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sezione III civile; sentenza 15 febbraio 1985, n. 1295; Pres. Gabrieli, Est. Schermi, P. M. Iannelli(concl. conf.); Viscovo (Avv. Salemme) c. Comune di Pozzuoli (Avv. De Cristoforo). Cassa App.Napoli 20 febbraio 1981Source: Il Foro Italiano, Vol. 108, No. 7/8 (LUGLIO-AGOSTO 1985), pp. 2013/2014-2017/2018Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARLStable URL: http://www.jstor.org/stable/23177801 .
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GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE
valore, deve giungersi alla conclusione che il criterio della
competenza per materia, ove sussista, deve prevalere anche nel l'ambito di applicazione dell'art. 616.
Il che, appunto, si verifica — a seguito della innovazione
legislativa di cui all'art. 618 bis — ed è stato ritenuto, per la
competenza per materia del giudice del lavoro, allorché l'opposi zione all'esecuzione (o agli atti esecutivi) concerne crediti di lavoro.
La giurisprudenza ha anche chiarito che la disposizione dell'art. 618 bis c.p.c. non può ritenersi limitata all'affermazione della
competenza per materia del pretore in funzione di giudice del lavoro. Il richiamo alle « norme previste per le controversie individuali di lavoro » non può non riguardare anche le regole sulla determinazione della competenza per territorio, che della nor mativa procedurale costituiscono aspetto tipico e saliente come è confermato dal riferimento alla competenza del giudice dell'ese cuzione contenuto nel 2" comma del medesimo art. 618 bis (cfr. Cass. 1917/76, id., Rep. 1976, voce cit., n. 15; 4271/78 cit.;
4111/80, id., Rep. 1980, voce cit., n. 33; 2588/82, id., Rep. 1982, voce Contratti agrari, n. 319; 1926/83, id., Rep. 1983, voce cit., n.
17; 2687/83, ibid., n. 18; contra la sola Cassazione 2597/77, id.,
1977, I, 1884, peraltro in orbiter dictum, avendo la causa per oggetto una opposizione a precetto, per la quale non era dubbio che ricorresse la competenza per materia e per territorio del
giudice del lavoro). Deve pertanto affermarsi che non sussiste la
violazione delle norme sulla competenza denunziata dalla ricor
rente, in quanto la controversia di lavoro, da cui è derivata la
condanna al pagamento della somma di denaro, indicato nell'atto di precetto, e quindi nel pignoramento avverso il quale la
Pozzoni fratelli ha proposto l'opposizione de qua, si è svolta
dinanzi al pretore giudice del lavoro di Roma pacificamente
competente ex art. 413 c.p.c., e che pertanto, in base ai principi
sopra detti, era anche competente per territorio sull'opposizione. Né, infine, vale opporre, come fa la ricorrente società, che
tratterebbesi, in realtà, di un'unica esecuzione forzata (pure se
estrinsecatasi in quattro mezzi di espropriazione) e, conseguente mente, di un'unica opposizione, che, quindi, eventualmente in
applicazione dei principi sulla litispendenza (art. 39 c.p.c.) deve essere conosciuta da un unico giudice. Invero, come la stessa
ricorrente, in sostanza, finisce per riconoscere allorché parla di
quattro mezzi di espropriazione, pur asserendo, poi, contradditto riamente l'unicità dell'esecuzione, sia pur in base ad uno stesso titolo esecutivo, il creditore ha attivato quattro diverse espropria zioni di distinti crediti presso terzi, onde è evidente la diversità
degli oggetti di dette espropriazioni, e quindi del petitum delle
relative opposizioni, il che rende impossibile l'applicazione dei
principi sulla litispendenza, che presuppongono l'identità delle
cause.
Una volta giunti, dunque, alla conclusione che alle opposizioni ad esecuzioni aventi ad oggetto crediti di lavoro si applicano le
regole di determinazione della competenza oltre che per materia, anche per territorio propria del processo del lavoro, inevitabile è
la ulteriore conseguenza che la competenza stessa sia in tutto
retta dalle norme di quel processo. E fra questo vi è quella secondo cui la incompetenza per
territorio può essere eccepita soltanto nella memoria difensiva del
convenuto (art. 428 c.p.c.) oppure rilevata d'ufficio dal giudice non oltre l'udienza di cui all'art. 420.
La inderogabilità della competenza sancita dall'art. 28 c.p.c. è in stretta connessione con le regole di competenza fissate, per le
opposizioni alle esecuzioni, dal precedente art. 27. Una volta esclusa l'applicabilità di questo, viene meno anche la applicabilità del primo.
Onde l'art. 413, che va applicato in luogo dell'art. 27, non può che esserlo secondo le regole proprie del processo in relazione al
quale è dettato, e dunque con i limiti alla rilevabilità dell'in
competenza posti dal citato articolo.
Poiché, nella specie, è pacifico che l'incompetenza per territorio
non fu eccepita nella memoria di costituzione (né rilevata
d'ufficio dal giudice alla udienza di discussione), ma soltanto in
successiva nota difensiva (lo presuppone la stessa società ricor
rente nelle sue argomentazioni) esattamente il Pretore di Milano
ha dichiarato tardiva l'eccezione, ed ha perciò ritenuta ormai
radicata presso di sé la competenza. Resta quindi confermata la competenza del Pretore di Milano.
(Omissis)
Il Foro Italiano — 1985.
CORTE DI CASSAZIONE; sezione III civile; sentenza 15 febbraio 1985, n. 1295; Pres. Gabrieli, Est. Schermi, P. M. Iannelli i(concl. conf.); Vdscovo (Aw. Salemme) c. Comune di Pozzuoli (Avv. De Cristoforo). Cassa App. Napoli 20 febbraio 1981.
Strade — Centri abitati — Acque piovane — Danni — Re sponsabilità civile della p.a. — Sussistenza (Cod. civ., art.
2043; r.d. 8 dicembre 1933 n. 1740, t.u. di norme per la tutela delle strade e per la circolazione, art. 1; 1. 29 settembre 1964 n. 847, autorizzazione ai comuni e loro consorzi a contrarre mutui per l'acquisizione delle aree ai sensi della 1. 18
aprile 1962 n. 167, art. 4).
La mancata adozione di accorgimenti tecnici idonei ad impedire che le acque piovane, defluendo liberamente sulle strade dema
niali, si riversino negli edifici latistanti e li danneggino, compor ta, per il principio del neminem laedere, la responsabilità risarcitoria della p.a., non trovando applicazione, in relazione ai centri abitati, il principio del libero deflusso delle acque di cui art. 1, 1° comma, n. 4, r.d. 1740/33. (1)
Svolgimento del processo. — Con atto di citazione notificato il 1" giugno 1971 Alfredo Viscovo, in proprio e quale esercente la
potestà genitoria sui figli minori Antonio e Michele Viscovo,
esponeva: che i suoi figli erano proprietari ed egli era usufrut tuario in parte di un fabbricato, composto di tre piani, sito in
Pozzuoli, contrada Lucrino, V traversa via Italia n. 13; che da
qualche tempo il pianterreno di tale fabbricato, in occasione di
piogge, veniva invaso dalle acque provenienti dalla soprastante via comunale Eurialo, per cui era divenuto assolutamente inutilizzabi
le, ed inoltre la continua invasione delle acque stava provocando danni gravi ed irreparabili anche alle fondamenta del fabbricato; che il comune di Pozzuoli era responsabile dei gravi danni
arrecati ad esso attore, in proprio e nella qualità, poiché non
provvedeva a raccogliere l'acqua che defluiva sulla strada ed anzi
l'aveva canalizzata verso il detto fabbricato. Premesso ciò, conve
niva davanti al Tribunale di Napoli il comune di Pozzuoli
chiedendone la condanna al risarcimento dei danni.
11 comune di Pozzuoli, costituitosi, contestava la fondatezza della
proposta domanda escludendo ogni sua responsabilità. Eseguita una consulenza tecnica, l'adito tribunale con sentenza
non definitiva 25 gennaio 1975 dichiarava che il comune di Pozzuoli era responsabile dei danni causati al fabbricato suddetto dalla invasione delle acque meteoriche.
Nella motivazione, il tribunale, premesso che anche la p.a., nella esplicazione del suo potere discrezionale, deve osservare il
principio del neminem laedere che si pone come limite generale esterno della sua discrezionalità, considerava che, quando, come
nella specie, dalla mancanza di opere necessarie (rete fognaria) allo smaltimento delle acque in un centro abitato e quindi dalla
omessa manutenzione di una strada pubblica derivi la lesione di
un diritto, può e deve configurarsi in tale negligente omissione un
(1) Non constano precedenti editi in termini. La decisione, peraltro, costituisce puntuale applicazione del principio, costantemente affermato in giurisprudenza, (da ultimo, per tutte, Cass. 10 novembre 1982, n.
5916, Foro it., Rep. 1982, voce Responsabilità civile, n. 85; 1° settembre 1982, n. 4778, id., Rep. 1983, voce Strade, n. 30; 27
gennaio 1981, n. 605, id., Rep. 1981, voce cit., n. 85; 13 luglio 1976, n. 2693, id., Rep. 1976, voce cit., n. 86), secondo cui il potere discrezionale spettante all'amministrazione in ordine ai criteri e ai mezzi con cui provvedere alla costruzione (o manutenzione) di una
opera pubblica trova necessaria limitazione nel dovere di osservanza delle disposizioni di legge e regolamentari in materia nonché delle comuni norme di diligenza e prudenza imposte dall'esigenza fondamen tale del neminem laedere. Da ciò si evidenzia come i relativi accertamenti dell'a.g.o., lungi dall'essere diretti a sindacare le valuta zioni discrezionali della p.a., siano in realtà rivolti unicamente a porre in rilievo l'eventuale violazione del limite esterno posto a detta discrezionalità e, con essa, l'avvenuta lesione di posizioni soggettive dei
privati tutelate nella forma del diritto soggettivo (sull'argomento, in
dottrina, Bessone, I poteri discrezionali della p.a. e la responsabilità civile verso i terzi, in Riv. giur. circolaz. e trasp., 1982, 786; per taluni, interessanti, profili Patroni Griffi, Annotazioni in tema di fossi laterali delle strade pubbliche, in Dir. e giur., 1979, 845).
Nella specie, al riconoscimento del fondamento della pretesa risar citoria verso la p.a., la corte giunge attraverso l'esclusione, in relazione alle strade urbane, dell'operatività del divieto, posto a chiunque dal l'art. 1, 1° comma, n. 4, r.d. 8 dicembre 1933 n. 1740, di impedire il libero deflusso delle acque dalle strade demaniali (od assoggettate ad uso pubblico) sui terreni a quote inferiori in forza della normativa
pubblicistica che impone ai comuni l'obbligo di curare l'assetto urba nistico dei centri abitati eseguendo le relative indispensabili opere di urbanizzazione primaria (e secondaria).
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2015 PARTE PRIMA 2016
comportamento colposo da cui deriva la responsabilità della p.a. Il comune di Pozzuoli formulava riserva di impugnazione. Si
costituivano Antonio e Michele Viscovo divenuti maggiorenni. Veniva espletata una prova testimoniale e veniva eseguita una
consulenza tecnica in ordine ai danni.
Con sentenza definitiva 24 maggio 1979 il Tribunale di Napoli condannava il comune di Pozzuoli a pagare ad Alfredo, Antonio e
Michele Viscovo, a titolo risaroitorio, la somma di lire 15.859.980,
con gli interessi legali dal giorno dell'evento, ed a rimborsare
agli stessi le spese del giudizio. Il comune di Pozzuoli proponeva appello avverso entrambe le
sentenze.
La Corte d'appello di Napoli con sentenza 14 marzo 1981, riformando le impugnate pronunce, rigettava la domanda propo sta dai Viscovo e dichiarava interamente compensate fra le parti le spese del giudizio.
La corte di Napoli riteneva la nullità — dedotta dall'appellan te comune di Pozzuoli — della sentenza definitiva di primo grado per non essere stata data comunicazione del rinvio di ufficio del la udienza del 12 ottobre 1978 e delle successive fissazioni di
altre udienze. Considerava, peraltro, che la nullità dell'ultima
fase del giudizio di primo grado e, conseguentemente, della senten za definitiva non comportava la rimessione della causa ai primi giu dici, ma, convertendosi i motivi di nullità in motivi di impugnazio ne della sentenza, la causa doveva essere decisa nel merito.
Passando all'esame del merito, la corte riteneva che i Viscovo infondatamente avessero dedotto la responsabilità del comune di
Pozzuoli per i danni cagionati al loro fabbricato dal deflusso
delle acque provenienti dalla via Eurialo, che era a forte penden za e priva di opere fognanti o di convogliamento delle acque. Con
siderava che, trattandosi di deflusso di acque provenienti da
una strada pubblica, trovava applicazione la norma di cui all'art.
1, n. 4, r.d. 8 dicembre 1933 n. 1740, rimasta in vigore successi
vamente al nuovo codice della strada (art. 145 d.p.r. 15 giugno 1959 n. 393), la quale sancisce il divieto a chiunque di impedire il libero deflusso delle acque che si scaricano dalle strade sui
terreni più bassi; da tale norma risulta il principio che, per le
acque provenienti da strade pubbliche, i proprietari dei fondi
sottostanti non possono invocare le comuni norme che li tutelano
nei casi di modificazione ad opera dell'uomo del naturale deflusso
delle acque (art. 913 c.c.), e non possono invocare la responsabili tà della p.a. per atto illecito e per violazione del principio del
neminem laedere o quale custode dei beni dai quali derivi il
danno (art. 2051 c.c.). Osservava, inoltre, che, nella specie, il
diritto dei Viscovo era tanto più insussistente in quanto la strada
costruita nel 1946, nello stato e con la pendenza attuali, preesi steva alla costruzione del fabbricato, avvenuta succesivamente nel
luogo ove già si verificavano gli scarichi d'acqua con tutte le
conseguenze nocive ad essi inerenti.
Avvero questa sentenza Alfredo, Michele ed Antonio Viscovo hanno proposto ricorso per cassazione deducendo un unico com
plesso motivo. Il comune di Pozzuoli ha depositato una « com
parsa di costituzione », non notificata ai ricorrenti.
Motivi della decisione. — Il comune di Pozzuoli non può essere considerato comtroricorrente costituito, essendosi limitato a
depositare un atto difensivo, intitolato « comparsa di costituzio ne », non notificato ai ricorrenti.
L'unico complesso motivo del ricorso — con il quale si denuncia violazione e falsa applicazione dell'art. 1, n. 3 (rectius, n. 4), r.d. 8 dicembre 1933 n. 1740 in relazione agli art. 913 e 2051 c.c. ed all'art. 360, n. 3, c.p.c. e motivazione illogica, insufficiente e contraddittoria ai sensi dell'art. 360, n. 5, c.p.c. —
si articola in due censure.
Con la prima censura i ricorrenti lamentano che la corte di
Napoli abbia errato nel ritenere la nullità dell'ultima fase del
giudizio di primo grado e, conseguentemente, della sentenza definiti
va del tribunale.
La censura è inammissibile per difetto di interesse perché, come ha rilevato la corte di Napoli, la nullità, ritenuta esistente, dell'ultima fase del giudizio di primo grado e, conseguentemente, della sentenza definitiva non comportava la rimessione della
causa al primo giudice, non ricorrendo alcuna delle ipotesi tassativamente previste negli art. 353 e 354 c.p.c., ma, converten
dosi i motivi di nullità in motivi di impugnazione, la causa
doveva essere decisa nel merito in appello. La corte di Napoli, appunto, nella seconda parte della motiva
zione della sentenza impugnata ha esaminato e deciso il merito; ed avverso tale parte della motivazione, sola impugnabile, è
rivolta la seconda censura, con la quale i ricorrenti lamentano che i giudici di appello abbiano errato nell'escludere la responsa
II Foro Italiano — 1985.
bilità del comune di Pozzuoli per i danni cagionati al fabbricato
dal deflusso delle acque provenienti dalla via Eurialo.
Sostengono i ricorrenti che la corte di Napoli avrebbe dovuto
fare applicazione del principio che la p.a., nel costruire una
strada, deve eseguire l'opera con criteri tecnici rigorosi, potendo bensì scegliere i mezzi tecnici ritenuti più idonei allo scopo, ma
incontrando tale discrezionalità un limite nell'obbligo di osservare
i normali canoni della diligenza e prudenza. In definitiva, appli cando questo principio di diritto alla fattispecie concreta in
esame, il comune di Pozzuoli avrebbe dovuto provvedere all'ese
cuzione delle opere di convogliamento e di scarico delle acque
piovane defluenti sulla via Eurialo, strada del demanio comunale, al fine di impedire che si scaricassero sull'edificio dei ricorrenti, siilo a quota inferiore, arrecando danni.
La censura, sotto questo profilo, è fondata.
La corte di Napoli ha ritenuto di applicare nella specie la
norma di cui all'art. 1, 1° comma, n. 4, r.d. 8 dicembre 1933 n.
1740, preesistente testo unico di norme per la tutela delle strade
e per la circolazione, poi sostituito, tranne che nel titolo primo
comprendente la detta norma (ad eccezione dei nn. 7, 8 e 9
dell'art. 1 e del 2° comma dell'art. 2) d.p.r. 15 giugno 1959 n.
393, nuovo t.u. delle norme sulla circolazione stradale. Per la
detta norma, « è vietato di... impedire il libero deflusso delle
acque che si scaricano dalle strade sui terreni più bassi »; i
terreni a quota inferiore sono soggetti a ricevere le acque che, defluenti sulla sovrastante strada pubblica, si scaricano su di essi, ed i loro proprietari non possono compiere alcuna opera per
impedire tale scarico. Norma, questa, che, secondo la corte di
Napoli, avrebbe portata generale, dovendo essere applicata in
ogni ipotesi di terreni siti a quota inferiore rispetto ad una strada
pubblica; sicché in ogni ipotesi, nessuna esclusa, la p.a. non
sarebbe tenuta all'esecuzione di opere di convogliamento e di
scarico altrove delle acque piovane defluenti sulla strada de
maniale.
Ma la fattispecie tipizzata nella norma in esame ed il conse
guente effetto giuridico ad essa ricollegato sono delimitati dalla
disciplina pubblicistica che impone ai comuni di curare l'assetto
urbanistico dei centri abitati eseguendo le relative necessarie
opere di urbanizzazione, primaria e secondaria. Tra le opere di
urbanizzazione primaria, infatti, l'art. 4 1. 29 settembre 1964 n.
847 elenca, alla lett. c), le fognature: sistema di raccolta, convo
gliamento e scarico delle acque, pure e luride, provenienti dagli edifici del centro abitato e dalle strade, pubbliche o private.
Opera indispensabile, questa, in relazione alle strade pubbliche
perché in un centro urbano, complesso di edifici ordinato da un
piano urbanistico, è inconcepibile che le acque defluiscano libe
ramente sulle strade e si riversino negli edifici latistanti pregiudi cando la loro abitabilità e lo svolgimento delle attività umane cui sono destinate.
Ed allora, l'ambito di applicazione della norma di cui all'art. 1, n. 4, r.d. n. 1740/33 è limitato alle strade extraurbane, demaniali
od assoggettate ad uso pubblico, nella relazione con i terreni
vicini a quota inferiore. Nei centri abitati, invece, i comuni sono tenuti a costruire le strade con gli accorgimenti tecnici idonei a
convogliare e scaricare nelle fognature le acque piovane su di
esse defluenti.
Nella specie, pertanto, era necessario accertare se esisteva o
meno un centro abitato. Accertamento, questo, che era stato
effettuato in senso positivo dal tribunale (si legge nella motiva zione della sentenza di primo grado: «... quando, come nella spe cie, dalla mancanza di opere necessarie (rete fognaria) allo
smaltimento delle acque in un centro abitato e quindi dalla
omessa manutenzione di una strada pubblica derivi la lesione di
un diritto, può e deve configurarsi in tale negligente omissione un
comportamento colposo che comporta la responsabilità della
p.a. »). Se si trattasse di centro abitato, non potendo farsi
applicazione dell'art. 1, 1° comma, n. 4, r.d. n. 1740/33, il
comune di Pozzuoli, per il principio del neminem laedere, avreb
be dovuto adottare, nell'ambito del suo potere discrezionale,
accorgimenti tecnici idonei per il convogliamento e lo scarico
delle acque meteroriche defluenti sulla strada comunale, al fine di
impedire che tali acque, scaricandosi sui fondi siti a quota
inferiore, danneggiassero gli edifici ivi esistenti.
Resta assorbito l'ulteriore rilievo contenuto nella stessa censura
esaminata secondo il quale il comune di Pozzuoli non avrebbe
impedito agli altri proprietari frontisti laterali, anch'essi a quota inferiore, di ostacolare con opere il normale deflusso delle acque e di avere contribuito ad ingrossare tale deflusso canalizzando le
acque dai loro fabbricati costruiti recentemente senza le dovute
opere di scarico e fognanti.
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GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE
In conclusione, il ricorso deve essere accolto per quanto di
ragione. La sentenza impugnata deve essere cassata in relazione alla
censura accolta e la causa deve essere rinviata, per nuovo esame, ad altro giudice, che farà applicazione del principio di diritto
risultante dalla suestesa motivazione. (Omissis)
CORTE DI CASSAZIONE; sezione II civile; sentenza 14 feb
braio 1985, n. 1258; Pres. Sagnelli, Est. Buccarelli, P. M.
Minetti (conci, conf.); Toniolli ed altri (Avv. Centofanti) c.
Soc. Adige bitumi (Avv. ìIannotta). Cassa App. Trento 6 lu
glio 1981.
Divisione — Immobile non comodamente divisibile — Accerta
mento del giudice del merito — Insindacabilità in Cassazione —
Fattispecie (Cod. civ., art. 720; cod. proc. civ., art. 360). Divisione — Immobile non comodamente divisibile — Richiesta
di attribuzione da parte del procuratore legale — Ammissibilità — Appello — Domanda nuova — Esclusione (Cod. civ., art.
720; cod. proc. civ., art. 84, 345). Comunione e condominio — Abuso della cosa comune —
Risarcimento del danno — Immobile non comodamente divisibi
le — Attribuzione dell'intero al danneggiarne — Irrilevanza
(Cod. civ., art. 720, 1102, 2043).
È insindacabile in sede di legittimità la sentenza di merito che
abbia congruamente motivato la non comoda divisibilità di un
immobile con riferimento alla sua natura e destinazione, al
valore dell'intero e delle singole quote, ai pesi che si sarebbero
costituiti. (1) La richiesta di attribuzione dell'intero immobile non comodamen
te divisibile, rientrando nel contenuto della domanda di scio
glimento della comunione, non attiene alla disposizione del
diritto sostanziale e quindi ben può essere avanzata dal procu ratore legale ai sensi dell'art. 84 c.p.c.; tale richiesta, inoltre, è
configurarle come eccezione rispetto alla domanda di divisione
in natura ex art. 718 c.c. e, in quanto tale, proponibile per la
prima volta anche in appello. (2)
(1) La Cassazione ha da tempo affermato che la disposizione contenuta nell'art. 720 c.c. non è specifica delle divisioni ereditarie e, quindi, si applica nella sua interezza anche allo scioglimento delle comunioni ordinarie, costituite per altro titolo: Cass. 12 luglio 1963, n. 1893, Foro it., Rcp. 1963, voce Divisione, n. 16. Sui criteri che sorreggono il
giudizio relativo alla « comoda divisibilità » di un bene, cfr. Cass. 19 novembre 1983, n. 6890, id., Rep. 1983, voce cit., n. 8; 16 novembre
1982, n. 6125, id., Rep. 1982, voce cit., n. 10; 14 aprile 1982, n. 2257, ibid., n. 11; 18 gennaio 1982, n. 314, ibid., n. 12; 7 dicembre 1981, n. 6476, id., Rep. 1981, voce cit., n. 4; 22 ottobre 1981, n. 5536, id., 1982, I, 436, con nota di richiami. Tale giudizio costituisce un accertamento di fatto incensurabile in Cassazione se sorretto da congrua motivazione: v. Cass. 4 novembre 1983, n. 6504, id., Rep. 1983, voce cit., n. 9; 14 gennaio 1982, n. 234, id., Rep. 1982, voce cit., n. 8; 22 ottobre 1981, n. 5536, cit.
In dottrina v., sul primo profilo, Comporti, L'art. 720 c.c. e la sua applicabilità alla divisione della comunione volontaria, id., 1960, I, 2032 ss.
È discusso se il concetto di « comoda divisibilità » sia riferibile al singolo bene comune o piuttosto al complesso dei beni da dividere in rapporto al numero dei condividenti. È favorevole alla prima tesi Forchielli, Della divisione, in Commentario, a cura di Scialoja e Branca, Bologna-Roma, 1970, 91-92, il quale fa rilevare che l'art. 720 non parla di eredità « non comodamente divisibile », ma di immobili «non comodamente divisibili». Di diverso avviso Giannattasio, Delle successioni, in Commentario Utet, Torino, 1980, 37 ss: l'autore sostiene che non possa affermarsi la « non comoda divisibilità » nel caso in cui nel patrimonio comune vi siano più immobili che, isolamente considerati, non sono divisibili, ma possono tuttavia essere ripartiti nelle singole quote dei condividenti, salvi eventuali conguagli.
11 concetto di « comoda divisibilità » va riguardato sotto tre aspetti: «economico», «funzionale», «materiale». Si tratta di criteri relativi, che di rado trovano contestuale applicazione, di tal che devono essere comparati tra loro e verificati in relazione alle circostanze concrete
(cfr. Forchielli, op. cit., 88 ss.; Branca, Comunione, in Commentario, cit., 1982, 327; Burdese, La divisione ereditaria, in Trattato, diretto da Vassalli, Torino, 1980, 152, ss.).
Per quanto concerne la incensurabilità in Cassazione del giudizic sulla « comoda divisibilità » v., in particolare, Andolina, L'estremo della « comoda divisibilità » ed i limiti del suo rilievo in Cassazione, in Ius, 1965, 407 ss.
(2) Nel caso di attribuzione dell'intero immobile non comodamente divisibile alla porzione di più condividenti, occorre il consenso degli stessi, in considerazione dello stato di comunione che ne consegue
Il Foro Italiano — 1985.
È tenuto al risarcimento del danno l'asssgnatario dell'intero
immobile non comodamente divisibile che abbia, prima della
assegnazione, occupato, sfruttato ed immutato il bene comune, a nulla rilevando la successiva attribuzione dell'intero. (3)
Svolgimento del processo. — Il 5 aprile 1968 mori a Mezzoco
rona Matteo Toniolli, comproprietario in ragione di un terzo
della p.ed. 333, già fornace con piazzale, sita in località Fornaci
di detta città. Nel 1975 la s.p.a. Adige bitumi, già proprietaria dei
terreni circostanti costituenti la p.f. 1353/16 rilevò dai compro
prietari di maggioranza, eredi Bacca, i due terzi della p.ed. 333.
Con citazione del 14 giugno 1978 Anselmo, Enrico, Guido,
Mario, Erica, Silvana e Renzo Toniolli, aventi causa dal fu Matteo Toniolli, convennero la detta società davanti al Tribunale di Trento per ottenere la divisione della part. 333, chiedendo che il terzo di loro spettanza fosse congiuntamene attribuito ad essi
istanti, fosse loro rilasciato e fosse sanzionato il loro diritto di
passo a piedi e con mezzi meccanici sulla part. 1353, nella quale la particella dividenda era interclusa, al fine di accedere ai loro
immobili; con la condanna della convenuta a corrispondere ad essi istanti equo compenso per l'occupazione della loro porzione e a risarcire loro il danno derivante dall'escavazione di ghiaia.
La s.p.a. Adige non si oppose alla richiesta divisione e alla
corresponsione dell'indennizzo per l'occupazione (effettuata peral tro in buona fede) ma contestò la domanda volta alla sanzione
della servitù e dei danni. Nel corso dell'istruzione (ud. 28 febbraio 1979) la stessa convenuta chiese che le fosse attribuita
l'intera particella edificabilc. Con sentenza non definitiva del 17
ottobre 1980 il tribunale, ritenuta la non comoda divisibilità del
cespite, respinse le domande come formulate dagli attori, attribuì
la intera particella alla soc. Adige e dispose per il prosieguo in
ordine alla determinazione dell'indennizzo.
I Toniolli proposero appello, e la Corte di Trento con sentenza 6 luglio 1981 rigettò il gravame per i seguenti motivi: la
part. ed. 333 sarebbe spettata per soli 200 mq. (su un to
tale di 600) agli appellanti; e cosi ridotta l'area non si sa
rebbe prestata in alcun modo ad un autonomo sfruttamento; il
valore della porzione, d'altra parte, ove essa fosse avulsa dal circostante terreno, si sarebbe ridotto in misura notevolissima e alla fine la somma dei valori delle due porzioni sarebbe risultata sensibilmente inferiore al valore del bene indiviso; la domanda di
(Cass. 14 marzo 1961, n. 575, Foro it., Rep. 1961, voce Divisione, n. 15). Nel caso, invece, che l'attribuzione sia da farsi alla porzione di uno solo dei condividenti, la sentenza in epigrafe ritiene che il giudice possa procedere di sua iniziativa: in base a tale intendimento, la richiesta di attribuzione dell'intero da parte del procuratore di uno dei condividenti riveste il carattere di una mera sollecitazione al giudice dell'esercizio di un potere affidatogli dalla legge; e, in ogni caso, tale richiesta integra esercizio di un diritto rientrante nell'oggetto della domanda di divisione e costituisce, quindi, un'eccezione formulabile per la prima volta in appello. V., in questo senso. Cass. 3 luglio 1980, n. 4251, id., Rep. 1980, voce cit., n. 35: 13 aprile 1981, n. 2188, id..
Rep. 1981, voce cit.. n. 26; 22 aprile 1981, n. 2364. ibid., n. 24: 18
agosto 1981, n. 4938, ibid., n. 22; 28 gennaio 1984, n. 684, id., Rep. 1984, voce cit., n. 6.
La giurisprudenza i itiene inoltre che la richiesta di attribuzione del bene non comodamente divisibile possa provenire dal procuratore alle liti della parte, non costituendo atto di disposizione del bene in contesa: v., in senso conforme, Cass. 12 luglio 1963, n. 1893, id., Rep. 1963, voce cit., n. 16.
In dottrina si contesta il potere del giudice di attribuire d'ufficio il bene ad uno solo dei condividenti. Fa notare Comporti, cit., 2044, che « non è pensabile che possa disporsi l'assegnazione ad un condividente di un intero immobile con addebito della eccedenza, se questi non abbia in proposito presentato espressa richiesta». Dall'ultimo inciso dell'art. 720 (se nessuno dei coeredi è a ciò disposto si fa luogo alla vendita all'incanto) si evince che deve sempre sussistere una manifesta zione di volontà, sia per uno, sia per più condividenti, perché il giudice possa applicare l'articolo in parola. Dello stesso parere For chielli, op. cit., 98-99, secondo il quale « contro l'iniziativa o, comunque, contro la volontà del titolare di quota maggiore neppure il
giudice può, d'autorità, attribuirgli il bene in questione e addebitargli i relativi conguagli ».
L'idea, largamente ricevuta, secondo cui la richiesta di attribuzione, più che una eccezione, è una semplice modalità o specificazione del
giudizio divisorio è in parte contraddetta da Forchielli, op. cit., 104, per il quale si tratterebbe di atto di disposizione del diritto che, in
quanto tale, deve provenire personalmente dalla parte. (3) Non risultano precedenti in termini. Per qualche analogia, in
tema di risarcimento del danno derivato dall'uso indebito della cosa
comune, v., da ultimo, Cass. 10 gennaio 1983, n. 176, Foro it., Rep. 1983, voce Comunione e condominio, n. 55.
In dottrina cfr. Russo, In materia di uso della cosa comune, in
Giur. it., 1960, I, 2, 797.
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