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sentenza 11 ottobre 1990; Giud. Monti; imp. BallarioSource: Il Foro Italiano, Vol. 114, PARTE SECONDA: GIURISPRUDENZA PENALE (1991), pp.739/740-743/744Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARLStable URL: http://www.jstor.org/stable/23186441 .
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PARTE SECONDA
le ampie considerazioni svolte nella parte di questa decisione
dedicata all'elemento soggettivo dei reati contestati, considera
zioni che si riferivano infatti soprattutto alla contravvenzione.
Gli imputati sono tutte persone che svolgono una attività di
lavoro regolarmente autorizzata come è emerso dalla produzio ne al dibattimento di tutte le varie licenze e come già emergeva dalle produzioni documentali del pubblico ministero. In buona
fede e per il contenuto di quei primi precedenti giurisprudenzia li gli imputati hanno ritenuto che non fosse necessaria una li
cenza ad hoc per questo tipo di oggetti per le stesse ragioni
per cui questo giudicante ha dovuto ritenere la buona fede e
l'ignoranza scusabile nella qualificazione degli oggetti come me
ri strumenti atti ad offendere. In sostanza, credendo gli imputa ti in buona fede che gli oggetti in questione non fossero armi, di conseguenza hanno creduto che non fosse necessaria la licen
za del questore. Può quindi ritenersi esclusa la colpa degli im
putati anche sotto questo profilo della mancata licenza specifica
per la vendita di questi oggetti, sia per la buona fede che per la sussistenza nella fattispecie delle condizioni indicate dalla Corte
costituzionale nella sentenza 364/88. (Omissis)
PRETURA DI VERCELLI; sentenza 11 ottobre 1990; Giud.
Monti; imp. Ballario.
PRETURA DI VERCELLI;
Pena (applicazione su richiesta) — Reato continuato — Richie
sta — Proscioglimento parziale (Cod. pen., art. 81; cod. proc.
pen., art. 129, 444). Pena (applicazione su richiesta) — Reato continuato — Pro
scioglimento parziale — Poteri del giudice (Cod. pen., art.
81; cod. proc. pen., art. 129, 444). Pena (applicazione su richiesta) — Dissenso del pubblico mini
stero — Criteri di valutazione del giudice del dibattimento
(Cod. proc. pen., art. 444, 448).
La richiesta di applicazione della pena a norma dell'art. 444
c.p.p. formulata dall'imputato relativamente a diversi reati
contestati e ritenuti unificati dal vincolo della continuazione, con indicazione della sola pena complessiva per il reato conti
nuato, contiene implicitamente anche una richiesta di appli cazione di pena per ogni singolo reato; tale richiesta, pertan to, può e deve essere riconosciuta nella sua autonoma rile
vanza qualora, sia predibattimentalmente ai sensi dell'art. 129
c.p.p., sia all'esito del dibattimento, venga riconosciuta la re
sponsabilità penale dell'imputato solo per alcuni dei reati per i quali nella richiesta di applicazione della pena veniva pro spettata l'unificazione ex art. 81 c.p. (1)
Nel caso di richiesta di applicazione di pena per più reati in
continuazione tra loro con indicazione della sola pena com
plessiva, il giudice, oltre al potere di individuare in tale ri
chiesta analoghe distinte richieste per ogni singolo reato da
considerarsi come autonomamente rilevanti qualora debba es
sere emessa sentenza di proscioglimento per uno dei reati pro
spettati come unificati a norma dell'art. 81 c.p., ha altresì
il potere di determinare in via interpretativa la misura della
pena richiesta per quei reati che residuino dalla pronunzia di proscioglimento ai fini della verifica della sua congruità e della possibilità di applicarla con sentenza nelle forme di
cui all'art. 448 c.p.p. (2)
(1-2) Prime fattispecie in tema di applicazione della pena su richiesta delle parti e reato continuato successive alla sentenza della Corte costi tuzionale n. 313 del 26 giugno 1990, Foro it., 1990, I, 2385 con note di Fiandaca, Pena «patteggiata» e principio rieducativo: un arduo com promesso tra logica di parte e controllo giudiziale, e di Tranchina, «Patteggiamento» e principi costituzionali: una convivenza piuttosto dif ficile.
Sul patteggiamento richiesto per una pluralità di reati unificati o uni ficabili per la continuazione, v., in dottrina, Ambrosetti, Problemi at tuali in tema di reato continuato, Padova, 1991, 12 s.; Nappi, Guida al nuovo codice di procedura penale, 2" ed., Milano, 1991, 325 s.; San
na, Applicazione della pena negoziata e reato continuato, in Giur. it., 1990, II, 436.
Il Foro Italiano — 1991.
Il dissenso motivato del pubblico ministero sulla richiesta di
applicazione della pena avanzata dall'imputato deve essere va
lutato dal giudice del dibattimento ai sensi dell'art. 448, 1°
comma, c.p.p., non con riferimento alla situazione proces suale nella quale si è esplicato, bensì' ex post sulla base di
quanto è emerso dal completo svolgimento del dibattimento. (3)
(Omissis). Riconosciuta cosi la penale responsabilità dell'im
putato per il solo reato di cui al capo 1) della rubrica, resta
il compito di verificare, ai sensi dell'art. 448, 1° comma, secon
da parte, se la pena richiesta dall'imputato prima della dichia
razione di apertura del dibattimento possa considerarsi congrua e se il dissenso del p.m. debba considerarsi ingiustificato, e se
conseguentemente debba applicarsi la pena richiesta ex art. 444
c.p.p. (con i corollari di cui all'art. 445 c.p.p.) o se piuttosto debba invece essere irrogata una diversa pena secondo le regole del rito ordinario.
Deve innanzitutto ricordarsi che l'imputato ha formulato ri
chiesta ex art. 444 c.p.p. relativamente a tutti i reati contestati, considerando la continuazione fra gli stessi, e quantificando la
pena in complessivi mesi dieci di reclusione.
La «qualificazione giuridica del fatto» prospettata dall'impu tato nella sua richiesta potrebbe dunque essere ritenuta «diver
sa» e non corrispondente a quanto si è accertato nel corso del
dibattimento: potrebbe dunque concludersi che non ricorrono
le condizioni volute dall'art. 444 c.p.p. (avendo l'imputato ri
chiesto l'applicazione di pena qualificando tre distinti fatti de
littuosi secondo il paradigma del reato continuato, mentre all'e
sito del dibattimento è stata riconosciuta la penale responsabili tà dell'imputato per uno solo dei reati contestati); ma una tale
scelta interpretativa non può assolutamente essere ritenuta cor
retta: deve piuttosto ritenersi che la richiesta di applicazione di pena ex art. 444 c.p.p. formulata dall'imputato relativamen
te a più reati contestati, e ritenuti unificati dal vincolo della
continuazione, con indicazione della sola pena complessiva per il reato continuato, contenga implicitamente anche una richie
sta di applicazione di pena per ogni singolo reato, richiesta che
può e deve essere riconosciuta nella sua autonoma rilevanza ove, sia predibattimentalmente ai sensi dell'art. 129 c.p.p., sia all'e
sito del dibattimento, venga riconosciuta la penale responsabili tà dell'imputato solo per alcuni dei reati per i quali, nella ri
chiesta di applicazione di pena veniva prospettata l'unificazione
ex art. 81 c.p. (Che la sentenza ex art. 444 c.p.p. presupponga un riconoscimento positivo della responsabilità penale è stato
affermato nella sentenza 313/90 Corte cost., Foro it., 1990, I,
2385, nella parte «interpretativa di rigetto», può leggersi che
«... anche la decisione di cui all'art. 444 c.p.p., quando non
è decisione di proscioglimento, non può prescindere dalle prove della responsabilità».).
Tale conclusione sembra doverosa secondo una duplice serie di motivi:
— l'istituto della continuazione per la ratio ad esso sottintesa
e per il suo meccanismo di funzionamento, è tale da consentire, anzi da imporre, che i singoli reati riacquistino la loro autono
mia ogniqualvolta una diversa soluzione vada a peggiorare il
trattamento sanzionatorio; un tale principio è stato affermato
dalla giurisprudenza in tema di applicazione dell'amnistia o del la prescrizione, ma non si vede davvero il motivo per cui esso
non possa ritenersi operante anche nell'ambito della richiesta
ex art. 444 c.p.p. (cfr., ad es., Cass. 3 maggio 1986, Alighieri: «... l'istituto del reato continuato costituisce un istituto ispirato al favor rei... sicché le singole violazioni che lo compongono
possono scindersi e riacquistare la propria autonomia ed i loro
specifici caratteri soltanto nel caso in cui il meccanismo della
continuazione comprometta le condizioni di favore volute dal
Per altre questioni sull'argomento, Assise Roma 15 marzo 1990, Fo ro it., Rep. 1990, voce Pena (applicazione), nn. 46, 63; Trib. Roma 28 febbraio 1990, ibid., voce Esecuzione penale, n. 29; Trib. Verona 26 ottobre 1989, ibid., voce Pena (applicazione) n. 47; Trib. Venezia 6 novembre 1989, id., 1990, II, 251.
(3) In generale, sull'art. 448, 1° comma, c.p.p., v., per tutti, Pigna
telli, in Commento al nuovo codice di procedura penale coordinato da Chiavario, Torino, 1990, IV, 812 s.; Lattanzi, L'applicazione del la pena sulla richiesta delle parti, in AA.VV., Contributo allo studio del nuovo codice di procedura penale, Milano, 1989, 124.
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GIURISPRUDENZA PENALE
legislatore...»; e ancora Cass. 4 maggio 1984, De Biase, id.,
Rep. 1985, voce Amnistia, n. 23; 28 ottobre 1980, Rota, id.,
Rep. 1982, voce Prescrizione penale, n. 18; 19 febbraio 1980,
Resta, id., Rep. 1981, voce cit., n. 10). — la richiesta di applicazione di pena avanzata dall'imputa
to, quale manifestazione di volontà diretta ad effetti giuridici
e, dunque, quale negozio giuridico, deve pur sempre essere in
terpretata; ora: la prospettazione, contenuta in tale richiesta, di un'unificazione di più reati secondo il paradigma del reato
continuato non può che essere interpretata secondo i canoni
ermeneutici di cui agli art. 1362 ss. c.c. (in quanto applicabili), non limitandosi, evidentemente, al solo senso letterale delle pa
role; già il solo superamento del tenore letterale della richiesta
e la doverosa indagine, secondo i criteri della c.d. interpretazio ne soggettiva e dell'interpretazione secondo buona fede, sulla
reale volontà dell'imputato, evidenzia come una richiesta di ap
plicazione di pena relativa a più reati ritenuti unificati ex art.
81 c.p., implichi necessariamente la volontà, se pur inespressa, di un'analoga opzione processuale per ogni singolo reato; anco
ra: ad identica ineludibile conclusione conduce l'applicazione, in particolare, del canone della c.d. «interpretazione funziona
le» (art. 1369 c.c.) diretta a ricercare il significato del negozio in coerenza con la causa concreta di esso; ora: è normativamen
te previsto nell'ambito del procedimento ex art. 444 c.p.p., che
di fronte ad una richiesta dell'imputato il giudice possa, sia pre dibattimentalmente sia all'esito del dibattimento, pronunziare sentenza di proscioglimento in luogo dell'applicazione di pena
richiesta; dunque, la richiesta di applicazione di pena relativa
mente a più reati, con indicazione della pena complessiva ex
art. 81 c.p., essendo volta all'attivazione di un c.d. «rito alter
nativo» che ben può avere un esito di proscioglimento relativa
mente ad alcuno dei reati contestati, non può non contenere
implicitamente anche una richiesta di applicazione di pena per
ogni singolo reato: solo cosi interpretando, la richiesta di appli cazione di pena si mantiene coerente con la sua finalità e fun
zione da una parte di deflazionare il dibattimento, e dall'altra
(ben più rilevante) di assicurare determinati benefici all'imputa to che effettui una tale opzione processuale; solo cosi si evita
il risultato paradossale, e certamente in stridente contrasto con
la funzione dell'istituto e con la causa concreta che ha determi
nato l'imputato ad attivarlo, secondo cui, in caso di richiesta
ex art. 444 c.p.p. avanzata per un reato continuato, tale richie
sta dovrebbe essere disattesa (con tutte le conseguenze di carat
tere processuale e sostanziale) ove risulti una qualche causa di
non punibilità relativamente ad alcuno dei reati! Insomma: se
l'imputato ritiene di rinunziare alla «facoltà di contestare l'ac
cusa» (sent. 313/90 Corte cost.) relativamente a molteplici rea
ti, come può non ritenersi che una scelta del tutto identica inve
sta anche ogni singolo reato?
Può davvero pretendersi a carico dell'imputato l'onere, nel
caso si determini alla richiesta di applicazione di pena riguardo ad un reato prospettato come «continuato», di specificare in
via subordinata un «ventaglio» di richieste che copra tutte le
possibili combinazioni sia in relazione ad ogni singolo reato,
sia riguardo ai possibili differenti reati continuati configurabili? Può davvero farsi conseguire al mancato assolvimento di un
tale onere (caratterizzato da un formalismo vischioso e bizanti
no) un risultato di sicuro e grave pregiudizio per l'imputato
(oltre che per quell'economia processuale che ruolo preponde rante ha avuto proprio nell'allestimento dei c.d. riti alternativi)?
Se qualcuno (Luigi Ferrajoli), sia pur «fuori dal coro», ha,
con felice (e condivisibile) espressione, correttamente e puntual
mente sottolineato come il nuovo processo penale possa trasfor
marsi in un «gioco d'azzardo», deve pur evitarsi (nei limiti del
possibile e del consentito ed ormai effettuata, riguardo al pro
cedimento di cui si tratta, la verifica costituzionale) che le «re
gole del gioco» si rivelino complicate al limite della praticabili tà, ottusamente rigide ed ineluttabili, contraddittorie con le stesse
premesse di introduzione del rito alternativo, ingiustificatamen
te sottratte alle comuni regole di interpretazione dei negozi giu
ridici, paradossali nelle loro conseguenze applicative. D'altra parte, il «mito» (tutt'altro che «accusatorio» beninte
so!) della «quasi intangibilità» della richiesta di applicazione di pena, rispetto alla quale al giudice era lasciata la sola verifica
della c.d. «cornice di legittimità» è stato significativamente ero
II Foro Italiano — 1991.
so dalla ricordata sentenza 313/90 della Corte costituzionale che
ha riconosciuto al giudice il potere-dovere di entrare nel merito
sia per quanto attiene alla valutazione sulla congruità della pe
na, sia per quanto concerne il necessario accertamento della re
sponsabilità penale (sia pur effettuato secondo le regole proprie del momento processuale nel quale deve avvenire la definizione
del procedimento: «... anche la decisione di cui all'art. 444 c.p.p.,
quando non è decisione di proscioglimento, non può prescinde re dalle prove della responsabilità»); dunque anche sotto questo
aspetto non pare si rinvengano ostacoli al riconoscimento al
giudice di un semplice potere di «interpretazione» (e non di «in
tegratone», si badi) della dichiarazione di volontà» con cui l'im
putato avanza richiesta di applicazione di pena ex art. 444 c.p.p. Ulteriore ineludibile conseguenza di quanto si è fin'ora argo
mentato è che deve riconoscersi al giudice, nel caso di una ri
chiesta di applicazione di pena avanzata per un reato continua
to e con indicazione della sola pena complessiva, oltre al potere di rinvenire in tale richiesta analoghe distinte richieste per ogni
singolo reato, da considerarsi come autonomamente rilevanti
ove debba essere pronunziata sentenza di proscioglimento per uno dei reati prospettati come unificati ex art. 81 c.p., anche
il corrispondente potere di determinare in via interpretativa la
misura della pena richiesta per quei reati che residuino da una
pronunzia di proscioglimento, ai fini della verifica della sua «con
gruità» e della possibilità di applicarla con sentenza nelle forme
di cui all'art. 448 c.p.p.
Tutte, ma proprio tutte, le argomentazioni fin'ora svolte si
presentano pienamente convincenti anche su quest'ultimo pun to e perfettamente pertinenti: non si può far altro che rimanda
re ad esse; ma si pensi, ancora, come proprio in relazione alla
declaratoria di una causa di non punibilità o di improcedibilità relativamente ad alcuno dei reati ritenuti in sentenza unificati
ex art. 81 c.p., si è ritenuto che la Corte di cassazione possa determinare equitativamente la pena che va eliminata per il rea
to dichiarato estinto, ove nella sentenza impugnata non sia sta
ta operata una distinta determinazione di pena per ogni singolo reato (cfr., ad es., Cass. 23 febbraio 1990, Ceccarini; 7 ottobre
1986, Gobbo, id., Rep. 1988, voce Cassazione penale, n. 65); e deve sottolinearsi come nei più recenti decreti di amnistia (art.
2, 2° comma, d.p.r. 865/86 e art. 3, 2° comma, d.p.r. 75/90) sia stato espressamente previsto un analogo potere in capo al
giudice dell'esecuzione; dunque, ciò che può farsi in relazione
ad una sentenza, anche passata in giudicato, non potrebbe esse
re fatto, applicando i normali canoni ermeneutici, rispetto al
negozio giuridico costituito dalla richiesta di applicazione della
pena? Per quale motivo l'interpretazione della richiesta ex art.
444 c.p.p., giunta al doveroso e, pare, incontestabile, riconosci
mento che una richiesta relativa ad un reato continuato conten
ga implicitamente autonome, distinte richieste per ogni singolo
reato, dovrebbe astenersi dal ricostruire l'entità della pena cor
rispondente ad ogni reato ove per taluno di essi venga emessa
sentenza di proscioglimento? Lo si è già accennato: si sta parlando di «interpretazione»
della richiesta di applicazione di pena, non di una sua «integra zione»! La pena in tal modo «ricostruita» dal giudice è pur
sempre «la pena richiesta», nella «specie e nella misura indica
ta», non altro!
Tornando finalmente al caso di specie, deve rilevarsi che il
p.m. ha espresso il proprio dissenso alla richiesta di applicazio ne di pena formulata dall'imputato prima della dichiarazione
di apertura del dibattimento in quanto, come risulta da verbale,
ravvisava l'opportunità di verificare all'esito dell'istruttoria di
battimentale, l'opportunità di stimolare il giudicante a disporre
perizia d'ufficio per accertare se al momento dei fatti l'imputa
to era capace di intendere e volere; tale perizia, richiesta anche
dalla difesa, veniva in effetti disposta all'esito dell'assunzione
delle prove richieste dalle parti, e accertava, come si è già ricor
dato, la piena imputabilità del Ballario. Ora: sembra chiaro che la valutazione che il giudice deve fare
ai sensi dell'art. 448 c.p.p. all'esito del dibattimento sulla «giu
stificatezza» del dissenso espresso in fase di atti preliminari dal
p.m., non può non tener conto integralmente di tutte le risul
tanze dibattimentali; in altre parole: il dissenso del p.m. non
va valutato con riferimento alla situazione processuale nella quale
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PARTE SECONDA
si è esplicato, bensì ex post, sulla base di quanto è emerso dal
completo svolgimento del dibattimento, dibattimento, «deter
minato» proprio da quel dissenso. Una tale soluzione pare dav
vero «imposta» dalla logica (al di là di possibili obiezioni incen trate sull'esclusiva valorizzazione dei contenuti di «incentivazio
ne» e di «deflazione» dei c.d. processi alternativi — o «alternative
al» processo? —): come potrebbe il giudice «ignorare» tutto
quanto è accaduto nel corso del dibattimento ai soli fini della
valutazione del dissenso del p.m., tenendone invece pienamente
conto, ed in via «eclusiva» per ogni sua altra determinazione?
Su cosa dovrebbe basare una tale valutazione se, escludendosi
le risultanze dibattimentali, null'altro residua agli atti del proce dimento (non certo il fascicolo del p.m., che poteva essere
acquisito — art. 135 att. c.p.p. — solo in caso di
consenso)? Vero è, piuttosto, che solo sulla scorta di tutto quanto emerso dallo svolgimento del dibattimento si rende possibile l'e
sercizio da parte del giudice di quel potere di valutazione sul
dissenso espresso dal p.m. alla richiesta di applicazione di pena, conferito dal 1° comma dell'art. 448 c.p.p.
Applicato il principio che si è subito sopra illustrato, il dis
senso formulato dal p.m. appare, all'esito del dibattimento, del
tutto ingiustificato: i motivi del dissenso erano determinati, co
me si è detto, da un dubbio sulla capacità di intendere e volere
dell'imputato che fondava l'esigenza di una verifica in tal sen
so; tale verifica è stata effettuata con esito di riconoscimento
della piena imputabilità del Ballario; dunque il dubbio si è rile
vato infondato, il dissenso, che su di esso si radicava, ingiustifi cato. (Omissis)
Il Foro Italiano — 1991.
FINE DELLA PARTE SECONDA
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