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© 2015 Editrice ZONA · 2015. 12. 4. · Non ho detto che alla casa si accedeva varcando un...

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Vivere cinque ore, vivere cinque età.I luoghi, i tempi e le persone della mia vitadi Stefano PalladiniISBN 978-88-6438-591-4Collana: ZONA Contemporanea

© 2015 Editrice ZONASede legale: Corso Buenos Aires 144/4, 16033 Lavagna (Ge)Telefono diretto 338.7676020Email: [email protected]: [email protected] site: www.editricezona.it - www.zonacontemporanea.it

ufficio stampa: Silvia Tessitore - [email protected] grafico: Serafina - [email protected]

Stampa: Digital Team - Fano (PU)Finito di stampare nel mese di novembre 2015

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Stefano Palladini

VIVERE CINQUE ORE, VIVERE CINQUE ETÀ

I luoghi, i tempi e le persone della mia vita

ZONA Contemporanea

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L’infanzia

Via della Garbatella è una traversa della più importante via delle Sette Chiese. Questa va dalla Basilica di San Paolo al Di-vino Amore. Non ricordo a mente tutti i nomi delle Sette Chiese, ma questi si possono trovare su una buona guida.

Via della Garbatella sarà lunga 300 metri e su di essa si af-facciano villini quadrifamiliari e qualche edificio più grande. Io sono nato in uno di questi villini quasi in fondo alla strada. Coi nostri vicini avevamo buoni rapporti. C’era sempre l’occasione di dare o ricevere qualcosa. All’inizio nel 1942 vennero a casa i miei genitori freschi di nozze. La casa era stata costruita nel 1921 e l’intestataria era mia nonna Nina, che ora si trovava in Turchia presso la figlia, mia zia Iris, sorella di papà. Nonna non accampava più diritti sulla casa per cui potevamo considerarla nostra.

Daniela nacque il 6 maggio del 1943 e io il 5 maggio del 1946. In pochi anni eravamo diventati una bella famiglia.

La Garbatella è delimitata da via Delle Sette Chiese, via Ostiense e via Pellegrino Matteucci, una strada che sfocia quasi alla Piramide. Un triangolo quindi. Nel 1950, anno del Giu-bileo, fu realizzata via Cristoforo Colombo che in qualche modo tramutava il triangolo in un quadrilatero. Io ricordo an-cora le passeggiate con papà per arrivare a vedere la Colombo e notare le automobili sfrecciare veloci su questa modernissima arteria.

A casa stavamo un po’ stretti. C’era la cucina molto grande, poi il bagno, la stanza da letto dei miei genitori e la stanza dove vivevamo e dormivamo io e Daniela. Per andare in camera dei

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miei, bisognava salire una scala di diciannove gradini di marmo peperino, ancora oggi efficienti. Aprendo la porta che dava su un pianerottolo senza divisioni coi vicini, i Ricci, si scendeva in giardino con una scala di dieci gradini. Il giardino girava intorno alla casa. C’erano un olmo, una palma, un albi-cocco, un melograno e tante piante da fiori che curava mamma. Sempre nel giardino, c’era una scaletta di cinque gradini che portava al livello inferiore quasi all’altezza della strada. C’era poi una fontana con cui mamma o la donna di servizio, Lisa, facevano il bucato. C’era spazio per stendere i panni su dei fili di ferro che erano stati installati sulle pareti della casa vicino alla fontana.

Non ho detto che alla casa si accedeva varcando un cancel-letto di ferro, senza serrature, non ce n’era bisogno. Oggi in-vece il cancello si apre a scatto da dentro casa e c’è pure il cito-fono. Ricordo che il postino con la sua grande borsa gridava il nome Ricci o Palladini quando c’era posta e qualcuno scendeva a prenderla. Nella casa c’era anche un bel corridoio dove io fa-cevo correre le mie prime macchinine. Mia sorella quando ero piccolissimo mi accudiva e mi rendeva partecipe in qualche modo dei giochi che faceva. C’è una foto che non ritrovo più in cui si vede Daniela che mi sostiene per le braccia facendo un certo sforzo. Passavamo ore in giardino per cui, quando veniva l’estate, eravamo già abbronzati. Crescendo ci allontanammo un po’. Daniela andava a scuola e cominciava ad avere delle amichette con cui giocare con le bambole.

Io rimanevo da solo ma mia nonna mi aveva confezionato dei pupazzetti di lana perfettamente somiglianti ai cowboy, con cui giocavo per ore dando loro un nome e facendoli andare a cavallo. Mia nonna infatti mi aveva fatto anche quello. Dovevo attendere ancora qualche anno prima di avere un compagno di giochi.

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Qualche volta mi univo al gioco di Daniela e delle sue amiche: nascondarella, acchiapparella, campana. Oppure parte-cipavo come ospite al tè che Daniela preparava spremendo la parietaria.

Quando ci facemmo un po’ più grandi si aprì la porta di casa Ricci. C’erano Jole e Oreste. Tutti e due più grandi di noi. Jole dava a Daniela “Grand hotel” e Oreste a me “Tex” e “Capitan Miki”, che cominciavo allora a leggere. Poi Jole raccontava del suo grande amore, Renato, che studiava Ingegneria.

La mattina alle elementari andavamo insieme io e Daniela. Era un percorso di meno di un chilometro. E lo stesso face-vamo all’uscita. Daniela faceva la quarta e io la prima. Andò avanti così finché Daniela non andò alle medie al “Virgilio” in via Giulia. Anch’io mi ero fatto un amico. Si chiamava Tonino e abitava di fronte a noi al Lotto 10, un grosso agglomerato di palazzi l’uno attaccato all’altro, a formare una specie di piaz-zale dove si poteva giocare a palline e far passeggiare il cane, per chi ce l’aveva.

Oreste mi aveva costruito, scavando nel tufo di un muretto che c’era nel mio giardino, dei fortini dove potevamo piazzare i soldatini. La guerra era di abbatterli lanciando sassetti. Vinceva chi aveva ancora soldatini vivi. Tonino aveva una mira speciale e quasi sempre vinceva lui. Poi giocavamo a figurine. A quei tempi c’era un album difficilissimo da completare. Io andavo da solo dal giornalaio che c’era in piazza Bartolomeo Romano di fronte al Palladium, un cinema. Era bello scartare le figurine e sentire l’odore di colla. “Ce l’ho... mi manca”. Questo da solo. Poi a scuola potevo fare dei baratti usando i doppioni e alla fine potevo giocarmele con Tonino e altri ragazzini che all’occorrenza venivano. Il gioco consisteva nel far scivolare da un gradino di una scala una figurina sull’altra posta al gra-dino inferiore. Siccome oltre il cancello c’erano due rampe di scale, si può immaginare come questo angolo divenisse una

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specie di bisca. I ragazzini esterni dicevano parolacce e allora Jole o Oreste li cacciavano via brutalmente. Tanto poi sareb-bero ritornati alla prossima occasione.

Con Tonino a volte facevamo la lotta a io vincevo immanca-bilmente. Lui era più gracile di me.

Man mano che crescevo Oreste mi insegnava a calciare il pallone: di piatto, di collo, di interno e all’ungherese (con l’e-sterno del piede). Lui era appena tornato da scuola. Usavamo il cancello del mio giardino e il sotto di un tavolo di marmo. Na-turalmente le partitelle che facevamo le vinceva lui. Del resto aveva 11 anni più di me. Un altro segreto mi rivelò Oreste. Pos-sedeva una mazzafionda di legno robusto con elastici a qua-drelli. Sul manico c’erano tante tacche. Oreste mi disse che ognuna corrispondeva a un uccello ucciso. Io, sostenuto da Da-niela, odiavo il fatto che si dovessero uccidere gli uccellini che volavano e cinguettavano nei giardini dei villini. Ero animalista ante litteram. Oreste da parte sua era orgoglioso di “Vento della morte” la sua fionda cui aveva dato il nome della pistola di Tex Willer. Poi raggiunta l’età divenne cacciatore e noi lo guarda-vamo tornare col carniere pieno. La mattina col padre anda-vano via all’alba e noi che dormivamo non potevamo dir loro “Buona caccia!”, che porta sfortuna.

Tutto sommato però Oreste era per me un maestro per il calcio, che cominciavo ad amare, e per Tex. Quei giornaletti mi piacevano da morire e io preferivo ad altri o ai libri. Ci trovavo un sapore di avventura che mi affascinava. Però papà ci avviò alla lettura del “Corriere dei piccoli” che già lui aveva letto. Quel mondo mi prese davvero. Oltretutto apprezzavo le stro-fette e in qualche modo anticipavo il mio futuro di cantautore e di verseggiatore (non dico poeta perché è una parola forse troppo grossa).

Quando ero un po’ più grande (sempre alle elementari) Oreste a volte mi portava con sé a giocare a calcio ai campi

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detti “della Marina”. Erano prati abbastanza regolari e si gio-cava bene. Erano intorno alla Basilica di San Paolo ai confini della Garbatella. Si giocava tra ragazzi della Garbatella o anche di San Paolo e Ostiense. Chi veniva a giocare era Enzo Stajola, divenuto celebre per aver impersonato il bambino di “Ladri di biciclette”, gettato poi nel dimenticatoio. Enzo aveva un carat-tere mite e tutto sommato non se l’era presa. Ma una grossa in-giustizia era stata perpetrata ai suoi danni e in una sua missione in UK di mio padre. Una signora gli aveva chiesto se cono-sceva Enzo Stajola. Papà gli aveva detto di sì e la signora aveva commentato con un “wonderful!”.

A scuola ero il primo della classe. Ma mamma mi fece sal-tare la quinta perché c’era un maestro che non andava bene. Così mi ritrovai all’esame di stato per l’ammissione alla scuola media. Lo feci a Santa Marinella e andò molto bene. L’anno dopo ero anch’io al “Virgilio”. Come Daniela.

C’erano dei disagi nella casa che la rendevano più difficile da abitare. Per esempio non c’era la doccia o la vasca. Mamma ci faceva il bagno in una tinozza. A turno. Papà andava ai bagni pubblici che stavano in piazza Bartolomeo Romano. Mamma nella tinozza dopo di noi. Poi non c’era un vero salotto dove ri-cevere gente. Quando era la bella stagione ci mettevamo in giardino con le sdraio e altre seggiole. Tutto sommato, mal-grado queste limitazioni, di gente a casa ne veniva tutte le setti-mane.

Gli ospiti più graditi erano per me i cugini Gianni, figlio di zia Wanda e zio Gualtiero, e Sergio, figlio di zio Eros e zia Laura. Con Gianni un pomeriggio, quasi sera, ci mettemmo a lanciare dei pezzetti di legno ai passanti di via della Garbatella. Noi li vedevamo e loro non ci vedevano. Andò tutto liscio fino a che un signore colpito dal legnetto non s’infuriò. Imprecando varcò il cancelletto ed entrò nel giardino. Io e Gianni ci era-vamo acquattati nel cespuglio di margherite che era molto fitto.

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Quel signore tirò fuori una lampada tascabile e cominciò, sempre imprecando, a perlustrare il giardino. Noi non fiata-vamo e stavamo immobili. Dopo un po’ l’energumeno si stancò di guardare e se ne andò, per fortuna senza suonare il campa-nello. Tirammo un sospiro di sollievo e fummo contenti che il nostro pericoloso gioco avesse funzionato.

Con Sergio, data la sua passione per il ruolo di portiere nel calcio, giocavamo a tiri in porta. Chi sbagliava si doveva met-tere in porta, costituita dal cancello col quale giocavo con Oreste. Io tiravo forte e preciso, applicando le lezioni di Oreste, e Sergio si gettava spericolatamente. Tuttavia facevo quasi sempre goal e lui rimaneva in porta.

Qualche volta capitavano Gianni e Sergio insieme. Allora ti-ravamo fuori qualche gioco da tavolo: Monopoli, Il gioco dell’oca. Oppure le carte francesi per giocare a canasta (io avevo imparato da poco, mi aveva insegnato Daniela).

Queste visite dei cugini non erano frequentissime. Io quoti-dianamente giocavo con Tonino e qualche altro “ragazzaccio” che si intrometteva. Giocavamo molto a palline. Il gioco consi-steva nel lanciare anche da lontano la pallina in una buca. Fatto questo, se si era centrata la buca si poteva lanciare la pallina contro le palline degli altri contendenti. Le palline non si pote-vano nascondere. Ogni pallina colpita diveniva proprietà del ti-ratore. Al primo sbaglio cambiava il tiratore e così via fino a esaurimento delle biglie. Sì perché c’era sempre uno più bravo che portava via tutte le palline agli altri. Di solito era uno dei “ragazzacci” ben addestrato a giocare per strada e all’interno del grande Lotto 8. Io e Tonino restavamo con un palmo di naso ma tutto sommato era stato bello giocare pur perdendo.

A volte ero io che mi univo ai ragazzi di strada. Si giocava a vari giochi. Uno era la “nizza”. Coi manici di scopa si rita-gliava un legnetto affilato da tutte e due le parti. Colpendo con una mazza sempre fatta con il manico di una scopa si faceva

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saltare la nizza e la si colpiva a volo cercando di infilarla nella casa base degli avversari. Questi si difendevano con un bastone cercando di impedirne l’ingresso. È chiaro che la massima re-sponsabilità ce l’aveva il battitore. Non ricordo se respinta la nizza si poteva ritentare da più vicino. Mi sembra di sì.

Questo gioco che assomiglia vagamente al baseball ameri-cano impegnava un certo numero di ragazzi e aveva bisogno di grandi spazi. Di solito andavamo a giocarlo al lotto 8 o se c’e-rano delle proteste andavamo per strada a via della Garbatella.

Io non ero affatto bravo in questo gioco e mi riservavo parti marginali. C’erano dei ragazzi molto bravi che avrebbero po-tuto giocare a baseball.

Sempre della serie “riuso di oggetti a fini diversi”, se capi-tava un ombrello rotto si sfilavano i raggi e curvandone uno e legandone le estremità con uno spago si otteneva un arco pic-colo ma molto flessibile. Le frecce erano gli altri raggi non uti-lizzati e magari un po’ scorciati. I “ragazzacci” usavano questi archi per colpire. Il pericolo era minimo ma ci si poteva far piz-zicare. Di solito i bersagli preferiti erano le ragazzine che alla vista dell’arco sciamavano ridendo e spesso venivano colpite nel sedere. Che era quello che si voleva. Io non amavo questo gioco perché mi sembrava violento. Meglio i cartoccetti. Qui si trattava di avere una canna o un pezzo di tubo di plastica (quello usato degli elettricisti). Poi si prendeva un vecchio gior-nale o un vecchio quaderno. Si ritagliavano delle strisce che poi si arrotolavano: i cartoccetti. Questi si infilavano nel tubo o nella canna fino a che non erano a filo con l’apertura. Era im-portante che il cartoccetto calzasse a pennello colla apertura della canna o del tubo. A questo punto bisognava prendere in bocca il tubo o la canna e soffiare forte e secco. Il cartoccetto diveniva un proiettile velocissimo. Si poteva colpire un bersa-glio anche a 20- 30 metri di distanza. I “ragazzacci” incattivi-vano il gioco mettendo uno spillo sulla punta dei cartoccetti.

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Questa variante era un po’ pericolosa e io non l’ho mai adot-tata. Anche qui i bersagli preferiti erano le ragazze.

Si sarà notato come io mi differenziassi sempre dai “ragaz-zacci”. Chi erano costoro? Erano ragazzi di famiglie più povere e meno acculturate. Animaletti scatenati e pronti a colpire. To-nino, figlio di un sarto, era già su un livello culturale un po’ più elevato. Per questo lo preferivo agli altri. Io ero molto corteg-giato dai ragazzacci che avevano visto mio padre in divisa dell’Aeronautica e con l’autista. Poi avevo il giardino con gli alberi da frutto. Poi andavo bene a scuola e avevo sempre il grembiule pulito e stirato. Insomma ero un signorino che abi-tava alle case popolari ma sempre un signorino. Da parte mia io ero attratto dalla vitalità dei ragazzacci, dalla voglia inesausta di divertirsi, dal desiderio di trasgredire. Ma mi frenava la mia educazione. Mia madre era maestra elementare e mio padre ca-pitano dell’Aeronautica.

Nel mentre mi avventuravo in questi giochi maschili, non cessavo di frequentare Daniela. Lei mi aveva insegnato a gio-care a canasta e facevamo delle partite lunghissime. Lei mi aveva introdotto ai libri e io cominciai con Salgari. Credo che il primo letto fosse Le tigri di Mompracem. A scuola leggevamo Pinocchio e il libro Cuore. Con mamma che era una fanatica di questi due libri, facevamo degli approfondimenti per me molto utili anche a livello scolastico.

Io e Daniela non avevamo smesso di saccheggiare le colle-zioni di Jole e Oreste: “Tex Willer”, “Capitan Miki” e “Grand Hotel”. Mamma sorvegliava queste nostre letture e ci spingeva verso i libri veri.

L’estate la casa si chiudeva e andavamo in vacanza. Prima al mare. A Follonica. Eravamo in casa dei signori Lomi: Clara e Marx (sì proprio così, era un fervente comunista). Al mare an-davamo allo stabilimento Parrini. C’era pure una rotonda sul mare, come nella canzone di Fred Bongusto. Prendevamo il

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pattino il sabato quando c’erano papà e zio Gualtiero che rema-vano. A proposito la vacanza la condividevamo con zia Wanda, zio Gualtiero, Paola e Gianni. Io ero felice di stare con mio cu-gino. In realtà poi facevamo cose diverse ma ci ritrovavamo sempre.

Io sulla spiaggia avevo fatto amicizia coi ragazzi del posto. Facevamo delle piste monumentali. Specie grazie a Giulio un vero ingegnere della sabbia. Si correva dapprima con le palline di vetro o di terracotta poi con delle palline più grandi con dentro la fotografia dell’atleta. Io ero abbastanza bravo ma non tanto da battere i fenomeni locali. Gianni era poco interessato a questo gioco e cominciava a interessarsi delle ragazzine. In questo pur avendo un anno meno di me era più precoce.

Il pomeriggio dopo aver mangiato ci mettevamo un po’ sul letto. Ma appena possibile ce ne andavamo in pineta. Follonica ha due belle pinete. Quella di Levante e quella di Ponente. Noi andavamo in quella di Ponente. Qui tra i pini altissimi e su un tappeto di sabbia e aghi di pino si svolgevano delle accanite partite di calcio. Io ero molto bravo. Me lo ha ricordato un amico di allora, Folco, in una cena che abbiamo fatto di recente con Claudio e Franco. Mi piaceva guizzare tra i pini e tirare in porta quando era possibile. Qui gli insegnamenti di Oreste mi erano preziosi. Io giocavo con delle scarpe da ginnastica, i ra-gazzi a piedi nudi. Non so se questo mi mettesse in una posi-zione di vantaggio. Però i ragazzi avevano i piedi incalliti. Gianni non veniva quasi mai. Preferiva stare al Parrini a gio-care a carte e a fare il filo a qualche ragazzina.

A Follonica stavamo un mese e mezzo. Di solito ce ne anda-vamo via subito dopo Ferragosto. La sera andavamo al cinema. Ce n’erano tre. Due al chiuso e uno arena. Più spesso anda-vamo a quello al chiuso vicino casa che si chiamava Roma.

[continua...]

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Sommario

L’infanzia 5

L’adolescenza 25

La giovinezza 43

La maturità 67

La vecchiaia 89

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