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Convegno SISP - Università di Firenze 12-14 settembre 2013
Sezione: Regionalismo e politiche locali Panel: I nuovi enti intermedi in Italia e in Europa
Chair: Silvia Bolgherini Discussant: Luciano Vandelli e Luca Lanzalaco
Enti intermedi, sviluppo locale e sostenibilità istituzionale:
una chiave di lettura a partire dal caso del Veneto1
di
Patrizia Messina patrizia.messina@unipd.it
Abstract Il tema degli enti intermedi in Italia in questi anni va strettamente riferito alla riforma di riordino territoriale avviata con
la L.135/2012. Le riforme istituzionali avviate dal Governo Monti e continuate con il Governo Letta, prospettano infatti il
ridimensionamento o l’abolizione delle Province, la costituzione delle città metropolitane, ma anche l’attivazione di
forme di gestione associata dei servizi locali per i comuni con meno di 5000 abitanti, come le convenzioni e soprattutto le
unioni di comuni. Queste riforme sono state avviate all’insegna dei tagli della spesa pubblica e di economia di scala.
Tuttavia quella del riordino territoriale si configura come una delle più importanti riforme dei governi locali del nostro
Paese, che ha indotto le diverse Regioni italiane ad attivare, con apposite leggi regionali, piani di riordino territoriale volti
a migliorare la gestione dei servizi e la governance del territorio.
In questa prospettiva, il paper, prendendo in esame il caso del Veneto, intende focalizzare l’attenzione sugli enti
intermedi, in particolare le Unioni di comuni, i Gal e le Intese Programmatiche d’Area, mettendone in luce da un lato le
caratteristiche e funzionalità e, dall’altro, la loro sostenibilità istituzionale attraverso un’analisi delle sovrapposizioni,
ridondanze o sinergie, ma anche delle relazioni funzionali con il livello di governo regionale. Particolare attenzione verrà
data, in tal senso, ai problemi connessi con la costituzione della città metropolitana di Venezia, vista la sostanziale non
coincidenza delle funzioni metropolitane presenti nell’area metropolitana del Veneto centrale, con la città metropolitana
che, a norma di legge, dovrebbe coincidere con i confini amministrativi della provincia di Venezia.
A conclusione del paper, verranno messi in luce alcuni aspetti salienti della sostenibilità istituzionale per gli enti
intermedi e, più in generale, per le riforme dell’intero assetto istituzionale.
Sommario
1. Dai Comuni alle reti urbane
2. In Italia: un contesto normativo incerto e in continua evoluzione
3. Dimensioni dei Comuni e reti intercomunali in Veneto
4. Gli ambiti territoriali di settore
5. Il Piano di riordino territoriale regionale (L.r. 18/2012)
6. Strumenti di programmazione dello sviluppo territoriale: IPA e GAL
7. L’area del Veneto centrale: dalla campagna urbanizzata alla città metropolitana?
8. Riordino territoriale e sviluppo guidato: un cambiamento del modo di regolazione
9. Sostenibilità istituzionale e sviluppo strategico del territorio
Riferimenti bibliografici
1 Questo paper presenta una sintesi dei principali risultati della ricerca PRIN “Nuove forme di governance locale come strumento di
sviluppo strategico territoriale. Una ricerca comparata in sei Regioni europee: Andalusia, Brandeburgo, Puglia, Sicilia, Toscana,
Veneto”, coordinata da Mario Caciagli, focalizzandosi sul caso Veneto. Ringrazio per le osservazioni puntuali il gruppo di lavoro
dell’Università di Padova che ha collaborato alla ricerca: Gianni Riccamboni, Mauro Salvato, Ekaterina Domorenok e Marco Bassetto,
ringrazio inoltre Luciano Gallo, Direttore della Federazione dei Comuni del Camposampierese e la Regione Veneto - Direzione Enti
Locali, Persone Giuridiche e Controllo Atti.
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1. Dai Comuni alle reti urbane
I governi locali nel contesto europeo sono chiamati ad affrontare oggi numerose sfide che arrivano dai processi congiunti di globalizzazione dell’economia e di europeizzazione del sistema politico ed economico nella prospettiva multilivello. In questo mutato scenario, il livello di governo più vicino al cittadino è infatti, ancora oggi, quello del Comune che, salvo poche eccezioni, costituisce l’unità di base di tutta la costruzione politico-amministrativa del sistema europeo. Tuttavia, il Comune europeo è perlopiù un’unità piccolissima, tra i 500 e i 5.000 abitanti che, per esempio, ha poco a che vedere con la nostra idea di città, soprattutto con la grande città (Bennet, 1993), in cui oggi tendono generalmente ad addensarsi i servizi del terziario avanzato, propri dell’economia della conoscenza. In questo contesto economico globale, caratterizzato da una forte intensità dei flussi che attraversano i territori, spesso snaturandoli, il rischio per i Comuni, soprattutto i più piccoli, è duplice: da un lato, quello di rimanere ai margini delle principali linee di flussi (commerciali, informativi, finanziari, migratori), dall’altro, quello di venire attraversati dai flussi stessi venendone travolti, a meno che essi non riescano a connettersi “in rete” per intercettarli in modo funzionale e, in qualche modo, riuscire a “governarli” (Bassetti 2007; Perulli 2000). Si tratta di una sfida a cui tutti i governi locali europei sono chiamati a rispondere, riposizionandosi nello spazio europeo e globale, come ha chiaramente sottolineato in più occasioni anche l’UE
2.
La cooperazione intercomunale, pertanto, rappresenta oggi una strategia perseguita da molti Paesi, specialmente quelli in cui sono presenti realtà municipali fortemente frammentate, poiché essa risponde prevalentemente ad almeno due ordini di necessità: offrire servizi qualitativamente migliori ai cittadini, mediante la creazione di economie di scala, e promuovere sinergie organizzative mediante la condivisione di personale qualificato.
La crisi economica e finanziaria di questi anni, che impone politiche di rigore della spesa
pubblica, ha ulteriormente accelerato questo processo, ponendo come prioritario il tema delle riforme
di riordino territoriale, correlate all’imperativo dei tagli della spesa. In questo scenario, i piccoli
comuni, in particolare, sono gli enti più sollecitati al cambiamento, perché considerati3 costosi e
inefficienti, non essendo in grado di offrire prestazioni e servizi qualitativamente adeguati, anche per
mancanza di professionalità e vulnerabilità finanziaria. La cooperazione intercomunale consentirebbe
di rispondere in buona misura a queste sfide, evitando da un lato che si giunga alla privatizzazione
dei servizi pubblici e, dall’altro, salvaguardando l'identità locale.
Anche in Italia le riforme istituzionali, avviate di recente dal Governo Monti e continuate con il
Governo Letta, insieme all’attivazione di forme obbligatorie di gestione associata di servizi locali per
i comuni con meno di 5.000 abitanti, come le convenzioni e soprattutto le unioni di comuni4,
prospettano contestualmente anche il ridisegno degli enti intermedi, con il ridimensionamento/
abolizione delle Province e la costituzione delle Città metropolitane. Si tratta di riforme che, seppure
dettate da ragioni di taglio della spesa, si configurano di fatto come una delle più importanti
trasformazioni dei governi locali del nostro Paese che, per la loro rilevanza e complessità,
richiederebbero di essere analizzate e disegnate con particolare attenzione. Le Regioni italiane stanno
attivando infatti, con apposite leggi regionali, piani di riordino territoriale volti a migliorare la
gestione dei servizi, ma anche la governance del territorio. Tali riforme pertanto dovrebbero essere
opportunamente analizzate congiuntamente ad altri strumenti di policy per lo sviluppo del territorio,
che prevedono, per esempio, altrettante definizioni di ambiti territoriali di programmazione
decentrata e di gestione settoriale che coinvolgono gli stessi comuni con geometrie variabili e
frequenti sovrapposizioni. Senza questa lettura integrata del riordino territoriale si corre infatti il
2 A questo riguardo si vedano, tra l’altro: il Rapporto del Comitato Esecutivo sulla Democrazia Locale e Regionale del
Consiglio d'Europa (2001) e la Raccomandazione 221 (2007) Quadro istituzionale per la cooperazione intercomunale
del Congresso delle Autorità Locali e Regionali del Consiglio d'Europa (2007). A questo riguardo cfr. Domorenok e
Nesti (2009). 3 Sulla complessità di una valutazione dei costi effettivi dei piccoli comuni si veda Messina P. (2011; 2012a).
4 A queste vanno aggiunte anche le fusioni di comuni, che tuttavia non costituiscono una forma associata intercomunale.
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rischio di creare inevitabilmente forme di “ridondanza” tutt’altro che utili, le quali finiscono spesso
col vanificare i vantaggi derivanti da una semplificazione dei livelli di governance territoriale.
Queste forme di sovrapposizione di più ambiti territoriali verranno analizzate valutando la
sostenibilità istituzionale5 delle riforme in materia di riordino territoriale.
Le ipotesi che qui vorrei avanzare a questo riguardo possono essere così sintetizzate: 1) In assenza di un macro-disegno condiviso di riforma istituzionale, sia a livello europeo sia a
livello nazionale, oggi «sono le politiche che fanno la politica», ovvero, sono proprio i cambiamenti introdotti in questa fase, a partire dal livello di governo locale e regionale, negli stili di policy e negli stili amministrativi, che possono costituire un importante indizio per le trasformazioni in corso che andranno ad incidere sulla definizione di nuove forme di politics e di polity.
2) Proprio la dinamica incrementale e congiunturale che definisce lo scenario europeo e nazionale entro cui le riforme di riordino territoriale stanno prendendo forma nelle diverse regioni, fa sì che tali riforme stiano avvenendo seguendo un percorso path dependet, strettamente legato alle variabili culturali e istituzionali del contesto regionale e al modo di regolazione dello sviluppo prevalenti in quel dato contesto, ed è quindi in relazione ai reali cambiamenti introdotti sul modo di regolazione regionale che queste riforme devono essere analizzate in prima istanza, possibilmente in chiave comparata.
In questo paper, focalizzando l’attenzione sul caso studio del Veneto, cercheremo di mappare le diverse forme associative intercomunali, congiuntamente con le diverse istituzioni intermedie, definibili anche come “organizzazioni per lo sviluppo”, che operano sul territorio regionale. In particolare verranno richiamate le zonizzazioni relative agli ambiti territoriali di settore delle principali utilities, ma anche quelle relative ai principali strumenti di programmazione decentrata per lo sviluppo locale (Intese Programmatiche d’Area e GAL) con particolare riguardo alla programmazione regionale per lo sviluppo rurale e per lo sviluppo dell’area metropolitana.
A conclusione della presentazione, verranno messi in luce alcuni aspetti salienti della sostenibilità istituzionale per gli enti intermedi e, più in generale, per le riforme di riordino istituzionale regionale, valutandone la coerenza rispetto alla programmazione regionale complessiva.
2. In Italia: un contesto normativo incerto e in continua evoluzione
Il fenomeno dell’associazionismo intercomunale non è un fenomeno recente. Già a partire dagli
anni Settanta, pochi anni dopo l’attivazione delle Regioni a statuto ordinario, furono approvate in
Veneto, come in altre regioni italiane, alcune leggi regionali6 volte a dare vita alle prime forme
istituzionali di associazionismo tra comuni che avevano come obiettivo sia la gestione associata di
alcuni servizi pubblici locali sia la programmazione decentrata allo sviluppo del territorio.
È tuttavia negli anni Novanta, con la L. 142/1990 e le successive riforme Bassanini, che vengono
meglio disciplinate a livello nazionale le forme di collaborazione tra Comuni, quali la convenzione,
il consorzio e l’unione di comuni, quest’ultima pensata come premessa per giungere, dopo 10 anni,
5 Sul concetto di sostenibilità istituzionale (Lanzalaco 2009) mi soffermerò nel paragrafo conclusivo, cfr. nota 38 infra.
6 Nel caso del Veneto, per esempio, si vedano in particolare: la L.r. n. 64 del 30 maggio 1975 che promuoveva su tutto il
territorio regionale la costituzione di consorzi fra i Comuni e le Province, denominati Unità Locali dei Servizi Sociali e
Sanitari, per la gestione unitaria di una serie di servizi obbligatori (ivi specificati), con la possibilità da parte di dei
Comuni di delegare ulteriori funzioni facoltative, e la L.r. n. 80 del 9 giugno 1975, Norme per l’istituzione e il
funzionamento dei Consigli di Comprensorio, che ripartiva il territorio regionale in 52 Comprensori, alcuni dei quali
interprovinciali, individuando gli ambiti territoriali entro cui promuovere e sviluppare in cooperazione con gli enti locali,
relativamente a: una politica di attuazione della programmazione regionale; un’azione di riequilibrio economico e
territoriale; il riordino e la razionalizzazione dell’attività amministrativa regionale e locale; il processo di aggregazione
fra enti locali anche in funzione dell’attribuzione della delega di funzioni regionali; la partecipazione degli organismi
democratici rappresentativi alle scelte politiche della Regione. I Comprensori non sono mai decollati, ma costituiscono
un’esperienza ancora oggi significativa per l’individuazione di 52 aree omogenee.
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alla fusione dei comuni (art. 26, L. 142/1990). In questa fase i Comuni italiani cominciano di fatto
ad associarsi, usufruendo di contributi significativi da parte dello Stato e delle Regioni, spesso
erogati al di fuori di una politica di riordino territoriale. Questa tenenza aumenta visibilmente
soprattutto in seguito alla riforma introdotta dal TUEL (D.Lgs. 267/2000, art. 33), che istituisce le
unioni di comuni come enti locali di secondo livello, introducendo una serie di modifiche della
normativa che riguardano:
- l’eliminazione del vincolo della contiguità territoriale,
- l’eliminazione del vincolo di appartenenza alla medesima provincia,
- l’eliminazione del limite demografico per i comuni aderenti
- e, soprattutto, l’abolizione dell’obbligo di sciogliersi o trasformarsi in fusione di comuni dopo 10
anni.
Tuttavia, senza una legge quadro nazionale7, in questo periodo, e fino al 2006, il panorama delle
politiche nazionali e regionali a favore delle forme associative si presenta, di fatto, decisamente
variegato e disomogeneo. Le unioni di comuni, incentivate direttamente dallo Stato, si sviluppano
su tutto il territorio nazionale, a prescindere da specifiche politiche regionali. Mentre altre forme
associative nascono grazie a specifiche politiche regionali di riordino territoriale che definiscono i
requisiti, in termini di caratteristiche istituzionali e strutturali, richiesti alle forme associative per
poter accedere agli incentivi economici8.
Il 2006 segna invece un’importante svolta in questo ambito, grazie alla Conferenza Unificata fra
Stato, Regioni ed Enti Locali sui «criteri per il riparto e la gestione delle risorse statali a sostegno
dell’associazionismo comunale». L’intesa ha un’importanza strategica decisiva sia per
l’assegnazione alle Regioni delle risorse statali utilizzabili per incentivare la gestione associata dei
servizi locali, sia perché definisce alcune caratteristiche minime che tutte le legislazioni regionali
devono possedere per accedere a questi fondi.
Successivamente, con la legge finanziaria del 2008, per ragioni di contenimento della spesa, le
Regioni vengono inoltre obbligate a riformare il sistema delle Comunità montane, prevedendo una
loro riduzione e una revisione del loro assetto istituzionale.
Più recentemente, il D.L. 78 del 31 maggio 2010 ha obbligato i Comuni con popolazione inferiore a
5.000 abitanti, e 3.000 per i comuni montani, alla gestione associata di servizi e di almeno tre
funzioni fondamentali, mediante convenzione, unione o fusione di comuni (non sono più ammessi i
consorzi), in un bacino di almeno 10.000 abitanti e comunque non inferiore a 5.000, salvo diverse
disposizioni regionali.
Da allora, la conversione del decreto in legge, seguita da una serie di interventi normativi introdotti
dalle successive manovre finanziarie, hanno comportato numerose e importanti modifiche della
disciplina prevista, in relazione:
- al numero delle funzioni fondamentali da gestire in forma associata,
- alle diverse tempistiche,
- alle forme previste per la realizzazione di tali gestioni associate (in parte precisate nel D.L.
95 del 6/7/12 e L. 228/2012).
Ciò ha impresso un’accelerazione notevole ai processi di riordino territoriale delle Regioni aprendo
una nuova stagione di riforme istituzionali su base regionale.
È in questo contesto che si inserisce, nel caso del Veneto, la L.r. 18/2012 Disciplina dell’esercizio
associato di funzioni e servizi comunali, che prevede un piano di riordino territoriale volto ad
individuare ambiti territoriali adeguati ed omogenei per la gestione associata dei servizi pubblici
locali, sul quale ci soffermeremo più avanti.
7 Per un’analisi della normativa sul tema cfr. Vandelli (2005; 2007); Ongarato (2007), Salvato (2013).
8 Si vedano, per esempio, i casi delle associazioni intercomunali previste dalla normativa regionale dell’Emilia Romagna
e del Friuli Venezia Giulia, oppure le comunità collinari del Piemonte. Cfr. Xilo e Ravaioli (2009).
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3.Dimensioni dei Comuni e reti intercomunali in Veneto
Per cogliere più a fondo le dinamiche di associazionismo intercomunale del Veneto è opportuno
partire da una conoscenza delle caratteristiche dimensionali dei Comuni.
Confrontando il Veneto con in contesto italiano (Tab.1), dal punto di vista dimensionale si può
rilevare, in primo luogo, che i Comuni del Veneto sono di dimensioni demografiche mediamente
maggiori: il fenomeno dei micro-comuni al di sotto dei 500 abitanti è quasi inesistente (1,72%),
mentre solo il 6,7% dei Comuni si colloca al di sotto dei 1.000 abitanti, contro il 24% nazionale. I
Comuni fino a 5.000 abitanti incidono per il 57% sul totale (15 punti meno rispetto alla media
nazionale del 72%), mentre significativa è la presenza di Comuni medio-piccoli fra i 5.000 e i
15.000 abitanti, che incidono sul totale per il 35%, contro circa il 20 % nazionale.
Tab.1 – Comuni del Veneto per classi demografiche e confronto con l’Italia
N. Comuni Fino a 500 ab
501-1000 ab
1001-2000 ab
2001-3000 ab
3001-5000 ab
5001-15.000 ab
Oltre 15.000 ab
Totale Comuni
Veneto 10 29 86 89 115 204 48 581
% Veneto 1,72 4,99 14,80 15,32 19,79 35,11 8,26 100
Italia 846 1128 1679 977 1206 1601 664 8101
% Italia 10,44 13,92 20,72 12,06 14,89 19,76 8,19 100
Fonte: elaborazioni su dati Istat 2009.
La distribuzione dei Comuni per provincia (Tab.2) permette di rilevare, in proporzione, una
maggiore presenza di piccoli Comuni sotto i 5.000 abitanti nelle province di Belluno (88,4%) e di
Rovigo (80%).
Tab. 2 – Distribuzione dei Comuni per numero di abitanti
Fonte: elaborazioni su dati Istat 2009.
Questa concentrazione di piccoli comuni, soprattutto nell’area montana, del Rodigino, della Bassa
Padovana e del Basso Vicentino, è messa ancora meglio in luce dalla Fig. 1.
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Fig. 1 - I Comuni del Veneto per classe dimensionale demografica Fonte: Regione Veneto –Direzione Enti locali, Persone Giuridiche e Controllo Atti, 2013b
Come è stato rilevato dalle ricerche sul tema (Messina 2009; Salvato 2009), il Veneto registra un
notevole sviluppo delle forme di gestione associata per numero di enti coinvolti e di funzioni
associate.
Le forme dell’associazionismo in questa regione sono state fin ora il frutto di uno sviluppo
spontaneo, di scelte volontarie dei Comuni, a geometria variabile, spesso motivate solo dall’intento
di ottenere risorse aggiuntive ai magri bilanci comunali. La rete intercomunale, infatti, interessa oggi
il 73% dei comuni veneti, partecipanti a una o più forme associative (in quest'ultimo caso per la
gestione di servizi diversi): una caratteristica che è destinata a creare inevitabili problemi di
sostenibilità istituzionale.
La figura 2 mostra la collocazione geografica delle diverse forme di associazionismo intercomunale
presenti nel Veneto e le numerose aree di sovrapposizione di più forme associative che insistono sul
medesimo Comune.
Al 31/12/2010 si contavano nel Veneto 28 Unioni di Comuni, comprendenti 96 comuni associati, per
una popolazione di 457.352 abitanti (il 9,26% della popolazione regionale), mentre le Comunità
Montane (che, come previsto dalla normativa regionale, si trasformeranno, entro il 1 gennaio 2014,
in Unioni di comuni montani), sono 18 e riguardano 155 comuni, interessando una popolazione di
698.137 abitanti pari 14,14% della popolazione regionale e una superficie di 6.461 kmq, pari al
36,30% del territorio regionale.
Le Unioni sono presenti in prevalenza nelle province di Padova, Vicenza e Verona. Le convenzioni
sono diffuse in tutta la Regione, spesso in abbinamento con altre forme associative.
Belluno si distingue dalle altre province per essere un territorio completamente associato in
Comunità Montane: ne sono presenti 8, corrispondenti a 67 Comuni sui 69 della provincia,
coinvolgendo quindi quasi tutta la superficie provinciale e la popolazione residente.
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Figura 2 – Una mappa sull’associazionismo intercomunale del Veneto
Fonte: Regione Veneto –Direzione Enti locali, Persone Giuridiche e Controllo Atti, 2013b
Treviso si distingue invece perché è l’unica provincia che non presenta unioni di comuni, ma
prevalentemente consorzi e/o convenzioni. Questo probabilmente perché la Provincia di Treviso, a
differenza delle altre Province del Veneto9, ha svolto una funzione di sostegno dei piccoli comuni,
attuando un modo di regolazione più centrato sull’attore politico istituzionale, oltre che sulla
comunità locale, una specificità che può avere ancora un certo significato nel dibattito sul riordino
territoriale e sul ruolo degli enti intermedi come le Province.
In seguito alla recente normativa che obbliga i comuni sotto i 5000 abitanti ad associarsi, in
prevalenza si è fatto ricorso alla Convenzione fra 2-3 Comuni (Tab.3), perché meno impegnativa e di
ambito funzionale limitato. La Convenzione è infatti la forma privilegiata dai piccoli Comuni per
assolvere all’obbligo di gestione associata (47% dei Comuni veneti).
I Consorzi sono un numero limitato (9), anche se coinvolgono un numero rilevante di comuni. In
genere hanno svolto in modo soddisfacente le funzioni loro delegate, per questo sono stati mantenuti
dalla Regione, anche dopo il divieto di costituirne di nuovi.
Le Comunità montane (19) oltre a svolgere le funzioni proprie di tutela delle aree montane, in molti
casi sono destinatarie di deleghe da parte dei comuni. I Comuni, eccetto in alcuni casi, spesso non
sono soddisfatti della gestione associata della CM e in alcuni casi hanno costituito forme associate
9 Le Province nel Veneto, a differenza delle regioni “rosse” come la Toscana e l’Emilia Romagna, non hanno giocato un
ruolo significativo nelle politiche di sviluppo territoriale. Questo perché il “modo di regolazione” proprio della subcultura
politica bianca che ha caratterizzato questa regione non è stato centrato sull’attore politico istituzionale, ma sulla
comunità locale (localismo antistatalista) (Messina 2012b). In questo senso il caso della Marca Trevigiana si differenzia
notevolmente dal resto del Veneto, questa differenza è in buona misura riconducibile al peso esercitato storicamente,
almeno fino agli anni Settanta, dalla corrente Fanfaniana della DC (più laica) rispetto alla corrente Dorotea (più clericale)
dominante soprattutto nel Vicentino, che ha attribuito un ruolo centrale al governo locale, soprattutto provinciale. Cfr.
Jori (2009); Liverta L., Zagato F. (2009). Alla luce di questi elementi, può essere rilevante ricordare che il Governatore
della Regione, Luca Zaia, è stato Presidente della Provincia di Treviso.
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“endo-comunitarie”.
Le unioni di comuni sono tendenzialmente piccole (in media 2-3 comuni), fatta eccezione per alcune
grandi unioni come la Federazione dei Comuni del Camposampierese (11) e l’Unione di Padova
Nord-Ovest (6), che costituiscono esempi di buone pratiche di gestione associata10
, mentre le fusioni
dei Comuni sono al momento ancora solo 2, anche se sono in corso studi di fattibilità per la
costituzione di nuove fusioni11.
Nel complesso, il risultato è un tessuto associativo disorganico, costituito da forme di gestione
associata tendenzialmente piccole, fatta eccezione per le C.M. e i Consorzi.
Tab. 3 - Forme di gestione associata intercomunali per comuni coinvolti, funzioni delegate e
numero di abitanti (2010)
Forme di gestione associata
N. gestioni associate
N. comuni
coinvolti 2
N. funzioni delegate
N. abitanti
compresi 3
Convenzioni1
119 213 132 n.r.
Consorzi 9 109 15 n.r.
Comunità Montane4 18 155 99 741.583
Unioni di Comuni 26 92 274 457.352
TOTALE 173 573 520 1.198.935
Fonte: Regione Veneto –Direzione Enti locali, Persone Giuridiche e Controllo Atti. Dati al 31/12/2010 (1) Dato lordo comprendente l’adesione dei Comuni a più forme associative.
(2) Il totale è riferito solo alle CM e alle Unioni di Comuni.
(3) Dati riferiti a forme associative finanziate dalla Regione Veneto - Direzione Enti locali.
(4) La popolazione delle CM indicata nella Tab.3 è il risultato della popolazione delle 19 CM meno quella della CM
Bellunese. Si tratta pertanto di una stima, ancorché abbastanza attendibile.
Il Piano di riordino territoriale proposto dalla Regione parte dall’analisi di questi elementi, correlati a
un’analisi degli ambiti di settore riconosciuti dalla normativa regionale, al fine di giungere a una
razionalizzazione e a una semplificazione amministrativa. Di conseguenza il numero e la geografia
delle forme associative sono destinati a subire quindi una profonda trasformazione.
4. Gli ambiti territoriali di settore
L’analisi viene estesa, a questo punto, agli ambiti territoriali (ATO) individuati attraverso la gestione
di servizi pubblici locali, riconosciuti con legge regionale, che coprono l’intero territorio regionale,
quali: i Distretti di polizia locale, i Distretti di protezione civile, i Distretti socio-sanitari, i Bacini di
raccolta dei rifiuti, e gli Ambiti dei servizi idrici integrati.
La Tab.4 mette in evidenza l’articolazione di queste zonizzazioni in relazione alla numerosità media
dei Comuni coinvolti e al numero di abitanti.
Come si può evincere da questi dati, tanto gli Ambiti dei servizi idrici integrati, quanto i Bacini di
raccolta dei rifiuti fanno riferimento a un numero di abitanti elevato e vanno riferiti pertanto ad
ambiti territoriali di area vasta.
Al contrario, i Distretti di protezione Civile e i Distretti socio-sanitari, ma anche i Distretti di Polizia
locale, fanno riferimento ad un bacino di area omogenea, mediamente più contenuti, ed è pertanto su
questi ultimi che soffermeremo l’attenzione nella parte cartografica.
10
Sui casi di buone pratiche delle Unioni di comuni si veda anche Frieri, Gallo, Morenti (2012). 11
Sulle nuove fusioni, in corso di definizione, si veda la nota 19 infra.
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Tab.4 – Ambiti territoriali di settore riconosciuti dalla normativa regionale
Ambiti territoriali
Fonte: Regione Veneto –Direzione Enti locali, Persone Giuridiche e Controllo Atti, 2011
(*) Le zonizzazioni sono riferite ad alcune delle funzioni fondamentali dei Comuni previste dal DL 95/2012.
Sono presenti 22 ASL suddivise in Distretti socio-sanitari, che gestiscono anche funzioni assistenziali delegate dai Comuni e
31 Aree di Polizia locale, suddivise operativamente in Distretti Polizia locale, costituiti su base volontaria.
La cartografia, riportata nelle fig. 3 fig. 4 e fig. 5, evidenzia la scarsa sovrapponibilità degli Ambiti di
area omogenea tra loro, soprattutto nell’area del Veneto centrale e, quindi, la frequente appartenenza
dello stesso Comune a zonizzazioni differenti, con evidenti problemi di sovrapposizione, maggiori
costi di coordinamento e conseguente spreco di risorse impiegate.
Fig. 3 – Distretti di Polizia locale del Veneto Fonte: Regione Veneto –Direzione Enti locali, Persone Giuridiche e Controllo Atti, 2013b
Ambiti territoriali (*) N. ambiti
territoriali
N. medio
comuni
N. medio
abitanti
Distretti di Polizia locale 83 7,0 59.492
Distretti di Protezione civile e
anti-incendio b. 57 10,2 86.629
Distretti Socio-Sanitari 54 11,0 93.167
Bacini di raccolta dei rifiuti 24 24,2 205.744
Ambiti Servizi idrici integrati 8 72,6 617.232
10
Fig. 4 – Distretti di Protezione civile del Veneto Fonte: Regione Veneto –Direzione Enti locali, Persone Giuridiche e Controllo Atti, 2013b
Fig. 5 – Aziende ULSS e Distretti socio-sanitari Fonte: Regione Veneto –Direzione Enti locali, Persone Giuridiche e Controllo Atti, 2013b
11
Questi elementi, letti nel loro complesso, come sottolineato dalla stessa Regione Veneto, fanno
emergere la necessità di «razionalizzare i livelli di governance in un’ottica di semplificazione e di
ricomposizione secondo una logica plurifunzionale tale da consentire una maggiore efficacia
decisionale con conseguente ricaduta nell’efficiente gestione dei servizi a tutto vantaggio dei
cittadini» (Regione Veneto, 2013b, p.17).
Il Piano di riordino quindi, in questo contesto, intende offrire una serie di opportunità per una nuova
generazione di progetti di associazionismo comunale, soprattutto per i piccoli comuni che sono
maggiormente colpiti dall’impatto della crisi economica e della carenza di risorse pubbliche,
cogliendo questa occasione per ridisegnare la governance complessiva della regione.
5. Il Piano di riordino territoriale regionale (L.r. 18/2012)
Alla luce di questi elementi, la Regione Veneto, attraverso la L.r. 18/2012 (art.4), ha varato un
Piano di riordino territoriale12 che individua gli ambiti territoriali adeguati ed omogenei per lo
svolgimento in forma obbligatoriamente associata da parte dei comuni, delle funzioni fondamentali.
Il Piano di riordino, che viene aggiornato dalla Giunta regionale ogni tre anni, individua a questo
riguardo le seguenti aree geografiche omogenee, riportate dalla Fig.6: area montana e parzialmente
montana; area ad elevata urbanizzazione; area del Basso Veneto; area del Veneto centrale.
Figura 6 – Aree geografiche omogenee L.r. 18/2012, Art.8.
Fonte: Regione Veneto –Direzione Enti locali, Persone Giuridiche e Controllo Atti, 2013b
Soprattutto, il Piano di riordino individua, al tempo stesso (Art.8), 4 diversi tipi di Ambito
territoriale che si distinguono, oltre che per estensione territoriale, anche per funzioni conferite e
12
Il Piano di riordino territoriale, approvato dal Consiglio regionale con Deliberazione/CR n.72 del 28.06.2013, è stato
definitivamente approvato con la DGR n. 1417 del 6 agosto 2013. Inoltre le DGR 1419 e 1420 del 6 agosto 2013
definiscono i Criteri e modalità per l’assegnazione e l’erogazione di contributi ordinari e contributi statali
“regionalizzati” per favorire l’esercizio associato di funzioni e servizi comunali. Anno 2013 (Art. 10 c.1 L.R. 18 del
27.04.2012).
12
per “livelli di governance”, come evidenzia la Tab.5.
Tab.5 - Ambiti territoriali adeguati, L.R. 18/2012, Art. 8 (DGR n. 1417 del 6 agosto 2013)
Ambito territoriale Funzioni Livello dimensionale Governance e forme
associate
AMBITO DI AREA VASTA
-Funzioni di area vasta
(rifiuti, idrico … ecc.)
-Funzioni delle Province
-Funzioni della città
metropolitana
Provincia
Area città metropolitana
-Provincia
-Città metropolitana
-ATO Consigli di Bacino
(R.s.u.)
AMBITO TERRITORIALE
ADEGUATO E OMOGENEO DI
PROGRAMMAZIONE
Funzioni di programmazione Area ULSS
IPA
-Soggetto responsabile
dell’IPA
-Conferenza dei Sindaci
AMBITO TERRITORIALE
ADEGUATO GESTIONALE
-Funzioni non fondamentali
dei Comuni
- Funzioni fondamentali dei
Comuni
-Funzioni conferite da leggi
regionali
- Funzioni derivanti da leggi
statali
Dimensioni associative
funzionali alle politiche di
settore.
-Distretti sociosanitari,
-Distretti di polizia locale,
-Distretti di protezione
civile
-Unione di Comuni
-Unione montana
-Convenzione
-Consorzio
monofunzionale
AMBITO FUNZIONALE Funzioni fondamentali
a), b), c), d)
La dimensione della forma
associativa è riferita ai
valori demografici
dell’area omogenea, art. 8,
c.3, lett. d) LR 18/12
-Unione di Comuni
-Unione montana
-Convenzione
-Consorzio
monofunzionale
Fonte: Regione del Veneto – Direzione Enti locali, Persone giuridiche e Controllo atti, 2013
Per la definizione “a regime” degli ambiti territoriali adeguati (Tab.5) sono previste due fasi.
Dal 2014, per il primo triennio, partendo dall’individuazione del livello dimensionale minimo di
“adeguatezza funzionale”, si seguirà la seguente logica:
- Ambito funzionale minimale: viene individuato un livello dimensionale minimo di adeguatezza
funzionale, che i Comuni o le loro forme associative devono raggiungere, basato sui livelli
demografici previsti per ciascuna area omogenea definita dalla stessa normativa (Fig.6):
- Area montana, almeno 5.000 ab.
- Area elevata urbanizzazione, almeno 20.000 ab
- Area basso Veneto, almeno 8.000 ab
- Area Veneto centrale, almeno 10.000 ab.
- Ambito territoriale adeguato gestionale: è il riferimento per le politiche di settore, in particolare
il distretto socio-sanitario, il distretto di polizia locale, il distretto di protezione civile.
- Ambito adeguato ed omogeneo di programmazione: è l’ambito delle ULSS e delle IPA.
- Ambito di area vasta: è l’ambito provinciale, della città metropolitana, degli ATO/Consigli di
bacino.
Dopo il primo triennio, anche in seguito ad ulteriori aggiornamenti del Piano, l’obiettivo da
raggiungere sarà quello di ridurre i livelli di governance, fissando l’ambito dell’ULSS come ambito
prioritario, al quale anche gli ambiti di settore dovranno conformarsi.
I principi base che consentono di individuare la dimensione degli ambiti adeguati e della forma
associativa sono inoltre definiti come segue:
- Semplificazione dei livelli di governo a 4 livelli (Tab.5).
- Modularità della zonizzazione: l’ambito più grande deve contenere gli ambiti minori.
13
- Flessibilità della zonizzazione: all’interno dell’ambito gestionale, lo sviluppo delle forme
associative potrà realizzarsi in modo differente, nel rispetto dei limiti demografici e dei parametri
fissati dal Piano di riordino territoriale.
- Integrazione tra ambiti di programmazione e ambiti di gestione: nell’ambito territoriale deputato
alla programmazione decentrata, devono essere ricompresi gli ambiti dei soggetti preposti alla
gestione dei servizi e delle funzioni in forma associata.
Secondo i vincoli posti dalla normativa nazionale, risulterebbe obbligato ad associarsi il 47,7% dei
comuni veneti, mentre la popolazione regionale coinvolta sarebbe (solo) il 13,5%.
Tuttavia, come mette in luce la stessa Regione Veneto (2013b), la novità di maggior rilievo del Piano
di riordino regionale è data proprio dall’aver introdotto il concetto di “dimensione territoriale
adeguata e omogenea”, distinguendo, e al tempo stesso collegando, il livello di gestione dei servizi
da quello di programmazione dello sviluppo locale, con una portata di rinnovamento complessivo
della geografia politica e amministrativa in esso contenuta. Se infatti obiettivo del legislatore
nazionale è, in prima istanza: «il coordinamento della finanza pubblica e il contenimento delle spese
per l’esercizio delle funzioni fondamentali dei Comuni», per la Regione Veneto questa riforma
costituisce invece anche un’occasione importante per «guidare un percorso, concertato e condiviso
con gli Enti Locali, volto alla promozione delle gestioni comunali associate» (corsivo mio), con
l’obiettivo primario di dare vita a un riordino territoriale non imposto dall’alto, ma condiviso con i
Comuni stessi, oltre naturalmente a realizzare risparmi di spesa e, quindi, a ridurre la pressione
fiscale locale. Obiettivo della riforma è infatti quello di incentivare le unioni di comuni che siano in
grado di raggiungere una dimensione territoriale coincidente con quella degli ambiti territoriali
adeguati ed omogenei in cui gestione dei servizi e programmazione dello sviluppo locale coincidano
in un unico ambito territoriale 13.
Il Piano di riordino territoriale intende costituire quindi un punto di svolta per il modo di regolazione
del Veneto avviando, da una lato, un ripensamento del quadro istituzionale delle autonomie locali,
attraverso l’individuazione di una ‘dimensione territoriale adeguata ed omogenea’ e, dall’altro,
guidando un processo di concertazione del quale possano essere parte attiva, non solo i Comuni
obbligati (con meno di 5.000 abitanti), ma tutti i Comuni del Veneto (quindi anche le città
capoluogo), in relazione alle proposte di aggregazione dei Comuni stessi.
Per il modo di regolazione del Vento, tradizionalmente segnato da uno stile amministrativo non
interventista e da un modo di regolazione tipicamente localistico (Messina 2012b), questa
trasformazione, se riuscirà ad essere effettivamente implementata, costituirà senz’altro una vera e
propria rivoluzione del modo di regolazione: da un modo di regolazione non guidato, a un modo di
regolazione guidato e coordinato dal livello di governo regionale. Per questa ragione il percorso di
riforma è particolarmente interessante e va seguito in tutte le sue implicazioni e i suoi possibili
sviluppi.
Vista la portata dei cambiamenti introdotti, si è consapevoli che i tempi di attuazione non potranno
essere brevi e che sarà perciò opportuno un monitoraggio costante dell’implementazione della
policy, oltre ad una forte volontà politica che persegua questo obiettivo con costanza e
determinazione nel tempo. In questa prospettiva, la Regione ha deciso di investire, opportunamente,
da un lato, sulla formazione di nuove figure professionali, chiamate a svolgere, in questo ambito, un
lavoro di “manager di rete”, più che di tipo amministrativo in senso tradizionale14 e, dall’altro, su
13
Al momento questo avviene solo nel caso della Federazione dei Comuni del Camposampierese (Gallo 2009), che
tuttavia presenta un’estensione territoriale pari a quella del Distretto di polizia locale, ma non della rispettiva ULSS (a
questo riguardo si sta valutando infatti l’estensione dell’Unione anche ai due Comuni mancanti di Vigodarzere e
Vigonza). 14
In questo ambito vanno considerate: la convenzione quadro tra Università di Padova e Regione Veneto, attivata nel
2009, per la formazione di funzionari e dirigenti comunali in materia di associazionismo intercomunale, e la
14
forme specifiche di incentivo15 alla costituzione di unioni di comuni che rispondano ai criteri degli
“ambiti territoriali adeguati ed omogenei”.
Da un primo monitoraggio16 compiuto in questo contesto tra il 2012 e il 2013, si è potuta riscontrare
una serie di evidenze empiriche utili per cominciare ad analizzare questo processo di
trasformazione.
In primo luogo si è riscontrato che, alla fine del 2012, la maggioranza delle amministrazioni locali
venete aveva adempiuto all’obbligo della gestione associata di tre funzioni fondamentali mediante
la stipula, ove possibile, di “convenzioni a geometria variabile” con partner diversi per funzioni
diverse, nell’illusione di continuare a gestire in proprio tutte le funzioni: ciò che, di fatto, sta
impedendo di continuare a farlo è l’oggettiva mancanza di risorse. Anche se la convenzione viene
considerata dalla Regione una forma “transitoria” funzionale al passaggio graduale verso un assetto
territoriale che privilegia le unioni di comuni, possiamo concludere, pertanto, che ciò che impedisce
la continuazione di una gestione individuale e localistica dei servizi è di fatto, in prima istanza, la
mancanza di risorse economiche e che molta strada c’è ancora da fare sul piano culturale per
accompagnare il cambiamento di prassi amministrative consolidate.
In secondo luogo, si è riscontrato che gli amministratori che non possono scegliere i partner per
motivi geografici (es. comuni delle valli di montagna, comuni ai confini della provincia), hanno
fatto di necessità virtù e si sono adattati, chi più chi meno, all’idea di governare insieme, attraverso
convenzioni polifunzionali o l’unione dei comuni.
In terzo luogo, si riscontra che gli amministratori che percepiscono la gestione associata, o la
fusione, come un’opportunità e come un cambiamento ineludibile sono ancora in realtà una
minoranza (spesso disorientata dal cambiamento continuo della normativa e dai continui tagli della
finanza locale) che sta tentando di cambiare il proprio modo di governare puntando alla
costituzione di nuove unioni dei comuni17, e in qualche caso provando a intraprende la strada della
fusione18, anche tra comuni non obbligati, alla luce anche degli incentivi regionali.
Ma per avere un quadro più completo dell’impatto effettivo che il Piano regionale di riordino
collaborazione realizzata nell’ambito del Master di I livello in Governo delle reti di sviluppo locale dedicato alla
formazione della figura professionale del manager di rete. 15
A questo riguardo si veda la DGR n. 1420 del 6 agosto 2013. Inoltre, di particolare interesse in questo ambito è anche
il Progetto “ELOGE”, realizzato in collaborazione tra Regione Veneto, Università di Padova e Consiglio d’Europa, che
prevede la definizione di una certificazione europea di buona governance per le Unioni di Comuni “virtuose”, rispondenti
ai principali criteri definiti dal Piano di riordino territoriale regionale. 16
I dati raccolti con la ricerca sul campo (Messina, 2009) sono stati aggiornati e completati grazie alla ricerca PRIN
citata e alla partecipazione ai lavori del Centro di competenza regionale sul Riordino territoriale, per conto
dell’Università di Padova, attivato in seguito alla promulgazione della L.r. 18/2012. 17
I Comuni che si stanno attivando per definire nuove Unioni sono diversi e, poiché il processo è in corso, non è
possibile al momento avere un quadro complessivo perché è in continua evoluzione. A titolo esemplificativo possiamo
segnalare i seguenti casi per i quali è stato realizzato lo studio di fattibilità: nel Veneziano l’unione del Miranese (Noale,
Martellago, Mirano, Salzano, S. Maria di Sala, Scorzè, Spinea); nel Rodigino l’unione del Delta del Po (Ariano nel
Polesine, Corbola, Porto Tolle, Taglio di Po) e dell’Alto Polesine (Calto, Castelmassa, Castelnovo Bariano, Ceneselli);
nel Vicentino l’unione della Val Brenta (Campolongo, Cismon, Pove, S. Nazario, Solagna, Valstagna) e della Valle del
Chiampo (Nogarole, Altissimo, Crespadoro, S. Pietro Mussolino, Chiampo); nella Bassa Padovana, l’unione della
Saccisica (Piove di Sacco, Arzergrande, Brugine, Codevigo, Corezzola, Legnaro, Polverara, Pontelongo, S. Angelo di
Piove) e del Conselvano (Conselve, Agna, Anguillara Veneta, Arre, Bagnoli di Sopra, Bovolenta, Candiana, S. Pietro
Viminario, Terrassa Padovana); nel Trevigiano l’unione di Treviso Est (Breda di Piave, Carbonera, Maserada sul Piave). 18
Stanno valutando l’ipotesi della fusione di comuni, per esempio, 6 Comuni del Rodigino (Arquà Polesine, Costa di
Rovigo, Frassinelle Polesine, Pincara, Villamarzana e Villanova del Ghebbo) che daranno vita al Comune di Civitanova
Polesine, di circa 11.600 abitanti. E così pure 4 Comuni trevigiani della Sinistra Piave (Trichiana, Mel, Limana e Lentia);
4 Comuni della Bassa Padovana (Due Carrare, Cartura, Pernumia e San Pietro Viminario); 2 Comuni del Bellunese
(Longarone e Castellavazzo); i Comuni padovani di Este e Ospedaletto Euganeo, ma anche alcuni comuni della cintura
urbana di Padova, come Cadoneghe, che stanno valutando la fusione con il Comune capoluogo.
15
territoriale intende apportare alla governance territoriale è necessario allargare l’analisi anche agli
strumenti di programmazione e pianificazione territoriale multilivello che incidono sul territorio.
Questo proprio perché l’ambizione del Piano di riordino è quello di costituire un’occasione per
ripensare globalmente la governance territoriale, non solo dal punto di vista delle gestione dei
servizi associati, ma anche da quello delle politiche di sviluppo locale.
6. Strumenti di programmazione dello sviluppo territoriale: IPA e GAL
Analizzeremo adesso alcuni dei principali strumenti di programmazione dello sviluppo territoriale
regionale, che operano anch’essi attraverso forme di zonizzazione, che hanno un impatto
significativo sul governo del territorio, e con i quali il Piano di riordino territoriale sarà chiamato a
raccordarsi. Verranno di seguito presi in esame le IPA e i GAL con riferimento alla pianificazione
territoriale per le aree rurali e al Piano Territoriale Regionale di Coordinamento.
L’intesa Programmatica d’Area (IPA) rappresenta il principale strumento attraverso cui la Regione
Veneto offre ai territori la possibilità di definire una propria strategia di sviluppo, condivisa tra gli
attori istituzionali, economici e sociali di riferimento, coerentemente con la stessa programmazione
regionale. L’istituto dell’IPA19
si propone sostanzialmente di tracciare una linea di continuità con
l’esperienza della Programmazione negoziata in Veneto, ponendosi come un’evoluzione e
declinazione particolare del Patto Territoriale, volto a diffondere e promuovere tale modello anche in
altre realtà sub-regionali dotate di un elevato grado di omogeneità dal punto di vista socio-economico
e delle necessità di intervento. L’IPA non è quindi un istituto amministrativo, ma ha carattere
prettamente politico: un tavolo permanente di concertazione fra attori locali, e tra questi e i livelli di
governo superiori, per delineare strategie di sviluppo del territorio condivise e coerenti con la
programmazione regionale, nazionale ed europea.
Fig. 7 - Le Intese Programmatiche d’Area del Veneto, 2013. Fonte: Regione Veneto. Direzione Programmazione.
Attualmente (agosto 2013), sono attive sul territorio regionale 25 IPA, 16 delle quali sono composte
19
La IPA sono state istituite con la L.r.35/2001 Nuove norme sulla programmazione e promosse con il DGR. 2796/2006
Programmazione decentrata - Intese Programmatiche d'Area (IPA). Per l’attuazione dei progetti delle IPA si fa
riferimento a risorse regionali ex L.r.13/1999, Interventi regionali per i patti territoriali, risorse statali FAS (Fondo Aree
Sottoutilizzate) 2000 – 2006 e risorse pubbliche degli EE.LL. sottoscrittori.
16
dal nucleo di soggetti già promotori dei Patti Territoriali (L.r.13/1999) e/o da altre iniziative che ne
hanno ampliato il partenariato originario, mentre ulteriori 9 IPA fanno riferimento a nuove iniziative
nate a partire dal 2007. Come mostra la Fig.7, le aree non coperte dalle IPA sono principalmente
quelle delle città di Venezia, Padova e Verona e di (pochi) altri comuni limitrofi che, salvo qualche
rara eccezione, gravitano prevalentemente sulle città capoluogo.
Al novembre 2012 la copertura del territorio regionale si attestava all’86,1% dei suoi Comuni e al
69,1% della popolazione residente, passando, in confronto ai dati del 2007, da 355 a 500 enti locali
aderenti e da poco meno di due milioni, a oltre tre milioni di abitanti, su un totale di poco meno di 5
milioni di abitanti del Veneto.
Beneficiari dei contributi sono stati gli Enti locali, in prevalenza i Comuni, che hanno realizzato
opere e infrastrutture pubbliche nell’ambito dello sviluppo locale, con particolare riferimento al
turismo, alla promozione di prodotti tipici locali, alla valorizzazione dei beni culturali e delle risorse
paesaggistiche, alla riqualificazione urbana, mentre sono stati esclusi gli ambiti della mobilità, della
difesa del suolo, del ciclo dell’acqua e delle reti telematiche.
I partenariati risultano composti da un numero medio di circa 41 membri, di cui gli enti locali
costituiscono circa il 50%, seguiti dalle associazioni di categoria (22%) e rappresentanze sindacali
(6,5%), Province o Comunità montane (4,7%), mentre i soggetti privati in media non superano
l’1,7%. La difficoltà di coinvolgimento dei soggetti non istituzionali, soprattutto privati, costituisce
infatti il maggior punto di debolezza delle IPA segnalato dagli stessi soggetti responsabili (Bassetto
2011, p. 92). La quasi totalità delle IPA (95,7%) si è avvalsa inoltre, come avveniva già per i Patti
territoriali, dell’assistenza tecnica di un soggetto esterno specializzato sia per il supporto all’attività
del partenariato, sia per la realizzazione del documento di programmazione. Dal punto di vista della
velocità di realizzazione degli interventi, considerando i progetti beneficiari di finanziamento tra il
2004 e il 2010, alla data del 1° gennaio 2013, solamente il 42% di questi risultava essere concluso, il
40% era in fase di esecuzione, mentre il 18% dei progetti si trovava ancora nella fase progettuale.
Dal punto di vista gestionale, poiché le IPA sono solo un tavolo tecnico e non un ente gestore,
risultano essere più funzionali quelle IPA che coincidono per estensione territoriale con unioni di
comuni, come nel caso del Camposampierese, oppure con i GAL nelle aree rurali, come per esempio
nel caso dell’IPA Prealpi Bellunesi20
.
Gruppi di Azione Locale (GAL): attivati in relazione all’iniziativa comunitaria LEADER per lo
sviluppo rurale, progettano e attivano gli interventi ritenuti prioritari nelle singole aree, in sintonia
con gli obiettivi individuati dal Programma di Sviluppo Rurale del Veneto (PSR Asse 4 – LEADER
2007-2013), promuovendo progetti di sviluppo rurale ideati e condivisi a livello locale, al fine di
rivitalizzare il territorio, creare occupazione e migliorare le condizioni generali di vita delle aree
rurali. I 14 GAL attivati per il periodo di programmazione 2007-2013 (Fig.8) hanno coinvolto
un’elevata quota di territorio regionale (13.144,21 kmq) e 378 comuni (su 581), interessando aree
rurali con notevoli fragilità. In particolare, sono stati inclusi tutti i Comuni classificati dalla Regione
come aree rurali con problemi complessivi di sviluppo (area D), il 93% dei Comuni ricadenti nelle
aree rurali intermedie (area C) e il 48% dei Comuni classificati come aree ad agricoltura
specializzata (area B). Si notino in particolare i due GAL del Veneziano della Fig.8 (Venezia
Orientale e Antico Dogado).
Si è avuto inoltre un incremento della superficie (fino al 71%) e della popolazione (al 40%)
beneficiarie rispetto alla programmazione precedente 2000-2006. Il numero dei GAL è aumentato da
8 a 14, e 4 dei 6 nuovi GAL (Alta Marca Trevigiana, Bassa Padovana, Pianura Veronese, Polesine
Adige, Terra Berica, Terre di Marca) insistono su territori che non hanno beneficiato del precedente
20
Un’analisi comparata di questi due casi studio di IPA, Camposampierese e Prealpi Bellunesi, è stata realizzata
nell’ambito della ricerca PRIN citata, cfr. Bassetto, Domorenok, Messina, Salvato (2013). Sul caso dell’Unione del
Comuni e dell’IPA del Camposampierese, in particolare, cfr. Gallo (2009); Messina, Gallo, Parise (2011).
17
programma LEADER+.
Fig. 8 - Gruppi di Azione Locale (GAL) e PIA-R (Progetti Integrati per le Aree Rurali) del Veneto. 2013 Fonte: Regione Veneto - Direzione Settore Primario. Programma di Sviluppo Rurale (PSR).
I PIA-R Progetti Integrati per le Aree Rurali, sono invece i partenariati pubblico-privati che
elaborano, promuovono e danno attuazione a specifiche strategie di sviluppo rurale che si applicano
esclusivamente alle aree non interessate dall’attuazione dei GAL e dei relativi Programmi di
Sviluppo Locale, approvati dalla Regione ai sensi dell’Asse 4 – LEADER. Come mette bene in luce la
Fig.8, i PIA-R sono localizzati essenzialmente nell’area della campagna urbanizzata del Veneto
centrale, mentre risultano essere escluse dalle politiche di sviluppo rurale solo le città capoluogo di
Venezia, Padova, Vicenza e Verona e alcune parti delle relative cinture urbane.
A differenza delle IPA, i GAL si costituiscono come enti gestori. Tra le forme giuridiche adottate dai
GAL prevale l’Associazione con personalità giuridica di diritto privato riconosciuta (8), seguita da
Società consortile a responsabilità limitata (4), Società cooperativa (2). Nella composizione del
partenariato dei GAL veneti (440 soci) si registra una maggioranza di enti pubblici (56%), che per la
maggior parte (174) è costituita da Comuni e loro associazioni (19 comunità montane e un’unione).
Va notata, tuttavia, la variazione del numero di soci e la diversità di equilibrio tra la componente
pubblica e quella privata nei diversi GAL, messa in luce dalla Tab.6: quattro GAL si distinguono per
il partenariato particolarmente numeroso, con una preponderante componente pubblica, mentre i
GAL supportati da partenariati più ridotti si caratterizzano per una più numerosa adesione dei soci
privati.
18
Tab.6 - Composizione dei partenariati locali dei GAL Veneti
05
10152025303540
Soci Pubblici Soci Privati
Fonte: Regione Veneto, Direzione Settore Primario 2013.
La valutazione intermedia del PSR FEASR 2007-2013 ha messo in evidenza come le progettualità
sostenute in questo ambito, quando sono state realizzate con l’appoggio delle reti delle IPA21, hanno
dimostrato una più alta capacità di integrazione tematica e intersettoriale, in particolare con
riferimento alle misure dedicate alla valorizzazione e qualità del paesaggio, al recupero,
riqualificazione e valorizzazione del patrimonio storico-architettonico, all’incentivazione e allo
sviluppo delle imprese e dei servizi. Tale tendenza si è verificata anche nelle aree di attuazione dei
PIA-R, quando essi coincidevano con l’area di unioni di comuni e/o di IPA. Per converso, è stato
segnalato un impatto negativo prodotto dalla coincidenza/sovrapposizione territoriale dei GAL e
delle IPA, nel momento in cui i due strumenti hanno sollecitato diverse proposte progettuali su temi
simili dallo stesso bacino di soggetti locali. I casi di perfetta o sostanziale coincidenza dei GAL e
PIA-R con le rispettive IPA mostrano quindi interessanti punti di forza nella capacità di integrazione
intersettoriale della progettualità, ma anche casi di ridondanza progettuale, tutt’altro che strategica,
quando manca la capacità (o la volontà) di coordinamento dei diversi tavoli.
Questi stessi dati sono ancora più importanti se analizzati alla luce dei dati sull’efficacia delle IPA in
termini di progettualità: di 383 progettualità presentate sul bando ex.l.r.13/1999 per il periodo 2004-
2010, ritenute strategiche ai rispettivi tavoli di concertazione, il 32,8% ha conseguito il
finanziamento, il 19,2% è stato ritenuto ammissibile ma non finanziabile grazie al bando, mentre il
48% è stato dichiarato non coerente con i criteri stabiliti dal bando in questione. Un dato che mostra
mediamente un’accresciuta capacità della Regione di valutare le proposte di finanziamento pervenute
e di selezionarle sulla base di precise priorità, coerenti con i documenti di programmazione su fondi
europei22. Tuttavia, poiché l’istituzione delle IPA non è avvenuta nello stesso periodo, diventa
impossibile compiere una valutazione complessiva della loro efficacia, che tenga conto anche delle
progettualità implementate dalle IPA al di fuori delle risorse dedicate dal suddetto bando regionale.
Si possono individuare, però, alcune esperienze virtuose che sono segnate da un numero
particolarmente elevato di iniziative come, per esempio, le IPA Dolomiti Venete (48 progetti),
Sistema Polesine (40) e Prealpi Bellunesi (28).
21
I casi di coincidenza sostanziale (S) e perfetta (P) dei territori GAL con i rispettivi ambiti IPA sono: Alta Marca
Trevigiana (S), Alto Bellunese (P), Baldo Lessinia (S), Pianura Veronese (S), Prealpi Bellunesi (P), Terra Berica (P) e
Venezia Orientale (P). 22
Sull’impatto delle politiche europee sulle politiche regionali di sviluppo territoriale e sull’europeizzazione, con
particolare riferimento al caso del Veneto, si veda la ricerca in Messina (2011).
19
La costruzione dei nuovi partenariati locali, quindi, dovrebbe tener conto della sovrapposizione dei
diversi ambiti di gestione e di programmazione esistenti nel territorio regionale e aumentarne
l’efficacia. La valorizzazione e il consolidamento dei legami esistenti tra i diversi soggetti coinvolti
nella progettazione dello sviluppo locale può costituire una reale opportunità di razionalizzazione
delle risorse e di ottimizzazione dell’intervento sostenuto dai diversi fondi regionali ed europei.
Ciò che fa la differenza, a questo punto, è però la capacità dei territori di perseguire, attraverso le
progettualità presentate, obiettivi di sviluppo locale in senso strategico davvero condivisi e in grado
di catalizzare le risorse disponibili con un approccio plurifondo23, che sia al tempo stesso
effettivamente condiviso e sostenuto dal livello regionale di governo, oltre che da quello nazionale.
Questo richiede tuttavia un cambiamento significativo del modo di regolazione regionale, con
l’adozione di un approccio integrato ed intersettoriale delle politiche di sviluppo locale, a
cominciare dai criteri adottati per la lettura del territorio, in senso strategico, già nei documenti di
programmazione regionali che costituiscono un riferimento per i documenti e le politiche di sviluppo
locali.
7. L’area del Veneto centrale: dalla campagna urbanizzata alla città metropolitana?
Per comprendere la radicalità del cambiamento di approccio richiesto dalle politiche integrate di
sviluppo locale, cambiamento per altro promosso e fortemente sostenuto anche dalla nuova
programmazione24 europea 2014-2020, diventa importante focalizzare a questo punto l’attenzione sui
documenti di programmazione regionali che classificano il territorio in funzione delle politiche di
sviluppo locale variamente inteso. In particolare soffermeremo l’attenzione sulla classificazione delle
aree rurali e delle aree urbane-metropolitane per mettere in luce le principali contraddizioni
emergenti che riguardano in particolare l’area del Veneto centrale della campagna urbanizzata e
industrializzata che, va ricordato, ha costituito l’area di riferimento del “modello veneto” di sviluppo
dei sistemi di piccola e media impresa: un “modello” che richiede oggi di essere fortemente ripensato
per traghettare il Veneto manifatturiero verso un’economia globale della conoscenza (Rullani 2006).
Zonizzazione delle Aree rurali. In relazione alla programmazione comunitaria per lo sviluppo rurale
(PSR-FEASR) la Regione Veneto ha adottato una classificazione delle aree rurali, presentata nella
Fig.9, che sostanzialmente copre quasi l’intero territorio regionale, con esclusione delle città
capoluogo di provincia del Veneto centrale25
.
23
L’approccio plurifondo, sostenuto dalla nuova programmazione europea 2014-2020, sta sollevando in realtà diversi
problemi di praticabilità a livello regionale, poiché richiede un approccio integrato ed intersettoriale delle politiche di
sviluppo che risulta essere ancora difficilmente attuabile, poiché incongruente con la prassi amministrativa consolidata,
ancora tipicamente settoriale. Molte sono infatti le resistenze al cambiamento che arrivano sia dalla componente politica
sia da quella amministrativa. 24
Sull’approccio place based fatto proprio dalla nuova programmazione europea 2014-2020 si veda il “Rapporto Barca”,
cfr. Barca F. (2009), Un’agenda per la riforma della politica di coesione. Una politica di sviluppo rivolta ai luoghi per
rispondere alle sfide e alle aspettative dell’Unione Europea, DpS, Ministero dell’Economia e delle Finanze, Roma,
http://www.dps.tesoro.it 25
Gli elementi di analisi sulla programmazione regionale per lo sviluppo rurale sono stati raccolti in occasione della
ricerca realizzata in collaborazione con la Regione Veneto – Direzione Settore Primario, in occasione della redazione del
nuovo PSR 2014-2020, Priorità 6. Il gruppo di lavoro che sto coordinando per l’Università di Padova è costituito da
Ekaterina Domorenok, Nicoletta Parise e Luca Simone Rizzo.
20
Fig. 9 - Le aree rurali del Veneto. 2013
Fonte: Regione Veneto - Direzione Settore Primario 2013. Programma di Sviluppo Rurale (PSR).
Come mettono in luce le Tab.7 e Tab.8, secondo le aree rurali individuate da tale classificazione
(costruita a partire dalla dimensione demografica, incrociata con le caratteristiche altimetriche del
territorio), le due province prevalentemente, se non esclusivamente, rurali risultano essere infatti
quelle di Belluno e di Rovigo.
Tab.7 – La classificazione regionale delle Aree rurali – Censimento 2011
Area montana n° Comuni Popolazione Superficie (kmq) D -Aree rurali con problemi complessivi di sviluppo Si 117 344.801 7% 5.346,29 29%
C -Aree rurali intermedie No 77 394.896 8% 2.437,89 13% Si 11 67.404 1% 320,52 2%
B2-Aree rurali ad agricoltura intensiva specializzata No 232 1.490.373 31% 6.494,06 35% Si 37 180.435 4% 788,63 4%
B1-Aree urbanizzate No 95 1.324.964 27% 1.963,32 11% Si 7 141.749 3% 212,71 1%
A-Poli urbani No 4 660.068 14% 645,07 4% Si 1 252.520 5% 198,92 1%
Totale 581 4.857.210 100% 18.407,42 100%
Fonte: Regione Veneto - Direzione Settore Primario 2013. Programma di Sviluppo Rurale (PSR).
La parte più consistente della regione (70%), sia in termini di popolazione che di superfice, risulta
classificata invece come area intermedia di “campagna urbanizzata” (e industrializzata), coincidente
con l’area B1 e B2 della Fig.9, che è l’area produttiva del Veneto centrale.
21
Tab.8 – Ripartizione del territorio Veneto per tipologia (Rurale, Urbano, Intermedio)
Label Tipi di regione (NUTS3) NUTS 2010
Total Regioni rurali Regioni intermedie Regioni Urbane
km2 km2 % of total km2 % of
total km2 % of total
European Union (27) 4.404.166 2.274.607 51,6 1.691.579 38,4 437.980 9,9 Nord-Est 62.310 22.994 36,9 38.638 62,0 678 1,1
Veneto 18.399 5.468 29,7 12.931 70,3 0 0,0 Verona Intermedia 3.121 3.121 Vicenza Intermedia 2.725 2.725 Belluno Prevalentemente rurali 3.678 3.678 Treviso Intermedia 2.477 2.477 Venezia Intermedia 2.467 2.467 Padova Intermedia 2.142 2.142 Rovigo Predominanti rurali 1.790 1.790
Fonte: Eurostat 2012
A questo riguardo va evidenziato che l’area B, della campagna urbanizzata e industrializzata,
presenta ancora oggi una serie di carenze di servizi di base e infrastrutturali che impediscono di
classificarla come area urbana a pieno titolo, pur essendo di fatto una realtà territoriale fortemente
antropizzata e densamente popolata, segnata da forti flussi pendolari casa-lavoro di carattere
metropolitano, da una forte espansione dell’urbanizzazione diffusa e costituendo, al tempo stesso,
una delle aree manifatturiere più importanti d’Europa (circa un’impresa ogni 9 abitanti).
Per queste ragioni l’area del Veneto centrale, pur presentando ancora significativi elementi di
ruralità, andrebbe considerata in maniera diversa, in relazione a una serie di altre variabili dello
sviluppo del territorio di tipo urbano-metropolitano che la classificazione regionale delle aree rurali
non consente di rilevare in modo adeguato rispetto alle esigenze del contesto e alle sue
trasformazioni anche recenti e, soprattutto, di un suo sviluppo evolutivo in senso strategico: da area
rurale-urbanizzata ad area metropolitana.
In quest’area sono stati implementati i PIA-R, ma sono presenti anche 12 IPA. Queste ultime hanno
costituito una interessante forma di coordinamento26, con l’obiettivo di poter interloquire con la
Regione in materia di politiche per lo sviluppo dell’area vasta in senso strategico. Una scelta di
sviluppo strategico di cui certo non possono farsi carico i singoli Comuni, ma che richiede un
progetto di lungo periodo di sviluppo dell’area vasta, condiviso da più livelli di governo, regionale,
ma anche nazionale.
Area urbana-metropolitana
Gli studi sull’area metropolitana del Veneto centrale, nota anche come “città diffusa” (Indovina,
1990; 1999), o “arcipelago metropolitano” (Indovina 2005; 2009), sono ampiamente noti e richiamati
anche dai documenti di programmazione per lo sviluppo territoriale regionale, come il Piano
Territoriale Regionale di Coordinamento (PTRC) del 1992, rinnovato del 2007 (Documento
preliminare Dgr. 2587/2007), che individua due principali sistemi metropolitani: uno veronese a
struttura monocentrica, l’altro nell’area del Veneto centrale a struttura policentrica, a cui si collega
l’area della Pedemontana ad “aggregazione dispersa”, che presenta relazioni di tipo metropolitano.
L’area del Veneto centrale compresa tra le province di Venezia, Padova e Treviso e Vicenza ha
infatti tutte le caratteristiche proprie di un’area ad alta densità metropolitana (Fig.10), ovvero di un
territorio legato a una o più città centrali da rapporti di «interdipendenza funzionale» e di «elevata
integrazione economica e sociale» (Fregolent 2013), che tuttavia presenta una forte frammentazione
26
Di particolare interesse è il coordinamento “dal basso” operato dalla IPA del Veneto centrale, partito dapprima con le 5
IPA del Camposampierese (PD), Castellana (TV), Montebellunese (TV), Cittadellese (PD) e Bassanese (VI), durante la
programmazione 2007-2013, che hanno dato vita al “Pentagono centrale Veneto” (Doriguzzi Bozzo, Galati, Nicolao,
Venturin, 2008). Oggi il coordinamento comprende 8 IPA convenzionate fra loro, ma si estende fino a comprendere 12
IPA dell’area. Il coordinatore è oggi il sindaco del Comune di Schio (VI).
22
dal punto di vista politico-amministrativo, essendo suddivisa in 4 Province e oltre 200 Comuni, con
evidenti difficoltà di governo dell’area vasta.
Fig.10 - L’area centrale veneta. Il costruito fino al 1970 (colore scuro) e il costruito dal 1970 al 2007 (colore chiaro).
Fonte: Fregolent (2013)
In questo contesto, quindi, la riforma di riordino territoriale, a partire dall’abolizione delle Province e
dei loro confini amministrativi, diventa di importanza strategica decisiva per potenziare il processo
di metropolizzazione come strategia di sviluppo, promossa dalle prossime politiche europee27
: una
strategia che punta sul potenziamento di quelle “funzioni metropolitane”, riconosciute anche nel
nuovo Statuto regionale (art.14), necessarie per attrarre quelle risorse proprie di un’economia della
conoscenza e del terziario avanzato, che sostituiscono una condizione fondamentale per collegare i
territori con le reti globali. Si tratta di un’area che per dimensioni demografiche (2,6 milioni di
abitanti) supererebbe il caso della città metropolitana di Torino, e sarebbe del tutto simile alle aree
metropolitane di Toronto e Barcellona, che produce un PIL di circa 40 milioni di dollari annui, come
Londra e Stoccolma, ma che necessita di un progetto politico condiviso di governo di area vasta che
sia in grado di traghettare il Veneto manifatturiero nell’era dell’economia globale e del terziario
avanzato. L’integrazione politica di questa area metropolitana “di fatto”, potrebbe costituire,
senz’altro, un’importante occasione per migliorare la qualità dei servizi per le persone e per le
imprese che operano sul territorio e, più in generale, per la qualità della vita dei suoi abitanti, come è
stato messo bene in luce dal Rapporto OCSE (2010). Ma, soprattutto, potrebbe costituire un traino per
lo sviluppo dell’intera regione e rispondere in modo adeguato a quanto richiesto dalle politiche
dell’Unione Europea per le City Regions nei prossimi anni.
La Fig.11, costruita sulla base dei flussi pendolari, mostra ancora meglio la rilevanza delle relazioni
intercomunali che collegano in modo sistematico l’area di Padova-Venezia-Treviso con la
Pedemontana che si estende fino alla provincia di Vicenza, e la sostanziale distanza da queste
27
La programmazione 2014-2020 del FESR destinerà almeno il 5% delle risorse del Fondo su base nazionale ad azioni
integrate per lo sviluppo urbano sostenibile delegate alle città metropolitane (City regions). In questa prospettiva la
Commissione europea istituirà e finanzierà una piattaforma per lo sviluppo urbano costituita da 300 città, con un
massimo di 20 città metropolitane per ciascuno Stato membro. In Italia: circa 20 miliardi di euro. Circa 1 miliardo di euro
per Città metropolitana. A questo riguardo, con riferimento al caso del Veneto, cfr. Messina (2013).
23
dinamiche di aree della stessa provincia di Venezia, come la Venezia Orientale di San Donà di Piave
e Portogruaro e l’area meridionale di Chioggia, Cavarzere e Cona, che sono infatti classificate come
aree rurali (con i relativi GAL) dalla stessa programmazione regionale.
Fig. 11 - Regione Veneto. Relazioni intercomunali con più di 200 spostamenti giornalieri (2001).
Fonte: Elaborazione Regione Veneto – Direzione Sistema Statistico Regionale e Trastec scpa, 2007.
Quello del Veneto si presenta quindi come un caso di estremo interesse perché segnato da un
marcato policentrismo dell’area metropolitana del Veneto centrale e dalla sostanziale sfasatura di
questa rispetto al territorio attribuito di diritto alla Città metropolitana di Venezia, ovvero il territorio
della Provincia di Venezia (L.135/2012). Ci troviamo cioè in presenza di un caso esemplare in cui
l’Area metropolitana “di fatto” non coincide per nulla con la Città metropolitana “di diritto”,
costruita, ancora una volta, a partire dal territorio della provincia di Venezia28
, i cui confini
amministrativi risultano essere del tutto inadeguati. I dati raccolti mostrano oltretutto un’evidente
incongruenza con le politiche di sviluppo locale in atto sul territorio regionale, tra aree rurali e area
metropolitana. Ma, soprattutto, mostrano una palese difficoltà culturale della classe politica locale,
dei piccoli comuni dell’area del Veneto centrale, a percepirsi come rappresentanti di un territorio in
corso di metropolizzazione, piuttosto che (ancora) di periferia29.
28
Un altro esempio di area metropolitana policentrica è, non a caso, quello toscano di Firenze-Prato-Pistoia (Morandi,
Bai, Screpanti, 2012), in cui è strategicamente opportuno dare forma a reti policentriche di città valorizzando i territori
produttivi che gravitano sulle città capoluogo. Anche nel caso toscano si tratta infatti di un’area produttiva della “Terza
Italia” ad economia diffusa, caratterizzata storicamente dallo sviluppo di sistemi produttivi locali di piccola e media
impresa. 29
Durante l’acceso dibattito sulla possibilità di estendere l’area metropolitana all’area del Veneto centrale, nell’autunno
2012, non è stato infrequente imbattersi nelle dichiarazioni di sindaci dei comuni interessati, come quello di
Camposampiero che, impreparato ad affrontare il tema, si difendeva dichiarandosi “Sindaco di campagna”.
24
La sfasatura tra area metropolitana di fatto e città metropolitana di diritto è ancora più visibile se
confrontata con la fig.12 che presenta l’assetto istituzionale che il territorio regionale verrebbe ad
assumere a compimento della riforma di riordino territoriale prospettata30 dalla L.135/2012.
Fig.12 – Regione Veneto. Ipotesi di riordino territoriale delle Province e la Città metropolitana di Venezia.
Fonte: http://www.veneziacittametropolitana.it (2012)
Ricordando che questo assetto probabilmente verrà superato dal disegno di legge costituzionale che
prevede l’abolizione delle Province e dal disegno di legge ordinaria in merito, recentemente varato
dal Governo Letta31
, è interessante rilevare che esso è il risultato (provvisorio) di una serie di
proposte che si sono susseguite, occupando i giornali quotidiani tra settembre e dicembre 2012.
Questo dibattito ha visto le posizioni più disparate tra chi, in nome della difesa di una non meglio
definita “identità locale”, si opponeva all’accorpamento per difendere in realtà rendite di posizione
politiche legate al vecchio assetto istituzionale e ai relativi collegi elettorali (centro-destra e Lega) e
chi vedeva invece in questa riforma un’opportunità da cogliere per un rilancio del governo del
territorio (centro-sinistra).
Un confronto caratterizzato dalla sostanziale debolezza della classe politica regionale nel gestire
questo importante processo, con l’assenza sostanziale della Giunta regionale e il tentativo del
Consiglio regionale di giungere a una mediazione con le istanze espresse dal territorio.
Dopo una prima ipotesi di minima di accorpamento delle Province di Padova con Rovigo e di
Treviso con Belluno, meramente aritmetica32, scartata per l’opposizione “dal basso” di molti Comuni
interessati, di fronte all’evidente difficoltà della Regione Veneto di pronunciarsi in merito, i giochi
sono stati riaperti quando il Comune di Padova e alcuni comuni della sua cintura urbana e dell’area
termale Euganea hanno espresso la volontà di passare alla Città metropolitana di Venezia.
30
Secondo la normativa italiana (L.135/2012) il territorio della Città Metropolitana coincide con quello della provincia
contestualmente soppressa, fermo restando il potere dei Comuni interessati di deliberare, con atto del Consiglio,
l'adesione alla Città Metropolitana o, in alternativa, a una provincia limitrofa. 31
Il riferimento è al disegno di legge ordinaria di riforma dell’ordinamento delle Autonomie locali, coordinata dal
Ministro per gli Affari regionali e le Autonomie locali, Graziano Delrio, del 5 luglio 2013, che ha come obiettivo:
l’istituzione della Città metropolitana, la nuova disciplina delle Province quali enti di secondo livello per il governo di
area vasta, la nuova disciplina organica delle Unioni di Comuni. Cfr. De Sanctis (2013). 32
La normativa varata dal Governo Monti aboliva le Province con meno di 350mila abitanti e un’estensione inferiore a
2.500 Kmq, ovvero: Belluno, Treviso, Padova e Rovigo, mentre la provincia di Venezia diveniva città metropolitana.
25
La crisi del Governo Monti nel dicembre 2012 ha sostanzialmente congelato ogni cosa, rimandando
il problema al 2013 e al successivo Governo Letta. Il dibattito è proseguito con le elezioni
amministrative del Comune di Treviso, del maggio-giungo 2013, in cui il tema dell’area
metropolitana è stato al centro della campagna elettorale33, che ha visto la vittoria del sindaco del
centro-sinistra Giovanni Manildo, dopo vent’anni di governo della Lega Nord. Inoltre, la nomina del
sindaco di Padova, Flavio Zanonato, fautore della costituzione della città metropolitana estesa ai
comuni del Veneto centrale, a Ministro dello Sviluppo del Governo Letta, è un elemento che
aggiunge rilevanza politica al tema del riordino territoriale e della costituzione della città
metropolitana a partire dall’asse Venezia-Padova.
Nel frattempo, con sentenza n.220/2013, la Corte Costituzionale ha cassato tutte le norme introdotte
dal Governo Monti34 che avevano trasformato le Province in enti di secondo livello, le avevano
svuotate di competenze e ne avevano mutato le circoscrizioni con legge ordinaria (con la
soppressione di quelle Province con meno di 350mila abitanti e un’estensione inferiore a 2.500
Kmq), in quanto si tratta di enti locali regolati dalla Costituzione. La sentenza della Consulta ha
costretto il Governo Letta ad intervenire approvando il 5 luglio 2013 un disegno di legge
costituzionale avente ad oggetto l’eliminazione del termine “Province” dagli art. 114 e seguenti della
Costituzione. Inoltre, visti i tempi di approvazione della Legge costituzionale, il Governo ha
approvato anche un disegno di legge ordinaria che dovrebbe disciplinare il ruolo futuro delle
Province nel lasso di tempo che intercorrerà fino alla loro definitiva soppressione costituzionale (De
Sanctis 2013). Tutto ciò rende ancor più di stringente attualità il problema della definizione dei livelli
intermedi di governo e di gestione fra Comune e Regione e del loro rapporto con la Città
metropolitana, la cui costituzione si dovrebbe avere (salvo ulteriori proroghe) a partire dall’1/7/2014.
8. Riordino territoriale e sviluppo guidato: un cambiamento del modo di regolazione
Questo dibattito fa emergere però anche un’antica frattura, mai risolta, tra città e campagna, una
frattura che storicamente ha caratterizzato, da sempre, il radicamento della subcultura politica bianca
nel Veneto: mentre infatti la roccaforte della subcultura bianca è stata l’area della campagna (ora
urbanizzata e industrializzata) del Veneto centrale, le città capoluogo della stessa area sono state
invece un presidio delle forze progressiste (Dimanti, Riccamboni 1992).
Come le ricerche comparate sui modi di regolazione dello sviluppo locale nei casi delle due
subculture politiche bianca e rossa hanno messo in luce (Messina 2012b), il modo di sviluppo “non
guidato” della piccola e media impresa del Veneto è stato sostenuto da un modo di regolazione
centrato sulla regolazione comunitaria locale che ha dato vita a un modello istituzionale aggregativo
caratterizzato da localismi forti e da una regionalità debole, come sommatoria dei sistemi locali, ma
funzionale al mantenimento degli equilibri locali. Il ceto politico che governa la Regione Veneto è
sempre stato espressione di questa realtà territoriale “della provincia” e della sua cultura di
regolazione, segnata da uno stile amministrativo non interventista e dal prevalere di politiche
distributive.
Al contrario, le città capoluogo di Venezia e Padova, se da un lato costituiscono le realtà territoriali
più terziarizzate della regione, espressione di un modo di sviluppo che richiede di essere “guidato”
con un progetto strategico innovativo e condiviso, dall’altra sono governate dal centro-sinistra,
portatore di una diversa cultura di governo, più interventista e interessato a raccogliere la nuova
33
Rilevante a questo riguardo è stata la conferenza organizzata da Unindustria di Treviso e da tutte le associazioni di
categoria della Marca Trevigiana a sostegno dell’ipotesi dell’area metropolitana del Veneto centrale che includa anche la
provincia di Treviso. Cfr. Padova, Treviso Venezia. Una grande area metropolitana per lo sviluppo del Veneto centrale,
20 maggio 2013, BHR Treviso Hotel, Quinto di Treviso. 34
Il riferimento è sia all’articolo 23 del D.L. n.201/2011 (convertito in legge n.214/2011), meglio noto come “Decreto
salva-Italia”), che trasformava le Province in enti di secondo livello, sia agli art. 17 e 18 del D.L. n.95/2012 (convertito in
Legge n. 135/2012) meglio noto come Spending review.
26
domanda politica di regolazione che arriva dal territorio, raccordandola con i cambiamenti introdotti
dalle politiche europee.
La resistenza della Regione Veneto alla costituzione della Città metropolitana di Venezia, specie se
allargata all’area metropolitana di Padova e Treviso, nonostante il potenziamento delle “funzioni
metropolitane sia previsto anche dall’art. 14 del nuovo Statuto regionale, è spiegabile pertanto, più
probabilmente, con una evidente diffidenza nei confronti di un cambiamento di equilibri che, in
un’epoca di tagli della spesa in cui non è più possibile attuare politiche distributive, finirebbe con lo
spostare inevitabilmente il baricentro dello sviluppo dalla “provincia” della campagna urbanizzata,
alle città capoluogo di Padova e Venezia, con la conseguente trasformazione del modo di regolazione
prevalente, più aperto alla pianificazione strategica del territorio e a nuove politiche regolative, che
trova impreparata la classe politica erede della subcultura bianca.
A ben guardare, anche le altre regioni del Nord Italia a statuto ordinario, come Piemonte e
Lombardia, sono caratterizzate da questa marcata differenza tra il colore politico della città
capoluogo (Torino e Milano) di centro-sinistra, e quello del governo regionale, di centro-destra, un
dato che sottolinea ancora una volta la rilevanza politica della riforma istituzionale di attivazione
delle Città metropolitane e di riordino territoriale. D’altra parte la stessa cosa non accade invece nelle
Regioni rosse del centro, come l’Emilia Romagna e la Toscana, in cui il PD è al governo sia delle
città capoluogo sia delle Regioni, le quali mostrano di avere a loro volta un atteggiamento molto più
favorevole nei confronti della costituzione delle rispettive Città metropolitane. Si tratta di una
differenza significativa che potrebbe offrire spunti interessanti per una comparazione per contesti tra
queste regioni.
Allo stato attuale del dibattito, per l’ipotesi della Pa-Tre-Ve, di cui si discute peraltro da oltre
vent’anni, è importante sottolineare che le maggiori difficoltà, paradossalmente, non vengono da
Roma, ma dalla Regione35 che difende le Province attuali36 e vede con diffidenza e preoccupazione la
nascita della Città metropolitana per le ragioni che abbiamo ricordato. A queste ragioni, tuttavia ne
va aggiunta probabilmente anche un’altra di rilevate importanza, dal momento che non sono stati
ancora opportunamente chiariti i criteri di ripartizione delle funzioni tra Città metropolitana e
Regione: una Città metropolitana che, nell’ipotesi della Pa-Tre-Ve, verrebbe a contare oltre due
milioni e mezzo di abitanti, in una regione che ne conta in tutto meno di cinque milioni, e che con le
nuove politiche europee sarebbe destinataria di circa un miliardo di euro di finanziamenti, contro i
circa 500 milioni di euro di fondi FESR destinati alla Regione. La domanda di fondo rimane aperta,
soprattutto alla luce delle nuove politiche europee di coesione 2014-2020: come è destinata a
cambiare la relazione tra Unione Europea, Regioni e Città metropolitane? E soprattutto, nella
prospettiva del potenziamento dei processi di metropolizzazione di cui abbiamo detto, che senso ha
parlare ancora in Italia di regioni con le dimensioni di quelle attuali? Forse avrebbe più senso parlare
di macro-regioni, ridisegnando anche le geografie politiche delle regioni stesse in senso funzionale?
Si tratta insomma di elementi di cruciale importanza, necessari per definire il nuovo scenario su cui i
diversi attori saranno chiamati ad operare, nodi cruciali che dovranno essere sciolti al più presto dal
governo nazionale, ma che dimostrano, al tempo stesso, quanto il tema del riordino territoriale risulti
essere centrale per una governabilità più efficiente e moderna del nostro Paese nella prospettiva
europea.
35
Le posizioni del Presidente della Regione Luca Zaia e del centro-destra sono state fin ora decisamente contro l’ipotesi
della Pa-Tre-Ve: si vada in proposito Benet (2013b): “La Regione stronca la città metropolitana: «Non si capisce a che
cosa serva, si pensi a razionalizzare i costi». Bitonci: «è un mostro rosso»”. 36
Questa posizione, sostenuta soprattutto dalla Lega Nord e dal Governatore della Regione Luca Zaia, può essere forse
meglio compresa se si pensa che Zaia è stato Presidente proprio della Provincia di Treviso che, secondo la normativa,
avrebbe dovuto essere abolita e/o accorpata con un'altra provincia e che, come si è detto, presenta caratteristiche molto
specifiche nel contesto del Veneto. Si veda a questo riguardo la nota 9 infra.
27
9.Sostenibilità istituzionale e sviluppo strategico del territorio
Per le ragioni che si sono evidenziate, il riordino territoriale avviato in nome della spending review
costituisce, allora, una delle più importanti riforme istituzionali che meriterebbe di essere colta come
un’occasione storica per ridisegnare la governance territoriale e sarebbe opportuno valutare quindi
non solo in relazione alla riduzione della spesa pubblica, ma soprattutto in relazione all’innovazione
istituzionale e al rilancio dello sviluppo di territori che si sono nel frattempo profondamente
trasformati.
Restano certamente ancora alcuni nodi cruciali da sciogliere in questo ambito, a cominciare, in primo
luogo, dalla ripartizione delle funzioni fra Regione e Città metropolitana per consentire un’efficace
governo di area vasta; dai criteri di riordino territoriale che le Regioni dovranno darsi anche nella
prospettiva dell’abolizione delle Province; dagli incentivi da dare ai piccoli Comuni per attivare
strategie di associazionismo intercomunale, su basi funzionali, con l’obiettivo di entrare in rete con le
aree metropolitane più dinamiche e meglio servite in una logica di complementarietà, che vada oltre
la tradizionale dicotomia città-campagna. Sciogliere questi nodi consentirebbe di ridisegnare in modo
coerente l’architettura istituzionale del Paese, anche nella prospettiva di una governance europea
multilivello. In assenza di un macro-disegno condiviso di riforma istituzionale, i casi regionali di
riforma istituzionale risultano di particolare interesse per rilevare la capacità dei territori di esprimere
le istanze di cambiamento e la capacità delle istituzioni politiche di adeguarsi a queste nuove
domande.
Pur con i limiti dettati dall’incertezza normativa ancora prevalente, possiamo concludere questo
lavoro facendo tesoro di alcune evidenze empiriche ricavate dal caso studio del Veneto, con
l’obiettivo di contribuire in modo costruttivo al dibattito sulle politiche di riordino territoriale,
proponendo alcuni indicatori di valutazione della sostenibilità istituzionale che possono essere utili
anche in altri contesti.
In concetto di sostenibilità istituzionale qui utilizzato37 fa riferimento alla capacità che una istituzione
ha di sopravvivere nel tempo senza erodere le risorse a sua disposizione, senza dover ricorrere
continuativamente al supporto esterno e svolgendo le funzioni a cui è preposta. La sostenibilità
istituzionale ha quindi a che fare con l’autonomia organizzativa e finanziaria, una leadership
fortemente legittimata e spiccate capacità di apprendimento e adattamento. In questa accezione,
quindi, la sostenibilità è una proprietà di una istituzione che prescinde dalle politiche di sviluppo
sostenibile, ma che può caratterizzare qualunque tipo di istituzione: una università, un’impresa, un
ospedale, un’agenzia della pubblica amministrazione (Stato apparato), un organo decisionale.
Le dimensioni della sostenibilità istituzionale, così intesa, possono essere sintetizzate nella Tab.9.
37
Il concetto di sostenibilità istituzionale utilizzato in questo ambito va riferito a un contesto tipico dei paesi con un
elevato grado di sviluppo e consolidamento delle istituzioni politico-amministrative in regimi democratici avanzati.
Come ricorda Lanzalaco (2009) a questo riguardo, Agenda 21 ha definito la sostenibilità istituzionale come: «la capacità
di assicurare condizioni di stabilità, democrazia, partecipazione, informazione, formazione e giustizia», sottolineando
come: «uno dei prerequisiti fondamentali per raggiungere lo sviluppo sostenibile è la più ampia partecipazione nei
processi decisionali». Altri autori mettono inoltre l’accento sulla capacità dell’attore politico di “governare la
governance”, ovvero di coordinare il processo di governance perseguendo l’obiettivo di produrre una decisione condivisa
e vincolante. Ciò che in sintesi si può ricavare da questi elementi è che, nel contesto istituzionale di un regime
democratico, le politiche per la sostenibilità dello sviluppo di un territorio sono strettamente correlate a pratiche di
“buona governance” dello sviluppo dello stesso territorio. A ciò tuttavia va aggiunto, come suggerisce ancora Lanzalaco,
che la sostenibilità istituzionale attiene essenzialmente alla dimensione dinamica e non statica di un’istituzione. Questo
28
Tab.9 - Dimensioni analitiche della sostenibilità istituzionale
INCLUSIVITÀ Composizione ed estensione del partenariato; Intensità delle relazioni interne
INTEGRAZIONE Coordinamento verticale e orizzontale tra i principali soggetti
APPROCCIO PRO-ATTIVO Capacità programmatoria e progettuale
RIFLESSIVITÀ Cultura di auto-valutazione e capacità di apprendimento
IMPATTO SUL TERRITORIO Sviluppo locale
Attraverso questa chiave di lettura è possibile valutare:
- Il grado di congruenza/incongruenza degli ambiti di gestione e programmazione
- La convergenza/divergenza fra gli ambiti territoriali
- La continuità/discontinuità strategica e organizzativa.
La ricerca sul caso Veneto ha permesso di evidenziare una serie di elementi che proveremo a
sintetizzare con questa chiave di lettura, in vista di una possibile comparazione con altri casi
regionali38.
In primo luogo, nel caso Veneto la governance locale risulta essere caratterizzata da molteplici
elementi di sovrapposizione funzionale e incongruenza degli ambiti di gestione e di programmazione
ed è a partire da questo scenario che si inserisce la riforma regionale del Piano di riordino territoriale.
In questo contesto, l’obiettivo che questa riforma si ripromette di perseguire è duplice: da un lato,
creare le condizioni per garantire l’efficacia della gestione associata dei servizi pubblici locali nella
prospettiva di una razionalizzazione della spesa pubblica, ma dall’altro anche quello di garantire
l’attrattività dei territori attraverso politiche di sviluppo locale multilivello, le quali richiedono
capacità progettuale e organizzativa delle reti di partenariato e sostenibilità istituzionale degli ambiti
territoriali di riferimento. Gestione dei servizi e programmazione dello sviluppo devono essere visti,
quindi, come strettamente correlati. Senza l’una, anche l’altra dimensione diventa difficilmente
sostenibile, soprattutto nel lungo periodo.
Nel caso del Veneto, le forme di governance locale che rispondono meglio alle caratteristiche di
sostenibilità istituzionale e organizzativa sono riscontrabili in quelle Unioni di Comuni e quei GAL i
cui ambiti territoriali coincidono con l’ambito delle rispettive IPA, poiché presentano tutte le
caratteristiche sintetizzate nella Tab.9. Ed è in questa direzione che si sta orientando
l’implementazione del Piano di riordino territoriale regionale, anche attraverso l’individuazione di
una serie di opportuni incentivi per quei comuni che sono in grado di realizzare forme di
associazionismo virtuose, ovvero coerenti con la definizione di “ambiti territoriali adeguati ed
omogenei”.
Dall’analisi effettuata sul campo39, emergono le seguenti variabili rilevanti che possono costituire un
riferimento per l’analisi comparata.
Leadership: se l’impatto della leadership politica appare in genere piuttosto debole, perché ha natura
contingente e variabile nel tempo, determinante è invece il ruolo svolto dalla leadership tecnica, in
concetto è stato applicato in modo puntuale nell’analisi del caso studio dell’IPA del Camposampierese: cfr. Messina,
Gallo, Parise (2011). 38
La ricerca PRIN in cui questo paper si inserisce prevede la comparazione tra sei casi regionali: oltre al Veneto,
Andalusia, Brandeburgo, Puglia, Sicilia e Toscana. 39
Con particolare riferimento, come si è detto, alla comparazione dei due casi studio dell’IPA del Camposampierese e
dell’IPA Prealpi Bellunesi, cfr. Bassetto M., Domorenok E., Messina P., Salvato M. (2013).
29
particolare dalla figura di Direttore dell’UC o del GAL. Questa figura gioca un ruolo trainante nella
promozione di strategie di sviluppo locale comuni, trasversalmente alle forme di governance locale
analizzate e si configura come una nuova professionalità, centrata sulle competenze del management
di rete. Il manager di rete deve essere in grado di “tenere insieme” la rete dei Comuni associata in
Unione (volontaria) e di raccordarla con il livello regionale di governo, ma anche di coordinare le
reti di governance pubblico-privato, proprie dei tavoli delle IPA e dei GAL. Sulla formazione di
questa nuova figura professionale la Regione Veneto ha deciso infatti di investire in modo
significativo, in collaborazione con l’Università di Padova.
Partenariato stabile e interconnesso: nel caso in cui l’ambito di gestione dei servizi coincide con
l’ambito di programmazione dello sviluppo, i medesimi soggetti interagiscono in sedi istituzionali
diverse (unione di comuni, comunità montane, GAL, PIA-R, IPA). Ciò consente una maggiore
continuità e il coordinamento reciproco e garantisce, inoltre, una certa coerenza di decisioni politiche
sia nell’ambito gestionale sia in quello programmatorio e la costruzione di reti di capitale sociale e
“beni relazionali”. Questo è senz’altro un elemento che contribuisce a garantire sostenibilità
organizzativa e istituzionale e, nel lungo periodo, costituisce anche un’occasione di apprendimento
istituzionale e terreno di formazione della classe politica, oltre che della classe amministrativa.
Identità locale e rappresentanza politica: quando prevale la dimensione dell’identità locale in senso
localistico, come per esempio in alcuni contesti montani, ma anche di pianura, questo costituisce
spesso un elemento che impedisce di arrivare a soluzioni efficaci dal punto di vista tecnico per la
costituzione di reti sovralocali (es. economie di scala, maggiore efficacia nella gestione dei servizi,
ecc.); quando invece la dimensione dell’identità locale acquista una valenza glocale, come accade in
alcune realtà come quella del Camposampierese e di alcune IPA del Veneto centrale, proprio la
“salvaguardia” di un’identità locale, da ridefinire in funzione di una nuova idea di sviluppo da
ripensare, diventa l’elemento di forza verso la costruzione dell’identità sovracomunale, senza per
questo negare le identità dei singoli comuni. Questo avviene soprattutto quando la rappresentanza
degli interessi genuinamente territoriali, in senso funzionale, prevale sulla rappresentanza di tipo
partitico in senso ideologico, spesso infatti queste due dimensioni della rappresentanza politica
tendono a non coincidere, con effetti decisamente negativi per le chances di sviluppo del territorio in
senso innovativo40.
Finanziamenti esterni: questo è un tema da considerare con particolare attenzione poiché la presenza
dei finanziamenti regionali e/o europei ha fortemente influenzato l’evoluzione delle reti di
governance locale analizzate, fino a determinare in alcuni casi la loro stessa creazione, finalizzata in
prima istanza all’accesso ai finanziamenti pubblici, sia nei casi di alcune unioni di comuni, sia di IPA
e di GAL. Questo può costituire, di fatto, un elemento di notevole criticità che ne mina dalle
fondamenta la capacità di sopravvivenza del lungo periodo, una volta esauriti i finanziamenti.
Diventa pertanto di importanza decisiva per la sostenibilità istituzionale della nuova struttura-rete
trovare le risorse organizzative e motivazionali che ne garantiscano nel lungo periodo la sostenibilità.
In questa prospettiva anche gli incentivi finanziari andrebbero opportunamente indirizzati dall’attore
pubblico, soprattutto in un periodo di crisi finanziaria come quello attuale, per orientare il
comportamento degli attori locali e la loro capacità di cooperare, perseguendo l’obiettivo della
sostenibilità istituzionale. Con riferimento soprattutto al passaggio dalla vecchia alla nuova
programmazione europea, ora si pone infatti il problema del mantenimento di queste reti, nel
momento in cui dovessero cessare le “vecchie” linee di finanziamento europee e nascerne delle altre,
con altri obiettivi e altre procedure. Il ritardo e l’incertezza nella programmazione regionale dei fondi
40
Questo è quanto è accaduto, per esempio, nel corso del dibattito sull’area metropolitana del Vento centrale tra ottobre e
dicembre 2012, in cui le direttive di partito del PdL e della Lega Nord erano fortemente negative (e basate su
argomentazioni di tipo localistico) e in contrasto con quelle espresse dai territori comunali del Veneto centrale, più aperti
verso il cambiamento.
30
europei (FEASR e FESR) è destinato a creare pertanto una serie di difficoltà nella capacità progettuale
degli attori locali.
Vincoli normativi esterni: le continue variazioni delle norme regionali e nazionali relative all’assetto
e al funzionamento delle diverse forme di governance locale hanno fortemente inciso sulla
sostenibilità istituzionale delle stesse (obbligatorietà/volontarietà) e sono un importante fattore che
va adeguatamente considerato nel contesto del cambiamento complessivo. I territori auspicano infatti
una maggiore capacità di coordinamento regionale e, quindi, un cambiamento del modo di
regolazione, con un maggior peso riconosciuto all’attore politico regionale nella governance
(multilivello e multi-attore) per lo sviluppo del territorio in senso strategico.
In questa prospettiva, l’eliminazione del livello di governo provinciale e dei vincoli costituiti dai
relativi confini amministrativi, risalenti al periodo napoleonico e oggi del tutto inadeguati, è di fatto
una condizione necessaria per poter ridisegnare la geografia politica e amministrativa dell’intera
regione con un approccio più funzionale al governo dello sviluppo del territorio. Questo vale sia per
la costituzione dei nuovi ambiti territoriali adeguati ed omogenei sia, soprattutto, per la costituzione
della nuova città metropolitana.
Dalla capacità di risposta dei livelli di governo sovralocale, regionale e nazionale, a questo problema
dipenderanno non solo la sostenibilità istituzionale della riforma, ma anche le chances di sviluppo
dei territori e la legittimazione dell’attore politico nel suo complesso.
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