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sezioni unite penali; sentenza 27 marzo 1992; Pres. Zucconi Galli Fonseca, Est. Mele, P.M.Aponte (concl. conf.); P.m. c. Cardarilli. Annulla Pret. Roma 23 maggio 1991Source: Il Foro Italiano, Vol. 115, PARTE SECONDA: GIURISPRUDENZA PENALE (1992), pp.409/410-415/416Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARLStable URL: http://www.jstor.org/stable/23185969 .
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GIURISPRUDENZA PENALE
CORTE DI CASSAZIONE; CORTE DI CASSAZIONE; sezioni unite penali; sentenza 27
marzo 1992; Pres. Zucconi Galli Fonseca, Est. Mele, P.M.
Aponte (conci, conf.); P.m. c. Cardarilli. Annulla Pret. Ro
ma 23 maggio 1991.
Reato continuato — Violazione più grave — Individuazione —
Reati puniti con pene eterogenee — Disciplina (Cod. pen., art. 81, 349; 1. 5 novembre 1971 n. 1086, norme per la disci
plina delle opere di conglomerato cementizio armato normale
e precompresso ed a struttura metallica, art. 1, 2, 4, 13, 14; 1. 28 febbraio 1985 n. 47, norme in materia di controllo del
l'attività urbanistico-edilizia, sanzioni, recupero e sanatoria
delle opere edilizie, art. 20).
Per determinare il concetto dì violazione più grave ai sensi del
l'art. 81 c.p. l'unico criterio di ancoraggio, che abbia un mi
nimo di certezza, è quello di riferirsi alle valutazioni astratte
compiute dal legislatore; non vi è quindi dubbio che, nel con
corso tra delitti e contravvenzioni, debba essere ritenuta più
grave la violazione costituente delitto. (1) Per determinare la pena da infliggere ai fini della continuazio
(1) La pronuncia a sezioni unite su riprodotta segna una ennesima
tappa di quella vicenda assai tormentata, e verosimilmente senza fine
(almeno fino a quando non interverrà sul punto l'attesa presa di posi zione del legislatore) che, a partire dalla nota riforma del '74, va trasci nandosi riguardo alla scelta dei criteri di applicabilità della disciplina contenuta nell'art. 81 c.p. ai reati continuati puniti con pene diverse nel genere e/o nella specie.
Il modello di soluzione, che viene avallato dalla Cassazione a sezioni unite nella sentenza in epigrafe, contraddice intenzionalmente l'orienta mento affermatosi come dominante sia in giurisprudenza sia in dottri
na, per il quale la «violazione più grave» andrebbe individuata secondo un giudizio in concreto, emesso sulla base dell'art. 133 c.p. e dell'appli cabilità delle circostanze: nell'ambito delle pronunce più recenti, cfr. Cass. 28 febbraio 1989, La Pietra, Foro it., Rep. 1990, voce Reato
continuato, n. 29; 23 febbraio 1988, Vattermoli, citata in motivazione, id., Rep. 1989, voce cit., n. 44; 1° giugno 1988, Amatista, ibid., n. 49; 17 dicembre 1986, Messina, id., Rep. 1987, voce cit., n. 13; 5 mar zo 1985, Assetiti, Riv. pen., 1986, 47 e massimata in Foro it., Rep. 1986, voce cit., n. 25; 20 ottobre 1984, D'Atria, ibid., n. 24. Per la
dottrina, cfr. Ambrosetti, Problemi attuali in tema di reato continua
to, Padova, 1991, 37; Mantovani, Diritto penale, parte generale, Pa
dova, 3a ed., 1992, 504; Antolisei-Conti, Manuale di diritto penale, parte generale, 12a ed., Milano, 1991, 472; Padovani, Diritto penale, Milano, 1990, 486; Romano, Commentario sistematico del codice pena le, Milano, 1987, I, 659; Zagrebelsky, Reato continuato, voce delP£«
ciclopedia del diritto, Milano, 1987, XXXVIII, 847; Fioravanti, in Riv. it. dir. e proc. pen., 1982, 749; Carmona, in Arch, pen., 1976, II, 67.
A sostegno di questo (imprevedibile?) recupero della tesi che indivi dua la violazione più grave alla stregua delle valutazioni astratte com
piute dal legislatore — tesi predominante fino a prima della riforma del '74 (cfr. Cass. 20 luglio 1942, Paterno Castello, citata in motivazio
ne, Foro it., Rep. 1942, voce cit., n. 1; 1° marzo 1949, Galli, citata in motivazione, id., Rep. 1949, voce cit., nn. 19-21; si vedano altresì
gli ampi riferimenti giurisprudenziali contenuti in Ristori, Il reato con
tinuato, Padova, 1988, 48 ss.), e successivamente riproposta da una
giurisprudenza sporadica (Cass. 21 giugno 1989, Lepore, Foro it., Rep. 1990, voce cit., n. 28, dove si sostiene in ogni caso la maggiore gravità del «delitto» rispetto alla contravvenzione; 25 gennaio 1985, Muscio, id., Rep. 1986, voce cit., n. 29; 21 ottobre 1982, Izzi, Cass. pen., 1984, 1658 e massimata in Foro it., Rep. 1985, voce cit., n. 23) — le sezioni unite adducono, fondamentalmente, un'esigenza di «certezza» applica tiva, insieme con la ritenuta necessità di evitare che il giudice finisca col far prevalere opzioni politico-criminali affidate alla sua pura discre
zionalità, cosi disattendendo le valutazioni legislative circa la gravità dei singoli reati desumbili dagli astratti quadri edittali di pena. Accor
dando priorità all'esigenza di ripristinare in materia il monopolio valu
tativo del legislatore, la corte mostra peraltro di riecheggiare preoccu
pazioni analoghe espresse dalla dottrina minoritaria: cfr. Fiandaca
Musco, Diritto penale, parte generale, 2a ed., Bologna, 1989, 499; e, sia pure più implicitamente, Pagliaro, Prìncipi di diritto penale, parte
generale, 3a ed., Milano, 1987, 614. Nella motivazione mancano, tuttavia, riferimenti alla disciplina in
trodotta dagli art. 671 del nuovo codice di rito e 187 delle disposizioni d'attuazione, che consentono l'applicabilità della continuazione anche
nella fase esecutiva. Eppure, proprio dall'art. 187 è stata di recente
tratta la conferma della maggiore validità della tesi dominante, incline a determinare la violazione più grave in ragione — come si è detto — della pena irrogabile «in concreto»: cfr., in questo senso, Ambroset
ti, cit., 38; Gaito, in Conso-Grevi, Profili del nuovo codice di proce dura penale, Padova, 1990, 502.
Il Foro Italiano — 1992 — Parte II-10.
ne, in caso di concorso di reati puniti con pene diverse, il
criterio di calcolo da utilizzare è quello di cui al testo dell'art.
81 c.p., che stabilisce l'aumento quantitativo della pena che
dovrebbe infliggersi per la violazione più grave. (2)
Svolgimento del processo. — Con sentenza del 23 maggio 1991 il Pretore di Roma, su richiesta delle parti ai sensi dell'art.
444 c.p.p., applicava la pena di mesi sei di arresto e lire undici
milioni di ammenda a Cardarilli Mariano, ritenuta la continua
zione tra i reati di cui all'art. 20, lett. b), 1. 28 febbraio 1985
n. 47, agli art. 1, 2, 4, 13 e 14 1. 5 novembre 1971 n. 1086,
agli art. 81 e 349 c.p. A tale pena complessiva il pretore perveniva ritenendo più
grave la violazione della legge urbanistica, concedendo le atte
nuanti generiche ed infine la riduzione di un terzo della pena
raggiunta ex art. 444 c.p.p. Con la sentenza ordinava la demoli
zione delle opere eseguite ai sensi dell'art. 7 1. 47/85.
Avverso la predetta sentenza hanno proposto ricorso per cas sazione il procuratore generale presso la corte d'appello e l'im
putato Cardarilli.
(2) La prevalenza attribuita all'esigenza di recuperare certezza appli cativa, evitando disparità di trattamento e imprevedibilità di decisioni, ha indotto le sezioni unite a ritornare alla «lettera originale del codice» anche per quanto riguarda la scelta del criterio di determinazione della
pena ai fini della continuazione: la «soluzione più piana», che si ritiene di dover coerentemente ribadire, consiste cioè nell'applicare il semplice criterio testuale dell'aumento della pena che dovrebbe infliggersi per la violazione più grave. Cosi ritenendo, viene in fondo riproposto un modello di soluzione accolto nella pronuncia a sezioni unite che ha aperto in materia la prima più ampia breccia all'applicazione dell'istituto della continuazione: cfr. Cass., sez. un., 26 maggio 1984, Falato, Foro it., 1985, II, 172, con nota di Messina e Cass, pen., 1984, 2150, con nota di Zagrebelsky; cui adde, in forma di sostanziale avallo sia pure limi tatamente all'ipotesi di reati continuati sanzionati con pene di specie (e non anche di genere) diversa, Corte cost. 17 marzo 1988, n. 312, commentata rispettivamente da: Zagrebelsky, in Legislazione pen., 1988, 218; Nappi, in Cass, pen., 1988, 1583; Ingroia, in Foro it., 1989, I, 1773 e ivi ampi riferimenti alla giurisprudenza in senso conforme. Cfr. altresì Cass. 21 giugno 1988, Moro, id., Rep. 1990, voce Reato conti
nuato, n. 32; 3 dicembre 1987, Telese, id., Rep. 1989, voce cit., n. 52.
Nell'ambito di un siffatto orientamento estensivo sono, tuttavia, rie merse incertezze e oscillazioni circa l'effettiva portata dell'estensione, le quali sono perdurate fino a data recente: nel senso della piena unifi cabilità delle pene eterogenee, anche se di genere diverso, cfr. Cass. 21 febbraio 1985, Gerii, citata in motivazione, id., Rep. 1986, voce
cit., n. 17 e Cass. pen., 1986, 66, con nota di Adami; nel senso più limitativo della sola unificabilità delle pene di specie diversa (non anche di genere diverso), v., invece, Cass. 28 marzo 1985, Gallinari, citata in motivazione, Foro it., Rep. 1986, voce cit., n. 15 e Cass. pen., 1986, 59, con nota di Nappi; e, più di recente, analogamente, Cass. 2 giugno 1988, Perilli, citata in motivazione, Foro it., Rep. 1990, voce cit., n. 30.
Contro il criterio di determinazione facente leva sull'aumento quanti tativo della pena-base prevista per il reato più grave sono state sollevate diverse obiezioni: tra le riserve principali, quella secondo cui si finisce con l'applicare ai reati satelliti pene per essi non previste, con conse
guente violazione del principio di legalità (cfr., tra altri, Adami, in Cass.
pen., 1986, 69). Le sezioni unite reputano di poter superare l'obiezione, ribadendo una tesi sostenuta in non poche altre pronunce: una volta cioè ritenuta la continuazione, il trattamento sanzionatorio previsto per i reati satelliti non esplicherebbe più alcun ruolo in quanto, individuata la violazione più grave, essi andrebbero a comporre una sostanziale
unità, disciplinata e sanzionata diversamente mediante regole dettate
all'uopo dal legislatore (in questi stessi termini, cfr. ad es. Cass. 3 di cembre 1987, cit.; Corte cost. 312/88, cit.).
Un metodo alternativo di calcolo dell'aumento di pena, adottato dal la stessa giurisprudenza con prevalente riferimento alle ipotesi di conti nuazione tra reati di cui uno solo punito con pene congiunte, consiste invece nell'apportare, in luogo di un aumento unico sulla pena-base, aumenti distinti in rapporto ai reati satelliti: cfr. Cass. 11 gennaio 1984, Paredi, Giust. pen., 1985, II, 7 e Foro it., Rep. 1985, voce cit., n.
15; 21 gennaio 1986, Però, id., Rep. 1987, voce cit., n. 12; 27 giugno 1988, Araniti e 17 maggio 1988, Grassi, id., Rep. 1989, voce cit., nn.
45, 46. Per riferimenti giurisprudenziali ulteriori, v. Ristori, cit., 63
ss. Un metodo siffatto è nella sostanza privilegiato anche dalla dottrina
prevalente, la quale obietta che l'applicazione del contrario criterio in
realtà contrasta con la ratio di favor rei cui è ispirata la continuazione. La soluzione, che viene conseguentemente additata, è cosi riassumibile: «determinata la pena-base per il reato più grave, la si aumenta per i reati continuati o concorrenti in termini di pena detentiva, che va poi subito
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PARTE SECONDA
Il primo deduceva erronea applicazione della legge penale per avere il pretore, nel concorso tra reati di natura delittuosa (vio lazione di sigilli) e contravvenzionale, ritenuto più grave — ai
fini della determinazione della pena da irrogare — la contrav
venzione di cui all'art. 20, lett. b), 1. 47/85, laddove avrebbe
dovuto la pena essere determinata tenendo conto della maggio re gravità del delitto ascritto al Cardarilli.
Quest'ultimo deduceva violazione della legge penale per avere
il pretore ingiunto la demolizione del manufatto abusivo, deter
minazione ammissibile solo in presenza di una sentenza di con
danna, quale non poteva ritenersi quella applicativa della pena
su richiesta delle parti, tanto più che tale pronuncia accessoria
non era stata inclusa nell'accordo tra le parti, presupposto indi
spensabile di questa specie di decisione.
Il processo, assegnato alla terza sezione penale di questa cor
te, veniva di ufficio, con ordinanza del 6 dicembre 1991, rimes
so alle sezioni unite penali rivelandosi che la questione sottopo
sta dal ricorso del procuratore generale aveva dato luogo a con
trasti di giurisprudenza concernenti in particolare il modo di
determinazione del reato più grave nell'ambito della ritenuta
continuazione tra più illeciti ed il criterio da adottarsi in rela
zione all'aumento per la continuazione, in relazione a pene di
specie diversa.
Motivi della decisione. — Prima di affrontare la questione
oggetto della presente decisione, giova ricordare come, dopo
la riforma introdotta in materia con il d.l. 11 aprile 1974 n.
99, convertito nella 1. 7 giugno 1974 n. 220, che consentiva la
possibilità di applicare la continuazione anche in presenza di
violazioni di norme incriminatrici prevedenti pene eterogenee,
l'accettazione del nuovo indirizzo legislativo sia stata assai
graduale. E ciò a partire da quelle sentenze le quali ritennero che l'uni
ficazione di pene di specie o genere diverse costituissero viola
zione del principio di legalità (sez. un. 23 ottobre 1976, Deside
ri, Foro it., 1977, II, 105), atteggiamento che costituiva un so
stanziale rifiuto della innovazione legislativa. Non si era riflettuto abbastanza sul rilievo che, anche in ap
plicazione del testo originario dell'art. 81 c.p., era possibile in
fliggere per la continuazione una pena edittalmente non previ
sta non solo per il reato satellite (ad esempio quindici giorni
per il reato avente come minimo edittale tre mesi di reclusione),
ma anche un'entità di pena (un giorno di reclusione) esclusa
in via generale per la specie di sanzione prescelta (art. 23 c.p.).
Sicché, ragionando in termini di stretta legalità, sarebbe stato
difficile accettare anche il contenuto originario dell'art. 81, se
non con la considerazione che, valendo tale disposizione in via
generale, la legalità era fatta salva dalla eccezionalità della pre
visione legislativa che tali aggiustamenti consentiva.
Tale atteggiamento di sostanziale chiusura fu ben presto su
perato, riconoscendosi l'ipotizzabilità della continuazione tra reati
puniti con pene eterogenee, dapprima limitatamente all'ipotesi che pene congiunte fossero previste per il reato più grave (sez. un. 22 ottobre 1977, Zavatti, id., 1978, II, 105), poi ammetten
dola anche nell'ipotesi inversa (sez. un. 30 aprile 1983, Anacle
rio, id., Rep. 1984, voce Reato continuato, n. 9), pervenendosi infine alla conclusione della possibilità di ravvisare la continua
zione, in presenza dell'identità di disegno criminoso, anche in
ipotesi di reati puniti con pene di specie diversa (sez. un. 26
maggio 1984, Falato, id., 1985, II, 172). Una conferma alla validità di questa interpretazione è venuta
quindi dalla sentenza n. 312 del 17 marzo 1988 della Corte co
stituzionale (id., 1989, I, 1773), che ha sottolineato la necessità
specificata in giorni di arresto o convertita in pena pecuniaria mediante
il ragguaglio dell'art. 135. Fermo sempre restando che le pene eteroge nee, ragguagliate e sommate tra loro, non possono superare il limite
dell'art. 81, 3° comma» (Mantovani, cit., 504; Ambrosetti, cit., 42; Padovani, cit., 488; Romano, cit., 661. In senso sostanzialmente con
forme, v. Zagrebelsky, Reato continuato, cit.; Fiorella, in Riv. it.
dir. e proc. pen., 1977, 1559).
Quale che sia la soluzione più corretta dello spinoso problema, è
lecito dubitare che quest'ultima presa di posizione delle sezioni unite varrà a chiudere una vicenda giurisprudenziale continuamente attraver
sata da corsi e ricorsi. A dire l'ultima parola provvederà il legislatore?
(in prospettiva di riforma legislativa, cfr., da ultimo, Ambrosetti, cit., 78 ss.).
Il Foro Italiano — 1992.
di dare integrale applicazione all'istituto della continuazione,
al fine, esplicitato nella decisione (ma naturalmente non dissi
mulato nella innovazione legislativa del 1974), di far godere al
l'imputato una minore limitazione della libertà personale rispet
to a quella che deriverebbe dal cumulo materiale delle pene. Ciò anche se mancava nella sentenza della Corte costituzionale
una precisazione circa la sorte dell'istituto allorché concorresse
ro reati puniti rispettivamente con pene detentive e con pene
pecuniarie. Le pronunce sopra ricordate, cosi come quest'ultima della Cor
te costituzionale, lasciavano tuttavia insolute le questioni oggi
sottoposte all'esame di queste sezioni unite, riguardanti, come
si è accennato in narrativa, il concetto di violazione più grave
e i criteri di determinazione della pena in caso di concorso di
reati puniti con pene eterogenee; problemi sui quali vi è aperto
contrasto tra decisioni di questa corte, sull'esistenza del quale
ha influito non poco proprio l'essenziale valutazione, effettuata
dai giudici di merito e ripetuta talvolta dalla Corte di cassazio
ne, che la modifica dell'art. 81 rivelasse la sua vera natura di
concreta efficacia diminuente della pena cosi come a suo tempo
accadde con la introduzione delle attenuanti generiche. Ne è
prova la progressiva concreta riduzione del contenuto delle mo
tivazioni sul punto, dandosi quasi per scontato che la commis
sione di più reati, anche a notevolissima distanza di tempo e
sia pure di natura estremamente diversa, non potesse non inte
grare la continuazione nel reato. Non appare estranea a questa
configurazione il contrasto di decisioni che queste sezioni unite
sono chiamate a dirimere.
Le ragioni del contrasto, sia pure attraverso modulazioni di
diversa natura, possono richiamarsi a due fondamentali princi
pi, che trovano la loro espressione rispettivamente nel riferi
mento alla pena edittale astratta o a quella applicata o applica
bile in concreto. Il che è come dire che, secondo un filone inter
pretativo, la valutazione della violazione più grave è rimessa
al legislatore, secondo altro al giudice del caso concreto. Tale
diversità di interpretazioni, che ha trovato espressione in nume
rose decisioni, risente innegabilmente della circostanza che le
valutazioni di gravità effettuate dal legislatore nel codice risal
gono ad oltre sessant'anni or sono e che sono venute prepoten
temente alla ribalta necessità di tutela di interessi diffusi, sui
quali il legislatore ha ritenuto di operare delle scelte punitive
a volte difficilmente condivisibili, soprattutto nell'includere gravi violazioni (tali almeno dal punto di vista etico) nel novero delle
contravvenzioni, qualche volta giustificando tali scelte con la
necessità di evitare che il giudice sia trattenuto nella perseguibi lità di questi reati dalla necessità dell'accertamento della natura
dolosa o colposa degli illeciti. Tale giustificazione peraltro non
sembra da condividersi quando si consideri che in alcune ipotesi
(la materia urbanistica ne è un chiaro esempio) non appare pas
sibile di dubbi la natura dolosa degli illeciti commessi. Ritiene tuttavia questa corte che, pur essendo non trascurabile l'intento
di aggiustamento concreto della norma da parte dell'interprete almeno sotto il profilo sanzionatorio, tale compito non spetti
al giudice, ma al legislatore e che anzi lo stridente risultato che
comporta il mantenimento di configurazioni ormai in gran par te non rispondenti alle valutazioni attuali della media dei citta
dini possa essere di stimolo al legislatore nell'ormai improcra stinabile riforma della parte speciale del codice penale, nella
quale far rientrare possibilmente alcuni illeciti che trovano at
tuale collocazione in testi separati, scarsamente organici con l'im
postazione generale. Ciò senza contare che, lasciando al giudice di determinare
caso per caso quale debba essere considerata la violazione più
grave, si finisce col perdere ogni residuo di certezza, non solo
concettuale (il che non sarebbe poi un dato irreparabile), ma
anche concreta di affidamento in un trattamento di auspicabile
eguaglianza cosi come scritto nella Costituzione. E ciò in misu
ra maggiore se si considera il riconoscimento pressoché totale
della continuazione ogni volta che ci si trovi in presenza di una
pluralità di reati, commessi anche non contestualmente. L'or
mai avvenuta generalizzazione ed espansione dell'istituto di cui
all'art. 81 c.p., della quale l'interprete non può non tener con
to, difficilmente suscettibile di un ritorno al passato, rende cer
tamente prioritaria l'esigenza di un chiarimento e conferma nel
la necessità di pervenire a dati di approssimabile certezza in
materia, quale non può essere certamente data dall'affidamento
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GIURISPRUDENZA PENALE
al giudice della valutazione della violazione più grave dalla qua le prendere le mosse. Specie quando, come è sovente capitato, non ci si limita all'attribuzione di una tale qualifica sulla base
dei singoli titoli di reato, ma tenendosi conto anche di tutti gli elementi del caso concreto, compresi gli indici di determinazio
ne della pena di cui all'art. 133 c.p. (sez. I 16 gennaio 1985,
Zeaiter); fino all'affermazione, non sorretta da alcuna norma
sostanziale, secondo la quale il legislatore, nell'individuazione
del reato più grave, avrebbe lasciato al giudice ampia discrezio
nalità di scelta del coefficiente di maggiore criminosità (sez. II
23 febbraio 1988, Vattermoli, id., Rep. 1989, voce cit., n. 44). Inutile aggiungere poi che, diverse potendo essere le valuta
zioni di ciascun giudice circa la maggiore o minore gravità di
questo o di quell'illecito, si è determinato in questo modo una
situazione di grave confusione con sostanziale appropriazione dei poteri propri del legislatore, senza peraltro contrapporre, come già si è accennato innanzi, alle precise indicazioni risul
tanti dalla legge penale un diverso grado di auspicabile certezza.
Ritengono pertanto queste sezioni unite, allo scopo di perve nire ad una uniformità di decisioni, che elimini l'enorme confu
sione in materia, per cui a situazioni analoghe di concorrenza
di reati eterogenei corrispondono soluzioni le più disparate, che
unico criterio di ancoraggio, che abbia un minimo di certezza, sia quello di riferirsi alle valutazioni astratte compiute dal legis latore, sul presupposto, spesso dimenticato, che la modifica del
1974 non ha inteso alterare i presupposti del reato continuato, ma solo renderli applicabili mediante procedimento estensivo
ad ipotesi per le quali l'istituto non risultava operante. Da ciò discende che il concetto di violazione più grave da
cui prendere le mosse quanto al calcolo delle pene non è stato
in alcun modo intaccato e che, nella vigenza originaria dell'art.
81, nessuno aveva mai dubitato che la dizione predetta dovesse
riguardare e riferirsi ai consueti indici di gravirà adoperati an
che in altre occasioni, ad esempio in materia di competenza
(art. 32 c.p.p.), o di connessione (art. 47). In tali norme non
vi è dubbio che il legislatore ebbe a presciegliere il criterio quan titativo, con riferimento cioè alla pena prevista dalla legge qua le unico criterio per riconoscere la gravità di un reato. Del pari ovvio era stato sempre ritenuto che, per la determinazione del
reato più grave ai fini della continuazione, si dovesse partire dalla violazione punita dalla legge più severamente e, sulla pena in concreto poi inflitta per tale illecito, applicare l'aumento di
pena per la continuazione contenuta nel limite massimo del tri
plo (Cass. 20 luglio 1942, Paterno Castello, id., Rep. 1942, vo
ce cit., n. 1); con l'unico limite della impossibilità di inflizione di una pena superiore a quella che sarebbe risultata ove le viola
zioni fossero ritenute reati distinti (Cass. 1° marzo 1949, Galli,
id., Rep. 1949, voce cit., nn. 19-21). Se dunque, come si è rilevato, non vi è stata sul punto alcuna
modifica legislativa che autorizzi una impostazione diversa, non
è consentito all'interprete, in occasione di una innovazione legis lativa riguardante altri aspetti dell'istituto, inserire una diversa
disciplina in alcun modo consentita dalla legge. Né è a dire che, prima della modifica legislativa del 1974,
non esistessero contravvenzioni punite con pene superiori in con
creto a quelle previste per taluni delitti, ma nessuno ha mai
dubitato che, nel sistema del nostro codice, la distinzione tra
delitti e contravvenzione è certamente poggiata sulla ritenuta
maggiore gravità di quei fatti illeciti annoverati come delitti, considerati come «aggressione immediata e diretta ai beni inte
ressi tutelati dalla legge penale», laddove le contravvenzioni,
pur senza determinare un danno o pericolo attuale, sarebbero
atti idonei «a produrre, per presunzione di legge, le condizioni
per il verificarsi possibile di un danno o di un pericolo». E
ciò pur nel riconoscimento, espresso nella Relazione al codice
(vol. 1, pag. 82) che la dottrina non era ancora «riuscita a sug
gerire una formula di distinzione che raccogliesse adesioni tali
da farla ritenere almeno prevalente» e che nelle leggi future po tesse seguirsi un criterio di distinzione diverso da quello di cui
all'art. 39 basato sulla qualità delle sanzioni.
Che i delitti siano considerati reati più gravi rispetto alle con
travvenzioni, la legge fornisce numerosi elementi di valutazio
ne. Basti considerare il diverso trattamento fatto in tema di so
spensione condizionale della pena, di prescrizione, di conversio
ne (art. 102 legge di depenalizzazione), di entità massima delle
pene rispettivamente previste per i delitti e per le contravvenzioni
Il Foro Italiano — 1992.
(art. 78). Si tratta di elementi che non consentono dubbi in pro
posito, anche se, come si diceva in premessa, alcune collocazio
ni sistematiche appaiono decisamente sorpassate. Degno di nota
al riguardo è il rilievo che anche il legislatore del 1981, con
la legge di depenalizzazione, e quindi in data in fondo assai
distante da quella di emanazione del codice, pur operando qual che innovazione importante, ha lasciato inalterati gli indici ora
indicati che, comunque si vogliano interpretare, depongono cer
tamente per la maggior gravità dei reati ascritti come delitti ri
spetto a quelli contravvenzionali.
Per tutte le ragioni su esposte, è fondato il ricorso del p.g. che ha contestato il diverso operato del giudice di merito che ha rovesciato le conclusioni alle quali si è qui pervenuti, tenen
dosi ben presente che il codice all'art. 81 parla di violazione
più grave e non di pena più grave, come sarebbe se si volesse
attribuire alla pena da infliggere in concreto — tenuto conto
dei criteri di cui all'art. 133 — l'efficacia determinatrice della
più grave violazione.
Cosi precisato il discorso nei rapporti tra delitti e contravven
zioni, non vi è quindi dubbio che nel concorso tra tali reati
debba essere ritenuta più grave la violazione costituente delitto, anche se la contravvenzione è punita edittalmente con una pe na, che, riguardata sotto il profilo della conversione, risultasse
maggiore quantitativamente rispetto a quella prevista per il de
litto, il discorso quantitativo servendo come integratore, allor
quando si tratti di pene di eguale specie, al fine di decidere
della maggiore gravità dell'una o dell'altra violazione.
Dal che risulta che il criterio cui si è fatto ricorso, quello della considerazione degli elementi di cui all'art. 133, deve in
tervenire solo, quando si tratti di due o più illeciti oggettivamen te della stessa specie non egualmente circostanziati. Ma in tal
caso è di tutta evidenza che lo scegliere l'uno o l'altro come
violazione più grave è operazione del tutto irrilevante, non es
sendo potenzialmente idonea ad arrecare un maggiore o minore
aumento della pena ai fini della continuazione, non dipendendo cioè dalla scelta dell'una o dell'altra una pena maggiore o mi
nore ai fini dell'aumento dovuto per la continuazione.
La soluzione qui adottata del problema della identificazione
della più grave violazione ai fini dell'art. 81 c.p., che costituisce
una sorta di ritorno alla lettera originale del codice, intorbidita
da successive riflessioni da essa sempre più distanti, lascia intra
vedere una analoga soluzione per quanto attiene al criterio, ai
modi di determinazione della pena da infliggere ai fini della
continuazione.
L'art. 81, nel testo attuale, come in quello originario, stabili
sce che, ritenuta la continuazione, debba essere aumentata la
pena che dovrebbe infliggersi per la violazione più grave. Ad una soluzione cosi piana, è stato opposto che il possibile
concorso di pene eterogenee renderebbe impossibile tale opera
zione, dovendosi altrimenti applicare per i reati satelliti pene
per essi non previste, con violazione del principio di legalità
(sez. I 28 marzo 1985, Gallinari, id., Rep. 1986, voce cit., nn.
8, 15; sez. II 2 giugno 1988, Perilli, id., Rep. 1990, voce cit., n. 30).
L'obiezione è tuttavia facilmente superabile, come pure è sta
to ritenuto in altre decisioni di questa corte (sez. VI 21 febbraio
1985, Gerii, id., Rep. 1986, voce cit., n. 17; sez. Ili 11 gennaio
1984, Paredi, id., Rep. 1985, voce cit., n. 15) con la considera
zione, che a queste sezioni unite appare decisiva, che, una volta
ritenuta la continuazione tra più reati, il trattamento sanziona torio originariamente previsto per i reati satelliti non esplichi
più alcuna efficacia proprio per la ragione che, individuata la
violazione più grave, essi vanno a comporre una sostanziale unità,
disciplinata e sanzionata diversamente mediante le regole detta
te all'uopo dal legislatore. L'avere questi contemplato tale pos
sibilità, con le conseguenti previsioni punitive, fa perdere note
vole consistenza alla pretesa violazione del principio di legalità, dovendosi ogni norma incriminatrice leggere, per quanto riguarda
l'aspetto punitivo, come se essa contenesse un'eccezione dero
gativa della sanzione per il caso che la violazione contemplata vada a comporre un reato continuato.
In astratto, non vi sarebbe un tranciante ostacolo ad un au
mento della sanzione del reato principale calcolato sulla base
della pena qualitativa edittalmente prevista per il reato o per i reati satelliti, ma è evidente che, cosi operandosi, si violerebbe
il manifesto dettato della legge, che prevede un aumento della
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PARTE SECONDA
pena base determinata per la più grave delle violazioni, quella
pena cioè prevista per il reato più grave e non mediante aumen
ti derivati da pene di specie diversa.
Tale conclusione peraltro appare, come quella a cui si è per venuti per la identificazione della violazione più grave, la sola
idonea ad evitare, nella miriade di interpretazioni fornite per
ogni singolo caso, disparità di trattamenti e utilizzazione oltre
misura della discrezionalità nel momento della concreta appli cazione della sanzione.
Quanto al ricorso del Cardarilli, esso si incentra sulla illegitti mità dell'ordine di demolizione imposto dal giudice con una
sentenza di applicazione della pena per due ordini di ragioni:
perché essa non potrebbe conseguire ad una sentenza che non
sia di condanna e perché non sarebbe stata inclusa nel c.d. pat
teggiamento. Entrambi gli argomenti addotti non hanno giuridica consi
stenza.
Quando anche si volesse accedere alla tesi che la sentenza
di applicazione della pena non è una vera e propria sentenza
di condanna, sarebbe altrettanto agevole ricordare che l'art. 445
chiaramente determina i vantaggi (a parte la diminuzione della
pena fino ad un terzo di cui all'art. 444) che derivano all'impu tato dall'adozione di tale rito alternativo, stabilendosi nel con
tempo che la sentenza è equiparata (s'intende ad ogni altro ef
fetto) ad una sentenza di condanna.
L'imputato non potrà essere condannato a pagare le spese del procedimento, non gli potranno essere applicate le pene ac
cessorie, né le misure di sicurezza (con l'eccezione delle cose
indicate nell'art. 240, 2° comma, c.p.), non sarà la sentenza
opponibile in sede civile o amministrativa, sarà possibile la estin
zione del reato alle condizioni di cui all'art. 445, 2° comma.
Al di fuori di questo, ogni altra determinazione sarà possibi
le, non essendo la materia suscettibile di applicazione estensiva,
costituendo tali benefici già eccezione alle normali sentenze di
condanna. Sicché, sul piano sistematico, gli effetti restano tutti
determinati dalla legge. Per lo stesso motivo tutte le condizioni
che possono essere fissate al momento del patteggiamento sono
anch'esse previste nell'art. 444 con l'ovvia conseguenza che ogni altra determinazione non potrà essere oggetto di patteggiamen to. Rimane quindi per fermo che le condizioni e le conseguenze
proprie di tale rito alternativo sono quelle e solo quelle fissate
dalla legge. Basterebbe già l'affermazione che ad ogni altro effetto la con
seguente sentenza debba essere equiparata a quella di condanna
a rendere legittimo l'ordine di demolizione, che, secondo il det
tato dell'art. 7 1. 47/85, deve seguire una sentenza di condanna.
Ma, anche ove tale disposizione non vi fosse, non c'è dubbio
che la ormai indiscutibile natura di sanzione amministrativa at
tribuita a tale ordine, avente lo stesso contenuto di quello even
tuale dell'autorità amministrativa, non possa farlo rientrare in
nessuna delle condizioni negative determinate dall'art. 445 c.p.p. Che d'altra parte la sentenza ex art. 444 debba nelle linee
generali rientrare tra quelle di condanna sia pure con qualche effetto atipico è confermato dalla constatazione che con essa
si applica comunque una pena, suscettibile di determinare i pre
supposti della recidiva, dell'abitualità e professionalità del reato
e che la Corte costituzionale, pur nei limiti propri fissati dalla
legge, ha reiteratamente affermato che il giudice deve comun
que, prima di dare attuazione all'accordo delle parti, accertare
che esiste la responsabilità dell'imputato (Corte cost. 313/90,
id., 1990, I, 2385; 251/91).
Il Foro Italiano — 1992.
CORTE DI CASSAZIONE; sezioni unite penali; sentenza 27
marzo 1992; Pres. Zucconi Galli Fonseca, Est. Casadei
Monti, P.M. Aponte (conci, conf.); ric. Di Marco. Confer ma Trib. Palermo, ord. 29 ottobre 1991.
Misure cautelari personali — Arresti domiciliari — Custodia
in carcere — Sostituzione per intervenuta modifica normativa
(Cod. proc. pen., art. 275, 299; d.l. 9 settembre 1991 n. 292,
disposizioni in materia di custodia cautelare, di avocazione
dei procedimenti penali per reati di criminalità organizzata e di trasferimenti di ufficio di magistrati per la copertura di
uffici giudiziari non richiesti, art. 1).
La modificazione dell'art. 275, 3° comma, c.p.p. operata dal
l'art. 1 d.l. 9 settembre 1991 n. 292 si applica anche agli im
putati nei confronti dei quali all'entrata in vigore del decreto
era in corso la misura degli arresti domiciliari, in quanto le
misure custodiali disposte in base alla norma precedente de
vono considerarsi pendenti e non esaurite fino alla scadenza dei relativi termini di fase o massimi; ne deriva che è legitti ma e doverosa, nelle ipotesi stabilite dal nuovo testo dell'art.
275, 3 ° comma, la revoca della misura in corso e la sua sosti
tuzione con la custodia in carcere. (1)
Considerazioni in fatto. — Con ordinanza del 25 settembre
1990 il giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale
di Palermo applicò la misura della custodia cautelare nei con
fronti del ricorrente Francesco Di Marco, che si trovava in sta
to di fermo fin dal settembre 1990, perché gravemente indiziato
di omicidio pluriaggravato in persona del proprio genero Gio
vanni D'Aloisi; detta misura era poi sostituita con gli arresti
domiciliari in forza di successiva ordinanza del 16 novembre 1990.
Il 4 giugno 1991 il giudice per le indagini preliminari dispose il rinvio del Di Marco al giudizio immediato avanti la Corte
d'assise di Palermo per i delitti di: a) omicidio aggravato pre meditato in persona del genero (art. 575 e 577 c.p.p.); b) porto in luogo pubblico di una pistola semiautomaticatica (art. 61, n. 2, c.p., 12 e 14 1. 14 ottobre 1974 n. 497); c) detenzione
illegale della predetta pistola (art. 10 e 14 1. n. 497 del 1974); delitti commessi in Palermo il 23 settembre 1990.
Nelle more del giudizio di primo grado e su richiesta del p.m., la seconda sezione della Corte d'assise di Palermo dispose con
ordinanza del 29 ottobre 1991 il ripristino delia custodia caute
lare, basato sulla intervenuta modifica dell'art. 275, 3° comma,
c.p.p., operata dall'art. 1 d.l. 9 settembre 1991 n. 292, che pre vede l'applicazione della custodia in carcere per taluni più gravi delitti (fra i quali l'omicidio di cui all'art. 575 c.p.) sulla base
degli indizi di colpevolezza e «salvo che siano acquisiti elementi
dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari». Il Tribunale di Palermo ha confermato, in sede di appello
ex art. 310 c.p.p., tale misura con la predetta ordinanza del
29 ottobre 1991. Contro di essa, il Di Marco ha proposto ricor
so per cassazione e sostenuto che il tribunale, applicando la
modifica normativa agli arresti domiciliari precedentemente con
cessi, avrebbe violato l'art. 11 delle preleggi. Ha affermato che il principio tempus regit actum fa salvi gli atti processuali posti in essere in base alla legge previgente, non impugnati in termi
ni, nonché gli effetti giuridici da essi prodotti, e che, pertanto, si era data applicazione retroattiva al d.l. 292/91 che non con
teneva, invece, alcuna disposizione derogatoria in tal senso. In
subordine ha anche sostenuto che «le norme modificative del l'art. 275 c.p.p. rientrano fra quelle solo formalmente di natura
processuale, ma in realtà sono di natura sostanziale, poiché at
tengono ai diritti di libertà», e che sarebbe, quindi, applicabile la disciplina intertemporale dell'art. 2 c.p. con l'ultrattività del
la norma più favorevole all'imputato.
(1) Con la decisione in rassegna le sezioni unite confermano — sia
pure con non indifferenti puntualizzazioni in parte motiva — l'orienta mento già espresso da Cass. 13 dicembre 1991, Zani (Foro it., 1992, II, 1), secondo cui la modifica dell'art. 275, 3° comma, c.p.p. a seguito del d.l. n. 292 del 1991 (poi convertito nella 1. 8 novembre 1991 n.
356) dispiegherebbe i suoi effetti anche sulle situazioni custodiali in cor so. Nel senso dell'irretroattività delle modifiche si era, invece, espressa Assise app. Palermo 23 settembre 1991, ibid., 4. In argomento, cfr. Di Chiara, Il carcere come «extrema ratio»: emergenze normative, emer
genze giurisprudenziali e recenti polemiche, ibid., 1 s.
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