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Indicatori di riparto del valore aggiunto e rischio di default nelle imprese italiane
Gianni Zorzi1
Novembre 2009
Abstract
Secondo l’approccio degli studiosi di Corporate Social Responsability (CSR), le imprese
maggiormente “responsabili”, anziché focalizzarsi sulla massimizzazione del risultato per gli azionisti (shareholders), riconoscono il loro ruolo nei confronti di tutti gli stakeholders, interni ed esterni. Numerosi studi sono stati condotti con l’obiettivo di verificare una relazione tra responsabilità sociale e performance aziendali, in modo da valutare se gli investimenti e le azioni intraprese in tal senso dalle società potessero portare nel lungo periodo degli effetti tangibili. Il tema della performance aziendale è da sempre studiato dagli economisti finanziari, i quali sono soliti legare il concetto di redditività, e quindi anche di valore, a quello di rischio. Da questo punto di vista, misurare le performance aziendali significa anche valutare i benefici apportati ai conferenti capitale in termini di minore rischiosità, ovvero di un minore impatto (quantomeno) sulla parte sistematica dei rischi assunti dagli azionisti, e di un minore rischio di credito (in tutte le sue espressioni) per gli “obbligazionisti”. La presente ricerca indaga la relazione tra distribuzione del valore aggiunto, quale particolare aspetto di responsabilità sociale d’impresa, e rischio di fallimento, su un vasto campione di piccole e medie imprese italiane (oltre 250.000 bilanci di esercizio compresi tra il 2004 ed il 2006). I modelli statistici creati su alcuni indicatori di produzione e di riparto del valore aggiunto risultano avere una discreta predittività; tuttavia, non è possibile determinare con certezza quale contributo sia attribuibile al concetto di responsabilità sociale d’impresa, e quale invece debba essere riconosciuto, più in generale, alla sua performance economica complessiva.
parole-chiave: distribuzione del valore aggiunto, responsabilità sociale d’impresa,
rendicontazione sociale, rischio di credito, rischio di fallimento.
1. Introduzione
Il tema della Corporate Social Responsibility (CSR) ha assunto negli ultimi decenni
una crescente rilevanza tra gli studiosi di economia. Secondo quest’approccio, le
imprese “socialmente responsabili”, anziché focalizzarsi sulla massimizzazione del
risultato per gli azionisti (shareholders), riconoscono il loro ruolo nei confronti di tutti
1 Dottorando di Ricerca in Finanza presso l’Università di Trieste. Residenza: via G. Bertoli, 12, 33031 Basiliano (UD); email: [email protected].
2
gli stakeholders, interni ed esterni. Il concetto di stakeholder si applica non solamente al
personale dell’impresa, ai suoi clienti e fornitori, ai conferenti capitale di credito, ma
anche alla Pubblica Amministrazione, alla collettività e all’ambiente.
Numerosi studi sono stati condotti con l’obiettivo di verificare una relazione tra
responsabilità sociale e performance aziendali, in modo da valutare se gli investimenti e
le azioni intraprese in tal senso dalle società potessero portare nel lungo periodo degli
effetti tangibili, sia nei confronti degli azionisti che al complesso degli stakeholder.
Il tema della performance aziendale è da sempre studiato dagli economisti finanziari,
i quali sono soliti legare il concetto di redditività, e quindi anche di valore, a quello di
rischio. Da questo punto di vista, misurare le performance aziendali significa anche
valutare i benefici apportati ai conferenti capitale in termini di minore rischiosità,
ovvero di un minore impatto (quantomeno) sulla parte sistematica dei rischi assunti
dagli azionisti, e di un minore rischio di credito (in tutte le sue espressioni) per gli
“obbligazionisti”.
Gran parte di questi studi prende a riferimento un campione più o meno esteso,
numericamente e geograficamente, spesso costituito da società quotate.
Questo perché sempre più si va consolidando il principio che la creazione del valore
per gli stakeholders non debba solamente costituire l’obiettivo dell’impresa, ma anche
essere adeguatamente comunicata al pubblico dei diversi portatori di interesse, e la
pratica della rendicontazione sociale, affiancata ai tradizionali sistemi di comunicazione
dei risultati (bilancio d’esercizio in primis), si sta affermando anche in Italia, soprattutto
con riferimento alle società quotate ed alle organizzazioni no-profit.
Per una vastissima schiera di piccole e medie imprese (la cui importanza, oltre che
numerosità, è nota per il modello di capitalismo italiano) la disponibilità di informazioni
è comunque insufficiente all’analisi su vasta scala del complesso dei fenomeni legati
alla CSR.
Tuttavia, un importante tassello che lega responsabilità sociale d’impresa agli
strumenti tradizionali di comunicazione dei risultati economici è costituito dal prospetto
di produzione e di riparto del valore aggiunto. La sua rilevanza è tale per cui detto
documento trova ampia considerazione negli standard di rendicontazione sociale, inclusi
quelli statuiti dal GBS nel 2001. Già nel 1975, del resto, l’adozione dello stesso
3
compariva tra le proposte avanzate dall’Accounting Standards Steering Committee
(ASSC), ovvero l’organo di definizione degli standard britannici di contabilità2.
Il prospetto del valore aggiunto, inoltre, può essere ricostruito, seppure con un certo
grado di approssimazione, sulla base dei soli dati contenuti nello schema civilistico di
conto economico, arricchiti delle informazioni sull’effettiva distribuzione dei dividendi
misurata in termini di flusso di cassa per gli azionisti.
La presente ricerca intende dunque indagare la relazione tra distribuzione del valore
aggiunto, quale particolare aspetto di CSR, e rischio di fallimento su un vasto campione
di piccole e medie imprese italiane.
Nel paragrafo 2 si illustrano i contributi in letteratura in tema di relazione tra
responsabilità sociale e rischio, e si presentano i prospetti di produzione e di riparto del
valore aggiunto, quale strumento integrante della rendicontazione sociale affermatasi
nella prassi.
Nel paragrafo 3 viene descritta la metodologia applicata al campione di oltre 200.000
bilanci di società di capitali italiane riferiti agli esercizi 2004-2006 per la costruzione e
la verifica di predittività di alcuni modelli semplici di credit scoring, basati
sostanzialmente su delle regressioni logistiche, con particolare riferimento agli indici di
valore aggiunto e agli strumenti statistici utilizzati.
Nel paragrafo 4 si presentano i risultati ottenuti, ed in particolare i modelli che si
sono rivelati maggiormente “performanti”, ovvero significativi per l’analisi tra indici di
valore aggiunto e rischio di fallimento delle imprese.
Il quinto paragrafo, infine, è dedicato alle conclusioni.
2. Il legame tra Corporate Social Responsibility e rischio d’impresa; la produzione e riparto del valore aggiunto
2.1 Gli studi sul legame tra CSR e rischio
Il legame tra responsabilità sociale e rischio d’impresa è stata indagato in numerosi
studi, che spesso si focalizzano sull’una o sull’altra sfaccettatura che tali concetti
presentano, e che ugualmente meritano di essere approfondite. 2 Accounting Standards Steering Committee, The Corporate Report (London: ASSC, 1975), pag. 49.
4
La volatilità dei ritorni futuri dell’impresa, così come percepita dagli investitori,
influenza senz’altro negativamente il prezzo del titolo azionario. L’investimento in asset
intangibili, quali la reputazione dell’impresa e la customer satisfaction and retention,
possono contribuire a diminuire l’incertezza percepita dal mercato, garantendo pertanto
un ritorno agli azionisti in termini di capital gain sui titoli. In questo senso vanno intesi
i lavori di Clarkson (1995), Fombrun et al. (2000) e Luo e Bhattacharya (2006).
Anche Godfrey, P. C. (2005) fa riferimento agli asset intangibili, soprattutto in
termini di moral capital (capitale morale) che verrebbe creato per gli stakeholders
(maggiore motivazione per i dipendenti, maggior credibilità verso clienti e fornitori), e
che fungerebbe in qualche modo da “assicurazione” sui ritorni futuri, in modo da
proteggere l’impresa dagli effetti dannosi di eventi negativi (Peloza, 2006).
Di parere simile sono inoltre Gruca e Rego (2005), che sostengono che gli
investimenti in CSR attutiscono gli shocks provenienti dall’ambiente e favoriscono il
mantenimento di vantaggi competitivi.
Dal punto di vista del rischio sistematico, gli studi di Trotman e Bradley (1981) e di
Roberts (1992) confermano l’ipotesi che le imprese adottano strategie di comunicazione
legate alla CSR e alla rendicontazione sociale per ridurre il proprio “beta”3. Dello stesso
parere sono Richardson et al. (1999) e Botosan (1997), che sostengono in particolare
che la comunicazione di CSR riduce le asimmetrie informative riducendo il rischio
sistematico percepito dagli investitori. Luo e Bhattacharya (2009) dimostrano invece
che una crescita nelle performance di CSR è in grado di ridurre significativamente sia il
rischio idiosincratico che quello sistematico.
Tuttavia, alcune ricerche, come quella di Syriopoulos (2007), evidenziano il fatto che
anche le azioni di imprese qualificabili come socialmente responsabili possono risentire
di una forte volatilità, e quindi che non necessariamente gli investimenti finalizzati alla
CSR possono ridurre il rischio dei loro investitori.
Toniolo et al. (2009), sulla base di un campione di società quotate sul principale
listino di Borsa Italiana, mostrano inoltre che su performance e su rischio aziendale il
rating etico (attribuito da un soggetto esterno indipendente) sembra non avere
un’influenza stabile.
3 In finanza, il coefficiente “beta” esprime il livello di rischio sistematico di un’impresa, legando la valutazione delle attese di rendimento degli azionisti alla sensibilità dei risultati aziendali nei confronti di variabili “macro”.
5
Dal punto di vista del rischio di credito, ovvero del rischio che sopportano gli
“obbligazionisti” (in senso lato) dell’impresa, ovvero i conferenti capitale di credito
quali banche ed intermediari finanziari, investitori privati o istituzionali che detengono
obbligazioni (bondholders), alcuni lavori non sembrano supportare il legame ipotizzato
tra CSR e rischio percepito.
In particolare, Goss e Roberts (2009) mostrano come le banche penalizzino le
imprese peggiori in CSR con sovrapprezzi di soli 20 basis points rispetto a quelle più
virtuose, mentre James-Overheu e Cotter (2009) evidenziano come non vi siano
relazioni tra le azioni di responsabilità sociale (o di “sostenibilità”) intraprese dalle
società e la valutazione di rischio di credito messa in atto dalle agenzie di rating.
2.2 I prospetti di produzione e di riparto del valore aggiunto
Il prospetto del valore aggiunto è generalmente associato, in letteratura, alla
pubblicazione di reportistica legata alla responsabilità sociale d’impresa (o “corporate
social responsibility”, CSR), e compare anche nei documenti di statuizione dei principi
di rendicontazione sociale4.
Il prospetto del valore aggiunto mira a determinare la ricchezza creata dall’impresa
ed attribuibile al complesso degli stakeholder. Si tratta di un rendiconto che utilizza le
stesse informazioni contabili su cui è redatto il conto economico, ma che presenta alcuni
particolari aspetti, tra cui i più rilevanti appaiono i seguenti:
- anziché porre enfasi sull’utile (o la perdita) per i soli conferenti capitale di
rischio, il prospetto quantifica il valore aggiunto quale misura complessiva di
remunerazione per gli stakeholder dell’impresa (in particolare il personale, la
Pubblica Amministrazione, i conferenti capitale di credito, i conferenti capitale di
rischio, l’azienda stessa);
- il risultato di conto economico viene ripartito tra la quota destinata agli azionisti
dell’impresa sotto forma di dividendi, e quella destinata all’impresa stessa tramite
gli accantonamenti a riserva; il prospetto di distribuzione del valore aggiunto
considera quindi un’informazione supplementare che non trova esplicitazione in
sede di redazione del conto economico; 4 A questo proposito vedasi Accounting Standards Steering Committee (1975), Morley (1979), Meek, Gray (1988), Montrone (2000), GBS (2007).
6
- i costi per il lavoro e gli ammortamenti, a conto economico inclusi nel costo del
venduto, trovano diversa considerazione: più precisamente, il costo per il
personale diventa parte della remunerazione che il valore aggiunto stesso
determina; gli ammortamenti vengono posti come differenza tra il saldo di valore
aggiunto lordo e netto, ed inclusi, per coerenza, nella remunerazione dell’azienda
solo nel caso in cui si scelga una configurazione di valore aggiunto lordo (v.
infra);
- i contributi pubblici in conto esercizio non vengono computati nel calcolo del
valore della produzione ma figurano al netto delle imposte, dirette ed indirette,
nella remunerazione della Pubblica Amministrazione.
Il valore aggiunto può riflettere varie configurazioni ed assumere la forma di:
- Valore Aggiunto Caratteristico (V.A.C.);
- Valore Aggiunto Ordinario (V.A.O.);
- Valore Aggiunto Globale (V.A.G.).
Tabella 1 – Schema del prospetto di produzione del valore aggiunto Aggregato Principali componenti reddituali A) Valore della produzione (+) Valore della produzione come da
conto economico civilistico, escluse le componenti di ricavo straordinarie ed i contributi in conto esercizio
B) Costi intermedi della produzione (-) Consumi e variazione delle rimanenze di materie prime, sussidiarie, di consumo e merci; costi per servizi e per godimento beni di terzi; accantonamenti per rischi; oneri diversi di gestione
Valore Aggiunto Caratteristico Lordo (=) C) Componenti accessori (+) Proventi finanziari e da
partecipazioni; svalutazione e rivalutazione di attività finanziarie
Valore Aggiunto Ordinario Lordo (=) D) Componenti straordinari (+) Proventi ed oneri straordinari,
incluse plusvalenze e minusvalenze da alienazione
Valore Aggiunto Globale Lordo (=) Ammortamenti della gestione (-) Ammortamenti di beni materiali ed
immateriali Valore Aggiunto Globale Netto (=)
7
Ciascuna delle tre configurazioni proposte differisce dalle altre in base agli aggregati
delle componenti di reddito presi in considerazione; inoltre, ogni configurazione può
essere espressa in termini di valore aggiunto lordo oppure netto, in ragione della scelta
di includere o meno le poste di ammortamento.
Nella tabella 1 si propone uno schema riassuntivo delle varie configurazioni di valore
aggiunto esaminate, mentre nella Tabella 2 è raffigurato il prospetto di riparto del valore
aggiunto.
Tabella 2 – Schema del prospetto di riparto del valore aggiunto Aggregato Principali componenti reddituali A) Remunerazione del personale Remunerazioni dirette ed indirette
(salari, stipendi, oneri sociali, accantonamenti a fondo tfr e a fondo indennità); quote di riparto del reddito
B) Remunerazione della Pubblica Amministrazione
Imposte dirette ed indirette, al netto dei contributi e sovvenzioni in conto esercizio
C) Remunerazione del capitale di credito Interessi passivi su debiti finanziari, per ogni forma tecnica di finanziamento o di fido
D) Remunerazione del capitale di rischio Quota degli utili distribuita sottoforma di dividendi
E) Remunerazione dell’azienda Quota degli utili reinvestiti nell’impresa (accantonamenti e utilizzi di riserve di patrimonio netto); ammortamenti5
F) Liberalità esterne Quota del valore aggiunto distribuita dall’impresa a favore dell’ambiente sociale esterno
Valore Aggiunto Globale Netto6
I due prospetti sono bilancianti in quanto accolgono tutte le poste di conto
economico, incluso il risultato di bilancio, che viene ripartito tra la voce D) e la voce E)
del prospetto di riparto (rispettivamente: remunerazione del capitale di rischio e
remunerazione dell’azienda), e l’ammontare della distribuzione dei dividendi agli
5 Gli ammortamenti vanno inclusi solamente nel caso si prescelga la configurazione di Valore Aggiunto Globale Lordo nel prospetto di produzione del valore aggiunto. 6 Alternativamente, il totale delle remunerazioni rappresenterà il Valore Aggiunto Globale Lordo se tale sarà la configurazione prescelta in sede di rappresentazione del prospetto di produzione del valore aggiunto, poiché nella remunerazione dell’azienda verranno coerentemente contabilizzati gli ammortamenti.
8
azionisti (flusso di cassa per gli azionisti, che interviene come componente positiva
della voce D) e negativa della voce E)).
3. Riparto del valore aggiunto e rischio di default
Lo studio condotto ha per obiettivo:
- l’analisi della relazione tra “pattern” di distribuzione del valore aggiunto e rischio
di default.
- la costruzione di modelli semplici di credit scoring basati su indici di produzione
e di ripartizione del valore aggiunto;
- l’analisi di performance di tali modelli.
Si sono presi in esame 263.208 bilanci ordinari d’esercizio di società di capitali
italiane depositati nelle Camere di Commercio tra il 2005 ed il 2007 (data di chiusura
dei bilanci compresa tra il 31/12/2004 ed il 31/12/2006). La fonte dei dati è Bureau van
Dijk7.
Il valore aggiunto globale lordo8 aggregato del campione considerato è pari a circa il
15% del PIL italiano (vedi Tab. 3).
Tabella 3 – Numerosità del campione, frequenza di fallimenti e confronto tra Valore Aggiunto Globale Lordo aggregato e PIL dell’Italia per anni (dati in milioni di euro)
Anni Numero bilanci
di cui: di imprese "fallite"
Valore Aggiunto Globale Lordo - aggregato
Stima del PIL dell'Italia a prezzi correnti9
% su PIL
2004 91.475 724 214.546 1.351.328 15,88% 2005 93.905 418 218.711 1.417.241 15,43% 2006 77.828 184 197.236 1.475.401 13,37%
7 Database AIDA. Non sono stati presi in considerazione i bilanci che presentavano almeno una delle seguenti squadrature: a) risultato di bilancio a conto economico diverso dal risultato di bilancio a stato patrimoniale; b) totale dei ricavi diverso dal totale dei costi, incluso il risultato di bilancio; c) totale delle attività diverso dal totale delle passività. 8 Il Prodotto Interno Lordo è anche definibile come somma dei valori aggiunti ai prezzi di mercato delle varie branche di attività economica, aumentata dell’Iva e delle imposte indirette sulle importazioni, al netto dei servizi di intermediazione finanziaria indirettamente misurati. Il PIL è detto “lordo” poiché al lordo degli ammortamenti. In questa sede, dunque, al fine di produrre un’indicazione delle dimensioni del campione analizzato, si è scelto di confrontare il valore aggiunto globale lordo aggregato del campione con il PIL. 9 Fonte: ISTAT (www.istat.it).
9
Di ogni impresa sono stati ricostruiti i prospetti di valore aggiunto attraverso la
riclassificazione delle poste di conto economico, attuata nel modo più coerente possibile
con i principi stabiliti dal GBS10.
Inoltre, si è scelto di misurare la distribuzione degli utili agli azionisti come il flusso
di cassa relativo al capitale di rischio intervenuto nell’esercizio, solo se negativo
(ovvero le sole uscite a favore dei soci), escludendo pertanto gli aumenti di capitale a
titolo oneroso ed i versamenti effettuati dai soci.
Il calcolo dei flussi di cassa, com’è noto, richiede la disponibilità di due bilanci
consecutivi e pertanto si è reso necessario integrare i dati dei bilanci con quelli
pubblicati dalle stesse imprese nell’esercizio precedente.
Gli schemi di valore aggiunto così ricavati hanno permesso la costruzione dei
seguenti indici:
% %
% %
% %
% %
% %
Definiremo inoltre come “pattern di distribuzione del valore aggiunto” il vettore
:
%%%%%
10 Per alcune delle voci non è stato evidentemente possibile procedere alla dettagliata riclassificazione proposta dal GBS in quanto essa richiede maggiori informazioni rispetto a quelle desumibili dallo schema civilistico di conto economico.
10
Dal momento che la somma delle remunerazioni corrisponde al Valore Aggiunto
Globale Netto,
% % % % % 100%
Nei casi in cui il Valore Aggiunto Globale Netto è minore o uguale a zero, gli indici
di ripartizione così definiti diverrebbero non significativi, poiché ad una remunerazione
positiva corrisponderebbe un indice negativo, e viceversa. Pertanto, è conveniente
definire anche un vettore di ripartizione calcolato sul Valore della Produzione :
, %, %, %, %, %
Il rapporto tra Valore Aggiunto Globale Netto e Valore della Produzione può essere
considerato come un indice di performance complessiva dell’impresa, anche se tale
indice va considerato in relazione alla tipologia di attività economica svolta11.
Un altro indice utile alla valutazione della performance dell’impresa in termini di
creazione di valore aggiunto è il rapporto tra Valore Aggiunto Globale Netto e Capitale
Investito (VAI)12:
Il VAI può essere scomposto esprimendo il tasso di remunerazione di ogni
interlocutore interno all’impresa. In tal senso risulta particolarmente significativo
evidenziare il Costo Medio di Finanziamento CMF:
% %
11 Vedasi Zorzi G. (2009): “In questo senso avremo dei settori in cui il valore aggiunto è minore in termini relativi (ad esempio le attività distributive quali il commercio e l’approvvigionamento di elettricità, gas ed acqua), ed altri in cui esso è maggiore (principalmente i servizi, quali sanità e servizi sociali, hotel, ristoranti e bar). Le attività manifatturiere, le costruzioni ed i trasporti presentano un valore “medio” (circa il 20%)”. 12 Per gli indici di valore aggiunto, diversi da quelli di riparto, illustrati in questo paragrafo, vedi Gabrovec Mei, O. (1993) e Gabrovec Mei, O. (1998).
11
Sempre dal punto di vista della distribuzione del valore aggiunto, un altro indicatore
significativo è il coefficiente , definito come rapporto tra il Valore Aggiunto
Caratteristico Netto e la remunerazione del personale:
Si è scelto inoltre di definire, ai fini dell’analisi di regressione, le imprese come:
- “sane”, se oltre al bilancio dell’esercizio corrente, si dispone anche del bilancio
dell’esercizio successivo, e l’impresa non risulta fallita nel corso dell’anno
seguente;
- “fallite”, se il bilancio corrente è l’ultimo disponibile e l’impresa risulta
effettivamente colpita da procedura di fallimento in data successiva a quella di
chiusura del bilancio.
Sono state escluse dal campione tutte le imprese per le quali non vi è disponibilità di
dati circa l’esistenza di un bilancio successivo a quello corrente, né riguardo a
un’eventuale procedura di fallimento.
Si è proceduto con l’analisi di regressione scegliendo come variabili indipendenti
uno o più indici di produzione e di ripartizione del valore aggiunto definiti in
precedenza, e come variabile dipendente la variabile dummy relativa al fallimento,
anch’essa definita in precedenza.
Per tutte le combinazioni di indici utilizzate, il modello di regressione scelto è il
modello logit13 (regressione logistica), largamente utilizzato nella costruzione di
modelli di credit scoring.
Ciascuno dei modelli definiti, che si differenziano solamente, pertanto, nella scelta
delle variabili indipendenti, è stato costruito con il metodo dei minimi quadrati sull’80%
del campione iniziale (206.496 bilanci indistinti per data di chiusura).
La validazione dei modelli è stata condotta sul restante 20% dei bilanci disponibili
(51.624), attraverso l’analisi delle curve Receiver Operating Characteristics (ROC),
dell’Area Under Curve (AUC)14 e dell’indice di Gini15.
13 Greene, W.H. (1993), Econometric Analysis, Prentice-Hall, 14 L’Area Under Curve (AUC) equivale alla probabilità che il risultato del test effettuato su un’impresa estratta a caso dal gruppo delle “fallite” sia superiore a quello estratto a caso dal gruppo delle “sane”.
12
4. Risultati
La matrice di correlazione riportata in Tabella 4 mostra come vi siano delle
correlazioni significative tra:
- Remunerazione del personale e della Pubblica Amministrazione: forte
correlazione negativa nel caso siano rapportare al VAGN; la correlazione ha
invece segno opposto nel caso siano calcolate sul Valore della Produzione;
- Remunerazione della Pubblica Amministrazione e del capitale di credito:
correlazione negativa sugli indici calcolati sul VAGN;
- Remunerazione dell’azienda e del capitale di credito (forte correlazione negativa
sia in rapporto al VAGN che al Valore della Produzione);
- Remunerazione dell’azienda e della Pubblica Amministrazione (correlazione
positiva), remunerazione dell’azienda e del personale (correlazione negativa), se
rapportate al VAGN.
Si dimostra invece debole la correlazione negativa tra remunerazione dell’azienda e
del capitale di rischio, nonostante esse siano contrapposte per definizione (nella singola
impresa, tanto maggiore sarà la distribuzione degli utili, e tanto minore sarà il loro tasso
di ritenzione).
Al contrario, la matrice sembra suggerire che la remunerazione per l’azienda
(accumulazione degli utili) sia tanto più bassa quanto maggiore è la remunerazione del
capitale di credito. In verità si potrebbe ipotizzare che, come si è visto in un precedente
lavoro16, ad una “bassa” remunerazione per l’azienda corrisponda un minore ritorno
sull’equity (ROE), e quindi che le imprese che non riescono a remunerare se stesse
facciano un maggior ricorso al capitale di credito (con conseguente aumento della
relativa remunerazione), per svilupparsi o per mantenere inalterata la propria capacità
produttiva.
Il risultato di questa analisi tornerà utile in sede di commento alla definizione dei
modelli di regressione ed ai risultati dei test sulla loro predittività. 15 L’indice di Gini si può ricavare moltiplicando per due la differenza tra l’AUC del test effettuato e quella della c.d. “linea di nessun beneficio”, ovvero del classificatore randomico (AUC = 50%): 1 2 . 16 Zorzi G., 2009.
13
Tabella 4 – Matrice di correlazione tra gli indici di valore aggiunto definiti nel paragrafo 3.
Rp% Rpa% Rcc% Rcr% Ra% Rp,vp% Rpa,vp% Rcc,vp% Rcr,vp% Ra,vp% VAI VAGN/VP CMF Beta
Rp% 100,0% -97,6% 88,9% 0,0% -90,5% 0,0% 0,0% 0,0% 0,0% 0,0% 0,0% 0,0% 0,0% 0,0%
Rpa% -97,6% 100,0% -78,5% 0,0% 82,7% 0,0% 0,0% 0,0% 0,0% 0,0% 0,0% 0,0% 0,0% 0,0%
Rcc% 88,9% -78,5% 100,0% 0,0% -93,0% 0,0% 0,0% 0,0% 0,0% 0,0% 0,0% 0,0% 0,0% 0,0%
Rcr% 0,0% 0,0% 0,0% 100,0% -32,2% 0,0% 0,0% 0,0% 70,9% -9,1% 0,0% 0,0% 21,2% 0,0%
Ra% -90,5% 82,7% -93,0% -32,2% 100,0% 0,0% 0,0% 0,0% -22,9% 2,9% 0,0% 0,0% -6,8% 0,0%
Rp,vp% 0,0% 0,0% 0,0% 0,0% 0,0% 100,0% 86,5% 37,9% 0,0% -33,4% 0,0% 73,7% 0,0% 0,0%
Rpa,vp% 0,0% 0,0% 0,0% 0,0% 0,0% 86,5% 100,0% 4,2% 0,0% 0,3% 0,0% 46,1% 0,0% 0,0%
Rcc,vp% 0,0% 0,0% 0,0% 0,0% 0,0% 37,9% 4,2% 100,0% 0,0% -99,0% 0,0% 88,5% 0,0% 0,0%
Rcr,vp% 0,0% 0,0% 0,0% 70,9% -22,9% 0,0% 0,0% 0,0% 100,0% -12,8% 0,0% 0,0% 8,8% 0,0%
Ra,vp% 0,0% 0,0% 0,0% -9,1% 2,9% -33,4% 0,3% -99,0% -12,8% 100,0% 0,0% -85,1% -1,1% 0,0%
VAI 0,0% 0,0% 0,0% 0,0% 0,0% 0,0% 0,0% 0,0% 0,0% 0,0% 100,0% 0,0% 15,4% 0,0%
VAGN/VP 0,0% 0,0% 0,0% 0,0% 0,0% 73,7% 46,1% 88,5% 0,0% -85,1% 0,0% 100,0% 0,0% 0,0%
CMF 0,0% 0,0% 0,0% 21,2% -6,8% 0,0% 0,0% 0,0% 8,8% -1,1% 15,4% 0,0% 100,0% 0,0%
Beta 0,0% 0,0% 0,0% 0,0% 0,0% 0,0% 0,0% 0,0% 0,0% 0,0% 0,0% 0,0% 0,0% 100,0%
Scomponendo il campione di imprese tra “sane” e “fallite”, in base alla definizione
data nel paragrafo 3, emergono alcuni risultati interessanti per quanto concerne il
confronto tra “pattern” medi di distribuzione del valore aggiunto (v. Tab. 5).
In particolare:
- La remunerazione percentuale del personale risulta mediamente maggiore nelle
imprese destinate al fallimento (probabilmente non perché esse abbiano avuto più
cura al riguardo dei propri lavoratori ma perché complessivamente più scarso è
risultato il Valore Aggiunto Globale Netto prodotto dal sistema-impresa);
- La remunerazione della Pubblica Amministrazione appare maggiore nelle
imprese “sane”; evidentemente ciò si può spiegare ancora una volta come dovuto
ad una minore performance aziendale complessiva, dal momento che la maggior
parte di tale remunerazione è costituita da imposte sul reddito;
- La remunerazione del capitale di credito appare notevolmente maggiore, in
media, per le imprese “fallite” che per quelle “sane”;
- La valutazione sulla remunerazione del capitale di rischio fornisce risultati
contrastanti: risulta alternativamente maggiore o minore per le imprese “fallite”
in base ai diversi esercizi presi a riferimento;
- La remunerazione dell’azienda risulta fortemente negativa nell’insieme di
imprese destinate al fallimento.
Anche tale analisi contribuirà a spiegare meglio i risultati ottenuti in termini di
verifica di predittività dei modelli.
14
Tabella 5 – Pattern medi di distribuzione del Valore Aggiunto Globale Netto per esercizio e per status dell’impresa (“sana” vs. “fallita”).
Esercizio Status imprese Rp% Rpa% Rcc% Rcr% Ra%2004 Sane 65,8% 10,7% 7,8% 11,1% 4,6%2004 Fallite 88,8% 4,9% 20,8% 7,4% -21,9%2005 Sane 66,7% 11,1% 7,7% 12,0% 2,4%2005 Fallite 98,4% 6,6% 19,7% 28,3% -53,0%2006 Sane 65,1% 12,4% 8,0% 11,6% 2,9%2006 Fallite 113,0% 3,8% 28,7% 14,5% -60,0%
Dal test sui modelli logit costruiti sui vari indici di produzione e di riparto del valore
aggiunto, le migliori performance out-of-sample sono state ottenute:
- Su alcuni indici di distribuzione del valore aggiunto ( ), ed in particolare
sulla remunerazione percentuale della Pubblica Amministrazione e dell’impresa
( %, %);
- Su alcuni indici di ripartizione corretti per il rapporto tra Valore Aggiunto
Globale Netto e Valore della Produzione ( ), ed in particolare sulla
remunerazione relativa del capitale di credito, del capitale di rischio e
dell’azienda ( , %, , %, , %);
- Su altri indici, ed in particolare sul coefficiente ed il Costo Medio di
Finanziamento (CMF).
In tutti questi casi la performance delle regressioni logistiche è risultata migliore
utilizzando tutte le variabili indicate piuttosto che i singoli indici a disposizione.
Tutti i modelli costruiti sugli altri indici descritti nel paragrafo 3, inoltre, hanno
mostrato scarsa predittività in termini di fallimento per le imprese.
I coefficienti stimati per il modello di regressione logistica riferito alla distribuzione
del valore aggiunto ( ), ed in particolare sulla remunerazione percentuale della
Pubblica Amministrazione e dell’azienda, mostrano una relazione negativa tra tali indici
e la media dei fallimenti. In altre parole, la probabilità di “default” per l’impresa
aumenta con il diminuire della remunerazione della P.A. e dell’azienda:
15
% % 5.8569975 0.0023463 0.0001871
La curva ROC costruita sulle predizioni out-of-sample è rappresentata in Figura 1;
essa sottende un’area del 69,07% (indice di Gini 38,14%).
Figura 1 – Curva ROC out-of-sample sulla base delle previsioni del modello
Prendendo in considerazione gli indici di remunerazione calcolati non più sul Valore
Aggiunto Globale Netto ma sul Valore della Produzione, sono i flussi destinati a
capitale di credito, capitale di rischio e azienda a risultare significativi.
Il modello di regressione stimato in-sample è il seguente:
16
, % , % , % 5.6090000 0.0000254 0.0000103 0.0000069
Anche in questo caso il coefficiente di regressione relativo alla remunerazione
dell’azienda è negativo, come pure quello relativo al capitale di rischio; al contrario,
invece, il coefficiente di regressione per la variabile remunerazione del capitale di
credito è positivo. In sostanza, secondo il modello , tanto più l’impresa remunera (in
proporzione) il capitale di credito, e tanto meno remunera se stessa ed i conferenti
capitale di rischio, tanto più essa è rischiosa dal punto di vista della probabilità di
fallimento.
La performance del modello (vedi Grafico 2) risulta migliore di quella di , ed in
particolare l’AUC risulta del 75,44% (Gini 50,88%).
Figura 2 – Curva ROC out-of-sample sulla base delle previsioni del modello
17
Nel terzo dei modelli predittivi secondo l’analisi out-of-sample ( ) si considerano il
costo medio di finanziamento sul capitale investito (CMF) ed il tasso di copertura del
Valore Aggiunto Caratteristico Netto sul costo del personale (coefficiente ).
I coefficienti di regressione stimati per indicano che il rischio di fallimento
aumenta, in media, al crescere del costo medio dei capitali e al decrescere della nuova
ricchezza prodotta dal fattore lavoro:
5.5740000 0.0002064 0.0000254
Anche in questo caso, come per , la predittività del modello appare discreta, con un
Area Under Curve del 74,99% (Gini 49,98%).
Figura 3 – Curva ROC out-of-sample sulla base delle previsioni del modello
18
Le performance dei modelli appaiono complessivamente discrete (AUC compreso tra
69% e 76%), confermando quindi una certa significatività degli indici di produzione e
distribuzione di valore aggiunto sulla rischiosità dell’impresa.
Tuttavia, non è possibile determinare con certezza quale contributo alla definizione
dei modelli individuati possa derivare dai concetti di responsabilità sociale d’impresa.
Nonostante infatti i modelli logit costruiti sulla base degli indicatori di valore aggiunto
mostrino una performance discreta, nell’interpretare la loro predittività non va
dimenticata la relazione che essi hanno con il complesso dei risultati aziendali, piuttosto
che l’attinenza ai temi di CSR, ed inoltre:
- gli indicatori di remunerazione del personale sul valore aggiunto e sul valore
della produzione non hanno mostrato alcuna predittività: ciò può essere dovuto
all’inadeguatezza del modello prescelto (regressione logistica), dall’estrema
eterogeneità del campione in termini di tipologia di attività svolta, ma anche
dall’impossibilità di utilizzare altre informazioni riguardanti il personale che
appaiono, in termini di CSR, essenziali alla valutazione complessiva della
“remunerazione” (quali numero di dipendenti, tipologie di contratti utilizzati,
riconoscimento di premi, iniziative di formazione, “qualità” in senso lato del
luogo di lavoro, ecc…);
- il coefficiente (VACN/Rp), che pure chiama in causa la remunerazione del
personale, risulta predittivo ma va inteso come indicatore di performance
aziendale piuttosto che come indicatore di distribuzione;
- la medesima considerazione si può applicare alla remunerazione della Pubblica
Amministrazione, che compare nel modello , ma che individua maggiori rischi
per le imprese che, evidentemente, contribuiscono poco in termini di imposizione
fiscale (e quindi, più che altro, hanno un risultato di gestione scarso o negativo);
- la predittività della remunerazione del capitale di credito è fuori discussione, ma
essa va in qualche modo collegata anche alla quantità di capitale di credito,
ovvero al livello di indebitamento, e quindi di rischio finanziario, dell’impresa; le
imprese che remunerano maggiormente questa classe di stakeholder
evidentemente sono quelle che presentano una minore patrimonializzazione e
quindi un maggior rischio finanziario;
- la remunerazione del capitale di rischio dà adito a interpretazioni contrapposte;
19
- la remunerazione complessiva dei conferenti di capitale mostra delle performance
di predittività solamente se confrontata con l’ammontare di capitale versato
(CMF), ma in termini generali ciò risulta significativo solo in quanto ad una più
elevata liquidazione di dividendi e di oneri finanziari corrisponde una maggior
probabilità di default;
- la componente maggiormente rappresentativa in termini di predittività è senza
dubbio quella della remunerazione dell’azienda; ciò emerge con tutta evidenza
sia dal confronto delle medie tra sane e fallite, sia dalle performance dei modelli
e ; non è chiaro, tuttavia, se ciò rappresenti la causa oppure la conseguenza
della remunerazione eccessiva delle altre componenti (in particolare del capitale
di credito), e nemmeno se essa vada interpretata come segnale di performance
aziendali insufficienti piuttosto che di una scelta aziendale volta all’eccessiva
distribuzione dei risultati agli stakeholder.
5. Conclusioni
La relazione tra Corporate Social Responsibility e performance aziendale è un tema a
lungo dibattuto in letteratura; numerosi sono gli studi che individuano un legame
positivo tra responsabilità sociale e performance; altre ricerche tendono ad indurre,
invece, un maggiore scetticismo.
Il tema della performance aziendale è da sempre studiato dagli economisti finanziari,
i quali sono soliti legare il concetto di redditività, e quindi anche di valore, a quello di
rischio. Da questo punto di vista, misurare le performance aziendali in relazione al
comportamento più o meno “socialmente responsabile” delle imprese significa anche
valutare i benefici apportati ai conferenti capitale in termini di minore rischiosità,
ovvero di un minore impatto (quantomeno) sulla parte sistematica dei rischi assunti
dagli azionisti, e di un minore rischio di credito (in tutte le sue espressioni) per gli
“obbligazionisti”.
Dalle analisi su un campione di oltre 250.000 bilanci d’esercizio di società di capitali
italiane (anni 2004-2006), pari a circa il 15% del PIL dell’Italia, riclassificati a valore
aggiunto sulla base di alcuni standard di rendicontazione sociale di riferimento
20
(accettando un certo di livello di approssimazione), si perviene a dei risultati
soddisfacenti in termini di predittività di default. Tali risultati, tuttavia, derivanti dai test
su semplici modelli di regressione logistica costruiti ad hoc, non sembrano interamente
attribuibili ai concetti di Corporate Social Reponsibility, per l’interazione che gli indici
di valore aggiunto considerati presentano con gli altri indicatori classici di performance
complessiva d’impresa.
Non sorprendentemente, del resto, la remunerazione dell’azienda, stimata sia in
relazione al valore aggiunto che al valore della produzione, appare come uno degli
aggregati maggiormente predittivi per la valutazione del rischio di fallimento: essa
tuttavia si può rivelare insufficiente sia quando la capacità dell’impresa di produrre
valore aggiunto è relativamente bassa, sia quando la remunerazione degli altri
interlocutori interni all’impresa (in particolare dei conferenti capitale) è eccessiva.
La prima delle due fattispecie ipotizzata sembra essere confermata dalla regressione
, secondo la quale il rischio di fallimento aumenta, in media, con il diminuire della
remunerazione per la Pubblica Amministrazione: nel caso di aziende “poco virtuose”,
infatti, la minore creazione di reddito implicherà evidentemente anche una minore
imposizione fiscale in termini di imposte dirette.
Alla seconda fattispecie sembra riconducibile il risultato dell’analisi di regressione
, secondo cui il maggior rischio di fallimento è caratterizzato da una maggiore
remunerazione dei conferenti capitale di credito (e minore del capitale di rischio). In
sostanza il maggior peso dell’indebitamento si accompagna ad una minore
accumulazione per l’azienda (come dimostra l’analisi di correlazione tra gli indici); non
è chiaro, tuttavia, fino a che punto è l’assunzione di un’elevata leva finanziaria a
implicare una minore remunerazione per l’azienda17, e fino a che punto è invece la
minore accumulazione a “favorire” il ricorso ad un indebitamento eccessivo18. E’ molto
probabile, comunque, che vi sia una interazione tra i due effetti e che, in particolare,
l’uno alimenti l’altro in una sorta di “circolo vizioso” che conduce l’impresa ad una
maggiore probabilità di default.
17 Interpretazione “tradizionale” della finanza d’impresa: l’esistenza di una leva finanziaria implica un rischio addizionale per gli azionisti (c.d. rischio “finanziario”): quello che i margini economici non siano sufficienti a remunerare il capitale proprio dopo aver pagato i costi del finanziamento da terzi. 18 Interpretazione più vicina al concetto di “sostenibilità dell’impresa”: l’impresa che non remunera se stessa (o che ha una remunerazione negativa) dovrà far ricorso a nuove fonti di capitale per svilupparsi (o anche solo per mantenere inalterata la sua capacità produttiva).
21
Va notato che questa seconda analisi di regressione suggerisce una relazione negativa
tra remunerazione del capitale di rischio e probabilità di fallimento, mentre in
all’aumentare del costo medio di finanziamento (ovvero della remunerazione dei
capitali sul capitale investito) il rischio di default aumenta.
Dal punto di vista della finanza aziendale, in un mercato efficiente, il maggior costo
medio ponderato del capitale ex-ante (ovvero le maggiori attese di remunerazione da
parte dei conferenti capitale) è dovuto ad un maggior rischio sistematico dei progetti
intrapresi dall’azienda. In questa prospettiva la relazione con il rischio di default
apparirebbe evidente. Tuttavia, il costo medio di finanziamento utilizzato nella presente
analisi è un indicatore ex-post che oltretutto non tiene conto del capital gain per gli
azionisti19.
Si può sostenere, più semplicemente, che il maggior peso di dividendi e oneri
finanziari sul capitale investito renda, a parità di altre condizioni, più difficile la
remunerazione degli altri interlocutori dell’impresa (inclusa l’azienda stessa) poiché più
alta sarà la produzione di valore aggiunto richiesta all’impresa.
La regressione mostra inoltre come la copertura del costo del personale, che si
può interpretare sia come indicatore di performance, sia come indicatore di
distribuzione del Valore Aggiunto Caratteristico Netto (essendo l’inverso del rapporto
tra remunerazione del personale e VACN), riveli in media un maggior rischio di default
al suo decrescere. L’interpretazione di questo indice può essere ambivalente ma nella
prospettiva del rischio di fallimento assume evidentemente maggior significato come
indicatore di performance, ovvero della capacità dell’impresa di generare valore
aggiunto, piuttosto di come essa sceglie di distribuirlo.
In definitiva, pur accettando di prendere in considerazione solamente aspetti legati al
valore aggiunto, ed in particolare al suo riparto, quali indicatori della responsabilità
sociale d’impresa, l’evidenza empirica suggerisce che le eventuali relazioni in termini di
19 Il ritorno per gli azionisti è costituito dalla somma del c.d. dividend yield (ovvero il rapporto tra dividendi e costo delle azioni) e del capital gain (ovvero la variazione percentuale del prezzo delle azioni). Nel weighted average cost of capital il tasso di remunerazione atteso dagli azionisti è quindi somma di dividend yield e capital gain, mentre nell’indice CMF illustrato nel paragrafo 3 del presente lavoro, il ritorno ex-post per gli azionisti è misurato dal rapporto tra dividendi e patrimonio netto contabile (book value).
22
probabilità di default, per poter essere verificate, debbano essere indagate con maggiore
precisione, utilizzando eventualmente un maggior numero di informazioni.
La tipologia di attività economica svolta (da cui può dipendere, tra l’altro, il rapporto
VAGN/Val.Prod.) o il numero dei dipendenti (su cui valutare meglio gli indici legati
alla remunerazione del personale), rappresentano una prima serie di variabili che sono
già “misurabili” per un vasto campione di piccole e medie imprese.
Altre informazioni, che al contrario non sono disponibili per campioni così estesi,
potrebbero intervenire nel migliorare la costruzione dei prospetti di valore aggiunto: per
esempio, le informazioni sulle liberalità esterne, così come la quota di costi dedicati
indirettamente alla remunerazione del personale oppure ad iniziative di salvaguardia
dell’ambiente, non sono ricavabili dagli schemi di bilancio ma possono condurre a
migliorare la quantificazione del riparto del valore aggiunto e degli indici relativi.
Appare in ogni caso confermato che la “non sostenibilità” dell’impresa, intesa in
senso “tradizionale”, ovvero come mancanza di economicità e di soddisfacimento delle
aspettative di remunerazione di tutti gli stakeholders, riveli il suo carattere di predittività
in termini di default. Ma ciò è solo in parte legato ai concetti di Corporate Social
Responsibility, dal momento che ciò necessariamente implica anche la mancata
soddisfazione dei conferenti di capitale (elemento di stampo marcatamente finanziario).
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