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TFO - Tesi Filosofiche Online - Online Philosophical Theses SWIF – Sito Web Italiano per la Filosofia
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SWIF – Sito Web Italiano per la Filosofia
UNIVERSITA' DEGLI STUDI DI NAPOLI
«FEDERICO II»
FACOLTA' DI LETTERE E FILOSOFIA
CORSO DI LAUREA IN FILOSOFIA
TESI DI LAUREA
IN
STORIA DELLE DOTTRINE POLITICHE
LA CATEGORIA TOTALITARISMO
NELLA PROSPETTIVA DEL PENSIERO
DI HANNAH ARENDT
Relatore:
Ch.mo prof.
GIANFRANCO BORRELLI
ANNO ACCADEMICO 1997-98
Candidata:
FILOMENA CASTALDO
matr.: 04/9096
CAPITOLO PRIMO
GENEALOGIA E TOPOLOGIADI UN CONCETTO ATTRAVERSO
LE INTERPRETAZIONISTORICO-FILOSOFICHE
DAGLI ANNI ‘30 AGLI ANNI ‘50
«Possiamo prendere tutti i termini,tutte le espressioni del nostro
vocabolario politico,e aprirli;
al loro interno troveremo il vuoto».(S. Weil)
3
1. Il concetto ‘totalitarismo’
A cosa rinvia la semantica totalitarismo?1
E’ una categoria politica nuova, tutta novecente-
sca? Va considerata per la sua validità euristica oppu-
re no? E qual è il quid novi che la caratterizza come
forma politica che si è storicamente concretizzata e
che Hannah Arendt profeticamente aveva individuato
nei soli regimi di Hitler in Germania e di Stalin in
Russia?
Un punto dobbiamo tener ben fermo: il totalitari-
smo non è autoritarismo.2
1 In termini generali si veda: M. Stoppino, Totalitarismo, in N. Bobbio,N. Matteucci, G. Pasquino, Dizionario di politica, Torino, UTET, 1983;V. Dini, Totalitarismo e filosofia, un concetto tra descrizione e com-prensione, in «Filosofia politica», a. XI, n. 1, aprile 1997; M. Tarchi, Iltotalitarismo nel dibattito politologico, in «Filosofia politica», a. XI,cit., pp. 63-79. 2 Sul piano lessicale, prima ancora che concettuale, si registra, in parti-colar modo nei testi di alcuni esponenti del mondo intellettuale tedescodegli anni ‘30, una certa confusione ed un uso spesso interscambiabiledei termini ‘autoritario’ e ‘totale’, pur avendo come obiettivo polemicocomune la forma-Stato moderna. Così fa notare C. Galli: « Si può fin
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In generale, si considerano autoritari tutti quei
regimi non democratici, caratterizzati dall’assenza del
parlamento e delle elezioni popolari, o da una loro at-
tività apparente, nonché dall’indiscusso predominio del
vertice dell’esecutivo. E’ assente la libertà dei sottosi-
stemi, sia formale che effettiva: l’opposizione politica
è soppressa o imbavagliata; il pluralismo dei partiti è
d’ora affermare che ‘totalità’ vale sempre per ‘corpo sociale integral-mente politicizzato e integralmente conflittuale’, e, in parallelo, per‘estensione integrale della politica’; insomma, per la sua onnipervasivi-tà. E che ‘autorità’ è termine a minore capacità denotativa e di uso piùgenerico, così da valere per ‘sovranità’, ‘potere’, ‘governo’; ma che ingenerale assume più spesso valenze di stabilizzazione politica. E’ cosìpossibile rigorizzare, senza violentarne lo spirito, le diverse posizioni esostenere che la locuzione ‘Stato totale’ pare più orientata a descrivere -al di là del valore che i singoli autori ne danno -una situazione che ten-denzialmente supera o sfonda, o comunque confonde portandole all’estre-mo, le logiche e gli assetti politico-istituzionali dello Stato moderno;mentre l’espressione ‘Stato autoritario’ - differenziato da una forma po-litica obsoleta come il tradizionale Obrigkeitsstaat- si può intendere unastrategia di rivitalizzazione, pur nelle mutate condizioni, del comandodello Stato sulla società, in una ritrovata distinzione e gerarchizzazionedei due ambiti in una rinnovata articolazione per ‘cerchie’ del corposociale». C. Galli, Strategie della totalità, in «Filosofia politica», cit.,pp. 27-61.
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vietato o ridotto a simulacro; l’autonomia degli altri
gruppi è tollerata o distrutta, secondo l’interesse del
capo o dell’élite al governo.
E’ chiaro che, in questo senso molto generale, il
concetto di autoritarismo può ricomprendere legitti-
mamente quello di totalitarismo, svuotandolo, però,
facendo del secondo un indicatore di intensità di certi
tratti del contesto autoritario, privando, cioè, il con-
cetto di totalitarismo di una specificità che pure va ri-
conosciuta.
Il sociologo politico Juan J. Linz, nel suo Totali-
tarian and Authoritarian Regimes,3 definisce i regimi
autoritari come sistemi politici con un pluralismo li-
mitato e non responsabile; senza una ideologia elabo-
rata e propulsiva (ma con delle caratteristiche menta-
lità); senza una mobilitazione politica intensa o vasta
(eccetto che in taluni momenti del loro sviluppo); in
3 J. J. Linz, Totalitarian and Authoritarian Regimes, Greenstein e Pol-sby (a cura di), Handbook of Political Science, Addison-Wesley, Rea-ding (Mass.), 1975.
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cui un capo (talora un piccolo gruppo) esercita il pote-
re entro limiti che sono formalmente mal definiti ma
di fatto agevolmente prevedibili.
Il totalitarismo è speculare ed opposto.
Lo stesso Linz, precisando i limiti e i confini tra
totalitarismo-democrazia e totalitarismo-autoritari-
smo, presenta una teoria secondo cui gli elementi in-
dispensabili per definire totalitario un sistema politi-
co sono: 1) l’ideologia, fonte di legittimazione del
potere e della prassi; 2) un partito unico di massa, stru-
mento di pressione sulla popolazione; 3) una leader-
ship, sia individuale che di una élite di dirigenti che
operano senza limiti legali definiti.
Riconosce, invece, come autoritari i regimi post-
totalitari, rappresentati dai sistemi comunisti dopo
il processo di destalinizzazione, risultato combinato
da un pluralismo limitato e in conflitto, da una par-
ziale depoliticizzazione delle masse, da un ruolo at-
tenuato del partito unico e della ideologia, da un’ac-
centuata burocratizzazione; ed un totalitarismo im-
7
perfetto, che di solito è una fase transitoria di un si-
stema politico il cui sviluppo verso il totalitarismo
viene arrestato per poi trasformarsi in qualche altro
regime autoritario.
Con Roman Schnur,4 possiamo aggiungere che un
elemento fondamentale della distinzione tra autoritari-
smo e totalitarismo è che se il primo tende a proporre
una visione del potere sovrano come «qualcosa di este-
riore, utilizzabile cioè per ottenere un’obbedienza este-
riore, senza che con ciò venga mai toccata la loro inte-
riorità, la coscienza», il secondo mira a piegare e di-
struggere l’interiorità non solo perché non ci sia oppo-
sizione, quanto per creare un uomo nuovo, una realtà
nuova secondo un preciso scopo ideologico, secondo
la volontà di chi detiene il potere.
«Il regime totalitario nella sua fase iniziale deve
comportarsi come una tirannide e radere al suolo i
limiti posti dalle leggi umane. Ma esso non lascia
4 R. Schnur, Individualismo e assolutismo, Milano, Giuffrè, 1979.
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dietro di sé l’illegalità arbitraria e non infierisce per
imporre la volontà tirannica o il potere dispotico di
un individuo su tutti gli altri e, men che meno, l’anar-
chia di una guerra di tutti contro tutti.
Sostituisce ai limiti e ai canali di comunicazione
fra i singoli un vincolo di ferro, che li tiene così stret-
tamente uniti da far sparire la loro pluralità in un uni-
co uomo di dimensioni gigantesche.
Abolire i confini delle leggi fra gli individui,
come fa la tirannide, significa annullare le libertà
umane, distruggere la libertà come realtà politica vi-
vente; perché lo spazio fra gli individui, com’è cir-
coscritto dalle leggi, è lo spazio vivo della libertà.
Il terrore totale usa questo vecchio strumento del-
la tirannide, ma distrugge allo stesso tempo quel de-
serto, senza leggi e senza barriere, dominato dalla
reciproca diffidenza, che è propriamente della tiran-
nide.
Questo deserto non era, certo, uno spazio vivo di
libertà, ma lasciava ancora un po’ di posto ai movi-
9
menti timorosi e alle caute azioni dei suoi abitanti».5
Se, cioè, sotto un governo autoritario e tirannico, ci
sono margini perché si crei un’opposizione, perché le
persone dissenzienti possano in qualche modo opera-
re ed agire, con il totalitarismo siamo al grado zero
della comunicazione e delle differenze, al conformi-
smo come alienazione dalla politica e dal mondo, al
dominio che permea le coscienze in modo totale.
La Arendt utilizza l’immagine della cipolla per foca-
lizzare il concetto di totalitarismo: al centro «quasi in uno
spazio vuoto, si trova il capo. Quale che sia la funzione di
questi (integrare il corpo sociale, come una gerarchia au-
toritaria, o opprimere i sudditi, come un tiranno), egli la
compie dall’interno non dall’esterno o dall’alto. Tutte le
innumerevoli parti del movimento: le organizzazioni col-
laterali extra-partitiche, le varie associazioni professiona-
li, gli iscritti al partito, la burocrazia del partito, le forma-
5 H. Arendt, The Origins of Totalitarianism, Harcourt, Brace &World,Inc., III ed. New York, 1966; trad. it. Le origini del totalitarismo, a curadi A. Guadagnin, Milano, Edizioni di Comunità, 1996.
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zioni di élite e i gruppi di polizia sono reciprocamente in
una relazione tale da costituire, a seconda del punto di
vista, la superficie o il centro della cipolla: cioè, rispetto a
uno strato costituiscono il normale mondo esterno, men-
tre rispetto ad un altro rappresentano il radicalismo più
estremista. Il grande vantaggio del sistema è di fornire a
ciascuno strato del movimento, nonostante il regime tota-
litario, la finzione di una realtà normale, insieme, la con-
vinzione di differenziarsene e di essere più radicale (...).
La struttura a cipolla rende il sistema organizzativamente
inattaccabile dall’urto della realtà effettiva».6
Tendenzialmente - tale è la proposta di B. R. Bar-
ber7 - nel definire il totalitarismo si fa riferimento a
due approcci, l’uno essenzialista, che, «generalmente
legato a spiegazioni monocausali, procede attraver-
6 H. Arendt, What is Authority?, in Between Past and Future, London,Faber & Faber, 1961; trad. it. Che cos’è l’autorità? in Tra passato efuturo, Milano, Garzanti, 1991.7 B. R. Barber, Conceptual Foundations of Totalitarianism, in C. J. Frie-derich, M. Curtis, B. R. Barber, Totalitarianism im Perspective: ThreeViews, New York, Praeger, 1969.
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11
so ricostruzioni impressionistiche piuttosto che per
riscontri empirici, e tende a sottolineare proprietà
astratte e non misurabili, come gli scopi ultimi e i
connotati ideologici, dei regimi che sono considera-
ti totalitari»;8 l’altro fenomenologico, che analizza
«quegli stessi regimi in una prospettiva multifatto-
riale empirica, cercando di isolarne gli attributi obiet-
tivi, le caratteristiche formali e al limite misurabili,
con la dichiarata intenzione di tracciare un modello
di totalitarismo e gettare le basi di una teoria che
possa spiegarne la genesi e gli sviluppi, stabilendo
nel contempo precise frontiere del campo di appli-
cazione della parola».9
Decisive sono le puntualizzazioni di L.
Schapiro,10 che insiste sul carattere analitico-descrit-
tivo del termine in oggetto in relazione a regimi del
8 M. Tarchi, Il totalitarismo nel dibattito politologico, in «Filosofia po-litica», cit., p. 67.9 Ibidem.10 L. Schapiro, Totalitarianism, Pall Mall, Londra, 1972.
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12
nostro tempo che sarebbero altrimenti analizzati con
categorie anacronistiche e non esaustive.
Già nel 1956 Carl J. Friederich e Zbigniew K.
Brzezinski avevano colto la nuova portata politica del
totalitarismo, fenomeno storicamente unico e sui ge-
neris, riconoscendo questi caratteri: 1) esistenza di una
ideologia ufficiale, riguardante tutti gli aspetti della
esistenza e dell’attività dell’uomo; 2) partito unico di
massa guidato da un dittatore e strutturato gerarchica-
mente in modo da garantire capillarmente l’adesione
all’ideologia e alla volontà del capo; 3) sistema terro-
ristico poliziesco che controlla i nemici reali e poten-
ziali, nonché il partito stesso; 4) monopolio tenden-
zialmente assoluto dei media; 5) monopolio tenden-
zialmente assoluto degli armamenti sulla base della
tecnologia moderna; 6) direzione centralizzata del-
l’economia.
Definendo i regimi fascisti e comunisti «fonda-
mentalmente simili», applicando l’etichetta di dittatu-
re totalitarie anche alle democrazie popolari dell’Eu-
13
ropa orientale e alla Cina maoista, gli autori di Totali-
tarian Dictatorship and Autocracy 11 hanno descritto
il totalitarismo come sindrome totalitaria, cioè come
un insieme di caratteri interrelati che tipizza taluni si-
stemi politici. Di tale modello, tuttavia, sono stati sot-
tolineati spesso i punti deboli: essenzialmente si tratta
di un modello statico, di natura monolitica, che non dà
grande spazio al mutamento e alla dinamica interna
del sistema.
Ribadendo che «un concetto analitico rimane pa-
trimonio conoscitivo anche se la realtà da esso richia-
mata non è più presente»,12 Domenico Fisichella ac-
coglie le tesi di Hannah Arendt in Le origini del tota-
litarismo e assegna al concetto di totalitarismo, pur-
ché corroborato in chiave di «analisi delle condizio-
11 C. J. Friederich e Z. K. Brezinski, Totalitarian Dictatorschip andAutocracy, Harvard University Press, 1956. Tale testo, in merito, è con-siderato, parimenti a quello della Arendt, un classico di teoria politica.12 D. Fisichella, Totalitarismo. Un regime del nostro tempo, Roma, NIS,1987, p. 20.
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ni», oltre che un ufficio di interpretazione storica, an-
che la portata di una categoria predittiva.
Egli non considera il totalitarismo in modo mo-
nolitico, pur se l’ispirazione è monistica; ne riconosce
la vocazione e la carica antipluralista.
«Il regime totalitario, dunque, non è un sistema
pluripartitico, rappresentativo-competitivo, pluralistico
in senso liberale»;13 è connotato «dall’assenza di strut-
ture e controlli parlamentari, dalla presenza di un par-
tito unico, dal rifiuto del pluralismo a pro dell’unitari-
smo e dell’onnicomprensività».14
Un’attenzione particolare è assegnata all’ideolo-
gia di chi detiene il potere, al terrore come principio
politico, al disordine istituzionalizzato, il quale è, per
così dire, il nucleo genetico e il perno della sua dina-
micità.
In questa considerazione idealtipica, l’analisi fe-
13 Ibidem, p. 22.14 Ibidem, p. 15.
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nomenologico-descrittiva si arricchisce di contenuti
empirici che non sono destinati comunque a genera-
lizzazioni ed appiattimenti.
Nel lessico storiografico, invece, le cose non sono
considerate in modo sufficientemente chiaro: non è
infrequente che gli storici replichino contro la univo-
cità del concetto e quel metodo di reductio ad unum
tipico delle scienze politologiche.
Ne Il Secolo breve, Eric J. Hobsbawn scrive con
una certa imprecisione: «Fino al 1945 il termine “tota-
litarismo”, originariamente inventato per descrivere il
fascismo italiano (e usato con questa funzione dai fa-
scisti stessi), fu applicato soltanto ai regimi fascisti o
filofascisti».15
E’ più semplice la ricezione nell’assunto politico
piuttosto che la problematizzazione del concetto sotto
il profilo storico. Pensiamo a quanto scrivono Franço-
15 E. J. Hobsbawn, Age of Extremes. The Short Twentieth Century 1914-1991, 1994; trad. it. Il secolo breve, Milano, Rizzoli, 1995.
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is Furet,16 Renzo De Felice,17 Emilio Gentile18 ed Enzo
Collotti,19 autori che ne marcano, comunque, la margi-
nalità. Totalitarismo, nelle migliori delle ipotesi, è con-
siderato un concetto polisemico, che si connota secon-
do il contesto di applicazione, un parametro, cioè, con
cui misurare la realtà storica senza peraltro estinguer-
la in esso. L’obiezione fondamentale degli storici è
non solo l’estensione del concetto a diverse espe-
rienze storiche dall’antichità ad oggi, ma, soprattut-
to, di aver accentuato le analogie piuttosto che le dif-
ferenze di ideologia e di base sociale dei due eventi
a cui sottendono l’esperienza nazionalsocialista e
l’esperienza comunista. Differenze sostanziali ci sono,
eccome!, con effetti rilevanti sulla stessa prassi totalitaria,
16 F. Furet, Le passé d’une illusion, Paris, Editions Robert Laffont, 1995;trad. it. Il passato di un’ illusione, Milano, Mondadori, 1995.17 R. De Felice, Le interpretazioni del fascismo, Roma - Bari, Laterza,1991.18 E. Gentile, La via italiana al totalitarismo. Il partito e lo Stato nelregime fascista, Roma, NIS, 1995.19 E. Collotti, Fascismo, fascismi, Firenze, Sansoni, 1989.
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ma si potrebbe dire che queste obiezioni non sono perti-
nenti a delegittimare l’uso del concetto di totalitarismo per-
ché, pur se con contenuti diversi, si possono costruire prassi
di dominio politico sostanzialmente analoghe, come è ac-
caduto, appunto, per la Germania hitleriana e per la Rus-
sia staliniana, più precisamente dopo il 1930. E’ d’obbli-
go, tuttavia, che gli storici di professione comincino a mi-
surarsi in sede critica con le esperienze storiche che sot-
tendono alla nozione totalitarismo, al fine di evitare con-
fusioni e pregiudizi che possano inficiare il modello inter-
pretativo, in modo particolare oggi, in tempo di revisioni-
smo storico, e promuovere ricerche comparate sui paesi
definiti totalitari.20
20 Di questo avviso ci sembrano G. Ruocco e L. Scuccimarra, Totalitari-smo e ricerca storica, in «Storica», a. II, n. 6/1996; B. Bongiovanni,Revisionismo e totalitarismo, in «Teoria politica», a. XIII, n. 1/1997. Direcente si è tenuto un convegno internazionale organizzato dalla città diSiena su «L’esperienza totalitaria nel XX secolo», Certosa di Pontigna-no, 28 settembre - 1° ottobre 1997, i cui atti sono apparsi in forma menoelaborata in Aa. Vv., Nazismo, fascismo, comunismo. Totalitarismi aconfronto, a cura di M. Flores, Milano, Edizioni Bruno Mondadori, 1998.
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18
2. Genealogia del termine ‘totalitarismo’
1. Area italiana
Il termine totalitarismo viene per la prima volta ado-
perato in forma aggettivata e in un significato del tutto
negativo dall’italiano Giovanni Amendola in un suo arti-
colo del 22 maggio 1923, a proposito della manomissione
generale da parte dei fascisti delle elezioni amministrati-
ve: il partito dominante aveva presentato la lista di mag-
gioranza e di minoranza, evitando con la forza e l’insinua-
zione la formazione di una lista di opposizione ed ogni
fisiologica dialettica politica.
Amendola chiama questo modo di procedere «si-
stema totalitario», cioè «promessa del dominio asso-
luto e dello spadroneggiamento completo ed incon-
trollato nel campo della vita politica ed amministra-
tiva».21
21 G. Amendola, Maggioranza e minoranza, in «Il Mondo», 12 maggio1923 e in Id., La democrazia italiana contro il fascismo 1922-1924,Milano-Napoli, Ricciardi, 1960.
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19
La parola totalitario, sottolinea il Petersen,22 è
usata qui in senso quasi tecnico, indicando un nuovo
sistema elettorale in sostituzione di quello maggio-
ritario e minoritario, anche se l’opposizione aventi-
niana mal riusciva a definire la sostituzione del si-
stema parlamentare pluralistico con una dittatura
unipartitica. Nell’articolo del 28 giugno 1923 Amen-
dola applica questa sua interpretazione al dibattito
sulla legge Acerbo: egli attaccava il tentativo fasci-
sta di fare di Cavour «l’ispiratore divino della rifor-
ma elettorale fascista e del sistema totalitario», si
opponeva all’immagine «di un Cavour plasmatore
elettorale di un gregge di ascari totalitari».23
La distruzione del sistema pluralistico e dello sta-
to di diritto veniva sentito più profondamente in quei
settori della società italiana dove andava maturando,
22 J. Petersen, La nascita del concetto di “Stato totalitario” in Italia, in«Annali dell’ Istituto storico italo-germanico in Trento», I, 1975, pp.143-168.23 G. Amendola, Cavour e Pansoja, in «Il Mondo», 28 giugno 1923 e inId., La democrazia italiana contro il fascismo 1922-1924, cit.
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20
talora con enfasi apocalittiche, l’idea di essere di fron-
te a una trasformazione politica e istituzionale di tipo
dittatoriale e totalitaria. Pensiamo all’opposizione anti-
fascista liberale, democratica, socialista e cattolica.
Pensiamo a Salvatorelli, a Ferrero, a Gobetti, a Turati,
a Lelio Basso.
Ad Amendola come a Sturzo, già alla fine del
1923, la caratteristica propria del moto fascista appar-
ve «lo spirito totalitario, il quale non consente all’av-
venire di avere albe che non saranno salutate col gesto
romano, come non consente al presente di nutrire ani-
me che non siano piegate alla confessione: “credo”.
Questa singolare “guerra di religione” che da oltre un
anno imperversa in Italia non vi offre una fede (...) ma
in compenso vi nega il diritto di avere una coscienza -
la vostra e non l’altrui- e vi preclude con una plumbea
ipoteca l’avvenire».24
24 G. Amendola, Un anno dopo, in «Il Mondo», 22 novembre 1923;anche in Id., La democrazia italiana contro il fascismo 1922-1924, cit.
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21
Nel gennaio del 1924, Monti scrisse ne «La Rivo-
luzione Liberale» che il fascismo si accingeva a fare
«dopo le elezioni totalitarie nei comuni e nelle provin-
ce, l’elezione totalitaria per la Camera dei deputati».
Sturzo descrisse la nuova concezione fascista di stato-
partito tendente alla «trasformazione totalitaria di ogni
e qualsiasi forza morale, culturale, politica, religiosa».
Occupandosi delle elezioni parlamentari nella prima-
vera del 1924, Gobetti parlò dei «piani governativi»
che puntavano sul «gioco totalitario della demagogia
fascista». Egli riteneva che Mussolini non sarebbe mai
potuto diventare un tiranno, i suoi restavano «sogni
totalitari».
Anche il Giordani, sulle pagine del «Popolo», nel
maggio del 1924, scrisse della «anima totalitaria» del
fascismo e dei suoi «quadri dell’occupazione totalita-
ria».
Tra il giugno e il dicembre del 1924 sembra che il
termine totalitario sparisca dal vocabolario dell’op-
posizione, come se la questione morale dovesse esse-
22
re combattuta non già sul piano del nascente novus
ordo statale quanto su quello etico.
Tenta di sostantivare l’aggettivo Lelio Basso, in un
intervento pubblicato su «La Rivoluzione liberale» del 2
gennaio 1925, accusando il primo ministro di voler im-
porre l’egemonia di «un solo partito che si fa interprete
dell’unanime volere, del totalitarismo indistinto».25
Nel discorso del 15 giugno 1925, alla chiusura
del primo e ultimo congresso dell’Unione Nazionale,
Amendola stigmatizza il fascismo per la sua feroce
intransigenza, la sua «ansiosa volontà totalitaria». E
Mussolini, nel suo discorso del 22 giugno 1925, ri-
prende la citazione letterale del discorso amendoliano
parlando della «nostra feroce volontà totalitaria» e di
«fascistizzare la nazione» al cento per cento.
Questo è certamente un punto d’incrocio, il mo-
mento in cui il concetto totalitario come espressione
25 Prometeo Filodemo (L. Basso), L’antistato, in «La Rivoluzione libe-rale», 2 gennaio 1925, ora in Le riviste di Pietro Gobetti, a cura di L.Basso e L. Anderlini, Milano, Feltrinelli, 1961.
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23
della tenace volontà di opposizione liberaldemocrati-
ca antifascista viene usurpato dal fascismo stesso per
una nuova valenza affatto positiva: «Totalitario espri-
me (...) uno spirito fiero e la determinazione di una
totale trasformazione della società, in parte attraverso
una sorta di monismo religioso e in parte attraverso la
sana ordalia della violenza- molto nello spirito dello
squadrismo».26 Mussolini sottolinea la nuova centra-
lità dello Stato nel contesto della vita sociale, elabo-
rando la formula «tutto nello Stato, niente al di fuori
dello Stato, nulla contro lo Stato».27
Dichiara Forges Davanzati in un suo discorso al-
l’Istituto di cultura a Firenze del 28 febbraio 1926:
«Se gli avversari ci dicono che siamo totalitari, che
siamo domenicani, che siamo intransigenti, che siamo
tirannici, non vi spaventate di questi aggettivi.
26 A. Gleason, Totalitarianism. The Inner History of the Cold War,NewYork- Oxford, Oxford University Press, 1995.27 B. Mussolini, Discorso del 28 ottobre 1925, in Id., Opera Omnia, acura di E. e D. Susmel, Firenze, La Fenice, 1967, XXI, p. 425.
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24
Prendeteli con onore ed orgoglio... Sì, siamo tota-
litari! Vogliamo essere tali, dal mattino alla sera,...
vogliamo essere domenicani..., vogliamo essere tiran-
nici!».28
Nella voce «Fascismo» della Enciclopedia Ita-
liana, attribuita a Benito Mussolini e in parte anche a
Giovanni Gentile, il filosofo che ha offerto il suo ma-
gistero come sostrato ideologico di tale movimento,
l’aggettivo totalitario è così formalizzato: «Antiindi-
vidualistica, la concezione fascista è per lo stato; ed è
per l’individuo in quanto esso coincide con lo stato,
coscienza e volontà universale dell’uomo nella sua
esistenza storica (...). E se la libertà deve essere l’attri-
buto dell’uomo reale, e non di quell’astratto fantoccio
a cui pensava il liberalismo individualistico, il fasci-
smo è per la libertà. E per la sola libertà che possa
essere una cosa seria, la libertà dello stato e dell’indi-
viduo nello stato. Giacché per il fascista, tutto è nello
28 R. Forges Davanzati, Fascismo e cultura, Firenze 1926, p. 39 e ss.
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25
stato, e nulla di umano o spirituale esiste, e tanto meno
ha valore, fuori dello stato. In tal senso il fascismo è
totalitario, e lo Stato fascista, sintesi e unità di ogni
valore, interpreta, sviluppa e potenzia tutta la vita del
popolo».29
E’, dunque, forte la connotazione statalista del
termine totalitario nel seno del regime fascista.
Già in un corso di lezioni di filosofia del diritto svolto
all’Università di Pisa, Gentile aveva contrapposto alla so-
cietas inter homines una societas in interiore homine.
Quando la sua dottrina dello stato sarà elevata a dottrina
quasi ufficiale del regime fascista, nel primo Discorso di
religione, fa la sua apparizione lo stato in interiore homi-
ne, contrapposto allo stato esterno, esteriorizzato, del libe-
ralismo individualistico.
«Lo stato, come oggi dovremmo cominciare a sa-
per bene tutti, non è inter homines, ma in interiore
29 Voce Fascismo, in Enciclopedia Italiana, Roma, Istituto dell’ Enci-clopedia Italiana, 1932, XIV, p. 847.
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26
homine. Non è quello che vediamo sopra di noi; ma
quello che realizziamo dentro di noi, con l’opera no-
stra, di tutti i giorni e di tutti gli istanti; non soltanto
entrando in rapporto con gli altri, ma anche semplice-
mente pensando, e creando col pensiero una realtà, un
movimento spirituale, che prima o poi influirà sul-
l’esterno, modificandolo».30
La stessa accezione positiva è nella rivendicazione
fatta più tardi da Pio IX, in polemica concorrenza con il
fascismo: «Così si dice un po’ dappertutto: tutto deve es-
sere dello Stato, ed ecco lo Stato totalitario, come lo si
chiama: nulla senza lo Stato, tutto allo Stato. Ma in ciò vi
è una falsità così evidente, che fa meraviglia che uomini,
del resto seri e dotati di talento, lo dicano e lo insegnino
alle folle. Infatti come lo Stato potrebbe essere veramente
totalitario, dare tutto all’individuo e chiedergli tutto; come
potrebbe dare tutto all’individuo per la sua perfezione in-
teriore - perché si tratta di cristiani - per la santificazione e
30 G. Gentile, Discorsi di religione, Firenze, Sansoni, 1957, p. 25.
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27
la glorificazione delle anime? Perciò quante cose sfuggo-
no alla possibilità dello Stato, nella vita presente e in vista
della vita futura, eterna! E in questo caso ci sarebbe una
grande usurpazione, perché se c’è un regime totalitario -
totalitario di fatto e di diritto - è il regime della Chiesa,
perché l’uomo appartiene totalmente alla Chiesa, deve
appartenerle, dato che l’uomo è creatura del buon Dio,
egli è il prezzo della redenzione divina, è il servitore di
Dio, destinato a vivere quaggiù, e con Dio in cielo. E il
rappresentante delle idee, dei pensieri e dei diritti di Dio
non è che la Chiesa. Allora la Chiesa ha veramente il dirit-
to e il dovere di reclamare la totalità del suo potere sugli
individui: ogni uomo, tutto intero, appartiene alla Chiesa,
perché tutto intero appartiene a Dio. Non c’è dubbio su
questo punto, per chi non voglia negare tutto».31
E’ la sindrome totalitaria.
31 Pio XI, L’unico regime totalitario di fatto e di diritto è la Chiesa,discorso del 18 settembre 1938 riportato in E. Rossi, Il “Sillabo” e dopo,Roma, Editori Riuniti, 1964, pp. 87-88. Anche in D. Settembrini, LaChiesa nella politica italiana (1944-1963), Roma, Rizzoli, Milano 1977,p. 112.
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28
Diversamente dall’opposizione antifascista, Antonio
Gramsci conduce una riflessione molto più pregnante sul-
la dimensione totalitaria della politica che mira ad «otte-
nere che i membri di un determinato partito trovino in
questo solo partito tutte le soddisfazioni che prima trova-
vano in una molteplicità di organizzazioni, cioè a rompere
tutti i fili che legano questi membri ad organismi culturali
estranei» e «a distruggere tutte le altre organizzazioni o a
incorporarle in un sistema di cui il partito sia il solo rego-
latore. Ciò avviene: 1) quando il partito dato è portatore di
una nuova cultura e si ha una fase progressiva; 2) quando
il partito dato vuole impedire che un’altra forza, portatrice
di una nuova cultura, diventi essa “totalitaria”; e si ha una
fase regressiva e reazionaria, oggettivamente, anche se la
reazione (come sempre avviene) non confessi se stessa e
cerchi di sembrare essa portatrice di una nuova cultura».32
Gramsci, in contrapposizione a Gentile, non ridu-
32 A. Gramsci, Quaderni dal carcere, Edizione critica dell’Istituto Gram-sci, a cura di V. Gerretana, Torino, Einaudi, 1975, II, Quaderno 6 (VIII),par. 136, p. 800.
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29
ce lo Stato alla funzione di «dominio» e di «coercizio-
ne», a mero momento della forza, a «guardiano not-
turno» che impone, controlla e tutela l’ordine sociale,
altrimenti «Stato = società politica + società civile, cioè
egemonia corazzata di coercizione».33
2. Area tedesca
In Germania il sedimento concettuale di totalitari-
smo è nel dibattito politico sullo Stato totale, cioè sulla
nuova posizione assunta dallo Stato nei rapporti sociali.
E’ una direttiva alquanto diversa da quella italiana che
abbiamo preso come riferimento iniziale: manca, del resto
in Germania, negli anni venti, un soggetto politico forte
che punti ad una profonda trasformazione sociale secon-
do una feroce volontà di potenza.
Stato totale o Stato totalitario è sinonimo di Stato
autoritario, possibile categoria con cui definire la cri-
si della forma-Stato e il tracollo dei soggetti politici.
33 Ibidem.
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30
Classico è il riferimento al saggio di Ernst Jünger,
del 1930, Die totale Mobilmachung,34 dove sebbene si
escluda ogni stabile collegamento con i regimi ditta-
toriali già in fase di consolidamento, si individua la
caratteristica qualificante dello Stato novecentesco:
imporre ai cittadini una mobilitazione totale come se
fossero minuscoli ingranaggi di un meccanismo che
funziona incessantemente; i paesi diventano gigante-
sche «officine metallurgiche» e «ciascuna singola vita
si trasforma sempre più chiaramente nella vita di un
lavoratore», di un «milite del lavoro» completamente
trasformato in ogni sua cellula in Stato, in servizio dello
Stato.
In questa metamorfosi antropologica, Jünger in-
dividua la disponibilità alla mobilitazione come ca-
ratteristica dell’uomo contemporaneo, la cui vita sin-
34 E. Jünger, Die totale Mobilmachung, in Sämtliche Werke, VII, EssaysI: Betrachtungen zur Zeit, Klett-Cotta, Stuttgart 1980, p. 121 e ss. Cfr.M. Ghelardi, Alcune osservazioni su Carl Schmitt ed Ernst Jünger, inErnst Jünger, un convegno internazionale, a cura di P. Chiarini, Napoli,Shakespeare & Company, 1987.
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31
gola è compromessa non già da una volontà totalitaria
quanto dall’irrompere della tecnica. Essa «è realizzata
molto meno di quanto essa stessa si realizzi, e in guer-
ra e in pace è l’espressione della pretesa segreta e co-
attiva a cui questa vita nell’epoca delle masse e delle
macchine ci assoggetta». Tali intuizioni verranno pri-
vate di ogni alone metafisico da Carl Schmitt e ricom-
prese nell’analisi politica sulla crisi dello Stato libera-
le del XIX secolo.
Lo Stato diviene, per Schmitt, «l’auto-organizza-
zione della società», di fatto non più separabile da essa.
«Se la società stessa si organizza in Stato, Stato e
società devono essere fondamentalmente identici, co-
sicché tutti i problemi sociali ed economici diventano
immediatamente problemi statali e non si può più di-
stinguere fra ambiti statali-politici e sociali-non poli-
tici. Tutte le contrapposizioni finora correnti, basate
sul presupposto dello Stato neutrale, che appaiono in
seguito alla distinzione di Stato e società e sono sol-
tanto casi di applicazione e delimitazioni di questa di-
32
stinzione, vengono ora a cessare (...). La società dive-
nuta Stato è uno Stato dell’economia, della cultura,
dell’assistenza, della beneficenza, della previdenza; lo
Stato divenuto autorganizzazione della società, quin-
di di fatto da essa non più separabile, abbraccia tutto il
sociale, cioè tutto quanto concerne la convivenza uma-
na. Non c’è più nessun settore rispetto al quale lo Sta-
to possa osservare un’incondizionata neutralità nel
senso del non-intervento (...). Nello Stato divenuto
autorganizzazione della società non c’è più nulla che
non sia almeno potenzialmente statale e politico».35
Si passa così dallo Stato neutrale del sec. XVIII
ad uno Stato potenzialmente totale che «ha assunto
una tale estensione da produrre non solo una crescita
35 C. Schmitt, Il custode della costituzione, a cura di A. Caracciolo,Milano, Giuffré, 1981, p. 123. Anche Id., La dittatura. Dalle originidell’idea moderna di sovranità alla lotta di classe proletaria, Roma-Bari, Laterza, 1975. Sul pensiero di Schmitt, vedi N. Bobbio, ThomasHobbes, Torino, Einaudi, 1989; C. Galli, Presentazione di C. Schmitt,Scritti su Thomas Hobbes, Milano, Giuffrè, 1986; G. Duso (a cura di),La politica oltre lo Stato: Carl Schmitt, Venezia, Arsenale, 1981
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33
quantitativa ma anche un cambiamento qualitativo, un
“mutamento strutturale”, e da influenzare non solo gli
affari propriamente finanziari ed economici, ma tutti
quanti i settori della vita pubblica ».36
E’ un riferimento polemico alla Repubblica di
Weimar, considerata un coacervo conflittuale di for-
mazioni partitiche incapaci di realizzare un autentica
unità politica.
In un saggio del 1933, Schmitt scrive che lo Stato
totale realizzato in Germania «è uno Stato che si intro-
mette indifferentemente in tutti gli ambiti, in tutte le
sfere dell’esistenza umana, che non riconosce più al-
cuna sfera libera dallo Stato perché in generale non
può distinguere più nulla. Esso è totale in un senso
puramente quantitativo, nel senso del mero volume,
non dell’intensità e dell’energia politica (...). Il suo
volume è cresciuto in modo mostruoso. Esso intervie-
ne in tutti i possibili affari e in tutti i campi dell’esi-
36 Ibidem, p. 125.
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34
stenza umana, non solo nell’economia (...) bensì an-
che nelle questioni culturali e sociali, che una volta si
consideravano volentieri faccende “puramente priva-
te” (...). Questa è naturalmente una totalità solo nel
senso del mero volume e il contrario della potenza o
della forza. L’odierno stato tedesco è totale a partire
dalla debolezza e dall’incapacità di resistenza, dalla
incapacità di opporsi all’assalto dei partiti e degli in-
teressi organizzati. Esso deve dare a ognuno, accon-
tentare ognuno, sovvenzionare ognuno ed essere nel-
lo stesso momento a favore dei più diversi interessi.
Come si è detto, la sua espansione è la conseguenza
non della sua forma ma della sua debolezza».37
Le riflessioni schmittiane vengono sviluppate, con
Hitler al potere, da teorici di regime come Rosenberg,
Goebbels, Forsthoff e, ovviamente, dallo stesso Hitler
37 C. Schmitt, Weiterentwicklungen des totalen Staat in Deutschland, in«Europäische Revue», IX, 1933, 2, ripubblicato in Id., Positionen undBegriffe im Kampf mit Weimar-Genf-Versailles 1923-1939, Hanseati-sche Verlagsanstalt, Hamburg-Wandsbek 1940.
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35
nei suoi discorsi del 1933, in cui sottolinea che la ter-
za fase della rivoluzione deve essere la creazione del-
lo Stato nella sua totalità secondo la concezione del
movimento nazionalsocialista: lo Stato come deposi-
tario dei suoi valori spirituali.
In un articolo pubblicato sul numero del 1° gennaio
1934 del «Völkischer Beobachter», scrive Artur Rosen-
berg: «La rivoluzione del 30 gennaio 1933 non continua
lo Stato assolutista sotto un nuovo nome, ma pone lo Stato
in un nuovo rapporto col popolo (...) diverso da quello che
era prevalso nel 1918 o nel 1871. Ciò che ha avuto luogo
nel 1933 (...) non è l’instaurazione della totalità dello Sta-
to bensì della totalità del movimento nazionalsocialista.
Lo Stato non è più un’entità giustapposta al popolo e al
movimento, non è più concepito come un apparato mec-
canico e uno strumento di dominio; lo Stato è lo strumen-
to della concezione nazionalsocialista della vita».38
In effetti la categoria totale/totalitario viene am-
38 A. Rosemberg, Totaler Staat?, in « Vökischer Beobachter», 1° gen-naio 1934.
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36
pliata ai nuovi soggetti dell’ideologia nazionalsociali-
sta, il movimento e il popolo, in una variante diversa
da quella fascista, perché nella dualità liberale Stato-
società si inserisce una terzo elemento, il partito, che
se permane nella concezione dello Stato a tre membra
tedesco, in quello fascista tende ad essere interamente
assorbito nello Stato unitario e totalitario.
Sul versante anti-nazista, Marcuse è tra i primi teorici
marxisti a rendersi conto che il termine totalitär rimanda
ad una nuova Weltanschauung politica che «è divenuta il
bacino di raccolta di tutte quelle correnti che, dalla guerra
mondiale in avanti, si sono rivolte contro la concezione
«liberistica» dello stato e della società»39 ed hanno accom-
pagnato l’ascesa del nazionalsocialismo.
39 H. Marcuse, Der Kampf gegen den Liberalismus in der totalitarenStaatsauffassung, in «Zeitschrift für Sozialforschung», 1934, 3, poi ri-pubblicato in Id., Kultur und Gesellschaft, Suhrkamp, Frankfurt a. M.1965; trad. it. La lotta contro il liberalismo nella concezione totalitariadello Stato, a cura di C. Ascheri, H. Ascheri Osterlow e F. Cerutti, in H.Marcuse, Cultura e società. Saggi di teoria critica 1933-1965, Torino,Einaudi, 1969.
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37
Lo Stato totalitario ed autoritario ha lo stesso back-
ground dello Stato liberale, anzi, ne è il suo perfezio-
namento, «fornisce l’organizzazione e la teoria della
società che corrispondono allo Stadio monopolistico
del capitalismo».40
Non a caso Marcuse parla di una forma di totalità
organica intesa non come somma dei suoi componen-
ti, ma «come unità unificatrice delle parti, in cui sol-
tanto ogni parte si realizza e si compie». In modo in-
quietante egli si pone l’interrogativo se non sia stata la
cultura intellettuale stessa a preparare la sua liquida-
zione. Totalitaria si può definire quella società indu-
striale che opera secondo le pressioni degli oligopoli,
secondo meccanismi manipolativi che comportano la
monodimensionalità. «Il termine totalitario, infatti, non
si applica soltanto ad una organizzazione politica ter-
roristica della società, ma anche ad una organizzazio-
ne economico-tecnica, non terroristica, che opera me-
40Ibidem, p. 19.
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38
diante la manipolazione dei bisogni da parte di inte-
ressi costituiti. Essa preclude per tal via l’emergere di
una opposizione efficace contro l’insieme del siste-
ma. Non soltanto una forma specifica di governo o di
dominio partitico producono il totalitarismo, ma pure
un sistema specifico di produzione e di distribuzione,
sistema che può essere benissimo compatibile con un
“pluralismo” di partiti, di giornali, di “poteri controbi-
lanciantisi”».41
Per Franz Neumann, che, secondo Collotti, rifiu-
ta l’assunzione della società nello Stato ed è attento,
piuttosto, alle modifiche del rapporto Stato-società, con
occhio particolare alla tecnica di manipolazione delle
masse, sotto l’apparenza totalitaria si celano ben quat-
tro gruppi fondamentali, il partito, l’esercito, la buro-
crazia e l’industria.
Nella Germania nazista, tali forme di potere, che
in una normale democrazia si avvalgono di rapporti
41 H. Marcuse, L’uomo ad una dimensione. L’ideologia della societàindustriale avanzata, Torino, Einaudi, 1968.
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39
regolati da norme vincolanti universalmente, operano
ciascuna in base al Führerprinzip, cioè all’obbedien-
za assoluta alle decisioni del capo, secondo un potere
legislativo, esecutivo e giudiziario autonomo e secon-
do quei compromessi raggiunti dalle quattro dirigen-
ze, la cui unificazione non è istituzionalizzata, quindi,
ma personalizzata.
Non c’è Stato, né in un’accezione ristretta, né in
quella dualità riconosciuta da Ernst Fraenkel,42 secon-
do cui esiste uno stato in cui si contrappongono lo ‘Sta-
to normativo’ e lo ‘Stato discrezionale’ , basato que-
st’ultimo su prerogative individuali e irrazionali.
«Direi che siamo di fronte a una forma di società
in cui i gruppi dominanti controllano il resto della po-
polazione in modo diretto, senza la mediazione di quel-
l’apparato coercitivo ancorché razionale fino ad oggi
conosciuto come lo stato. Questa nuova forma sociale
non è ancora pienamente realizzata, ma esistono ten-
42 E. Fraenkel, Il doppio Stato, Torino, Einaudi, 1983.
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40
denze che definiscono l’essenza stessa del regime».43
Le classi dominanti, fortemente antagoniste, sono
cementate dalle logiche del profitto, dal potere e so-
prattutto dalla paure delle masse.
Neumann, che è prudente nell’uso del termine to-
talitario, attribuisce un ruolo decisivo alla propagan-
da e al terrore come due aspetti di un unico processo:
«la trasformazione dell’uomo nella vittima passiva di
una forza onnipresente che lo seduce e lo terrorizza,
lo innalza e lo spedisce nei campi di concentramen-
to».44
Ecco la metafora del Beemoth: lo stato totalita-
rio, pur se respinto ideologicamente, è una forma di
non-Stato, «un caos, una situazione di illegalità e di
anarchia».45
43 F. Neumann, Beemoth.The structure and Practice of National Socia-lism, Oxford University Press, New York Inc., 1942; trad. it. di M. Bac-cianini, Beemoth. Struttura e pratica del nazionalsocialismo. Milano,Feltrinelli, 1977.44 Ibidem, p. 209.45 Ibidem, p. 21.
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41
3. Area anglo-americana
La traduzione inglese, nel maggio del 1926, di Ita-
lia e fascismo di Luigi Sturzo, da parte di B. B. Carter,
consegnerà gli italianismi totalitario e totalitarismo
al vocabolario politico dei paesi anglofoni. Con una
valenza negativa, essi connoteranno un fenomeno
moderno e regressivo, plebiscitario e dittatoriale, inti-
mamente contraddittorio, nonostante che, nel 1928, la
rivista americana «Foreign Affairs» traduca uno scrit-
to di Giovanni Gentile, The Philosophical Basis of
Fascism, in cui, con toni altisonanti e apologetici, vie-
ne definita totalitaria la dottrina fascista.
Il «Times», nel 1929, accomuna in un fondo ano-
nimo con il termine totalitarianism fascismo e bolsce-
vismo, seguendo un percorso di riflessioni comparati-
vistico, ampliando l’orizzonte di riferimento al regi-
me monopartitico dell’Unione sovietica.
Nel 1933, Victor Serge, comunista dissidente, in
una lettera fatta pervenire clandestinamente in Fran-
cia all’opposizione di sinistra, prima che venisse de-
42
portato, definisce come «totalitario», «castocratico» ed
«ebbro della propria potenza» il regime sovietico.
Pur non conducendo analisi di tipo comparativo
o socio-politologico, utilizza, tuttavia, lo stesso termi-
ne con cui si è autodefinito il fascismo italiano.
Lo stesso diranno altri menscevichi russi in esilio
a Parigi. Anche Trotzki, nel volume La rivoluzione
tradita, del 1938, stigmatizza come totalitaria la de-
generazione autoritaria in atto nell’Unione Sovietica
da parte di una classe che ha espropriato ed usurpato il
proletariato.
Le analisi comparativistiche americane tenderan-
no a mettere in evidenza un comune nucleo strutturale
tra i due sistemi politico-istituzionali, fascismo e co-
munismo, dando più attenzione alle loro affinità piut-
tosto che alle divergenze.
In uno dei saggi raccolti in Dictatorship in the
Modern World, pubblicato nel 1935 a cura di Guy Stan-
ton Ford dell’Università del Minnesota, Max Lerner
così intende il termine totalitarian : lo stato totalitario
43
è uno stato caratterizzato dalla «organizzazione dei
gruppi economici che competono per la distribuzione
del reddito nazionale in associazioni o “corporazioni
supervisionate dallo Stato” e da un governo che tiene
rigidamente in pugno l’equilibrio del potere. Uno “Sta-
to forte” nel quale tutti i conflitti aperti in forma di
sciopero e serrata sono banditi e il movimento dei la-
voratori è nazionalizzato».
E’ evidente la mutuazione dell’esperienza ita-
liana.
«Comunismo e Fascismo sono sostanzialmente
simili perché entrambi significano l’esaltazione della
forza, che non sopporta alcuna opposizione e che su-
bordina l’individuo alle richieste dello Stato».46
Lo storico del pensiero politico George Sabine
considera, invece, il concetto totalitarismo come sino-
nimo di unitary e, nella voce State della International
46 «Christian Science Monitor», estate 1939, in A. Gleason, Totalitaria-nism, cit.
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44
Encyclopedia of the Social Sciences, lo applica a tutti
i sistemi monopartitici, Urss inclusa.47
Particolare diffusione - e confusione concettuale
- si ha durante le elezioni presidenziali del 1940. Sia
da parte democratica che da parte repubblicana si usa
il termine totalitarian in modo irresponsabile e poco
scrupoloso. In un infiammato articolo sull’American
Mercury, Herbert Hoover sottolinea dirette analogie -
economiche, politiche e psicologiche- tra lo sviluppo
dei regimi totalitari europei e la situazione degli Stati
Uniti sotto il New Deal. Anzi, giunge a definire Roo-
svelt e i suoi consiglieri come totalitarian liberals e lo
stesso New Deal come un incipiente totalitarismo: sem-
bra che lo confonda con socialistic.48
E di fatto, con la caduta dei regimi fascista e na-
zionalsocialista, con il deterioramento dei rapporti so-
vietico-americano, con la proclamazione della dottri-
47 G. H. Sabine, voce State, in Encyclopedia of the Social Sciences,New York, Macmillan, 1934, vol. XIV, p. 330.48A. Gleason, Totalitarianism, cit., p. 52 e ss.
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45
na Truman, «il termine giocava un ruolo essenziale
nel collegare l’antico alleato sovietico dell’America
con la Germania Nazista. Forse l’apice di questo peri-
odo si ebbe alla fine del 1950 quando il Mc Carran
International Security Act sbarrò ai «totalitarian» - vale
a dire ai comunisti - l’ingresso negli Stati Uniti. Du-
rante questi cinque anni, l’idea che gli Stati Uniti do-
vessero affrontare la sfida totalitaria tornò ad esercita-
re una influenza indiscussa come la chiave del futuro
americano ed ebbe la sua influenza più diretta sul pen-
siero politico e sulla politica estera americana».49
Siamo alle soglie della Guerra Fredda, quando «il
nemico totalitario sembrava a prima vista , trascende-
re le tradizionali distinzioni tra destra e sinistra, che
venivano senza dubbio operate negli anni ‘30. Molti
di coloro che allora lo utilizzavano lo facevano in con-
testi che suggerivano che al centro della discussione
erano solo il nazismo o il fascismo. La sua rinascenza
49 Ibidem, p. 61.
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46
nel 1945 servì a canalizzare il potente sentimento anti-
tedesco nel nascente sentimento anti-comunistico e allo
stesso tempo agevolò la formazione di nuove alleanze
internazionali».50
50 Ibidem, pp. 61-62. Segnaliamo anche gli studi, negli stessi anni, di J.L. Talmon, Le origini della democrazia totalitaria, Bologna, Il Mulino,1967; R. C. Tucker, Towards a Comparative Politics of Movement-Re-gimes, in «American Political Science Rewiew», vol. LV, 1961; K. A.Wittfogel, Il dispotismo orientale, Firenze, Vallecchi, 1968.
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CAPITOLO SECONDO
«IO PROCEDO DA FATTIE DA AVVENIMENTI»
L’INDAGINE CONTESTUALEDI HANNAH ARENDT
PER COMPRENDERE L’EVENTOCHE CARATTERIZZA IL XX SECOLO:
IL TOTALITARISMO.
Siamo contemporanei findove arriva la nostra comprensione.
Se vogliamo andare d’accordocon il mondo,
foss’ anche a costo di essere d’accordocon questo secolo,
dobbiamo partecipareal dialogo incessante con la sua essenza.
(H. Arendt).
48
1. Sentieri di ricerca: anno di svolta 1933
1951. Hannah Arendt, ebrea tedesca emigrata ne-
gli Stati Uniti nel maggio 1941 dopo un periodo di
internamento nel campo francese di Gurs, pubblica
un’opera dalla grande carica emotiva, Le origini del
totalitarismo, che, nonostante le critiche, è considera-
ta subito un classico di filosofia politica.
E’ curioso sapere che il titolo provvisorio dell’ab-
bozzo, risalente alle prime settimane del 1945, era Gli
elementi della vergogna: antisemitismo, imperialismo
e razzismo; anzi, a volte, la Arendt più enfaticamente
lo chiamava I tre pilastri dell’inferno, pilastri, condi-
zioni sine quibus non, che sorreggono, ma non in sen-
so che determinano, la struttura totalitaria.
Forte, per lei, era l’accusa contro l’Europa del XIX
sec., perché quel secolo borghese aveva creato gli ele-
menti da cui si sarebbe cristallizzato il totalitarismo in
Germania e in Russia; forte, per lei, era l’incredulità
per quanto stava avvenendo storicamente e politica-
49
mente, non tanto per la svolta del suo paese nel 1933,
quanto, soprattutto, per Auschwitz.
«Da principio non ci credevamo. Anche se mio
marito, e anch’io, avevamo sempre detto che da quel-
la banda potevamo aspettarci di tutto. Ma questo non
potevamo crederlo, perché era assolutamente contra-
rio a ogni bisogno o necessità militare. Mio marito un
tempo era uno storico militare, e di queste cose ne ca-
piva abbastanza. E mi disse: “Non lasciarti mettere in
testa queste storie! E’ una cosa che non possono fare.”
Ma un mezzo anno più tardi, quando ci furono le pro-
ve, dovemmo crederci. E fu davvero un brutto colpo.
Prima si diceva: ma sì, tutti hanno dei nemici, è una
cosa del tutto naturale, perché un popolo non dovreb-
be avere nemici? Ma questo era qualcosa d’altro. Era
davvero come se si fosse spalancato un abisso. Perché
si è sempre avuta l’idea che in qualche modo tutto il
resto possa tornare a posto, per esempio in politica tutto
si può aggiustare. Ma questo no. Questo non sarebbe
mai dovuto accadere. E non mi importa il numero del-
50
le vittime. M’importa la produzione in massa dei ca-
daveri e il resto (...) e non c’è bisogno che mi dilunghi
oltre. Questo non doveva succedere. E’ successa una
cosa per la quale nessuno di noi era preparato».51
Passarono altri sei anni prima che si arrivasse al
titolo definitivo, Le origini del totalitarismo, che pure
sembrava ricordare uno studio di genetica, come Le
origini della specie di Darwin. Si trattava di un titolo
fuorviante, molto più di quello scelto dall’editore in-
glese, The Burden of Our Time (Il fardello del nostro
tempo), perché non riusciva a tradurre lo spirito del-
l’autrice: occorreva ‘riflettere’ il metodo di lavoro se-
guito, non si cercavano origini nel senso di cause, non
si cercavano giustificazioni, non si scriveva di storia.
L’alternativa metodologica allo zelo dello storico
51 Intervista concessa nel 1964 a Gunther Gaus, Was bleibt? Es bleibtdie Mutterspräche, in G. Gaus, Zur Person: Portrats in Frage und An-twort, Feder, München, 1964; in E. Young-Bruehl, Hannah Arendt 1906-1975: per amore del mondo, Torino, Bollati Boringhieri, 1990, p. 221;in H. Arendt, La lingua materna, a cura di Alessandro Dal Lago, Mila-no, Mimesis, 1993, p. 43.
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51
fu quella di «individuare gli elementi principali del
nazismo, risalire alle loro origini e scoprire i problemi
politici reali alla loro base (...). Scopo del libro non è
dare risposte, bensì preparare il terreno».52
Per la Arendt gli eventi eccedono sempre le loro
cause, non c’è deduzione, non c’è necessità ma solo
caotiche verità di fatto il cui senso aspetta di essere
dischiuso come in un remake narrativo.
«Gli elementi del totalitarismo costituiscono le sue
origini, purché per “origini” non si intenda “cause”.
La causalità, cioè il fattore di determinazione di un
processo di eventi in cui un evento sempre ne causa
un altro e da esso può essere spiegato, è probabilmen-
te una categoria totalmente estranea e aberrante nel
regno delle scienze storiche e politiche. Probabilmen-
te gli elementi in se stessi non causano mai alcunché.
Essi divengono l’origine di un evento se e quando si
cristallizzano in forme fisse e definite. Allora, e solo
52 E. Young-Bruehl, Hannah Arendt 1906-1975: per amore del mondo,op. cit., p. 239.
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52
allora, sarà possibile seguire all’indietro la loro storia.
L’evento illumina il suo passato ma non può essere
dedotto da esso».53
Per la Arendt la parola origine si ricollega all’idea di
quel principio casuale, contingente, che getta luce sul-
l’evento che avviene ed esplicita la realtà su cui si fonda; a
posteriori evoca quegli elementi della realtà che hanno
acquisito pieno significato nella nuova esperienza, espe-
rienza che resta possibile ed imprevista ai «problemi reali
ed irrisolti» che erano dietro a quei «precedenti».
«Dietro l’antisemitismo, la questione ebraica, dietro
il decadimento dello stato nazionale, il problema irrisolto
di una nuova concezione del genere umano, dietro l’espan-
sionismo fine a se stesso, il problema irrisolto di riorga-
nizzare un mondo che diventa sempre più piccolo».54
Bisogna, quindi, che si passi non già dalle origi-
53 H. Arendt, The Nature of totalitarianism, conferenza inedita (1954),Congresso; in E. Young-Bruehl, Hannah Arendt, cit.54 Lettera a Mary Underwood, in E. Young-Bruehl, Hannah Arendt, cit.,p. 240.
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53
ni, questo oscuro materiale destinato a cristallizzarsi
come un possibile esito, all’evento, bensì dall’evento
verso quegli elementi del passato in cui possono bale-
nare i tratti della cristallizzazione finale. In questo sen-
so l’analisi più che storica diviene tipologica e socio-
logica.
Il totalitarismo, dunque, è l’evento e la sua origi-
nalità terrificante consiste in atti che rompono con tut-
ta la nostra tradizione, polverizzando letteralmente le
nostre categorie politiche e i nostri criteri di giudizio
morale. Obsoleti sono anche gli strumenti concettuali
della nostra tradizione filosofica.
A Voegelin, che nella recensione a Le origini del
totalitarismo la accusava di perdere i contatti con la
trascendenza, con la dimensione spirituale e ideologi-
ca per cui «le origini del totalitarismo non andrebbero
viste principalmente nel destino dello stato nazionale
e nei seguenti cambiamenti sociali ed economici ini-
ziati nel XVIII secolo (come fa la Arendt), ma piutto-
sto nell’ascesa del settarismo immanentista dell’Alto
54
Medioevo»,55 senza indugi, la Arendt replica: «Ciò che
è senza precedenti nel totalitarismo non è primaria-
mente il suo contenuto ideologico, ma l’evento stesso
della dominazione totalitaria. Ciò si può chiaramente
intendere se ammettiamo che le conseguenze delle sue
politiche hanno fatto esplodere le categorie tradizio-
nali del pensiero politico (il dominio totalitario è di-
verso da tutte le forme di tirannia e di dispotismo che
conosciamo) e i criteri del giudizio morale (i crimini
totalitari sono descritti in modo del tutto inadeguato
come “assassinii” e i crimini totalitari possono diffi-
cilmente essere puniti come “assassinii”). Il signor Vo-
egelin sembra pensare che il totalitarismo sia soltanto
l’altra faccia del liberalismo, del positivismo e del prag-
matismo. Ma si concordi o no col liberalismo (io pos-
so dire qui con assoluta certezza di non essere né una
55 Pubblicata, insieme alla risposta della Arendt e ad una sua conclusio-ne, in «The Review of Politics», XV, n. 1, 1953; trad. it. in G. F. Lami (acura di) Eric Voegelin. Un interprete del totalitarismo, Roma, 1978. Cfr.Filosofia politica e pratica del pensiero. E. Vögelin, L. Strauss e H.Arendt, a cura di G. Duso, Milano, 1988.
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55
liberale, né una positivista né una pragmatista), il punto
è che i liberali non sono chiaramente dei totalitari.
Spero di non insistere indebitamente su questo punto.
Per me è importante perché credo che ciò che separa
la mia impostazione da quella del signor Voegelin è
che io procedo da fatti e avvenimenti invece che da
affinità ed influenze spirituali.
Ciò è forse un po’ difficile da scorgere perché io
sono naturalmente molto interessata alle implicazio-
ni e ai cambiamenti filosofici nell’ auto-interpreta-
zione spirituale. Ma questo certo non significa che
io abbia descritto “una rivelazione graduale dell’es-
senza del totalitarismo dalle sue forme incipienti nel
XVIII secolo a quelle pienamente sviluppate”, per-
ché questa essenza non esiste prima di essere venuta
alla luce.
Perciò parlo di “elementi” rintracciabili nel XVIII
secolo, altri forse ancora più indietro (benché io dubi-
terei della teoria personale di Voegelin, secondo cui
l’ascesa del settarismo immanentista del Medioevo si
56
sarebbe conclusa alla fine del totalitarismo)».56
Pensare il totalitarismo come l’altra faccia del li-
beralismo, del positivismo, del pragmatismo, lo prive-
rebbe di ogni carattere di novità, di ogni significato
fruttuoso per l’analisi del mondo moderno.
La portata epocale del totalitarismo non è nel suo
contenuto ideologico, ma nella sua eventualità, nella
fattualità di un dominio realizzato con violenza e ter-
rore attraverso la tragicità dei campi di sterminio. Que-
sto è il fatto che interessa la Arendt.
Questo procedimento ermeneutico spiega anche
l’assimilazione del regime nazista con quello stalinia-
no nella tipologia del totalitarismo, in quanto, pur se
permeati da ideologie differenti, l’una basata sul domi-
nio della razza, l’altra sul principio della lotta di classe,
ambedue ricorrono al «culto della personalità», al ter-
rore istituzionalizzato, ai campi di concentramento e
all’abolizione delle libertà civili.
56 Ibidem.
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57
E’ vero; solo marginalmente la Arendt si occupa
dello stalinismo.
L’opera doveva essere completata da uno studio
adeguato sulle matrici totalitarie dell’ideologia marxi-
sta e le differenze tra marxismo e nazismo.
Il tentativo fu intrapreso, alcuni anni più tardi, a
seguito di una conferenza nel 195357 in cui si sottoli-
neavano le trasformazioni che il marxismo aveva su-
bito prima nell’interpretazione di Lenin poi di Stalin.
Ma The marxist elements of totalitarianism non fu mai
completato, rimase una disamina critica della tradizione
filosofica occidentale e un confronto con Marx, il cui
pensiero pure aveva avuto rilievo nella formazione
della Arendt.58
57 Conferenza inedita del 1953, Karl Marx and tradition of western po-litical thought, presso la Library of Congress, Washington, ManuscriptsDivision, « The Papers of H. Arendt», box 64; trad.it.
Karl Marx e la
tradizione del pensiero occidentale, (scritto nel 1953), a cura di S. Forti,in «MicroMega», n.5, pp.35-108.58 Cfr. S. Forti, Vita della mente e tempo della polis, Milano, FrancoAn-geli, 1996.
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58
Nella prefazione del giugno 1966 a Le origini del
totalitarismo, la Arendt fa riferimento al discorso di
Kruscev, nel 1957, dinanzi al XX Congresso del parti-
to, atto con cui si è aperto il processo di detotalitariz-
zazione dell’ ex-Unione Sovietica.
Secondo la Arendt, il più chiaro segno della detotali-
tarizzazione sovietica non è stato tanto la liquidazione di
buona parte del sistema poliziesco o la chiusura della mag-
gior parte dei campi di concentramento, oppure il fatto
che non sono state più promosse spettacolari epurazioni
contro i nemici del partito, ora destituiti e allontanati da
Mosca, quanto la ripresa feconda delle attività culturali,
arte e letteratura in particolare.
«Quando Stalin morì, i cassetti degli scrittori e degli
artisti erano vuoti, oggi esiste tutta una letteratura che circo-
la in manoscritti, e ogni via della pittura moderna viene
tentata negli ateliers dei pittori e le loro opere vengono co-
nosciute anche quando non sono esposte a una mostra».59
59 H. Arendt, Le origini del totalitarismo, cit., Prefazione, p. XLV.
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59
Da un sistema totalitario si è passati ad una dittatu-
ra a partito unico.
Utilizzando il termine totalitarismo con parsimo-
nia e prudenza, la Arendt si chiede, tuttavia, se esso
sia applicabile60 anche alla Cina comunista, di cui al-
l’epoca non si conosceva niente a causa dell’efficace
isolamento dietro cui il paese si era trincerato. Rispet-
to all’esempio tedesco e russo le differenze sono note-
voli: dopo il periodo iniziale della dittatura contrasse-
gnato dallo spargimento di sangue e da una decima-
zione della popolazione, dopo la scomparsa dell’op-
posizione, non si è verificato l’inasprirsi del terrore e
del massacro, l’irrigidimento della burocrazia al pote-
re, il sorgere di una categoria di ‘nemici oggettivi’,
60 Per la Arendt il concetto «totalitarismo» non si applica neanche alfascismo italiano. Mussolini aveva creato uno stato corporativista, piùche totalitario, in quanto aveva tentato di ‘statalizzare’ la società e lostesso partito non si pose al di sopra dello stato ma si identificò con lamassima autorità nazionale. Mussolini fu un dittatore, fu «il vero usur-patore nel senso della dottrina politica classica», in H. Arendt, Le origi-ni del totalitarismo, cit., p. 360 e ss. Sul fascismo italiano vedi A. Aqua-rone, L’organizzazione dello stato totalitario, Einaudi, 1965.
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60
cioè il permanere di quei caratteri che per la Arendt
tipizzano il totalitarismo.
Indubbiamente riconosce una pretesa totalitaria nel
programma ideologico del partito comunista cinese,
ancor più manifeste in politica estera con l’inasprirsi
dei rapporti cino-sovietici e con l’accusa alla Russia,
che pure aveva sostenuto Pechino, di ‘deviazione re-
visionista’ dopo la morte di Stalin e l’avvio di una
politica di distensione.
Pur denunciando la scarsità delle fonti, assumen-
do una posizione piuttosto ambigua, la Arendt accen-
na a quella forma di terrore e di controllo sociale che
era «il modellamento e rimodellamento delle
menti»,61 la pervadente ‘riforma della mente umana’
che è il corrispettivo cinese della creazione dell’uomo
nuovo tipico dello spirito totalitario.
Un totalitarismo fondato sul consenso, direbbero
oggi i critici.
61H. Arendt, Le origini del totalitarismo, cit., Prefazione, p. XXXI.
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61
Una osservazione, comunque, va fatta a proposito de
Le origini del totalitarismo: c’è uno squilibrio tra le prime
due parti, più storiche, più politiche, e la terza parte che
punta sull’essenza del totalitarismo, sull’individuazione
della sua tipicità. Potremmo dire che dallo «stare ai fatti»
si passa meglio e volentieri ad un’analisi concettuale raffi-
nata, ad una sintesi tipologica, in particolare nel capitolo
dal titolo Ideologia e terrore.
La domanda che ella si pone, in effetti, e che segna la
portata del totalitarismo come evento -come sia potuto
succedere?- filtra la domanda sull’eclissi del politico.
Andrè Enégren scrive: «In un certo senso il tota-
litarismo disegna in cavo tutto ciò che conferisce ri-
lievo al politico arendtiano: alla chiusura radicale di
un dominio senza incrinature, la Arendt oppone uno
schema normativo senza governanti né governati al
cui interno viene riconosciuto il diritto di ciascuno ad
agire, giudicare e decidere in comune; al flusso totali-
tario che sradica e livella, lei risponde con una rifles-
sione incentrata sulla stabilità della legge che stabili-
62
sce il potere, sull’autorità come memoria capace di fis-
sare la politica nella permanenza di un mondo diffe-
renziato. Mentre il totalitarismo si affida a una logica
inflessibile sempre pronta a riassorbire gli eventi in
un ordine superiore, essa dà la fiducia al visibile, al-
l’opinione e al giudizio che, solo, consente di tenere
testa alla dissoluzione della tradizione».62
La Arendt legge il fenomeno totalitario come assoluta
eccezionalità, in qualche modo reso possibile, ma non ne-
cessario, da tutti i rovesciamenti a catena, natura e società,
politica e storia, che insieme oppongono e legano la moder-
nità alla tradizione classica. Il totalitarismo nasce con la
modernità, ma non come qualcosa di originariamente in-
scritto nel suo patrimonio genetico, come esito predetermi-
nato; piuttosto è il prodotto di una serie di opzioni soggetti-
ve che convergono su di una contrazione ed uno schiaccia-
mento del ‘politico’ su altre modalità del «fare»: il sistema
totalitario è estraneo alla vita politica autentica.
62 A. Enegrén, Il pensiero politico di Hannah Arendt, Roma, EdizioniLavoro, 1987.
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63
2. L’ antisemitismo politico e la questione ebraica.
Perché iniziare un’opera politica con un’analisi
sull’antisemitismo, le sue origini, le sue sfaccettature,
i suoi esiti, catastrofici, per un popolo, quello ebreo,
che mai si è occupato di politica e che storicamente è
stato considerato ‘apolide’?
La Arendt considera l’antisemitismo come l’ideo-
logia laica del sec. XIX e l’originale prospettiva con
cui tale fenomeno è analizzato le permette di mettere
alla prova ciò che va via via elaborando intorno alla
autonomia e al primato dell’agire politico. Il popolo
ebraico, caso storico concreto, diviene simbolo del-
l’alienazione dell’uomo nel mondo moderno perché
l’esperienza dell’esilio lo ha privato di uno spazio pub-
blico per l’azione. E’ popolo senza governo, senza
paese, senza lingua.
La condizione ebraica porta a riflettere su quel-
l’irriducibile unicità che è inerente alla condizione della
nascita, unicità intesa come tradizione culturale, ap-
64
partenenza etnica, fede religiosa, che deve poi con-
durre a trascendere la propria singolarità nel conse-
guimento di fini condivisi.
E’ sottesa una ricerca filosofica che sarà presente
in modo più evidente nelle opere della maturità, vale a
dire l’individuazione di uno spazio politico che sia
comune a tutti gli uomini, in cui le aspirazioni ebrai-
che all’emancipazione possano integrarsi con l’aspi-
razione di tutti i popoli all’autodeterminazione. Allo-
ra l’ebraismo diviene simbolo della ribellione univer-
sale nei confronti dell’oppressione.
Nella biografia di Rahel Varnhagen,63 i cui primi
capitoli vennero scritti nel 1933, anno di fuga della
63 H. Arendt, Rahel Varnhagen. The Life of a Jeweness, East and WestLibrary (for the Leo Baeck Institut of a Jews from Germany), London1957; trad. it., Rahel Varnhagen. Storia di un’ebrea, a cura di L. RitterSantini, Milano, Il Saggiatore, 1988. Il libro fu pubblicato nel 1957 ininglese su iniziativa del Leo Baeck Institut; nel 1959 uscì in edizionetedesca presso Piper. Il manoscritto, fatta eccezione per gli ultimi duecapitoli, era già pronto nel 1933 quando la Arendt dovette lasciare laGermania. Nel 1938 venne completato per l’insistenza di HeinrichBlücher e Walter Benjamin.
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65
Arendt dalla Germania nazista, mentre gli ultimi tre
verso il 1938, quando la Arendt si era rifugiata in Fran-
cia, è presente un’acuta critica all’assimilazione per la
difesa della tradizione e dell’autonomia di ciascun
popolo, e non solo quello ebraico, sottolineando che
in un mondo civile l’uguaglianza giuridica e politica
dei gruppi non può che essere indiscutibile.
La Arendt rifiuta l’assimilazione come possibili-
tà di integrazione degli ebrei nel corpo della nazione.
Essa ha indotto alla perdita della propria identità, dei
valori religiosi, della tradizione.
In Le origini del totalitarismo, mostra come l’an-
tisemitismo, che non è un nazionalismo latente, per-
ché la sua espansione coincide con la crisi dello Stato-
nazione, sia stato il prodotto di un progetto storico e
sociale determinato a cui ha contribuito il generale
declino delle comunità ebraiche dell’Europa centro-
occidentale ed anche quella perenne indecisione degli
ebrei di essere un «elemento non nazionale in un si-
stema di stati nazionali», di essere un parvenu piutto-
66
sto che un libero pariah, di non trovare un equilibrio
tra vita pubblica ed esperienza interiore.
Già alla fine del Settecento64 si distingueva una mas-
sa di paria e piccole comunità ricche e privilegiate.
Paria, secondo la Arendt, sono quell’insieme di
gente che vive un’esclusione politica e sociale, senza
per questo essere degradata sul piano morale come,
invece, aveva sostenuto Nietzsche in Genealogia del-
la morale, dove paria è l’individuo formato alla mora-
le del risentimento e della ipocrisia. L’accettazione
64 Sulla nascita della «questione ebraica» in epoca illuministica, cfr. H.Arendt, Aufklärung und Judenfrage, trad. it. Illuminismo e questione ebrai-ca, in «Il Mulino», XXXV, 1986, n. 3, pp. 421-437. Cfr. A. Dal Lago, Intro-duzione ad H. Arendt, La vita della mente, Bologna, Il Mulino, 1987. Sullosviluppo di una filosofia ebraica «che non sarebbe stata tale perché dovutaalla creatività di pensatori ebrei, ma perchè sarebbe stata rivolta a costruire isuoi edifici concettuali sulle fondamenta della tradizione ebraica e non avreb-be nascosto la sua intenzione di servirsi dei suoi concetti per ridefinire ilineamenti dell’identità ebraica» vedi G. Lissa, Filosofia ebraica oggi, in«Rivista di storia della filosofia», n. 4, 1994. Lissa, a partire dall’analisidella situazione ebraica fatta dalla Arendt in Le origini del totalitarismo,mette in evidenza come esista un rapporto imprescindibile tra la tradizioneebraica e la sua potenza dominante, la religione, rapporto su cui si gioca ildestino stesso dell’identità ebraica.
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67
dell’ebreo era sul piano della ‘eccezione’, o per ric-
chezza o per sapere, come persona ‘particolare’, giac-
ché come popolo sarebbe stato disprezzato.
L’ebreo di corte, ad esempio, era il finanziatore
della corona, deteneva privilegi un tempo prerogativa
solo della nobiltà. Poteva portare armi, scegliere la
residenza, viaggiare e spostarsi secondo il proprio pia-
cere, ovunque era protetto dalle autorità locali. Poteva
contrarre matrimonio con la nobiltà, sebbene le eredi-
tiere ebree con la loro dote non facevano che rimpin-
guare il patrimonio dei nobili rampolli. Questo ruolo
super partes, mediatore senza rappresentanza politi-
ca, cominciò a vacillare quando, dopo il 1791, si ot-
tenne la parità giuridica. Anzi, quanto più fu ricono-
sciuta la parità giuridica tanto più aumentò la discri-
minazione sociale.
L’aristocrazia fu il primo gruppo sociale a diven-
tare antisemita, considerando gli ebrei il prototipo del
borghese egualitario e moderno. Ancora più radicale
fu la posizione della borghesia che identificava l’ebreo
68
con il banchiere, parassita della miseria e delle soffe-
renze, in stretto rapporto con il potere centrale. La
borghesia, inoltre, detestava la capacità degli ebrei di
essere mediatori di pace e di intervenire di conseguenza
nelle relazioni di politica internazionale. Il tedesco W.
Rathenau, che aveva cercato di ottenere condizioni di
pace, dopo la prima guerra mondiale, piuttosto favo-
revoli per la Germania grazie al riconoscimento inter-
nazionale delle sue capacità di statista, venne ucciso
da un antisemita. Agli occhi dei borghesi antisemiti
sembrava che gli ebrei governassero i troni di nasco-
sto e che fossero i registi di una trama cospiratoria in-
ternazionale.
Tale teoria che era stata espressa nel testo La congiu-
ra dei saggi di Sion, un falso a cui avevano creduto in
molti e che venne usato da Hitler come ulteriore convali-
da delle sue tesi sulla razza. Ogni volta che un gruppo
nazionale o una classe entrava in conflitto con il potere
centrale dello stato, invece di attaccare direttamente que-
sto, aggrediva gli ebrei. Sfiorando il sociologico, la Aren-
69
dt descrive l’antisemitismo del liberale austriaco Schoe-
nerer, di Lueger, capo del partito cristiano-sociale, e del
cappellano tedesco Stoecker, per indicare non solo che in
Austria e in Germania si stava diffondendo l’antisemiti-
smo più forte e virulento ma come in esso si confondesse
nei conflitti di nazionalità sia da parte dei democratici che
da parte dei liberali.
In effetti, la spinta antisemita aveva travolto an-
che partiti altrove più vigilanti, fatta eccezione dei
partiti operai e di sinistra, che, presi dalla lotta di clas-
se contro la borghesia, si disinteressavano di politica
estera.
La Arendt sottolinea che, oltre a cause strettamente
politico-economiche, sociologiche e ideologiche, al-
l’antisemitismo contribuiva anche quella considerazio-
ne da parte degli ebrei di essere il popolo eletto, ipote-
si che si fondava sull’idea che il Messia sarebbe venu-
to per la salvezza di tutti i popoli. Tale tesi, tuttavia,
nel corso storico, aveva perso ogni carattere universa-
listico.
70
Con la formazione degli stati nazionali nel XVI
secolo, gli ebrei si erano definiti come gruppo con un
forte senso di appartenenza e del privilegio. Ed in que-
sto è consistito l’errore politico: 1) l’essersi conside-
rati popolo superiore, non riuscendo, tuttavia, a coesi-
stere con la propria identità, perché al di là di uno spa-
ruto gruppo di privilegiati il resto era una massa di
paria, 2) l’ essersi disinteressati della politica, soprat-
tutto della rivendicazione dei propri diritti, creando un
potere economico sul vuoto politico.
La Arendt fa suo lo schema analitico di Tocqueville,
che nell’opera L’Ancien Régime et la Révolution descrive
la crisi della nobiltà alla fine dell’antico regime.
I nobili furono attaccati ed odiati quando persero
le loro funzioni, soprattutto quelle militari, erano ric-
chi ma senza alcuna funzione sociale. Lo stesso era
per gli ebrei: essi attiravano odio in particolare per il
loro disinteresse politico.
L’assenza di una rappresentanza di potere ricono-
sciuta in seno allo stato, l’impotenza e la conseguente
71
‘innocenza politica’ aveva impedito agli ebrei di capi-
re come l’ostilità sociale sarebbe presto confluita in
tragedia.
Non aveva alcuna validità la tesi del capro espia-
torio né l’antigiudaismo: il problema era essenzialmen-
te politico.
La differenza andava ‘protetta’; assumere la do-
lorosa identità del paria era l’unica strada per confer-
mare la propria presenza al mondo. E il politico anda-
va distinto dal sociale.
Il sociale avanza un’ipotesi di uniformità perché
spinto da pulsioni privatistiche, concepisce il diverso
come il nemico. L’uguaglianza politica non è l’ugua-
glianza sociale, né si può dar luogo ad un suo perver-
timento.
«Le moderne società di massa offrono innumere-
voli esempi della facilità con cui si scambia l’egua-
glianza per una qualità innata di ciascun individuo,
che viene definito “normale” quando è come gli altri e
“anormale” quando se ne differenzia. Questo perver-
72
timento di un concetto politico è particolarmente peri-
coloso quando la società lascia alle differenze uno spa-
zio relativamente esiguo, dando così luogo ad una
quantità di conflitti».65
Analizzando il caso Dreyfus, ad esempio, la Aren-
dt mette in rilievo come dal sociale si fosse presto pas-
sati alla strumentazione politica. Contro l’ebreo spio-
ne e traditore non solo si erano mobilitati i membri
dell’esercito che rifiutavano un ebreo nello stato mag-
giore, ma anche il clero, che mal tollerava la diversa
confessione tra gli ufficiali.
Sul piano politico nacque il conflitto: essere anti-
dreyfusardi significava essere antidemocratici e anti-
repubblicani, contrari all’uguaglianza giuridica e po-
litica che prima la rivoluzione francese poi la Terza
Repubblica avevano consacrato. Gli ebrei, che cerca-
vano di far prevalere la tesi dell’errore giudiziario,
continuavano a non capire il terreno di scontro.
65 H. Arendt, Le origini del totalitarismo, cit.
______________________________
73
In Francia e negli altri stati europei, per lungo tem-
po si discusse del caso Dreyfus: da una parte erano
schierate le forze progressiste, dall’altra quelle con-
servatrici di estrema destra, antisemite e antidemocra-
tiche. La xenofobia, di cui pure si alimentava l’antise-
mitismo francese, resto qualcosa di inoffensivo. Solo
Céline, che nel 1937 aveva pubblicato Bagattelles pour
un massacre e nel 1938 L’école des cadavres, raggiun-
se la paranoia incitando al massacro degli ebrei rite-
nuti diabolicamente responsabili di ogni male. Comun-
que, la conseguenza più importante dell’affare Dreyfus
fu la nascita del movimento sionista ad opera del gior-
nalista austriaco T. Herzl, «l’unica risposta politica che
gli ebrei seppero trovare al movimento antisemitico e,
insieme, l’unica loro ideologia che prese sul serio quel-
l’ostilità che li avrebbe spinti al centro degli avveni-
menti mondiali».66
66 Ibidem, p. 168.
______________________________
74
3. La nuova ideologia degli Stati-Nazione europei
in crisi: l’imperialismo come preludio politico
ai movimenti totalitari.
La questione degli apolidi e il valore dei diritti umani.
Le fila dell’opera sono tenute insieme da un uni-
co tema centrale: la storia della dissoluzione dello Sta-
to-nazione in aggregati di uomini «superflui».
Antisemitismo e imperialismo, risultato di prati-
che non democratiche, pur se delimitati in modo esclu-
sivo, sono perciò intimamente connessi.
Riassunto nello slogan «l’espansione per l’espan-
sione», l’imperialismo è analizzato come una nuova
forma di colonialismo, ben diverso dal precedente
(1500-1700) che si limitava a trarre il massimo delle
ricchezze dalle colonie. Esso fu essenzialmente una
politica di potenza di matrice economica, che diede
luogo ad un processo distruttivo delle società nazio-
nali inarrestabile, preludio dei fenomeni totalitari del
XX secolo.
75
La Arendt associa al fenomeno ragioni di tipo eco-
nomico, sostenendo che era stata la crisi economica
degli anni ‘60 e ‘70 a spingere gli uomini di affari ad
occuparsi di politica internazionale. Si era verificata
«una sovrapproduzione di capitale che, non potendo
più trovare un investimento produttivo entro i confini
nazionali, costituiva una massa di denaro “superfluo”.
Per la prima volta gli strumenti del potere politico,
anziché aprire la via, seguirono supinamente il denaro
esportato».67
Gli uomini dell’imperialismo erano persuasi che
politica ed economia non erano disgiunte, anzi aveva-
no posto la seconda al servizio della prima. Perché ci
fosse espansione economica continua occorreva il so-
stegno del potere politico. E la politica fu essenzial-
mente politica economica.
E’ in questo, secondo la Arendt, che si realizza
l’emancipazione politica della borghesia, nel senso che
67Ibidem, p. 188.
______________________________
76
se fino ad allora l’interesse prioritario era la conquista
economica senza aspirare al dominio politico, adesso
la borghesia tentava di usare lo stato e i suoi strumenti
di violenza per l’espansione dei suoi interessi econo-
mici, indebolendo così la posizione dei finanzieri in
genere, in particolare quelli ebrei.
La Arendt, tuttavia, non tiene conto che già al-
l’epoca del mercantilismo la classe borghese si era in-
teressata della politica economica degli stati. Ciò che
si ebbe nell’Ottocento, semmai, fu l’opinione che ef-
fettivamente il potere politico potesse proteggere gli
interessi economici di uno stato, in modo particolare
nelle colonie.
La definizione che la Arendt tenta di dare dell’im-
perialismo si rifà alle tesi della sinistra marxista, Rosa
Luxemburg in particolare, la quale, secondo la teoria
del sottoconsumo, riteneva che, per essere assorbita la
produzione corrente in modo integrale, poiché la clas-
se lavoratrice non poteva avere un alto potere di ac-
quisto per le sue miserevoli condizioni, occorreva una
77
«terza persona», un compratore esterno al sistema ca-
pitalistico. A fianco, cioè, del mondo capitalistico, era
necessaria l’esistenza di un mondo non capitalistico
perché il sistema del primo non si inceppasse.68
E’ la logica degli sviluppi ineguali di cui aveva
parlato anche Lenin in modo più complesso e critico.
Un contributo sicuramente decisivo, tuttavia, per
la Arendt, sono state le analisi del liberaldemocratico
Hobson e del socialdemocratico Hilferding: quest’ul-
timo, con il quale converge anche Kautsky, considera-
va il fenomeno come una politica del capitalismo.
Nel segno di una apparente razionalità, l’imperia-
lismo aveva promosso l’espansione geografica secon-
do una crescita economica che era l’immediato rifles-
so dell’accumulazione capitalista illimitata.
«Annetterei i pianeti, se potessi» era solito dire
Cecil Rhodes, quasi a suggello della nuova politica
mondiale.
68 R. Luxemburg, Die Akkumulation des Kapitals, Berlin, Singer, 1913;trad. it. L’accumulazione del capitale, Milano, Feltrinelli, 1976.
______________________________
78
Espansione acquisiva il significato di continuo
ampliamento della produzione industriale e delle tran-
sazioni economiche.69
Si trattava di un concetto non politico, tanto è
vero che l’obiettivo degli imperialisti era quello di
ampliare la sfera di potere, potere economico in pri-
mo luogo, senza creare un corrispondente corpo po-
litico.
Era il caso, ad esempio, dei francesi che trattaro-
no l’Algeria come una provincia del territorio metro-
politano senza imporre le loro leggi alla popolazione
araba, creando un ibrido per cui il territorio era nomi-
nalmente francese, giuridicamente parte integrante
della Francia, uno dei suoi dipartimenti, ma gli abitan-
ti non erano cittadini francesi, anzi, vennero conside-
rati quella «force noire» che doveva proteggere la Fran-
cia, o, per dirla con il Poincaré, era «carne da canno-
ne, ottenuta con metodi di produzione di massa».70
69 H. Arendt, Le origini del totalitarismo, cit., p. 175.70 Ibidem, p. 180.
______________________________
79
Anche l’Inghilterra, per il fatto di essere uno stato
nazionale, non creò mai un «Commonwealth of Na-
tions» nel senso dell’assimilazione e incorporazione
dei popoli sottomessi, ma «una nazione sparsa nelle
varie parti del mondo».71
L’esempio irlandese decretò il fallimento della
politica estera inglese perché con il riconoscimento
dello status di dominion si era ravvivato lo spirito di
resistenza nazionale dell’Irlanda.
L’imperialismo, quindi, creò una pericolosa con-
traddizione tra la struttura dello stato nazionale e la
politica di conquista, perché «dovunque si è presenta-
to nella veste di conquistatore, ha infatti destato la
coscienza nazionale e la volontà d’indipendenza del
popolo vinto, mandando a monte il tentativo di co-
struzione di un impero duraturo».72
Diversamente accadde nell’antica Roma, per la
quale la Arendt esprime la sua ammirazione: tipica-
71 Ibidem, p. 178.72 Ibidem, p. 177.
______________________________
80
mente romana era quella capacità di esportare il dirit-
to, collante tra popoli diversi ma egualmente ricono-
scentisi come cittadini romani, nonché perno della cre-
azione di un impero stabile e duraturo.
L’imposizione di una legge comune permetteva
l’uguaglianza giuridica e il diritto alla cittadinanza di
popoli eterogenei, favorendo l’integrazione, laddove
lo stato nazionale, che si basava sul consenso attivo di
una popolazione omogenea, in caso di conquista, im-
poneva il consenso cercando di assimilare, degeneran-
do talora molto velocemente in tirannide.
Gli imperialisti non avevano, quindi, esportato la
legge, bensì il dominio.
La prima conseguenza fu l’esportazione del rule
by force, il governo mediante la forza, che sostituì la
fondazione del corpo politico.
«Violenza, la polizia e le forze armate, che nel-
l’ambito della nazione erano soggette al controllo del-
le autorità civili, si arrogarono le prerogative di rap-
presentanti nazionali nelle colonie, dove erano state
81
dislocate come custodi del capitale investito. Qui in
regioni arretrate senza industrie e organizzazione po-
litica, dove la violenza aveva più libertà d’azione che
in qualsiasi paese occidentale, si consentì alle cosid-
dette leggi del capitalismo di diventare realtà».73
Lontano dal potere delle leggi, lontano da quella
funzione costituzionale che è loro propria, l’esercito e
la polizia diventano strumenti di violenza dalla forza
incontrollabile. Si era violato uno dei principi fonda-
mentali dello stato costituzionale.
Scambiando espansione per conquista, inoltre, gli
imperialisti governavano, piuttosto che per leggi, per
ordinanze e decreti.
La confusione tra potere esecutivo e legislativo -
in effetti le ordinanze e i decreti erano atti del potere
esecutivo- dava luogo nelle colonie all’arbitrarietà e
all’arroganza dei funzionari, i quali preferivano che
«l’africano restasse africano»74 per salvaguardare i
73 Ibidem, p. 190.74 Ibidem, p. 182.
______________________________
82
propri affari laddove le leggi, invece, avrebbero ga-
rantito la legittimità del riconoscimento paritario tra
coloro che erano sottomessi al medesimo governo.
Pertanto le istituzioni democratiche esistenti erano
pericolose perché, come si legge da un discorso di Lord
Cromer in parlamento, non si poteva governare «un
popolo per mezzo di un altro popolo, il popolo india-
no per mezzo del popolo inglese».75
«La burocrazia era un governo di tecnici, una
“minoranza esperta”, che doveva resistere alla costan-
te pressione della “maggioranza inesperta”»,76 il po-
polo, a cui non era possibile affidare la cura dell’am-
ministrazione delle colonie.
I funzionari erano abilmente manipolati dagli uo-
mini di affari, non avevano idee politiche generali né
erano eccessivamente patriottici, anzi, le loro qualità
erano la segretezza, l’anonimato, il potere da eminen-
za grigia.
75 Ibidem, p. 298.76 Ibidem, p. 298.
______________________________
83
Gli uomini dell’imperialismo erano individui ‘de-
classati’, senza un’effettiva funzione sociale, alienati
dal corpo sociale, parassiti senza identità che si appas-
sionarono all’avventura imperialista pensando di po-
ter gestire un potere assoluto o segreto. «L’alleanza
plebe e capitale è all’origine di ogni coerente politica
imperialista».77
La Arendt chiarisce che non bisogna confondere
la plebe né con il proletariato industriale, né con il
popolo nel suo insieme: essa è formata dagli scarti di
tutte le classi sociali, è «una massa di persone priva di
qualsiasi principio e numericamente così forte da su-
perare la capacità dello stato di occuparsene».78
Direttamente prodotta dalla borghesia, con que-
sta rivela una profonda affinità sul piano politico,
lontana da ipocrisie e falsi valori e fortemente en-
tuasiasta delle teorie razziali che escludevano in li-
nea di principio l’idea di umanità e ogni possibile
77 Ibidem, p. 216.78 Ibidem, p. 219.
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84
relazione con il diverso, il selvaggio, che non fosse
di mera sudditanza.
Per dare meglio un quadro degli uomini dell’im-
perialismo, la Arendt cita alcuni esempi, da Lawrence
d’Arabia a Lord Cromer fino ai personaggi dei romanzi
di Kipling e di Cuore di tenebra di Conrad.
Quello che le preme sottolineare, in effetti, è che
erano uomini annoiati o falliti nel loro paese di origi-
ne di cui avevano rifiutato i valori e pronti a tutto nelle
colonie per conquistare un’identità e condizioni di vita
soddisfacenti.
I tratti distintivi dell’imperialismo, dunque, sono
1) le teorie razziste, che sostituirono la razza alla na-
zione come base della struttura politica, e 2) l’orga-
nizzazione burocratica, che ne fu lo strumento.
Il razzismo come strumento di dominio venne usa-
to, ancor prima che l’imperialismo lo definisse come
idea politica, dai boeri nel Sudafrica, i quali, emigrati
intorno al XVII secolo dall’Olanda, ripudiarono l’ethos
europeo e, vivendo in un ambiente che non erano in
85
grado di trasformare, non trovarono altro valore più
alto che in se stessi. Essi si considerarono individui
più che umani, scelti da Dio per essere gli dei del po-
polo nero, inferiore non tanto per il colore della pelle
quanto per ragioni economiche: a stretto contatto con
la natura, gli indigeni non avevano creato né modifi-
cato il mondo e la realtà umana. Con la scoperta di
giacimenti auriferi e diamantiferi, il Sudafrica fu terra
di investimento per i finanzieri ebrei, i quali divenne-
ro immediatamente bersaglio di odio antisemita da
parte dei boeri per il pericolo di innovazioni nella loro
società razziale. Essi erano potenziali elementi desta-
bilizzanti presso una comunità che temeva fanatica-
mente l’industrializzazione del paese.
Il Sudafrica ebbe una particolare influenza sui
popoli europei: «insegnò alla plebe quel che essa ave-
va vagamente presentito, che bastava la mera violenza
per creare a piacimento strati inferiori o sfruttati, che a
tale scopo non occorreva neppure una rivoluzione, ma
si poteva contare sull’aiuto di certi gruppi delle classi
86
dominanti, e infine che i popoli stranieri o arretrati
offrivano la migliore occasione per l’ascesa nella so-
cietà».79
Se Hobbes poteva essere ritenuto il teorico ante-
signano della politica imperialista, alcuni nobili fran-
cesi del Settecento avevano creato i prodromi per le
teorie razziste che vennero messe in atto nel corso del
Novecento. Il conte de Boulainvilliers, ad esempio,
aveva sostenuto che la nobiltà francese era di origine
germanica e che aveva conquistato la terra di Francia,
ora depredata da quell’alleanza della monarchia con il
terzo stato.
Nessuno avrebbe mai sospettato che si preparava
la guerra civile, quella rivoluzione che rivendicava
eguali diritti civili per i cittadini di tutta la nazione
francese. L’aristocrazia, in effetti, affermava la sua
superiorità per un’azione di conquista e non già per
fattori biologici.
79 Ibidem, pp. 287-288.
______________________________
87
Diversamente fu per la Germania.
Il pensiero razzista tedesco nacque, secondo la
Arendt, dopo la disfatta dei prussiani da parte di Na-
poleone. Si cercò di fare appello ad un generico senti-
mento di nazione per rafforzare l’unità interna di un
popolo che si riconosceva dapprima nell’unità lingui-
stica, poi nelle teorie fondate sulla razza, poiché man-
cava sia l’unità territoriale sia la memoria storica. Fu-
rono i razzisti tedeschi che identificarono il popolo
con la razza, idealizzando sulla scia romantica il Me-
dioevo e il Sacro Romano Impero.
Accanto a queste analisi storico-comparative, di
cui marcato è il tono sociologico, la Arendt menziona
anche la portata delle teorie eugenetiche e del darwini-
smo sociale, con cui si negava l’origine unica e bibli-
ca dell’uomo.
Se l’imperialismo coloniale, comunque, aveva
minato la stabilità della politica estera degli Stati eu-
ropei, creando una dicotomia tra governo metropoli-
tano e colonie, è l’imperialismo continentale, soste-
88
nuto dai movimenti panslavisti e pangermanisti, che
disintegrerà internamente la struttura dello Stato-na-
zione.
L’imperialismo continentale fu proprio dell’area
orientale dell’Europa, di quegli Stati che non avevano
partecipato all’espansione geografica d’oltremare e
che, secondo una soluzione di continuità geografica,
pretendevano di creare colonie sul continente.
«L’imperialismo continentale ebbe realmente ini-
zio in patria».80
Esso esprimeva esigenze nazionali, contrapponen-
do all’economia «un’ “ampliata coscienza etnica” che
si supponeva unisse tutte le persone della stessa origi-
ne etnica, indipendentemente dalla storia, dalla lingua
e dal luogo di residenza».81
Questa sorta di nazionalismo tribale, come spre-
giativamente è definito dalla Arendt, aveva in comune
con l’imperialismo coloniale il razzismo, inteso come
80 Ibidem, p. 312.81 Ibidem, p. 312.
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89
rifiuto del diverso, inferiore e sottoposto, e la burocra-
zia, ampiamente descritta da Kafka nei suoi romanzi.
Esso aveva fatto sue le teorie razziali distinguen-
do non più tra pelle bianca o bruna, bensì tra anima
ariana e non ariana; aveva fatto della nazionalità una
qualità permanente proclamando l’origine divina del
proprio popolo; si era proclamato indipendente dal ter-
ritorio osteggiando tutti gli organismi statali esistenti
e identificando il cittadino con il membro del gruppo
nazionale.
Pur mancando di un preciso programma politico,
centrale nella sua ideologia divenne l’antisemitismo
come se fosse una visione generale del mondo, isolan-
do così l’odio ebraico da ogni concreta esperienza
politica, sociale ed economica.
Il nazionalismo tribale nacque in un’atmosfera di
profondo sradicamento.
Panslavisti e pangermanisti si riconoscevano non
già per avere una patria territorialmente e giuridica-
mente definita, bensì come ‘tribù’.
90
In questo senso, sottolinea la Arendt, il popolo si
riconosce in quanto massa, orda in movimento, e la
sua forma di rappresentanza non poteva più essere il
partito ma il movimento stesso.
I partiti, in effetti, mediavano nella vita politica di
un paese, ma non si era dimostrati efficaci, poiché,
molto più legati al potere che a ideali democratici e
parlamentari, si erano macchiati di abusi e corruzione
escogitando giustificazioni ideologiche che facevano
coincidere interessi privati con quelli più generali del-
l’umanità. Il risultato fu il progressivo allontanamen-
to dal governo delle masse, sempre più antiparlamen-
tari e antidemocratiche, anzi, proprio per il clima di
sfiducia che si era venuto a creare veniva richiesta la
presenza di un dittatore come guida del paese.
La Arendt affronta su un piano comparativistico
la questione della disgregazione dei partiti, che è, in
fondo, la disgregazione dello Stato-nazione nel senso
della perdita dei valori democratici e parlamentari,
nonché del diritto alla cittadinanza.
91
Lo svolgimento è stato ben diverso nei paesi del-
l’Europa occidentale rispetto a quella orientale. In In-
ghilterra, ad esempio, il sistema rappresentativo era
solido grazie al bipolarismo, all’alternanza dei due
partiti al potere; mentre in Germania lo Stato «sviri-
lizzava»82 i partiti, nel senso che «il sistema tedesco
faceva del parlamento un campo di battaglia di inte-
ressi e di opinioni contrastanti, la cui funzione pratica
per la direzione degli affari statali era estremamente
discutibile».83
L’antagonismo stato-società venne poi spazzato
via dai seguenti movimenti totalitari.
La crisi interna allo Stato-nazione viene acuita
dalla situazione degli ‘apolidi’, gli Heimatlose, grup-
pi che con la guerra del 1914 erano emigrati da un
paese ad un altro privati dei diritti umani garantititi
dalla cittadinanza, condannati all’ apolidicità come
‘schiuma della terra’.
82 Ibidem, p. 357.83 Ibidem, p. 357.
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92
Cechi, sloveni, ebrei, russi bianchi e altre mino-
ranze costrette allo spostamento territoriale per la ca-
duta dell’Impero russo, austro-ungarico e ottomano,
erano unicamente tutelati per una serie di trattati inter-
nazionali, i Minority Traties, spesso rimasti pura enti-
tà astratta.
In molti Stati europei, inoltre, erano state intro-
dotte leggi che permettevano la denazionalizzazione e
la denaturalizzazione; il primo provvedimento venne
preso in Francia già nel 1915 in relazione ai cittadini
naturalizzati provenienti da un paese nemico; poi nel
1922 il Belgio annullava la naturalizzazione delle per-
sone che avevano commesso atti antinazionali duran-
te la guerra; nel 1926 in Italia il regime di Mussolini
emanò una legge analoga per quei cittadini che si era-
no mostrati «indegni della cittadinanza italiana o rap-
presentavano una minaccia per l’ordine pubblico»;
l’Austria nel 1933 per chi avesse commesso azioni
ostili nei suoi confronti e via via fino al 1935 quando
con le leggi di Norimberga la Germania distinse i te-
93
deschi in cittadini a pieno titolo e cittadini senza diritti
politici.84
La Arendt, considerando l’apolidicità un fenome-
no di massa tutto contemporaneo, tiene a precisare la
differenza tra minoranze e apolidi.
«Le minoranze erano senza stato solo a metà; al-
meno de jure appartenevano a un organismo statale,
anche se avevano bisogno di una protezione supple-
mentare e di speciali garanzie per godere di certi dirit-
ti. (...) Le minoranze potevano essere considerate come
un fenomeno eccezionale, proprio di determinati ter-
ritori che deviavano dalla norma».85
E i trattati sulle minoranze dicevano quello che
già era implicito nel sistema degli stati nazionali, cioè
che solo l’appartenenza alla nazione dominante dava
veramente diritto alla cittadinanza e alla protezione
giuridica, per cui i ‘gruppi allogeni’ erano soggetti solo
84 Ibidem, nota p. 387 e ss. Cfr. anche G. Agamben, Mezzi senza fini.Note sulla politica. Torino, Bollati Boringhieri, 1996.85 Ibidem, p. 384.
______________________________
94
a leggi eccezionali fino a quando non si compiva l’as-
similazione. A tutela era stata creata la Lega delle na-
zioni.
Gli apolidi, invece, erano stati privati della citta-
dinanza, nel senso che «essa presupponeva una strut-
tura statale che, se non ancora completamente totalita-
ria, non tollerava alcuna opposizione e preferiva per-
dere dei cittadini piuttosto che albergare nel suo seno
dei dissenzienti».86
Quanto fosse perverso questo meccanismo e quan-
to sia attuale, viene sottolineato dalla Arendt investen-
do della sua critica anche il paese democratico per
antonomasia, gli Stati Uniti, allorquando si era creata
la possibilità, durante il periodo maccartista, di priva-
re della cittadinanza gli americani comunisti.
La perdita della cittadinanza è quanto di più of-
fensivo si possa fare ad un uomo, agli uomini, perché
significa la privazione di uno spazio pubblico di rico-
86 Ibidem, p. 387.
______________________________
95
noscimento, di un agire politico di concerto che dia
peso alle opinioni e alle azioni e che, secondo la Aren-
dt, può realizzare quella dignità di essere-uomini.
In questo senso vengono messi in questione gli
stessi diritti dell’uomo ritenuti inalienabili dalla Di-
chiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del
1789, con cui, per l’appunto, si è creata la perfetta coin-
cidenza di uomo e cittadino.
L’apolide segna la crisi di questo rapporto e, di
riflesso, anche la crisi dello Stato-nazione perché vie-
ne meno quella triade Stato-nazione-territorio, quindi
lo stesso concetto di sovranità.
Rimedi furono considerati il diritto all’asilo, il rim-
patrio e la naturalizzazione, ma nessuno di questi fu
storicamente e politicamente adeguato.
Gli apolidi furono costretti, infatti, ad un’esisten-
za crepuscolare.
La Arendt prende così una posizione netta e pre-
cisa anche rispetto al problema palestinese, quando,
cioè, venne creato in Palestina lo Stato d’Israele.
96
Sembrava, infatti, che la questione ebraica non
dovesse avere una risoluzione, eppure venne affronta-
ta con la colonizzazione e la conquista di un territorio,
producendo, non a caso, una nuova categoria di apoli-
di, i profughi arabi.
Quella degli apolidi è una nuova categoria da cui
ripensare la comunità politica e la stessa figura di po-
polo. E’ come una maledizione che accompagna «il
sorgere di nuovi stati, fondati sulla falsariga dello sta-
to nazionale. Questa maledizione contiene i germi di
una malattia mortale per i nuovi organismi. Perché lo
stato nazionale non può esistere una volta infranto il
principio di uguaglianza di tutti di fronte alla legge.
Senza questa uguaglianza, che in origine era destinata
a sostituire i vecchi ordinamenti della società feudale,
esso si dissolve in una massa anarchica di privilegiati
e di diseredati. Le leggi che non sono uguali per tutti
danno luogo a privilegi, qualcosa che contrasta con la
stessa natura dello stato nazionale. Quando questo non
è in grado di trattare gli apolidi come soggetti politici
97
e lascia ampio campo d’azione all’arbitrio delle misu-
re poliziesche difficilmente resiste alla tentazione di
privare tutti i cittadini del loro status e di governarli
con una polizia onnipotente».87
Secondo tale prospettiva, potremmo dire che sia il
capitolo sull’Antisemitismo che quello sull’Imperialismo
altro non sono che una continua ricerca, da parte della
Arendt, delle ragioni della perdita dell’identità individua-
le e collettiva da parte della comunità politica occidentale.
L’errore è stato quello di non aver trovato nulla di
sacro nell’astratta nudità dell’essere nient’altro-che-
uomo.88
«La nostra vita politica si fonda sul presupposto
che possiamo instaurare l’eguaglianza attraverso l’or-
ganizzazione, perché l’uomo può trasformare il mon-
do e crearne uno di comune, insieme coi suoi pari e
soltanto con essi».89
87 Ibidem, p. 402.88 Ibidem, p. 415.89 Ibidem, p. 417.
______________________________
98
La messa la bando e la riduzione dell’uomo a mera
esistenza ha strappato ogni legame del singolo con
l’umanità, ha impedito il rispetto della pluralità e il
riconoscimento che l’uguaglianza dei popoli è solo, e
non può essere che solo giuridica, «risultato dell’or-
ganizzazione umana nella misura in cui si fa guidare
dal principio di giustizia. Non si nasce uguali; si di-
venta uguali come membri di un gruppo in virtù della
decisione di garantirsi reciprocamente eguali diritti».90
Ciò che è andato storto nella politica, e che ha
dato corpo all’evento totalitarismo, è stato la confu-
sione tra sfera pubblica e sfera privata, lo schiaccia-
mento del politico sul sociale, la perdita dello spazio
pubblico dell’azione.
90 Ibidem, p. 417 e ss.
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CAPITOLO TERZO
LA CATEGORIA ‘TOTALITARISMO’
«Indietro, via di qui, gente sommersa,Andate. Non ho soppiantato nessuno,Non ho usurpato il pane di nessuno,
Nessuno è morto in vece mia. Nessuno.Ritornate alla vostra nebbia.
Non è mia colpa se vivo e respiroe mangio e bevo e dormo e vesto panni».
(Levi, Il superstite, 1984)
Che cosa resta? Resta la lingua materna.(H. Arendt)
100
1. Il mutato sfondo socio-politico tra i due secoli:
la nuova società di massa
Rompendo quella linea di continuità causa ed
effetto, in alternativa, quindi, al metodo ‘continui-
sta’ dello storico,91 la Arendt rintraccia nella crisi di
valori e nella rottura della tradizione dell’ Europa
occidentale i germi da cui prenderà corpo il totalita-
rismo. Antisemitismo, imperialismo, crisi dello Sta-
to-nazione, atomizzazione della società rappresen-
tavano il collasso della società illuministica e ven-
gono puntualmente esaminati sul piano storico, po-
litico, sociologico e psicologico, dalla Arendt, per-
ché fenomeni nuovi, che mettono in discussione il
91 Circa il rapporto H. Arendt-metodo storico, cfr. in particolare: M.Salvati, Hannah Arendt e la storia del novecento, in Aa. Vv., Nazismo,fascismo, comunismo, Totalitarismi a confronto, a cura di M. Flores,Milano, Bruno Mondadori, 1998; V. Marchetti, Resistenza ebraica,antisemitismo, totalitarismo, in Aa. Vv., Nazismo, op. cit.; A. Enégren,op. cit.; G. Even-Gramboulan, Hannah Arendt face à l’histoire, in Aa.Vv., Hannah Arendt et la modernité, a cura di A. M. Roviello, Vrin,1992.
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101
lessico politico e filosofico e impongono nuove mo-
dalità di comprensione.
Che cosa sia il totalitarismo e che cosa abbia si-
gnificato per quella sua carica dirompente nella vita
della comunità politica è analizzato nella terza parte
de Le origini del totalitarismo in modo meno schema-
tico, ma con altrettanta intensità, a partire dal tramon-
to della società classista e da quel processo di massifi-
cazione a cui hanno rivolto la loro attenzione filosofi
e storici come T. W. Adorno, W. Reich, E. Canetti, E.
Broch, G. Mosse.92
Maggiore influenza per la Arendt ha avuto State
of the Masses di E. Lederer, in cui l’autore contrappo-
ne alla società dell’opinione pubblica la minaccia di
una società senza classi. Lederer ha studiato il rappor-
92 Sull’opera di W. Reich circa la psicologia delle masse e il fascismo esugli accenni fatto da Adorno sullo stesso argomento, cfr. S. Moscovici,L’âge des foules, Paris, Complexe, 1985; E. Canetti, Masse und macht,Hamburg, Classen, 1960, trad. it. Masse e potere, Milano, Rizzoli, 1973;H. Broch, Massenpsycologie, Zürich, Rhein, 1959; G. Mosse, L’uomo ele masse nelle ideologie nazionaliste, Bari, Laterza, 1995.
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102
to privilegiato della massa con il capo totalitario e ha
definito lo stato dittatoriale come fondato sul terrore
«distruggendo i gruppi sociali di ogni tipo, sradicando
la ragione, consegnando l’uomo alle sue emozioni» e
istituzionalizzando inevitabilmente le masse.93
Nella bibliografia de Le origini del totalitarismo,
si fa riferimento anche al testo di Ortega y Gasset, La
ribellione delle masse,94 di cui la Arendt non condivi-
de l’ipotesi ‘deterministica’ secondo cui è meccanico
ed inevitabile che la società moderna arrivi alla massi-
ficazione, giacché essa è fondata su individui isolati,
privi di interessi e responsabilità.
In questo senso la Arendt è molto più prossima a Toc-
queville e al pessimismo di Burckhardt, che pure avevano
sottolineato i rischi di un’attrazione a dir poco naturale e
93 E. Lederer, The State of masses. The Treat of the Classless Society,New York, W. W. Norton, 1940, trad. it. parziale, Lo Stato delle masse,in M. Salvati, Da Berlino a New York, Bologna, Cappelli, 1989.94 J.Ortega y Gasset, La rebelion de las masas, Madrid, «Revista deOcidente», 1929; trad. it. La ribellione delle masse, Bologna, Il Mulino,1962.
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103
spontanea verso sistemi dispotici e autoritari di individui
completamente deresponsabilizzati e «superflui», appar-
tenenti peraltro a tutte le classi sociali.
«Il termine “massa” si riferisce soltanto a gruppi
che, per l’entità numerica o per indifferenza verso gli
affari pubblici o per entrambe le ragioni, non possono
inserirsi in un’organizzazione basata sulla comunanza
di interessi, in un partito politico, in un’ amministra-
zione locale, in un’associazione professionale o in un
sindacato. Potenzialmente, essa esiste in ogni paese e
forma la maggioranza della folta schiera di persone
politicamente neutrali che non aderiscono mai ad un
partito e fanno fatica a recarsi alle urne».95
La Arendt non riconosce alcuna capacità di azio-
ne alla ‘massa’, che è soggetto passivo, facilmente
manipolabile, diversamente dall’interpretazione della
critica socialista e marxiana che ne dà una valenza
positiva.96
95 H. Arendt, Le origini del totalitarismo, cit., p. 431.96 R. Williams, Cultura e rivoluzione industriale, Torino, Einaudi, 1968.
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104
Indubbiamente ella rimarca che le masse sono il
portato della degenerazione dell’individualismo bor-
ghese e di una società atomizzata in cui la competiti-
vità e il senso di solitudine dell’individuo erano state
contenute dall’appartenenza ad una classe, tant’è che
la peculiarità dell’uomo di massa era l’isolamento e la
mancanza di relazioni sociali, piuttosto che la brutali-
tà e la rozzezza. Potremmo dire con il Kornhauser che
«sotto il profilo oggettivo è società atomizzata, sotto
il profilo soggettivo è popolazione alienata».97
«Il crollo della muraglia protettiva classiste tra-
sformò le maggioranze addormentate, fino ad allora a
rimorchio dei partiti, in una grande massa, disorganiz-
zata ed amorfa, di individui pieni di odio che non ave-
vano nulla in comune tranne la vaga idea che le spe-
ranze degli esponenti politici in un ritorno dei bei tempi
andati fossero campate in aria e che quindi i rappre-
sentanti della comunità rispettati come i suoi membri
97 W. Kornhauser, The Politics of Mass Society, Free Press, Glencoe,1959.
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105
più preparati e perspicaci fossero in verità dei folli,
alleatisi con le potenze dominanti per portare, nella
loro stupidità o bassezza fraudolenta, tutti gli altri alla
rovina».98
E’ una massa di uomini disperati e insoddisfatti,
come i deracinés dei salotti borghesi del tardo Otto-
cento e i parassiti e gli avventurieri dell’imperialismo.
Sono la «generazione del fronte», totalmente spo-
liticizzata, educata alla guerra e alla vita di trincea, ad
un attivismo e ad una esaltazione del proprio io che si
riduceva ad un «fare qualcosa, di eroico o di crimina-
le, che fosse imprevedibile e indeterminato da altri».99
Il terrorismo di cui si vantavano esprimeva la fru-
strazione e l’odio di quanti consideravano la guerra,
con la sua implacabile arbitrarietà, simbolo della mor-
te e legge dell’universo nonché origine di un nuovo
ordine mondiale.
98 H. Arendt, Le origini del totalitarismo, cit., p. 436.99 Ibidem, p. 459.
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106
Il processo di ‘massificazione’ rifletteva la disso-
luzione dei legami sociali, l’appiattimento della pira-
mide sociale, l’annullamento delle differenziazioni
individuali e di quelle strutture che garantiscono il plu-
ralismo in un istituzione democratica.
Più specificamente la società di massa è una con-
dizione necessaria, ma non sufficiente, per l’instaura-
zione di un regime totalitario.
La Arendt osserva che «per trasformare la dittatu-
ra rivoluzionaria di Lenin in un regime totalitario, Sta-
lin dovette prima creare artificialmente quella società
atomizzata che in Germania per i nazisti era stata pre-
parata dagli avvenimenti storici».100 Fu necessario,
cioè, distruggere quegli antichi rapporti di classe, fa-
miglia e villaggio molto radicati in Russia fin dal Me-
dioevo; annientare le vecchie classi; cancellare le me-
morie del passato; operare quello sradicamento che
nell’Europa occidentale si era venuto svolgendo già
100 Ibidem, p. 441.
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107
da tempo. La destrutturazione della società era fina-
lizzata alla edificanda società totalitaria, al «nuovo
ordine» in cui, tuttavia, occorreva mantenere la mobi-
litazione, i fattori disgreganti e le spinte massificanti,
in modo da impedire la stabilità e il dimensionamento
in dittatura monopartitica.
Aclassista, antipluralista, il totalitarismo, che pure
si basa sulla ‘disponibilità’101 di base della società di
massa, crea «il dominio permanente di ogni singolo
individuo in qualsiasi aspetto della vita».102
In questo sfacelo generale di valori e di aspirazio-
ni, sia la plebe che l’élite intellettuale erano attratte
dall’impeto dei movimenti totalitari.
Il culto della violenza e il gangsterismo sembra-
vano smascherare l’ipocrisia della borghesia. La «mo-
rale a doppio uso» era bersaglio di aspri attacchi da
101 S. Neumann, Permanent Revolution, Harper, New York 1942; D.Fisichella, Elezioni e democrazia. Un’analisi comparata, Bologna, IlMulino, 1983.102 H. Arendt, Le origini del totalitarismo, cit., p. 451
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108
parte degli artisti e degli intellettuali, sia dell’arte del-
le avanguardie che della letteratura e del teatro. Parti-
colarmente significativa, a proposito, fu la calda acco-
glienza della ironica Dreigrischenoper di Brecht nella
Germania prehitleriana, dramma che identificava i
gangsters come rispettabili affaristi e gli affaristi come
rispettabili gangsters.
«La plebe applaudiva perché prendeva l’afferma-
zione alla lettera; la borghesia, perché era stata così a
lungo ingannata dalla sua stessa ipocrisia da essere
stanca della tensione e da trovare una profonda sag-
gezza nell’espressione della banalità con cui viveva;
l’élite, perché lo smascheramento dell’ipocrisia era un
divertimento meraviglioso.
L’effetto era l’opposto di quello che si era prefis-
sato Brecht».103
Questa distorta alleanza fra plebe ed élite era ba-
sata su un equivoco accidentale: la plebe, in quanto
103 Ibidem, p. 464.
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109
scarto della borghesia, pensava che grazie alle masse
avrebbe potuto ottenere il potere e rimpiazzare i vec-
chi strati della società borghese; l’élite, affascinata dal
radicalismo totalitario, riusciva grazie ad un certo fa-
natismo rivoluzionario, a manipolare e mobilitare le
masse, escludendole dai centri vitali del potere.
In ogni caso era necessario imbrigliare e allineare la
massa di filistei, in cui si identificava «il borghesuccio gret-
to che in mezzo alle rovine del suo mondo aveva a cuore
soltanto la sicurezza personale ed era pronto a sacrificare
ogni cosa -fede, onore, dignità- al minimo pericolo.
Nulla si rivelò più facilmente distruttibile dell’in-
timità e della moralità privata di gente che pensava
unicamente a salvaguardare l’ininterrotta normalità
della propria vita».104
104 Ibidem, p.469. Ancora più incisiva è la Arendt quando individua nelbuon padre di famiglia il tipo dell’uomo-massa: «Credo sia stato Péguy achiamare il padre di famiglia “grand aventurier du 20° siècle”, ma è mortotroppo presto per imparare che quel tipo d’uomo era anche il grande crimi-nale del secolo. Eravamo talmente abituati ad ammirare o a canzonare gar-batamante il padre di famiglia per le sue affettuose premure e la sua assidua
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110
E saranno proprio costoro a macchiarsi dei più
nefandi crimini, dopo anni di livellamento per mezzo
di una propaganda menzognera e una capillare orga-
nizzazione di potere.
dedizione al benessere della famiglia, per la sua solenne determinazione adassicurare alla moglie e ai figli una vita agiata, che non ci siamo accorti diquanto il devoto paterfamilias, la cui preoccupazione principale era la pro-pria sicurezza, si fosse involontariamente trasformato, sotto la spinta dellacaotica situazione economica del nostro tempo, in un avventuriero, al qualenon bastava una grande industriosità ed accortezza per essere certo di quelloche il giorno sucessivo gli avrebbe riservato. (...) Ci voleva solo il geniosatanico di Himmler per scoprire che, dopo una simile degradazione, que-st’uomo sarebbe stato completamente disposto a fare letteralmente di tuttoquando la posta si fosse alzata e la piatta esistenza della sua famiglia fosseminacciata. (...) Così oggi può accadere che quella stessa persona, il tedescomedio, che anni di propaganda nazista non erano riusciti a convincere aduccidere un ebreo (neppure quando divenne abbastanza chiaro che un siffat-to omicidio sarebbe rimasto impunito), accetti senza opporsi di mettersi alservizio della macchina della distruzione. (...) Diversamente dalle primeunità delle SS e della Gestapo, l’organizzazione totale di Himmler non con-ta sui fanatici, né sugli assassini per natura, né sui sadici; essa fa interamenteassegnamento sulla normalità dei lavoratori e dei padri di famiglia», in Col-pa organizzata e responsabilità universale, articolo del gennaio 1945, ora inEbraismo e modernità, a cura di G. Bettini, Milano, Feltrinelli, 1993. LaArendt rimarca questo carattere della ‘normalità’ anche quando ritrae Eich-mann in La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme, Milano, Feltri-nelli, 1993.
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111
2. Gli strumenti del totalitarismo:
propaganda, polizia segreta e burocrazia.
L’ideologia come «logica di un’idea».
La Arendt ritiene che la propaganda sia lo stru-
mento di cui il movimento totalitario si serva, almeno
in un momento iniziale, perché sia possibile «trasfor-
mare la natura dell’uomo».
Essa è rivolta in particolare alla sfera esterna, cioè
agli strati non totalitari della popolazione o ai paesi stra-
nieri perché evitassero qualsiasi ingerenza interna.
La propaganda utilizzava la menzogna e la falsi-
ficazione, che erano sì accorgimenti potestativi ma con
la subdola finalità di sommergere le masse in un mon-
do irreale di modo che fossero incapaci di lottare per i
propri interessi concreti, si sentissero profondamente
sradicate dal tessuto economico-sociale e aderissero
pienamente alle astrazioni dell’ideologia totalitaria.
La specificità tecnica della propaganda totalitaria
è quella di investire gli uomini fin nella profondità
112
psichica usando come espediente il terrore. Pertanto,
oltre a forme di propaganda diretta, vi erano altrettan-
te forme di propaganda indiretta, miranti a sostenere
la mobilitazione totale, la guerra di una popolazione
contro se stessa.
Ma cosa veniva propagandato?
«Nessuna propaganda basata sull’interesse puro
e semplice può avere effetto fra masse che essendo
caratterizzate principalmente dall’estraneità a qualsi-
asi corpo sociale e politico, presentano un vero caos
di interessi individuali.
Il fanatismo dei militanti dei movimenti totalitari,
così diverso qualitativamente dall’attaccamento dei
membri dei partiti normali, è prodotto dalla mancanza
di un interesse egoistico delle masse, che sono pronte
a sacrificarsi.
I nazisti hanno dimostrato che si può condurre in
guerra un intero popolo con lo slogan «vittoria o di-
struzione» (qualcosa che la propaganda bellicista del
1914 avrebbe accuratamente evitato), e ciò non in un
113
periodo di miseria, disoccupazione o ambizioni nazio-
nali deluse».105
I movimenti totalitari, secondo la Arendt, svuotano
di ogni contenuto utilitaristico i propri fondamenti dottri-
nari e annunciano le loro finalità politiche attraverso for-
me di predizione infallibile. In questo senso fanno dichia-
razioni legate al futuro piuttosto che richiamandosi al glo-
rioso passato, pensano nei termini del ‘millennio’ a veni-
re, alimentano la fuga dalla realtà delle masse.
«Prima di tirare intorno a sé una cortina di ferro
per impedire che il più lieve rumore esterno turbi la
spaventosa quiete di un mondo interamente immagi-
nario, essi possiedono già, grazie alla loro propagan-
da, la forza di segregare le masse del mondo reale».106
La finalità della propaganda, inoltre, non è tanto la
persuasione quanto l’organizzazione, «l’arte di accumu-
lare il potere senza possedere gli strumenti di potere».
105 Ibidem, p.481. Cfr. G. Sartori, Cosa è “propaganda” ?, in «Rasse-gna italiana di sociologia», IV, 1962.106 Ibidem, p.488.
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114
Per avere un’idea di come si strutturi l’organizzazio-
ne totalitaria, la Arendt, in Che cos’è l’autorità,107 la de-
scrive in modo molto più semplice come una cipolla: «nel
centro della quale, quasi in uno spazio vuoto, si trova il
capo (...). Tra le innumerevoli parti del movimento: le or-
ganizzazioni collaterali extrapartitiche, le varie associa-
zioni professionali, gli iscritti al partito, la burocrazia del
partito, le formazioni di élite e i gruppi paramilitari sono
reciprocamente in una relazione tale da costituire, a se-
conda del punto di vista, la superficie o il centro della ci-
polla: cioè, rispetto a uno strato costituiscono il normale
mondo esterno, mentre rispetto ad un altro rappresentano
il radicalismo più estremista. Il grande vantaggio del si-
stema è di fornire a ciascuno strato del movimento, nono-
stante il regime totalitario, la finzione di una realtà norma-
le e, insieme, la convinzione di differenziarsene e di esse-
re più radicale».
107 H. Arendt, Between Past and Future: Six Exercices in Political Thou-ght, London, Faber and Faber, 1961; trad. it. Tra passato e futuro, Mila-no, Garzanti, 1991
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115
In questo modo, ritenendo che ci sia solo una dif-
ferenza quantitativa tra ciascuno degli strati, nessuno
è a conoscenza dell’ abisso che si è venuto a creare tra
il mondo artificiale in cui vive e quello reale che lo
circonda.
Attraverso le organizzazioni frontiste e dei sim-
patizzanti viene creata una nebbia di normalità e ri-
spettabilità che inganna sui veri caratteri dell’ideolo-
gia del movimento totalitario. Nell’isolamento dalle
realtà, il capo totalitario prende le decisioni dall’inter-
no della struttura stessa, né dall’esterno né dall’alto: il
suo compito è «fare da magica difesa contro il mondo
esterno e insieme da ponte con esso».108
La figura del capo come leader del movimento
non è, comunque, la conditio sine qua non dell’instau-
razione del regime totalitario, anche se il Führerprin-
108 H. Arendt, Le origini del totalitarismo, cit., p. 516. Sulla figura del‘capo’: L. Cavalli, Il capo carismatico, Bologna, Il Mulino, 1981; M.Stoppino, Totalitarismo, in N. Bobbio, N. Matteucci, G. Pasquino, Di-zionario di politica, cit.
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116
zip e il culto della personalità non sono poi irrilevanti.
La Arendt, infatti, chiarisce che «il principio del capo»
non è di per sé totalitario ma ha colto elementi dal-
l’autoritarismo e dalla dittatura militare.
Il Führerprinzip poteva collegarsi ad una forte tra-
dizione tedesca, ancor più sentita durante gli anni del
sistema presidenziale della repubblica di Weimar, con
la reggenza di Hidemburg, e presente nelle forme mi-
litarizzanti delle associazioni giovanili e d’arma, nel
diffuso atteggiamento antidemocratico, nelle ideolo-
gie dominanti nella burocrazia e nell’esercito.
Le crisi del 1923 e del 1930 avevano dato nuovo
slancio all’appello verso l’uomo forte, un capo cari-
smatico, attraverso cui il Führerprinzip diventava una
sintesi di idee di ordine autoritario e militaresco con
forme di legittimazione pseudodemocratico-plebisci-
taria, manipolate attraverso la propaganda di massa.
E’ la «volontà del Führer» che diventa legge suprema
in uno stato totalitario e non i suoi ordini che defini-
rebbero una struttura gerarchica.
117
«L’autorità non filtra dal vertice agli strati inter-
medi fino alla base del corpo politico come nel caso
dei regimi autoritari. La ragione effettiva è che non
c’è gerarchia senza autorità e che, malgrado i numero-
si equivoci sulla cosiddetta “personalità autoritaria”,
il principio di autorità è, in tutti gli aspetti importanti,
diametralmente opposto a quello del dominio totalita-
rio. A prescindere dalla sua origine nella storia roma-
na, l’autorità in qualunque sua forma è sempre desti-
nata a ridurre o limitare la libertà, ma mai ad abolirla.
Il dominio totalitario, invece, mira a distruggerla, ad
eliminare la spontaneità in genere, e non si accontenta
affatto di una sua riduzione, per quanto tirannica».109
Tutto deve convergere alla costruzione di un mon-
do fittizio: il mondo viene spogliato di quella multi-
formità, di quel pluralismo che è elemento di disorien-
tamento e disintegrazione per le masse.
La Arendt tende a sfatare così un luogo comune
109 Ibidem, p. 555.
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118
dei regimi totalitari, che essi siano garanti dell’ordine
e della stabilità. Hitler e Stalin si servirono delle pro-
messe di stabilità per nascondere la loro intenzione di
creare uno stato di instabilità permanente.
«Per un movimento totalitario entrambi i pericoli
sono mortali: l’evoluzione verso l’assolutismo mette-
rebbe fine al suo impeto interno, e un’evoluzione ver-
so il nazionalismo impedirebbe l’espansione esterna,
senza la quale non può sopravvivere. Esso deve ricor-
rere a quella che, con Trotsky, si potrebbe chiamare
“rivoluzione permanente”».110 La rivoluzione totali-
taria, dunque, è «rivoluzione permanente» in quanto
risponde necessariamente a quella logica di perpetua-
zione della guerra civile che l’ha originata.
110 Ibidem, p. 536. Il termine ‘rivoluzione permanente’ compare già inTrotsky nel 1905 a proposito del fallimento dell’esperienza dei soviet diPietrogrado e, in seguito, in polemica contro la cristallizzazione teoricafatta da Stalin del socialismo in un solo paese. Vedi R. Schnur, Rivolu-zione e guerra civile, a cura di P.P. Portinaro, Milano, Giuffrè, 1986; L.Pellicani, Dinamica delle rivoluzioni, Milano, Sugarco,1974. Cfr. ancheH. Arendt, On revolution, Viking Press, New York, 1963; trad. it. a curadi M. Magrini, Sulla rivoluzione, Milano, Edizioni Comunità 1996.
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119
All’ instabilità permanente fa da contrappeso la
completa assenza di struttura: lo stato totalitario non è
monolitico, anzi, come sistema monopartitico, esso,
in concreto, si caratterizza secondo il dualismo Stato-
partito o, per alcuni critici, secondo la divisione tra
potere reale e potere apparente.111
La Arendt sostiene che «se si considera lo stato
totalitario esclusivamente come uno strumento di po-
tere lasciando da parte l’efficienza amministrativa, in-
dustriale ed economica, la sua “mancanza di struttu-
ra” appare il mezzo ideale per l’attuazione di quello
che i nazisti chiamavano il principio del capo. La con-
tinua concorrenza fra gli uffici che, oltre a sconfinare
111cfr. F. Neumann, Behemoth. The Structure and Practice of NationalSocialism, Harper & Row, New York 1966. Neumann afferma che ilregime nazional-socialista si caratterizzava attraverso quattro centri dipotere fondamentali, ciascuno con il proprio esecutivo, legislativo e giu-diziario. Fraenkel, ne Il doppio Stato, cit., teorizza, invece, la compre-senza di uno Stato «normativo», non sospeso del tutto, che regola laproduzione, ed uno Stato « discrezionale», in cui si esprimono gli obiet-tivi programmatici del nazismo, obiettivi accettati dal capitalismo tede-sco purché gli sia riconosciuto il predominio nella sfera produttiva.
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120
con l’esercizio delle proprie funzioni nei settori altrui
sono incaricati di compiti identici, rende pressoché
impossibili l’opposizione e il sabotaggio».112
Il segno più evidente della mancanza di una ge-
rarchia è la moltiplicazione dell’apparato burocrati-
co, tant’è che «il cittadino del Terzo Reich era co-
stretto a vivere sotto l’autorità simultanea e spesso
contrastante di poteri concorrenti, come l’ammini-
strazione statale, il partito, la SA e le SS; e non sape-
va mai, perché nessuno glielo diceva esplicitamente,
quale di queste istanze possedeva un’autorità mag-
giore. Egli doveva sviluppare una specie di sesto
senso per capire a un dato momento a chi obbedire e
chi ignorare».113
Lo stesso accadde in Russia, dove «il regime era
ricorso in misura ancora maggiore alla continua crea-
zione di nuovi uffici per relegare nell’ombra i vecchi
centri di potere. Solo che il gigantesco sviluppo buro-
112 H. Arendt, Le origini del totalitarismo, cit, p. 554.113 Ibidem, p. 548.
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121
cratico, inerente a questo metodo, veniva frenato dalle
ripetute epurazioni».114
La differenza sostanziale, secondo la Arendt, tra i
due sistemi, nazional-socialista e sovietico, era che
«Stalin, ogni qual volta trasferiva il potere da un ap-
parato all’altro, tendeva a liquidare insieme con l’ap-
parato declassato il suo personale, mentre Hitler, mal-
grado lo sprezzante giudizio sulle persone “incapaci
di saltare al di là della propria ombra”, era perfetta-
mente disposto ad utilizzare tali ombre anche in se-
guito, magari in un’altra funzione».115
Lo Stato funge da facciata, rappresentando il pae-
se per interessi di politica estera; in realtà il vero cen-
tro di potere è la polizia segreta, le cui agenzie sono le
«cinghie di trasmissione» che danno dinamismo al-
l’azione dello stato totalitario.
La polizia segreta è completamente soggetta alla
volontà di chi detiene il potere, è «interamente alla
114 Ibidem, p. 553.115 Ibidem, pp. 550-1.
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mercé delle massime autorità per la conservazione del
suo lavoro. Al pari dell’esercito in uno stato non tota-
litario, si limita ad eseguire la politica decisa da altri,
avendo perso tutte le prerogative godute nelle buro-
crazie dispotiche».116
La sua caratteristica, dunque, è ridotta ad un pia-
no meramente esecutivo e «una delle ragioni della
moltiplicazione dei servizi segreti, i cui agenti non si
conoscono, è l’esigenza di una estrema flessibilità. Per
usare il nostro esempio, poteva darsi che le massime
gerarchie, al momento della comunicazione del loro
ordine, fossero ancora indecise fra una maggiore prov-
vista di tubi e un’epurazione. La moltiplicazione con-
sentiva i mutamenti all’ultimo momento: era così pos-
sibile che, mentre gli agenti di un servizio preparava-
no la concessione dell’ordine di Lenin al direttore del-
la fabbrica, quelli dell’altro servizio si apprestassero
ad arrestarlo. L’efficienza della polizia consisteva nel
116 Ibidem, p. 585.
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123
fatto di poter preparare simultaneamente l’esecuzione
di incarichi così contraddittori».117 La polizia segreta,
che è uno strumento di repressione terroristica, «non
ha il compito di scoprire gli autori di delitti, ma quello
di essere pronta quando il governo decide di arrestare
una certa categoria della popolazione. La sua unica
distinzione è di essere la sola a godere la fiducia della
massima autorità e a sapere quale linea politica sarà
attuata».118 Attraverso la provocazione, i processi e le
epurazioni, gli agenti segreti hanno il compito di sta-
nare l’opposizione. Cosa significa?
Ogni forma di governo ha degli oppositori; anzi,
in via analitica, possiamo distinguere tra: 1) nemici
reali, 2) nemici potenziali, 3) nemici oggettivi, 4) «au-
tori» di delitti possibili, 5) innocenti, 6) amici e se-
guaci.
Ma ciò che caratterizza il totalitarismo è il perse-
guitare in particolar modo persone e gruppi ricompre-
117 Ibidem, p.583.118 Ibidem, p.583.
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124
si sotto il cliché di «nemico oggettivo» e definiti tali
ideologicamente già prima di conquistare il potere.
A sua discrezione, il gruppo di potere individua e
persegue un «portatore di tendenze»119 che in futuro
potrebbe risultare oggettivamente ostile, una catego-
ria di persone la cui inimicizia può apparire plausibile
ideologicamente, soprattutto all’estero.
E’ il «nemico oggettivo», che differisce dal sospetto,
individuato dalle polizie segrete, in quanto la sua identità
è determinata dall’orientamento politico del governo, non
dalla attività sovversiva di cui è autore.
Per questo, riflettendo quel dinamismo intrinseco
al movimento totalitario stesso, esaurita una catego-
ria, si dichiara guerra ad un’altra, procedendo così alla
tassonomia dei subumani. Ogni operazione contro il
«nemico oggettivo» di turno -il che ci induce a pensa-
re che l’unico ‘innocente’ è solo chi detiene il potere-
viene legittimata sul piano ideologico, secondo la ‘raz-
119 Ibidem.
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125
za’ per i nazionalsocialisti, come ‘nemico della classe
operaia’ per i comunisti.
L’esasperazione del «nemico oggettivo» conduce
alla nozione di «delitto possibile», cioè la presunzio-
ne che il crimine possa essere costruito in anticipo su
basi ritenute oggettivamente attendibili, anche se in
concreto assolutamente improbabili. In questo modo
il governo totalitario ammanta con proprie giustifica-
zioni le misure terroristiche adottate.
La Arendt, tuttavia, è dell’avviso che con la com-
pleta realizzazione del terrore totalitario, vengono ab-
bandonati i concetti di «nemico oggettivo» e «delitto
logicamente possibile» per una coerente arbitrarietà:
le vittime, innocenti, verranno scelte a caso, senza al-
cuna accusa, solo perché dichiarate indegne di vivere.
E’ il modo più efficace di negare la libertà umana.
Principio d’azione, allora, è l’ideologia, che la
Arendt definisce «come logica di un’idea».120
120 Nessun termine presenta una vasta gamma di significati così dispa-rati quanto il termine ‘ideologia’. N. Bobbio distingue un significato
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126
«La sua materia è la storia, a cui la “idea” è applicata;
il risultato di tale applicazione non è un complesso di af-
fermazioni su qualcosa che è, bensì lo svolgimento di un
processo che muta di continuo. L’ideologia tratta il corso
degli avvenimenti come se seguisse la stessa “legge” del-
l’esposizione logica della sua “idea”.(...) Le ideologie non
si interessano mai del miracolo dell’essere».121
«debole» da uno «forte». Nel significato «debole» designa un’insieme diidee e valori che riguardano l’ordine politico e hanno la funzione diguidare i comportamenti politici collettivi. Per il significato «forte» fariferimento a Marx che considera l’ideologia una credenza falsa, la falsacoscienza dei rapporti di dominazione tra le classi. Nella scienza e nellasociologia politica contemporanea prevale il primo significato, ideolo-gia come concetto neutro, quindi, contrapposto in modo esplicito o im-plicito a ciò che è «pragmatico» e arricchito di certi elementi tipici comeil dottrinarismo, il dogmatismo, una forte componente passionale e viadicendo. L’ideologia è lo strumento fondamentale che le élites politichehanno a disposizione per operare la mobilitazione politica delle masse eper portare ad un grado massimo la loro manipolazione. Cfr. M. Stoppi-no, Ideologia, in N. Bobbio, N. Matteucci, G. Pasquino, Dizionario dipolitica, cit. Per il nesso ideologia-simulazione, E. Voccia, L’ideologiadella provocazione, in «Porta di Massa. Laboratorio Autogestito di Filo-sofia - Simulazione», Napoli, primavera-estate 1996, pp. 6-12.121 Ibidem, p. 642. Tre anni prima nel lavoro della Arendt, così Orwellscriveva: « Tu credi che la realtà sia qualcosa di oggettivo, di esterno,che esiste per proprio conto. E credi che anche la natura stessa della
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127
Con certezza assoluta, l’ideologia pretende di spie-
gare, indipendentemente da ogni esperienza ed accer-
tamento fattuale, la storia, di obiettivare l’intero corso
storico, di ‘produrre’ e dimostrare come eliminabile il
nemico, non in quanto oppositore ma come simbolo
dell’alterità. E’ il diverso che, necessariamente, dev’es-
sere ricompreso nella totalità dell’esistente e annien-
tato perché non riconosciuto.
L’ideologia suggella la totale non appartenenza
al mondo degli uomini, la loro «superfluità», perché
trasforma l’isolamento e la solitudine in estraneazio-
ne, in perdita non solo dello spazio pubblico ma, so-
prattutto, del proprio io.
realtà sia evidente per se stessa. Se ti persuadi che stai pensando qualco-sa, credi che tutti gli altri vedano quella stessa cosa. Ma io ti dico, Win-ston, che la realtà non è esterna. La realtà esiste nella mente degli uomi-ni, e in nessun altro luogo. Non nelle menti individuali, e cioè in questao in quella, che invece possono commettere errori, e che in ogni caso èdestinata a svanire prima o poi: ma solo nella mente del Partito, che ècollettiva e immortale. Qualsiasi cosa il Partito ritiene sia vera, è vera.E’ impossibile vedere la realtà se non attraverso gli occhi del Partito», inG. Orwell, 1984, Milano, Mondadori, 1973.
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128
E il totalitarismo, abolendo l’umanità che è in ogni
uomo, disprezzando la realtà e la fattualità, attua quel
supersenso ideologico che può essere definito come
l’eccedenza di senso su cui fa perno la stessa ideolo-
gia, una logica coerente che fa apparire degno di sen-
so ogni atto arbitrario, ribaltando la situazione-limite
in quotidianità, l’illegale nel legale, l’insensato nel
sensato.
«La società dei morenti, in cui la punizione viene
inflitta senza alcuna relazione con un reato, lo sfrutta-
mento praticato senza un profitto e il lavoro compiuto
senza prodotto, è un luogo dove quotidianamente si
crea l’insensatezza. Eppure, nel contesto dell’ideolo-
gia totalitaria nulla potrebbe essere più sensato e logi-
co: se gli internati sono dei parassiti, è logico che ven-
gano uccisi col gas; se sono dei degenerati, non si deve
permettere che contamino la popolazione; se hanno
un’ “anima da schiavi” (Himmler), non è il caso di
sprecare il proprio tempo per cercare di rieducarli. Vi-
sti attraverso le lenti dell’ideologia, i campi hanno quasi
129
il difetto di aver troppo senso, di attuare la dottrina
con troppa coerenza».122
Il supersenso ideologico ritiene di aver scoperto
la chiave della storia o la soluzione degli enigmi del-
l’universo, senza tener conto della fattualità, anzi, di-
sprezzandola, e, attraverso una logica deduttiva e co-
ercitiva, edificando il suo artificioso sistema.
L’antiutilità, l’antieconomicità e l’insensatezza123
sono caratteri dominanti per la preservazione del po-
tere totalitario.
«Totalitaria non è la pretesa della Russia rivolu-
122 Ibidem, p. 626.123 Sul carattere irrazionale del totalitarismo, inteso nell’assoluta incon-gruenza tra fini da perseguire e mezzi impiegati per perseguirli, cfr. Bar-rington Moore jr., Le origini sociali della dittatura e della democrazia,Torino, Einaudi, 1971; R. Conquest, Il grande terrore, Milano, Monda-dori, 1970; M. Curtis, Retrat from Totalitarianism, in C. J. Friedrich, M.Curtis, B. R. Barber, Totalitarianism in Perspective: Three Views, Prae-ger, New York 1969; A. B. Ulam, Lenin e il suo tempo, Firenze, Vallec-chi, 1967. Contestano questa interpretazione, a favore di una razionalitàintrinseca al totalitarismo, R. A. Nisbet, La comunità e lo Stato, Milano,Comunità 1957; J. G. Gliksman, Social Prophilaxis as a From of SovietTerror, in C. J. Friedrich, Totalitarianism, cit.
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130
zionaria che nelle condizione esistenti la dittatura del
proletariato sia la miglior forma di governo, bensì la
catena di deduzioni, tratta soltanto dal dittatore totali-
tario, in base alla quale risulta logicamente che senza
tale sistema non si può costruire una metropolitana,
che chiunque sa dell’esistenza della metropolitana di
Parigi è sospetto perché potrebbe dubitare della prima
deduzione e che, quindi, se fosse possibile, bisogne-
rebbe distruggere questa metropolitana, che invero non
sarebbe mai dovuta esistere».124
124 H. Arendt, Le origini del totalitarismo, cit, p. 627.
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131
3. Terrore e campo di concentramento.
La società dei morenti e il male radicale.
La Arendt sottolinea marcatamente che il terrore
è l’essenza del potere totalitario e il campo di concen-
tramento è la sua istituzione centrale.
Possono considerarsi questi tratti distintivi del
regime totalitario?
1. Il terrore totalitario
Il terrore è, secondo una definizione da diziona-
rio, lo strumento di emergenza cui un governo ricor-
re per mantenersi al potere: l’esempio più noto è
quello del periodo della dittatura del Comitato di
salute pubblica guidato da Robespierre e da Saint-
Just durante la Rivoluzione francese (1793-1794).
Potremmo riecheggiare Machiavelli, che già tre se-
coli prima ricordava che per «ripigliare lo stato», per
conservare il potere, era necessario periodicamente
spargere terrore e paura; anche Montesquieu ed
132
Hobbes,125 che riconoscono il terrore l’uno come ele-
mento qualificante di comparazione fra gli Stati, l’al-
tro come concausa del sorgere del Leviatano sovra-
no.
Il terrore totalitario è ben di più: è qualcosa di
pervasivo che si insinua generando un clima di repres-
sione e colpa; è una violenza imprevedibile intesa come
minaccia generica fissa contro l’individuo; è un timo-
re paralizzante, che si instilla anche in quelli che po-
trebbero opporsi attivamente all’oppressione.
Attraverso la lettura psicoanalitica di Franz Neu-
mann, potremmo dire che ogni sistema politico si fon-
da su una angoscia nevrotica, che, pur avendo una base
reale, allontanare la minaccia di un pericolo, è prodot-
ta interiormente attraverso l’Io.126
Per il grado di alienazione dell’uomo moderno,
125 Cfr. Ch. de Secondat de Montesquieu, Lo spirito delle leggi, a cura diS. Cotta, Torino, UTET, 1952; N. Machiavelli, Il Principe, Milano, Fel-trinelli,1995; Th. Hobbes, Leviatano, Bari, Laterza, 1974.126 F. Neumann, Lo stato democratico e lo stato autoritario, Bologna, IlMulino, 1973.
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133
soprattutto per l’alienazione politica che permette una
totale obliterazione dell’Io, cioè l’identificazione del-
le masse con un leader abile nel manipolare le co-
scienze attraverso teorie cospiratorie, viene a crear-
si un contesto fittizio in cui si verificano le seguenti
condizioni: «che le masse si trovino in una situazio-
ne di pericolo oggettivo, che siano incapaci di capi-
re il processo storico e che l’angoscia attivata dal
pericolo venga trasformata, attraverso la manipola-
zione operata da altri, in angoscia nevrotica perse-
cutoria (aggressiva)».127 Se l’angoscia reale sembra
propria nei regimi di tipo liberale, l’angoscia nevro-
tica è istituzionalizzata in un sistema totalmente re-
pressivo. Il terrore, per Neumann, allora, è l’incal-
colabilità delle sanzioni: l’assenza di una certezza
giuridica genera quell’angoscia nevrotica persecu-
toria di cui si avvantaggia il leader o l’élite per il
mantenimento del potere.
127Ibidem.
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134
Così la Arendt, in Le origini del totalitarismo,
scrive: «Il terrore estremamente sanguinoso dello sta-
to iniziale del regime totalitario serve invero soltan-
to a sbaragliare gli avversari e a rendere impossibile
ogni ulteriore opposizione; ma il terrore totale si sca-
tena solo quando, superato questo stadio, il regime
non ha più nulla da temere dagli oppositori.
In proposito si è spesso osservato che in tal caso
il mezzo è diventato il fine, ma ciò dopotutto equi-
vale semplicemente ad ammettere, in maniera para-
dossale, che la categoria mezzo-fine non è più vali-
da, che il terrore non è più lo strumento per incutere
paura alla gente».128
2. Il campo di concentramento
Il terrore totalitario, che si nutre del «nemico og-
gettivo», si attua, sostiene la Arendt, nella creazione
128 H. Arendt, Le origini del totalitarismo, cit. Cfr. R. Conquest, Il gran-de terrore, cit. ; A. Devoto, La tirrannia psicologica, Firenze, Sansoni,1960.
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135
di un universo concentrazionario.129
I lager sono l’istituzione centrale del potere tota-
litario. Perché?
«I campi di concentramento e di sterminio servono al
regime totalitario come laboratori per la verifica della sua
pretesa di dominio assoluto sull’uomo.(...) Il dominio to-
tale, che mira ad organizzare gli uomini nella loro infinità,
pluralità e diversità come se tutti insieme costituissero un
unico individuo, è possibile soltanto se ogni persona vie-
ne ridotta ad un’immutabile identità di reazioni, in modo
che ciascuno di questi fasci di reazioni possa essere scam-
biato con qualsiasi altro. Si tratta di fabbricare qualcosa
che non esiste, cioè un tipo umano simile agli animali, la
cui unica “libertà” consisterebbe di “preservare la specie”.
Tale fine viene perseguito sia con l’indottrinamento ideo-
logico delle formazioni di élite sia col terrore assoluto dei
Lager.(...) I Lager servono, oltre che a sterminare e a de-
gradare gli individui, a compiere l’orrendo esperimento di
129 D. Rousset, L’universo concentrazionario, Milano, Baldini & Ca-stoldi, 1997.
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136
eliminare, in condizioni scientificamente controllate, la
spontaneità stessa come espressione del comportamento
umano e di trasformare l’uomo in un oggetto, in qualcosa
che neppure gli animali sono. (..) In circostanze normali
ciò non può essere ottenuto, perché la spontaneità non può
mai essere interamente soffocata, connessa com’è non solo
alla libertà umana, ma alla vita stessa in quanto semplice
rimaner vivo».130
Il campo di concentramento è il paradigma na-
scosto dello spazio politico della modernità; la sua
essenza consiste nella materializzazione dello stato di
eccezione e nella creazione di uno spazio in cui diritto
e fatto, norma e applicazione diventano indiscernibili.
Solo in questo senso possiamo comprendere per-
ché esso è lo spazio del «tutto è possibile», quel prin-
cipio nichilista in cui si cristallizzano la vita e i metodi
del campo tanto da apparire come un contenitore er-
meticamente chiuso agli occhi del mondo dei vivi.
130 H. Arendt, Le origini del totalitarismo, cit.
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137
Per il senso comune, infatti, tutto è avvolto in una
nube fumogena di insensatezza e le condizioni di inintel-
legibilità paradossalmente superano ogni cortina di credi-
bilità. Anzi, dice la Arendt, «chi parla o scrive sui campi
di concentramento è ancora considerato con sospetto; e se
è decisamente ritornato al mondo dei vivi, egli stesso è
talvolta assalito dai dubbi sulla sua veridicità, come se aves-
se scambiato un incubo per realtà».131
Solo l’ «indugio sugli orrori» potrebbe aiutare a com-
prendere quanto è avvenuto, anche se le memorie quanto
le testimonianze oculari restano prive di comunicativa.132
131 Ibidem, p. 601. Cfr. A. Camus, L’uomo in rivolta, Milano, Bompiani, 1958.132 Sull’inenarrabilità di quanto è accaduto e la testimonianza da affidare allamemoria vedi: P. Levi, Se questo è un uomo. La tregua, Torino, Einaudi, 1963e I sommersi e i salvati, Torino, Einaudi, 1986; H. Langbein, Menschen inAuschwitz, Europa Verlag, Wien 1972, trad. it. Uomini ad Auschwitz, Milano,Mursia, 1984; B. Bettelheim, Surviving and Other Essay, Knopf, New York,1979, trad. it. Sopravvivere, Milano, Feltrinelli 1991; J. Améry, Jenseits vonSchuld und Sühne. Bewältigungsversuche eines Überwältigten, F. Klett, Stut-tgart, 1977, trad. it. Un intellettuale a Auschwitz, Torino, Bollati Boringhieri,1987; R. Antelme, L’Espèce humaine, Paris, 1947, trad. it. La specie umana,Torino, Einaudi, 1976. Per una riflessione cfr. G. Agamben, Quel che resta diAuschwitz. L’archivio e il testimone, Torino, Bollati Boringhieri, 1998.
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138
E’ vero che né i campi di concentramento né i campi
di lavoro forzato sono un’invenzione totalitaria.
Le fonti133 sono alquanto scarse; si ritiene che i
primi sono stati costruiti dagli spagnoli a Cuba nel 1896
per internare ben 400.000 persone tra vecchi, donne e
bambini, senza per questo conoscere il numero totale
delle vittime della repressione del generale spagnolo
Valeriano Weiler y Nicolau, inventore dei campi di
concentramento. Furono organizzati dagli americani
nelle Filippine nel 1898 per lo scoppio di un’insurre-
zione e nel 1900 dai britannici in Sudafrica contro la
guerriglia dei boeri, in particolare quelli del libero Stato
di Oranje. Si ebbero accese manifestazioni di protesta
133 Gli studi sui campi di concentramento e sulla loro organizzazionenon sono numerosi. Segnaliamo A. J. Kaminski, Konzentrationslager1896 bis heute. Geschichte, Funktion, Typologie, Münich, Piper, 1982;trad. it. I campi di concentramento dal 1986 ad oggi. Storia, funzioni,tipologia. Torino, Bollati Boringhieri, 1997. K. Hueser, Wewelsburg 1933bis 1945. Kultund Terrorstatte der SS, Paderborn, Verlag Bonifatius-Druckerei Paderborn, 1982; M. Broszat, «Nationalsozialistiche Konzen-trationslager 1933-1945», in Anatomie des SS-Staates (Band 2), Muni-ch, Deutsche Taschenbuch Verlag, 1967.
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139
da parte dell’opinione pubblica, grazie alla filantropa
Emily Hobhouse che denunciò la disumanità e l’in-
fanticidio del sistema dei campi, colpe infamanti che
macchiavano la classe politica inglese. E un ritorno
positivo non si fece attendere: i campi vennero chiusi.
Non esistono, invece, testimonianze sui campi di
concentramento eretti dal regime clerico-fascista au-
striaco prima del 1938. Poco dettagliate sono anche le
informazioni relative alle condizioni vigenti in Russia
prima del 1917: all’epoca zarista furono circa trenta-
duemila i condannati alla katorga, originariamente la
galera, poi pesante pena detentiva comportante i lavo-
ri forzati.
Si è cercato di schiacciare i campi nazionalsocialisti
su quelli inglesi ed ispano-coloniali, supposti modelli, ma
è questa una falsa opinione perché i secondi vennero uti-
lizzati nel contesto di guerre coloniali, furono ‘campi per
ostaggi’, mentre i primi furono creati in tempi di pace e
all’interno del territorio nazionale allo scopo di segregar-
vi gli avversari ideologici, con un eccessivo zelo per di-
140
stogliere l’attenzione da quanto stava accadendo. Per
l’esperienza sovietica, si è utilizzato l’acronimo gulag
(Glavnoye upravleniye lagerej) che sta per «Amministra-
zione generale dei campi di lavoro», meglio noti come
«campi di concentramento», generando qualche confusio-
ne concettuale.
«Specialmente nel regime staliniano, i cui campi
di concentramento erano per lo più descritti come cam-
pi di lavoro coatto perché la burocrazia aveva voluto
nobilitarli con tale nome, era chiaro che non si trattava
di questo; il lavoro coatto era la condizione normale
di tutti i lavoratori russi, che non avevano libertà di
spostamento e ad ogni istante potevano essere arbitra-
riamente mobilitati per l’invio in qualsiasi luogo».134
L’inserimento dei campi di concentramento nella
società sovietica veniva “giustificato” negli anni ven-
ti come conseguenza della pianificazione generale del-
l’economia.
134Andrzej J. Kaminski, I campi di concentramento dal 1986 ad oggi.Storia, funzioni, tipologia. Torino, Bollati Boringhieri, 1997.
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141
Il dubbio sull’opportunità di parlare di “campi di
concentramento” o meno nell’ Unione Sovietica na-
sce dal fatto che la maggioranza dei detenuti veniva
deportata - ricordiamo che i campi sovietici sono stati
aboliti da M. S. Gorbacev- per un periodo stabilito in
base ad una sorta di sentenza che richiamava talune
leggi penali, e, quindi, da una prospettiva giuridico-
formale i gulag dovrebbero essere equiparati non già
ai campi di concentramento, bensì ai “campi di puni-
zione” nazionalsocialisti.
Un aspetto significativo dei campi di concentra-
mento sovietico consisterebbe nella legalizzazione
dell’arbitrario.
Gunther Specovius sostiene che «a differenza del-
lo Stato nazionalsocialista, l’Unione sovietica cono-
sce “soltanto” campi di punizione o le odierne colonie
di lavoro correzionale, per i quali è prevista una con-
danna a tempo determinato, mentre la condanna a cam-
pi di concentramento, come quelli istituiti dai nazisti,
prevedeva la detenzione a tempo indeterminato.
142
Le condanne a vita erano e sono estranee al dirit-
to penale sovietico».135
Si sa, tuttavia, che soprattutto durante il periodo
delle purghe staliniane, i processi e le pene detentive
sono state delle farse e che i campi sono stati strumen-
ti arbitrari della polizia finalizzati alla conservazione
di un potere politico totalitario. In particolare, nella
realizzazione unitaria di una società senza divisioni
interne, compatta, interamente votata ad uno scopo
comune attraverso le varie attività, attenta, quindi, ad
eliminare i parassiti, gli elementi nocivi ed i rifiuti, si
poteva essere condannati in base all’ art. 58 del Codi-
ce penale, consistente, nel capitolo dei «delitti contro
lo Stato», di 14 punti in cui si viene dichiarati «nemi-
co del popolo». Si trattava di un autentico minestrone
perché era molto semplice affossare un uomo, soprat-
tutto per due punti, talmente vaghi da poter essere ap-
plicati a chiunque, il punto 10: propaganda antirivo-
135Ibidem.
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143
luzionaria, ribattezzata antisovietica; e il punto 12:
mancata delazione.
La delazione è uno degli strumenti in uso del to-
talitarismo, necessaria per creare quella fitta trama di
sospetto che rende il popolo nemico di se stesso, così
come la tortura e la presenza e l’attività della polizia
segreta, interamente alla mercé di chi detiene il pote-
re. Si tratta, tuttavia, di caratteri comuni anche a for-
me di governo autoritari, non rappresentano caratteri
distintivi del totalitarismo quanto il terrore e l’istitu-
zione dei campi di concentramento.
La domanda inquietante è: in questo spazio, che
non è esterno, eppure è posto fuori dell’ordinamento
giuridico riconosciuto -il campo di concentramento è
escluso ed incluso nello stesso tempo nel territorio
nazionale-, quale diritto, quale norma è riconosciuta?
Dovremmo identificare il campo come quello stato
di eccezione di cui parla Schmitt, in cui la norma è
sospesa e la decisione, in virtù dell’articolo 48 della
Costituzione di Weimar, è solo del capo dello Stato.
144
Dovremmo, anzi, sostenere che lo stato di ecce-
zione è ‘voluto’, cioè per esso «il sovrano non si limi-
ta più a decidere sull’eccezione, com’era nello spirito
della costituzione di Weimar, sulla base del riconosci-
mento di una data situazione fattizia (il pericolo della
sicurezza pubblica): esibendo a nudo l’intima struttu-
ra di bando che caratterizza il suo potere, egli produce
ora la situazione di fatto come conseguenza della de-
cisione sull’eccezione».136 E dovremmo aggiungere
che nella parvenza di un diritto totalitario viene ma-
scherato il disordine, il caos, la violenza, anche la
mancanza di un conflitto in quanto si nega la diversi-
tà, l’esistenza dell’altro.
Colui che viene messo al bando non solo è messo
al di fuori della legge ed è indifferente a questa, ma è
abbandonato da essa, è esposto ad una soglia dove
vita e diritto, esterno ed interno si confondono.
«Il sistema dei campi era un mondo in cui non
136 G. Agamben, Homo Sacer, Torino, Einaudi, 1995.
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145
valevano le regole e i costumi morali che reggevano
la “normale” società tedesca. In quel nuovo mondo il
tedesco o la tedesca nazisti potevano trattare i tede-
schi così come pareva loro giusto, in base alla conce-
zione ideologica che avevano delle vittime, e ai più
bassi e profondi impulsi personali. Il nazismo, nel
mondo dei campi, lasciava loro mano libera».137
Del resto se partiamo dal presupposto che l’inter-
nato vive «una vita indegna di essere vissuta», è chia-
ro che ciò che il totalitarismo tende a creare è una so-
cietà di morti viventi, interamente piegati, liquidati di
137 D. J. Goldhagen, I volonterosi carnefici di Hitler. I tedeschi comuni el’Olocausto, Milano, Mondadori, 1997. Lo storico ebreo, contrariamen-te alla maggior parte delle ricerche sull’Olocausto, sostiene l’idea dellaresponsabilità individuale dei tedeschi: «è l’opposto della colpevolezzacollettiva». In questo modo, passando da un’imputazione collettiva emorale ad una personale, si eviterebbe la difficoltà implicita nel proces-sare e nel condannare i criminali nazisti, la trasferibilità sul piano giudi-ziario. La Arendt non sarebbe d’accordo perché verrebbe meno un ca-rattere del totalitarismo, la negazione di ogni filtro tra responsabilitàindividuale e responsabilità collettiva. In un sistema totalitario, «colpe-volezza e innocenza diventano concetti senza senso» cosicchè «ci sonocrimini che gli uomini non possono né punire né perdonare», in H. Aren-dt, Le origini del totalitarismo, cit., p. 628.
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146
ogni carattere umano, incapaci soprattutto di opporsi.
La Arendt li eguaglia al cane di Pavlov che è «l’esem-
plare umano ridotto alle reazioni più elementari, elimina-
bile o sostituibile in qualsiasi momento con altri fasci di
reazioni che si comportano in modo identico, è il cittadino
modello di uno stato totalitario, un cittadino che può esse-
re prodotto solo imperfettamente fuori dei campi».138
E’ solo in questo senso che può realizzarsi quell’ide-
ale -che ogni buon senso ritiene un’utopia irrealizzabile-
di società totalitaria, in cui è possibile impadronirsi inte-
ramente dell’uomo per trasformarlo in cittadino modello.
La «fabbricazione massiva e demenziale di cadave-
ri» non è che l’ultimo episodio di una pièce in tre atti di cui
il titolo potrebbe essere: «la preparazione storicamente e
politicamente intelligibile dei cadaveri viventi».139
138 H. Arendt, Le origini del totalitarismo, cit., p. 624.139 Ibidem, p. 612. E’ la «fabbricazione in massa» dei cadaveri, riflessodi un meccanismo di produzione, la peculiarità del genocidio dei regimitotalitari: la morte viene privata di ogni sacertà e l’individuo è intera-mente assoggettato al potere perché cadavere-vivente. Cfr. T. W. Ador-no, Minima moralia, Torino, Einaudi, 1997; M. Foucault, Il faut défen-dre la société, Gallimard-Seuil, Paris, 1997.
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147
Il primo passo avviene uccidendo il soggetto di
diritto che è nell’uomo, attraverso la snazionalizza-
zione e ponendo il Lager al di fuori del sistema penale
ordinario; poi si procede attraverso l’uccisione della
personalità giuridica; infine, con la soppressione della
personalità morale, trionfo dell’ideologia totalitaria,
per cui la coscienza non è più sufficiente e decidere
cosa sia bene e cosa sia male è come valutare assassi-
nio e assassinio.
«Chi potrebbe risolvere il dilemma morale della
madre greca a cui i nazisti concessero di scegliere quale
dei suoi tre figli doveva essere ucciso?».140
Al fine di trasformare gli uomini in morti viventi,
l’atto conclusivo era l’annientamento della loro peculia-
re identità, la soppressione di quella spontanea unicità
«la quale è foggiata in parti uguali dalla natura, dalla vo-
lontà e dal destino, ed è diventata una premessa così evi-
dente che persino gemelli identici ispirano un certo disa-
140Ibidem, p. 619.
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148
gio, suscita un orrore che mette in ombra lo sdegno della
persona giuridico-politica e la disperazione della perso-
na morale. E’ questo orrore che dà luogo alle generaliz-
zazioni nichilistiche, le quali sostengono, abbastanza plau-
sibilmente, che in fondo tutti gli uomini indistintamente
sono bestie. In verità, l’esperienza dei campi di concen-
tramento dimostra che gli uomini possono essere trasfor-
mati in esemplari dell’animale umano, e che la natura è
umana soltanto nella misura in cui schiude all’uomo la
possibilità di diventare qualcosa di estremamente innatu-
rale, cioè un uomo».141
Se nel campo criminali e politici potevano ancora
rivendicare un brandello di capacità di riconoscimento
di se stessi e dei propri simili, «un ultimo autentico re-
siduo della loro personalita giuridica»142 in quanto ap-
partenevano ad una precisa categoria, avevano fatto
qualcosa, coloro che venivano del tutto annientati era-
no gli ‘innocenti’, vittime confuse di arresti arbitrari.
141 Ibidem, pp. 623-624.142 Ibidem, p. 616.
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149
La Arendt ha osservato che l’arresto arbitrario
come pratica terroristica e strumento ideologico «di-
strugge la validità del libero consenso come la tortura
distrugge la possibilità dell’opposizione».143
L’arbitrarietà nella selezione del «nemico oggettivo»
è la linfa del sistema concentrazionario. Poiché il fine era
di avere una popolazione dei campi composta da innocen-
ti, esso veniva a negare la libertà umana più efficacemente
che qualsiasi tirannide. In una tirannide, infatti, bisognava
essere un avversario per essere punito, essere all’opposi-
zione e osare la libertà di opinione. Teoricamente, anche
in un regime totalitario si poteva scegliere di stare all’op-
posizione, ma siffatta libertà cessava nel momento in cui
si profilava la possibilità di appartenere a quella moltitu-
dine scelta arbitrariamente perché ideologicamente inde-
siderabile per il regime.
«La libertà in questo sistema non solo è ridotta alla
sua ultima garanzia, palesemente indistruttibile, la possi-
143 Ibidem, p. 617.
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150
bilità del suicidio, ma ha anche perso il suo carattere di-
stintivo, perché le conseguenze del suo esercizio sono
condivise con persone completamente innocenti».144
La spoliazione dell’individualità, inoltre, privava
l’uomo della sua stessa morte: niente più gli apparte-
neva ed egli non apparteneva più a nessuno, come se
non fosse mai esistito.
«Nei paesi totalitari le prigioni e i lager sono organiz-
zati come veri e propri antri dell’oblio in cui chiunque può
andare a finire senza lasciare neppure le usuali tracce del-
l’esistenza di una persona, un cadavere e una tomba. In
confronto di questa modernissima invenzione per elimi-
nare la gente il vecchio metodo dell’assassinio, politico o
comune, appare davvero inefficiente e primitivo.
L’assassino lascia dietro di sé un cadavere e, ben-
ché si sforzi di fare sparire le tracce della propria iden-
tità, non ha alcun potere di cancellare l’identità della
vittima dalla memoria dei viventi.
144 Ibidem, p. 592.
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151
L’azione della polizia segreta, al contrario, riesce mi-
racolosamente a far sì che la vittima non sia mai esistita».145
E’ l’irruzione del male radicale, quel male che la
teologia cristiana e la tradizione filosofica, in partico-
lare Kant, non ha mai potuto definire se non in negati-
vo, come deficienza dell’essere.
«Quando l’impossibile è stato reso possibile, è di-
ventato il male assoluto, impunibile e imperdonabile, che
non poteva più essere compreso e spiegato con i malvagi
motivi dell’interesse egoistico dell’avidità dell’invidia, del
risentimento, della smania del potere, della vigliaccheria;
e quindi la collera non poteva vendicare, la carità soppor-
tare, l’amicizia perdonare, la legge punire».146
145 Ibidem.146 Ibidem, p. 628. Sul male radicale cfr. La banalità del male. Eichmann aGerusalemme, cit. Per un commento critico: Il male, in R. Esposito, Novepensieri sulla politica, Bologna, Il Mulino,1993; P. Amodio, Il problemadel male nella riflessione di Hannah Arendt, estratto dagli «Atti dell’Acca-demia di Scienze morali e politiche», vol. C- 1989. In particolare R. Esposi-to, associando il male con la libertà e la legge, scrive: «Il male in politica èl’autosoppressione della libertà nella forma dell’eliminazione violenta delsuo stesso presupposto. E’ per questo che è portato al livello di massimaradicalità nell’esperienza totalitaria. E tuttavia ciò non significa che coinci-
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152
Il male di cui parla la Arendt e che rende l’esperienza
di Auschwitz, inteso come la metafora del campo totalita-
rio, del tutto singolare, è lo strappo della nostra realtà, la
lacerazione della nostra esperienza, il trauma del nostro
pensare.
Esso è il trionfo di un «sistema in cui tutti gli uomini
sono divenuti egualmente superflui», è l’acme di quel non-
pensiero proprio dell’uomo-massa che ha eliminato ogni
possibilità di senso comune e spazio politico.147
da con essa. Diciamo che il totalitarismo è il suo esito estremo, il suo com-pimento assoluto. Ma non la sua origine. Altrimenti verrebbe meno la con-traddittoria compresenza di male e libertà. Perchè essa sia tenuta ferma ènecessario ipotizzare che quello stesso male che ha raggiunto il proprio cul-mine nel campo totalitario nasca all’infuori -e prima- di esso. Che anzi il suoseme spunti all’origine della nostra concezione della politica e sia latenteaddirittura in quell’evento che al totalitarismo paradigmaticamente si oppo-ne come la genesi medesima della libertà.147 Il problema del male rinvia a quello della responsabilità. Era possibilenon appoggiare i crimini politici legalizzati dal sistema? Sarebbe stato pos-sibile evitare la responsabilità giuridica e morale? L’accettazione di un maleminore, come taluno ha sostenuto, è discusso insieme alla tematica dellaresponsabilità dalla Arendt nel saggio pubblicato su «MicroMega», 4, 1991,pp. 185-206 dal titolo Responsabilità, ora anche in Aa. Vv., Oltre la politi-ca. Antologia del pensiero «impolitico», a cura di R. Esposito, Milano, Bru-no Mondadori, 1996.
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CAPITOLO QUARTO
IL TOTALITARISMO A CONFRONTOCON LA MODERNITÀ POLITICA
L’inizio, prima di diventare avvenimento storico,
è la suprema capacità dell’uomo;politicamente si identifica con la libertà umana.
Initio ut esset creatus est homo(affinché ci fosse un inizio fu creato l’uomo),
dice Agostino.Quest’inizio è garantito da ogni nuova nascita,
è in verità ogni uomo.(H. Arendt)
154
1. Definizione del regime totalitario
Il totalitarismo è l’evento con cui necessariamen-
te e costantemente dobbiamo confrontarci per com-
prendere il nostro presente.
Non possiamo spiegare quanto è accaduto dopo
Auschwitz o Kolyma se non teniamo conto della frat-
tura che il totalitarismo, nella sua dimensione empiri-
ca, ha imposto al pensiero e all’esperienza democrati-
ca occidentale.
«Comprendere non significa negare l’atroce, de-
durre il fatto inaudito da precedenti, o spiegare i feno-
meni con analogie e affermazioni generali in cui non
si avverte più l’urto della realtà e dell’esperienza. Si-
gnifica piuttosto esaminare e portare coscientemente
il fardello che il nostro secolo ci ha posto sulle spalle,
non negarne l’esistenza, non sottomettersi supinamente
al suo peso.
Comprendere significa insomma affrontare spre-
giudicatamente, attentamente, la realtà, qualunque essa
155
sia».148 E’ la riflessione, poi, che, in sede teorica, ci
consegna quell’idealtipo con cui operare la verifica,
chiudendo così il cerchio: noi partiamo dalla singola-
rità dell’evento per analizzarlo con strumenti concet-
tuali nuovi e andarlo a verificare concretamente, te-
nendo conto delle analogie e differenze, variabili che
obbligatoriamente devono rientrare nell’analisi, una
volta che il modello euristico ha individuato le grandi
direttrici.
La Arendt non sarebbe d’accordo ad una esten-
sione del totalitarismo ad altre forme che non siano i
regimi di Hitler e di Stalin. In questo è stata molto
chiara. Il totalitarismo nasce per la crisi della società
borghese, anche laddove, in Russia ad esempio, ne
arriva solo l’esperienza. Nasce per la crisi dei grandi
valori democratici; antisemitismo, imperialismo e per-
148 H. Arendt, Le origini del totalitarismo, cit., p. XXXIV. Vedi ancheUnderstanding and Politics, in «Partisan Rewiew», XX, IV, !953; trad.it. Comprensione e politica. in La disobbedienza civile, Milano, Giuffrè,1985.
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156
dita dei diritti umani ne sono gli elementi denotativi.
Nasce per la crisi dello Stato-nazione e la perdita del-
lo spazio e del pluralismo politico.
Totalitario, dunque, è quel regime che presenta i
seguenti caratteri:
· atomizzazione della società ed estraneazione degli
individui;
· movimento rivoluzionario recante una ideologica vi-
sione del mondo;
· assenza di struttura per l’intrinseca capacità di mo-
bilitazione;
· istituzionalizzazione del caos;
· terrore organizzato al fine di privare gli uomini di
ogni spontaneità;
· sistema dei lager e dei campi di concentramento.
E’ in questo senso che per la Arendt noi non pos-
siamo confondere il totalitarismo né con le dittature a
partito unico né coi regimi autoritari.
Che il totalitarismo possa nuovamente accadere,
non è possibile prevederlo aprioristicamente.
157
Gli storici sono alquanto scettici, poiché concre-
tamente di esso non se ne è mai data una realizzazione
completa, né secondo un modello di società né tramite
la creazione di ‘uomo nuovo’.
Il totalitarismo, in effetti, porta con sé i germi del-
la propria autodistruzione.
E anche in questo senso la Arendt è stata profetica.
Scrive, infatti, nelle pagine conclusive de Le ori-
gini del totalitarismo: «Le soluzioni totalitarie potreb-
bero sopravvivere alla caduta dei loro regimi sotto for-
ma di tentazioni destinate a ripresentarsi ogni qual-
volta appare impossibile alleviare la miseria politica,
sociale od economica in maniera degna dell’uomo».149
Ma che senso ha parlare di tentazioni totalitarie?150
149 H. Arendt, Le origini del totalitarismo, cit., p. 429.150 Secondo Habermas, la Arendt ha messo correttamente in evidenzal’importanza del potere comunicativo nelle strutture della sfera pubbli-ca, la cui mancanza o soppressione dà luogo ai movimenti di massa chesottendono al regime totalitario. Parlare oggi di «tentazioni totalitarie»,in un epoca post-totalitaria, dovrebbe farci pensare alla nuova forma dimassificazione imposta dai media, per i quali gli spettatori «elettronica-mente irretiti» solo apparentemente «prendono posizione», nel senso che
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158
Forse che esso può essere una deviazione della demo-
crazia occidentale, qualora si diano particolari contin-
genze storiche? Cos’è che viene meno?
Se il totalitarismo rappresenta l’eclissi del politi-
co nel XX sec., allora è proprio il politico che va ri-
pensato attraverso un nuovo criterio: la libertà.
Non è un caso che la Arendt sostenga che «ciò
che è andato storto è la politica».151
Se per la modernità la politica -o il politico- si è
identificata con lo Stato, se è vero che la crisi dello
Stato-nazione ha contribuito all’accadere del totalita-
rismo, se è anche vero che con esso si è dato scacco al
pensiero occidentale, di cui già era stata preconizzato
«permangono strutture che bloccano lo scambio orizzontale di sponta-nee prese di posizione (ossia l’uso delle libertà comunicative), e cheinducono gli isolati e privatizzati spettatori a collettivizzare in manierascoraggiante le loro idee». J. Habermas, Colloquio su alcuni problemi diteoria politica. Un’intervista di M. Carleheden e R. Gabriels, in «Infor-mazione filosofica», n. 28, maggio 1995, pp.21-22.151 H. Arendt, Was ist Politik?, R. Piper GmbH & Co KG, München,1993; trad. it. a cura di M. Bistolfi, Che cos’è la politica?, Milano, Edi-zioni Comunità, 1995.
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159
il tramonto, allora occorre operare dei distinguo nel-
l’ordine del lessico politico, creare nuovi paradigmi
con cui decifrare la complessità dell’esistente: torna-
re, quindi, alle origini dell’esperienza umana, al di fuori
di ogni incrostazione metafisica, al di là di ogni con-
fusione concettuale.
160
2. Lo Stato-Leviatano di Hobbes e lo Stato
totalitario. Confronto legittimo?
In Le origini del totalitarismo, la polemica della
Arendt è non solo diretta alla grande scuola del diritto
degli anni ‘30, di cui Schmitt ne era il portavoce più
influente, ma anche ai teorici del pensiero borghese,
Hobbes e Rousseau, teorici della sovranità ovvero di
quella capacità dello Stato di essere un unico centro di
potere e il soggetto esclusivo della politica.
Il monismo statuale, inteso come reductio ad unum
della pluralità dell’azione umana, è uno dei caratteri
della modernità che ha contribuito alla formazione della
mentalità totalitaria. Con ciò, tuttavia, la Arendt non
vuol sostenere che Hobbes o Rousseau siano i padri
del totalitarismo.
Scrive la Arendt che Hobbes è l’unico grande fi-
losofo della borghesia perché la sua concezione del-
l’individuo è «un ritratto quasi completo, non dell’Uo-
mo in quanto tale, ma dell’uomo borghese, un analisi
161
che in trecento anni non ha perso d’attualità né è stata
superata».152
L’uomo borghese è una funzione della società e
la volontà di potenza è la sua passione fondamentale.
La relazione tra gli uomini che dovrebbe fondare il
corpo politico è, secondo la visione che la Arendt ha
della teoria politica hobbesiana, connessa esclusiva-
mente all’interesse privato, senza, quindi, vincoli per-
manenti, né responsabilità e solidarietà.
In Hobbes l’uomo è sempre solo, le sue azioni
hanno carattere privato e lo stesso Commonwealth,
basato sulla delegazione dei poteri, in realtà, qualora
venissero meno i presupposti del patto, manifesta la
sua fragilità perché, non essendovi una comunità ge-
nuina, ognuno proteggerebbe se stesso. «Il “Com-
monwealth” di Hobbes è una struttura vacillante che
deve procurarsi sempre nuovi puntelli dall’esterno;
152 H. Arendt, Le origini del totalitarismo, op. cit., p. 196. Th. Hobbes,Leviatano, Roma-Bari, Laterza, 1989. Per una lettura del pensiero hobbe-siano: G. Borrelli, Ragion di Stato e Leviatano, Bologna, Il Mulino, 1993.
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162
altrimenti precipiterebbe di colpo nell’insensato assur-
do caos degli interessi privati da cui è scaturito».153
Il privato, il sociale, si è confuso con la sfera pub-
blica; il potere e la necessità hanno avuto il monopo-
lio sui diritti e la libertà.
Lo Stato-Leviatano di Hobbes precorre sul piano
ideale lo stato totalitario?
Sarebbe impossibile non pensarlo se tenessimo
solo conto dell’incisione a mo’ di frontespizio dell’ope-
ra hobbesiana: questo ‘sovrano’ mostruosamente gran-
de che sovrasta il mondo reggendo la spada e il pasto-
rale, simboli del potere temporale e religioso, il cui
corpo è formato da tanti minuscoli sudditi, i ‘molti’,
da cui esso prende vita e potere.
La Arendt mette in evidenza come la concezione uni-
taria dello Stato in Hobbes ha sacrificato la pluralità e ha
distrutto lo spazio politico: l’unità si è realizzata nel ‘do-
minio’. E il dominio distrugge lo spazio politico.
153 H. Arendt, Le origini del totalitarismo, cit., p. 198.
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163
La ragion d’essere dello Stato hobbesiano è nel
bisogno di sicurezza dell’individuo che si sente mi-
nacciato dai suoi simili e l’uguaglianza tra i sudditi
non è l’uguaglianza di tutti i cittadini dinanzi alla
legge perché hanno uguali diritti e uguale dignità,
bensì è un’uguaglianza che poggia le sue fragili basi
sulla concezione della forza nella lotta per il potere.
L’interesse privato, dunque, è il bene comune, il po-
tere è la forza e ad una accumulazione illimitata di
beni corrisponde un’accumulazione illimitata di po-
tere: da qui l’intrinseca instabilità del Commonwe-
alth, basato, appunto, su una delegazione di potere
piuttosto che di diritti.
La versione verticale del potere che si trova in
Hobbes, in virtù del patto di soggezione, comporta
che ciascun individuo dia il suo consenso «ad essere
sottoposto ad un governo, il cui potere consiste nella
somma totale delle forze che tutti i singoli individui
hanno incanalato in esso, e che vengono monopoliz-
zate dal governo per il preteso beneficio di tutti i
164
sudditi».154 L’azione dei pattuenti, cioè, è vincolata
alla rinuncia di uno spazio politico, quindi all’azione
interrelata, e ciò che ne deriva è l’isolamento, l’ato-
mizzazione degli individui. «L’azione -dice la Aren-
dt- non è mai possibile nell’isolamento; essere isolati
significa essere privati della facoltà di agire».155
Più che come autore di una possibile Weltaschau-
ung totalitaria, tuttavia, per la Arendt, Hobbes contri-
buisce a quella ideologia ‘progressista’ del tardo XIX
sec. che preannuncia l’ascesa dell’imperialismo.
Lo stessa critica, potremmo dire, traspare nella
valutazione della volontà generale in Rousseau, che
pure è considerato padre dei giacobini e teorico della
democrazia diretta. La Arendt mette in evidenza che
anch’egli opera quella reductio ad unum dello Stato
che azzera il pluralismo come singolare capacità
154 H. Arendt, Sulla rivoluzione, cit. L’opera, pubblicata dalla Arendtnel 1963, è stata riedita nel 1965 con alcune «piccole ma importantimodifiche».155 H. Arendt, The Human Condition, Chicago, The University of Chi-cago Press, 1959; trad. it. Vita Activa, Milano, Bompiani, 1964, p. 137.
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165
d’azione degli individui e fa coincidere la volontà ge-
nerale con la sovranità unica e indivisibile.
Secondo la Arendt la sovranità non può essere
confusa con l’autorità.
Tale identificazione darebbe luogo a deviazioni
dittatoriali perché da una stessa matrice,
sovranità=autorità, deriverebbero il potere e l’autori-
tà, la legalità e la legittimità, istanze che, invece, do-
vrebbero restare separate per il corretto funzionamen-
to delle istituzioni democratiche.
Ciò che ha a cuore la Arendt, in effetti, è capire come
sia possibile che le democrazie possano deviare in dittatu-
re e totalitarismo, se sono già in esse i germi di questa
devianza e quale è la condizione ottimale, se esiste, per-
ché questa deviazione verso il terrore o verso il dominio
totalitario di una maggioranza non accada.
Il suo approccio ermeneutico consiste nello stu-
diare l’origine delle democrazie moderne, la fonda-
zione di queste come fondazione del nuovo, la crea-
zione, nel senso romano del termine, di una tradizione
166
e di una autorità. Ella si pone, cioè, questo interrogati-
vo: è stata possibile la fondazione di un nuovo corpo
politico in cui ogni singolo ha potuto partecipare alla
vita politica? E come? Cosa ha significato fondare un
corpo politico sulla libertà? Che cosa è storicamente
avvenuto?
167
3. L’inedito nella storia: le rivoluzioni.
‘Liberazione da’ o ‘libertà di’:
qual è il fondamento del nuovo corpo politico?
La politica come natalità.
La Arendt individua nella rivoluzione il momen-
to in cui è possibile l’affermazione, nell’età moderna,
di una politica autentica, intendendo per ‘età moder-
na’ quel periodo di tempo in cui sembra che l’azione
politica progressivamente vada scomparendo fino ad
estinguersi del tutto con il totalitarismo.
La rivoluzione, anzi la storia delle rivoluzioni, quella
americana del 1776, quella francese del 1789, infine quel-
la ungherese del 1956, diventano, quindi, la chiave inter-
pretativa dei fenomeni storici moderni.156
156 Alcune critiche sono state mosse a riguardo: 1) Habermas sostieneche la Arendt abbia distinto e contrapposto una ‘buona’ ed una ‘cattiva’rivoluzione, l’una politica, la rivoluzione americana, l’altra sociale, quellafrancese. Si potrebbe obiettare che la Arendt comunque sottolinea che larivoluzione americana fallisce nei suoi effetti perché i cittadini poi in-tendono la libertà come libertà della sfera privata contro il mondo poli-tico. 2) Lo storico Hobsbawm ritiene che la Arendt avrebbe dovuto te-
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168
Che cosa s’intende per rivoluzione?157
La Arendt cerca di recuperare il significato au-
tentico della nozione in relazione con i concetti di li-
bertà e potere, anch’essi sclerotizzati da schemi e teo-
nere in debito conto anche la prima rivoluzione inglese. Questo non èpossibile perché la Arendt è stata molto più attenta a quelle rivoluzioniche sul piano delle istituzioni hanno dato luogo a delle reali modifiche:la rivoluzione dei livellatori è stata una rivoluzione mancata, sebbeneabbia aperto la strada alla monarchia costituzionale. 3) Per Nisbet laArendt ha minimizzato la questione sociale presente in America. Questaobiezione non tiene conto, tuttavia, che non c’era la stessa pressione sulgoverno americano come dei sanculotti sui giacobini, né le stesse ver-tenze economiche.157 «La rivoluzione è il tentativo accompagnato dall’uso della violenzadi rovesciare le autorità politiche esistenti e di sostituirle al fine di effet-tuare profondi mutamenti nei rapporti politici, nell’ordinamento giuri-dico-costituzionale e nella sfera socio-economica. (...) La necessità del-l’impiego della violenza come elemento costitutivo di una rivoluzionepuò essere teorizzato in astratto, ma senza fondamenta storiche, rilevan-do come le classi dirigenti non cedano il loro potere spontaneamente esenza opporre resistenza e come quindi i rivoluzionari siano costretti astrapparlo loro con la forza, e sottolineando inoltre che i mutamenti in-trodotti dalla rivoluzione non possono essere accettati pacificamente,poiché significano perdita di potere, status e ricchezza per tutte le classicolpite. (...) ...in taluni casi le rivoluzioni sono forzature della storia,forse inevitabili ma pur sempre forzature». G. Pasquino, Rivoluzione, inN. Bobbio, N. Metteucci, G. Pasquino, Dizionario di politica, op. cit.
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169
rie reciprocamente escludentisi. Ella sostiene che non
esiste il mito della violenza rivoluzionaria creatrice,
né che la rivoluzione vada interpretata come una ‘fi-
gura’ del progressivo avanzare dello spirito assoluto
oppure come lo sbocco necessitato delle contraddizioni
economico-sociali.
Lontano dalla prospettiva hegeliana e marxista,
la Arendt opera un distinguo tra libertà e liberazione:
«la liberazione può essere una condizione della liber-
tà, ma è assolutamente da escludere che vi conduca
automaticamente; (...) il concetto di libertà implicito
nella liberazione può essere solo negativo, e quindi
l’intenzione di liberare non si identifica col desiderio
di libertà».158
La libertà non può essere ‘liberazione da’ così come
l’evento rivoluzionario non può essere necessitato o de-
terminato da forze storiche. Esso, anzi, si sostanzia della
libertà che è ciò che appare nella relazione plurale tra gli
158 H. Arendt, Sulla rivoluzione, cit.
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170
uomini che partecipano alla vita pubblica, è capacità cora-
le di dare vita e partecipare al nuovo assetto politico.
Libertà non è necessità né atto di volontà.
La rivoluzione, dice la Arendt, «si decide da sola»,
sulla base di fatti ed avvenimenti per i quali gli uomini
sono attori-spettatori e non autori.
Vicina alla teoria di Rosa Luxemburg, ella ritiene
che «una buona organizzazione dell’azione rivoluzio-
naria può e deve essere appresa nel corso stesso della
rivoluzione, allo stesso modo in cui si impara a nuota-
re soltanto nell’acqua. (...) Le rivoluzioni non sono
“fatte” da nessuno, ma erompono spontaneamente».159
Le rivoluzioni sono gli eventi che irrompono nel-
la routine della storia e ne cambiano il volto; sono atti
inaugurali di un nuovo inizio, la cui conoscenza, da
parte dei protagonisti, emerge solo «dopo che essi erano
giunti, in gran parte contro la loro volontà, ad un pun-
to da cui non si poteva tornare più indietro».160
159 Ibidem.160 Ibidem.
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171
Il termine rivoluzione venne mutuato dall’astro-
nomia e solo nel 1660 venne utilizzato per designare
un cambiamento politico, la restaurazione della mo-
narchia in Inghilterra.
La rivoluzione era essenzialmente ‘rivoluzione
conservatrice’.
Chi era entrato nel gioco rivoluzionario credeva di
poter restaurare un antico ordine di cose, cose appartenen-
ti al passato, e, solo nel corso stesso della rivoluzione, si
rese conto che ciò era impossibile. Si trattava di una im-
presa totalmente nuova, una novità assoluta.
«Ciò che essi avevano concepito come una restau-
razione, un recupero delle loro antiche libertà, diven-
ne invece una rivoluzione».
Gli uomini della rivoluzione si resero conto solo
dopo che avevano la possibilità non già di ripristinare
una tradizione consumata bensì creare un nuovo ordi-
ne politico, la repubblica, un novus ordo saeclorum.
E’ questo il significato autentico di rivoluzione,
la cui idea centrale «è l’instaurazione della libertà, os-
172
sia la fondazione di uno stato che garantisca lo spazio
in cui la libertà può manifestarsi».161
L’analisi comparativistica delle due importanti ri-
voluzioni dell’età moderna, quella americana e quella
francese, pur presentando delle limitazioni, tenta un
discorso che non si riduca all’astrattezza, che resti, cioè,
puramente teorico, anche se per gli specialisti questo
è un aspetto spesso insoddisfacente.
Il disegno della Arendt è seguire la tradizione de-
mocratica per raccontarne la fondazione e capire come
mai la tradizione filosofica, sia da Hobbes a Schmitt
che da Rousseau agli eredi dei giacobini, non è riusci-
ta ad impedire il totalitarismo.
«In termini generali possiamo dire che nessuna
rivoluzione è addirittura possibile là dove l’autorità
dello Stato è veramente intatta (...). Le rivoluzioni
sembrano sempre riuscire con straordinaria facilità
nella loro fase iniziale e la ragione è che i loro arte-
161 Ibidem.
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173
fici all’inizio non fanno che strappare il potere ad un
regime in piena disgregazione.
Sono insomma la conseguenza non la causa del
crollo dell’autorità politica».162
Dovremmo pensare che l’avvento del nazional-
socialismo è stato conseguenza della crisi della Re-
pubblica di Weimar: la vulnerabilità delle istituzioni
e il malcontento sociale hanno favorito il partito na-
zionalsocialista e la violenza adottata per giustifica-
re la trasformazione radicale del ‘vecchio ordine’.
La presa di potere di Hitler in Germania era sa-
lutata dai nazionalsocialisti come «rivoluzione na-
zionale»163 : in realtà, sebbene «nei primi anni del loro
162 Ibidem.163Cfr. Bracher, che sostiene «Propagandisti, politici e giuristi nazionalso-cialisti fin da principio si preoccuparono particolarmente di sottolineare cheil governo hitleriano avrebbe significato l’inizio di una rivoluzione, di unprofondo mutamento di tutte le cose, ma che si trattava di un processo lega-le, svolgentesi nell’ambito del diritto e della costituzione. Mediante il con-cetto paradossale di rivoluzione legale vennero uniti artificiosamente dueassiomi della azione politica che si contraddicevano reciprocamente». K. D.Bracher, La dittatura tedesca. Origini, strutture, conseguenze del nazional-
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174
regime i nazisti riversarono sul paese una valanga di
leggi e decreti»,164 non venne mai abrogata la carta
costituzionale di Weimar, tant’è che essa era formal-
mente in vigore ancora al momento della dissoluzio-
ne della Germania e della morte del Führer.
La rivoluzione in quanto tale non può non condur-
re, secondo l’accezione arendtiana, ad una nuova co-
stituzione, segno tangibile della fondazione del nuovo
corpo politico.165
Nonostante la dichiarazione di voler attuare una
socialismo, Bologna, Il Mulino, 1973. Anche Nolte scrive che in Germania«si compì una rivoluzione senza alcuna violazione rivoluzionaria della le-galità vigente (e insieme senz’ombra di rispetto per essa) ». E. Nolte, I trevolti del fascismo, Milano, Mondadori, 1971.164 H. Arendt, Le origini del totalitarismo, cit. , p. 541.165 La costituzione è la struttura stessa di una comunità politica organiz-zata. L’esigenza di una costituzione scritta fu per la prima volta avvertitain Inghilterra durante il periodo delle guerre civili, sebbene questa re-stasse poi fedele alla costituzione consuetudinaria. La prima costituzio-ne scritta fu quella della Virginia nel 1776, a cui seguirono altri statiamericani, fino a che, nel 1788, venne portato a termine il processo co-stituente con la ratifica, da parte della maggioranza degli stati, della co-stituzione degli Stati Uniti d’America, stesa alla Convenzione di Fila-delfia, costituzione da allora ancora vigente.
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175
«rivoluzione permanente»,166 con il nazionalsociali-
smo, invece, non si è avuto alcun ammodernamento
delle istituzioni.
In America, invece, con la rivoluzione del 1776,
era accaduto proprio il contrario.
La rivoluzione americana aveva avuto il pregio di
mettere in evidenza la possibilità dell’agire politico
autentico: nel nuovo mondo, il patto sottoscritto l’11
novembre del 1620 sul Mayflower dai Padri Fondato-
ri aveva coniugato potere politico e libertà, felicità e
vita pubblica grazie ad una nuova concezione del po-
litico come «pratica di libertà». «Ciò che in realtà fece
la rivoluzione americana fu di portare alla ribalta la
nuova esperienza ed il nuovo concetto di potere ame-
ricano. Come la prosperità e l’uguaglianza di condi-
zioni questo nuovo potere era più antico della rivolu-
166 La nozione di ‘rivoluzione permanente’ rinvia al carattere di movi-mento incessante, di mobilitazione che doveva impedire la stabilità delgoverno. Per questo l’hitlerismo mette in atto una selezione razziale in-cessante affinché si prevenga l’anchilosi del Volk, mentre lo stalinismoattua una lunga serie di epurazioni e trasferimenti della popolazione.
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zione, ma non sarebbe sopravvissuto senza la fonda-
zione di un organismo politico, destinato esplicitamen-
te a difenderlo e a conservarlo; senza rivoluzione, in
altre parole, quel nuovo principio di potere sarebbe
rimasto nascosto».167
Diversamente era stato per la rivoluzione france-
se, il cui esito fu fallimentare, da una parte perché si
rivelò più astratta, progettata da intellettuali interessa-
ti ad elaborare idee e teorie piuttosto che pratica poli-
tica, dall’altra per l’emergenza della questione socia-
le, per cui la libertà veniva ad identificarsi con la libe-
razione dal bisogno.
Non la libertà pubblica era lo scopo dei rivoluzio-
nari, bensì il benessere del popolo.
In concreto, «quando si scatenò questa forza, quan-
do ognuno fu convinto che solo l’interesse nudo e il
167 H. Arendt, Sulla rivoluzione, cit. Peraltro, il patto dei Padri Pellegri-ni, che erano giunti sulle desolate spiagge di Cape Cod, servì a fondarela comunità politica di Plymouth: fu il punto di avvio di altrettanti cove-nants ed agreements da cui, nel New England, nacquero numerose co-munità.
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177
bisogno erano senza ipocrisia, i malheureux si cam-
biarono in enragés, perché la rabbia è in realtà l’unica
forma in cui la miseria può diventare attiva».168
Per la Arendt viene a confondersi ciò che è neces-
sariamente legato alla natura dell’uomo e ciò che gli
conferisce identità e dignità, poiché con la rivoluzio-
ne francese la politica viene subordinata alla questio-
ne sociale, ergo all’economico.
Tale confusione è particolarmente evidente nella
nozione di popolo.
«La definizione stessa del termine era nata dalla
compassione e la parola divenne sinonimo di sfortuna
e infelicità -le peuple, les malheurex m’applaudissent,
soleva dire Robespierre; le peuple toujours malheu-
rex, come si esprimeva perfino Sieyès, una delle figu-
re meno sentimentali e più lucide della Rivoluzione».169
Il termine popolo rinvia tanto al soggetto politico
costitutivo quanto alla classe che di fatto é esclusa dalla
168 H. Arendt, Sulla rivoluzione, cit.169 Ibidem.
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178
politica. Sia nell’italiano popolo che nel francese peu-
ple o lo spagnolo pueblo, con i connessi aggettivi, è
presente questa ambiguità semantica; lo stesso per l’in-
glese people, che conserva, anzi, un ordinary people
in opposizione alla nobiltà.170
Popolo e popolo, quindi, una frattura che ha de-
viato l’azione politica in Europa fin dalla Rivoluzione
francese.
In Le origini del totalitarismo, la Arendt aveva
rimarcato che nel momento in cui il popolo tedesco si
era riconosciuto nella razza ariana era Volks per il di-
ritto, corpo politico integrale, e sanciva così l’esclu-
170 «Nella costituzione americana si legge, senza distinzioni di sorta,“We, the people of the United States...”; ma quando Lincoln, nel discor-so di Gettisburgh, invoca un “Governement of the people by the peoplefor the people”, la ripetizione contrappone implicitamente al primo po-polo un altro», da G. Agamben, Mezzi senza fini, op. cit., p.30. L’abateSieyès, autore del famoso Qu’est-ce que le Tiers Etat? (1789) avevaparlato della ‘nazione’ come se intendesse l’intero popolo francese. Inrealtà il riferimento era per la borghesia: la ‘nazione’ borghese era un’uni-tà compatta esprimente non l’empirica volontà generale, bensì l’assolu-ta volontà generale per cui si condannavano i partiti e le fazioni. Anchein questo caso il termine popolo risulta equivoco.
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sione dai diritti il cittadinanza degli ebrei e di quanti
identificava con la categoria di «nemico oggettivo».171
Una legge di natura, dunque, aveva finito per per-
meare il diritto rendendo ancor più catastrofica la frat-
tura Popolo e popolo.
L’equivoco, dunque, che compromise il buon esi-
to della rivoluzione francese fu il voler «emancipare
la natura», voler porre una soluzione ai bisogni natu-
rali: «La necessità invase così il campo del politico,
l’unico in cui gli uomini possono essere liberi».172
In America esistevano delle precondizioni, la relati-
va eguaglianza e la mancanza di una radicale questione
sociale, le quali permisero che il sociale, il privato, non
inficiasse la politica. La felicità era ‘felicità pubblica’, il
consenso era ‘scambio di opinioni tra eguali’, la sovranità
del popolo non era concezione assoluta.
171 Con la ‘soluzione finale’, i nazisti tentarono di eliminare dalla scenapolitica gli ‘indesiderabili’, compito che essi ostinatamente andavanoad assolvere anche per gli altri popoli europei.172 H. Arendt, Sulla rivoluzione, cit.
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180
La pratica politica del Mayflower Compact, mai
interrotta dalla posterità dei Padri Fondatori, aveva
portato in risalto che la capacità umana di costituire il
mondo avrebbe di per sé garantito e tutelato gli uomi-
ni dalle pulsioni naturali.
Nessun ricorso, quindi, a finzioni circa la natura
dell’uomo, come volevano le classiche teorie contrat-
tualistiche, né alcun ricorso all’Assoluto - Robespierre
aveva reclamato l’ «Essere Supremo» come garanzia
della stabilità della repubblica laddove nel contesto re-
ligioso, tipicamente europeo, si faceva ancora appello
al «Dio Onnipotente» che aveva dotato gli uomini di
«diritti inalienabili».
La rivoluzione francese non aveva fatto altro che
sostituire la volontà del popolo, che si rivela come
dispotismo della maggioranza, sul dominio dell’uomo
sull’uomo e riconoscere la sottomissione dell’uomo
alla legge divina o morale, mantenendo ben ferma la
confusione tra potere e dominio.
E per la Arendt il dominio è una interpretazione
181
falsificata e falsificante del potere.173 Non solo. Il buon
esito della rivoluzione francese sarebbe stato deviato
dal terrore.
La considerazione che il terrore sia lo strumento
che permetta la conservazione del potere e che la vio-
lenza sia necessaria per la creazione di un corpo po-
litico viene confutata dalla Arendt facendo riferimen-
to al racconto di Melville, Billy Budd, e all’episodio
del Grande Inquisitore nei Fratelli Karamazov di Do-
stoevskij.
Ella si serve di queste due opere letterarie per
mostrare come, nella storia, chiunque, sia esso popo-
lo, classe o individuo, si ponga come depositario del
bene assoluto risponda poi con la violenza all’ingiu-
stizia. Non esiste nessuna violenza necessaria, anzi essa
testimonia di un vuoto del diritto e, quindi, di un vuo-
173 Illuminante è il saggio di P. Ricoeur «Pouvoir et violence», in Politi-que et pensée. Colloque Hannah Arendt, Éditions Payot & Rivages, Pa-ris, 1996. Questa raccolta di saggi è apparsa per la prima volta con iltitolo Ontologie et politique. Hannah Arendt, presso le edizioni Tierce,1989.
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182
to della giustizia. Lo stesso deve dirsi per il terrore
totalitario.
Durante la rivoluzione, in Francia, la compassione
dei miserabili si era impadronita degli animi più elevati e
li aveva spinti ad azioni non pertinenti alla politica. Il loro
obiettivo divenne lo smascheramento dell’ipocrisia, del-
l’inganno sociale, in un tempo, quello della monarchia as-
soluta, in cui facilmente si violavano i giuramenti e si pas-
sava all’intrigo. Già per Rousseau il male principale della
società era l’ipocrisia, cioè la mancanza di promesse, non
mantenute dal potere centrale, verso il popolo. Se per So-
crate l’ipocrita era il falso testimone di se stesso, il peggio-
re degli uomini quindi, per Machiavelli, con cui la Arendt
è d’accordo, l’ipocrita è colui che appare quale vuole es-
sere stimato.174
174 Simulazione e dissimulazione sono termini chiave per il discorso sulpolitico. Simulazione è mostrare di essere ciò che non si è ed ha unospettro di comportamenti ben più ampio, in campo politico, della dissi-mulazione, che, in quanto è nascondere ciò che si è realmente, si limitaalla sola sfera dell’inganno più o meno cosciente. cfr. N. Machiavelli, IlPrincipe, Milano, Feltrinelli, 1995.
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183
Nel campo delle relazioni umane, infatti, là dove c’è
apparenza di virtù, ci sono anche gli effetti della virtù e
poco importa se qualcosa di imperscrutabile vi si nasconda.
La deviazione verso il terrore per la rivoluzione fran-
cese deriva dal fatto che elementi moralistici erano, come
la compassione e lo smascheramento dell’ipocrisia erano
entrati nella pratica politica, scatenando furori e annullan-
do il regno del diritto che garantisce e tutela tutti.
Lo stesso Robespierre, che pretendeva di essere il
depositario della virtù, era diventato l’uomo del terro-
re. Nel clima di sospetto che circondava i rivoluziona-
ri, chiunque poteva essere sospettato di ipocrisia e di
essere nemico del popolo.
La Arendt, per questo motivo, sostiene la teoria
di Montesquieu,175 che, peraltro, contrappone a Rous-
175 Montesquieu, fedele all’antica iurisdictio, teneva soprattutto all’in-dipendenza della funzione giudiziaria dal politico e al governo misto,visto in funzione dei checs and balances, dei pesi e dei contrappesi perrealizzare un equilibrio costituzionale. Era, dunque, necessaria la sepa-razione di «questi tre poteri: quello di fare le leggi, quello di eseguire lerisoluzioni pubbliche e quello di punire i delitti o giudicare le controver-sie dei privati».
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184
seau. Secondo l’autore dell’ Esprit des lois la virtù non
è un assoluto, deve essere moderata e non deve entra-
re nella politica. Il teorico del costituzionalismo rite-
neva che la garanzia della pluralità risiedeva nella ri-
partizione del potere, in modo tale da mediare le ten-
sioni e i rapporti di forza.
Riproporre Montesquieu e il contrattualismo an-
glosassone come riflessione sul patto e sulle istituzio-
ni realmente esistenti, conduce la Arendt a riflettere
anche sulle modalità della rappresentanza.
La pluralità non può essere rappresentata, innan-
zitutto perché è l’unicità degli esseri che la esclude,
poi perché il concetto di rappresentanza implica l’as-
senza dei rappresentati, quindi la spoliticizzazione della
politica. La rappresentanza si definisce, dunque, come
rapporto di dominio di alcuni uomini su altri, come
organizzazione della forza dei governanti, come di-
sciplinamento centralizzato della decisione. Non c’è
alcunché in comune se non uno spazio.
Alla constitutio libertatis, dunque, cosa occorre?
185
Storicamente in tutte le rivoluzioni si è attuata l’orga-
nizzazione spontanea dei consigli: in quella americana di
Jefferson, nella Comune di Parigi, nei Soviet, persino nel-
la rivoluzione ungherese del 1956. Essi sono la manife-
stazione della vera democrazia perché si dà a tutto il po-
polo la possibilità di agire e di essere responsabili delle
proprie azioni e dell’andamento egli eventi.
E’ garantita l’imprevedibilità, la pluralità, la par-
tecipazione diretta. Nella tradizione occidentale que-
sti sono caratteri a cui si è pensato sempre di porre
rimedio, ad esempio con la formazione dei partiti.
Ne Le origini del totalitarismo, la Arendt aveva già
espresso un giudizio secco e negativo sull’attività dei par-
titi. Questi funzionavano come cinghia di trasmissione
dell’interesse individuale nell’interesse collettivo, come
gruppo di interesse senza riuscire a garantire la singolarità
che si manifesta nella relazione plurale.
Sono esposti alla corruzione e all’inefficienza;
sono antidemocratici per il fatto che indicano i candi-
dati che il cittadino-elettore andrà a votare.
186
Nei consigli, invece, il popolo poteva gestire gli
affari politici direttamente; ogni consiglio avrebbe elet-
to i rappresentanti da inviare ai consigli superiori, se-
condo una piramide che avrebbe formato una élite af-
fettivamente democratica.
Pur proponendo l’abolizione del suffragio univer-
sale, la Arendt ritiene che il metodo dell’alternanza di
due soli partiti possa preservare il sistema da eventua-
li blocchi e pericoli: l’opposizione di un periodo sarà
al potere in un altro momento, senza per questo perde-
re la responsabilità dell’azione politica. Una respon-
sabilità che manca nel caso di più partiti al potere e del
tutto assente sia nella società di massa, in cui i singoli
sono deresponsabilizzati alla politica, sia nel totalita-
rismo, ove tutto è nelle mani del capo.
E’ chiaro che istituzioni e leggi sono il perno fon-
damentale per il corretto funzionamento della demo-
crazia, quanto il consenso.
Quanto, però, i consigli, contrari all’isolamento del
singolo e luogo privilegiato della pluralità irrapresen-
187
tabile e dell’azione intesa come nuovo inizio, sono pra-
ticabili? L’orientamento della Arendt resta un’alterna-
tiva utopica o, quantomeno, non realistica?
CONCLUSIONI
189
In Le origini del totalitarismo la Arendt sottoli-
nea spesso come il totalitarismo distrugge il presup-
posto di ogni libertà, annulla la capacità di agire di
concerto, azzera quello spazio che esiste tra ciascun
uomo libero estraniandolo.
Abbiamo visto come i prodromi dell’ideologia
totalitaria siano nella crisi dello Stato-nazione e nel
contesto socio-culturale-politico in cui si attua l’anti-
semitismo e l’imperialismo. Abbiamo visto come ai
margini della tradizione egemone siano esistite poten-
zialità politiche che si sono sottratte alla categoria del
dominio: l’esperienza della rivoluzione americana e
dei sistemi consiliari.
Se è necessario ripensare la politica, cosa la Arendt
intende per politica?
Un punto è da tener ben presente: la deviazione della
politica è stata evidente quando la sfera del privato si è
confusa, anzi, si è identificata con la sfera pubblica; in
altre parole, quando lo Stato si è aperto alla società o, se
vogliamo, la società è permeata nello Stato. Sono venute
190
meno le categorie tradizionali del pensiero politico: Stato,
sovranità, autorità, potere ed altre.
La Arendt non ha mai identificato il politico con
lo Stato, semmai ne ha rivendicato l’autonomia sottra-
endolo al dominio, lo strumento di coercizione con cui
da Platone in poi si è pensato il potere politico. Anzi,
nella tradizione del pensiero occidentale, il potere è
stato sempre connesso alla violenza come qualcosa di
inscindibile; invece, essi si escludono a vicenda.
I Padri Fondatori americani erano riusciti a istituire
uno spazio politico senza fare ricorso alla violenza, ser-
vendosi solo di una costituzione, anche non erano riusciti
a comunicare nel tempo a venire lo spirito della loro inno-
vativa esperienza. E’ possibile una fondazione senza vio-
lenza; è possibile esercitare il potere senza violenza.
Nella tradizione occidentale, la Arendt rileva che
molti attori rivoluzionari confondono l’atto plurale e
politico della fondazione, da cui deriva l’autorità del
nuovo corpo politico, con la violenza. Ricordando
Machiavelli e Robespierre, dice che «il loro problema
191
era, alla lettera, quello di come fare un’Italia unita o
una repubblica francese, e la loro giustificazione della
violenza nasceva e riceveva la sua intrinseca plausibi-
lità dall’argomentazione sottesa: come non si può fare
un tavolo senza abbattere degli alberi, o una frittata
senza rompere le uova, neppure si può fare una Re-
pubblica senza uccidere qualcuno».176
Così dovremmo giustificare anche il terrore totalitario?
E’ indicibile il passaggio dal «tutto è permesso»
al «tutto è possibile» dei campi di concentramento e
della violenza psicologica che riduce gli uomini ad «un
unico fascio di reazioni».177
«Il dominio per mezzo della pura violenza entra
in gioco quando si sta perdendo il potere».178
176 H. Arendt, What is Authority?, in Between Past and Future, cit.; trad.it. Che cos’è l’autorità? , in Id., Tra passato e futuro, cit.177 H. Arendt, Le origini del totalitarismo, cit.178 H. Arendt, On Violence, Harcourt, Brace & World, 1970, poi in TheCrisis of the Republic, San Diego- New York- London, Harcourt BraceJovanovich, 1972; trad. it. Sulla violenza, in Politica e menzogna, Mila-no, SugarCo,1985, p. 201.
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192
E ancora: «La violenza può sempre distruggere il
potere; dalla canna del fucile nasce l’ordine più effi-
cace, che ha come risultato l’obbedienza più imme-
diata e perfetta. Quello che non può mai uscire dalla
canna di un fucile è il potere».179
Il potere è tale per l’essere-insieme degli uomini,
non è rappresentabile né alienabile, né coincide sul-
l’unanimità.
La Arendt pensa il consenso nei termini di un ‘dis-
sidio’ su cui si acconsente e si può continuare a dis-
sentire. E’ rispetto delle differenze, riconoscimento
della pluralità.
Lo spazio in comune, che non è unicamente spa-
zio fisico, territoriale, bensì è la possibilità dello sta-
re-insieme avendo qualcosa in comune, è il mondo.
Il ‘mondo’ è la ‘casa’ che ‘abitano’ gli uomini. E’
lo spazio dell’apparenza, è il pubblico.
«Il termine “pubblico” equivale al mondo stesso,
179 Ibidem, p. 202.
______________________________
193
in quanto è comune a tutti e distinto dallo spazio che
ognuno di noi vi occupa privatamente. Questo mondo
tuttavia non si identifica con la terra e con la natura,
come spazio limitato che fa da sfondo al movimento
degli uomini e alle condizioni generali della vita orga-
nica. Esso è connesso, piuttosto, con l’elemento artifi-
ciale, il prodotto delle mani dell’uomo, come pure con
le relazioni che intercorrono tra coloro che insieme
abitano il mondo fatto dall’uomo».180
La Arendt è preoccupata -e Le origini del totali-
tarismo lo confermano- per la riduzione degli uomini
in esemplari seriali nella ‘società di massa’, e, soprat-
tutto, se si tratta di una società totalitaria.
E’ come se la vita stessa, nella sua nudità, fosse
entrata per necessità nel dominio pubblico creando
uniformità e spersonalizzazione.
«Il carattere monolitico di ogni tipo di società, il
suo conformismo che concede un interesse solo e una
180 H. Arendt, The Human Condition, op. cit.
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194
sola opinione, è in ultima analisi radicato nell’ essere-
uno del genere umano».181
La società è così omogenea perché tutti gli indivi-
dui hanno i medesimi bisogni materiali, la stessa ur-
genza di provvedere alle necessità della vita. E se un
tempo la distinzione era il contrassegno dell’azione
politica, ora è la moda, l’atteggiamento stravagante,
l’effimero.
Pertanto è la burocrazia che politicamente la ri-
flette.
«Ciò che noi tradizionalmente chiamiamo Stato e
governo lascia qui il posto alla pura amministrazione: a
quello stato di affari che Marx giustamente prediceva come
“l’estinzione dello Stato”, benché sbagliasse nel credere
che solo una rivoluzione potesse causarla».182
Si concretizza «the rule of nobody».
«Il governo di nessuno non è necessariamente un
non-governo; esso può, anzi, in certe circostanze, pro-
181 Ibidem, p. 34.182 Ibidem, p. 33.
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195
dursi in manifestazioni ancora più crudeli e tiranniche
di quelle consuete».183
Il totalitarismo ne è il mostruoso esempio.
Ich selber wirchen? nein, ich will
verstehen. Und wenn andere menschen
verstehen-im sselben Sinne, wie
ich verstanden habe dann gibt mir
das eine Befriedigung wie ein Heimatgefühl.184
183 Ibidem, p. 30.184 «Io esercitare un influsso? No, io voglio capire. E se altri poi capisco-no -alla stessa maniera in cui ho capito io- mi dà un senso di soddisfa-zione come una patria comune».
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«Comunità», XXXV, n. 183, novembre 1981, ha pubblicato i seguentiarticoli:1. J. Habermas: La concezione comunicativa del potere in Han-nah Arendt
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INDICE
239
CAPITOLO PRIMO
GENEALOGIA E TOPOLOGIA DI UN CONCETTOA PARTIRE DALLE INTERPRETAZIONISTORICO-FILOSOFICHE DAGLI ANNI ‘30 AGLI ANNI ‘501.1 - Il concetto ‘totalitarismo’ ............................................................. 31.2 - Genealogia del termine ‘totalitarismo’ ....................................... 18
CAPITOLO SECONDO
«IO PROCEDO DA FATTI E DA AVVENIMENTI.»L’INDAGINE CONTESTUALE DI HANNAH ARENDTPER COMPRENDERE L’EVENTO CHE CARATTERIZZAIL XX SECOLO: IL TOTALITARISMO2.1 - Sentieri di ricerca: anno di svolta 1933 ....................................... 482.2 - L’antisemitismo politico e la questione ebraica .......................... 632.3 - La nuova ideologia degli Stati-Nazione europei in crisi:
l’imperialismo come preludio politico ai movimenti totalitari.La questione degli apolidi e il valore dei diritti umani ................ 74
CAPITOLO TERZO
LA CATEGORIA «TOTALITARISMO»3.1 - Il mutato sfondo socio-politico tra i due secoli:
la nuova società di massa ............................................................ 1003.2 - Gli strumenti del totalitarismo: propaganda, polizia segreta
e burocrazia. L’ideologia come «logica di un’idea» ................... 1113.3 - Terrore e campo di concentramento.
La società dei morenti e il male radicale ................................... 131
240
CAPITOLO QUARTO
IL TOTALITARISMO A CONFRONTOCON LA MODERNITÀ POLITICA4.1 - Definizione del regime totalitario ............................................... 1544.2 - Lo Stato-Leviatano di Hobbes e lo Stato totalitario.
Confronto legittimo? .................................................................... 1604.3 - L’inedito nella storia: le rivoluzioni. ‘Liberazione da’
o ‘liberazione di’: qual è il fondamento del nuovocorpo politico? La politica come natalità .................................... 167
CONCLUSIONI .................................................................................. 189
BIBLIOGRAFIAScritti di Hannah Arendt ...................................................................... 197Bibliografia degli scritti di Hannah Arendt ......................................... 220Bibliografia dei saggi critici su Hannah Arendt ................................. 225Fascicoli dedicati ad Hannah Arendt ................................................... 228Bibliografia essenziale sul «totalitarismo» ........................................... 230
INDICE ................................................................................................ 239