Festival Anatomia · N el 1971 Nicola di Bari e Nada vinse-ro il festival di San-remo con la...

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PAOLO ERCOLANI

L’ essere umano for-ma la propria iden-tità attraverso il rapporto costante

con una sorta di specchio, che per comodità chiamiamo «realtà».

In effetti noi riconosciamo noi stessi, con i pregi e i difetti, le inclinazioni e le idiosincra-sie, mediante il rapporto con le cose e le persone con cui en-triamo in contatto, e che ci re-stituiscono un’immagine che contribuisce a farci diventare consapevoli di noi stessi e del-le nostre caratteristiche.

Non si tratta di un’attività automatica, perché in realtà essa richiede il nostro impe-gno costante e il nostro ragio-nare. Non a caso il termine stes-so, specchio, deriva dal latino «speculum», la cui radice è la medesima di «speculare», cioè pensare.

L’essere umano, insomma, definisce una propria identità, per quanto possibile equilibra-ta e consapevole, attraverso il confronto ragionato con la realtà, poiché è in quest’ulti-ma dimensione che egli si tro-va ad operare lungo quel per-corso che siamo soliti chiama-re «vita».

Ciò è stato vero fino a poco tempo fa, ma oggi non più.

La società tecnologica, infat-ti, quella dei social, dei selfie e del nostro continuo interveni-re in varie forme nella rete di Internet, ci ha messo per la pri-ma volta nella storia di fronte a un’umanità invertita.

Sì, un’umanità che si preoc-cupa molto di più di apparire bella, interessante, piena di re-lazioni e impegni nella galas-sia virtuale, trascurando in mi-sura costantemente crescente il fatto di risultare incattivita, omologata, incapace di dialo-go e disoccupata in quella rea-le.

Il passaggio da un’umanità per quanto possibile pensante

(impegnata a riflettere sulla realtà circostante), a una «po-stante» (concentrata sui conte-nuti da immettere o di cui usu-fruire in rete), è stato tanto ve-loce quanto irreversibile.

E dire che il pensiero non è un’attività che è salutare tra-scurare da parte dell’umanità. Platone la riteneva il vero ele-mento caratterizzante degli uomini, esseri mediani fra gli

dèi e gli animali. Questi ultimi due non hanno bisogno di pen-sare, poiché la vita per loro non costituisce un problema, sosteneva il grande filosofo an-tico.

Gli dèi posseggono la cono-scenza assoluta, mentre gli ani-mali sono forniti di quella spe-cie di navigatore satellitare in-terno che si chiama istinto e che li spinge ad agire in manie-ra automatica in vista del pro-prio utile.

Soltanto per l’uomo, sprov-visto della conoscenza assolu-ta e povero di istinti, la vita stessa rappresenta un proble-ma. Altro termine eloquente sin dall’etimologia, che lo ve-de risalire all’antico verbo gre-co proballein, il cui significato era «guardare innanzi», consi-derare il dopo, preoccuparsi del futuro, seguendo una tra-duzione libera.

Insomma, è sugli esseri uma-ni che grava il problema del do-mani, la costruzione di se stes-si e di un rapporto col mondo circostante che sia equilibrato e ispirato al bene comune. In questo contesto il pensiero è il suo strumento più efficace allo scopo.

Il guaio è che l’uomo dell’era tecnologica risulta sempre più sprovvisto di un pensiero criti-co, ma in compenso sempre più immerso in un narcisismo

che lo rende affamato di conti-nue attenzioni, di notifiche co-stanti provenienti dal mondo virtuale.

Anche qui, narcisismo risale al greco antico narkosis, in cui stava a significare l’ addormen-tamento. Nel narcisista tecno-logico, ad essere addormenta-to è giusto il pensiero, la facol-tà autonoma e critica con cui costruire un’identità propria,

a favore di un bisogno compul-sivo di soddisfare gli «amici» virtuali, i follower, la dimen-sione social che sembra chiede-re una nostra opinione su ogni campo dello scibile umano, promettendo in cambio quegli attestati di stima freddi che so-no i «like».

Lo psicologo Eric Erickson, nella metà del Novecento, ci spiegava che il momento della formazione di un’identità au-tonoma rappresenta una tap-pa fondamentale nella cresci-ta della persona. Tale forma-zione, scriveva Erickson, avvie-ne attraverso il processo di in-trospezione di cui abbiamo parlato sopra. L’individuo, in rapporto con le cose e le perso-ne della realtà, trova dei mo-menti per guardarsi dentro e comprendere, per esempio, quali sono le cose e le persone che più gli vanno a genio, con cui può progettare un futuro adeguato alle proprie inclina-zioni.

L’uomo contemporaneo, in-vece, immerso sempre più fre-quentemente nella dimensio-ne social, rischia di vedere frantumato lo specchio interio-re con cui elaborare in manie-ra autonoma gli stimoli esterni e pervenire a un’identità strut-turata. Ciò perché, innanzitut-to, la presenza costante degli smartphone nelle nostre mani

annulla pressoché totalmente quei «tempi morti» (in fila dal medico o semplicemente da so-li in casa) che rendevano possi-bile l’introspezione e il con-fronto con se stessi. Poi, per-ché gli stessi social ci impongo-no quella che il pedagogista Howard Gardner chiamava qualche anno fa un’«identità preconfezionata», con allusio-ne voluta alla logica economi-ca. Pensiamo soprattutto ai più giovani e al loro essere co-stantemente in vetrina come un prodotto commerciale: una bella fotografia, magari ri-toccata alla bisogna, condivi-sioni che manifestino le tante amicizie e il successo sociale del titolare della «bacheca», e in generale un’immagine vin-cente attraverso quella vera e propria moneta virtuale che so-no i like, i follower, il numero di persone che condividono o commentano ciò che «posti» attestando il successo della tua identità in vendita.

Questi i parametri con cui le nuove generazioni sono chia-mate a costruire la propria identità, secondo un processo di omologazione e una logica quantitativa che rischia di tra-sformarli in ripetitori passivi degli stessi gesti insulsi (come «selfizzare» ogni momento del-la propria quotidianità) e in drogati di notifiche e consensi sempre più numerosi attraver-so cui misurare il valore della propria vita.

Sono pochi quelli disposti ad ammetterlo, ma ci trovia-mo di fronte a una vera e pro-pria mutazione antropologica che mai come oggi rischia di trasformare le persone in ciò che questa parola significa ori-ginariamente: maschere. Sot-to alle quali potremmo ritro-varci molto presto a scoprire che non c’è più nulla. —

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ANDREA VITALI

Nel 1971 Nicola di Bari e Nada vinse-ro il festival di San-remo con la canzo-

ne intitolata Il cuore è uno zingaro. Con compiaciute ri-me baciate il testo della can-zone recitava tra l’altro che «catene non ha, il cuore è uno zingaro e va». Mai frase più semplice, canticchiata e fischiettata da chissà quanti all’epoca e anche dopo, pro-pose e propone una sacro-santa verità, e cioè che il cuo-re, tra gli organi nobili della nostra anatomia, è quello che tiene maggiormente al-la sua libertà d’azione, poi-ché da essa la vita degli altri dipende. Vero è che si po-trebbe facilmente obiettare quanto sarebbe difficile la vita senza cervello, inteso quale organo vero e pro-prio, oppure senza fegato. Ma senza cuore chi potreb-be spingere in ogni dove, fi-no agli estremi confini dell’anatomico impero, ciò di cui i suoi abitanti si nutro-no?

Sandeep Jauhar, cardiolo-go di origine indiana e diret-tore di un programma di prevenzione delle malattie cardiovascolari presso il Long Island Jewish Medical Center, ha scritto un libro, Il cuore. Una storia (Bollati Bo-ringhieri), facendo dell’or-gano menzionato il vero protagonista e di ciò gli va reso il primo di una serie di meriti. Essendo egli stesso cardiologo, infatti, avrebbe potuto anteporsi all’ogget-to delle sue cure e, cedendo a una più che umana vanità, essere il primo attore del suo racconto. Cosa che inve-ce non ha fatto, o perlome-no non in maniera invasiva, consapevole della suprema-zia di quest’organo sui più li-

mitati destini di chi se lo por-ta in petto. Ecco quindi spie-gata la semplicità del titolo del libro, Il cuore, cui si è vo-luto aggiungere il significa-tivo sottotitolo, «Una sto-ria». L’autore ha portato a compimento la non facile impresa di embricare due racconti paralleli facendo sì che il libro in oggetto diven-ti, da una parte, un sobrio, per quanto puntiglioso, sag-gio di storia sulle varie tap-pe che hanno portato allo sviluppo delle tecniche più avanguardistiche che per-

mettono di curare molte tra le patologie, congenite o ac-quisite, del cuore. È una se-zione del libro che, senza di-menticare le declinazioni metaforiche di cui il cuore è stato ed è oggetto, offre uno spaccato a volte crudele, narrato senza timore di am-mettere che la via dell’ap-prendimento e del progres-so spesso è segnalata da un discreto numero di croci. Valga per tutti, quale esem-pio tra i tanti riportati, il vis-suto di Clarence Walton Lil-lehei, innovatore tra i più

grandi nel campo della chi-rurgia del ventesimo seco-lo, ideatore della circolazio-ne incrociata controllata, sorta di progenitore della circolazione extracorporea.

Sull’altro binario, la narra-zione si nutre invece di un’a-ria familiare poiché l’autore racconta le proprie origini e soprattutto racconta come la morte improvvisa del non-no, avvenuta per un attacco cardiaco, abbia avuto su di lui una sorta di «effetto voca-zione», non priva peraltro di una certa ossessione,

spingendolo verso lo studio del cuore e delle sue patolo-gie. In tal senso questa è la parte più narrativa e umani-stica del lavoro di Jauhar, laddove la terminologia scientifica e gli excursus nel-la storia della medicina car-diologica lasciano invece il passo al processo di forma-

zione di un medico, a ciò che si sperimenta vivendo la camera operatoria e la corsia d’ospedale e che non è mai facile trasmettere ai pazienti in cura: la parteci-pazione emotiva alla soffe-renza altrui cioè, la com-prensione del dolore e del disagio, un patrimonio dell’affettività e della cultu-ra umanistica di cui la medi-cina e pregna ma che talvol-ta deve cedere il passo allo sterile rigore della tecnica per poter raggiungere il ri-sultato sperato.

A ogni avvio di capitolo le esperienze personali del dottor Jauhar sembrano vo-ler ribadire al lettore che tut-to ciò che la medicina e la ri-cerca fanno hanno per sco-po quello di poter permette-re che medico e paziente continuino a guardarsi ne-gli occhi per il maggior tem-po possibile. Non solo medi-co e paziente, però. Uno di fronte all’altro ci possono stare anche medico e medi-co, poiché, pur se del ramo, anche quello di un professio-

nista è in fondo solo un cuore come gli altri, sog-getto come tutti alla possi-bilità di ammalarsi. Che è il destino dell’autore del li-bro in oggetto quando sco-pre di appartenere lui stes-so alla categoria dei cardio-patici. Nemesi? Chi lo sa! A titolo di rassicurazione conviene segnalare che il dottor Jauhar è vivo e vege-to e «lotta insieme a noi», e per noi, come dimostra il suo ultimo capitolo, «Pau-sa compensatoria», ove chiaro è l’invito a non pre-tendere che la specialisti-ca, quale che sia, si sostitui-sca a noi nel preservarci in salute. Dobbiamo collabo-rare invece, controllando il nostro stile di vita affinché il nostro cuore non patisca fino a fermarsi. Oppure, nel caso lo debba fare, che sia come cantava la canzo-ne di Nicola di Bari e Nada: dopo aver trovato il prato più verde che c’è e permet-tendoci di ammirare uno splendido cielo stellato. —

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Modena, Carpi e Sassuolo

Sandeep Jauhar

La vita va dove la porta il cuoreUn cardiologo ripercorre la storia dell’organo che più di tutti governa la nostra esistenzaScoperte e interventi si intrecciano con le vicende personali del medico e con quelle dei suoi pazienti

Paolo Ercolani, docente di filosofia all’università di Urbino, è tra gli ospiti del festivalfilosofia 2019 che si svolge oggi e domani a Modena, Carpi e Sassuolo. 40 luoghi, 200 appuntamenti per mettere a fuoco la questione della «Persona» tra diritti, civiltà e fragilità umana. Fra gli ospiti Augé, Bodei, Bianchi, Cacciari, Crouch, Ehrenberg, Galimberti, Giovannini, Marzano, Massini, Nancy, Quante, Recalcati, Rosen, Roy, Severino, Vegetti Finzi. In programma mostre, spettacoli e anche otto «menu filosofici» per ricordare Tullio Gregory (www.festivalfilosofia.it)

dalla società aperta alla società ottusa

Posto dunque sonoIl narcisismo tecnologico, affamato di like e follower, spegne il pensiero criticoÈ in atto una mutazione antropologica che trasforma le persone in maschere

Festival Anatomia

La via del progesso è segnata

da un discreto numero di croci

Lo smartphone fisso in mano

annulla il tempo dell’introspezione

Sandeep Jauhar«Il cuore. Una storia»(trad. di Benedetta Antonielli d’Oulx)Bollati Boringhieripp. 261, € 28

ANSA

Paolo Ercolani«Figli di un io minore. Dalla società aperta alla società ottusa»Marsiliopp. 333, € 16

Cardiologo di origine indianaSandeep Jauhar è direttore dell’Heart Failure Program presso il Long Island Jewish Medical Center, dove vive. È autore di due memoir sulla sua esperienza di medico, entrambi bestseller del «New York Times», su cui tiene una rubrica

Il suo saggio

XXII LASTAMPA SABATO 14 SETTEMBRE 2019

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