. Le
Ferrovie dello Stato, la Telecom, noi, l’IBM, hanno dei contratti che disciplinano
la loro vita. Se vuole, la specializzazione e le esigenze di ogni singola azienda
portano necessariamente a questa scelta. Un CCNL che prenda all’interno tutto,
probabilmente non disciplina nulla, perché deve essere talmente la mediazione
di interessi. Prenda il CCNL, disciplina dalla piccola bottega che si occupa di
meccaniche di precisione, alla grande fabbrica come la Fiat, passando anche
all’installazione di impianti, ma poi, magari, da un punto di vista produttivo non è
interessato. All’interno ci sono anche, da un punto di vista dell’inquadramento
contrattuale, le figure più disparate: vanno da chi si occupa dei forni a chi della
295
manutenzione, ecc. E’ un contratto utile alla vita di una fabbrica che è
concentrare su altro, su una competizione, con dei concorrenti e deve avere degli
strumenti sicuramente più agili, che le consentano di rispondere alle esigenze di
mercato. Quindi, probabilmente, con il sindacato si deve andare verso questo
tipo di soluzione, cioè avere una sicurezza, anche da un punto di vista salariale
minimo o adeguato rispetto alle esigenze, per garantire un potere di acquisto
delle persone. Però poi la contrattazione avviene all’interno dell’azienda con
contratti specifici, perché probabilmente soltanto così si riesce a disegnare delle
situazioni che sono completamente disparate, infatti, fare automobili è diverso
da fare lavatrici. Sembra banale la cosa, eppure le persone sono all’interno di un
CCNL che disciplina chi monta le ruote di una moto, chi quelle di Maserati ghibli.
Sono cose diverse, non possono coesistere.
21) Che cosa è cambiato dopo le Vertenze di Pomigliano e Mirafiori?
Per il sindacato, che ha fatto una scelta coraggiosa, è cambiato molto. E’
cambiato il modo di rapportarsi, sono cambiati i prodotti, il piano strategico di
Fiat rispetto ai propri stabilimenti in Italia. Non so se non ci fossero state che
cosa Fiat avesse fatto, non voglio pensarci.
22) Prospettive alla luce del nuovo contratto e dell’acquisizione di Chrysler?
Il nuovo contratto va nella direzione che le stavo dicendo, di avere sicuramente
avanti una soluzione nelle aree dove stiamo lavorando in Africa, dei risultati,
dovuti anche alla crisi, non ancora sufficientemente adeguati. EMEA perde soldi,
quindi è chiaro che se un contratto, e un contratto deve riconoscere ai lavoratori
anche i risultati di un’azienda, l’azienda in questo momento fa fatica a trovarli,
quindi certamente deve essere un rinnovo di un contratto che deve essere di
prospettiva. Noi abbiamo presentato a Maggio di quest’anno un piano strategico
che va fino al 2018 che vede in Italia una forte responsabilità, dico io di
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sviluppare e fare una serie di prodotti per il risultato di questo piano. Questi
risultati, che saranno raggiunti, dovranno dare un beneficio per tutti. Noi stiamo
cercando, con le organizzazioni sindacali, il modo e i meccanismi per realizzare
un contratto che abbia questa prospettiva sul piano Fiat, quindi un contratto non
più annuale, come era nato il CCSL, ma un contratto di prospettiva triennale
dove, in questo triennio, viene, da una parte riconosciuta la situazione attuale e
ragionare su un paradigma diverso, cercando di riconoscere gli sforzi e i successi
raggiunti e i miglioramenti fatti all’interno dell’azienda. Un primo embrione, se
vuole, lo abbiamo già avuto, quello del premio sul WCM. Lì ci stiamo
indirizzando. Avevamo definito che il WCM riconoscesse, anche da un punto di
vista economico, il livello raggiunto, quello oro, argento e bronzo, e questo ha
pagato all’interno degli stabilimenti tutti quelli che hanno raggiunto questi
risultati. Portare un’evoluzione a questo meccanismo, calzarlo e calarlo in
maniera più puntuale può essere un ulteriore miglioramento e sicuramente
anche un acceleratore del WCM.
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Luciano Massone
(Capo del World Class Manufacturing EMEA
Region & WCM Dev.Center VP)
1) Che cos’è il World Class Manufacturing? Quali sono state le principali
innovazioni introdotte dal WCM?
È un programma, un sistema di regole e di opzioni, tools, metodologie che nel
complesso agite in un certo modo, perché la parte più importante di questo
programma sono i dieci pilastri manageriali che hanno la stessa dignità dei
pilastri tecnici. E’ l’unico Production System presente al mondo oggi che ha un
bilanciamento importante tra manageriali e tecnici. Normalmente, i sistemi che
si vedono in giro, sono molto focalizzati sulla tecnica. Noi ci siamo concentrati
molto su come far capitare le condizioni che volevamo fossero alla base del
nostro sistema. E’ un sistema che si nutre del coinvolgimento delle persone, si
nutre della conoscenza, quindi, ha dentro un sistema di knowledge management
molto importante e si nutre della diffusione della conoscenza. Noi abbiamo un
internal-facebook dentro l’azienda con la quale connettiamo tutti i paesi del
mondo, tutti gli stabilimenti, che sono 230, dove ognuno può postare un quesito
e viene aiutato dal tutto mondo affinché lui possa risolvere il problema. Un
sistema di common-knowledge, sulle best pratices, sugli standard, anche quello
si nutre di una serie di coordinate, ove puoi farti aiutare direttamente da colui il
quale ha pensato quella cosa perché la porti anche in un altro posto. È un
sistema di misura, di metrica su tutto quello che si fa. Il sistema di misura e di
audit dà anche la qualità di quello che stai facendo. La cosa importante è che in
un sistema, normalmente, per essere un sistema capace, questo deve avere
all’interno una serie di ecosistemi che rendono il sistema capace, con un sistema
di misure, con un sistema di audit e con un sistema anche sanzionatorio. Alla fine
dell’anno mettiamo in graduatoria i nostri plant. I migliori tre o cinque vengono
298
premiati, gli altri vengono puniti, nel senso che si rimuovono e si cambiano i
team, si fanno delle correzioni affinché questi possano riprendere a correre
l’anno successivo. È un sistema competitivo e meritocratico che vale per le
persone, per i plant e per i manager.
2) Come vede il WCM? Qual è la sua percezione?
È diventato un sistema maturo, sicuramente tra i più maturi tra quelli che ci sono
in giro, proprio per le connotazioni che abbiamo detto prima. Si è nutrito di tutta
quella parte manageriale di cui non si sono potuti nutrire gli altri sistemi.
È un sistema riconosciuto perché ormai non c’è più discussione, nel senso che sia
gli shareholders i planner manager, la popolazione intera di chi fa industria sa di
che cosa stiamo parlando quando parliamo di WCM. Ha garantito un comune
linguaggio anche da un punto di vista tecnico. Il WCM ha 350 tools, è un sistema
ricco di knowledge, che fa dialogare tutti usando un linguaggio comune e questa
è una altra cosa importante. Per quanto riguarda il coinvolgimento delle persone,
questo sistema è riuscito a coinvolgere oggi, all’interno della Fiat, il 100% delle
persone. Puoi intervistare l’ultimo operaio che ti dice che la settimana scorsa ha
fatto quattro suggestions e ha partecipato a tre o quattro major kaizen.
3) Quali sono state le motivazioni che hanno portato ad adottare il WCM? Per
iniziativa di chi?
Sono state la non competitività del sistema manifatturiero o che nel 2004, con
uno spietato benchmarck, fece fare il dottor Marchionne sbattendoci in faccia
quali sono stati i risultati, parte sempre da una base. Quando nel 2004 arrivò il
nuovo amministratore delegato, il mondo intero ha vomitato numeri. E quando
abbiamo visto che, rispetto ai nostri competitors, eravamo molto indietro, si è
deciso di avviare un programma di rottura. Il WCM, di tutti i sistemi che abbiamo
valutato, abbiamo fatto becnhmarck su metodi, c’era sembrato il sistema più
299
adatto, soprattutto per la robustezza della parte manageriale che ci avrebbe poi
consentito di spingere in un certo modo in un paese occidentale. Io sono stato in
Giappone, ho vissuto lì e uno dei collanti di questi sistemi sono la religione, la
cultura, l’appartenenza e, quindi, questa roba qua bisognava realizzarla con un
sistema che facesse “push”.
4) Quali sono state le difficoltà connesse all’implementazione del WCM?
Le difficoltà sono state tante, caratterizzate da una scarsa comprensione di
quella che era la filosofia del miglioramento continuo che proponeva questo
modello. Sono state delle difficoltà legate alla gestione delle relazioni industriali
con il sindacato; vi sono state delle difficoltà anche a livello operativo, farlo
comprendere alle persone, ai nostri capi che si poteva operare in maniera
totalmente differente. Ci sono state delle difficoltà di interpretazione, di quello
che si voleva fare del management. Come al solito, quando c’è un momento di
rottura, le cose che si sono sempre fatte, c’è stato un momento di grande
difficoltà. Le difficoltà bisogna leggerle tutte e quante insieme, come un grande
elefante, poi bisogna affettare l’elefante e mangiare un pezzettino alla volta.
5) Qual è la situazione attuale all’interno del gruppo rispetto alla
sperimentazione del WCM nei vari stabilimenti? Perché alcuni stabilimenti
sono più avanti e altri no? dipende dalla capacità dei lavoratori, dal
management aziendale?
Sicuramente dipende da un molteplicità di fattori. Quelli nei quali sono stati
impattati da grandi livelli di innovazione; sui quali noi abbiamo investito in
formazione, in training, anche nella messa a disposizione dei migliori manager
che avevamo; quelli nei quale è, ovviamente, ancora in corso un processo di
ristrutturazione o addirittura hanno avuto molta discontinuità lavorativa o dove
hanno avuto una continuità con il passato che non è stata mai rotta. Devo dire
300
che tutte le company al mondo hanno stabilimenti che sono più avanti e altri che
sono più indietro. Non è facile sopportare una rivoluzione culturale come questa
nell’insieme.
6) Dobbiamo ancora dimostrare di essere come i giapponesi? Nel senso che
dobbiamo ancora migliorare il livello di credibilità e di fiducia in un contesto
sempre più competitivo e concorrenziale?
Il Giappone ha dalla sua un sistema-paese. Quindi, dal momento che ho vissuto lì
e mi sono formato lì, il Giappone produce un sistema scolastico meritocratico e
selettivo. Lì non si può scegliere che cosa fare da grande ed è nel percorso
scolastico che una persona viene indirizzata a fare un mestiere, piuttosto che un
altro. Le sue caratteristiche vengono individuate nel mondo della scuola e viene
indirizzato. Non è la persona che sceglie. Lei decide di mettersi nella barca che è
sul fiume e poi strada facendo. E’ indipendente dalla persona. Se poi si va a
vedere che cosa produce quella scuola, è un elite estremamente raffinata. Non è
un caso che i migliori ingegneri poi nascono da lì. C’è una cura maniacale del
dettaglio. Il sistema scolastico è estremamente ricco, perché gli investimenti nel
mondo scolastico li fa l’impresa. Vengono educati a questo dettaglio a questa
cura, a questa religione del lavoro fin dall’inizio. Lavorare lì è fantastico, non
bisogna convincere qualcuno a fare qualcosa, è un mondo ideale. Con il
sindacato si dialoga benissimo perché le posizioni sono intercambiabili e, quindi,
tutti hanno fatto esperienze sedendo nelle varie parti del tavolo. Il sindacato
gioca la stessa partita che gioca l’azienda, perché è l’azienda che deve vincere sul
mercato, gli avversari sono fuori dall’azienda. Con questa cultura giapponese non
si ci combatte dentro, ma si combatte con quello che è fuori, e questo non è una
roba da niente. Qui, per fare il WCM, abbiamo dovuto investire per dieci anni per
creare questa cultura rispetto che in Giappone. Quando il sistema-paese produce
delle persone con un grado di interpretazione del chanchelled e, con questa
301
ferocia e questa determinazione nel voler giocare quella partita lì, devi poi solo
fare il contorno. Quando invece devi creare il sistema, la visione è un po’ diversa.
7) La produttività sta migliorando? La qualità del prodotto è migliorata? Vi è
realmente una riduzione degli sprechi?
La qualità è un altro mondo. La riduzione degli sprechi anche. Il nostro
amministratore delegato ha detto che sprecare è anetical, quindi i guasti, gli
sprechi sono stati classificati come anetical. Oggi, non è più un’azienda che
lavorava sul mettere d’accordo, su mettere le pezze. Le macchine hanno
continuità e un’efficienza. Ci sono degli stabilimenti dove il livello di sicurezza è
invidiabile. Ci sono stabilimenti dove è da cinque anni che non capita un
infortuni. E quindi cambiato l’intero mondo a livello di qualità. La difettosità si è
ridotta a minimi termini, è un sistema che nella sua globalità. Mentre dieci anni
fa il manufacturing era un costo, oggi è un centro di profitto. Qui dentro noi
abbiamo un training consultant. Noi facciamo consulenza esterna per i terzi e
abbiamo un attivo rilevante,. La manifattura non produce solo per Fiat, noi
facciamo automobili per Ford, Peugeout, Citroen, in Canada per Volkswagen. Se
qualcuno ti dà, da fare la sua automobile e tu ne ricavi un beneficio, significa che
sei diventato talmente bravo a fare quella roba che la fai meglio di lui e che ci
ricavi anche dei denari. Ecco, dieci anni fa, questa cosa era impensabile. Oggi è
così! Facciamo motori per noi e ne facciamo di più per darli a terzi. Se c’è
qualcuno che ci compra un motore vuol dire che quel motore è meglio del suo,
quindi la situazione si è ribaltata completamente.
8) Il WCM ha portato ad un miglioramento delle condizioni di salute e sicurezza
del posto di lavoro? A tal proposito, nel quadro del WCM, è stato inserito un
sistema specifico chiamato Ergo-Uas, mi può spiegare nel dettaglio in che cosa
consiste questa nuova metrica? Consente di eliminare tutto ciò che nei
302
movimenti dei lavoratori è considerato uno spreco e con ciò di aumentare la
produttività?
Assolutamente sì! Da lì siamo partiti. Il WCM ha affrontato, prima ancora di
affrontare gli aspetti più complessi e tecnici, la sicurezza, l’ambiente del posto di
lavoro. Pulizia, ordine, messa in sicurezza degli impianti e delle persone, formare
le persone sulla sicurezza. Abbiamo fatto un programma che è costato
tantissimo. Abbiamo formato tutte le persone per avere figure professionali, il
capitano della sicurezza per rendere pervasivo ed invasivo l’approccio alla
sicurezza, e oggi le condizioni sono completamente diverse. Abbiamo fatto
grossissimi investimenti sull’ergonomia di processo. Abbiamo finanziato una
cattedra all’università di Torino che non aveva una cattedra di ergonomia di
processo. Oggi esiste grazie a noi, e l’abbiamo alimentato con contributi e
consulenze delle più prestigiose università oggi presenti al mondo. Abbiamo
pagato noi la consulenza affinché venissero professori di altre università e oggi
noi ci stiamo alimentando dei dottorandi che escono da quel percorso per
rivedere il nostro processo, per arricchirlo nei contenuti. Oggi noi abbiamo tutte
le stazioni di lavoro che sono state governate con un approccio ergonomico fin
dal momento in cui sono state pensate. Un tempo si faceva l’impianto, si
sceglievano gli uomini che avrebbe potuto lavorare lì dentro. Oggi si ristruttura il
processo all’origine facendo questo mestiere a monte. E nel momento in cui si
faceva la WPI vengono ad operare anche i lavoratori, gli operai della linea che
danno i loro suggerimenti e i loro contributi, fin dal momento in cui si sta
pensando quel processo produttivo con quel prodotto, e ciò non era mai stato
fatto prima.
9) Come valuta il rapporto con i lavoratori? Questi concorrono alla definizione
degli obiettivi e dei valori aziendali? Quali sono le loro priorità? E quelle
dell’azienda?
303
Sicuramente il rapporto con i lavoratori è molto diverso da quello di ieri.
Abbiamo ricevuto un milione e mezzo di proposte, a livello di partecipazione. Se
può essere espresso da un indicatore, abbiamo un indicatore di assenteismo che
è terzo o un quarto rispetto a quando siamo partiti in questa grande avventura e,
nelle fabbriche più evolute, quelle gold per intenderci, come Gian battista Vico,
gli indicatori di partecipazione sono rilevanti, anche sulla parte del sociale
interno abbiamo messo su un’ingegneria all’interno dei pilastri del WCM, che
hanno dato il loro contributo.
10) Il coinvolgimento dei lavoratori è un elemento essenziale data la
vulnerabilità del programma? Che cosa fate per favorire il loro coinvolgimento?
Quali sono i principali strumenti che vengono adottati per motivare/valorizzare
i lavoratori all’interno della nuova organizzazione?
Sì, c’è tutto un sistema di riconoscimento che, ovviamente, dal percorso di
carriera che può fare il lavoratore, se mostra di avere un certo tipo di approccio
al lavoro e un certo numeri di contributi, c’è il riconoscimento sulla base della
suggestion, c’è un riconoscimento sulla base del kaizen che ha proposto,
vengono dati premi tipo gadget vari; se funziona la proposta che ha fatto,
vengono date una tantum; se la proposta è interessante, vengono fatti
partecipare a visite in fabbriche estere per stimolare la vena creativa. Il
lavoratore più capace è quello che ruota su più postazioni e, quello che diventa il
cambista, quello che da il cambio alle persone, può diventare poi team leader e
poi, può diventare capo Ute.
La cosa importante è essere riconosciuto come meritevole di queste attenzioni.
Ci sono una serie di azioni che vengono fatte ove il gruppo riconosce il contributo
distintivo delle persone che poi vengono premiate.
11) Rispetto al pilastro “People Development”, investite nella formazione e
nell’addestramento dei dipendenti dal momento che per produrre beni di alta
304
qualità ad un basso costo in tempi brevi è necessaria una forza lavoro
altamente motivata e competente?
È fondamentale! Senza farlo, non si riuscirebbe ad avere questi risultati.
Mediamente, in ogni programma nuovo che variano, c’è una quota
considerevole di training, formazione, di partecipazione a tutte le attività che
vengono fatte attraverso il coaching. Ci sono diversi sistemi di gestione del
training. Noi abbiamo il training in aula per dare il knowledge di base; il training
on the job che è quello che si fa sulle postazioni di lavoro. Ma in mezzo, c’è tutta
una serie di momenti di training fatti in ambienti asettici, non sulla linea, ma
dentro il nuovo mini plant, c’è un training che facciamo nelle accademy, sempre
in un ambiente diverso da quello del lavoro, apprendi in aula determinati
concetti e li sperimenti come un gioco per poi arrivare al training job sulla linea
che è fatta più in condizioni di lavoro che di start-up. Anche l’ingegneria del
training è molto maturata in questi ultimi, per non parlare di tutto il training che
facciamo sul management per creare la condizione culturale a coloro i quali
devono gestire tutto il processo che sono gli ingegneri, i capi Ute, gli ingegneri di
processo.
12) Secondo lei il modello adottato consente di superare quelle relazioni
manager-dipendenti di tipo rigidamente gerarchico e di adottare invece un
clima aziendale stimolante e pacificato che consente una sorta di fusione tra gli
obiettivi dell’impresa e i bisogni dei lavoratori?
Assolutamente sì! Ha abbattuto tutte le barriere della vecchia gerarchia.
Quest’ultima non c’è più, nel senso che la fabbrica è molto più schiacciata, ci
sono gli operai, ci sono i capi Ute, ci sono i team leader, questa è una fabbrica
che aveva sette livelli.
305
13) In seguito all’introduzione del WCM, il modello partecipativo si è realizzato
concretamente o ancora vi è una partecipazione debole?
Al momento si è realizzato completamente. Poi ci sono stabilimenti in cui c’è una
maggiore maturità, e quelli in cui c’è una minore maturità. Però, non ci sono oggi
stabilimenti che sono rimasti fuori dal programma e, anche quelli con una minore
maturità, hanno delle medie di partecipazione che sono sopra le medie di
mercato, e questo anche in Italia è stata una sfida perché le reazioni che
abbiamo avuto inizialmente in Polonia e in Turchia siamo a livello di venti
suggestions per person, bene al di sopra del miglior benchmarck possibile. La
cosa interessante è vedere che siamo al di sopra dei diciassette, diciotto plant in
Italia, siamo sotto i dieci degli stabilimenti che sono un po’ più resistenti.
14) In questo nuovo modello quanto conta il dialogo con il sindacato? E il suo
coinvolgimento?
Il sindacato è sempre parte in causa. Il sindacato vive la fabbrica. I rappresentanti
sindacali vivono all’interno della fabbrica, quindi, non possono essere a lato da
questo punto di vista del processo. Quello che è capitato in tutti questi anni, è
che c’è stata una sana contrapposizione. Non è stato compreso immediatamente
il modello. Oggi c’è una maturità. Riceviamo delle proposte dal sindacato,
lavoriamo all’interno delle commissioni con il sindacato. In fabbrica c’è un clima
completamente diverso da quello rispetto a cui siamo partiti.
15) Quali potrebbero essere le azioni concrete per migliorare il rapporto con il
sindacato?
Sicuramente training, formazione. Per poter cambiare culturalmente bisogna
avere gli elementi che caratterizzano questo cambiamento. L’esperienza che ho
avuto negli Stati Uniti è stato determinante. Quando noi siamo partiti anche loro
306
non avevano nessuna conoscenza di sistemi di questa natura. L’hanno scelto
perché, pragmaticamente, hanno visto che era efficace e quindi si sono posti
immediatamente il problema di come far partecipare le persone all’interno della
fabbrica e come renderle partecipanti attivi, come renderli attori e quindi come
gestire e come operare con loro un programma di formazione adeguato che li
rendesse interlocutori credibili, come fare in modo che loro e le loro rispettive
aree di lavoro fossero operativamente messe in condizione di lavorare. In
Americana, noi abbiamo fatto un Accademy. Quest’ultima l’ha voluta il sindacato
prima ancora della Chrysler. L’Accademy degli Stati Uniti di Warren l’ha
finanziata il sindacato. Quest’ultimo ha fatto lavorare l’Accademy anche per
formare le sue persone. C’è stato un grande commitment. Questi grandi
cambiamenti, anche sul piano sindacale, non si realizzano se non c’è
commitment, e il commitment per il sindacato sono le segreterie generali, sono i
capi intermedi, cioè la stessa struttura dell’azienda se vogliamo. Il taglio delle
strutture che è stato fatto in azienda, non è stato fatto, parimenti, nel sindacato.
E’ ancora molto gerarchico il sindacato. Io credo che potrebbe anche lui fare una
sana riforma per essere più efficace e interloquire territorialmente e per
stabilimento, al fine di generare la stessa condizione di partecipazione.
16) Prospettive alla luce del nuovo contratto e dell’acquisizione di Chrysler?
Un’azienda unica, che sia capace di mettere insieme processi trasversali e globali
al punto di realizzare una migliore condizione per il cliente finale dovunque esso
si trovi. Una supply chain capace di governare tutti i processi logistici, una
capacità di gestire il management a livello globale in modo che in ogni angolo del
mondo siano capaci di identificarsi in questa nuova realtà.
307
Interviste Lavoratori Fiat Chrysler
Automobiles
Pino Di Castri
(Operaio Mirafiori Carrozzeria)
Antonella Palumbo
(Operaia Miarfiori Carrozzeria – Montatura)
Giuseppe Buscicchio
(Operaio Mirafiori Carrozzeria–Verniciatura)
Claudia Di Rosso
(Impiegata strutture centrali Fiat Chrysler
Automobiles)
308
Pino Di Castri
(Operaio Mirafiori Carrozzeria)
1) Che cos’è secondo lei il World Class Manufacturing? Come vede il Wcm? Qual
è la sua percezione?
È un metodo di lavoro che sta applicando Fiat e non solo. Il WCM, per come
l’hanno spiegato, se viene applicato in maniera corretta, può essere un buon
metodo per i lavoratori. Questo fa riferimento alle posture, una riduzione di tutte
quelle malattie patologiche che vengono fuori facendo sempre delle mansioni
ripetitive, soprattutto negli arti superiori.
2) Prima si lavorava in un modo, adesso che cosa è cambiato?
Il lavoratore non lo percepisce. Ci sono, ad esempio, di tutti i materiali a portata
di mano, lo sforzo è minore. Però, c’è uno stress maggiore. È aumentato lo stress
psicologico perché avendo tutto lì a portata di mano, hanno risicato un po’ i
tempi e quindi se, mentre prima facevo due passi, adesso non li faccio. I passi
servivano proprio allo stacco dai movimenti. Non so se è meglio l’uno o l’altro.
3) Il WCM ha portato ad un miglioramento delle condizioni di salute e sicurezza
del posto di lavoro? A tal proposito, cosa ne pensa del sistema Ergo-Uas? Ha
portato ad una riduzione della fatica dello stress, e delle malattie di tipo
muscolo-scheletrico?
Sì, sicuramente. È stato positivo.
309
4) In seguito all’introduzione del WCM, quale settore è migliorato
particolarmente? Ambiente/sicurezza/pulizia/ordine/fatica/tempi
Ambiente e sicurezza soprattutto. Pulizia ottima, anche l’ordine.
5) Secondo lei il lavoro diventa più autonomo e intelligente? oppure soltanto
più gravoso, o forse entrambe le cose insieme?
Non diventa autonomo. Noi non siamo autonomi. Però più intelligente sì.
6) Dato il principio di rotazione delle mansioni, è in grado di operare su
differenti postazioni di lavoro? Questo permette di rompere la routine della
ripetizione delle stesse operazioni?
Sicuramente sì. Anche se l’azienda non è in grado di applicarlo come vorrebbe.
7) Il WCM porta realmente ad una riduzione degli sprechi? La qualità del
prodotto è migliorata?
Sì, penso entrambi.
8) Come valuta il rapporto con i superiori (capi UTE e manager)?
È soggettiva la cosa. Come in tutti gli ambienti di lavoro c’è la simpatia e non.
Non dovrebbe esserci, però c’è. Ci deve essere un rapporto umano. Rispetto a
qualche anno fa è migliorato, sotto alcuni punti di vista, sotto altri, è diventato
più rigido perché, dal momento che siamo in un periodo di crisi, a volte la casta è
usata come clava sui lavoratori, come ricatto.
310
9) L’azienda si preoccupa dei vostri bisogni?
Direi di no.
10) Fate delle proposte di miglioramento?
Queste non sono una novità, già c’erano. si potrebbe fare di più. Il lavoratore
deve essere molto più coinvolto. Speriamo che questo avvenga. Vediamo se
l’azienda vuole. Poi c’è da dire che l’azienda è fatta di uomini, c’è una gerarchia a
volte, questa gerarchia interrompe questi processi perché trovi la persona che
non riesce a capire il modo con cui si deve porre al lavoratore.
11) È soddisfatto delle ricompense/premi che da l’azienda a seguito dei
suggerimenti che fornite per migliorare il lavoro?
Assolutamente no! Della maglietta o del gadget non ce ne facciamo niente. Il
lavoratore porta delle modifiche dove l’azienda risparmia milioni di euro. Il
lavoratore ha bisogno di denaro.
12) Sebbene vi sia libertà di proporre soluzioni, anche innovative, qualsiasi tipo
di cambiamento deve passare attraverso il vaglio di tutta una serie di livelli
gerarchici aziendali prima che possa essere implementato?
L’azienda deve prendere in considerazione soprattutto proposte di miglioramento
sulla sicurezza. Quando il lavoratore fa una segnalazione, già quella è una
proposta. Ovviamente l’azienda vuole che tutti lavoriamo in sicurezza, perché
qualcuno potrebbe incorrere in qualche denuncia. Se io posso fare una proposta
in cui l’azienda effettivamente dice, si risparmia il minimo, non la prende neanche
in considerazione. Quindi la proposta non è soltanto, io lavoro meglio, deve avere
311
anche un abbattimento dei costi. Poi ci sarà la persona che la valuterà, e se è
positiva verrà applicata e viene premiato.
13) Sono i team leader a decidere quali procedure di lavoro possono essere
modificate e in che modo?
Assolutamente no! Il lavoratore la fa, poi sarà il team leader che di fatto la
porterà al capo Ute. Quest’ultimo la porterà alla tecnologia che se ne occuperà, e
la tecnologia valuterà se questa effettivamente è buona oppure no.
14) Secondo Lei, in seguito all’introduzione del WCM, il modello partecipativo si
è realizzato concretamente o ancora vi è una partecipazione debole?
Attualmente è abbastanza debole.
15) Forme di disaffezione, quali la non partecipazione alle attività di
miglioramento continuo della qualità, l’assenteismo, lo sciopero, vengono
praticate?
Non è più così. Il lavoratore si mette in mutua se ha un problema di salute.
16) È soddisfatto della sua ricompensa economica?
No. Marchionne ha detto che ci avrebbe portato ai livelli dei tedeschi di 2000
euro al mese. Metalmeccanici come me che montano le macchine, il lavoro è
identico.
17) Se dovesse dare un voto all’azienda da una scala da una 1 a 10, quanto gli
darebbe? Questa azienda è un buon posto di lavoro?
312
L’azienda, la valuto positivamente, perché è un’azienda che dà lavoro.
Guardandomi in giro chiudono le aziende. E’ vero che abbiamo fatto cassa
integrazione, ma non è stato chiuso niente, a parte Termini Imerese ci potrà
essere qualche sbocco. Alla fine la valuto positivamente perché non ha dismesso
nessun stabilimento.
18) Come vede il rapporto con il sindacato? È necessario per lei la presenza del
sindacato oppure preferisce interagire direttamente, cioè attraverso
un’interlocuzione diretta?
Io potrei anche interagire personalmente, ma non tutti sono in grado di farlo. Il
sindacato ci vuole, deve crescere. È vero che c’è una disaffezione da parte del
sindacato in generale. Poi c’è stata la crisi, che è portata da tante cose, ma se
non ci fosse il sindacato sarebbe molto peggio.
19) Quando ci sono dei problemi il sindacato ne discute con l’azienda ed
insieme cercano di risolverli oppure deve scendere a patti con l’azienda?
Certo, ci sono delle commissioni che sono istituite per fare questo.
20) Secondo lei, con l’implementazione del WCM, l’azienda sta cercando di
“individualizzare” sempre di più il rapporto con il lavoratore? Senza
l’intromissione del sindacato?
Penso di no, anche se vuole escludere il sindacato. Ma non penso che riesca a fare
una cosa del genere.
313
21) Qual è il rapporto tra le varie organizzazioni sindacali? Cercano un dialogo
e di collaborare tra di loro?
Pessimo, perché sono in troppi e ci dovrebbe essere soltanto un sindacato di
categoria. Queste divisioni non portano a nulla. Andrebbe riformato, ma è
difficile, non avverrà mai, secondo me.
22) Come vede le RSU ? Vi è una disponibilità immediata delle RSU all’interno
dell’azienda?
Sì di molti sì. Anche lì poi è soggettiva la cosa. C’è la rsa ipocrita che si fa i fatti
suoi e ci sono poi, quelli che si mettono a disposizione dei lavoratori.
23) Cosa ne pensa dell’acquisizione di Chrysler?
Dieci anni fa era impensabile che fiat potesse acquistare un’azienda, qualsiasi
essa sia, soprattutto americana, è incredibile. La General Motors voleva in
qualche modo acquisire la Fiat. È stata pagata una penale per non farci
acquistare e da lì poi ci sono stati tutti una serie di progetti che ci hanno portato
ad acquisire Chrysler. È fantastica la sopravvivenza di entrambe!
314
Antonella Palumbo
(Operaia Mirafiori Carrozzeria - Montatura)
Giuseppe Buscicchio
(Operaio Mirafiori Carrozzeria – Verniciatura)
1) Che cos’è secondo voi il World Class Manufacturing?
Entrambi: E’ un modello di gestione aziendale, una tesi che ha lanciato
Marchionne, è una modalità di lavoro.
2) Come vedete il Wcm? Qual è la vostra percezione? Prima si lavorava in un
modo, adesso che cosa è cambiato?
Lei: Sicuramente una cosa positiva. Rispetto a vent’anni fa, quando c’erano le
malattie professionali perché comunque si lavorava con carichi di lavoro diversi,
era diversa la catena di montaggio. Oggi dovrebbe essere positiva perché con la
ASL di mezzo, l’Ergo-Uas è proprio una materia d’ingegneria, bisogna calcolare
leve, posture, ci formule, è quasi matematica. Dovrebbe essere poi attuata nella
maniera giusta proprio per evitare le malattie professionali.
Lui: È migliorato tantissimo l’aspetto lavorativo a livello di postazione di lavoro,
che può aiutare tantissimo la condizione lavorativa del lavoratore.
3) Il WCM ha portato ad un miglioramento delle condizioni di salute e sicurezza
del posto di lavoro? A tal proposito, cosa ne pensate del sistema Ergo-Uas? Ha
portato ad una riduzione della fatica dello stress, e delle malattie di tipo
muscolo-scheletrico?
315
Entrambi: Sì, assolutamente sì, molte malattie professionali.
4) In seguito all’introduzione del WCM, quale settore è migliorato
particolarmente? Ambiente/sicurezza/pulizia/ordine/fatica/tempi
Lei: Sicuramente l’ambiente e l’ordine. Anche se la cosa fondamentale del WCM
deve essere la postazione di lavoro. Da noi, sia in montaggio, sia in verniciatura,
c’erano delle postazioni rosse. Quando si faceva un’analisi e si andava ad
analizzare la postazione, questa poteva essere gialla, verde o se era rossa era
tutta da rivedere. Queste sono migliorate. Parliamo, attenzione, di uno
stabilimento dove in questo momento è chiuso, perché carrozzeria sono 3 anni
che non lavoriamo, lavoriamo a step, un tot di giorni al mese e quindi è tutto da
rivedere con la nuova vettura. Per quanto riguarda la vecchia catena di
montaggio, dove comunque le cose sono migliorate.
Lui: L’aspetto è globale della cosa, non solo a livello di postazione di lavoro ma
bensì anche di pulizia, sicurezza. Un contenuto a 360 gradi.
5) Secondo voi il lavoro diventa più autonomo e intelligente? oppure soltanto
più gravoso, o forse entrambe le cose insieme?
Lei: Sicuramente più intelligente, fare delle proposte. Non è più come una volta
che ti mettevi lì in catena di montaggio, ti facevi 8 ore e facevi sempre quello e
non eri tenuto a pensare. Oggi ci sono proprio delle postazioni in cui puoi
compilare un modulo, puoi fare appunto una proposta di miglioramento.
Lui: L’aspetto è molto più positivo. Sei già più qualificato e quantificato, sai già
come che stai facendo. In passato mettevi una vite e non sapevi quello che stavi
facendo, oggi sai il tuo posto di lavoro, e sai quantificare, quel tipo di vite, un tipo
di sigillatura, insomma puoi migliorare il tuo posto di lavoro.
316
6) Dato il principio di rotazione delle mansioni, siete in grado di operare su
differenti postazioni di lavoro? Questo permette di rompere la routine della
ripetizione delle stesse operazioni?
Lei: In pratica sì, perché ogni lavoratore, comunque, ha la possibilità. Certo è il
capo che ti inserisce in un certo sistema, di poter lavorare su più postazioni. Non è
il WCM che ti porta a fare più mansioni. Quando fai un corso di formazione hai in
quella settimana la possibilità di apprendimento e da lì puoi fare diverse
mansioni. Con il WCM, puoi lavorare in base al WCM, alla possibilità del
lavoratore.
Lui: Questo metodo di lavoro ha migliorato molto l’aspetto lavorativo, nel senso
che se tu sei una persona idonea, ti può permettere di essere un “jolly”, nel senso
che puoi fare qualsiasi tipo di postazione, ruotare nella giornata nell’arco di otto
postazioni, cosa che prima magari non si faceva. Questo metodo di lavoro
migliora l’aspetto migliorativo.
7) Il WCM porta realmente ad una riduzione degli sprechi? La qualità del
prodotto è migliorata?
Entrambi: Per quanto riguarda la riduzione degli sprechi sì. Per quanto riguarda
la qualità del prodotto bisogna vedere su quale piano la vogliamo mettere,
profilo aziendale, profilo politico, dovrebbe essere così. La qualità deve
migliorare, è fondamentale.
8) Come valutate il rapporto con i superiori (capi UTE e manager)?
Entrambi: L’azienda è cambiata molto su questo rispetto a dieci, quindici anni fa.
C’è anche più competenza. Sono materie dove bisogna studiare, analizzare, tutto
fa il suo percorso, in meglio, c’è la tecnica, la teoria e la pratica. Chi è sul lato
pratico, come noi operai, confrontarci con chi la guarda dal lato tecnico,
317
comunque c’è un confronto. Non è detto che quello che è su carta sia giusto e in
pratica vada tutto nel verso giusto, non è così. Bisogna trovare una via di mezzo,
perché sulla carta è molto semplice, nella pratica non è sempre così.
9) L’azienda si preoccupa dei vostri bisogni? Quali sono le vostre priorità? E
quelle dell’azienda?
Entrambi: L’assenza dalle postazioni di lavoro per qualsiasi bisogno privato.
10) Quali strumenti vengono adottati dall’azienda per motivare/valorizzare voi
lavoratori all’interno della nuova organizzazione? Vi sono meccanismi di
incentivazione e di gratificazione?
Entrambi: Prima davano un compenso monetario per la proposta di
miglioramento che era andata a buon fine. Adesso no.
11) Sebbene vi sia libertà di proporre soluzioni, anche innovative, qualsiasi tipo
di cambiamento deve passare attraverso il vaglio di tutta una serie di livelli
gerarchici aziendali prima che possa essere implementato?
Entrambi: Sì, c’è una burocrazia, si dovrebbe cercare di ridurla un pò. Adesso c’è
stata una riduzione dei livelli gerarchici perché nello stacco dall’operaio al
dirigente c’erano troppo figure, e quindi adesso parecchie neanche esistano più.
12) Sono i team leader a decidere quali procedure di lavoro possono essere
modificate e in che modo?
Entrambi: No, c’è il capo Ute e il capo Officina che decidono in quella Ute quale
scelte fare, non ha potere decisionale.
318
13) Secondo voi, in seguito all’introduzione del WCM, il modello partecipativo si
è realizzato concretamente o ancora vi è una partecipazione debole?
Entrambi: Partecipazione debole perché è una materia difficile, occorre tempo.
Non è una materia che si può solo studiare, ma è una materia pratica, bisogna
praticarla sul luogo di lavoro. Bisogna essere molto più partecipativi, molto più
elastici tra azienda, sindacato e chi c’è al lavoro. Altrimenti, sono cose che
rimarranno soltanto scritte e non si potrà vedere la praticità sul posto di lavoro.
14) Forme di disaffezione, quali la non partecipazione alle attività di
miglioramento continuo della qualità, l’assenteismo, lo sciopero, vengono
praticate?
Entrambi: Una volta c’era lo sciopero, è cambiato il sistema, mettiamola così. I
nostri genitori hanno fatto tanto per acquistare diritti che oggi noi abbiamo e li
hanno acquistati con lo sciopero, la marcia dei quarantamila. Poi, se ci sono delle
cose errate, il sistema lo troviamo. Nessuno ha il diritto di calpestare il diritto di
un essere umano, non siamo macchine o robot.
15) Siete soddisfatti della vostra ricompensa economica?
Entrambi: No, si tratta di lavori usuranti, che fa i turni, che si alza alle 4.00 del
mattino tutti i giorni per tutta la vita. Siamo in una catena di montaggio, non è
un lavoro di scrivania. Dovrebbero pagarci di più, oppure ricompensarci in
maniera diversa.
319
16) Se dovreste dare un voto all’azienda da una scala da una 1 a 10, quanto gli
dareste? Questa azienda è un buon posto di lavoro?
Entrambi: La sufficienza, c’è ancora da fare. È un buon posto di lavoro, questo sì,
E’ un colosso nazionale. Abbiamo sempre detto un governo dentro un governo.
Non c’è stato un controllo e questo ci ha portati allo sbaraglio. Alcuni nostri
politici, non si sono resi conto che quello che non è stato fatto dalla Fiat ha
lesionato il sistema nazionale e oggi ne stiamo pagando le conseguenze. La Fiat
era l’indotto che c’era intorno, adesso non esiste più e questo dobbiamo
ringraziare i nostri politici.
17) Come vedete il rapporto con il sindacato? È necessario per voi la presenza
del sindacato oppure preferite interagire direttamente, cioè attraverso
un’interlocuzione diretta?
Lei: È importantissimo il sindacato. Per noi lavoratori è uno strumento che
abbiamo a disposizione. Quindi, fare da portavoce all’azienda, il sindacato ci deve
essere, anche se qualcuno cerca di debellarlo, soprattutto i giovani non credono
più nel sindacato, ed è sbagliato perché comunque è il portavoce del cittadino e
del lavoratore.
Lui: Anche perché noi serviamo all’azienda, per gli accordi, andiamo a prendere
atto, anche se non è questo il nostro lavoro, ci stanno dando ancora fiducia.
18) Quando ci sono dei problemi il sindacato ne discute con l’azienda ed
insieme cercano di risolverli oppure deve scendere a patti con l’azienda?
Entrambi: Certo, si cerca di arrivare ad una mediazione, nel senso di risolvere il
problema. Il sindacato non deve scendere a patto con l’azienda.
320
19) Per quanto riguarda gli strumenti, cioè meccanismi di tipo partecipativo,
funzionano le commissioni paritetiche?
Entrambi: Sì, funzionano. Ci sono degli incontri.
20) Secondo voi, con l’implementazione del WCM, l’azienda sta cercando di
“individualizzare” sempre di più il rapporto con il lavoratore? Senza
l’intromissione del sindacato?
Entrambi: Purtroppo sì. È normale che l’azienda cerchi di mettere da parte il
sindacato per avere un rapporto direttamente con il lavoratore. A volte sì.
21) Qual è il rapporto tra le varie organizzazioni sindacali? Cercano un dialogo
e di collaborare tra di loro?
Entrambi: A volte sì, a volte no, dipende dalla motivazione, non abbiamo tutti le
stesse idee, il sindacato ha la sua linea politica. Si ci parla se è un problema che
dobbiamo condividere insieme, ma di certo non si va a braccetto.
22) Come vedete le RSA ? Vi è una disponibilità immediata delle RSU all’interno
dell’azienda?
Entrambi: Come lavoratori dovremmo rivolgerci alla nostra rsa, quindi per far
portavoce con l’azienda per problematiche che abbiamo, quindi sì.
23) Che cosa è cambiato dopo le vertenze di Pomigliano e Mirafiori? Si dice che
siano stati cancellati “diritti e garanzie” per i lavoratori
Entrambi: No, non è cambiato niente. Come si lavorava prima si lavora adesso.
Un piccolo inconveniente è che adesso c’è un contratto che ci lega con l’azienda
321
che abbiamo firmato. Se prima avevi un esigenza, magari il capo Ute e del
Personale erano più rigidi, adesso sono finite, nel senso che adesso poni il
problema, hai delle tue regole ma anche dei vincoli che abbiamo firmato per
salvare i posti di lavoro. Per quelli che dicono, come la Cgil e la Fiom, che
abbiamo firmato questi accordi, lo abbiamo fatto per firmare i posti di lavoro. Ci
sono degli aspetti migliorativi come ad esempio la postura, l’Ergo-Uas, rispetto
agli anni precedenti.
24) Cosa ne pensate dell’acquisizione di Chrysler?
Lei: La rispondo a livello personale e non come lavoratrice o delegata sindacale:
secondo me Marchionne ha dovuto fare questa scelta per il sistema politico e
governativo che c’era al momento, infatti sono state spostate le sedi legali e ecc.
Marchionne ha spostato la parte più importante all’estero. Le vetture che fa in
Chrysler le potevamo fare anche qui in Italia, però è stata fatta questa scelta. Il
Governo che c’è stato allora non ha fatto nulla per mantenere la fabbrica Fiat qui
in Italia, parliamo del Governo Berlusconi.
Lui: Oggi Fiat, 108 anni di azienda, oggi la Fiat che ha comprato Chrysler è stato il
massimo. Oggi ci chiamiamo Fiat-Chrysler. Io non penso che questa sia l’ultima
operazione che farà Marchionne. Penso che oggi, per stare sul mercato, ti devi
per forza alleare, come le altre case, se vuoi rimanere sul mercato. Oggi dire che
la Fiat ha comprato Chrysler, mi sento più sicuro a livello lavorativo. Se fosse
stato solo Fiat per me, oggi, poteva essere pericoloso. La possono vedere in
diversi modi, come uno spreco di denaro. Quando si faceva sindacato, allora, si
diceva che le macchine piccole danno il lavoro. Oggi il mercato è cambiato,
l’esigenza del cliente è cambiata. Oggi c’è il polo del lusso. Quando facevo la
Panda, nessuno comprava le macchine del segmento C o del segmento B, perché
non attiravano. Oggi c’è il polo del lusso e all’estero questo tipo di macchina è
apprezzata. Quindi quando partirà Mirafiori, potremo fare un lancio come la
Maserati. C’erano dei pregiudizi quando è stata avviata la Ex Bertone, però gli
322
esiti sono stati positivi. Firmando il contratto sono stati dati dei posti di lavoro. Mi
sarebbe piaciuto sentire solo il nome Fiat, ma adesso anche se si chiama Fiat-
Chrysler la cosa è indifferente perché ha permesso di salvare posti di lavoro.
Adesso si stanno facendo dei sacrifici, si lavora lì anche il sabato in Maserati, si
vuole fare ciò, anche per garantire un qualcosa per le nuove generazioni.
Non sono io che devo difendere Fiat, perché ha pregi e difetti, io penso che i lavori
lì stiano facendo. Il problema è quando facciamo la macchina, quella è la cosa
importante. Per quanto riguarda i sindacati, quelli della Fiom, un punto
d’incontro non lo vogliono trovare, dicono di no a tutto, poi se le cose vanno male
loro dicono “ma io lo avevo già detto”.
323
Claudia Di Rosso
(Impiegata strutture centrali Fiat Chrysler
Automobiles)
1) Che cos’è il World Class Manufacturing?
É un sistema, un nuovo tipo di organizzazione del lavoro che si prefigge
principalmente due fini: la riduzione degli sprechi e una maggiore competitività
nei mercati. Poi ovviamente legato ci sono altre cose, ma se vogliamo sintetizzare
queste sono le due cose più importanti.
2) Come vede il WCM? Qual è la sua percezione?
Devo dire che il WCM, dove sono io, non è entrato. Lo conosco perché l’ho un po’
studiato e conosciuto, però, da me, si dovrebbe fare più che altro il World Class
Tecnologies, che poi non è partito tra gli impiegati e non ho capito il perché.
Come WCM, i nostri colleghi, che studiano le linee di lastratura, applicano delle
cose che sicuramente sono necessarie nelle fabbriche, ma io direttamente non lo
conosco. Secondo me è uno strumento che, se ben impiegato, è molto utile a
raggiungere un livello di competitività con le altre aziende, ma soprattutto a dare
l’innovazione del progresso. Per me è un sistema per raggiungere la cosiddetta
“fabbrica del futuro”. È un buon sistema.
3) Il WCM ha portato ad un miglioramento delle condizioni di salute e di
sicurezza del posto di lavoro? A tal proposito, cosa ne pensa del sistema Ergo-
Uas? Ha portato ad una riduzione della fatica dello stress e delle malattie di
tipo muscolo-scheletrico?
324
Io lavoro come RLS, rappresentante per la sicurezza dei lavoratori. Sicuramente
ha avuto, soprattutto per quanto riguarda l’ergonomia, dei fattori positivi.
Sicuramente ha portato dei grandi miglioramenti per quanto riguarda la postura
e anche per quanto riguarda la sicurezza a livello generale. Uno dei pilastri del
WCM è il safety.
4) In seguito all’introduzione del WCM, quale settore è migliorato
particolarmente? Ambiente/sicurezza/pulizia/ordine/fatica/tempi
Quello che ho percepito, sempre incrociando gli operai, e che mi ha colpito che
molti parlano di più luminosità, non sono più ambienti bui, sono più puliti. Quello
che io ho percepito da loro e che le postazioni sono più pulite, c’è luminosità, la
postazione di lavoro è migliorata, devono spostarsi di meno, hanno tutto a
portata di mano e questo può evitare malattie che potevano manifestarsi nel
tempo.
5) Secondo lei il lavoro diventa più autonomo e intelligente? oppure soltanto
più gravoso, o forse entrambe le cose insieme?
Se la persona recepisce bene il WCM, la persona assume un ruolo importante nel
migliorare lui stesso, la postazioni di lavoro. C’è valore aggiunto da parte
dell’operaio, con tutta la sua capacità, con tutta la sua esperienza che si è fatto.
Può incidere in questo WCM, può suggerire dei miglioramento affinché tutto
diventi più snello, più veloce, più attento alla sicurezza, con molta riduzione degli
sprechi. E’ un ruolo che l’operaio può giocarsi bene.
6) Il WCM porta realmente ad una riduzione degli sprechi? La qualità del
prodotto è migliorata?
325
Sicuramente la riduzione degli sprechi ci sarà stata, ma fino a che il WCM non
verrà esteso a tutti gli attori, è chiaro che una buona riduzione degli sprechi non
è ancora effettiva. A livello di officina, immagino di sì, e lo dicono gli operai.
Dovrebbe ampliarsi, e a quel punto, quando toccherà tutti i poli, tutte le persone
che fanno parte di quel lavoro, potrebbe rilevarsi un effettivo sistema per ridurre
gli sprechi. Adesso è entrato nelle fabbriche più nuove ma non toccate altre
persone che comunque ci lavorano in fabbrica.
7) L’azienda si preoccupa dei vostri bisogni? Quali sono le vostre priorità? E
quelle dell’azienda?
L’azienda in questo momento è attenta al bisogno e alla vita dell’operaio. Non
sono sicura che sia attenta anche alla vita dell’impiegato. Secondo me c’è questo
divario, un po’ causato dalla differenza di culturale. L’impiegato ha una culturale
un po’ da arrogante, pensa di potersi risolvere il problema da solo quindi, il
rapporto che l’operaio ha con la struttura nel cercare di portare i problemi e
farseli risolvere, l’impiegato non ce l’ha, proprio per la presunzione che io posso
risolvere i problemi. Un altro aspetto è che l’operaio fa squadra c’è un concetto
di insieme. Tra gli impiegati non c’è, ed è uno scoglio. Bisognerebbe far fare un
corso di comunicazione a tutti. Qui il corso di comunicazione, non si capisce bene
come viene gestito, ma certo non cade capillarmente su tutti. In questo corso, in
cui io ero l’unica donna in una platea di uomini, ho percepito che lavorare in
team è un ostacolo. Io ho l’impressione che gli operai in squadra lavorino meglio
rispetto agli impiegati in squadra.
8) Quali strumenti vengono adottati dall’azienda per motivare/valorizzare voi
lavoratori all’interno della nuova organizzazione?
Gli aumenti sono fermi in seguito alla crisi. C’è solo un sistema di valutazione tra
gli impiegati che è stata estesa a tutti gli impiegati. In realtà è usata male perché
326
diventa uno strumento per incentivare qualcuno al posto di qualcun altro. È utile,
ma viene usato male, ci sono pochi soldi, non ci soldi e quindi viene utilizzato
male.
9) Secondo Lei, in seguito all’introduzione del WCM, il modello partecipativo si
è realizzato concretamente o ancora vi è una partecipazione debole?
Il sistema partecipativo, penso, sia stato ben iniziato, capito e somatizzato da
alcune sigle sindacali e alcuni delegati. Trova difficoltà a decollare perché è una
società che in questo momento è individualista, c’è arroganza. Dal punto di vista
sindacale, è ancora visto come quello che ti crea problemi, quindi non è
completamente decollato. Io ci credo moltissimo. Io lo sto applicando, infatti
cerco di essere partecipativa, però c’è ancora un grosso passo culturale da fare
che paradossalmente tra gli operai che con gli impiegati, te lo dico da impiegata.
10) È soddisfatto della sua ricompensa economica? Vi sono possibilità di
crescita professionale all’interno dell’azienda?
Io sono inquadrata come assistente, che in Italia non ha ragione di esistere.
Quindi sono una segretaria, e da lì non mi muovo. Io non mi posso aspettare
nulla, però spero che l’azienda posso riqualificarmi per farmi fare altre attività. In
questo ho fiducia.
11) Se dovesse dare un voto all’azienda da una scala da una 1 a 10, quanto gli
darebbe?
C’è una parte dell’azienda che ha una mentalità molto propositiva, culturalmente
già avanzata; e una buona fetta Fiat che ha ancora una mentalità della vecchia
Fiat. Alla ricerca di Alberto Cipriani sul WCM, l’azienda si è messa positivamente,
quindi potrei darle un bel sette o otto. Su altri aspetti la sufficienza. C’è chi crede
327
in questo cambiamento e in questo rinnovamento, e c’è, invece, chi tira ancora
indietro.
12) Questa azienda è un buon posto di lavoro?
Sì, lo è. L’azienda gioca sul ruolo. In un periodo in cui le altre aziende hanno
chiuso, questa azienda ha continuato a garantire il posto di lavoro a tutti. Quindi
è ancora un buon posto di lavoro.
13) Come vede il rapporto con il sindacato? È necessario per lei la presenza del
sindacato oppure preferisce interagire direttamente, cioè attraverso
un’interlocuzione diretta?
A me piacerebbe tanto un sindacato unitario. Io sono per un sindacato, dove il
sindacalista lavora in azienda, lavora con gli altri e per gli altri, non per una punta
di voglio farmi vedere, voglio fare carriera. Io sono fuori dagli schemi dei vecchi
sindacalisti. Quello che sento adesso dai miei colleghi, è che sono bacchettati
perché il sindacato vien identificato come quello che non ha voglia di lavorare,
un fancazzista. Io sono invece per la parte attiva, un sindacato alla tedesca,
partecipativo, dove partecipa realmente alla vita dell’azienda. Questo tipo di
sindacato fa bene al lavoratore e permette all’azienda di essere competitiva, non
il sindacato alla vecchia maniera, tutti fuori i cancelli.
14) Quando ci sono dei problemi il sindacato ne discute con l’azienda ed
insieme cercano di risolverli oppure deve scendere a patti con l’azienda?
Io e la FIM, sicuramente cerchiamo il tavolo. Portiamo il problema e delle
possibili soluzioni. Quando mi portano il problema cerco di capire in che misura
è, quanti lavoratori colpisce, ascolto le soluzioni. Io non vedo nell’azienda il boia
cattivo, ma vedo nell’azienda, l’azienda che fa il suo lavoro io il mio e troviamo
328
una soluzione, per il bene il tutti. E secondo me è ancora fattibile, solo che
purtroppo, vuoi per un certo sindacato del passato, vuoi perché gli errori sono
stati fatti, la gente oggi lo schifa abbastanza. Ti parlo dei miei impiegati e non dei
quadri, perché è passato l’idea che i quadri sono un sindacato e non è vero, e se
vai dai quadri loro sono amici dell’azienda quindi tu non ti fai nemico con
l’azienda. Quindi già un partenza sbagliata. Ognuno ha bisogno di giocare il
proprio ruolo, ma di parlarci e di confrontarci, e poi se passi dai quadri sei visto di
buon occhio.
15) Per quanto riguarda gli strumenti, cioè meccanismi di tipo partecipativo,
funzionano le commissioni paritetiche?
Abbiamo qualche difficoltà. L’azienda cerca di interpretarla a modo suo, invece
sono degli ottimi strumenti di lavorare. Perché anche qui, se l’azienda si fidasse
del sindacato e viceversa, sarebbe un campo su cui confrontarsi per risolvere i
problemi. Facciamo l’esempio della commissione assenteismo: l’azienda ti
convoca, ti da dei dati, ma tu non sai se c’è una maggiore concentrazione di
assenteismo in un’aria, piuttosto che un'altra. Non ti da gli strumenti per poter
interagire, tende ancora a manipolare e gestirsi la situazione da sola.
16) Secondo lei, con l’implementazione del WCM, l’azienda sta cercando di
“individualizzare” sempre di più il rapporto con il lavoratore? Senza
l’intromissione del sindacato?
C’è una fetta di azienda che lo fa ancora, ma io sono fiduciosa che i rapporti
cambiano. C’è l’altra fetta che ha un’idea di partecipazione.
17) Qual è il rapporto tra le varie organizzazioni sindacali? Cercano un dialogo e
di collaborare tra di loro?
329
Io, finora, con i coordinatori delle altre sigle, ho fatto un buon lavoro. Sono
riuscita a metterli insieme. Non so abbia giocato anche il fatto di essere donna e
quindi a portare un po’ l’idea della donna in mezzo agli uomini. Sono riuscita a
farli calmare un attimo, a farli incontrare e capire meglio. Ogni sindacato ha una
sua ideologia. Se fossimo un po’ più a rete sarebbe diverso, e su questo l’azienda
ci gioca.
18) Come vede le RSU ? Vi è una disponibilità immediata delle RSU all’interno
dell’azienda?
Io vedo in certi ambienti che la donna viene ancora limitata, come se non avesse
la competenza di gestire alcune cose. Fa fatica ad imporsi. Oggi ha lo spazio per
muoversi, dipende dalla persona. L’ambiente Fiat è particolare, bisogna acquisire
un certo modo di comportarsi, di dialogare, e, in questo, le rsa della Fim abbiano
capito come muoversi in questo senso partecipativo. Le rls, dovrebbero
ragionare non a livello di sigla ma di sicurezza.
19) Cosa è cambiato dopo le vertenze di Pomigliano e Mirafiori?
Non è cambiato niente. Per la FIOM, noi siamo quelli che stiamo dietro l’azienda.
Io li vedo come un gruppo di persone che non sanno sottostare a certe regole. È
cambiato che adesso lavorano per i fatti loro, ma non vedo risultati. Vedo gli altri
sindacati che cercano di parlarsi e di fare delle cose insieme. Loro sono sempre
sul pian di guerra. A me non danno fastidio, io parlo con tutti, loro sono molto
rigidi sulle loro posizioni.
20) Cosa ne pensa dell’acquisizione di Chrysler?
Penso che se non si fossero fatti alcuni ragionamenti, adesso non si potrebbe
neanche parlare di Fiat. Partiamo con l’idea che l’azienda è azienda e fa il suo
330
ruolo. Sicuramente nel suo gioco si preoccupa dei sui investimenti, dei suoi soldi
e forse meno dell’operaio, però è anche vero che gli stabilimenti sono stati
salvati. Tutto quello che hanno detto che avrebbero fatto l’hanno fatto. Mirafiori
sta partendo; Maserati è già avviato. Molto dipende dall’andamento del
mercato. Il popolo Fiat che frequento, vede soltanto all’interno di Fiat. Questa
azienda deve essere vista in un insieme globalizzato. Di quello che sta
succedendo fuori, gli altri, non si sono fatti problemi a chiudere. Quello che è
stato messo sul tavolino si sta facendo, non vedo tutta questa negatività. La
negatività l’avrei vista se adesso fossero chiusi i cancelli. C’è questa disaffezione
perché la gente è diventata un po’ stronza. Ci sono epoche ed epoche. È molto
più facile dal brutto andare al bello e non viceversa. Bisogna tornare a mettere il
lavoro al centro e tornare a lavorare, accontentandosi di una vita basata su cose
semplici. Non si può rimanere fermi, ma cambiare, crescere. Se non fosse stato
così oggi che cosa si farebbe.
331
Considerazioni conclusive
Negli ultimi cinquant’anni abbiamo assistito ad una vera e propria
rivoluzione del mondo delle fabbriche, legate a fattori economici,
tecnologici e sociali. L’industria dell’automobile è stata per molti anni la
più rappresentativa dell’evoluzione dei processi produttivi, dell’ambiente
di fabbrica e della relazione tra fornitori e clienti finali.
La maggior parte dei processi industriali ha raggiunto livelli di
automazione importanti, specialmente nelle aree che devono garantire
stabilità e qualità del prodotto, ovvero per la riduzione della fatica degli
operai e per assicurare a quest’ultimi un ambiente di fabbrica sicuro con
rischi di infortuni ridotti al minimo. Indubbiamente il livello di
automazione raggiunto è frutto di tutta una serie di cambiamenti
progressivi consentiti dall’avvento di nuove tecnologie, ma gli aspetti
organizzativi e gestionali hanno giocato e continueranno a giocare un
ruolo fondamentale nell’evoluzione degli ambienti di fabbrica,
soprattutto per quanto riguarda il rapporto uomo-macchina ed il livello
di coinvolgimento del management nell’impostazione e gestione dei
processi produttivi.
Oggi, le realtà industriali tendono quindi ad attuare un processo di
organizzazione che non guarda più soltanto all’introduzione di nuove
tecnologie ma bensì alla sperimentazione di nuovi “modelli organizzativi
del lavoro umano”, che portano ad una diversa combinazione tra lavoro
e tecnologia, maggiore partecipazione dei lavoratori, formazione, nuova
visione dei rapporti tra management aziendale e sindacato.
La ricerca sottolinea i profondi cambiamenti che sono avvenuti
nell’organizzazione del lavoro in fabbrica a partire dalla sperimentazione
del “World Class Manufacturing” avviata nel 2006 dal Gruppo Torinese.
332
Un primo dato significativo mostra come le innovazioni organizzative
abbiano portato ad un miglioramento oggettivo delle condizioni di
lavoro, ad un ambiente idoneo per le esigenze del lavoratore, che si
traducono in una maggiore attenzione alla pulizia ed alla luminosità degli
ambienti, un miglioramento delle condizioni di salute e di sicurezza del
posto di lavoro, con una maggiore attenzione per quel che riguarda
l’ergonomia delle postazioni abbinata alla metrica.
Oltre alle innovazioni organizzative, il World Class Manufacturing mira a
ricostruire e a migliorare il rapporto tra direzione aziendale e lavoratori,
vi è una maggiore propensione dell’azienda verso le esigenze dei
lavoratori, soprattutto per quel che riguarda la sicurezza e l’ergonomia
del posto di lavoro, training, formazione sui principi e gli strumenti del
World Class Manufacturing, partecipazione attiva e coinvolgimento dei
lavoratori alle attività di miglioramento continuo. Dall’altra parte, i
lavoratori riconoscono che vi è stato un miglioramento generale delle
condizioni di lavoro, lo sforzo fisico è diminuito anche se lo stress tende
a permanere, il lavoro diviene più intelligente, anche se quello che
sembra mancare è un adeguato sistema di ricompense a seguito dei
suggerimenti che forniscono per migliorare il lavoro, un rapporto con
l’azienda che rispetto al passato è migliorato anche se in alcuni casi
permangono ancora delle logiche particolaristiche, una partecipazione
debole in quanto è un metodo di lavoro che richiede di essere studiato e
praticato quotidianamente e soprattutto richiede un rapporto “elastico”
tra azienda, sindacati e lavoratori.
La diffusione del World Class Manufacturing ha richiesto non soltanto
un forte livello di partecipazione e di coinvolgimento dei lavoratori ma
ha introdotto grandi trasformazioni nella rappresentanza sindacale. Il
sindacato, infatti, sta vivendo oggi più che mai una fase di notevole
333
trasformazione rispetto alle esperienze precedenti assumendo delle
caratteristiche strutturali nuove, da organismo di tipo tradizionalmente
“conflittuale” a “sindacato partecipativo”.
Questo apre nuovi spazi di relazioni maggiormente consensuali o
partecipative tra management e sindacato all’interno dei luoghi di lavoro,
con il management alla ricerca di un partner affidabile (Streeck, 1987;
Fortunato, 2000). Il management ha spesso avuto bisogno di un certo
sostegno da parte delle rappresentanze sindacali per implementare con
successo i nuovi metodi di lavoro di produzione snella (Kochan,
Lansbury, MacDuffie, 1997). Lo stesso sembra valere oggi per
l’implementazione del programma World Class Manufacturing.
In questo quadro di trasformazione, il ruolo del sindacato è sempre più
cruciale nella misura in cui è chiamato a collaborare “responsabilmente”
e a partecipare attivamente alla ristrutturazione organizzativa.
Dalla ricerca è emerso che da parte del management vi è la volontà di
coinvolgere il sindacato, questo coinvolgimento tuttavia può avvenire
soltanto se, da una parte, il sindacato effettua una “rivisitazione” della
sua struttura che si presenta ancora oggi molto gerarchica, dal momento
che il taglio delle strutture che è stato fatto in azienda non è stato fatto
parimenti nel sindacato, e dall’altra, attraverso uno sforzo in termini di
commitment, di apprendimento e di formazione di quelli che sono i
principi del World Class Manufacturing, di quelli che sono i temi e i
problemi all’interno della fabbrica e infine un rapporto collaborativo tra
le diverse sigle sindacali, che si presenta ancora oggi molto frammentato
e diviso.
Dall’altra parte, vi è la considerazione da parte del sindacato che l’azienda
adotti un “approccio duale”, cioè che cerchi da una parte di
“individualizzare” con il lavoratore e dall’altra di dialogare con il
334
sindacato plasmandolo nella misura in cui gli è possibile (Fortunato,
2001). Quello che emerge è che il coinvolgimento del sindacato
all’interno dell’azienda è ancora abbastanza debole, fino ad ora quello
che è stato trattato nella contrattazione è solo un riconoscimento
economico a fronte di un risultato dello stabilimento nel suo insieme,
che porta ad assegnare delle medaglie e un premio economico per
ciascun lavoratore dello stabilimento.
Quello che sembra mancare all’interno di Fiat Chrysler Automobiles è
una “gestione partecipativa”, cioè di gestione delle problematiche
quotidiane, infatti, è interessante notare, come, a differenza degli anni
Novanta, in questo caso non ci sono commissioni o meccanismi in cui la
partecipazione è istituzionalizzata. Molti ritengono che in alcuni
stabilimenti vi sia un buon livello di concretezza per quanto riguarda le
commissioni, in molte realtà questo non avviene in quanto l’azienda
tende il più delle volte a comunicare, piuttosto che a dialogare o discutere
preventivamente di molti dei temi collegati al WCM.
In questa direzione, i sindacati seguono le decisioni dell’azienda si
adattano a questo modello spinti da esigenze di sopravvivenza piuttosto
che da un effettivo potere o capacità di tutelare i lavoratori. In questo le
nuove regole e il contratto dell’auto per FCA agevolano questa prassi.
È inoltre interessante notare nella ricerca, come al cambiamento della
natura del sindacato cambi anche l’idea della contrattazione, vi è sempre
di più la tendenza verso il decentramento della contrattazione collettiva.
La richiesta di un livello contrattuale aziendale è avvenuto a partire dal
2000 e si è concretizzato in diversi accordi separati tra Confindustria, Cisl
e Uil (e altre sigle) con l’astensione della Cgil, fino all’accordo sulle nuove
relazioni industriali del 2009. Nessuno di questi accordi ha soppiantato il
contratto nazionale di settore, ma è ovvio che la creazione di uno spazio
335
di contrattazione autonoma aziendale, nonché le possibilità di deroga al
contratto nazionale sono tutti elementi che hanno eroso potere e ruolo al
contratto nazionale. La vicenda della Fiat, con la scelta quindi di un
contratto di lavoro aziendale in sostituzione di quello nazionale e con
l’uscita poi da Confindustria per non sottostare all’accordo del 1993, è un
segno del cambiamento dei tempi, il contratto collettivo di lavoro ha
ancora un ruolo da ricoprire se saprà adattarsi alle nuove condizioni,
rivestendo un ruolo di guida e di riferimento anche per la politica
economica del paese.
336
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