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Date post: 16-Feb-2019
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INTRODUZIONE La scelta di trattare, come oggetto di studio della mia tesi, l’esperienza teatrale del regista Simone Capula nasce, paradossalmente, quando questi decide di abbandonare definitivamente il suo mestiere, nel 2011, dopo una carriera più che ventennale e a soli tre anni dalla nascita del Teatro a Canone, fondato insieme a Lorenza Ludovico e Luca Vonella, attori con i quali condivide sette anni di lavoro. In particolare, è stata la modalità con la quale dichiara pubblicamente l’abbandono delle scene, quella Lettera aperta e presuntuosa sulla chiusura del nostro teatro che campeggiava sul pagina principale del sito Internet del gruppo 1 , a innescare la mia curiosità, certamente sollecitata dalla conoscenza pregressa degli ultimi cinque anni della sua attività, ma ancor di più dalle dichiarazioni in essa contenute. In questo scritto, infatti, Capula adduce a due tipi di motivazione: una economica, sostenendo l’impossibilità di continuare a vivere di questa professione in modo dignitoso; l’altra, più espressamente politica, si estende a un’analisi impietosa dell’intera società teatrale, nella quale sembra dominare una situazione di corruzione generalizzata del tutto simile a quella che attribuisce alle cariche politiche. Una situazione dalla quale, evidentemente, si discosta. 1 CAPULA, Simone, Lettera aperta e presuntuosa sulla chiusura del nostro teatro, inizialmente sulla home page del sito del Teatro a Canone (www.teatroacanone.it) , ora rintracciabile in http://www.ateatro.org/mostranew.asp?num=135&ord=7 e in http://www.mag4.it/rete/magazine/agosto-2011/648-lettera-aperta-e-presuntuosa- sulla-chiusura-del-nostro-teatro.html. 1
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INTRODUZIONE

La scelta di trattare, come oggetto di studio della mia tesi, l’esperienza teatrale del regista Simone

Capula nasce, paradossalmente, quando questi decide di abbandonare definitivamente il suo

mestiere, nel 2011, dopo una carriera più che ventennale e a soli tre anni dalla nascita del Teatro a

Canone, fondato insieme a Lorenza Ludovico e Luca Vonella, attori con i quali condivide sette anni

di lavoro.

In particolare, è stata la modalità con la quale dichiara pubblicamente l’abbandono delle scene,

quella Lettera aperta e presuntuosa sulla chiusura del nostro teatro che campeggiava sul pagina

principale del sito Internet del gruppo1, a innescare la mia curiosità, certamente sollecitata dalla

conoscenza pregressa degli ultimi cinque anni della sua attività, ma ancor di più dalle dichiarazioni

in essa contenute. In questo scritto, infatti, Capula adduce a due tipi di motivazione: una economica,

sostenendo l’impossibilità di continuare a vivere di questa professione in modo dignitoso; l’altra,

più espressamente politica, si estende a un’analisi impietosa dell’intera società teatrale, nella quale

sembra dominare una situazione di corruzione generalizzata del tutto simile a quella che attribuisce

alle cariche politiche. Una situazione dalla quale, evidentemente, si discosta.

Penso che, chi ha scelto di fare questo lavoro in modo del tutto indipendente e senza scendere a

compromessi, non possa fare a meno di smettere perché ormai il teatro è praticato,

professionalmente, quasi solo da chi scende a compromessi politici ed economici vergognosi.

Se da una parte capisco che i politici cercano clientele non posso capire i miei colleghi che si

piegano a diventare clienti e organici a politicanti meschini e disonesti. Spesso i miei colleghi si

nascondono dietro a “il teatro è necessario”; ma a chi è necessario se lavoriamo solo ed

esclusivamente per avere quattro soldi che sono una specie di elemosina da parte di politici

inetti (senza distinzione di parte)? Si sta in attesa di essere accettati nei “salotti buoni” della

cultura, quei salotti che critichiamo solo fin quando non ci vengono aperti, poi siamo pronti a

rimangiarci tutto.

[…]

Questa situazione di clientele, di privilegi, ha portato alla creazione di una situazione orribile,

che ha messo a tacere tutte le voci fuori dal coro, le voci non finanziate, che continuavano a

lavorare malgrado tutto.

1 CAPULA, Simone, Lettera aperta e presuntuosa sulla chiusura del nostro teatro, inizialmente sulla home page del sito del Teatro a Canone (www.teatroacanone.it) , ora rintracciabile in http://www.ateatro.org/mostranew.asp?num=135&ord=7 e in http://www.mag4.it/rete/magazine/agosto-2011/648-lettera-aperta-e-presuntuosa-sulla-chiusura-del-nostro-teatro.html.

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Politici e operatori culturali sono complici della morte della libertà di espressione, io non voglio

essere complice della cultura asservita e serva che ha contribuito a creare il regime che governa

l’Italia in questo inizio di secolo2.

Il suo è il punto di vista di chi si presenta, attraverso la sua ricerca teatrale, tra «le voci fuori dal

coro, le voci non finanziate, che continuavano a lavorare malgrado tutto», individuando un legame

imprescindibile tra libertà creativa e indipendenza economica e facendo di queste le manifestazioni

visibili della propria posizione rispetto alla realtà sociopolitica esistente, i tratti distintivi della

propria identità umana e professionale. Di conseguenza, nel momento in cui non è stato più

possibile affrontare le difficoltà economiche che questo tipo di conduzione sottende, l’unica via

percorribile sembra essere stata la rinuncia, a fronte però della convinzione secondo cui, tra le altre

realtà che abitano il mondo teatrale, fosse già operante un generale dissolvimento di tali valori.

Leggendo questa lettera, mi sono domandata se la conclusione cui Capula approda chiude

coerentemente il suo percorso, se ne esaurisce fino in fondo il senso. Un percorso teatrale che, nelle

sue diverse configurazioni, presento come esempio possibile di teatro politico contemporaneo, per

la proposta sui contenuti, le modalità di produzione adottate e l’approccio alla professione teatrale

del suo promotore.

Per introdurre e supportare la mia ricerca, nel capitolo 1 ho tracciato un percorso storico che prende

in considerazione alcune esperienze emblematiche di teatro politico del XX secolo, con una

premessa sul teatro popolare a cavallo tra questo e il secolo precedente. In particolare, analizzo le

proposte teoriche e pratiche di Piscator e Brecht, che collaudano, con intenti e significati diversi, la

definizione di teatro politico come strumento efficace per la lotta politica; di seguito, le avanguardie

degli anni Sessanta e Settanta, tra Stati Uniti ed Europa, con i percorsi del Living Theatre e della

San Francisco Mime Troupe da una parte e quelli di Jerzy Grotowski ed Eugenio Barba dall’altra.

Analizzando le vicissitudini e la produzione artistica di questi gruppi, si riconoscerà il progressivo

distanziamento dai presupposti fondativi individuati nella prima metà del secolo, in connessione

con un fenomeno sociale di portata più generale: il mutamento della percezione del fatto politico

che scaturisce dalla delegittimazione dell’ordine costituito e soprattutto quella che Lyotard definisce

«l’incredulità nei confronti delle metanarrazioni»3, tra le quali possiamo contemplare anche le

ideologie politiche. Se nei due esempi citati dell’avanguardia americana è ancora forte la volontà di

proporre un modello di azione politica efficace e immediatamente realizzabile, lo stesso non si può

dire delle esperienze di Grotowski e Barba, che si distanziarono dai movimenti di contestazione per

2 Ibidem.3 LYOTARD, Jean-Françoise, La condition postmoderne: rapport sur le savoir, Les Editions de Minuit, Paris, 1979, tr. it. La condizione postmoderna: rapporto sul sapere, Feltrinelli, Milano, 1981, p. 6.

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affermare l’efficacia della propria azione nello specifico della proposte teatrali. Al di là delle

peculiarità di ogni proposta, il confronto con le esperienze della prima metà del Novecento porta a

identificare questi gruppi come teatri politici ‘anomali’, poiché esemplificano lo sgretolamento del

teatro politico irrigiditosi a categoria-genere e la sua riconversione in nuove forme di espressione e

di produzione teatrale. Con uno sguardo panoramico, si analizzano i cambiamenti concomitanti

nella realtà sociale e nel mondo teatrale italiano, con un accenno preventivo agli anni Cinquanta;

infine si cerca di sintetizzare le prospettive delineate, nel dibattito teorico e nella prassi dei gruppi,

dagli anni Ottanta ad oggi.

Il capitolo 2 introduce all’attività teatrale di Simone Capula. Partendo dalle prime esperienze come

attore e nell’associazione amatoriale Apdav (Associazione Promozione e Diffusione delle Arti

Visive), si passa al percorso di formazione, diviso tra l’Odin Teatret e soprattutto gli otto anni al

fianco di Renzo Vescovi, che fu regista del Teatro Tascabile di Bergamo, nel quale si innestano già

le prime realizzazioni autonome, con il Teatro Tribù, che nel tempo muterà il suo assetto. Segue

un’analisi dei Vagabondaggi Teatrali, percorsi tracciati in solitudine, che vedono il consolidarsi

dell’interesse per la trattazione di tematiche storiche e politiche, fino alla nascita della Scuola

Ambulante di Teatro, nella quale Capula si occupa della formazione di giovani allievi, adottando il

nomadismo come esperienza formativa. Dopo tre anni divisi tra apprendistato e realizzazione di

spettacoli, Capula propone di costituire un gruppo professionistico. Nel capitolo 3 viene affrontata

la breve esistenza del Teatro a Canone, passando dall’assetto organizzativo alla produzione artistica,

fino alla decisione del regista di lasciare il suo mestiere, su cui si focalizza l’attenzione per meglio

comprendere le ragioni ed eventualmente le contraddizioni che caratterizzano questa scelta.

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CAPITOLO 1 – IL TEATRO POLITICO NEL XX SECOLO. CASI ESEMPLARI

1. Dal teatro popolare al teatro politico

Le prime teorie e pratiche riconducibili al teatro politico, definibile come quell’«area particolare

dell’intera produzione teatrale, che comprende tutte le forme in cui il valore del teatro si realizza

nella connessione con la politica»4, nascono nel primo dopoguerra, individuando la loro identità nel

doppio movimento di rifiuto e assunzione critica di istanze del passato ed esperimenti

contemporanei. Se è vero che la ricerca di un teatro politico ha contribuito, spesso coincidendo, con

alcuni momenti fondamentali della ricerca di un nuovo teatro nel XX secolo, fuori dalle

convenzioni e dai meccanismi collaudati dell’istituzione teatrale, essa si è inoltre confrontata con

l’eredità storica del teatro popolare, della quale sviluppa, tra continuità ed opposizione, lo spirito di

un teatro più democratico.

1.1. Francia. Le radici illuministiche e romantiche del théâtre du peuple

Le indicazioni sulla nascita di un teatro che svolga una funzione pubblica e unificante, di elevazione

morale e culturale, si delineano nella seconda metà del XVIII secolo, nelle riflessioni di Diderot e

Rousseau. Entrambi propongono un rinnovamento del teatro a loro contemporaneo e, guardando al

modello dell’antica Grecia, prefigurano un teatro capace di convocare l’intera comunità,

affrontando argomenti di interesse collettivo con un linguaggio chiaro e accessibile a tutti. Tuttavia

le idee di Rousseau avranno un’eco maggiore nei secoli successivi, perché supera i limiti della

forma-spettacolo e promuove la sua sostituzione con la festa pubblica5.

Nella Lettre à d’Alembert sur les spectacle (1758), egli risponde all’enciclopedista, contrario al

bando delle attività teatrali a Ginevra, denunciando la sostanziale inutilità del teatro e addirittura il

danno potenziale che potrebbe costituire. A chi sostiene che l’istruzione sia il suo scopo principale,

egli ricorda che il teatro è nato essenzialmente per divertire e quindi, «più che dettare leggi al

pubblico, ne riceve da esso»6, modellandosi sui suoi gusti; al massimo, il teatro può rafforzare le

nostre inclinazioni naturali, incoraggiando gli uomini virtuosi, ma anche quelli inclini al vizio. A

chi sostiene l’azione purificatrice della catarsi, egli ribadisce la sostanziale differenza tra la

sollecitazione delle emozioni e la loro rimozione: «L’unico strumento che serva a purificarle è la 4 VICENTINI, Claudio, La teoria del teatro politico, Sansoni, Firenze, 1981, p. 44.5 CASTRI, Massimo, Per un teatro politico. Piscator, Brecht, Artaud, Einaudi, Torino, 1973, p. 26-33.6 ROUSSEAU, Jean Jacques, Lettre à d’Alembert sur les spectacles, tr. it. Lettera a d’Alembert sugli spettacoli, in ID., Opere, a cura di Paolo Rossi, Sansoni, Firenze, 1972, p. 211.

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ragione; ed ho già detto che la ragione non ottiene alcun effetto in teatro»7. Il teatro rende piacevole

la virtù e odioso il vizio, ma in questo non fa che replicare, con dubbia efficacia, la ragione e la

natura. Gli artifici scenici di cui si avvale, dal linguaggio ai costumi, fino agli stessi personaggi

rappresentati, allontanano irrimediabilmente la rappresentazione dalla realtà; attori ed attrici, esperti

nell’arte del travestimento e della menzogna, sembrano inevitabilmente indotti alla corruzione e,

ancor peggio, a trascinare con sé la gioventù ginevrina. Senza contare, infine, le spese che l’apertura

di un nuovo teatro comporterebbe all’intera comunità.

All’abolizione di questi «spettacoli esclusivi», che costringono un ristretto gruppo di persone al

silenzio e alla passività, Rousseau propone l’atmosfera gioiosa e festiva degli spettacoli all’aperto,

con danze ed esercizi ginnici, che coinvolgano tutta la popolazione.

Piantate in mezzo a una pubblica piazza un palo coronato di fiori, ponetevi intorno un popolo, e

otterrete una festa. Ancor meglio: fornite come spettacolo gli stessi spettatori, fateli diventare

attori di loro stessi; fate in modo che ciascuno veda e ami se stesso negli altri, affinché tutti

abbiano più forti vincoli di amicizia8.

Nell’ideale comunitario di Rousseau «la Festa è il teatro della società futura»9, che si autoesprime e

autorappresenta senza mediazioni o differenze, contrapposta alla popolazione cittadina, scissa e

fondata sulla delega, che può esperire la sua dimensione collettiva solo per mezzo della

rappresentazione. Questa immagine sintetizza le aspettative degli intellettuali della seconda metà

del XVIII secolo: il mito dell’evoluzione costante dell’uomo per mezzo della cultura; l’avvento di

una nuova società che avrebbe coronato il sogno di unanimismo interclassista. Emblema di questa

convergenza tra borghesia e popolo, la Rivoluzione del 1789 sancisce la tensione nazionale verso

forme di convivenza sociale più democratiche e verrà periodicamente rievocata in grandi

celebrazioni di massa, a metà tra la festa e lo spettacolo, che anticipano quelle organizzate nella

Russia postrivoluzionaria10.

L’ideale russoviano rivivrà, variamente declinato, in tutti i tentativi futuri di realizzare un teatro

comunitario, allargando il concetto di spettacolo fino a comprendere ogni forma di celebrazione

rituale e pubblica. Anticipazione delle utopie teatrali del XX secolo, la sua proposta è stata

7 Ibi, p. 210.8 Ibidem. Per ulteriori approfondimenti v. ROUSSEAU, Jean Jacques, cit., pp. 199-275; per una sintesi dello scritto russoviano, v. CARLSON, Marvin, Theories of the Theatre. A Historical and Critical Survey from the Greeks to the Present, Ithaca, New York, Cornell University Press, 1984, tr.it. Teorie del teatro. Panorama storico e critico, Il Mulino, Bologna, 1997, pp. 175-176; CASTRI, Massimo, Per un teatro politico, cit., pp. 26-29.9 CRUCIANI, Fabrizio, Registi pedagoghi e comunità teatrali nel Novecento (e scritti inediti) , Editori & Associati, Roma, 1995, p. 79.10 CASTRI, Massimo, Per un teatro politico, cit., p. 27.

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interpretata anche come «una profezia a doppio taglio»11, in quanto prefigura quell’ambigua

apertura di senso che è all’origine della spettacolarizzazione degli eventi festivi nell’età moderna e

contemporanea, funzionale al riconoscimento degli individui di un gruppo, di un partito o di una

nazione in un sistema di valori dominanti. In particolare, negli Stati in cui si registra il maggiore

sviluppo del teatro popolare su scala nazionale, Francia, Germania e Russia, la «festa invece del

teatro»12 si propone come categoria alternativa facilmente strumentalizzabile, a fondare

programmi sempre in bilico tra il sogno di collettività «felici» […] e l’incubo di masse

irreggimentate, poste sotto ipnosi dal calcolato ripetersi di cerimoniali tanto fascinatori quanto

capaci di sancire la riduzione del singolo a mero ingranaggio della macchina sociale13.

In diretta continuità con la tradizione illuministica, il teatro popolare francese si propone di

rappresentare l’identità collettiva in senso ampio, il popolo nella sua interezza, annullando le

differenze tra le individualità per fonderle in un unico sentimento patriottico14. «Occorre finalmente

dar voce ai popoli e fondare un teatro per tutti» - dichiara Romain Rolland, fervido sostenitore del

teatro popolare, il primo a sintetizzarne le linee guida nel saggio Le théâtre du peuple (1903) - «non

vogliamo essere gli strumenti di nessuna casta: religiosa, politica, morale o sociale»15. L’attenzione

dei precursori è però rivolta al pubblico di estrazione popolare, come dimostrano le iniziative

intraprese dal Théâtre Populaire di Maurice Pottecher (1895) e dal Théâtre Ambulant di Firmin

Gémier (1911), orientate verso la drammaturgia regionale e dialettale, con spettacoli all’aperto

portati nella provincia francese. Emerge in questi anni la questione del decentramento teatrale come

possibilità concreta di scoprire un nuovo pubblico, gli spettatori d’eccezione dei territori rurali della

nazione, attraverso la fuga dalla metropoli parigina e la riformulazione radicale delle strutture del

teatro borghese. Grandi sale avrebbero accolto folle numerose e un nuovo repertorio avrebbe

sostituito i drammi borghesi e persino i classici, che Rolland addita come poco aperti alle esigenze e

agli interessi del popolo.

Nonostante il tono rivoluzionario delle sue idee e la grande influenza esercitata sugli intellettuali del

XX secolo, le proposte di Rolland non riusciranno a concretizzarsi. Il théâtre du peuple si

concretizzerà, nel 1920, nell’istituzionale Théâtre National Populaire di Gémier, innestando

11 TESSARI, Roberto, Dai lumi della Ragione ai roghi della Rivoluzione francese, in ALONGE, Roberto, DAVICO BONINO, Guido (diretta da), Il teatro. 13. Il grande teatro borghese: Settecento-Ottocento, Einaudi per Il Giornale, Torino, 2000, vol. 1, p. 273.12 CRUCIANI, Fabrizio, Registi pedagoghi e comunità teatrali nel Novecento (e scritti inediti), cit., p. 78.13 TESSARI, Roberto, Dai lumi della Ragione ai roghi della Rivoluzione francese, cit., pp. 272-273.14 Cfr. MORTEO, Gian Renzo, Il teatro popolare in Francia. Da Gemier a Vilar, Cappelli, Bologna, 1960, pp. 14-15, citato in CASTRI, Massimo, cit., p. 29.15 ROLLAND, Romain, Le théâtre du peuple. Essai d’esthétique d’un theatre nouveau, Cahiers de la Quinzaine, Paris, 1903, citato in CASTRI, Massimo, cit., p. 30.

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definitivamente il concetto di teatro popolare come servizio pubblico. La drammaturgia popolare

rimane ancorata alla tradizione, nella convinzione che per contrastare l’egemonia culturale ed

economica del teatro borghese sia necessario ricorrere a generi collaudati, come il melodramma e il

dramma sociale, di forte suggestione emotiva e di facile assimilazione, adatti dunque ad un pubblico

per il quale «il teatro deve essere una luce per l’intelligenza»16. Ben diversa fu la breve esperienza

di Jacques Copeau, la cui fuga «lontano dal centro»17, lontano dalle logiche di mercato, lo portò a

chiudere, nel 1924, il suo apprezzato teatro parigino, il Vieux Colombier, per trasferirsi con i suoi

giovani attori allievi, i Copiaus, nel paesino di Pernand-Vergelesses, nelle vaste distese della

Borgogna. La sua impresa, nata per ricostruire un contesto adatto alla formazione di una comunità

di lavoro e di vita, a stretto contatto con la popolazione contadina del luogo, non fu motivata da

ideali rivoluzionari, ma dalla volontà di rifondare la missione etica e sociale del teatro, in territori

senza teatro e senza spettatori18.

Il mancato rinnovamento degli elementi prettamente teatrali testimonia l’anacronismo del teatro

popolare, in un periodo di riformulazione radicale del senso del teatro e dei suoi linguaggi, per la

persistenza di «una serie di scorie ideologiche»19 di origine illuministica e romantica; la sua stessa

istanza pedagogica risulta invalidata da una concezione diffusiva della cultura, che si propaga

dall’alto verso il basso, dall’intellettuale al popolo, illustrandone un’immagine idealistica e

onnicomprensiva, attraverso una comunicazione fondata sull’empatia fra scena e platea. «Il

concetto di teatro popolare si realizza troppo tardi»20, quando non sussistono più le condizioni

storico-politiche per una reale convergenza tra borghesia e popolo ed emerge chiaramente la lotta di

classe come risposta alle posizioni conservatrici assunte dalla classe borghese21.

1.2. Germania. La Scena del Popolo

Le stesse problematiche, addirittura in forma più evidente, si presentarono in Germania,

considerando che la progettazione di un teatro popolare viene svincolata dalla protezione dello Stato

e assunta direttamente dal partito socialdemocratico. La Volksbühne22, primo tentativo di dare

un’organizzazione stabile agli strumenti culturali del movimento operaio, nel volgere di pochi anni 16 ROLLAND, Romain, Le théâtre du peuple. Essai d’esthétique d’un theatre nouveau, 13° ed. Albin Michel, Paris, s.d., citato in CASTRI, Massimo, cit., p. 30.17 Cfr. SCHINO, Mirella, Teorici, registi e pedagoghi, in ALONGE, Roberto, DAVICO BONINO, Guido (diretta da), Storia del teatro moderno e contemporaneo. Avanguardie e utopie del teatro. Dal Futurismo al Teatro dell’Assurdo , Einaudi per Il Sole 24 ORE, Torino, 2008, vol. V, pp. 32-34.18 Per ulteriori approfondimenti, v. COPEAU, Jacques, Il luogo del teatro. Antologia degli scritti, a cura di Maria Ines Aliverti, La casa Usher, Firenze, 1988, ALIVERTI, Maria Ines, Jacques Copeau, Laterza, Roma-Bari, 1997, CRUCIANI, Fabrizio, Registi pedagoghi e comunità teatrali nel Novecento (e scritti inediti), cit.19 CASTRI, Massimo, Per un teatro politico, cit., p. 33.20 Ibidem.21 Cfr. Ibi, pp. 33-34.

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attesta la sua politica culturale su posizioni neutrali e conservatrici, perlopiù funzionali al

mantenimento dell’apparato organizzativo e distributivo, differenziandosi da un qualsiasi teatro

borghese sono per il rifiuto di un repertorio di puro intrattenimento e l’adozione di una politica di

prezzi contenuti23.

La scelta di una drammaturgia naturalista, che spesso tematizza le condizioni di vita delle classi

meno abbienti per farne materia di denuncia sociale, non fa che sottolineare gli aspetti reazionari del

teatro popolare, perché adatta i nuovi contenuti alla forma ‘superata’ del dramma moderno, inteso

come un’azione drammatica assoluta e immutabile, che permette allo spettatore «solo la completa

separazione o la completa identificazione»24. Diviso tra l’aspirazione di rappresentare la realtà con

occhio scientifico, mostrando il condizionamento dell’uomo da forze esterne, e l’uso di un modulo

rappresentativo realistico, basato sul coinvolgimento emotivo, l’autore non mostra possibilità

concrete di intervento e cambiamento, né stimola l’atteggiamento critico che conduce al

22 Teatro fondato nel 1890 a Berlino da un gruppo di dirigenti socialdemocratici come Libero teatro popolare (Freie V.); è uno dei primi tentativi di democratizzazione del teatro che ispira poi le moderne forme di attività sovvenzionata. La proposta parte da B. Willie, un intellettuale, membro della sezione giovanile del Spd (il partito socialdemocratico tedesco) e vicino alla Freie Bühne, un teatro nato sul modello del francese Théâtre Libre. L'idea è quella di spezzare il monopolio culturale della borghesia organizzando in modo cooperativistico un pubblico di lavoratori. A costoro, dietro versamento di una quota minima di partecipazione, si vuole garantire il diritto a una rappresentazione al mese in sale che devono essere prese in affitto con posti a sedere, da assegnarsi con un sistema a rotazione o tirando a sorte. Il repertorio deve essere di alto livello, con autori classici e moderni, da Goethe e Schiller a Ibsen e Hauptmann, e interpretato da attori di provata professionalità. Nonostante la comune aspirazione a un'arte per il popolo, ben presto sorgono conflitti tra i responsabili del partito (che intendono dare priorità alle lotte politiche e alle problematiche dell'economia) e B. Willie, primo presidente dell'organizzazione teatrale. Ne segue una scissione: B. Willie fonda nel 1892 la Neue Freie V. che si avvantaggerà della rottura tanto che nel 1913 conterà già cinquantamila aderenti. I dirigenti socialdemocratici, infatti, tendono a operare scelte artistiche improntate a un certo tradizionalismo (Schiller piuttosto che il naturalismo, per esempio), con poche aperture a un effettivo rinnovamento del teatro, convinti che un'arte proletaria non sia di fatto possibile in un regime di capitalismo. Questa scissione viene superata con il contratto del ‘cartello’ nel 1913 e la riunificazione in seno alla V. diventa un dato di fatto nel 1920. L'organizzazione, a quel punto, dispone di un proprio teatro a Berlino (chiamato appunto V.). Alla vigilia della guerra, nel 1914, gli aderenti diventano settantamila e oltre mezzo milione nel 1927; le tournèe del teatro si estendono all'intero territorio tedesco, ma le scelte si adattano sempre più a un certo spirito di neutralità sia riguardo agli aspetti economici sia riguardo alle scelte artistiche. Nel 1927, la rottura di E. Piscator - regista principale - segna il culmine di un nuovo conflitto tra due orientamenti diversi. La gioventù di Berlino fa fronte comune continuando a rivendicare un teatro militante a cui K.H. Martin (divenuto intendente nel 1929) provvede inserendo nei programmi pièce d'attualità (Zeitstücke) di cui si contano numerosi esempi soprattutto verso la fine degli anni '20. Sotto il nazismo l'organizzazione viene sciolta e il teatro viene statalizzato a partire dal 1937. L'associazione, rinasce dopo la guerra, nella Rdt, ma perde la sua indipendenza (1953) a vantaggio dell'organizzazione sindacale sino a quando, nel 1954, il teatro ricostruito può riprendere la sua attività a Berlino sotto l'intendenza di F. Wisten. Negli anni '70 torna a essere un teatro di primaria importanza sotto la direzione artistica di B. Besson. Nel 1963, nella Germania federale, l'associazione conta ancora quattrocentotrentamila membri, ma soltanto poco più della metà venti anni più tardi. Una nuova sala con il nome di V. viene inaugurata a Berlino Ovest nel 1962 sotto la direzione di E. Piscator che, sino al 1966 anno della sua morte, vi presenta, tra l'altro, il nuovo teatro documentario tedesco. Dopo la caduta del muro di Berlino e la riunificazione della città viene scelto come nuovo intendente il regista F. Castorf. CAFFARENA, Attilio, Volksbühne, in CAPPA, Felice, GELLI, Piero (a cura di), Dizionario dello spettacolo del ‘900, Baldini & Castoldi, Milano, 1998, pp. 1141-1142.23 Cfr. CASTRI, Massimo, Per un teatro politico, cit., pp. 39-41.24 SZONDI, Peter, Theorie des modernen Dramas, Suhrkamp Verlag, Frankfurt am Main, 1956, tr. it. Teoria del dramma moderno, Einaudi, Torino, 1962, p. 11.

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cambiamento stesso, dichiarando la sua impotenza e inducendo il pubblico stesso a contemplare e

contemplarsi attraverso il suo sguardo25.

In questo breve excursus, è possibile riscontrare una costante difficoltà degli autori nell’avvicinarsi

alle esigenze concrete del pubblico di riferimento, che negli anni tra la fine del XIX secolo e l’inizio

del XX secolo, cerca di liberarsi dallo stato di secolare subordinazione e marginalità per conquistare

una presenza diversa, più attiva e significativa, nella società. L’attardarsi su posizioni conservatrici

della prassi scenica è sintomo di una più diffusa difficoltà del mondo culturale e artistico di

elaborare nuove forme di progettualità del sociale, determinata soprattutto da una concezione

ancora romantico-idealistica dell’arte e della politica, e quindi del soggetto protagonista, il popolo.

L’ambigua interpretazione del “popolo” «come nozione giuridico/astratta da un lato e come

movimento spontaneo dall’altro»26, forza primigenia dalla quale attendersi una rigenerazione della

società, si risolve nella constatazione della sua identità di soggetto storico, dinamico, concreto; ma

lo scacco finale dell’intellettuale è nella comunicazione, rimasta invariata

Ricordando la distinzione, suggerita da Rolland, tra «coloro che vogliono dare al popolo il teatro

così com’è» e coloro che «vogliono far nascere da questa forza nuova, il popolo, una forma d’arte,

un teatro nuovo»27 - fra un teatro per il popolo, come diffusione di una cultura già esistente o

rielaborata dall’alto, e il teatro del popolo, come espressione di esigenze collettive, possiamo

sostenere che le prime realizzazioni del teatro popolare fossero dirette, spesso inconsapevolmente,

verso la prima opzione, rivelando il loro fallimento.

1.3. Russia. Le avanguardie e l’agit-prop ai tempi della rivoluzione sovietica

Uno stimolo potente a colmare il sostanziale «vuoto teatrale di base»28 di Francia e Germania

giunse dalla Russia, che negli anni tumultuosi della guerra civile visse un’espansione spasmodica

delle attività culturali su tutti i territori sottoposti al controllo dei Soviet. Tra il 1917 e il 1921, una

testimonianza dell’epoca confermava già che «lo storico futuro noterà che durante la rivoluzione

più insanguinata e crudele tutta la Russia recitava»29: dai teatri dei circoli operai ai teatri

dell’Armata Rossa, dai teatri autogestiti di campagna a quelli di città, si sviluppò un sistema di teatri

25 Cfr. CASTRI, Massimo, Per un teatro politico, cit., pp. 47-54.26 MORETTI, Giampiero, Arte e politica. Dalla Romantik al viaggio di Peter Szondi, in ZECCHI, Stefano (a cura di), Arte e politica, numero monografico di «Filosofia dell’arte», Mimesis Edizioni, Milano, 2002.27 ROLLAND, Romain, Le théâtre du peuple, cit., citato in CASTRI, Massimo, Per un teatro politico, cit., p. 31.28 CASTRI, Massimo, Per un teatro politico. Piscator, Brecht, Artaud, cit., p. 37.29 «Vestnik teatra», n. 23, 1919, p. 3, cit. in LENZI, Massimo, Il Novecento russo: stili e stilemi, in ALONGE, Roberto, DAVICO BONINO, Guido (diretta da), Storia del teatro moderno e contemporaneo. Avanguardie e utopie del teatro. Dal Futurismo al Teatro dell’Assurdo, Einaudi per Il Sole 24 ORE, Torino, 2008, vol. V, p. 111.

9

Page 10:  · Web viewLe stesse problematiche, addirittura in forma più evidente, si presentarono in Germania, considerando che la progettazione di un teatro popolare viene svincolata dalla

del popolo che per primi danno vita a una serie di esperienze riconducibili alle forma dell’Agit-

Prop.

Il teatro di agitazione e propaganda affrontò argomenti politicamente determinati, con lo scopo di

informare il pubblico analfabeta sugli ideali rivoluzionari, spesso cercando di coinvolgerlo

nell’azione drammatica. Per questo motivo si caratterizzò per la realizzazione di spettacoli brevi,

con linguaggio semplice ed efficace ma molto vario, che attingeva dalla musica, dal cinema e dalla

pantomima30. Spesso criticato come un teatro ideologicamente ed esecutivamente impreciso,

prodotto perlopiù da non professionisti, l’Agit-Prop è una fonte ineludibile di mezzi artistici e modi

espressivi per la nascente avanguardia russa ed europea. Tra questi, gli agitki, canovacci e piecès

che funzionano da organo di informazione e coordinamento politico, tanto da parlare di «giornali

viventi», e i massovye dejstva, gli atti di massa, di norma organizzati il 1° maggio e il 7 novembre

per commemorare la Rivoluzione31.

Riprendendo il modello delle grandi feste della Rivoluzione francese, i drammi di massa partono da

una grande piazza per poi dilatarsi nelle strade adiacenti, in una continua contaminazione tra spazio

scenico ed extrascenico, tra rappresentazione e fruizione: gli spettatori sono invitati a

compartecipare, ma soprattutto ad autorappresentarsi negli eventi storici rievocati, per meglio

comprendere l’esperienza così fortemente partecipata, dando vita ad un vero e proprio rituale

collettivo che coinvolge, tra attori e spettatori, migliaia di persone. L’allestimento mejerchol’diano

del Mistero Buffo di Majakovskij (1918) fu uno dei primissimi esempi di contaminazione tra

produzioni militanti e innovazione delle avanguardie; in seguito, la realizzazione dei drammi di

massa viene affidata a grandi maestri dell’epoca, come Mardžanov ed Evreinov.

I nuovi teatri proletari ebbero un deciso sostegno nel Proletkul’t (Organizzazione Culturale

Proletaria), nato tra le rivoluzioni di Febbraio e d’Ottobre e diretta, dal 1918, dal filosofo

Bogdanov, dal drammaturgo Pletnëv e dal critico e operatore teatrale Keržencev32, cui si deve la

principale dichiarazione teorica del gruppo in materia teatrale. Analizzando il teatro come

espressione di una cultura di classe, Keržencev riconosce nel teatro borghese un sistema di relazioni

sociali e rapporti di potere da trasformare, attraverso la prassi della creazione collettiva, uscendo dai

luoghi istituzionali e forme tradizionali, ma soprattutto con il superamento definitivo della

separazione tra teatro e vita quotidiana: l’attore non è intrattenitore dei suoi padroni, ma uomo,

lavoratore e compagno degli spettatori, anzi, è una «possibilità di tutti», altrimenti espressa come

‘co-recitazione’. In Teatro creativo (1918) emerge chiaramente la difesa del teatro amatoriale come

riappropriazione della creatività da parte del proletariato e come possibilità di rinascita dei valori

30 Cfr. Agit prop, in CAPPA, Felice, GELLI, Piero (a cura di), Dizionario dello spettacolo del ‘900, cit., p. 7.31 LENZI, Massimo, Il Novecento russo: stili e stilemi, cit., pp. 112-113.32 Ibi p.112.

10

Page 11:  · Web viewLe stesse problematiche, addirittura in forma più evidente, si presentarono in Germania, considerando che la progettazione di un teatro popolare viene svincolata dalla

culturali del teatro, sommersi e annullati nella logica del profitto che governa la società

capitalistica33. La riqualificazione del teatro da merce a valore (valore culturale e valore d’uso per la

comunità), la sua ricollocazione dal mito di epoche passate al presente, parte perciò dal

ripensamento dei rapporti di produzione e più precisamente nell’unione di produzione e fruizione.

Anche Mejerchol’d, leader dei teatranti che si dedicarono alla sperimentazione, sostenne le

produzioni non professionali; egli stesso iniziò delle ricerche con attori giovani e inesperti,

dimostrando che l’arte attoriale poteva essere resa molto più accessibile attraverso un maggiore

sviluppo dell’allenamento fisico, basato sulla gestualità e sulle azioni fisiche, alternativo alla

recitazione realista e capace di innescare uno stato di «reattività, che contagia il pubblico e lo fa

partecipare alla recitazione»34. La biomeccanica è lo strumento pedagogico che Mejerchol’d

perfezionò negli indirizzi didattici perseguiti presso i GVYRM (Officine registiche superiori di

Stato) per la formazione dell’uomo-attore, inteso come

un costante lavoro di autoperfezionamento, di approfondimento della preparazione artistica ed

ideologica. Un lavoro che egli svolge senza mai distaccarsi dalla realtà in cui vive, dalla classe

cui appartiene, con cui sta costruendo la via verso il socialismo35.

L’attacco al teatro borghese arrivò da più fronti, anche dal Primo Commissario per l’Educazione del

Popolo, Lunačarskij, che guidò la politica culturale sovietica nei primi anni della rivoluzione; egli

appoggiò le ricerche sperimentali, convinto della necessità di un teatro denso di contenuti ma al

tempo stesso chiassoso, esaltante e coinvolgente36. Mediatore tra le esigenze di controllo e

organizzazione del governo e le forme emergenti di creatività, egli si oppose tuttavia alla condotta

iconoclastica e potenzialmente totalitaria del Proletkul’t, che invocava la nazionalizzazione di tutti i

teatri del Paese, quindi il passaggio sotto il controllo dei soviet e la loro trasformazione in teatri

proletari, nonché uno statuto di totale indipendenza dal governo. Il compromesso finale fu la

garanzia di indipendenza per il Proletkul’t, ma all’interno del Narkomporos (Commissariato del

popolo per l’istruzione), del quale condivideva l’idea di un teatro preposto alla pubblica istruzione,

33 Cfr. CRUCIANI, Fabrizio, Registi pedagoghi e comunità teatrali nel Novecento (e scritti inediti), cit., pp. 129-149. Per ulteriori approfondimenti, v. KERŽENCEV, Platon Mihajlovic, Tvorčeskij teatr: puti socialističeskogo teatra, Izdatel’stvo Vserossijskogo Central’nogo Ispolnitel’nogo Komiteta Sovetov R.S.K. i K. Deputatov, Moskva, 1919, tr. it. Il teatro creativo. Teatro proletario negli anni ’20 in Russia, Bulzoni, Roma, 1979.34 MEJERCHOL’D, Vsevolod Emil’evič, L’Ottobre Teatrale 1918/1939, a cura di Fausto Malcovati, Feltrinelli, Milano, 1977, citato in CARLSON, Marvin, cit., p.390.35 MEJERCHOL’D, Vsevolod Emil’evič, intervento all’assemblea dei lavoratori teatrali di Mosca del 26 marzo 1936. In ID., L’Ottobre Teatrale 1918/1939, cit., 1977, p. 9. Per ulteriori approfondimenti, v. MEJERCHOL’D, Vsevolod Emil’evič, La Rivoluzione Teatrale, a cura di Donatella Gavrilovich, Editori Riuniti, Roma 1962. 36 CARLSON, Marvin, Theories of the theatre, cit., pp. 387-388.

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Page 12:  · Web viewLe stesse problematiche, addirittura in forma più evidente, si presentarono in Germania, considerando che la progettazione di un teatro popolare viene svincolata dalla

che costringeva prassi e ideologia in un preciso scopo sociale ed educativo, di memoria

illuministica37.

Sin dai primi anni della rivoluzione, gli artisti dell’avanguardia russa difesero la possibilità di

un’arte formalista, che si occupasse delle vicende del nuovo ordine sociale e della vita della

collettività, ma con l’apporto e l’integrazione delle ricerche condotte in altri ambiti artistici. Contro

questi tentativi di innovazione, i critici proletari e i dirigenti del partito, da Trockij a Lenin,

insistettero per un linguaggio realistico, chiaro ed efficace nella promozione degli ideali

dominanti38. L’opposizione antiprolet’kultista si inasprì al termine della guerra civile, con la

restaurazione neocapitalistica di Lenin, secondo il programma della Nuova Politica Economica

(1921), ma le avanguardie continuarono a prosperare per tutto il decennio39: Mejerchol’d inaugurò

la sua stagione biomeccanico-costruttivista nel Teatr Revoljucii e nell’eponimo Teatr.im

Mejerchol’da40; Keržencev, assegnato all’Amministrazione centrale per l’educazione politica,

diffuse i suoi progetti rivoluzionari a livello europeo41. Solo nel 1927 la censura si fece più rigida,

minacciando anche la sopravvivenza artistica dei grandi maestri (oltreché fisica, come dimostrò la

morte per fucilazione di Mejerchol’d, nel 1940).

Lo stesso fenomeno dell’Agit-Prop ebbe vita breve nella storia del teatro, ma si diffuse oltre i

confini extranazionali, in particolare in Germania, dove nell’immediato dopoguerra i partiti di

ispirazione socialista e comunista registrarono un consenso sempre più ampio. Anche qui le nuove

formazioni amatoriali non ottennero il sostegno degli organi centrali del partito, che anzi ne

decretarono l’inutilità e la scarsa qualità artistica. Le dichiarazioni di Maxim Vallentin, attore

professionista che fondò Das Rote Sprachrohr (Il megafono rosso), uno dei maggiori gruppi agit-

prop tedeschi, aiutano a comprendere le necessità di cui si fecero portavoce questi teatri di base: la

presa di coscienza, da parte del pubblico proletario, della propria identità di classe; la messa in

discussione e la riappropriazione di contenuti ideologici inequivocabilmente proferiti dal partito,

attraverso una trasposizione scenica costantemente rivisitata nelle sue forme, nel tentativo di fare

dell’ideologia una cultura, un insieme di valori attuali e concretamente vissuti42.

37 CRUCIANI, Fabrizio, Registi pedagoghi e comunità teatrali nel Novecento (e scritti inediti), cit., pp. 129-149.38 CARLSON, Marvin, Theories of the theatre, cit., p. 394.39 Ibi, p. 390.40 Cfr. LENZI, Massimo, Il Novecento russo: stili e stilemi, cit., p. 128-129.41 Cfr. CRUCIANI, Fabrizio, Registi pedagoghi e comunità teatrali nel Novecento (e scritti inediti), cit., p. 139.42 «I gruppi agit-prop sono scaturiti molto di più dall’esigenza di larghe masse proletarie che volevano veder rappresentati con mezzi scenici in una formulazione inequivocabile marxista tanto gli avvenimenti attuali, […] che i problemi politici di fondo […] Come materialisti dialettici, però, noi sappiamo che l’assunzione incondizionata delle forme esistenti escluderebbe l’organica traduzione in forma del contenuto; poiché contenuto e forma sono inseparabili, ogni passo in avanti della lotta di classe proletaria significa per noi nuovi contenuti e parallelamente perciò nuovi passi nel campo della forma. […] Il partito fornisce l’analisi della situazione di classe; noi cerchiamo di rendere in maniera concreta sulla scena i suoi risultati». VALLENTIN, Maxim, Agitproptruppen, in «Linkskurve», n. 3, 3 marzo 1930, citato in Ibi, cit., pp. 160-162.

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Page 13:  · Web viewLe stesse problematiche, addirittura in forma più evidente, si presentarono in Germania, considerando che la progettazione di un teatro popolare viene svincolata dalla

Queste esperienze di base anticiparono e si affiancarono al teatro politico professionistico, in una

situazione di scambio vicendevole di mezzi espressivi e di stimoli, ma soprattutto nella ricerca di un

nuovo senso possibile del teatro, come strumento d’intervento sulla realtà e sull’uomo. Proprio nel

confronto con il professionismo, l’Agit-Prop emerge nella sua natura di «teatro-non-teatrale»43,

forma di teatralità spontanea che raccoglie e veicola le esigenze immediate di una società e che per

questo sembra trovare autonomamente una propria ragion d’essere, a differenza dei futuri pionieri

del teatro politico, che nelle discrepanze tra ideologia e vissuto, dottrina (politica e artistica) e

prassi, cercheranno di fondare la propria legittimità artistica e culturale44.

2. Piscator e il Teatro Politico. La propaganda in attesa della rivoluzione

Negli anni della Repubblica di Weimar (1919-1933), inaugurata da propositi rivoluzionari e

tragicamente conclusa con l’instaurazione della dittatura nazista, il panorama culturale tedesco fu

animato da artisti che contribuirono in modo decisivo al rinnovamento dell’arte teatrale

internazionale, portando sulla scena i grandi problemi dell’attualità attraverso soluzioni

drammaturgiche innovative e forme di dialogo inedite con gli spettatori45.

La progettazione teatrale di questi primi anni trovò uno dei suoi massimi pionieri in Erwin Piscator,

la cui educazione politica fu segnata profondamente dall’esperienza della guerra di trincea. Tema

ricorrente dei suoi scritti, raccolti ne Il teatro politico (1929), la prima guerra mondiale emerge

come apice dell’irrazionalità da tempo dilagante nella popolazione, non senza «il cieco consenso dei

socialdemocratici»46, che in seguito repressero la rivoluzione di novembre. L’urgenza di un’azione

politica più incisiva lo portò all’adesione al comunismo e a una ricognizione sulla sua professione,

iniziandolo alla ricerca di un teatro che fosse strumento razionale di analisi e di intervento

immediato sulla realtà. A queste esigenze di protesta totale corrispose il periodo di transizione nel

gruppo Dada berlinese, del quale Piscator sviluppò la tecnica del montaggio come metodo di

costruzione drammaturgica, elaborando la poetica del documento (zeit-stück), l’assemblaggio,

spesso tramite proiezioni, di più frammenti – disegni e fotografie, articoli di giornale e frasi isolate 43 Cfr. CASINI ROPA, Eugenia, La danza e l’agitprop. I teatri-non-teatrali nella cultura tedesca del primo Novecento, Il Mulino, Bologna, 1988.44 Per ulteriori approfondimenti, v. RIPELLINO, Angelo Maria, Majakowskij e il teatro russo d’avanguardia, cit., ID., Il trucco e l'anima. I maestri della regia nel teatro russo del Novecento , Einaudi, Torino, 2002, CRUCIANI, Fabrizio, Registi pedagoghi e comunità teatrali nel Novecento, cit., CASINI ROPA, Eugenia, La danza e l’agitprop. I teatri non teatrali nella cultura tedesca, cit.45 Cfr. FORTE, Luigi, Il teatro di lingua tedesca, ovvero l’universo della contraddizione, in ALONGE, Roberto, DAVICO BONINO, Guido (diretta da), Storia del teatro moderno e contemporaneo. Avanguardie e utopie del teatro. Dall’espressionismo alla sperimentazione, Einaudi per Il Sole 24 ORE, Torino, 2008, vol. VI, p. 490.46 PISCATOR, Erwin, Das politische Theater, Adalbert Schultz Verlag, Berlin-Wilmersdorf, 1929, tr. it. Il teatro politico, Einaudi, Torino, 1960, p. 10, citato in CASTRI, Massimo, Per un teatro politico, cit., p. 59.

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Page 14:  · Web viewLe stesse problematiche, addirittura in forma più evidente, si presentarono in Germania, considerando che la progettazione di un teatro popolare viene svincolata dalla

– per ricostruire un’immagine oggettiva della realtà. Ma soprattutto, Piscator ampliò la portata

rivoluzionaria dell’azione artistica, spostandola dall’individuo alla collettività, in direzione di una

esplicita educazione politica del proletariato47. Nella prospettiva piscatoriana, infatti, la rinascita

dell’individuo è un momento successivo alla rivoluzione dell’intera classe operaia; all’uomo-

individuo borghese, chiuso nella sua dimensione privata, si sostituisce l’uomo-massa, «un nuovo

organismo vivente […] che non era più la somma di tanti individui, ma un io nuovo e potente»48.

Quella che l’autore stesso riconobbe come una «distorsione dell’immagine dell’uomo ideale»49,

basata su un approccio «poco approfondito, entusiasta ma infantile»50 al materialismo storico-

dialettico, sancì la rottura definitiva con l’arte naturalista ed espressionista e la volontà di dare una

rappresentazione più complessa dell’uomo, della sua dimensione storica, soggetta ai fattori sociali,

economici e politici, a partire da una presa di posizione inequivocabile all’interno della lotta di

classe51.

«Non si trattava di un teatro destinato a mettere in contatto i proletari con l’arte, ma di propaganda

concreta; non di un teatro per il proletariato, ma di un teatro proletario semplicemente»52. Così

Piscator sintetizzò il carattere e le intenzioni del suo primo teatro, il Teatro Proletario, fondato nel

1919 con Hermann Schüller, che da subito si pose come modello per i nascenti gruppi teatrali di

base tedeschi. Nella sua organizzazione pratica, infatti, esso sembrò voler incontrare realmente il

suo interlocutore di riferimento: alla carenza di testi adatti ad un repertorio vicino al giornalismo e

all’attualità quotidiana, i testi furono elaborati collettivamente; le rappresentazioni furono

decentrate capillarmente in sale e locali popolari, per «cercare le masse nel loro stesso territorio»53,

nonostante la difficoltà di lavorare in condizioni di assoluta miseria; gli spettatori erano membri

delle organizzazioni operaie, sindacalisti e disoccupati, per i quali fu organizzata una politica di

prezzi adatta alle possibilità di ciascuno. A queste scelte di natura pratica si affiancarono delle linee

programmatiche e teoriche precise, mirate alla promozione di una cultura teatrale alternativa e

collettiva. Il rapporto tra spettatore e spettacolo fu riformulato come ricerca di una comunicazione

antialienante, che non provocasse più «slancio, entusiasmo, abbandono, ma comprensione,

cognizione, idee»54, affinché rivolgendosi «intenzionalmente alla sua ragione»55, ne fosse garantita

la libertà critica e la possibilità di procedere dalla rappresentazione alla realtà. Allo stesso modo 47 CASTRI, Massimo, Per un teatro politico, cit., pp. 59-63.48 PISCATOR, Il teatro politico, p. 133.49 Ibi, p. 135.50 CASTRI, Massimo, Per un teatro politico, p. 115.51 Ibi, pp. 59-63.52 PISCATOR, Erwin, Il teatro politico, cit., p. 34.53 Ibi, p. 35-36.54 Ibi, p. 37.55 Ibidem.

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Page 15:  · Web viewLe stesse problematiche, addirittura in forma più evidente, si presentarono in Germania, considerando che la progettazione di un teatro popolare viene svincolata dalla

Piscator pretese dai suoi attori, oltre alla piena padronanza della tecnica, una coscienza più

profonda, spirituale, politica e sociale del proprio ruolo, ma anche una maggiore

responsabilizzazione nel lavoro di gruppo, condotto collettivamente, senza ambizioni di guadagno

né di successo personale.

Nel 1921, dopo un solo anno di vita, il Teatro Proletario terminò la sua attività, sia per difficoltà

economiche, sia perché osteggiato dal Partito comunista, che dai suoi organi di informazione fece

notare che «il nome di teatro obbliga all’arte, all’estrinsecazione artistica… L’arte è una cosa troppo

sacra perché si possa abusare del suo nome a bassi scopi propagandistici!»56. Ma fu proprio in

questo che Piscator riconobbe il risultato più importante della sua impresa:

il Teatro si era ormai conquistato un primo posto fra i mezzi di propaganda del movimento

proletario. Esso faceva ormai parte dei mezzi espressivi del movimento rivoluzionario, con lo

stesso diritto della stampa e del parlamento. Ma con ciò il Teatro aveva contemporaneamente

compiuto anche una metamorfosi delle sue funzioni come istituzione artistica. […] era divenuto

nuovamente un fattore dello sviluppo sociale57.

Dalle sue prime esperienze teatrali, come organizzatore di forme di agit-prop e direttore del Teatro

Proletario, Piscator esplicitò chiaramente l’intento propagandistico della propria attività. Negli anni

a seguire, il progetto di un teatro politico perse man mano d’ampiezza e di organicità,

concentrandosi quasi esclusivamente sulla ricerca di mezzi e linguaggi scenici atti a una

rappresentazione materialistico-dialettica della realtà58.

Chiamato a dirigere la Volksbühne nel 1924, Piscator proseguì nella sua sperimentazione

linguistica, realizzando produzioni militanti di forte impatto scenico, attraverso una forte

manipolazione del testo e l’introduzione di grandi innovazioni tecniche. Tra gli spettacoli principali,

Bandiere (1924), «ispirato allo sciopero degli operai di Chicago nel 1886 per la riduzione

dell’orario di lavoro»59, si distinse per i primi usi di inserti filmici, proiezioni su schermi ai lati del

palcoscenico e titoli per ogni episodio dell’opera, elementi che spezzavano il continuum narrativo e

drammatico a favore di una struttura paratattica; così fu anche per Rivista Rivoluzionaria Rossa

(1924) e Ad onta di tutto! (1925), che rivisitarono il genere della rivista politica in chiave

propagandistica.

In particolare Ad onta di tutto!, ideato come grandiosa sintesi delle rivoluzioni della storia umana e

poi centrato sul controverso periodo tra la prima guerra mondiale e l’assassinio dei leader

56«Rote Fahne», 20 ottobre 1920, citato in PISCATOR, Erwin, Il teatro politico, cit., p. 39.57 PISCATOR, Erwin, Il teatro politico, cit., p. 41.58 CASTRI, Massimo, Per un teatro politico, cit., p. 72.59 FORTE, Luigi, Il teatro di lingua tedesca, ovvero l’universo della contraddizione, cit., p. 493.

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Page 16:  · Web viewLe stesse problematiche, addirittura in forma più evidente, si presentarono in Germania, considerando che la progettazione di un teatro popolare viene svincolata dalla

spartachisti Liebknecht e Luxemburg60, costituisce il primo esempio di dramma documentario, ma

anche il primo segnale di un’inversione nelle intenzioni di Piscator, in merito alla comunicazione

teatrale. Secondo la descrizione del regista, in una struttura “praticabile” che assemblava pedane,

scale, corridoi, piani obliqui, «film e scena si intensificavano con un effetto reciproco e così in certi

momenti venne raggiunto un “furioso” nell’azione, che non mi era quasi mai successo di vedere in

un teatro»61.

L’epicità insita nella forma del dramma documentario, che attraverso l’accostamento di elementi

dissonanti e la scansione paratattica delle scene vuole proporre più letture di uno stesso evento,

evitando ogni possibile immedesimazione, in Piscator rimase ancorata al concetto di epopea,

«narrazione in tono alto ed eroico di grandi e favolosi avvenimenti»62, attraverso cui

non era solo reso evidente il carattere politico dell’avvenimento, ma veniva raggiunta anche una

grande emozione umana. Appariva evidente quello che avevo sempre enunciato come principio:

che la più forte azione di propaganda politica coincideva con la più forte creazione artistica63.

Il tentativo di stabilire un dialogo lucido e razionale con lo spettatore veniva così vanificato, nella

pratica, dalla tendenza a una forte drammatizzazione degli eventi, che permetteva di raggiungere il

pubblico tramite la suggestione emotiva e, da questa, pretendere la persuasione politica. In questo

senso, si parla di una sorta di «neonaturalismo»64 della produzione piscatoriana: lo spettatore era

portato a vivere a livello emozionale gli eventi rappresentati, così come nel teatro realista si

immedesimava nelle vicende dei personaggi65. La sua era una condizione di doppia impotenza:

rispetto alla realtà, svelata sulla scena come deterministicamente definita e modificabile solo da

forze esterne all’uomo; rispetto all’atto comunicativo, trasformato in ricerca del consenso.

Uno stato condiviso, secondo lo studio di Castri, dallo stesso Piscator, che riflette le speranze e le

delusioni della sua generazione, vissuta nell’attesa di una rivoluzione continuamente frustrata nella

realtà, tra l’incertezza dei nuovi partiti comunisti e la progressiva ascesa del nazionalsocialismo.

Nonostante la forza dei propositi, quindi, si rivelerebbe «una inconfessata sfiducia»66 nel fatto che

un’esposizione razionale dei meccanismi storici, politici ed economici della storia potesse smuovere

le coscienze politiche degli spettatori. Per questo motivo, quindi, la comunicazione si fece

emozionante ma autoritaria e la rivoluzione trasfigurò nel mito, rappresentazione di ciò che si

60 PISCATOR, Erwin, Il teatro politico, cit., p. 61-62.61 Ibi, p. 68; corsivi miei.62 CASTRI, Massimo, Per un teatro politico, cit., p. 80.63 Ibidem; corsivi miei.64 FORTE, Luigi, Il teatro di lingua tedesca, ovvero l’universo della contraddizione, cit., p. 495.65 CASTRI, Massimo, Per un teatro politico, cit., p. 81.66 Ibi, p. 83.

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Page 17:  · Web viewLe stesse problematiche, addirittura in forma più evidente, si presentarono in Germania, considerando che la progettazione di un teatro popolare viene svincolata dalla

vorrebbe accadesse nella realtà, ma senza prospettive o relazioni con la storia della Germania e

della sinistra occidentale67.

La collaborazione tra Piscator e la Volksbühne terminò con la messa in scena di Tempeste su

Gotland (1927), in un clima di polemiche e insofferenze reciproche; nello stesso anno, il regista

fondò un proprio teatro, il Teatro di Piscator, nel quale perseverò nel potenziamento degli strumenti

teatrali. È di questi anni, infatti, il sogno di un Teatro Totale, il cui progetto, mai realizzato, fu

commissionato a Walter Gropius: scene mobili, tapis roulants, strutture praticabili, uno spazio

dedicato solo alle proiezioni; la struttura era concepita per concretizzare un vero e proprio spazio

dell’illusione e della meraviglia68. In assenza di mezzi strutturali e drammaturgici adeguati,

l’amplificazione della scena era posta al servizio di una “drammaturgia sociologica”, nella quale

presentare la lotta di classe come elemento di accusa e stimolo alla costituzione di un nuovo ordine

sociale. Ancora una volta, l’uomo, spersonalizzato e spogliato della sua umanità, abdicava dalla

scena a favore dell’epoca stessa: «la sorte delle masse è il fattore eroico della nuova arte

drammatica»69. Da Oplà, noi viviamo! (1927), sguardo sulle aspirazioni e le cause di una

rivoluzione mancata, quella tedesca, l’evento storico-politico divenne protagonista dell’opera, fino

all’esaltazione tecnologica di Rasputin (1928), celebrazione della rivoluzione russa rappresentata

quasi esclusivamente attraverso il film, il “calendario”, schermo verticale su cui proiettare i

materiali documentari, annotazioni e date, ma soprattutto il “Globus-bühne” (scena sferica o scena

del globo), che dal centro del palcoscenico mostrava una visione magniloquente, quasi magica degli

anni rivoluzionari70.

Congiuntura, nel quale si affrontavano la questione del petrolio e i rapporti politici ed economici

connessi, sembrava indicare un mutamento nel percorso teatrale di Piscator. I contenuti affrontati

erano di evidente rilevanza, ma l’impiego dei mezzi scenici fu piuttosto equilibrato, soprattutto a

causa della grave crisi finanziaria che affrontò il Teatro71. Tra il 1928 e il 1929, Piscator prese

coscienza della drammatica situazione economico-politica della Germania e si interrogò sulla

condizione del teatro politico, osservando che anche il suo teatro «stava slittando verso il

macchinismo sbagliato»72 e diventando attrazione effimera del pubblico borghese. Nonostante

queste riflessioni, nel 1929 riprese la sua attività con Il mercante di Berlino, opera sul meccanismo

67 Ibidem.68 Per ulteriori approfondimenti, v. GROPIUS, Walter, Della moderna architettura teatrale, in vista della costruzione del nuovo Teatro di Piscator a Berlino, in PISCATOR, Erwin, Il teatro politico, cit., pp. 126-130.69 Ibi, p. 134.70 CASTRI, Massimo, Per un teatro politico, cit., pp. 87-88.71 Cfr. PISCATOR, Erwin, Il teatro politico, cit., pp. 230-239.72 Ibi, p. 234.

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Page 18:  · Web viewLe stesse problematiche, addirittura in forma più evidente, si presentarono in Germania, considerando che la progettazione di un teatro popolare viene svincolata dalla

dell’inflazione dove ritornò alla tecnicizzazione della scena, divisa in più piani comunicanti per

rappresentare lo scontro tra le classi.

Con l’affermarsi del regime nazista, Piscator scelse l’esilio, concludendo così la fase di

progettazione del suo teatro politico. Negli anni a seguire, spiccano i primi, difficili esperimenti

nella Russia stalinista e l’esperienza statunitense, che portò alla fondazione della Dramatic

Workshop (1939), nota scuola per attori e drammaturghi. Al suo ritorno in Germania (1951), si mise

alla prova con la messa in scena di esempi del nuovo teatro documentario (da Hocchuth, Kipphardt

e Weiss)73.

Supportando la sua pratica teatrale con lo strumento teorico del marxismo, Piscator intuì le due

linee di ricerca fondamentali per la costruzione di un teatro politico: la sperimentazione linguistica,

per ampliare le possibilità tecnico-contenutistiche della scena; la sperimentazione organizzativa, per

instaurare un rapporto più organico con il pubblico, aldilà dello spettacolo teatrale. La maggior

parte dei propositi affermati agli inizi della sua esperienza, tuttavia, vennero trascurati «nel

momento in cui avrebbe dovuto riempire di contenuto il ‘Teatro Proletario’ […] ed invece ha

portato avanti le sue idee di teatro»74: l’abuso di strumenti scenici d’avanguardia, rispondenti alle

sue visioni registiche, ebbe il sopravvento sulle proposte di decentramento teatrale e di collegamenti

più diretti con il pubblico di classe. «Da ciò il contraddittorio ricorso ad uno “sfruttamento”

organizzato e cosciente della borghesia»75, condannata sulla scena e negli scritti, il solo ceto che

potesse sostenere i costi produttivi e distributivi delle sue imprese. A questo proposito, Piscator non

sembrava avere dubbi sul fatto che «il proletariato, qualunque ne sia la causa, è troppo debole per

sostenere un teatro suo proprio»76, ritenendo inevitabile una scelta linguistica e produttiva che in

realtà non lo era.

In definitiva, la sua adesione incondizionata al materialismo storico-dialettico portò a una

traduzione semplicistica e mitizzante della realtà, concentrata sulla rappresentazione dei grandi

meccanismi che muovono la storia, ma incapace di coinvolgere «l’unico tramite verso il mondo»77:

l’uomo, l’attore e lo spettatore, l’agente primo della comunicazione teatrale. Il dominio del regista,

manipolatore delle emozioni di un pubblico massificato, diede vita a una pedagogia autosufficiente

e autoritaria, fin troppo facilmente equivocabile in persuasione e ricerca del consenso, come

dimostrò il tentativo di Goebbels «di guadagnare Piscator alla causa hitleriana»78.

73 Cfr. CASTRI, Massimo, Per un teatro politico, cit., pp. 93-94.74 CRUCIANI, Fabrizio, Registi pedagoghi e comunità teatrali nel Novecento (e scritti inediti), cit., p. 152.75 CASTRI, Massimo, Per un teatro politico, cit., p. 98.76 PISCATOR, Il teatro politico, cit., p. 246.77 CASTRI, Massimo, Per un teatro politico, cit., p. 108.78 FORTE, Luigi, Il teatro di lingua tedesca, ovvero l’universo della contraddizione, cit., p. 496.

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Page 19:  · Web viewLe stesse problematiche, addirittura in forma più evidente, si presentarono in Germania, considerando che la progettazione di un teatro popolare viene svincolata dalla

3. Brecht e il teatro epico. Il modello teorico per un teatro rivoluzionario

Sin dalle opere giovanili, Bertolt Brecht perseguì la linea di ricerca tracciata da Piscator,

nell’intento di «tradurre teatralmente […] la nuova visione materialistica e dialettica della realtà,

della società e dell’uomo»79; nel suo Teatro Proletario, con il quale collaborò per l’adattamento

dell’opera Schwejk, mai andata in scena, Brecht riconobbe il precedente indispensabile della sua

‘svolta politica’, senza la quale il suo teatro «non sarebbe neppure pensabile»80. Le divergenze tra i

due registi, tuttavia, sono riscontrabili a partire dall’interpretazione dell’ideologia marxista.

Se nei drammi degli ultimi anni Venti, da L’opera da tre soldi ad Ascesa e caduta della città di

Mahagonny, che narrano le malefatte di mendicanti, rapinatori e prostitute, fino a La linea di

condotta (1930), che mostra la realtà rigidamente divisa tra forze opposte, si avverte il disincanto

senza soluzione per la deriva della vita umana nell’era del capitalismo, si può parlare di una prima

fase di semplificazione dell’ideologia, nata dall’adesione incondizionata, ma funzionale

all’acquisizione dei suoi fondamenti81. Il successivo approfondimento, condotto anche grazie

all’incontro con il sociologo Fritz Sternberg e l’economista Karl Korsch82, portò a un’assunzione

più consapevole del materialismo dialettico, come teoria critica della società capitalistica applicata

anzitutto alla conoscenza dell’uomo e della natura dei rapporti sociali e intersoggettivi.

Il superamento del teatro della sua epoca, «che mostra la struttura della società (quella riprodotta

sulla scena) come non influenzabile dalla società (quella seduta nella sala)»83, e della stessa formula

piscatoriana, che individuava un rapporto deterministico di causa-effetto tra eventi storici e vicende

umane, consistette in Brecht nella rappresentazione dell’uomo «come entità soggetta a determinati

rapporti economico-sociali, ma capace al tempo stesso di cambiarli»84.

È stato notato che Brecht non applicò mai al suo modello teatrale la definizione di “teatro politico”,

optando piuttosto per espressioni quali “teatro epico” e “teatro didattico”, inerenti il suo percorso

specifico85. Egli negò la possibilità di applicare in modo immediato le categorie politiche alla

79 CASTRI, Massimo, Per un teatro politico, cit., p. 119.80 BRECHT, Bertolt, Der Messingkauf, in Gesammelte Werke, Suhrkamp Verlag, Frankfurt am Main, 1967, 20 volumi, XVI, p. 598, tr. it. L’acquisto dell’ottone, in Scritti teatrali, Einaudi, Torino, 1975, 3 volumi, II, p. 85. Citato in VICENTINI, Claudio, La teoria del teatro politico, Sansoni, Firenze, 1981, p. 83. 81 Cfr. CASTRI, Massimo, Per un teatro politico, cit., pp. 120-121.82 FORTE, Luigi, Il teatro di lingua tedesca, ovvero l’universo della contraddizione, cit., p. 497.83 BRECHT, Bertold, Kleines Organon für das Theater, in Schriften zum Theater. Über eine nicht-aristotelische Dramatik, a cura di Siegfried Unseld, Suhrkamp Verlag, Frankfurt am Main, 1957, tr. it. Breviario di estetica teatrale, in ID., Scritti teatrali, Einaudi, Torino, 2001, p. 127.84 BRECHT, Bertolt, Schriften zum Theater, cit., tr. it. Scritti teatrali, Einaudi, Torino, 1962, p. 183. Citato in CASTRI, Massimo, Per un teatro politico, cit., p. 123.85 Cfr. VICENTINI, Claudio, La teoria del teatro politico, cit., pp. 83-87.

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Page 20:  · Web viewLe stesse problematiche, addirittura in forma più evidente, si presentarono in Germania, considerando che la progettazione di un teatro popolare viene svincolata dalla

produzione artistica, nonostante sostenesse che per l’arte «essere ‘apartitica’ non significa altro che

essere ‘del partito dominante’»86, perché

La requisizione del teatro ai fini della lotta di classe costituisce un pericolo per l’autentico

rivoluzionamento del teatro stesso. […] La politicamente benemerita diffusione dello spirito

rivoluzionario mediante effetti scenici che di attivo creano solamente un’atmosfera, non può

rivoluzionare il teatro, ma è qualcosa di provvisorio, impossibile a portarsi avanti e sostituibile

soltanto con un’arte veramente rivoluzionaria87.

L’autentica rivoluzione del teatro, secondo Brecht, sarebbe potuta scaturire solo da una

“sperimentazione politica” del linguaggio e dei modi di produzione, affrontando quello che era stato

il problema centrale del teatro politico (ma anche delle avanguardie): l’attualità del teatro e

l’efficacia della comunicazione teatrale. Così il Breviario di estetica teatrale (1948), sistemazione

organica e rivisitata di tutti i suoi enunciati teorici sull’arte teatrale, si apre con una ricognizione sui

caratteri generali dell’epoca, per trarne le caratteristiche che devono possedere le forme di

rappresentazione nell’ “era scientifica”.

Un centinaio di anni fa, il grandioso e rapido sviluppo delle scienze e della produzione aveva

permesso all’uomo di intervenire concretamente sul mondo naturale, trasformandolo secondo le sue

esigenze, e di acquisire quella capacità di osservazione scientifica che permette di figurarsi la

«formidabile mutabilità del nostro ambiente»88 grazie alle sue forze. Questa capacità, tuttavia, non

veniva esercitata con altrettanta efficacia nel campo dei rapporti sociali, causa l’appropriazione

indebita ed esclusiva dei benefici della nuova produzione da parte della borghesia, che «ben sa che

verrebbe messo fine al suo potere se le sue imprese venissero considerate con occhio scientifico»89.

In questo modo, i rapporti umani rimasero impenetrabili, come le grandi catastrofi naturali per gli

uomini dell’antichità.

L’estensione del progresso della conoscenza scientifica ai più vari ambiti di studio e tra tutte le

classi sociali, in particolare quella dei lavoratori, richiedeva ora forme di divertimento che

suscitassero nel pubblico un atteggiamento critico, che permette di cogliere i fenomeni naturali, le

relazioni sociali e le condizioni storiche nella loro contraddittorietà e transitorietà, «perché sono

solo gli uomini a crearle e a mantenerle (e saranno gli uomini a trasformarle)»90.

86 BRECHT, Bertold, Kleines Organon für das Theater, cit., tr. it. Breviario di estetica teatrale, in ID., Scritti teatrali, Einaudi, Torino, 2001, p. 137.87 BRECHT, Bertolt, Über eine neue Dramatik, XV, p. 175, tr. it. Una nuova drammaturgia, in ID., Scritti teatrali, Einaudi, Torino, 1975, II, p. 85.88 Ibi, p. 120.89 Ibi, p. 121.90 Ibi, p. 129.

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Page 21:  · Web viewLe stesse problematiche, addirittura in forma più evidente, si presentarono in Germania, considerando che la progettazione di un teatro popolare viene svincolata dalla

Se la presa di posizione nei confronti della realtà inizia dall’atteggiamento assunto a teatro, «nessun

aspetto della rappresentazione doveva più consentire allo spettatore di abbandonarsi, attraverso la

semplice immedesimazione, ad emozioni incontrollate»91. Per questo il teatro ‘drammatico’ era

inadeguato a rispondere alle nuove esigenze della società: il meccanismo di immedesimazione,

attraverso un’empatia ipnotica, generava bisogni artificiali e soluzioni immediate e illusorie,

ricordando molto da vicino il modello consumistico inaugurato dal capitalismo92. Ad esso, Brecht

contrappose il teatro ‘epico’, nel quale radicalizzò le precedenti intuizioni sul concetto e sulla prassi

di epicità, sino a farne il principio generale della rappresentazione scenica. Immagini, filmati,

cartelli, titoli e canzoni erano già noti al teatro di Piscator; la novità della proposta brechtiana risultò

piuttosto dalla loro organizzazione sulla scena: l’accostamento per opposizione dei materiali

permise ad ogni segno di farsi veicolo di un significato autonomo e di «prendere posizione»93

rispetto agli altri, alienandosi e chiarendosi reciprocamente. Questi strumenti si proponevano di

distanziare il pubblico dalle vicende, commentandole e chiosandole in funzione anti-realistica, così

da interrompere il flusso narrativo e moltiplicare i punti di vista. La collaborazione dello spettatore,

sottratto dal coinvolgimento coatto alle vicende, si rendeva indispensabile per ricostruire gli spunti

dati in una visione unitaria, ricordandogli che quella cui stava assistendo era pur sempre una

finzione, da proiettare e verificare nella realtà. La struttura contraddittoria del linguaggio epico-

gestuale si offriva come strumento di lettura critica delle contraddizioni umane, rivelando la sua

efficacia pratica non nell’azione politica immediata, ma in una trasformazione progressiva

dell’uomo, dei suoi comportamenti e delle sue strutture psichiche.

Nell’uomo c’è molto, noi diciamo: dunque si potrà fare molto dell’uomo. Così com’è non deve

restare; non basta considerarlo così com’è, bisogna vederlo anche come potrebbe essere. Non

bisogna partirsi da lui, ma partire verso di lui. Vale a dire che non basta che io mi metta al suo

posto: devo mettermi di fronte a lui, in rappresentanza di noi tutti. Ecco perché il teatro deve

straniare ciò che mostra94.

Il concetto di straniamento (verfremdung) realizzò pienamente la poetica dell’epicità, estendendo la

tensione dialettica tra i materiali scenici anche e soprattutto alla recitazione. A differenza degli

effetti di straniamento del teatro occidentale antico e del teatro asiatico, che alienano totalmente

l’oggetto rappresentato, rendendolo irriconoscibile, lo straniamento brechtiano corrispondeva a

91 Ibi, p. 63.92 Cfr. CASTRI, Massimo, Per un teatro politico, cit., p. 134.93 BRECHT, Bertolt, Schriften zum Theater, cit., tr. it. Scritti teatrali, cit., p. 63.94 BRECHT, Bertolt, Kleines Organon für das Theater, cit., tr. it. Breviario di estetica teatrale, in ID., Scritti teatrali, cit., p. 133.

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Page 22:  · Web viewLe stesse problematiche, addirittura in forma più evidente, si presentarono in Germania, considerando che la progettazione di un teatro popolare viene svincolata dalla

«una raffigurazione che lascia bensì riconoscere l’oggetto, ma al tempo stesso lo fa apparire

estraneo»95, una tecnica che permettesse di «dare ai rapporti umani rappresentati l’impronta di cose

sorprendenti, che esigono spiegazioni, non ovvie, non semplicemente ‘naturali’»96 - in sintesi, di

farli apparire «come altrettanti fatti problematici»97. Si chiarì una volta di più l’obiettivo di Brecht:

dichiarare la possibilità e la necessità del cambiamento, presentando sulla scena immagini

storicizzate della convivenza umana e innescando nello spettatore la tensione etica al cambiamento

di se stesso.

Anche nella recitazione straniata si rispecchia la natura contraddittoria e frammentaria dell’uomo

moderno, che come tale deve essere rappresentata, creando un cortocircuito semantico tra le

combinazioni di gesto, voce, mimica, parola e tra questi e gli altri contributi scenici. In questo

modo, l’attore può distanziarsi dal suo personaggio, esercitando su di esso un’analisi che conservi le

sue prime reazioni, critiche e perplessità; egli deve mostrare il personaggio, non interpretarlo,

alienandosi dalla parte attraverso una serie di invenzioni che annullano ogni possibilità di stabilire

la suggestione empatetica e l’immedesimazione, come la recitazione ‘in terza persona’ e la

narrazione al passato degli eventi rappresentati. Nel personaggio straniato, quindi, è possibile

individuare «una tendenza al ‘doppio’»98, che affianca simultaneamente ciò che egli è, nelle vicende

che lo vedono coinvolto, e ciò che potrebbe essere, libero dal condizionamento delle contingenze

storiche. Il pessimismo storico, che emerge dall’elaborazione critica dei materiali di partenza per

delineare una figura storicamente condizionata, veniva controbilanciato in modo sorprendente dalla

progettazione utopistica di un’umanità liberata dalle sue costrizioni, evidenziando le contraddizioni

del reale e prospettando ipotesi praticabili, in presenza e nel presente, di una realtà alternativa. La

distanza ‘estetica’ si sarebbe risolta nella consapevolezza di una vicinanza tra teatranti e spettatori,

in un percorso che li vede uniti nella realtà, partendo da comuni interessi culturali e sociali;

nell’evento teatrale, attraverso la convocazione innescata dalla struttura dialettica della

comunicazione; e di nuovo nella realtà, nel proprio quotidiano99.

La concezione del teatro come luogo di cultura collettiva e alternativa culminò nella formula del

dramma didascalico o didattico (lehrstücke), il quale, «attraverso la peculiare povertà della messa in

scena, semplifica e raccomanda lo scambio tra il pubblico e gli attori e tra gli attori e il pubblico» 100,

in un processo di creazione collettiva volto a un’ascesi morale e ideologica, attraverso l’appello e il

95 Ibi, p. 131.96 BRECHT, Bertolt, Schriften zum Theater, cit., tr. it. Scritti teatrali, cit., p. 91.97 BRECHT, Bertolt, Kleines Organon für das Theater, cit., tr. it. Breviario di estetica teatrale, cit., p. 132.98 CASTRI, Massimo, Per un teatro politico, cit., p. 148.99 Cfr. CASTRI, Massimo, Per un teatro politico, cit., p. 139.100 BENJAMIN, Walter, Das Kunstwerk im Zeitalter seiner technischen Reproduzierbarkeit, Suhrkamp Verlag, Frankfurt am Main, 1955, tr. it. L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica. Arte e società di massa , Einaudi, Torino, 1966, p. 132.

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Page 23:  · Web viewLe stesse problematiche, addirittura in forma più evidente, si presentarono in Germania, considerando che la progettazione di un teatro popolare viene svincolata dalla

richiamo fortemente individuale alla partecipazione responsabile, da completare con il confronto

comunitario. Erano questi gli anni in cui Brecht sperimentava «una forma di spettacolo che potesse

influenzare ideologicamente quanti vi partecipavano»101, lavorando a «rappresentazioni teatrali

destinate non tanto agli spettatori, quanto a quelli che le recitavano»102: se il dramma epico fu

concepito per l’educazione dello spettatore, quello didattico si pose sempre più al servizio di un

collettivo teatrale che sperimentava comportamenti alternativi a paradigmi sociali e politici in

continuo mutamento. L’accordo. Rappresentazione didattica di Baden-Baden (1929), L’eccezione e

la regola (1930), Il consenziente e Il dissenziente (1929-1930), tra i primi esempi di questa nuova

drammaturgia, rivelano l’attenzione particolare del regista ai rapporti tra individuo e società,

muovendo dalla problematicità delle condizioni imposte dal capitalismo e dalle ambiguità insite

nell’impegno rivoluzionario, attraverso la rappresentazione di situazioni che necessitano di un

cambiamento, oltre agli inviti espliciti con i quali i cori del dramma si rivolgono al pubblico.

Le riflessioni mature di Brecht intorno ai poli del teatro di divertimento, “culinario”, e del teatro

d’insegnamento103, sembravano convergere nell’idea di un teatro capace di assolvere al suo compito

specifico, quello di “ricreare”, ma anche di testimoniare la felice unione tra studio e divertimento

nel teatro dell’era scientifica, che dovrebbe comunicare la gioia della liberazione scaturita dalla

trasformazione della società. Il teatro didattico rappresentò il germe di un progetto teatrale

alternativo, nel quale era ormai radicata la distinzione tra “grande pedagogia”, che abolisce

qualsiasi distanza tra attore e spettatore, tra problemi individuali e questioni comunitarie,

contrapposta alla “piccola pedagogia”, volta alla sola democratizzazione del teatro104.

L’accento posto sulla semplicità dei mezzi scenici, a favore di una sperimentazione più profonda

nelle dinamiche di comunicazione tra scena e pubblico, segnalano il superamento del limite del

teatro piscatoriano, dedito all’amplificazione autoreferenziale del linguaggio teatrale, e l’accostarsi

del teatro politico non solo alle tecniche, ma soprattutto agli obiettivi delle avanguardie di inizio

secolo. Lo studio di Massimo Castri ha infatti evidenziato le affinità tra il teatro didattico e la

poetica del “teatro della crudeltà” di Artaud, nella comune lotta per l’affermazione delle specificità

del mezzo teatrale, in opposizione al totalitarismo imposto dalla comunicazione massmediatica,

nonché la tensione alla progettazione utopica, che parte dall’evento teatrale specifico (anzi, ancor

prima, dal processo di creazione), per rimandare la sua compiuta realizzazione al di fuori del teatro,

nella vita105. Tuttavia, i pionieri della seconda avanguardia teatrale, a partire dagli anni Cinquanta e

101 WILLETT, John, The theatre of Bertolt Brecht. A study from eight aspects, Methuen&Co, London, 1959, tr. it. Bertolt Brecht e il suo teatro, Lerici, Roma, 1961, p. 170, citato in CASTRI, Massimo, Per un teatro politico, cit., p. 163.102 Ibidem.103 Cfr. BRECHT, Bertolt, Schriften zum Theater, cit., tr. it. Scritti teatrali, cit., pp. 61-70.104 FORTE, Luigi, Il teatro di lingua tedesca, ovvero l’universo della contraddizione, cit., p. 497.105 Cfr. CASTRI, Massimo, Per un teatro politico, cit., pp. 155-160.

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Page 24:  · Web viewLe stesse problematiche, addirittura in forma più evidente, si presentarono in Germania, considerando che la progettazione di un teatro popolare viene svincolata dalla

Sessanta, si avvicinarono maggiormente agli scritti del secondo, alla luce di una generale

rivalutazione negativa del lavoro brechtiano, che denunciava il forte schematismo dei testi, per la

radicale opposizione di tesi opposte, e l’annullamento del momento individuale a favore di

un’analisi profonda delle vicende di importanza storica e collettiva.

Nel periodo di isolamento che seguì l’esilio (1933), condizione autoimposta a seguito della

“resistibile” ascesa del dominio nazista, le opere di Brecht, da Teste tonde e teste a punta (1931-

1935) a Turandot ovvero il congresso degli imbiancatori (1953-1954), trasposero sulla scena la sua

riflessione sul fenomeno del fascismo, filtrato dalla filosofia materialistica della storia,

individuandone l’identità di momento ideologico ma anche politico-economico, risultato inevitabile

della barbarie del capitalismo106. L’urgenza di rispondere con un forte impegno democratico alla

dittatura del tempo nutrì nuovamente la sua vocazione pedagogica, anche attraverso l’uso delle

tecniche del teatro drammatico, mostrando la necessaria duttilità del “teatro dell’emigrazione”, a

fronte di notevoli difficoltà tecniche che inevitabilmente portano a «ricominciare da capo; non solo

il suo palcoscenico, anche il suo dramma devono essere ricostruiti ex novo. […] Brecht per parte

sua ha inaugurato una nuova forma drammatica. Egli è uno specialista del cominciare da capo» 107.

Nella produzione di questo ventennio, la critica al Terzo Reich si sostanziò nella forma della satira

dei potenti e dell’irrazionalismo del popolo, mantenendo il cardine centrale nell’opposizione tra

capitalismo e proletariato e rivelando in definitiva come il «dominio del terrore […] asservisca

ineluttabilmente tutti i rapporti interumani alla menzogna»108.

Il suo ritorno in Germania lo vide alla direzione di una compagnia stabile, il Berliner Ensemble, in

uno dei teatri principali della capitale messo a disposizione dalla Repubblica Democratica Tedesca,

dove si dedicò perlopiù alla messa in scena di testi classici. Non sembrava più necessaria la ricerca

di strumenti di produzione teatrale alternativi, il tentativo di stabilire un rapporto diretto con il

pubblico, individuato nelle classi in lotta per la trasformazione del sistema sociale; ripercorrendo gli

scritti di Brecht, in realtà, non si trovano che riflessioni sporadiche, che non costituiscono un vero e

proprio programma volto alla realizzazione, dal punto di vista organizzativo e tecnico, di un teatro

rivoluzionario. Impostata drammaturgicamente in modo convincente, attraverso l’elaborazione di

un’opera aperta, finalizzata all’eliminazione delle barriere tra scena e pubblico, la questione del

rapporto con il pubblico e, in connessione, della creazione di nuove strutture fu affrontata di rado

negli scritti teorici e solo occasionalmente a livello pratico, non solo negli anni dopo l’esilio.

Le critiche, implicite ed esplicite, mosse dalla drammaturgia tedesca del secondo dopoguerra alla

drammaturgia brechtiana, con uno sguardo retrospettivo anche alle rappresentazioni dei suoi 106 Cfr. FORTE, Luigi, Il teatro di lingua tedesca, ovvero l’universo della contraddizione, cit., pp. 507-519.107 BENJAMIN, Walter, Schriften, Suhrkamp Verlag, Frankfurt am Main, 1955, tr. it. Avanguardia e rivoluzione. Saggi sulla letteratura, Einaudi, Torino, 1973, p. 184.108 Ibi, p. 187.

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Page 25:  · Web viewLe stesse problematiche, addirittura in forma più evidente, si presentarono in Germania, considerando che la progettazione di un teatro popolare viene svincolata dalla

drammi, ridotti perlopiù a «un realismo raggelato e statico o stilizzato (nei migliori dei casi)»109,

misero sotto accusa la rigidità raziocinante e schematica operante nella sua produzione. Autori

come Hochhuth e Weiss, Fleißer e Handke, Fassbinder, Hacks e Müller, si allontanarono dalle

tecniche epicizzanti e dai protagonisti delle sue opere, antieroi che tuttavia possiedono una forte

consapevolezza di sé e dell’ingiustizia sociale cui sono costretti. Nel nuovo Volksstück, gli

avvenimenti del recente passato furono filtrati dalle vite miserabili di figure marginali e oppresse,

spesso poco consapevoli della loro tragedia umana e culturale, nella quale non si aprono possibili

inversioni di tendenza110. Sia come obiettivo polemico, sia come modello d’ispirazione, l’eredità di

Brecht rimase comunque un punto di riferimento testuale e teorico ineludibile per i drammaturghi e

i teatranti delle nuove generazioni (non solo tedesche), che sulla scena hanno portato tematiche di

stringente attualità e riportato alla luce fasi controverse del passato, con l’intento di sollecitare le

coscienze a una riflessione responsabile, critica ed etica, prima che politica, sugli avvenimenti.

4. La crisi delle ideologie nei teatri di gruppo negli anni Sessanta e Settanta

La proposta di un teatro come vero e proprio strumento di lotta politica, o più estensivamente, dalle

valenze politiche intese in un’accezione ampia – in grado cioè di convocare e di aprire un confronto

con il suo pubblico, facendo appello a una presa di coscienza critica e a una partecipazione attiva e

responsabile che dalla sala si possa estendere e realizzare compiutamente al di fuori del teatro,

innescando nello spettatore una tensione al cambiamento che investe il rapporto con se stesso, con

l’altro e con la società – si riaffacciò nella seconda metà del XX secolo, anni nei quali si

affermarono esperienze teatrali sinteticamente definite “teatro d’avanguardia” o “seconda

avanguardia”, “teatro di ricerca” o “teatro sperimentale”, “nuovo teatro”111. La varietà di definizioni

lascia intuire l’estrema differenziazione all’interno di quest’area, nella quale si intendono

raggruppare le proposte che dagli anni Cinquanta alla fine degli anni Sessanta, tra gli Stati Uniti e

l’Europa, hanno cercato di proporre un’alternativa linguistica, culturale e produttiva al teatro

ufficiale e commerciale, nonché alle strategie comunicative dei massmedia. Riemerse la forza

eversiva e utopistica delle prime avanguardie del secolo, ma la prosecuzione di questa

identificazione per differenza approdò a degli esiti di assoluta novità.

Rispetto ai primi decenni del secolo, innanzitutto, erano mutati gli scenari sociali e politici,

trasversalmente attraversati dai movimenti di contestazione culminati nella data-simbolo del 1968. 109 CASTRI, Massimo, Per un teatro politico, cit., p. 157.110 Per ulteriori approfondimenti, v. FORTE, Luigi, Il teatro di lingua tedesca, ovvero l’universo della contraddizione, cit., pp. 499-557.111 Cfr. DE MARINIS, Marco, Il nuovo teatro. 1947 – 1970, Bompiani, Milano, 1987, p. 1.

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Le premesse all’esplosione di questi sommovimenti sociali risalgono agli anni Cinquanta, quando la

diffusione dei mezzi di comunicazione di massa e dell’industria culturale raggiunse un livello di

pervasività tale da sovvertire i rapporti tra reale e immaginario, tra vita e arte; a partire dagli anni

Sessanta, «l’incredulità nei confronti delle metanarrazioni»112 si tradusse in un processo di

delegittimazione di ogni forma di potere costituito e nella corrosione, lenta e progressiva, delle

ideologie politiche. Nel Sessantotto riecheggiarono le teorie rivoluzionarie del passato, legate alla

politica di sinistra, senza dar vita ad alcuna rivoluzione o presa di potere, ma certamente fu messa in

pericolo la governabilità di tutti i paesi occidentali113; in questo contesto, l’arte, specialmente la

sperimentazione più ardita, ritornò al centro del dibattito culturale, in quanto espressione

privilegiata dei valori e delle istanze della nuova società.

Il lavoro condotto dai gruppi teatrali di questi decenni, con le notevoli differenze che distinguono le

esperienze dell’avanguardia americana, di seguito analizzata attraverso le storie emblematiche del

Living Theatre e della San Francisco Mime Troupe, e quella europea, con il Teatr Laboratorium di

Jerzy Grotowski e l’Odin Teatret di Eugenio Barba, esprime la tendenza a compiere un percorso che

dalla “riteatralizzazione del teatro”, il superamento dei limiti della scena occidentale e la

ricognizione sul suo senso nella società contemporanea, si concluse con la «deteatralizzazione

teatrale»114, nella tensione

verso un dopo, un aldilà, un oltre il teatro, che per alcuni non avrà più niente a che fare con il

teatro stesso (si pensi almeno a Grotowski) e per altri sarà invece un teatro talmente trasformato

nelle sue modalità e, ancor di più, nelle sue funzioni che non riuscirà più a ricondurlo come tale

restando al di qua di quei limiti115.

4. 1. La sperimentazione americana. Living Theatre e San Francisco Mime Troupe: pacifismo

e guerriglia nella scena Off-Broadway

112 LYOTARD, Jean-Françoise, La condition postmoderne: rapport sur le savoir, Les Editions de Minuit, Paris, 1979, tr. it. La condizione postmoderna: rapporto sul sapere, Feltrinelli, Milano, 1981, p. 6.113 Cfr. PERNIOLA, Mario, La società dei simulacri, numero monografico di «Ágalma», Mimesis Edizioni, Milano, 2011, pp. 12-14.114 DE MARINIS, Marco, Il nuovo teatro. 1947 – 1970, cit., p. 6.115 Ibi, pp. 6-7.

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Le sperimentazioni musicali di John Cage, il movimento pittorico dell’action painting, la nuova

danza di Merce Cunningham e la nascita della letteratura beat: le esperienze che animavano il

vivacissimo panorama artistico-culturale statunitense degli anni Quaranta non contemplavano

alcuna novità in campo teatrale, se non relative alla scrittura drammaturgica, che nelle figure di

Tennessee Williams, Arthur Miller e Edward Albee assunse un taglio critico nei confronti di una

società scissa tra gli entusiasmi del boom economico e la restaurazione di una morale conservatrice.

Alle grandi produzioni di Broadway, basate sui modelli del musical e dello spettacolo d’evasione

drammatico, si contrappose la variegata realtà Off-Broadway, che si propose come alternativa

culturale e finanziaria all’industria dello spettacolo, ma ben presto finì per produrre spettacoli ad

essa ispirati e di qualità inferiore, alimentando le speranze di giovani drammaturghi, registi e attori

di far parte del circuito ufficiale.

Solo alla fine degli anni Cinquanta emerse un nuovo movimento di gruppi teatrali ‘sotterranei’,

attivi in teatrini ricavati in scantinati e locali in disuso, inaugurato dal Living Theatre. In particolare,

negli anni tra il 1964 e il 1968, gruppi come il Bread and Puppet, il Teatro Campesino, l’Open

Theatre e la San Francisco Mime Troupe espressero pienamente la loro identità artistico-culturale;

gli stessi anni nei quali si assistette all’ascesa della Nuova Sinistra (New Left). Questo movimento

seppe mobilitare giovani e studenti intorno a temi di grande rilevanza politica e sociale; le sue

modalità di intervento presero le mosse prima dal modello dell’azione non-violenta del movimento

dei diritti civili di Martin Luther King, per assumere forme sempre più clamorose ed estese, come la

marcia sul Pentagono del 1967, quando sperimentarono la resistenza, anche armata, del sistema alle

loro battaglie, cui pose fine nel 1969116.

Elementi linguistici comuni alla pratica scenica di queste formazioni, strettamente connessi alla loro

vocazione utopica, furono l’importanza attribuita al lavoro dell’attore, alla capacità del suo corpo di

sostanziare segni e significati sulla scena; alla sua relazione con lo spazio, caricato di valori

drammaturgici, e soprattutto con lo spettatore, con l’intento di incentivare il suo coinvolgimento

attivo e totale nell’azione teatrale, obiettivo per il quale si ritenne necessario lasciare ampio margine

all’improvvisazione antinaturalistica. La valorizzazione della dimensione umana e corporea della

comunicazione rispecchiava la percezione dell’evento teatrale come accadimento che nasce e muore

nella flagranza dell’hic et nunc, alla quale corrispose il rifiuto della figura del regista quale creatore

unico, a favore di un lavoro esteso al gruppo-collettivo, dalle connotazioni sempre più comunitarie.

Anche l’abbandono del testo drammatico scritto ‘a priori’ fu sollecitato dalla possibilità di

rielaborare collettivamente tematiche differenti, ispirate in primo luogo alle controverse vicende

della contemporaneità: la violenza e il militarismo, la segregazione razziale e il consumismo e

116 Cfr. VICENTINI, Claudio, La teoria del teatro politico, cit., p.138-139.27

Page 28:  · Web viewLe stesse problematiche, addirittura in forma più evidente, si presentarono in Germania, considerando che la progettazione di un teatro popolare viene svincolata dalla

soprattutto la guerra del Vietnam. La trasposizione scenica ne dava una rappresentazione indiretta,

tra il simbolo e l’allegoria, attingendo da fonti eterogenee, dalla mitologia pagana alle simbologie

cristiane fino a risalire alle suggestioni della tradizione orientale117.

Le peculiari identità artistiche di questi gruppi si differenziarono ancor più significativamente

rispetto alle posizioni nei confronti della politica: De Marinis distingue tra una posizione

‘filoteatrale’, che nell’adesione alla politica del Movimento non sacrificarono l’autonomia dell’arte

teatrale, per non invalidarne l’“efficacia mediata”, e una posizione ‘filopolitica’, di coloro che, al

contrario, subordinarono la pratica teatrale alle esigenze dell’azione politica immediata;

quest’ultima può essere un’assunzione ‘moderata’, per cui l’azione teatrale è propedeutica

all’intervento propriamente politico, creandone le possibilità dalla scena attraverso l’informazione e

suggerimenti pratici, oppure ‘radicale’, con l’identificazione tra azione politica immediata e azione

teatrale, tra scontro politico ed evento scenico118.

Fondato nel 1947 dai giovani coniugi Julian Beck, pittore astratto, e Judith Malina, formatasi nel

Workshop di Erwin Piscator, il Living Theatre cercò di collocarsi fuori dalla «gemmata scatola-

carcere»119 del teatro commerciale puntando su un teatro di repertorio basato perlopiù su testi

contemporanei, individuando nell’uso della parola poetica il mezzo per rinnovare l’arte scenica. La

ricerca di un rapporto più diretto, fisico con il pubblico portò all’adozione della formula

drammaturgica del “teatro nel teatro”, che in The Connection (1959) si sostanziò nella riunione di

veri tossicodipendenti che, dietro pagamento, vivevano come erano soliti fare in attesa del

“contatto”, dello spacciatore. Nell’ambiguo intrecciarsi di finzione e realtà, tra scene costruite,

improvvisazioni e momenti in cui i drogati, in crisi d’astinenza o in preda agli effetti degli

stupefacenti, invadevano la platea, il pubblico rimase sconvolto, se non irritato, credendo di aver

assistito alle prove dello spettacolo120. L’espediente metateatrale aveva sortito l’effetto sperato, ma

la sua natura di artificio impediva quella partecipazione sincera e totale all’evento che il gruppo

pretendeva anche da se stesso. La lettura degli scritti di Artaud e la maturazione di una precisa

identità politica, di stampo anarchico, furono essenziali per la realizzazione di The Brig (1963),

spettacolo centrato sulle terrificanti relazioni di potere del sistema concentrazionario militare. Il

senso di oppressione fu sperimentato in prima persona dai componenti del gruppo, che durante la

fase di preparazione lavorò secondo indicazioni del regolamento dei marines; mostrata sulla scena,

la violenza di quei meccanismi di controllo e repressione avrebbe dovuto trasmettere l’orrore

117 DE MARINIS, Marco, Il nuovo teatro 1947 – 1970, cit., pp. 119-122.118 Ibi, pp. 129-130. 119 BECK, Julian, The life of the theatre, City Lights, San Francisco, 1972, tr. it. La vita del teatro. L’artista e la lotta del popolo, a cura di Franco Quadri, Einaudi, Torino, 1975, p. 52.120 DE MARINIS, Marco, Il nuovo teatro 1947 – 1970, cit., pp. 37-39.

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Page 29:  · Web viewLe stesse problematiche, addirittura in forma più evidente, si presentarono in Germania, considerando che la progettazione di un teatro popolare viene svincolata dalla

necessario a innescare nello spettatore la volontà di abbattere le istituzioni totali che gravavano sulla

sua libertà, «in una sorta di passaggio mentale dal rinnovamento del teatro alla rivoluzione di

piazza»121. Questo spettacolo consacrò il gruppo sulla scena internazionale, come capofila del nuovo

teatro americano e come riferimento politico, in stretta concomitanza con la nascita del Movement.

Fu per inadempienze fiscali, tuttavia, che il Living decise di espatriare, soggiornando in Europa per

almeno quattro anni (1964-1968).

Il passaggio da compagnia stabile a gruppo nomade segnò una svolta decisiva nella vita e nel lavoro

del gruppo. A partire dal 1964, il gruppo cercò di promuovere gli ideali anarco-pacifisti di cui si

faceva portavoce praticandoli nella propria quotidianità e trasferendoli nella prassi teatrale,

attraverso l’eliminazione di ogni distinzione di ruoli e compiti e di ogni barriera tra attori e

spettatori, spostando la sua ricerca teatrale verso la creazione collettiva e il coinvolgimento attivo

dello spettatore. In questi anni nacquero gli spettacoli più noti e significativi del gruppo, nei quali la

rappresentazione del mondo “così com’è”, dominato dalla violenza e dalla cupidigia, lasciava

intendere solo sottotraccia la possibilità di una rigenerazione dell’uomo e della società, esprimendo

una tensione utopistica verso il cambiamento continuamente tentata ma irrealizzata, evocata e

invocata ma disillusa. Così in Mysteries and Smaller Pieces (1964), assemblaggio di esercizi

collettivo-rituali volti a stigmatizzare la costituzione gerarchica e militarizzata della società, chiuso

da una scena di idilliaca armonia che, per contrasto, si presentava come autentico miraggio. Questo

pessimismo veniva confermato da Frankenstein (1965), la parabola della formazione di una nuova

creatura che, attraversando gli spazi-cella ricavati da un’elaborata struttura scenica tubolare, compie

la sua trasformazione da uomo naturale a uomo sociale, sintesi ambigua delle figure della vittima e

del carnefice, ricordando allo spettatore che i meccanismi di repressione che condizionano il mondo

esterno albergano innanzi tutto in ognuno di noi. «Le solitarie celle delle prigioni della

sofferenza»122 si sarebbero potute spalancare solo attraverso una rivoluzione liberatoria che parte da

se stessi e, come per contagio artaudiano, investe la società, portandola sulla «via della salvezza»123.

L’appello alle responsabilità individuali del pubblico si fece più esplicito nella ripresa dell’Antigone

brechtiana (1967), assunta a simbolo della disobbedienza civile, contro ogni forma di potere e di

istituzione, ma il vero e proprio spostamento d’interesse dalla scena alla realtà, dal messaggio

rivoluzionario ai tentativi di una sua applicazione, con e insieme al pubblico, si verificò con

Paradise Now (1968-1970).

121 BIANCHI, Ruggero, Il teatro negli Stati Uniti: alla ricerca dell’innovazione permanente, in ALONGE, Roberto, DAVICO BONINO, Guido (diretta da), Storia del teatro moderno e contemporaneo. Avanguardie e utopie del teatro. Dall’Espressionismo alla sperimentazione, cit., vol. VI, p. 824.122 BECK, Julian, The life of the theatre, City Lights, San Francisco, 1972, tr. it. La vita del teatro, cit., p. 52.123 Ibi, p. 8.

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Page 30:  · Web viewLe stesse problematiche, addirittura in forma più evidente, si presentarono in Germania, considerando che la progettazione di un teatro popolare viene svincolata dalla

Dopo le rappresentazioni disperanti di un mondo che necessitava di un cambiamento irrimandabile,

il Living Theatre voleva rendere partecipi e attivi gli spettatori all’interno di questa celebrazione

ritual-festiva, costruita come un viaggio ascensionale che, attraverso Riti, Visioni e Azioni, avrebbe

condotto verso il Paradiso, ovvero la “Rivoluzione Permanente”124. Inizialmente concepito come

«una situazione in cui [fosse] possibile un’azione rivoluzionaria non violenta»125, un momento

preparatorio all’intervento sulla realtà, lo spettacolo si trasformò radicalmente per accordarsi agli

avvenimenti del Maggio francese, raggiungendo l’apice in occasione del festival di Avignone (23-

28 luglio 1968). I manifestanti parteciparono a centinaia alla prove aperte del gruppo e si unirono

alla protesta contro la direzione, che impedì le repliche dello spettacolo e la sua rappresentazione

gratuita.

Al di là delle giornate avignonesi, immerse in un clima di esaltante con-fusione tra teatranti e

spettatori, il momento extrateatrale non ebbe mai il sopravvento sulla forma-spettacolo; solo al suo

interno il pubblico era chiamato, trascinato a una partecipazione doverosa, ma senza la reale

possibilità di prendere l’iniziativa e di sviluppare la sua azione in espressioni autonome. Si rivelava

così, nell’ultimo spettacolo propriamente detto del Living Theatre, la perdurante incapacità di porsi

su un livello paritario, riflesso del tanto criticato «missionarismo»126 di Beck e Malina; la stessa che

sembrava permanere nelle dinamiche di gruppo, come dimostrò la scelta di Joseph Chaikin di

allontanarsi dal Living per fondare, nel 1963, l’Open Theatre.

La contraddizione tra la spettacolarizzazione della vita rivoluzionaria e delle sue proiezioni

utopistiche, simbolicamente rappresentate dalla gestualità rituale, quasi esoterica del gruppo, e i

tentativi di intraprendere un’azione concretamente spendibile, a partire dall’«enunciazione esplicita

e prolissa del messaggio politico»127, si risolse solo con l’abbandono definitivo delle scene, nel

1970, a fronte dell’impatto con l’incandescente situazione socio-politica creatasi negli Stati Uniti. Il

Living Theatre si divise in quattro cellule attive in tutto il mondo, constatando l’impossibilità di

dare efficacia all’azione teatrale attraverso la sperimentazione artistica: «tutto il nostro lavoro di

questi anni» - dichiarò Beck - «è stato essenzialmente un prologo a ciò che stiamo facendo ora»128.

Come il Living Theatre, anche la San Francisco Mime Troupe esordì come gruppo di

sperimentazione teatrale, tra le più attive e vivaci risposte californiane alla sperimentazione 124 Per ulteriori approfondimenti sugli spettacoli citati, v. DE MARINIS, Marco, Il nuovo teatro 1947 – 1970, cit., pp. 205-228.125 BECK, Julian, MALINA, Judith, Il lavoro del Living Theatre (materiali 1952-1969), a cura di Franco Quadri, Ubulibri, Milano, 1982, p. 241.126 BIANCHI, Ruggero, BIANCHI, Ruggero, Il teatro negli Stati Uniti: alla ricerca dell’innovazione permanente, cit., p. 831.127 Ibidem.128 BECK, Julian, Paradise Now. Testo collettivo del Living Theatre, scritto da Julian Beck e Judith Malina, a cura di Franco Quadri, Einaudi, Torino, 1970, citato in DE MARINIS, Marco, Il nuovo teatro 1947 – 1970, cit., p. 259.

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Page 31:  · Web viewLe stesse problematiche, addirittura in forma più evidente, si presentarono in Germania, considerando che la progettazione di un teatro popolare viene svincolata dalla

dell’Off-Broadway, scevro da qualsiasi connotazione politica. Il suo fondatore, Ronnie G. Davis,

allievo di Étienne Decroux e ballerino professionista della compagnia di José Limon, si dedicò

prima alla produzione di happening basati sull’uso simultaneo di musica elettronica, teatro e film,

per poi passare allo studio della tradizione teatrale occidentale, con particolare attenzione alle

tecniche del mimo e soprattutto alla Commedia dell’Arte, per l’importanza che l’improvvisazione

ebbe come cardine del lavoro della compagnia.

L’interesse specifico del gruppo era dunque la sperimentazione teatrale, in nome della quale elaborò

un modello linguistico e produttivo radicalmente anticonvenzionale rispetto al circuito dei teatri

ufficiali, basato sull’improvvisazione teatrale. Partendo da uno scenario della Commedia dell’Arte o

da un testo di Goldoni, Ruzante o Molière, gli attori della San Francisco Mime Troupe preparavano

azioni sceniche improvvisando, selezionavano i materiali elaborati e li sviluppavano ancora di

fronte al pubblico. Questo metodo risultava particolarmente efficace per progettare azioni in spazi

pubblici, all’aperto, dove gli attori dovevano incorporare le interferenze tipiche delle situazioni

quotidiane («Un cane attraversa il palco, delle campane suonano, un bambino comincia a

camminare sulla scena: la regola per l’attore è “utilizzalo”»129) e catturare l’attenzione di un

pubblico perlopiù occasionale, curioso, rinnovando di continuo la sorpresa e coinvolgendolo

almeno verbalmente, apostrofando uno spettatore o scambiando delle battute sugli argomenti di

attualità, strategie tipiche del teatro di strada. Questa formula risultava una soluzione produttiva

alternativa rispetto a quelle proposte dai teatri commerciali perché, con le sole abilità tecniche e

inventive dei componenti, era possibile creare spettacoli di forte impatto mimico-gestuale, adattabili

ad ogni luogo e circostanza, utilizzando mezzi di fortuna. «La creazione è stimolata dalle difficoltà

e non dal denaro»130: negli anni in cui il Living Theatre chiudeva la sua stagione newyorkese per

debiti economici, dall’altra parte degli States la San Francisco Mime Troupe dimostrava che era

possibile fare del teatro valido anche senza grandi capitali o ampie strutture a disposizione.

Fu proprio questa scelta alternativa ai canali di produzione convenzionali ad acquisire

progressivamente un carattere politico, facendo della San Francisco Mime Troupe il gruppo di

teatro politico americano più rappresentativo degli anni Sessanta. L’identità politica maturata in

questi anni, tra la nascita della Nuova Sinistra ed eventi come la rivolta studentesca di Berkeley

(1964), non poteva non influenzare degli spettacoli costruiti «sull’interscambio tra azione teatrale e

situazione quotidiana»: dal brechtiano the Exception and the Rule (1965), accompagnato da una

discussione sul pacifismo, seguirono Civil Rights in a Cracker Barrell (1965), spettacolo sulla

segregazione razziale; Centerman (1966), storia incentrata sulle vessazioni fisiche e morali subite

129 DAVIS, Ronnie, Street Scenes Stealers, in «Ramparts», ottobre 1965, p.2, citato in VICENTINI, Claudio, La teoria del teatro politico, cit., p. 131.130 Ibidem.

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Page 32:  · Web viewLe stesse problematiche, addirittura in forma più evidente, si presentarono in Germania, considerando che la progettazione di un teatro popolare viene svincolata dalla

da un prigioniero di guerra; Search and Seizure (1966), che denunciava la durezza della legge

federale sugli stupefacenti131.

L’efficacia politica del modello teatrale proposto dalla compagnia, tuttavia, non risiedeva tanto

nella proposta di contenuti sempre più politicizzati, messaggi espliciti o tecniche appositamente

scelte, quanto nella capacità di porsi come testimonianza reale della posizione politica e morale

assunta, attraverso l’adozione di un sistema produttivo estraneo alle comuni logiche del mercato,

basato sull’indipendenza e la gratuità degli spettacoli, nella convinzione che

la compagnia di guerriglia, come gruppo, deve costituire un esempio di cambiamento. La

formazione del gruppo – i suoi rapporti di cooperazione e la sua identità organizzativa – devono

avere una moralità al proprio centro. L’entità organizzativa ordinariamente non ha moralità.

Questa deve essere la differenza in un mare di violenza disordinata e selvaggia. Non ci deve

essere distinzione tra comportamento pubblico e privato. Fai in pubblico quello che fai in

privato, o smetti di farlo in privato132.

La nozione di teatro di guerriglia venne introdotta per la prima volta da Davis nell’omonimo

articolo-manifesto (1966) per indicare l’analogia tra il suo teatro d’opposizione e la lotta di

guerriglia armata, alla quale il militante rivoluzionario deve ricorrere, secondo le indicazioni di Che

Guevara, quando cade anche la mera parvenza della legalità costituzionale, per distruggere

definitivamente ogni forma attraverso cui si esprime il potere del governo. Adottando le stesse

modalità organizzative e operative, cioè costituendosi come gruppo autonomo che fa uso di pochi

mezzi di facile trasporto, così da difendere la propria indipendenza e adattarsi alle condizioni più

avverse, il teatro può escludersi dai meccanismi di produzione legittimati dal sistema, in cui «la

critica, la discussione, la presa di posizione su problemi sociali vengono ammesse solo finché si

rimane del tutto inefficaci»133 e sopravvivere, promuovendo la trasformazione del sistema stesso. I

suoi compiti specifici, spiega Davis, sono «insegnare, dirigere verso il cambiamento, essere un

esempio di cambiamento»134: non solo, quindi, informare il pubblico ed enunciare messaggi

rivoluzionari, ma anche viverli in prima persona, lavorando su un’azione teatrale chiara e chiassosa,

fulminea e flessibile ad ogni imprevisto e circostanza, agile da allestire e smontare, per farsi

testimonianza vivente della possibilità del cambiamento.

131 DE MARINIS, Marco, Il nuovo teatro 1947 – 1970, cit., p. 133.132 DAVIS, Ronnie, Guerrilla Theatre, in The San Francisco Mime Troupe. The First Ten Years, Ramparts Press, Palo Alto, California, 1975, pp. 149-150, citato in VICENTINI, Claudio, La teoria del teatro politico, cit., p. 136.133 DAVIS, Ronnie, Guerrilla Theatre, cit., pp. 150-151, citato in VICENTINI, Claudio, La teoria del teatro politico, cit., p. 127.134 Ibidem.

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Page 33:  · Web viewLe stesse problematiche, addirittura in forma più evidente, si presentarono in Germania, considerando che la progettazione di un teatro popolare viene svincolata dalla

Il riferimento al modello d’intervento dei guerriglieri «resta però prevalentemente nominale»135. In

presenza di spazi per la protesta e l’opposizione politica, la New Left rappresentò la «versione non

violenta della guerra di guerriglia»136, sull’esempio di Martin Luther King, che fece dell’esercizio

della disobbedienza civile l’atto politico per eccellenza, unione di spinta morale ed intervento

pratico quotidiano. Allo stesso modo, la Mime Troupe si presentava come esempio morale del

cambiamento, ma la sua efficacia politica era indiretta: attraverso indicazioni precise e

immediatamente spendibili, gli spettacoli creavano le pre-condizioni per una trasformazione sociale,

ma il gesto ultimo veniva affidato allo spettatore, che avrebbe dovuto poi agire nella sua

quotidianità. Riconoscendo nell’intervento diretto l’unica possibilità di cambiamento sociale, Davis

decise di mantenere l’azione teatrale autonoma, ben distinta dalle situazioni quotidiane.

Mentre Davis ritornò a proporre la Commedia dell’Arte (dal 1967, in L’amante di Goldoni, La farce

de maître Pathelin e Ruzante), alcuni membri dell’ala oltranzista della San Francisco Mime Troupe,

guidata da Peter Berg, si staccarono dal gruppo, prendendo il nome di Diggers; la nuova formazione

assimilò lo schema dell’azione diretta all’interno del teatro di guerriglia, portando in scena i temi

più scottanti denunciati dal Movement. I Diggers furono attivi a Berkeley, organizzando numerose

azioni teatrali di guerriglia a New York e una marcia antimilitaristica a Washington, nel 1967, su

diretta richiesta di due agitatori della contestazione, Jerry Rubin e Abbie Hoffmann. Se con la

dimostrazione intorno al Pentagono i Diggers riscossero un enorme successo, attirando centinaia di

manifestanti, che per l’occasione si travestirono da poliziotti che arrestavano altri dimostranti o, ad

esempio, cercarono di entrare in massa nelle banche per paralizzare il lavoro, l’evento da svolgersi a

Chicago, durante la Convenzione del partito democratico del 1968, scatenò la violenta repressione

della polizia: «le pallottole parlarono più forte delle parole»137. Un anno più tardi, l’iniquo processo

che seguì gli eventi divenne soggetto dello spettacolo di controinformazione di Davis, che aveva

abbandonato la Mime Troupe per fondare il gruppo Praxis138, ma il declino della Nuova Sinistra

decretò la fine delle due formazioni militanti, rivelando l’impossibilità di risolvere completamente

la lotta rivoluzionaria nella forma dello spettacolo teatrale, soprattutto quando laddove l’avversario

ricorre a forme di lotta più violente139.

Impegno artistico e militanza socio-politica si sovrapposero fino a coincidere completamente, nelle

diverse esperienze del Living Theatre e della San Francisco Mime Troupe, spesso anche a scapito

135 VICENTINI, Claudio, La teoria del teatro politico, cit., p. 160.136 Ibi, p. 145.137 RUBIN, Jerry, Growing (up) at thirty-seven, Evans and Company, New York, 1976, p. 88, citato in VICENTINI, Claudio, La teoria del teatro politico, cit., p. 158.138 DE MARINIS, Marco, Il nuovo teatro 1947 – 1970, cit., p. 136.139 VICENTINI, Claudio, La teoria del teatro politico, p. 158.

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Page 34:  · Web viewLe stesse problematiche, addirittura in forma più evidente, si presentarono in Germania, considerando che la progettazione di un teatro popolare viene svincolata dalla

della raffinatezza formale delle loro realizzazioni, testimoniando l’importanza che il teatro ebbe per

queste formazioni, non tanto come arte, quanto come mezzo, efficace per il suo valore d’uso.

In particolare, la storia della San Francisco Mime Troupe, nata e terminata con il movimento di

contestazione, sintetizza in modo esemplare i conflitti che affrontarono le formazioni statunitensi

con un’identità socio-politica più spiccata, disgregatesi dall’interno nel momento in cui si posero

nella condizione di scegliere, senza mediazioni, tra sperimentazione del linguaggio teatrale, filtrato

da una sensibilità attenta all’attualità, e dedizione totale alla causa della Nuova Sinistra,

sacrificando l’aspetto estetico a quello politico. In ogni caso, presto o tardi, scontrandosi con la

consapevolezza che il teatro non può risolvere in sé l’intera dimensione, ideologica ed effettuale,

dell’attività politica.

Per il Living Theatre, il gruppo di punta della nuova avanguardia americana, il primo che cercò un

contatto diretto con la realtà del suo tempo sconfinando dai limiti canonici imposti dall’arte scenica

e dal limite fisico del palcoscenico, l’abbandono delle scene segnò lo stadio ultimo di un «processo

di deteatralizzazione»140 che per anni tradusse in termini teatrali la perenne, insoddisfatta ricerca di

un’efficacia sociale e politica oltre la durata effimera dell’evento, trovata solo con l’uscita definitiva

dal Teatro. Una ricerca comune ai due pionieri della sperimentazione europea, Jerzy Grotowski e

Eugenio Barba, maestro e allievo, ma condotta in una direzione in apparenza opposta, sicuramente

complementare; una linea di ricerca non esplicitamente e provocatoriamente politica, lontana dalle

piazze e dai fuochi dell’insurrezione, restia a ogni forma di eclettismo e concentrata in modo

esclusivo sulla formazione dell’attore.

4. 2. L’avanguardia europea. Grotowski e Barba: l’efficacia politica dell’arte ‘separata’

La nostra attività può essere intesa alla stregua di un tentativo di restituire i valori arcaici del

teatro. Non siamo moderni, ma al contrario: pienamente tradizionali. Scherzando si potrebbe

dire che non siamo l’avanguardia, bensì la retroguardia141.

La dichiarazione di Ludwig Flaszen, drammaturgo e principale collaboratore di Grotowski, sembra

collocare l’operato del regista in uno spazio fuori dal tempo, almeno da quello in cui lui stesso

visse. In effetti, il lavoro di ricerca di Grotowski si distinse sia dall’arte teatrale tradizionalmente

intesa, sia dalla più attuali sperimentazioni del free theatre e dell’happening, campi assimilati nella

definizione di “Teatro Ricco”, che indica il teatro come sintesi di discipline artistiche diverse, una

140 DE MARINIS, Marco, Il nuovo teatro 1947 – 1970, cit., p. 210.141 FLASZEN, Ludwig, Dopo l’avanguardia, in «Sipario», n. 104, 1980, pp. 60-61 (comunicazione presentata al Congresso Internazionale dei Giovani Scrittori a Parigi e poi pubblicata in ID., Cyrograf, Wydawnictwo Literackie, Krakow, 1974), citato in DE MARINIS, Marco, Il nuovo teatro 1947 – 1970, cit., p. 80.

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Page 35:  · Web viewLe stesse problematiche, addirittura in forma più evidente, si presentarono in Germania, considerando che la progettazione di un teatro popolare viene svincolata dalla

sorta di «cleptomania artistica»142 con la quale tenta di competere nella sfida tecnologica lanciata

dal cinema e dalla televisione. La strada intrapresa da Grotowski, al contrario, era quella della

povertà, della sottrazione: la forza specifica del teatro riemergeva solo liberandolo da tutti gli

elementi superflui e indagando sul suo terreno specifico.

Eliminando gradualmente tutto ciò che si dimostrava superfluo, scoprimmo che il teatro può

esistere senza cerone, senza costumi e scenografie decorative, senza una zona separata di

rappresentazione (il palcoscenico), senza effetti sonori e di luci, ecc. Non può invece esistere

senza un rapporto diretto e palpabile, una comunione di vita fra l’attore e lo spettatore143.

L’assunzione della “povertà” come condizione unica della sperimentazione teatrale ridefiniva il

senso del teatro quale mezzo per liberarsi dalle maschere quotidiane e trascendere i propri limiti, in

un processo di «dissacrazione dei tabù»144 che avrebbe condotto allo svelamento della personale

verità dell’attore e, con esso, dello spettatore.

L’autorivelazione totale della verità dell’uomo fu l’obiettivo di fondo che orientò la ricerca

trentennale del regista, attraverso metodi e strategie differenti, tutte centrate sul lavoro dell’attore.

Dopo l’intellettualismo eclettico delle regie giovanili145, messe a punto durante l’apprendistato alla

Scuola Superiore di Arte Teatrale di Cracovia e nei primi anni di vita del Teatro “13 Rzedów”

(Teatro “delle 13 file”), fondato a Opole nel 1959, Grotowski spostò il baricentro della sua ricerca

dal teatro di regia alla sperimentazione delle tecniche attoriali. Nella prospettiva definita dalla

poetica del Teatro Povero, il mestiere dell’attore doveva essere riformulato nella sua totalità, a

partire dalle sue implicazioni etiche prima ancora che tecniche. «Ciò che colpisce del mestiere

dell’attore, così come è praticato oggi, è il suo squallore: l’appalto su di un corpo che viene sfruttato

dai suoi protettori – direttori e registi – il che a sua volta, fomenta un’atmosfera di intrighi e di

ribellione»146: alla prostituzione del corpo, che l’attore-cortigiana esibisce per ottenere denaro e

apprezzamento dal pubblico, si oppose la concezione di un attore-santo, che fa dono di sé attraverso

un lavoro di autopenetrazione, con il quale libera il suo corpo da ogni resistenza fisica e psichica per

illuminare le zone più intime del suo essere. Spogliato delle sue riserve e delle sue finzioni

quotidiane, l’attore si svela a se stesso e allo spettatore; officiante del suo stesso sacrificio, egli

142 GROTOWSKI, Jerzy, Towards a poor theatre, Odin Teatrets Forlag, Holstebro,1968, tr. it. Per un teatro povero, Bulzoni, Roma, 1970, p. 25.143 Ibidem.144 Ibi, p. 28.145 Cfr. DE MARINIS, Marco, Il nuovo teatro 1947 – 1970, cit., p. 74.146 GROTOWSKI, Jerzy, Towards a poor theatre, cit., tr. it. Per un teatro povero, cit., p. 42.

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Page 36:  · Web viewLe stesse problematiche, addirittura in forma più evidente, si presentarono in Germania, considerando che la progettazione di un teatro popolare viene svincolata dalla

riscatta la sua miseria in una forma di «‘santità laica’»147 che, come la Redenzione cristiana, offre

l’esempio agli spettatori-testimoni.

È in questa dimensione mitico-rituale, quindi, che possono convivere tradizione e sperimentazione:

in un periodo storico caratterizzato dalla demistificazione e dalla rimozione di ogni valore

universalmente accettato, la persistenza di miti archetipici nell’immaginario collettivo rese

necessario un confronto con il mito, finalizzato non all’identificazione, ma a una chiarificazione

laica con lo stesso, attraverso una «dialettica di derisione e apoteosi»148 divisa tra accettazione e

rifiuto. A dispetto dei caratteri fortemente antitradizionalisti del suo tempo, Grotowski utilizzò

indifferentemente i testi sacri occidentali e orientali, la drammaturgia romantica polacca e le opere

contemporanee: rapportandosi nei termini di un incontro-confronto, il testo era un “trampolino” dal

quale partire per sviluppare una serie di associazioni; per questo scelse quei testi che rimandavano a

immagini archetipiche ancora vive nell’inconscio collettivo e nella memoria storica dell’umanità,

creando un terreno comune per l’incontro tra attore e spettatore149. L’archetipo del sacrificio, ad

esempio, attraversò alcuni degli spettacoli più importanti del regista: in Kordian (1962) si sostanziò

nella tragica storia di un giovane diviso tra eccessi nazionalistici e ardore rivoluzionario, che da solo

compie un attentato allo zar e fallisce miseramente, ricoverato in una clinica psichiatrica e infine

condannato a morte; ritornò in Akropolis (1962-1967), in cui l’atmosfera del campo di sterminio di

Auschwitz si materializzava nei costumi, nell’uso delle luci e soprattutto in un crescendo di azioni

fisiche che si concludevano con l’entrata dei personaggi nel forno crematorio, costruito dagli attori

durante tutto lo spettacolo; infine è rievocato nel mito di Cristo, spogliato dei suoi ornamenti

religiosi e rappresentato nella figura di Simpleton, lo scemo del villaggio, in Apocalypsis cum

figuris (1968-1969).

La denominazione di Teatro Laboratorio, assunta dal gruppo dal 1962, indicò un deciso

cambiamento nella pratica grotowskiana, che rallentò il ritmo delle produzioni a favore

dell’allenamento dell’attore, svincolato dalla sua immediata applicazione al prodotto spettacolare.

Attraverso un duro training fisico, articolato in una vasta gamma di esercizi fisici e plastici, vocali e

respiratori, attinti da discipline del corpo come lo yoga, l’acrobatica, il mimo e gli sport, sulla scia,

tra gli altri, di Stanislavkij, Mejerchol’d e Copeau, l’attore acquisiva e perfezionava gli strumenti

tecnici indispensabili per disciplinare la propria creatività. Aldilà delle immagini suggestive con cui,

nei testi raccolti in Per un teatro povero (1968), Grotowski scrisse del metodo di lavoro dell’attore,

l’efficacia dell’azione in presenza poteva nascere solo dall’equilibrata sintesi tra disciplina e

147 Ibidem.148 Ibi, p. 29.149 Cfr. ibi, p. 52 e p. 67.

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Page 37:  · Web viewLe stesse problematiche, addirittura in forma più evidente, si presentarono in Germania, considerando che la progettazione di un teatro popolare viene svincolata dalla

spontaneità, che portava alla creazione di partiture fisiche artificiali e strutturate, ma capaci di

rivelare, in forma sensibile e comprensibile, le tappe del suo percorso ascensionale.

Quando io dico “trascendere voi stessi”, esigo uno sforzo sovrumano. Si ha il dovere di non

fermarsi, nonostante la stanchezza, e fare cose che sappiamo bene di non poter fare. Il che

equivale a dire che si ha il dovere di essere coraggiosi. […] Quando troviamo il coraggio di fare

cose impossibili, scopriamo che il nostro corpo non ci blocca più. Facciamo l’impossibile e la

dissociazione esistente in noi fra l’idea e la capacità fisica scompare150.

La dedizione e la costanza richieste ai suoi attori trascendeva il puro allenamento fisico; il lavoro di

gruppo era disciplinato da un decalogo di principi151 che restituisce il senso etico dell’attività

grotowskiana. Per evitare che la tecnica sconfinasse nel virtuosismo autocompiacente, Grotowski

parlò della ‘via negativa’, secondo cui la ricerca è diretta non all’accumulo di perizie tecniche, ma

alla rimozione di blocchi fisici e psichici: la sincerità dell’attore sulla scena è il risultato

dell’«annullamento dell’intervallo di tempo fra gli impulsi interiori e le reazioni esteriori in modo

tale che l’impulso sia già una reazione esterna»152.

Alla figura di un nuovo attore, corrispose la necessità di confrontarsi con un pubblico differente da

quello generico e massificato raggiunto dai mass media. Grotowski pose al centro dei suoi interessi

lo spettatore, inscindibilmente legato all’attore in un rapporto di compresenza e compartecipazione,

ma non per questo si piegò al «pubblicotropismo»153, che implicava la subalternità dell’attore.

Nonostante le frequenti critiche di snobismo, Grotowski scelse il suo pubblico, aspirando a

raccogliere coloro che nutrivano il desiderio di autoanalizzarsi mediante il confronto con la

rappresentazione, sfatando quella che era ormai diventata una convinzione comune, che identificava

la partecipazione attiva dello spettatore con il suo coinvolgimento diretto nell’azione154. Anche il

Teatro Laboratorio sperimentò la pratica tentata dal Living Theatre, collocando il pubblico

all’interno dello spazio scenico a seconda delle esigenze della rappresentazione; come per il gruppo

statunitense, ben presto divenne chiara la sostanziale coercizione sottesa a questo metodo. Fu così

che, in Apocalypsis cum figuris (1968-1969), il pubblico poté disporsi liberamente lungo i quattro

lati della sala, in stretta vicinanza con gli attori: lo spettatore era ‘testimone’ discreto e cosciente

150 Ibi, p. 285.151 Cfr. Ibi, pp. 293-307.152 Ibi, p. 22.153 Ibi, p. 275.154 Cfr. DE MARINIS, Marco, Il nuovo teatro 1947 – 1970, cit., pp. 90-91.

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Page 38:  · Web viewLe stesse problematiche, addirittura in forma più evidente, si presentarono in Germania, considerando che la progettazione di un teatro popolare viene svincolata dalla

del rito celebrato dagli attori, investito del compito di «non dimenticare, non dimenticare a nessun

costo»155.

Apocalypsis cum figuris fu l’ultimo spettacolo di Grotowski. All’apice del successo e della fama,

egli annunciò di voler abbandonare le scene, ma non il teatro: a partire dagli anni Settanta, la sua

ricerca si articolò in una serie di progetti speciali dedicati allo studio delle relazioni umane

interindividuali e di gruppo, un lavoro pratico nel quale, di fatto, non esistevano più distinzioni tra

attori e spettatori. Nella fase ‘parateatrale’, il gruppo di lavoro di Wroclav si aprì alla partecipazione

attiva di un numero esiguo di persone esterne per elaborare delle azioni in cui ogni segno valeva per

se stesso, non rimandava a significati che non fossero percepibili nell’hic et nunc, nella concretezza

del linguaggio corporeo. Un passo aldilà dello stesso processo teatrale, quindi, verso una

dimensione festiva, nella quale i partecipanti, disarmandosi delle maschere quotidiane, potevano

predisporsi a una «comunicazione collettiva ‘piena’, ‘totale’»156, alla ricerca di «momenti ‘alti’ di

vissuto collettivo»157. Anche attraverso il percorso ancora più a ritroso che caratterizzò il Teatro

delle Fonti o delle Sorgenti (1975-76), verso l’origine comune di differenti tradizioni culturali,

l’incontro tra individui rimase l’interesse precipuo della ricerca grotowskiana:

Anche questo è una festa, è essere nella festa, è essere la festa. Tutto questo è inseparabile

dall'incontro: un incontro reale, pieno, nel quale l'uomo non mente a se stesso e vi partecipa

nella sua totalità. Dove non c'è quella paura, quella vergogna di sé che dà origine alla menzogna

e alla simulazione, che è di se stessa progenitrice, in quanto è a sua volta nata da una menzogna

e da una simulazione. In questo incontro, l'uomo non si rifiuta e non si impone. Si lascia toccare,

non preme, con la sua presenza. Avanza senza temere lo sguardo di nessuno, è integro. E come

se parlasse con la propria individualità: tu sei, dunque io sono. E anche: sto nascendo perché tu

nasca, perché tu divenga. E anche: non aver paura, vengo con te158.

Il Parateatro e il Teatro delle Sorgenti dischiusero nuove possibilità di relazione senza riserve, ma

spesso le azioni scadevano nell’imprecisione e scatenavano elementi genericamente vitalistici ed

esistenziali, fissando l’esperienza su un piano orizzontale, strettamente corporeo e istintivo159. In un

momento di ricognizione sulle nuove istanze di ricerca, nel 1985 Grotowski, su invito di Roberto

Bacci e Carla Pollastrelli, attivi nel Centro di Sperimentazione Teatrale di Pontedera (PI), si trasferì

155 GROTOWSKI, Jerzy, Teatro e rituale, in «Il Dramma», VI, pp. 76-77, citato in DE MARINIS, Marco, Il nuovo teatro 1947 – 1970, cit., p. 91.156 DE MARINIS, Marco, Il nuovo teatro 1947 – 1970, cit., p. 262.157 Ibi, p. 263.158 KUMIEGA, Jennifer, The theatre of Grotowski, Methuen, London-New York, 1987, tr. it. Jerzy Grotowski. La ricerca nel teatro e dopo il teatro, 1959 – 1984, La Casa Usher, Firenze, 1989, pp. 128-129.159 Cfr. GROTOWSKI, Jerzy, Dalla compagnia teatrale a L’arte come veicolo, postfazione a RICHARDS, Thomas, Al lavoro con Grotowski sulle azioni fisiche, Ubulibri, Milano, 1993, pp. 123-141.

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Page 39:  · Web viewLe stesse problematiche, addirittura in forma più evidente, si presentarono in Germania, considerando che la progettazione di un teatro popolare viene svincolata dalla

in Toscana per fondare un Workcenter, dove portare avanti la propria ricerca antropologica, tradotta

praticamente in una serie di performances cui potevano assistere solo pochi, selezionati ‘testimoni’.

In quest’ultimo stadio del lavoro grotowskiano ritornarono la precisione e il rigore della disciplina

professionale condotta dal Teatro Laboratorio, ma la perizia artigianale si collocò in una dimensione

alta e speculativa: l’Arte come veicolo di una più elevata ricerca interiore. A Pontedera si formò un

piccolo nucleo di collaboratori dediti alla ricerca pura, senza scopi produttivi né limitazioni di

tempo, una comunità ‘protetta’ che poteva lavorare in condizioni di grande libertà, ma

apparentemente anche di ambigua, ermetica chiusura allo sguardo esterno: osservato da vicino, il

lavoro si rivelava ricco e importante, ma, visto da lontano, si faceva sempre più misterioso160,

rendendo quasi indefinibile la sua relazione con il teatro, così facilmente percepibile ne L’arte come

presentazione, espressione con la quale il maestro indicava il teatro degli spettacoli.

Questa ricerca poteva mostrarsi nella sua logica consequenzialità, sfuggendo a facili malintesi, solo

allontanandosi dalle delimitazioni convenzionalmente stabilite dalle categorie artistiche, mostrando

alla sua origine «una questione del tutto reale: che cosa ha da spartire con il teatro questo lavoro se

non c’è più rappresentazione?»161.

Action rappresentò il culmine della ricerca avviata negli scenari bucolici del pontederese,

caratterizzandosi come studio performativo applicato agli antichi canti rituali africani e afro-

caraibici e alle pratiche orientali, dallo yoga tantrico al vodou haitiano, dalla trance alle discipline

marziali giapponesi; un’opera elaborata ai bordi del teatro, nel quale era evidente il «carattere

rituale e non rappresentativo del fare»162, e tuttavia non così lontano da un normale lavoro teatrale di

lunga durata centrato sulla creazione di partiture fisiche a partire da modelli di canto e movimento

assunti da tradizioni arcaiche163. La cifra distintiva di questa attività sembrava risiedere nella qualità

della presenza degli attuanti, riflessa nel loro corpo che, come per effetto di un’alchemica

trasformazione delle energie, non era più vincolato alla mera fisicità né alla manipolazione della

mente e «diventa[va] obbediente senza sapere che deve obbedire»164.

Allontanandosi dai canoni e dagli statuti teatrali noti, si poteva allora individuare il carattere

eccezionale di questa esperienza, giocata sui confini, dilatati a dismisura, tra teatro e performance,

quindi anche l’esigenza di condizioni altrettanto particolari nelle quali Grotowski, «la sola persona

al mondo d’oggi che abbia fatto delle ricerche così profonde in questo ambito»165, potesse

continuare a esplorare la figura dell’attore.

160 BROOK, Peter, Grotowski, l’arte come veicolo, in «Teatro e Storia», III (ottobre 1988), n. 2, p. 256. 161 Ibidem.162 VOLLI, Ugo, La quercia del duca. Vagabondaggi teatrali, Feltrinelli, Milano, 1989, p. 56.163 Cfr. Il Workcenter di Jerzy Grotowski and Thomas Richards e Action, in «Teatro e Storia», XIII-XIV (1998-1999), n. 20-21, p. 442-444.164 GROTOWSKI, Jerzy, Dalla compagnia teatrale all'arte come veicolo, cit., p. 136.165 BROOK, Peter, Grotowski, l’arte come veicolo, cit., p. 257.

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Page 40:  · Web viewLe stesse problematiche, addirittura in forma più evidente, si presentarono in Germania, considerando che la progettazione di un teatro popolare viene svincolata dalla

Nella terminologia dell’ultimo Grotowski, chi agisce è il Performer, che nell’omonimo scritto

(1987-1988) definisce ‘uomo d’azione’ e al contempo ‘uomo di conoscenza’, poiché «dispone solo

del doing, del fare e non di idee o di teorie […] La conoscenza è questione di fare»166, un sapere

fisico-corporeo che rievoca la tradizione stanislavskiana, assunta e rielaborata già negli anni

Sessanta, per operarne un superamento. «Non voglio scoprire qualcosa di nuovo, ma qualcosa di

dimenticato. Una cosa talmente vecchia che tutte le distinzioni tra generi artistici non sono più

valide»167: oltre al duro training fisico del Teatr Laboratorium, Grotowski trovò un’altra strada per

accedere alla via creativa, che consisteva nello «scoprire in se stessi una corporeità antica alla quale

si è collegati da una relazione ancestrale forte»168; un viaggio all’indietro, come un fenomeno di

reminiscenza che attualizza nella propria corporeità memorie d’altri e permette di trovare non il

personaggio o il non-personaggio, bensì la propria essenza. È «a partire dai dettagli», tuttavia, che

«si può scoprire in sé un altro»169, articolando il flusso della vita in strutture semplici ma precise;

all’insegna dell’imperativo «Don’t improvise, please!»170. Il rigore e la precisione erano funzionali

al raggiungimento di una raffinatezza artigianale tale da dimenticare la tecnica in sé e raggiungere

uno stato di coscienza nel tempo e fuori del tempo, attraverso la dialettica convivenza dell’Io e

dell’Io-Io, «uno sguardo immobile, presenza silenziosa»171 che vigila sul processo. Esso si esprime

attraverso la passività ricettiva dell’azione e la presenza attiva dello sguardo, in una lunga, difficile

evoluzione personale che è vera e propria trasmutazione della natura umana, dalla quale rinascere

come organismo trasparente, cavo, capace di condensare l’impulso interiore in reazione esteriore.

Con Action si ricreava lo spazio sacro del rituale, un momento di grande intensità percepita dagli

stessi testimoni «perché, dicono, hanno sentito una presenza»172 cui sono stati messi in contatto dal

Performer-pontifex.

L’abrogazione dello spettatore a favore del testimone, allora, non era chiusura verso l’altro, scelta di

un isolamento sterile, per lo stesso motivo per cui l’azione non poteva più essere assimilata allo

spettacolo: qui il cambiamento di prospettiva investe esclusivamente «ciò che viene guardato»173.

Rispetto a L’Arte come presentazione, la cui peculiarità risiedeva nel montaggio dell’evento,

affidato alla sintesi dello spettatore, L’Arte come veicolo cercava di creare il montaggio dell’azione

166 GROTOWSKI, Jerzy, Il Performer, in «Teatro e Storia», III (aprile 1988), n. 1, p. 165.167 Ibidem.168 Ibi, p. 168.169 Ibi, pp. 167-168.170 Ibi, p. 168.171 Ibi, p. 167.172 Ibi, p. 166.173 RUFFINI, Franco, Jerzy Grotowski. Frontiere, maestri, eredi, in «Primafila», n. 40, febbraio 1998, p. 32.

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Page 41:  · Web viewLe stesse problematiche, addirittura in forma più evidente, si presentarono in Germania, considerando che la progettazione di un teatro popolare viene svincolata dalla

nella percezione degli attuanti174; Action si poneva di fronte al testimone e questi, dall’altra parte,

non guardava uno spettacolo, ma se stesso attraverso di esso175.

I due periodi della produzione spettacolare e della ricerca pura, opposti e complementari, si trovano

alle estremità di un percorso che si è dispiegato negli anni, articolandosi intorno agli stessi interessi

originari:

AHRNE: Che cosa ti ha attirato verso il teatro, all’inizio?

GROTOWSKI: Il teatro è stato un’enorme avventura nella mia vita, ha condizionato il mio

modo di pensare, di vedere la gente, di guardare la vita; direi che il mio linguaggio è stato

formato dal teatro. Ma non ho cercato il teatro, in realtà ho sempre cercato qualcos’altro. Da

giovane mi domandavo quale fosse il mestiere possibile per cercare l’altro e me stesso […]. In

fondo è stato questo interesse per l’essere umano, negli altri e in me stesso, che mi ha portato al

teatro, ma avrebbe potuto portarmi alla psichiatria o agli studi di yoga176.

Si può dunque comprendere la visione del maestro, che identificò le fasi del suo lavoro come anelli

di una stessa catena, in cui il teatro è stato uno dei mezzi, inizialmente il più idoneo, che insieme ad

altri concorse a dischiudere la prospettiva esistenziale di un oltre. La ricerca sull’essenza dell’uomo

come percorso verticale-ascensionale verso l’«esserità»177, rifiutava l’approccio sociologico e

poneva davanti al fatto che «questa ricerca è una ricerca spirituale […] nel senso che andando verso

l’interiorità dell’uomo, si passa dal noto all’ignoto. […] Si può dire che in epoca diversa dalla

nostra, questo lavoro sarebbe stato come l’evoluzione naturale di una grande tradizione

spirituale»178.

Attraverso la pratica teatrale, Grotowski cercò la chiave d’accesso a ciò che nell’uomo è

incondizionato, che trascende l’influenza della società, discostandosi così dall’attivismo socio-

politico che coinvolse intellettuali e teatranti del suo tempo. Nonostante avesse partecipato in prima

linea, negli anni Cinquanta, alle rivolte della gioventù comunista polacca, schierata con operai e

studenti a favore di Gomulka, che salì al potere per poi disattendere i suoi propositi179, Grotowski

riteneva anzi che «i cattivi artisti parlano di rivolta, i veri artisti fanno la rivolta. [...] La vera rivolta

nell’arte è ostinata, competente, mai dilettante»180.

174 Cfr. GROTOWSKI, Jerzy, Dalla compagnia teatrale all'arte come veicolo, cit., 123-141.175 Cfr. Ibidem.176 AHRNE, Marianne, Intervista di Marianne Ahrne (Pontedera 1992), in «Teatro e Storia», 20–21 (1998–1999), pp. 429–430.177 GROTOWSKI, Jerzy, Il Performer, cit., p. 166.178 BROOK, Peter, Grotowski, l’arte come veicolo, cit., p. 257.179 DE MARINIS, Marco, Il nuovo teatro 1947 – 1970, cit., p. 188.180 GROTOWSKI, Jerzy, Tu es le fils de quelqu'un, in «Europe», ottobre 1989, n. 726, tr. it. Tu sei figlio di qualcuno, in «Linea d'ombra», n.17, dicembre 1986, pp. 67-68.

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Le sue scelte professionali da una parte lo allontanarono dallo specifico disciplinare del teatro per

avvicinarlo alle arti performative, dall’altra lo videro muoversi in controtendenza rispetto al mondo

della controcultura europea e americana, nella quale intanto si radicalizzava il paradigma dell’artista

ideologicamente e attivamente coinvolto nel suo presente storico-politico.

Dalla metà degli Ottanta, anche per l’aggravarsi delle sue condizioni di salute, Grotowski decise di

dedicarsi in modo particolare alla trasmissione del suo patrimonio di conoscenze ed esperienze

maturate nel campo delle arti performative e nell’incontro con culture diverse, nei viaggi in India,

Africa e Haiti; una trasmissione intesa come passaggio di saperi pratico-performativi, da maestro ad

allievo, e una trasmissione che supera il livello della perizia tecnica e può essere definita come una

‘conoscenza tacita’, consegnata all’oralità e ai mezzi non-verbali, in un rapporto diretto e personale

con l’allievo181. Quello incorporato dai suoi più stretti collaboratori, soprattutto Thomas Richards,

fu un sapere inerente il lavoro su se stessi e l’aspetto più interiore della ricerca; una sorta di via

iniziatica i cui principi si appoggiavano non sulla religione ma sul lavoro non-teatrale del maestro,

che probabilmente «fabbrica senso per il teatro proprio perché gli edifica concretamente accanto

qualcosa che lo trascende»182.

Tra i pochi testimoni esterni del lavoro del Teatr Laboratorium ci fu Eugenio Barba, studente

italiano stabilitosi in Norvegia e trasferitosi in Polonia grazie ad una borsa di studio.

L’apprendistato con Grotowski (1961-1964) smussò la sua concezione intellettualistica del teatro,

radicata nella dottrina brechtiana, permettendogli di acquisire i fondamenti dell’attività registico-

pedagogica senza alcuna partecipazione attiva al lavoro del gruppo.

Rientrato ad Oslo, il 1 ottobre 1964 Barba convocò alcuni aspiranti attori rifiutati dall’accademia di

teatro della città; con quattro di essi fondò l’Odin Teatret, che visse i suoi primi anni in condizione

di emarginazione rispetto al mondo teatrale. La peculiarità del gruppo fu proprio quella di «“fare di

necessità virtù”»183, trasformare le difficoltà iniziali in sprono irriducibile per il lavoro teatrale. La

mancanza di spazi, di finanziamenti e di attenzioni esterne non sembravano far vedere alcuno

sbocco pratico-professionale al duro allenamento cui il neoregista sottoponeva i suoi attori: l’unica

risorsa a disposizione del gruppo poteva era la motivazione personale, intima e tenace, di ciascun

componente.

Non si tratta più d’essere missionari o artisti originali, si tratta d’essere realisti. Il nostro

mestiere è la possibilità di cambiarci e, così, di cambiare la società. Non bisogna domandarci:

181 Cfr. DE MARINIS, Marco, In cerca dell’attore. Un bilancio del Novecento teatrale, Bulzoni, Roma, 2000, p. 16.182 TAVIANI, Ferdinando, Commento a «Il Performer», in «Teatro e Storia», III (ottobre 1988), n. 2, p. 272.183 DE MARINIS, Marco, Il nuovo teatro 1947 – 1970, cit., p. 194.

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cosa significa il teatro per il popolo? È una domanda demagogica e sterile. Bisogna domandarci:

che significa il teatro per me? La risposta, convertita in azione, senza riguardi o compromessi,

sarà la rivoluzione del teatro184.

La quotidianità del training, a prescindere dalla preparazione di uno spettacolo, divenne la

caratteristica distintiva del lavoro di gruppo, grazie alla quale si misurò con tecniche differenti,

acquisendo capacità differenziate e non specialistiche; in seguito, l’allenamento venne rivalutato

come una forma di autodisciplina e gli esercizi come pretesti per assumere un modo paradossale ed

extraquotidiano di pensare, ‘ostacoli’ da superare in base a una motivazione del tutto personale, ma

fisiologicamente percepibile per l’osservatore esterno185, attraverso la costruzione di partiture fisiche

ben strutturate. Anche per Barba il dominio dei principi tecnici fondamentali era essenziale per

realizzare una «presenza con codificazione personale»186, associandosi alla posizione di Grotowski:

«Per essere rivoluzionari bisogna essere lucidi, e saper bene utilizzare le proprie armi: i dilettanti

non hanno mai cambiato la storia»187. Fu così che il primo spettacolo del gruppo, Ornitofilene, fu

messo in scena dopo un anno di lavoro in sala, lontano da qualsiasi sguardo esterno, inaugurando

una serie di produzioni dal taglio fortemente politico, anche se non assimilabili a ciò che in quegli

anni si intendeva per “teatro politico”188.

Negli anni in cui il turismo straniero diventava una delle principali industrie italiane e l’ecologia si

diffondeva in Europa con la forza di un credo ideologico, la dialettica tra tradizione e progresso, qui

declinata nello scontro tra ornitofili ed ecologisti, ovvero ex cacciatori di uccelli ed ex nazisti su

suolo straniero, divenne il pretesto per mettere in discussione l’inviolabilità del pensiero

progressista; inoltre, le continue variazioni di registro e di intensità dell’azione mettevano in

secondo piano l’intelligibilità del testo, affidando al movimento e alla voce l’efficacia dello

spettacolo189. Ornitofilene suscitò grande interesse all’estero, tanto che la piccola municipalità di

Holstebro invitò l’Odin Teatret a stabilirsi sul suo territorio, che godette così di una sede propria e

dell’integrazione di alcuni attori locali, tra cui Iben Nagel Rasmussen, una delle più importanti

attrici ancora oggi presente. Al centro del secondo spettacolo, Kaspariana (1967), il problema della

trasmissione della cultura venne filtrato dalla storia di Kaspar Hauser, ragazzo trovato nella piazza

di Norimberga ed educato secondo i princìpi pedagogici dell’Ottocento, spunto per l’elaborazione

184 BARBA, Eugenio, Teatro. Solitudine, mestiere, rivolta, Ubulibri, Milano, 1996, pp. 39-40.185 Cfr. Ibi, pp. 92, 78.186 Ibi, p. 196.187 Ibi, p. 39.188 DE MARINIS, Marco, Il nuovo teatro 1947 – 1970, cit., p. 191.189 Cfr. Ibi, p. 192 e TAVIANI, Ferdinando (a cura di), La “leggenda nera”. Catalogo degli spettacoli dell’Odin Teatret, in BARBA, Eugenio, Teatro. Solitudine, mestiere, rivolta, cit., p. 284.

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di partiture fisiche e parole-suono di lingue diverse, essenziali per sollecitare delle associazioni

semantiche190.

Il tema della diversità, dell’incontro di culture differenti, tra affermazione di sé e violenza sull’altro,

si fece più penetrante e attuale in Ferai (1969), con il quale il gruppo raggiunse la fama

internazionale. Partendo dal mito di Alcesti e dalla saga nordica del re Frode Fredegod, l’Odin

cercò un confronto aperto con il Sessantotto, sollevando interrogativi e provocazioni

sull’umanesimo idealista e filantropico sbandierato dal movimento di contestazione giovanile.

Ideale prosecuzione di Kaspariana, lo spettacolo mostrava nelle gesta armoniose di Admetos,

giovane aspirante al trono, il pericolo insito in ogni forma di potere, anche il più apparentemente

libertario, di «usare la violenza per instaurare il regno della non-violenza, la forza per far trionfare

la ragione»191, appellandosi alla reazione emotiva e intellettiva dello spettatore.

Lo spettacolo diventa allora per noi la frontiera fra rappresentazione e testimonianza. […] È la

resistenza che la rappresentazione oppone alla testimonianza, e che questa oppone a quella, che

fa dello spettacolo un organismo che si trasforma, che fa del gesto rigidamente fissato

dall’attore un gesto che ogni sera sembra ritrovare la forza di una reazione improvvisa192.

L’avvicendarsi di azioni e reazioni senza uno schema predefinito o gerarchico affidava allo

spettatore il compito di sintetizzare l’opera attraverso il libero esercizio dell’associazione, lasciando

emergere gradualmente l’inizio di un processo di dilatazione dell’opera al di là della

rappresentazione, radicalizzatosi negli anni successivi.

Dopo il successo riscosso in Europa e l’acquisizione dello statuto di Laboratorio Interscandinavo

(Nordisk Teaterlaboratorium), con conseguenti finanziamenti da parte del Ministero della Cultura

danese, Barba decise di sciogliere l’ensemble, temendo si generassero forme di autocompiacimento,

ma soprattutto per rifondare dal principio i modi e il senso del proprio lavoro. In Min Fars Hus

(1972), spettacolo ispirato e dedicato alla vita e alle opere di Dostoevskij, nelle quali si potevano

cogliere riferimenti ai rapporti sociali e politici del periodo, esso sembrava dirigersi verso la

condivisione di un’esperienza tra attori e spettatori, «di cui è quasi impossibile parlare in maniera

“oggettiva »193, limitandosi alla forma estetica o ai significati sottesi.

Questo spettacolo si pose come punto liminale fra i due periodi, apparentemente contrapposti, che

caratterizzarono il lavoro e la vita del gruppo. Fino ad allora, nelle sue due piccole sale di lavoro,

l’Odin Teatret si dedicò a un durissimo training quotidiano e alla costruzione degli spettacoli,

190 Cfr. DE MARINIS, Marco, Il nuovo teatro 1947 – 1970, cit., pp. 193-195.191 TAVIANI, Ferdinando (a cura di), La “leggenda nera”, cit., p. 288.192 BARBA, Eugenio, Teatro. Solitudine, mestiere, rivolta, cit., p. 125.193 TAVIANI, Ferdinando (a cura di), La “leggenda nera”, cit., p. 290.

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preparati per almeno uno-due anni, gli unici momenti di apertura verso un pubblico volutamente

ridotto, sfuggendo ai giudizi prematuri e all’assillo della produttività; con la costituzione del

Nordisk Teaterlaboratorium, venne riconosciuto all’estero per una serie di attività culturali

collaterali, come la pubblicazione di libri e riviste, l’organizzazione di festival, seminari con

professionisti del teatro orientale e occidentale, laboratori teorico-pratici e la produzione di film

didattico-documentari sul proprio lavoro. Questo lavoro “segreto”, condotto in ambienti separati,

sostanziò una vera e propria cultura di gruppo, «un modo – più orgoglioso e eloquente – per

indicare che il gruppo ha un sapere e delle esperienze in comune, un suo training, visioni artistiche e

obiettivi propri»194 che definirono l’identità dell’Odin Teatret.

Nel 1974 il gruppo portò Ferai in Barbagia (Sardegna) e a Carpignano Salentino (Puglia),

inaugurando una stagione di viaggi nelle “regioni senza teatro”, «lì dove il teatro non soltanto non

esiste, ma dove è inutile, dove sarebbe (ed è) volgarmente filantropico e sciocco un teatro che si

presenti dicendo “Son qui per aiutarvi. Ditemi cosa posso fare per voi”»195. Nella consapevolezza

della reciproca diversità, il gruppo dovette ridefinire il proprio lavoro nel confronto con l’altro,

superando le categorie di mestiere e strutturando il soggiorno nell’ottica del ‘baratto’. Alle modalità

di approccio sperimentate dall’Odin, inizialmente con canzoni scandinave e danze, poi con

l’elaborazione di brevi scene improvvisate, montaggi di esercizi, parate e clowneries, le realtà

socioculturali italiane rispondevano con canti e danze propri: l’arrivo del gruppo in paese si rivelava

il pretesto per radunare persone e lasciar emergere manifestazioni di cultura popolare, in una

situazione festiva collettiva. «Questo è il nostro “baratto”. Noi non abbiamo rinunciato a quello che

era nostro, loro non hanno rinunciato a quello che era loro. Ci siamo definiti reciprocamente

attraverso il nostro patrimonio culturale»196. Come nell’Italia del Sud, anche nei successivi viaggi in

America Latina, Estremo Oriente e Africa, dove man mano vennero presentati anche gli spettacoli

del gruppo, come Come! And the Day will be Ours (1976), Il Milione (1979), Ceneri di Brecht

(1980-1984) e Il vangelo di Oxyrhincus (1985), la logica rimase invariata: rifiutando la

l’atteggiamento colonialistico di chi tenta di rompere norme e tabù di un organismo comunitario

compatto, violentandolo, l’Odin si inserì come oggetto di studio, suscitando nella popolazione una

curiosità che manifestava il bisogno, prima sconosciuto, di avere teatro197.

La riflessione disillusa e pessimistica dei pericoli sottesi all’affermazione dei propri modelli

culturali, prima tematizzata sulla scena, veniva totalmente ribaltata nell’ottimismo della volontà,

194 BARBA, Eugenio (a cura di), Il Brecht dell’Odin, Ubulibri, Milano, 1981, p. 9. 195 TAVIANI, Ferdinando (a cura di), Il libro dell’Odin. Il teatro laboratorio di Eugenio Barba, Feltrinelli, Milano, 1975, p. 15.196 BARBA, Eugenio, Teatro. Solitudine, mestiere, rivolta, cit., p. 111.197 Ibi, p. 119. Per ulteriori approfondimenti sui primi dieci anni di attività dell’Odin Teatret, v. TAVIANI, Ferdinando (a cura di), Il libro dell’Odin, cit., 1975.

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Page 46:  · Web viewLe stesse problematiche, addirittura in forma più evidente, si presentarono in Germania, considerando che la progettazione di un teatro popolare viene svincolata dalla

che era dispendio di energie, cura del dettaglio e dedizione per il lavoro di gruppo198: apolidi nel

territorio geografico prescelto e nel sistema teatrale, il riscatto di questi outsiders avvenne nella

scoperta di un’identità professionale che richiama a sé quella etnica e personale, collocandola nella

terra di mezzo del ‘teatro eurasiano’, terra di transizione delle tradizioni della scene orientale e

occidentale199.

La strategia relazionale fondata sul baratto, tuttavia, non sostituì quella del lavoro “segreto”,

piuttosto evidenziò quanto l’identità del gruppo potesse definirsi attraverso il confronto con quella

degli altri, inserendosi in una dimensione transculturale. Grazie al sostegno dell’UNESCO, Eugenio

Barba fondò l’ISTA (International School of Theatre Anthropology), sorta di università itinerante

che, dal 1979, attraverso le analisi comparative di critici e studiosi e le dimostrazioni pratiche di

attori, danzatori, registi e coreografi di tutto il mondo, affronta lo studio interdisciplinare della pre-

espressività, l’insieme dei princìpi comuni ai linguaggi e alle tecniche performative dei teatranti

d’Oriente e d’Occidente. L’antropologia teatrale divenne così una ricerca scientifica sul substrato

comune al comportamento scenico, extraquotidiano degli attori che agiscono in situazione di

rappresentazione organizzata200, maturata nella convinzione che «ognuno di noi è figlio del lavoro

di qualcuno. Ognuno di noi si orienta allontanandosi da un passato che si è scelto»201.

Barba si espresse anche rispetto al suo presente, riflettendo sugli scenari teatrali degli anni Sessanta

e Settanta. Nel 1976, in occasione dell’Incontro internazionale di ricerca teatrale di Belgrado, il

regista scrisse Terzo Teatro, ideale manifesto per quei gruppi che non si riconoscevano nel teatro di

tradizione, né nelle neoavanguardie; non un movimento di teatranti accomunati dalla stessa una

linea di ricerca, ma da una condizione di marginalità e discriminazione, per i quali il teatro

rappresentava la possibilità di

trovare il proprio modo di essere presenti […] cercando rapporti più umani fra uomo e uomo,

nell’intento di realizzare una cellula sociale in cui le intenzioni, le aspirazioni, le necessità

personali cominciano a trasformarsi in fatti […] un imperativo etico, non limitato alla sola

professione, ma esteso alla totalità della vita quotidiana202.

198 Cfr. TAVIANI, Ferdinando (a cura di), La “leggenda nera”, cit., p. 283.199 Per ulteriori approfondimenti, v. SAVARESE, Nicola, Il teatro eurasiano, Laterza, Roma-Bari, 2002.200 Cfr. BARBA, Eugenio, Teatro. Solitudine, mestiere, rivolta, cit., pp. 235-265 e Ista, in CAPPA, Felice, GELLI, Piero (a cura di), Dizionario dello spettacolo del ‘900, cit., p. 552. Per ulteriori approfondimenti, v. BARBA, Eugenio, La canoa di carta. Trattato di Antropologia Teatrale, Il Mulino, Bologna, 1993 e ID., SAVARESE, Nicola, L’arte segreta dell’attore. Un dizionario di antropologia teatrale, Argo, Lecce, 1996.201 BARBA, Eugenio, Teatro. Solitudine, mestiere, rivolta, cit., p. 265.202 SCHINO, Mirella, Il crocevia del Ponte d'Era. Storie e voci di una generazione teatrale 1974-1995, Bulzoni, Roma, 1996, p. 73.

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Page 47:  · Web viewLe stesse problematiche, addirittura in forma più evidente, si presentarono in Germania, considerando che la progettazione di un teatro popolare viene svincolata dalla

La stessa formazione dell’Odin Teatret fu tra le prime di questo nuovo “arcipelago teatrale”,

costellato da gruppi che combattevano contro l’utilitarismo per affermare la propria diversità.

Qualche anno più tardi Barba tornò sulle dinamiche dei teatri di gruppo, rilevando le posizioni

contraddittorie che questi assunsero nei confronti della propria marginalità, a fronte di coloro che,

sopraffatti dall’impotenza, si rifugiarono nell’idealizzazione consolatoria e alienante della loro

emarginazione, o che invece si mostrarono insofferenti all’esclusione forzata dalle società del

benessere, dominate dalla logica della produttività. «Non c’è nessun diritto ad essere diversi»203 e

proprio per questo, tra gli anni Settanta e Ottanta, la maggior parte dei teatri di gruppo si lasciò

decimare dalla mancanza di strategie, di finanziamenti, di unione; il regista rifletté sulla sostanziale

differenza tra separazione e isolamento dalle trasformazioni sociali del tempo: l’“asocialità” dei

teatri marginali poteva convertirsi in una nuova forma di socialità, un fronte di resistenza comune

nel quale proteggere ciò che si riteneva essenziale, creando legami solidali con le realtà simili alla

propria.

Devi essere “asociale” se vuoi creare l’esempio contrario alla socialità dell’ingiustizia.

Devi essere “asociale” se non vuoi accettare le regole del gioco in cui tu resterai perso e

impigliato. […]

Devi essere “asociale” se vuoi trasmettere la tua presenza e la tua azione anche a coloro che

domani potranno confrontarsi sulle tue esperienze, partendo dalle tue tracce.

Non devi ridurre la tua presenza a questo momento, a questo posto, ai tuoi legami d’oggi, alle

sole domande che oggi ti pongono.

Sei forse per questo apolitico? Cos’è la politica? Non è l’arte del possibile?

Devi essere “asociale” per realizzare il tuo possibile204.

Barba riabilitò il valore dell’arte ‘separata’ come forma di rifiuto propositivo nei confronti delle

costrizioni del presente, richiamandosi agli esempi di maestri che a loro volta furono ‘antistorici’, in

particolare Brecht e Grotowski205. Attraverso il dialogo con questi interlocutori invisibili, il passato

lascia intravvedere le possibilità che si consegnano al presente, affidando all’intellettuale il compito

di «un gesto inutile e simbolico, che va contro la maggioranza, contro il pragmatismo, contro la

moda […] ma che qualcuno deve fare»206; la scontentezza si ricolloca in una dimensione verticale,

storica e spirituale, trasformandosi in tensione viva verso il cambiamento.

203 BARBA, Eugenio, Teatro. Solitudine, mestiere, rivolta, cit., p. 184.204 Ibi, p. 191.205 Cfr. Ibi, pp. 138-144, 179-180.206 Ibi, p. 237.

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Page 48:  · Web viewLe stesse problematiche, addirittura in forma più evidente, si presentarono in Germania, considerando che la progettazione di un teatro popolare viene svincolata dalla

«È solo perché ci siamo concentrati per dieci anni sulle condizioni del nostro lavoro, e siamo

riusciti a cambiare noi stessi, prima di parlare di cambiare teatro o società, che oggi possiamo

liberarci – in gran parte – dal legame con un solo tipo di organizzazione teatrale»207: il percorso

dell’Odin Teatret si è distinto negli anni per la capacità di adattare le proprie strategie di

comportamento al mutare delle circostanze, cercando un equilibrio tra coesione interna e

cambiamento. La sua «fuoriuscita dal teatro»208, associata al periodo dei baratti, non si è tradotto

nell’abbandono definitivo della forma-spettacolo, ma in un’esperienza rigenerante dell’attività in

sala, una riscoperta della professione teatrale quale «strumento di mutamento di sé e degli altri,

purché ci si tenga aldiquà e aldilà del Teatro, del Sistema Teatrale»209 - tra teatro “segreto”, luogo

separato in cui attori e spettatori si scelgono reciprocamente, confrontandosi con le proprie

domande sulla realtà umana e sociale, e “baratto”, che fu un modo per rivitalizzare il ruolo dello

spettatore, invitandolo a presentarsi attraverso il suo patrimonio culturale e l’azione performativa.

La longevità dell’Odin Teatret risulta eccezionale se confrontata con le vicende dei gruppi nati nello

stesso decennio, disgregatisi nel giro di pochi anni o lentamente confluiti nell’establishment

teatrale; una caratteristica importante per la storia del gruppo, perché, secondo Barba, «per un

laboratorio teatrale, durata significa resistenza»210. Attraverso l’affermazione della dignità del

proprio lavoro, l’Odin ha protratto una lotta politica permanente («una guerra che camuffo sotto

forma di arte»211), superando le crisi interne, le difficoltà economiche e la routine, fattori che

inevitabilmente subentrano dopo quasi cinquant’anni di vita. Una lotta sotterranea, certamente

lontana dai focolai dell’antagonismo politico, che ha trovato le sue armi nello specifico teatrale,

trascendendo l’intervento immediato nel presente a favore della costruzione di un’identità storica ed

esistenziale che conserva il senso della precarietà del tempo, ma al tempo stesso cerca di

trascenderlo, per consegnarsi in eredità a coloro che un giorno si confronteranno con la loro

esperienza.

L’Odin Teatret è ancora oggi attivo con una serie di attività culturali differenziate e con lo

spettacolo La vita cronica (2011), dedicato alle due giornaliste russe Anna Politkovskaja e Natalia

Estemirova, uccise per la loro opposizione al conflitto ceceno. Ambientato in uno scenario

apocalittico e futuribile, il 2032 di un paese senza confini eppure memore dei conflitti civili che

hanno segnato la storia europea, La vita cronica apre uno spiraglio alla speranza di un mondo

diverso e la affida alle generazioni future, qui rappresentate dal ragazzo colombiano per il quale

l’unica via per la salvezza sarà l’ignoranza, un’ignoranza consapevole che è rifiuto e inadempienza

207 BARBA, Eugenio (a cura di), Il Brecht dell’Odin, cit., p. 9.208 DE MARINIS, Marco, Il nuovo teatro 1947 – 1970, cit., p. 263.209 BARBA, Eugenio (a cura di), Il Brecht dell’Odin, cit., p. 10.210 BARBA, Eugenio, Teatro. Solitudine, mestiere, rivolta, cit., p. 61.211 Ibi, p. 60.

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Page 49:  · Web viewLe stesse problematiche, addirittura in forma più evidente, si presentarono in Germania, considerando che la progettazione di un teatro popolare viene svincolata dalla

alle norme che gli sono state insegnate. Sembra essere questa la speranza che Barba e il gruppo

consegnano al loro ultimo spettacolo:

La mia generazione ha cercato di rifiutare quello che gli sembrava ingiusto e sbagliato. Sono

sicuro che con altre parole, altri strumenti e cammini le generazioni future continueranno a

farlo. Se la vita è cronica, questa cronicità racchiude anche un’energia vitale che è speranza e

trasformazione e soprattutto rifiuto della cronicità212.

4. 3. L’avanguardia italiana tra innovazione e stabilità

Gli anni successivi alla seconda guerra mondiale furono carichi di cambiamenti anche per il teatro

italiano, che registrava un ritardo di oltre mezzo secolo rispetto agli altri Paesi europei in merito

all’avvento della regia e alla nascita dei primi teatri stabili. La generazione di intellettuali e artisti

del secondo dopoguerra si fece portavoce di una cultura diversa, radicata nella coscienza delle

responsabilità etico-politiche delle arti, in un Paese da sempre deficitario in materia di legislazione

teatrale, per un atteggiamento di cronica indifferenza determinata da «una concezione della scena

per cui lo spettacolo appartiene alla sfera cosiddetta voluttuaria, regolata dai meccanismi del

mercato»213, la cui unica eccezione fu la gestione pubblica assunta in periodo fascista, palesemente

autoritaria e strumentale all’organizzazione del consenso.

L’avvento del teatro pubblico riabilitò la funzione aggregante del teatro, come luogo di

convocazione dell’intera comunità:

Ragioni culturali ma soprattutto ragioni economiche tengono lontano il popolo dal teatro,

mentre il teatro, per la sua intrinseca sostanza, è fra le arti la più idonea a parlare direttamente al

cuore e alla sensibilità della collettività, mentre il teatro è il miglior strumento di elevazione

spirituale e di educazione culturale a disposizione della società. Noi vorremmo che autorità e

giunte comunali, partiti e artisti, si formassero questa precisa coscienza del teatro,

considerandolo come una necessità collettiva, come un bisogno dei cittadini, come un «pubblico

servizio», alla stregua della metropolitana e dei vigili del fuoco, e che per questo preziosissimo

«pubblico servizio» nato per la collettività, la collettività attuasse quei provvedimenti atti a

212 BANDETTINI, Anna, Eugenio Barba e l’Odin: “Contro gli orrori c’è sempre la speranza”, intervista a Eugenio Barba del 04/10/2011, in http://bandettini.blogautore.repubblica.it/2011/10/04/eugenio-barba-e-lodin-contro-gli-orrori-ce-sempre-la-speranza/. 213 DALLA PALMA, Sisto, La scena dei mutamenti, Vita e Pensiero, Milano, 2001, p. 178.

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Page 50:  · Web viewLe stesse problematiche, addirittura in forma più evidente, si presentarono in Germania, considerando che la progettazione di un teatro popolare viene svincolata dalla

strappare il teatro all’attuale disagio economico e al presente monopolio di un pubblico ristretto,

ridonandolo alla sua vera antica essenza e alle sue larghe funzioni214.

Il primo Teatro Stabile italiano, il Piccolo Teatro di Milano (1947), seguito da quelli di Genova

(1951) e Torino (1955), si propose come «teatro d’arte per tutti»215, con l’obiettivo di individuare il

suo pubblico «tra i lavoratori e tra i giovani, nelle officine, negli uffici, nelle scuole, offrendo

comunque spettacoli di alto livello artistico a prezzi quanto più è possibile ridotti»216. Nel contesto

socio-culturale italiano, dilaniato dai recenti conflitti bellici, il teatro si proponeva come possibilità

di ricostruire l’identità nazionale, attraverso un collegamento permanente con il territorio e le

istanze di cambiamento della collettività, superando definitivamente il fenomeno del divismo

attoriale e i modelli organizzativi legati alle compagnie di giro e all’impresariato privato.

Il progetto originario, carico di propositi culturali e artistici innovativi, venne ben presto

compromesso dalle interferenze partitiche, che influirono sulla nomina di rappresentanti organici

alla strategia complessiva adottata dallo schieramento politico dominante, e da una gestione poco

avveduta delle risorse, perlopiù utilizzate per mantenere in vita strutture burocratico-amministrative

decisamente sovradimensionate, a scapito dell’efficienza e della qualità dell’operato217. Si

ripresentarono così abitudini e condotte organizzative del passato, inadeguate rispetto alle nuove

esigenze, anticipando la sistematicità della pratica delle assunzioni clientelari e la tendenza

all’elefantiasi burocratica che ancora oggi affliggono buona parte del settore pubblico italiano, a

livello trasversale.

Tra gli anni Cinquanta e Sessanta, alcune personalità isolate e note come Carmelo Bene, Leo De

Berardinis, Perla Peragallo e Mario Ricci, ma anche Giuliano Scabia e Carlo Quartucci, avviarono

un processo di rinnovamento dei linguaggi e delle modalità comunicative della scena italiana,

affermando la centralità del ruolo dell’attore e del linguaggio fisico-corporeo, iniziando le prime

sperimentazioni drammaturgiche significative sull’uso della musica e dello spazio, scardinando

l’egemonia del testo drammatico. Il teatro di ricerca italiano, tuttavia, subì un’accelerazione vistosa

sul finire degli anni Sessanta, denunciando l’insoddisfazione di un sistema teatrale sempre più

aderente all’ordine costituito e attestato su posizioni di arretratezza rispetto al panorama artistico

214 GRASSI, Paolo, Gestione municipale per la vita del teatro, in «Sipario», n. 1, maggio 1946, p. 39, citato in ALONGE, Roberto, MALARA, Francesca, Il teatro italiano di tradizione, in ALONGE, Roberto, DAVICO BONINO, Guido (diretta da), Storia del teatro moderno e contemporaneo. Avanguardie e utopie del teatro. Dall’Espressionismo alla sperimentazione, cit., pp. 641-642.215 STREHLER, Giorgio, Per un teatro umano. Pensieri scritti, parlati e attuati, Feltrinelli, Milano, 1974, p. 36, citato in GENTILE, Francesca, Dal teatro di gruppo alle residenze teatrali. Società, comunità, territorio in Piemonte , in «Comunicazioni Sociali», XXIX (2007), p. 390.216 Ibidem.217 Cfr. DALLA PALMA, Sisto, La scena dei mutamenti, cit., pp. 191-193 e ALONGE, Roberto, MALARA, Francesca, Il teatro italiano di tradizione, cit., pp. 675-676.

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Page 51:  · Web viewLe stesse problematiche, addirittura in forma più evidente, si presentarono in Germania, considerando che la progettazione di un teatro popolare viene svincolata dalla

internazionale. Esso fu sollecitato dall’esempio dei gruppi dell’avanguardia teatrale internazionale,

ma soprattutto dagli eventi storico-politici nazionali che, nel giro di un decennio, modificarono il

volto della società italiana: la contestazione studentesca del 1968 e le lotte operaie del 1969, l’inizio

della “strategia della tensione” e la formazione della sinistra extraparlamentare, se da una parte

contribuirono notevolmente a esasperare le posizioni e i contrasti, dall’altra smascherarono le

strumentalizzazioni del discorso culturale e politico elaborato dai centri di iniziativa partitica218.

Il manifesto programmatico del “Convegno per un Nuovo Teatro”, tenutosi a Ivrea dal 9 al 12

giugno del 1967, per la prima volta unì numerosi teatranti, artisti e critici ‘non allineati’ nella

comune dichiarazione della necessità di un rinnovamento non solo estetico, ma anche produttivo del

teatro italiano. Nel contesto di una «situazione di progressiva involuzione, estesa a molti settore-

chiave del paese»219, i firmatari di Per un convegno sul nuovo teatro220 denunciarono

«l’inaridimento della vita teatrale»221 nonché

l’invecchiamento e il mancato adeguamento delle strutture; la crescente ingerenza della

burocrazia politica e amministrativa nei teatri pubblici; il monopolio dei gruppi di potere; la

sordità di fronte al più significativo repertorio internazionale; la complice disattenzione nella

quale sono state spente le iniziative sperimentali a cui si è tentato di dare vita nel corso di questi

anni222.

La politica culturale in materia teatrale aveva compromesso fortemente il rinnovamento della

drammaturgia, delle tecniche di recitazione e della regia, isolando il teatro italiano dai fermenti

creativi degli altri settori artistici. In questo stesso scritto, le persone coinvolte marcarono più volte

l’estraneità alle esperienze del teatro e della politica ufficiali, ma anche le differenze ideologiche e

artistiche tra le une e le altre:

noi non ci proponiamo come gruppo almeno nel senso in cui questa parola ha caratterizzato

passate esperienze della vita letteraria e teatrale. Al di sopra di ogni diversità pensiamo però di

poter individuare una sufficiente forza di coesione nel trovarci comunque di fronte a problemi di

218 Cfr. DE MARINIS, Marco, Il nuovo teatro 1947 – 1970, cit., p. 174 e DALLA PALMA, Sisto, La scena dei mutamenti, cit., p. 194.219 DE MARINIS, Marco, Il nuovo teatro 1947 – 1970, cit., p. 169. Il testo fu pubblicato originariamente in «Sipario», 20 (1966), 247, pp. 2-3, oggi rintracciabile anche su http://www.trax.it/olivieropdp/mostranew.asp?num=108&ord=6220 Corrado Augias, Giuseppe Bartolucci, Marco Bellocchio, Carmelo Bene, Cathy Berberian, Sylvano Bussotti, Antonio Calenda e Virginio Gazzolo, Ettore Capriolo, Liliana Cavani, Leo De Berardinis, Massimo De Vita e Nuccio Ambrosino, Edoardo Fadini, Roberto Guicciardini, Roberto Lerici, Sergio Liberovici, Emanuele Luzzati, Franco Nonnis, Franco Quadri, Carlo Quartucci e il Teatrogruppo, Luca Ronconi, Giuliano Scabia, Aldo Trionfo. GALLINA, Mimma (a cura di), Organizzare teatro: produzione, distribuzione, gestione nel sistema italiano, FrancoAngeli, Milano, 2003.221 DE MARINIS, Marco, Il nuovo teatro 1947 – 1970, cit., p. 169.222 Ibidem.

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Page 52:  · Web viewLe stesse problematiche, addirittura in forma più evidente, si presentarono in Germania, considerando che la progettazione di un teatro popolare viene svincolata dalla

lavoro fondamentalmente analoghi. L’attività finora svolta da ciascuno di noi può costituire

perciò la base di un comune lavoro che si proponga come fine di suscitare, raccogliere,

valorizzare, difendere nuove forze e tendenze del teatro223.

L’unione di personalità così differenti, osserva De Marinis, assunse un carattere strettamente

funzionale, legato alla costituzione di un fronte comune contro i valori promossi dalla cultura

dominante, senza portare alla formazione di un movimento collettivo, con poetiche e pratiche

condivise, che avrebbe potuto sintetizzare le temperie sociali e costituirsi come alternativa reale allo

strapotere del sistema teatrale centrato sugli Stabili224. Questo, piuttosto, reagì attraverso una

doppia, ambigua strategia, che accoglieva le istanze innovatrici ma epurandole della loro carica

eversiva, omologandole alle logiche che queste stesse intendevano superare; un processo di

legittimazione che implicava una normalizzazione coatta, cui la maggior parte dei gruppi non poté

sottrarsi per assicurasi visibilità e riconoscimenti, o anche solo la mera sopravvivenza225.

Agli albori degli anni Settanta, la spaccatura insanabile del teatro italiano si registra anche negli

itinerari di artisti affermatisi nel decennio precedente, divergenti sia dalle proposte ufficiali sia dalla

scena d’avanguardia; tra questi, Carmelo Bene, che dopo l’allestimento di Don Chisciotte (1968) si

dedicò ad alcune produzioni filmiche, fino al 1972; Luca Ronconi, che dopo il successo dello

spettacolo-festa Orlando furioso (1969) volse la sua attenzione all’estero, a fronte dell’ostracismo

delle istituzioni nazionali; Leo De Berardinis e Perla Peragallo, che abbandonarono polemicamente

le ‘cantine romane’226 e dopo lo spettacolo Il bagno (1971), si dedicarono alla sperimentazione

cinematografica per poi soggiornare a Marigliano (NA) fino al 1975, cercando il senso della loro

identità controcorrente a contatto con il sottoproletariato del luogo227. Le nuove formazioni teatrali,

d’altra parte, erano orientate alla sperimentazione di linguaggi e modelli organizzativi alternativi,

dilatando l’evento teatrale fino a comprendere il processo creativo e i tentativi di instaurare rapporti

profondi e permanenti con un pubblico sempre più ampio e differenziato.

Se il convegno d’Ivrea rappresentò una «codificazione tardiva»228 delle nuove istanze della

sperimentazione, addirittura un’occasione sprecata per un incontro pacificatore tra teatro di 223 Ibi, p. 170.224 Cfr. DE MARINIS, Marco, Il nuovo teatro 1947 – 1970, cit., pp. 171-180.225 Cfr. DALLA PALMA, Sisto, La scena dei mutamenti, cit., p. 196.226 Nate dalla necessità di rinvenire spazi di ricerca alternativi per sperimentare forme di teatro-laboratorio, dalla fine degli anni Sessanta le esperienze riunite sotto l’espressione ‘teatro di cantina’ si connotarono per il loro implicito significato politico, creando una struttura a gestione collettiva, sia sul piano artistico sia su quello economico, con la collaborazione di tutti i membri all’elaborazione creativa e alla ripartizione degli utili. Cfr. SINISI, Silvana, Neoavanguardia e postavanguardia in Italia, in ALONGE, Roberto, DAVICO BONINO, Guido (diretta da), Storia del teatro moderno e contemporaneo. Avanguardie e utopie del teatro. Dall’Espressionismo alla sperimentazione , cit., pp. 712-713.227 Cfr. DE MARINIS, Marco, Il nuovo teatro 1947 – 1970, cit., pp. 177, 253. Per ulteriori approfondimenti, v. QUADRI, Franco, L’avanguardia teatrale in Italia. Materiali (1960-1975), Einaudi, Torino, 1977.228 QUADRI, Franco, L’avanguardia teatrale in Italia, cit., p. 9.

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Page 53:  · Web viewLe stesse problematiche, addirittura in forma più evidente, si presentarono in Germania, considerando che la progettazione di un teatro popolare viene svincolata dalla

tradizione e nuovo teatro229, le dimissioni di alcuni dei direttori allora in carica nei teatri stabili

furono sintomatiche dei cambiamenti in atto nella scena italiana. Fu il caso, ad esempio, di

Gianfranco De Bosio, che nel 1968 lasciò lo stabile di Torino e gli succedette una direzione

collegiale che comprendeva anche Giuseppe Bartolucci, che aprì al teatro d’avanguardia, e Gian

Renzo Morteo, che avviò dei progetti di decentramento e animazione teatrale per i quali Torino si

distinse a livello nazionale. L’animazione teatrale riunì un fervido movimento di idee e di progetti

performativi principalmente diretti all’area marginale del teatro per bambini, con l’obiettivo di

estendersi all’intera popolazione e abolire ogni distinzione tra spettatori e attori. Il teatro arrivava

nelle scuole, nelle realtà del disagio e nelle aree marginali del sistema teatrale promuovendo la

partecipazione dell’individuo, permettendogli di sperimentare il teatro come strumento di

socializzazione della persona. In questa ottica, il teatrante è operatore culturale che cerca di farsi

interprete delle esigenze sociali attraverso un lavoro artistico e culturale ad ampio raggio, che

comprende la promozione culturale e il dialogo con le istituzioni, nel tentativo di trovare soluzioni o

nuove prospettive nel contesto di riferimento.

Fu così che a Torino, tra il 1969 e il 1970, Morteo affidò al gruppo di ricerca costituito da

Pierantonio Barbieri, Loredana Perissinotto e Giuliano Scabia, quest’ultimo in veste di responsabile

e coordinatore, un lavoro di animazione da svolgersi in quattro quartieri periferici della metropoli

(Mirafiori Sud, La Falchera, Le Vallette e Corso Taranto). Si trattò del primo grande esperimento

mai tentato in Italia di decentramento dal basso, che voleva rivitalizzare le aree urbane escluse da

ogni partecipazione attiva alla vita culturale; in particolare, il progetto si articolò nell’offerta di

spettacoli di cartellone e di spettacoli per le scuole medie inferiori, nella proiezione di film e nella

realizzazione di spettacoli con i bambini o gli abitanti dei vari quartieri, lavorando per quattro mesi

su una tematica da elaborare drammaturgicamente230. Nonostante le difficoltà materiali, legate alle

ristrettezze economiche e tempistiche a fronte di un progetto ricco ed esteso sul territorio, le Azioni

di decentramento erano riuscite a coinvolgere la popolazione in un appassionante lavoro collettivo,

in cui discutere, progettare, giocare e autorappresentarsi: «Il teatro non arrivava dall’alto e

dall’esterno, ma si collegava a una precisa situazione di lotta, esaltandola. […] La comunità

ricostituita […] prendeva posizione, muoveva accuse, rispondeva, interrogava, decideva azioni

politiche»231. La stretta connessione con le vicende socio-politiche che fecero di Torino, dove

nacque Lotta Continua, uno dei principali centri di resistenza e di insurrezione operaia, lasciavano

intendere la possibilità di costituire centri di discussione ed elaborazione collettiva permanente,

229 Cfr. MELDOLESI, Claudio, Fondamenti del teatro italiano. La generazione dei registi, Sansoni, Firenze, 1984, p. 548.230 GENTILE, Francesca, Dal teatro di gruppo alle residenze teatrali, cit., pp. 392-393.231 SCABIA, Giuliano, Verso l’inizio di un teatro organico, «Rinascita», 20 maggio 1970, p. 20, in GENTILE, Francesca, Dal teatro di gruppo alle residenze teatrali, cit., p. 393.

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Page 54:  · Web viewLe stesse problematiche, addirittura in forma più evidente, si presentarono in Germania, considerando che la progettazione di un teatro popolare viene svincolata dalla

pericolo che le istituzioni scongiurarono chiudendo rapidamente l’esperienza con l’allestimento

degli spettacoli.

In seguito, Scabia proseguì realizzando un grande ciclo di azioni a partecipazione, muovendosi in

tutta la penisola con il suo Teatro Viaggiante, per convogliare bisogni diffusi e latenti di

comunicazione in un processo creativo che si poneva già come spettacolo232. Il suo itinerario

artistico, condotto lontano dai circuiti ufficiali, si offre qui come esempio dell’impossibilità di

compiere un rinnovamento reale del teatro italiano all’interno delle istituzioni, che non seppero

supportare con mezzi concreti le nuove istanze di cambiamento. Una parabola che accomunava

indistintamente personalità eminenti ed affermate233 alle esperienze della cooperazione teatrale e dei

primi gruppi di base, seguendo la più generale diffusione di forme di azione collettiva che

contrastavano le gerarchie e i rapporti di potere della sinistra parlamentare234.

L’associazione cooperativa, basata sulla partecipazione paritetica di tutti i membri nelle decisioni

artistiche, organizzative ed economiche del lavoro, si presentò come una delle forme più idonee per

mantenere un rapporto stabile con il territorio, articolando le attività sulla base delle sue esigenze;

oltre agli esperimenti di De Berardinis e Peragallo, si menzionano la cooperativa fiorentina

Granteatro (1970), con la quale Carlo Cecchi realizzò l’allestimento del Woyzeck di Büchner (1973)

collaborando con un gruppo di immigrati calabresi, e il Camion di Carlo Quartucci, che girò nei

luoghi dell’emarginazione urbana per tentare una comunicazione immediata, senza formule

precostituite, con gli abitanti dei luoghi di sosta235. Queste realtà chiesero un riconoscimento del

loro operato come parte del servizio pubblico, in occasione del primo convegno nazionale della

cooperazione teatrale (La cooperazione teatrale: Teatro Pubblico, Territorio, Qualificazione,

Drammaturgia, Parma, 1975), non senza il rischio di un’assunzione in posizione subalterna

all’interno del sistema.

L’autonomia d’intervento sembrava essere praticabile solo dai gruppi di base, che come le

cooperative si rivolsero alle fasce sociali solitamente escluse dai processi di elaborazione culturale,

ma si distinsero come realtà autogestite ed eterogenee per le quali la forma laboratoriale, il teatro

d’animazione e il decentramento erano strumenti per avviare un’azione di lotta politica vera e

propria. «Alla partecipazione viene opposta l’autonomia e l’autodeterminazione, cioè una forma 232 Cfr. DE MARINIS, Marco, Il nuovo teatro 1947 – 1970, cit., pp. 251-253.233 Si ricordano almeno Dario Fo e Franca Rame, che nel 1970 abbandonarono la cooperativa Nuova Scena (1968) e i circuiti ARCI, tra le prime associazioni cultural-ricreative alternative, per le polemiche insorte dopo lo spettacolo L’operaio conosce trecento parole, il padrone mille. Per questo lui è il padrone (1969). Attestandosi su posizioni sempre più critiche nei confronti del riformismo e del verticismo del PCI, Fo e Rame fondarono il collettivo La Comune e realizzarono spettacoli di controinformazione sulle stragi di Stato (Morte accidentale di un anarchico, 1970; Pum, pum! Chi è? La polizia!, 1972); del 1974 è l’occupazione della Palazzina Liberty di Milano, che riadattarono come sede di lavoro inaugurata dallo spettacolo Non si paga, non si paga!. Cfr. DE MARINIS, Marco, Il nuovo teatro 1947 – 1970, cit., p. 245 e ALONGE, Roberto, MALARA, Francesca, Il teatro italiano di tradizione, cit., pp. 678-679.234 Cfr. GINSBORG, Paul, Storia d’Italia 1943-1996. Famiglia, società, Stato, Einaudi, Torino, 1998, p. 388 e ss.235 Per ulteriori approfondimenti, v. QUADRI, Franco, L’avanguardia teatrale in Italia. Materiali (1960-1975), cit.

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Page 55:  · Web viewLe stesse problematiche, addirittura in forma più evidente, si presentarono in Germania, considerando che la progettazione di un teatro popolare viene svincolata dalla

superiore di democrazia»236 con la quale dissociarsi dalla gestione dall’alto della partecipazione

culturale, operata delle organizzazioni partitiche di sinistra, avvicinandosi invece al movimento di

lotta237. Alla fine degli anni Settanta, infatti, la crisi del movimento di classe determinò la fine di

molte di queste formazioni, rivelando l’incapacità di creare forme di organizzazione sociale

svincolate dai modelli della politica tradizionale e l’ostracismo sotteso ai meccanismi di

appropriazione e legittimazione attuati dalle istituzioni.

Nel corso dei due decenni presi in esame, il teatro italiano si affiancò alle sperimentazioni europee,

testimoniando la profonda mutazione antropologica e culturale in atto nella società. Nello specifico

teatrale, gli itinerari tracciati dalle grandi e piccole realtà raccontano di una forza centripeta che

portò al superamento dei limiti della scena e della forma-teatro in quanto prodotto spettacolare

basato sulla finzione e sulla passività dei fruitori, quindi contestata come espressione della

spettacolarità omologante del sistema capitalistico. Gran parte delle proposte artistico-culturali

formulate nel Sessantotto, tuttavia, non ebbe un seguito, in parte perché, nella loro essenza, si

rivelarono «gesti di opportunismo, tentativi conformistici di “stare al passo con i tempi”, sussulti

piccolo-borghesi di cattiva coscienza»238, sia perché, anche quando nascevano dalla consapevolezza

del valore d’uso del teatro, come mezzo di conoscenza e di intercomunicazione atto a superare il

diaframma tra attori e spettatori, queste esperienze non furono adeguatamente supportate dalle

istituzioni né dagli organismi partitici della sinistra. Invece di fornire strumenti economici e

legislativi per salvaguardare l’indipendenza artistica, ideologica ed economica delle realtà

emergenti, il sistema reagì attraverso «la strategia dell’annessione e del boicottaggio»239, perlopiù

riducendo il decentramento alla distribuzione di spettacoli in periferia e l’animazione alle

produzioni di teatro-ragazzi degli Stabili; in questo senso, anche le cooperative e i circuiti teatrali

divennero semplicemente altre compagnie e altri circuiti di produzione240.

L’appello al potere trasgressivo e liberatorio dell’immaginazione, che fornì un radicamento

ideologico al rinnovamento linguistico e culturale degli ultimi anni Sessanta, riemerse

marginalmente nelle esperienze del Teatro Immagine, che dal 1973 si proposero di riscattare la

sconfitta subita sul piano politico nelle dimensioni dell’estetico e dell’espressione privata, aprendo

alle forme di spettacolarità diffusa degli anni Ottanta, nelle quali si assistette al ritorno della

scrittura drammaturgica e dell’interpretazione 241.

236 E la fame?, in «Scena», 1 (1976), 6, p. 6, citato in GENTILE, Francesca, Dal teatro di gruppo alle residenze teatrali, cit., p. 396.237 Cfr. GENTILE, Francesca, Dal teatro di gruppo alle residenze teatrali, cit., pp. 393-397.238 DE MARINIS, Marco, Il nuovo teatro 1947 – 1970, cit., p. 235.239 Ibi, cit., p. 179.240 Cfr. Ibi, cit., pp. 243-245.241 Per ulteriori approfondimenti, v. SINISI, Silvana, Neoavanguardia e postavanguardia in Italia, cit., pp. 717-736.

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Page 56:  · Web viewLe stesse problematiche, addirittura in forma più evidente, si presentarono in Germania, considerando che la progettazione di un teatro popolare viene svincolata dalla

D’altra parte, la situazione attuale non appare propizia al rilancio del teatro di ricerca. Esauriti i

motivi, anche ideologici, che avevano nutrito gli eroici furori degli sperimentali del recente

passato […] oggi si procede per iniziative individuali. Scomparse le cantine, si ripropone il

problema degli spazi e delle sovvenzioni necessari per sostenere un’attività di ricerca, mentre

l’apparente disponibilità offerta dalle istituzioni si risolve in una omologazione del già fatto, con

un’attenzione rivolta solo ai gruppi già collaudati. […] Un ciclo si è chiuso, anche se non si è

spenta l’esigenza della ricerca, ma è arduo prevedere se i fermenti, attualmente dispersi,

riusciranno a superare l’impasse attuale e ritrovare la necessaria spinta propulsiva per rilanciare

su nuovi obiettivi la spinta dell’avanguardia242.

5. Dal teatro politico alla politica teatrale. Alcune prospettive italiane dagli anni Ottanta

ad oggi

Gli studi riguardanti il teatro politico nella seconda metà del Novecento concordano

nell’individuarne l’apice negli anni Sessanta e la crisi definitiva dagli anni Settanta in poi. In

particolare, nel testo La teoria del teatro politico (1981), Claudio Vicentini traccia uno schema

diacronico che definisce il rapporto tra arte e politica tra gli anni Cinquanta e i Settanta: nel primo

decennio dominava un atteggiamento diffidente nei confronti dell’impegno politico-ideologico

dell’artista, complice la concomitante situazione della guerra fredda, nella quale questo rapporto si

definì sotto il segno del divieto; la situazione si capovolse negli anni Sessanta, quando una parte

della sperimentazione artistica e teatrale affrontò la costruzione della propria attività come

strumento efficace di lotta politica; la nuova sistemazione, infine, cedette negli anni Settanta, perché

la teoria non riuscì a fornire indicazioni essenziali né a risolvere le contraddizioni interne agli

sviluppi delle recenti vicende artistiche, riconfigurando le relazioni tra teatro e politica nell’ambito

della possibilità e, di fatto, lasciando cadere la questione nell’oblio243.

L’assenza di modelli strutturati di teatro politico evidenziò il progressivo sgretolamento della

categoria Teatro Politico, inteso come genere codificato, che si rivelò una riduzione storiografica

atta a semplificare in uno sviluppo lineare vicende differenti, spesso oscurando la ricchezza delle

elaborazioni teatral-politiche della scena non istituzionale in nome della notorietà di altre esperienze

artistiche. «Di fatto, il Teatro Politico ha emarginato un esistere politico del teatro dai molteplici

aspetti e dalle problematiche e dalle valenze assai differenziate»244, a partire dalle prime

manifestazioni degli anni Venti e Trenta, come la rivista politica, il cabaret e le formazioni agit-

242 Ibi, pp. 735-736.243 Cfr. VICENTINI, Claudio, La teoria del teatro politico, cit., pp. 1-44.244 CRUCIANI, Fabrizio, Registi pedagoghi e comunità teatrali nel Novecento (e scritti inediti), cit., p. 151.

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Page 57:  · Web viewLe stesse problematiche, addirittura in forma più evidente, si presentarono in Germania, considerando che la progettazione di un teatro popolare viene svincolata dalla

prop, finendo per semplificare anche lo spessore delle proposte degli autori che per primi videro nel

teatro un momento centrale della lotta politica.

Il fallimento della concezione di un teatro politico come genere codificato, piuttosto, sembra essere

confermato da uno sguardo complessivo sulle esperienze del “Novecento teatrale”245, che

riscattarono e riconfermarono il primato delle forme espressive sui significati, e prima ancora delle

modalità di produzione e di comunicazione sulla forma. La lezione che le avanguardie del primo e

del secondo Novecento consegnano alla storia del teatro è la necessità di colpire innanzi tutto i sensi

dello spettatore, attraverso una drammaturgia scenica complessiva che esalti il linguaggio fisico-

corporeo e la relazione tra attore e spettatore, per coinvolgerlo e suscitare idee e riflessioni,

dichiarando così l’inefficacia e la prevedibilità del teatro ideologico, che propone-impone idee

perché ossessionato dalla trasmissione di un messaggio. Una consapevolezza, questa, approfondita

negli scritti e nella pratica dei maggiori pionieri del teatro politico, da Ejzenstejn a Mejerchol’d a

Brecht246.

Al dissolvimento del Teatro Politico corrispose semmai una disseminazione delle esperienze teatrali

con caratterizzazione politica, di cui i gruppi trattati precedentemente costituiscono solo degli

esempi. I gruppi affermatisi tra gli anni Sessanta e Settanta hanno dimostrato, consapevolmente o

loro malgrado, con un lavoro costante o l’estemporanea comparsa sulle scene, che per agire in

modo rivoluzionario sull’uomo e sulla società era necessario operare una rivoluzione del teatro; la

soluzione fu individuata nella trasformazione radicale dei suoi modi di produzione, tesi

all’emancipazione del mestiere teatrale, spesso attraverso la scelta di modelli di vita comunitaria

indipendenti ma non estranei al mercato, e delle sue modalità di comunicazione, rivitalizzando il

rapporto attore-spettatore per promuoverne la partecipazione concreta.

Aldilà della discontinuità dei risultati, il nuovo teatro degli anni Settanta, in Italia e non solo, fu

quello promosso da coloro che negarono il teatro e le sue istituzioni per riversarsi nelle strade e

nelle piazze, nelle scuole e negli ospedali, nei quartieri e nei sobborghi delle grandi città, ritrovando

il senso della propria attività attraverso l’incontro con i non-pubblici e le istanze di cambiamento

della vita sociale247. Con la «fine del teatro come grande discorso, con le sue intenzionalità epiche

ed etiche»248, in stretta connessione con il conclamato cedimento dei grandi schemi ideologici di

natura politica e metafisica, l’efficacia politica dei gruppi sembrava accentuarsi quanto più questi si

245 Cfr. DE MARINIS, Marco, In cerca dell’attore, cit., pp. 9-13.246 Cfr. DE MARINIS, Marco, Che cos’è un teatro di idee? Alcuni insegnamenti dal Novecento teatrale su teatro e politica, testo inedito di una relazione per un convegno tenutosi a Forlì nell’ottobre 2003, in http://www.alleo.it/files/docs/review/POLITICA6_teatro_DEMARINIS.pdf.247 DE MARINIS, Marco, Il nuovo teatro 1947 – 1970, cit., p. 180.248 DALLA PALMA, Sisto, La scena dei mutamenti, cit., p. 194.

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Page 58:  · Web viewLe stesse problematiche, addirittura in forma più evidente, si presentarono in Germania, considerando che la progettazione di un teatro popolare viene svincolata dalla

discostavano dalla dimensione pubblica, caratterizzandosi solo ed esclusivamente per la loro

attività, come realtà apolitiche o upolitiche249.

Se per i gruppi di questo periodo era ancora possibile condividere «una mitologia planetaria della

liberazione dall’egemonia culturale occidentale»250, la generazione teatrale degli anni Ottanta

recuperò la possibilità di definirsi anche in senso politico, ma distanziandosi dalla concezione

estetica e lavorativa dei predecessori. Tra i gruppi che si distinsero maggiormente per aver riflettuto

sulla loro posizione di soggetti culturali, il Teatro del Lemming, in occasione di un convegno

tenutosi a Cracovia nel 1999, citò ad esempio la Socìetas Raffaello Sanzio, che dallo spettacolo

Santa Sofia. Teatro Khmer (1985), manifesto per un teatro iconoclasta, avanzarono la loro guerra a

ogni valore e immagine fittizia della realtà, per aderire a un “irreale anti-cosmico”, una “surrealtà”

nella quale sperimentare «il disagio e il disprezzo per la realtà circostante»251: «Questo è il teatro

politico: consigli pratici di come evitare chi ci vuole morti»252.

L’attività teatrale si poneva allora come intervento culturale in conflitto con il contesto dominante,

quasi una forma di resistenza praticata attraverso lo specifico del proprio lavoro, costruendo

un’identità da leggersi in termini di irriducibile alterità. Così nelle dichiarazioni dei fondatori del

ravennate Teatro delle Albe, Marco Martinelli ed Ermanna Montanari, che dalla metà degli anni

Ottanta intrapresero una ricerca sulla contaminazione-integrazione tra culture diverse, lavorando

con degli immigrati senegalesi; l’intento non era rappresentare la loro condizione di immigrati, ma

al contrario, raccontare la realtà italiana attraverso le loro tradizioni performative. A partire dallo

spettacolo Confine (1986), le Albe commentarono il proprio progetto come una forma originale di

teatro politico, o meglio, “politttttttico”.

Perché con sette t? Vi diamo sette possibili risposte. 1. Il polittico è un oggetto sacro suddiviso

architettonicamente in più pannelli, destinato all'altare di un tempio. L'etimologia del termine è

illuminante: "dalle molte piegature". E questo è il polittico con due t, pensate con sette! Ancora

più esaltate sono le innumerevoli piegature del reale, non di ideologie i fervidi abbisognano, ma

di un pensiero forte, complesso, polittttttico. […] 5. È sapere che non possiamo cambiare il

mondo (leggi rivoluzione), ma qualcosa di noi, di qualcun’altro, dispersi su un piccolo pianeta

che ruota attorno a un sole di periferia in una galassia tra le tante, arrestare una lacrima, curare

249 Cfr. DE MARINIS, Che cos’è un teatro di idee?, cit.250 TEATRO DEL LEMMING, L’invenzione del presente. Il senso del riferimento politico in alcune realtà italiane degli anni Ottanta e Novanta, testo inedito, tradotto e letto in un convegno sul teatro politico a Cracovia, nel marzo 1999, in http://www-static.cc.univaq.it/culturateatrale/materiali/Guarino/lemming/cracovia.pdf. 251 Ibi.252 Dal programma di sala dello spettacolo Santa Sofia. Teatro Khmer, citato in Ibi. Per ulteriori approfondimenti sulle prime produzioni della Socìetas Raffaello Sanzio, v. CASTELLUCCI, Romeo, GUIDI, Chiara, CASTELLUCCI, Claudia, Epopea della polvere. Il teatro della Societas Raffaello Sanzio 1992-1999: Amleto, Masoch, Orestea, Giulio Cesare, Genesi, Ubulibri, Milano, 2001.

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Page 59:  · Web viewLe stesse problematiche, addirittura in forma più evidente, si presentarono in Germania, considerando che la progettazione di un teatro popolare viene svincolata dalla

qualche ferita, sopravvivere, essere odiosi a qualcuno, saper dire di no, piantare il melo anche se

domani scoppiano le bombe, perdersi in un quadro di Schiele, aver cura degli amici, scrivere

certe lettere anziché altre (leggi rivoluzione)253.

Nel 1988, anno in cui la compagnia realizzò gli spettacoli Radio Ravenna Africana e Ruh. Romagna

più Africa uguale e si arricchì della presenza di alcuni griots senegalesi, trasformandosi in

compagnia afro-romagnola, Martinelli chiarì ulteriormente questa presa di posizione:

Teatro politttttttico non significa persuadere e convincere. Qui, cari spettatori, non c’è nessuna

ideologia da sbandierare, qui c’è un pensiero forte e complesso che non accetta l’omologazione

ai tempi e ai motivi del consumo fast-food, e dentro a questo rifiuto inventa un linguaggio

scenico, s’incarna polittttttticamente. Bisogna essere profondamente consapevoli che il fine

profondo del teatro politttttttico non è convincere la gente a non mangiare carne o non tagliare

alberi, non è comiziare, è mantenere la propria alterità rispetto a un meccanismo strizzacervelli

e abbrutente, è mantenere accesa in noi la fiamma perché il torpore generalizzato non la

soffochi254.

Negli anni Novanta, la scena italiana andò perdendo l’enfasi ideologica che emerse dalle

dichiarazioni di poetica dei gruppi del decennio precedente, testimoniando più in generale il

passaggio definitivo a forme di associazionismo specifico ma non ideologico della società italiana

contemporanea255.

Contro ogni previsione, negli ultimi anni in Italia sono state numerose le proposte teatrali che hanno

focalizzato l’attenzione su tematiche civili e le iniziative nate in contesti dislocati dalla scena

istituzionale che attraverso linguaggi, necessità e intenti differenti, cercano di rapportarsi al contesto

di riferimento con «un gesto politico che assume una forma teatrale»256. In altri termini, si può

parlare della ricerca di un impegno politico scevro da ogni indebita valorizzazione ideologica e

ricondotto alle problematiche attuali, un atteggiamento altrove definito “impolitico”, che è altro dal

pensiero apolitico:

253 Intervento di Ermanna Montanari a Narni, 1987, citato in GUCCINI, Gerardo, Il pellegrinaggio continua. Conversazione con Marco Martinelli, in «Prove di Drammaturgia», IV (dicembre 1998), n. 2, p. 15. Per ulteriori approfondimenti, v. MARTINELLI, Marco, Ravenna africana. Il teatro politttttttico delle Albe, Essegi, Ravenna, 1988.254 Citato in http://www-static.cc.univaq.it/culturateatrale/materiali/Guarino/lemming/cracovia.pdf.255 Ibidem.256 PONTE DI PINO, Oliviero, Per un teatro politico?, in http://www.trax.it/olivieropdp/politico.htm.

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Page 60:  · Web viewLe stesse problematiche, addirittura in forma più evidente, si presentarono in Germania, considerando che la progettazione di un teatro popolare viene svincolata dalla

semmai, esprime un eccesso, un’intensificazione, una radicalizzazione […] dell’impegno

politico. […] Esso è – potremmo dire – il politico stesso guardato dal suo confine esterno – o

interno: da quel margine sottilissimo che lo taglia decostruendone ogni progetto filosofico, o

teologico, di compimento257.

In questa ottica, il teatro può offrire l’occasione per una riflessione storica depurata da ogni filtro

ideologico, colmando un vuoto di memoria lasciato dalle scuole e dai mezzi di informazione, per

meglio comprendere fatti e vicende del passato lontano o recente o della cronaca attuale. Si

evidenziano in questo senso le esperienze della prima generazione di attori del teatro di narrazione,

che ibridano questo genere con le forme del teatro civile; tra questi, Marco Baliani e Ascanio

Celestini, nei cui spettacoli riemergono storie del tessuto sociale italiano e riferimenti

all’immaginario popolare attraverso le forme della fiaba e dell’aneddotica, ma soprattutto Marco

Paolini, che dal noto Racconto del Vajont (1995) al recente Ausmerzen. Vite indegne di essere

vissute (2011), entrambi trasmessi in diretta televisiva riscontrando grandissimi ascolti, crea

narrazioni al servizio del teatro d’inchiesta, spesso sconfinando in una forma saggistico-

documentaristica che tenta di far parlare unicamente i fatti, quando evidentemente lo spettacolo non

può essere che un surrogato dell’esperienza258.

Un altro genere nel quale ipotizzare la rinascita del teatro politico contemporaneo è il teatro degli

attori comici, di cui sono rappresentativi Beppe Grillo, Daniele Luttazzi, Paolo Rossi e Sabina

Guzzanti, che, usando l’arma del ridicolo e della satira per stigmatizzare personaggi politici noti,

sembrano dover affrontare inevitabilmente il problema della collisione tra efficacia artistica e

politica del loro lavoro:

Quanto più il suo avversario è potente e individuabile […], tanto più la sua satira avrà successo

presso il pubblico. Dunque la condizione del suo successo artistico e di pubblico è il successo

politico dei suoi avversari. Viceversa, il risultato del suo successo politico è la sua estinzione259.

Accanto alla scena professionistica, si è sviluppata un’altra scena, perlopiù non istituzionale,

caratterizzata da gruppi di lavoro che rappresentano realtà interne a una più vasta comunità e ne

assorbono le istanze e le problematiche, le tradizioni e la cultura materiale. L’aumento vertiginoso

257 ESPOSITO, Roberto, Introduzione. Termini della politica, in ID. (a cura di), Oltre la politica. Antologia del pensiero “impolitico”, Bruno Mondadori, Milano, 1996, p. 9.258 PONTE DI PINO, Oliviero, Per un teatro politico?, in http://www.trax.it/olivieropdp/politico.htm. Per una panoramica generale sul teatro di narrazione e sul teatro civile, v. almeno GUCCINI, Gerardo, La bottega dei narratori. Storie, laboratori e metodi di Marco Baliani, Ascanio Celestini, Laura Curino, Marco Paolini, Gabriele Vacis , Dino Audino, Roma, 2005; BERNAZZA, Letizia, Frontiere di Teatro Civile, Roma, Editoria & Spettacolo, 2010.259 Ibidem.

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Page 61:  · Web viewLe stesse problematiche, addirittura in forma più evidente, si presentarono in Germania, considerando che la progettazione di un teatro popolare viene svincolata dalla

della domanda di teatro nei luoghi del disagio (ospedali, centri di assistenza, carceri, territori

devastati dalle guerre), nei luoghi pubblici dei paesi e delle grandi città, nelle scuole e nelle

università, testimonia le diverse sfaccettature che assumono il teatro sociale e la drammaturgia

comunitaria, che attraverso l’attività performativa si propongono di promuovere la costruzione della

persona e della comunità. Tra queste esperienze, una delle più note e durature è quella della

Compagnia della Fortezza, formata dai teatranti-carcerati del penitenziario di Volterra e diretta da

Armando Punzo, regista formatosi con un gruppo del Parateatro grotowskiano. Il lavoro che il

regista conduce dal 1989 nasce in stretta collaborazione con i carcerati, che al termine di lunghe fasi

laboratoriali portano in scena spettacoli il cui valore artistico è stato riconosciuto negli anni da

pubblico e critica italiani e internazionali260. Il rischio di molte esperienze teatrali nel sociale,

tuttavia, si rivela proprio nello spostamento di dinamiche culturali, organizzative e relazionali

tipiche del teatro commerciale, con l’obiettivo di ampliare il numero degli spettatori e di valorizzare

il solo momento spettacolare; la consistente dotazione di fondi per finanziare questi lavori, infatti,

attira anche artisti impreparati per questi ambiti che, privi di prospettiva progettuale, dimenticano il

fine umanitario del teatro sociale, la formazione e l’emancipazione della persona, con il passaggio

nella vita quotidiana di ciò che costruttivo è emerso261.

Nell’attuale panorama italiano, ricchissimo e diversificato per configurazioni artistiche e

organizzative, le esperienze teatrali si distinguono per i modi di comunicazione e di interazione con

il pubblico e con l’ambiente esterno (non solo teatrale), per i contesti e i luoghi nei quali si situano,

per i pubblici ai quali si rivolgono – in sintesi, per la loro politica culturale. Attraverso queste scelte,

il teatro costruisce la propria specifica identità, tanto più forte ed efficace quanto più si dimostra in

grado di interagire con l’ambiente esterno, o anche solo con un suo segmento marginale. Se la

diffusione pervasiva dei nuovi media non dà modo di pensare a un’azione artistica e politica di

risonanza planetaria, il teatro probabilmente può riaffermare l’efficacia del proprio impegno

culturale restringendo il campo d’azione a problematiche specifiche, che riportano il gruppo e la

comunità nell’orizzonte della polis262.

260 Per ulteriori approfondimenti, v. il sito www.compagniadellafortezza.org. Per una visione generale del teatro in carcere in Italia, v. MELDOLESI, Claudio, Immaginazione contro emarginazione. L’esperienza italiana del teatro in carcere, in «Teatro e Storia», XVI (1994), pp. 41-68.261 Cfr. BERNARDI, Claudio, Far fuori il teatro, in «Comunicazioni Sociali», XXIII (2001), pp. 229-233. Per ulteriori approfondimenti sul teatro sociale, v. ID., Il teatro sociale. L’arte tra disagio e cura, Carocci, Roma, 2004; i volumi di Teatro della rivista quadrimestrale «Comunicazioni Sociali», diretta da Gianfranco Bettetini; la rivista trimestrale «Teatri della diversità», diretta da Emilio Pozzi e Vito Minoia.262 Cfr. PONTE DI PINO, Oliviero, Per un teatro politico?, cit.

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CAPITOLO 2 – SIMONE CAPULA. FORMAZIONE E FORMAZIONI

1. Formazione in itinere. L’apprendistato tra Apdav e Teatro Tribù

Simone Capula nasce a Chivasso (TO) nel 1964, studia presso la Scuola Civica di Musica di Torino

e si avvicina al teatro all’età di diciassette anni, unendosi al collettivo artistico-culturale interno

all’Istituto magistrale Regina Margherita di Torino.

Ho iniziato all’istituto magistrale perché mi ero innamorato di una ragazza… non me ne

importava niente del teatro, proprio niente niente! Seguivo molto il cinema, ascoltavo musica…

Durante un’occupazione, c’era un Collettivo Teatrale – si chiamava così – e cercammo di

mettere in scena un testo di Kafka, Il custode della cripta263.

Dalle prime esperienze di animazione teatrale nelle scuole, condotte con un gruppo di ‘teatro

ragazzi’ di Aosta, Capula si unì all’associazione culturale semiprofessionistica del suo paese

d’origine, Apdav (Associazione produzione e diffusione delle arti visive), nella quale si cimentò per

la prima volta nell’attività registica. Segni di terra (1987), frammento della produzione collettiva

Punti di vista, risente profondamente delle suggestioni degli spettacoli di Teatro Settimo, di cui

allora Capula seguiva spesso le prove. In particolare, Elementi di struttura del sentimento (1985)264,

nel quale musiche, luci e azione scenica concorrono a costruire una ‘scenofonia’265 intorno a Le

affinità elettive di Goethe, è lo spettacolo di riferimento della sua prima regia.

La mia regia era il punto di partenza; erano scene dalla Vita di Alfieri, io volevo fare più che

altro uno spettacolo che parlasse di viaggio e rivoluzione; inoltre volevo che il protagonista

fosse un personaggio piemontese. […] Era molto, molto visivo e risentiva molto dell’influenza

del Teatro Settimo. […] Allora Teatro Settimo iniziava questo lavoro profondo sulla musica,

creando questi ambienti sonori, e quello mi interessava; un’altra cosa era una profonda ricerca

263 Seconda intervista a Simone Capula. Formazione e spettacoli da Apdav alla Scuola Ambulante di Teatro, 13-14 settembre 2011, Chivasso (TO), in Appendice 1.264 «Regia: Gabriele Vacis. Interpreti: Laura Curino, Adriana Zamboni, Mariella Fabbris, Cristina Torriti, Gabriella Bordin, Rosalba Legato. Suono e luci: Roberto Tarasco. Immagini e allestimenti: Lucio Diana. Produzione: F.I.A.T. Teatro Settimo». Elementi di struttura del sentimento, in http://www.cssudine.it/spettacoli_scheda.php/ID=657.265 Così Roberto Tarasco, tra i fondatori della cooperativa Laboratorio Teatro Settimo, sull’origine del termine ‘scenofonia’: «Ad un certo punto mi sono reso conto che quello che stavo facendo aveva come punto di partenza le musiche ma poi tracimava contaminando altri settori della messinscena. Serviva un termine nuovo che definisse meglio quel lavoro. Ho inventato il termine scenofonia nel 1989 […] per definire il mio tentativo di dare voce alla scena mettendo insieme musiche, oggetti, spazi e materia luminosa». SPAGNOLO, Remigia, SCENOFONIA ed EVOCAZIONI. Intervista a Roberto Tarasco del 22 aprile 2011 – Torino, inhttp://www.remigiaspagnolo.it/intervista5c.swf.

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Page 63:  · Web viewLe stesse problematiche, addirittura in forma più evidente, si presentarono in Germania, considerando che la progettazione di un teatro popolare viene svincolata dalla

sull’immagine, ad esempio con l’uso di diapositive. Perciò noi abbiamo creato una vera e

propria installazione artistica: un pavimento cosparso di sabbia, dove il proscenio era dato da

delle piccole luci e c’erano circa duecento bottigliette di vetro, che riflettevano tutta la luce;

sulle pareti, alle spalle degli spettatori, venivano proiettate delle piantine di città settecentesche.

[…] La scena verteva intorno al viaggio di Alfieri, visualizzato attraverso un ruotare, un ritmo

minimalista molto incalzante, fino ad arrivare al momento rivoluzionario dove Alfieri veniva

spogliato dei suoi vestiti di nobile. Molto plateale! Ma ero giovanissimo, avevo ventun’anni266.

Questo primo lavoro lascia emergere interessi originari e permanenti della ricerca teatrale del

regista: l’attenzione all’impatto visivo dello spazio scenico e l’utilizzo della musica come

imprescindibile elemento drammaturgico. È solo con l’incontro folgorante con l’Odin Teatret,

tuttavia, che Capula approda alla consapevolezza della centralità del corpo dell’attore, con la

partecipazione a un laboratorio pratico con Torgheir Wethal e la visione dello spettacolo Talabot267

(1988), nel 1991:

Talabot mi colpisce profondamente. Era uno spettacolo particolarmente bello, faceva convivere

la forma con il contenuto, cosa che io non avevo trovato ad esempio in Teatro Settimo, dove il

contenuto mi interessava ma non in modo così forte come per lo spettacolo dell’Odin: Talabot

era uno spettacolo denso dal punto di vista dei contenuti. […] Io allora non sapevo niente di

queste cose, per me l’Odin era completamente sconosciuto, avevo solo letto degli articoli su di

loro.

Quello spettacolo aveva innanzi tutto una disposizione del pubblico che ti rendeva partecipe

dello spettacolo. Io ne ricordo gli odori…mi colpì l’odore di pesce e di birra mescolati; mi

ricordo che gli attori recitavano alle spalle del pubblico; cantavano, suonavano, ballavano – lì

era un teatro totale. Io nella mia ingenuità avevo capito che aveva un qualcosa di più di quello

che avevo visto fino a quel punto268.

266 Seconda intervista a Simone Capula, cit.267 «[…] Nello spettacolo Talabot, l’Odin Teatret raccontò la storia di una donna vivente, un’antropologa in lotta contro i pregiudizi dell’Accademia che vede nel suo desiderio di maternità un ostacolo per una carriera scientifica: non si può fare della ricerca sul campo con quattro bambini. Lei si ostina, svolge i suoi compiti e le sue attività professionali in modo impeccabile ed ad alto livello, portandosi sempre dietro l’intera famiglia. Diventa internazionalmente conosciuta, riceve l’incarico di ‘super professore’ nella sua Università danese: per cinque anni può dedicarsi alla ricerca, senza preoccuparsi degli obblighi amministrativi, senza dover dare una lezione. Nello spettacolo, un momento solenne era la cerimonia del suo dottorato a Oxford, dove viene incoronata con una grande aureola, una lunga fettuccia avvolta intorno alla fronte. Diventava una ‘testa di uovo’ protetta da un grande nastro intarsiato con mille informazioni. Su questa fettuccia, veniva poggiato un cappello, simile a quello degli scolari ‘asini’, o a quello che le guardie rosse cinesi infilavano agli avversari del regime. Il momento che ogni intellettuale è ridicolizzato se vuole difendere i suoi valori.Improvvisamente questa fettuccia si srotolava quando la neo-dottoressa cercava di evadere dal mondo accademico che l’asfissiava. Correva in avanti, invano, perché gli altri professori la trattenevano per il nastro che era avvolto attorno alla sua testa e che si trasformava in briglie». BARBA, Eugenio, Discorso in occasione della laurea Honoris Causa, Università di Bologna (1998), inhttp://www.odinteatret.dk/media/40005/1998,%20Bologna%20Univ.%20%20Discurso%20Honoris%20Causa.pdf.268 Seconda intervista a Simone Capula, cit.

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Page 64:  · Web viewLe stesse problematiche, addirittura in forma più evidente, si presentarono in Germania, considerando che la progettazione di un teatro popolare viene svincolata dalla

Con una lettera scritta a mano, il giorno dopo lo spettacolo Capula contatta Eugenio Barba, che lo

invita a un incontro internazionale per giovani teatranti, una sessione di lavoro estiva nella sede di

Holstebro. Training quotidiano sulla scomposizione e il controllo di ogni parte del corpo, condotto

da Roberta Carreri; dimostrazioni-spettacolo curate da Eugenio Barba, nelle quali analizzare la

visione registica sottesa alla costruzione dello spettacolo; conferenze di registi e drammaturghi

esperti e spettacoli di repertorio del gruppo: in un mese di lavoro ininterrotto, Capula acquisisce

degli strumenti teatrali basilari, punto di partenza e di sviluppo ulteriore del suo percorso autonomo.

Ciò che più lo colpisce del soggiorno danese è il contesto di lavoro, inteso come condivisione di

esperienze di vita e di lavoro quotidiane:

Quando sono arrivato all’Odin, ho trovato subito un ambiente. Noi che arrivavamo là, ci

sentivamo subito coinvolti in una ‘situazione’, partecipi di un qualcosa […] nel teatro, almeno

in quella forma di teatro, io ho scoperto che potevi far parte di un ambiente. […] C’era una

promiscuità buona, si viveva tutti insieme, si condividevano delle esperienze…269

Tornato da Holstebro, Capula lascia Apdav, nella quale si acuiscono le divergenze con il fondatore,

Nino Ventura; con alcuni membri dell’associazione (Andrea Demarchi, Francesca Falletti, Jane

Marinoni e Paola Tella) realizza I° studio su ‘La Malora’ di Beppe Fenoglio (1991), prima

restituzione scenica dell’universo contadino e delle storie fenogliane, attraverso la sintesi delle

tecniche di narrazione apprese dalla compagnia di Vacis. Sgomberata la scena da ogni elemento

superfluo, i brevi monologhi si stagliano sullo sfondo di una parete bianca, rischiarata appena a

lume di candela, ricostruendo un ambiente intimo, scandito dai tempi della religiosità domestica. Da

questa lettura drammatica si svilupperà, un anno più tardi, uno spettacolo vero e proprio; quello che

ora interessa a Capula è sperimentare nuovi approcci al testo letterario e alla sua messinscena

attraverso il lavoro di una ‘mente collettiva’, con il contributo attivo di tutti i partecipanti. Per

questo motivo Capula organizza, con la collaborazione del professore Aldo Pasquero, un laboratorio

presso il liceo scientifico Isaac Newton di Chivasso, dove approfondire con altre persone le recenti

acquisizioni sul training odiniano. Nel gruppo di lavoro sono già presenti Alessandro Rigoletti e

Silvia Baudin, tra i pochi che, al termine di questa esperienza, accetteranno la proposta di costituire

un gruppo teatrale professionistico, esigenza imprescindibile per un riconoscimento all’interno del

fervido contesto culturale torinese, animato dal passaggio dei gruppi più noti della scena

sperimentale italiana, ma anche dominato dall’«egemonia del Teatro Stabile e del teatro ragazzi»270.

269 Ibidem.270 Ibidem.

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Page 65:  · Web viewLe stesse problematiche, addirittura in forma più evidente, si presentarono in Germania, considerando che la progettazione di un teatro popolare viene svincolata dalla

Il Teatro Tribù nasce nel 1992 sulle colline di Gassino Torinese (TO), in una cascina abbandonata

dove il gruppo conduce una vita comunitaria, segnata dall’assenza di semplici comodità (elettricità,

acqua) e da un allenamento fisico molto intenso, che riduce la formazione da dieci a otto elementi;

in seguito essa stabilisce la sua sede adattando il retro di una tipografia chivassese a sala teatrale,

diventando un punto di riferimento della “cultura alternativa” della provincia torinese271.

Inizialmente però la scelta di questo spazio naturale è legata alla ripresa dell’opera fenogliana, che

Capula ripropone insieme allo studio di Il partigiano Johnny e di alcuni racconti partigiani di

origine popolare, non letteraria. La definizione della storia, la stesura del testo e la creazione delle

azioni teatrali avvengono in contemporanea; in particolare, il lavoro preparatorio della prima

produzione del gruppo si concentra sulle improvvisazioni degli attori, che elaborano partiture

fisiche a partire da frammenti di testo scelti dal regista, secondo una prassi che andrà consolidandosi

nel metodo di lavoro di Capula; sulla base di queste azioni, si va a costituire, giorno dopo giorno,

una riscrittura drammaturgica a ridosso della scena, affidata a Aldo Pasquero. Frutto della

cooperazione creativa di tutti i componenti, fin dalla sua prima rappresentazione Volo di farfalle

(1992) non si presenta come una riduzione teatrale dei testi di riferimento, ma come una

«drammaturgia di stile fenogliano che ricrea(va) l’ambientazione contadina de La Malora anche dal

punto di vista sonoro, con le musiche di fisarmonica e i piemontismi del testo»272; l’obiettivo è

quello di recuperare e portare in scena la storia dell’antifascismo, perché, spiega il regista, «vedevo

pericolosissimo l’oblio in cui stavano cadendo all’epoca i valori fondanti della repubblica, i valori

della Resistenza»273.

Dopo alcune repliche nelle aie e nelle cascine della provincia torinese, Volo di farfalle trova la sua

forma compiuta grazie al lavoro condotto con Renzo Vescovi, fondatore e regista del Teatro

Tascabile di Bergamo, indicato a Capula dall’Odin Teatret:

Al TTB [Teatro Tascabile di Bergamo] mi presento con un doppio biglietto da visita: da una

parte ero stato dall’Odin; dall’altra, facendo un laboratorio in un liceo di Caluso (TO), scopro

che una persona, Corinna [Poggi], […] era una ex attrice del Tascabile, aveva partecipato ad

Amor Comenza274, ma poi non frequentò più Bergamo. Erano venti anni che non vedeva Renzo,

allora unisco l’utile al dilettevole: per farli incontrare invito Renzo a vedere lo spettacolo.

271 Cfr. CAPULA, Simone, Militare militante, in «InScena», 4, 2005, p. 40.272 Seconda intervista a Simone Capula, cit.273 Ibidem.274 Primo spettacolo del Teatro Tascabile di Bergamo, realizzato nel 1973. Regia di Renzo Vescovi. Scene di Bruno Collavo. Musiche di Michele Guadalupi. Con la collaborazione di Andreina Moretti e Gianluigi Pirovano. Con Luigia Calcaterra, Giuseppe Chierichetti, Paolo Clementi, Enrico Masseroli, Serena Mosconi, Ludovico Muratori, Franco Pasi, Corinna Poggi, Vanna Salati, Susanna Vicenzetto. Produzione: Teatro Tascabile di Bergamo. Cfr. NOSARI, Pier Giorgio, Nemo propheta: per una storia del Teatro Tascabile di Bergamo, Comune di Bergamo, Assessorato allo Spettacolo, Bergamo, 2005, pp. 18-19.

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Page 66:  · Web viewLe stesse problematiche, addirittura in forma più evidente, si presentarono in Germania, considerando che la progettazione di un teatro popolare viene svincolata dalla

Sarebbe venuto lo stesso, lui andava molto spesso a vedere gli spettacoli dei giovani... […] Io

assisto a questo incontro dopo vent’anni tra Corinna e Renzo; Renzo vede lo spettacolo a

Gassino Torinese e ne rimane entusiasta, ma dice che ci sono delle cose su cui lavorare. Mi

dice: Fa’ una ripresa video e vieni a Bergamo; lavoriamo sul video e intanto vedi le prove del

Tascabile, poi tu tornerai a Chivasso, farai delle prove con il tuo gruppo e poi io torno a vedere,

se ti va, lo spettacolo. Io accetto275.

Vescovi offre a Capula ospitalità e collaborazione, nonché la possibilità di assistere alle prove del

proprio gruppo, impegnato nella preparazione dello spettacolo Esperimenti con la verità (1992)276.

In una settimana di permanenza a Bergamo, una parte delle giornate di lavoro viene dedicata a

vedere e rivedere il video, cosicché Vescovi possa indicare scene e particolari sui quali Capula

dovrà lavorare al suo rientro a Chivasso. Volo di farfalle rinasce come spettacolo itinerante, diviso

in due stazioni. Accolto da un cerimoniere, il pubblico viene accompagnato verso il luogo della

rappresentazione e introdotto alla storia da un antefatto, un monologo esposto dal Partigiano, che

ricostruisce gli eventi bellici e il contesto sociale dell’Italia degli anni Quaranta. In lontananza,

irrompono spari e urla femminili: al centro dello spettacolo troviamo le vicende di una famiglia

contadina, rappresentata da quattro donne che attendono, invano, il ritorno del fratello partito per la

guerra. «Della Malora e del Partigiano Johnny c’erano l’ambientazione e i personaggi di

riferimento, creavano un ambiente – in indiano si direbbe il rasa, il sapore»277, focalizzandosi

piuttosto sull’interesse storico-memorialistico, che l’opera sottende. Nella scena illuminata dalla

luce radente delle poche torce poste sul terreno, si accendono infine dei piccoli lumini votivi, in

memoria dei centoventi partigiani citati al termine dello spettacolo, un rosario di nomi che variava

di volta in volta, dopo un’attenta ricerca condotta dal gruppo sui caduti del luogo di

rappresentazione.

I rapporti con il gruppo bergamasco si intensificano ed estendono a tutti i componenti del Teatro

Tribù, che intendono misurarsi con le modalità d’azione dei gruppi del terzo teatro. Dopo gli

esperimenti, ritenuti fallimentari dallo stesso regista278, sul teatro di strada, con gli spettacoli Allons

enfant… paratina e Atlante (con il ritmo di una danza) (1993), il Teatro Tribù si ripresenta alla

cittadinanza chivassese con il festival Nuove tradizioni (1994), organizzato come una vera e propria

‘monografia’ dedicata al TTB. Oltre agli spettacoli di repertorio, con i quali il Tascabile anima il

275 Seconda intervista a Simone Capula, cit.276 Regia di Renzo Vescovi. Con Tiziana Barbiero, Mario Barzaghi, Luigia Calcaterra, Giuseppe Chierichetti, Paolo Fattore (poi sostituito da Priscilla Duarte e infine da Francesco Suardi), Alberto Gorla (sostituito per un periodo da Ricardo Gomes), Caterina Scotti. Cfr. NOSARI, Pier Giorgio, Nemo propheta: per una storia del Teatro Tascabile di Bergamo, cit., pp. 30-31.277 Seconda intervista a Simone Capula, cit.278 Ibidem.

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Page 67:  · Web viewLe stesse problematiche, addirittura in forma più evidente, si presentarono in Germania, considerando che la progettazione di un teatro popolare viene svincolata dalla

paese per una settimana, il programma prevede anche dei momenti di pedagogia, dimostrazioni di

lavoro e approfondimenti teorici, affidati ai professori universitari di discipline teatrali conosciuti in

occasione della rappresentazione di Volo di farfalle al festival Sonavan…le vie dintorno279:

Ferdinando Taviani, Franco Ruffini e Mirella Schino, interlocutori con i quali Capula continuerà a

confrontarsi, condividendo idee e progetti di lavoro.

Per noi è stato un arricchimento e la cittadinanza di Chivasso ha risposto benissimo. Lì

riuscimmo veramente a trasformare la città in una città-festival, è stato un festival molto

partecipato, c’era movimento; c’erano sempre circa 200 persone, che per Chivasso è un numero

impensabile. Usavamo diversi spazi: le piazze per gli spettacoli di strada, la chiesa sconsacrata

di proprietà del Rotary Club per le danze indiane, il teatrino civico, tutto il paese.

Fu l’unica volta che abbiamo ricevuto un finanziamento pubblico: cinque milioni di lire, per una

settimana di festival…! Però a noi non interessava, perché i professori non li abbiamo pagati,

abbiamo pagato il TTB anche grazie ai molti introiti e a uno sponsor privato280.

Prosegue intanto l’iter formativo di Capula, che nell’estate dello stesso anno partecipa all’ISTA281 di

Londrina (Brasile), rivelandosi essenziale per l’assunzione delle cognizioni teatrologiche connesse

alla figura dell’attore-danzatore. Questa esperienza ridefinisce la sua concezione dell’allenamento

fisico dell’attore, che si arricchisce nel tempo di esercizi desunti dalle tradizioni di teatro-danza

orientali, radicando ulteriormente il suo percorso alle pratiche del terzo teatro. Questa tappa segna la

fine della prima formazione del Teatro Tribù, a causa dei disappunti e delle incomprensioni con

Aldo Pasquero:

Al ritorno dall’ISTA sono tornato cambiato; avevo voglia di provare altre cose, di sperimentare.

Aldo ci stava, ma gli veniva a mancare un tassello, questo dell’ISTA, e così litigammo. Poi, per

far tutte quelle cose ci vuole tanto tempo, implicava il passaggio al professionismo. Io litigai

con Aldo, che era professore, perché lui non hai mai fatto tuttora la scelta del professionismo;

con il suo gruppo, il Faber Teater282, lui lavora molto bene, ma continua a fare il professore; per

me era inconcepibile, io ho fatto una scelta di vita diversa283.

279 Festival di teatro internazionale organizzato dal Teatro Tascabile di Bergamo tra il 1985 e il 2000. Per ulteriori approfondimenti, v. NOSARI, Pier Giorgio, Nemo propheta: per una storia del Teatro Tascabile di Bergamo, cit., pp. 79-86 e Sonavan… le vie dintorno, in http://www.teatrotascabile.org/sonavan.htm.280 Seconda intervista a Simone Capula, cit.281 Cfr. supra, par. 4.2, in particolare si rimanda ai riferimenti in nota 197.282 Per ulteriori approfondimenti, v. www.faberteater.com.283 Seconda intervista a Simone Capula, cit.

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Page 68:  · Web viewLe stesse problematiche, addirittura in forma più evidente, si presentarono in Germania, considerando che la progettazione di un teatro popolare viene svincolata dalla

Inizia così il periodo di formazione più consistente per Capula, che senza più attori con i quali

condividere un progetto autonomo, si trasferisce a Bergamo per seguire un apprendistato al fianco

di Renzo Vescovi, come assistente alla regia.

Il rapporto tra me e Renzo, dopo una prima fase da allievo–maestro, si è trasformato in un

rapporto d’amicizia profondo; data la grande differenza d’età che ci separava è diventato quasi

un rapporto tra padre e figlio. Renzo è comunque stato per me un grande maestro, io senza di lui

non sarei esistito come regista; grazie al rapporto con lui ho intrapreso un percorso

professionale che non potevo intraprendere senza i suoi consigli e il suo credere in me284.

Dal 1994 al 2000, Capula segue la preparazione e l’allestimento di alcuni spettacoli di sala del

Tascabile (tra questi, La saga di Peer Gynt, 1996285, e Il principe dei gigli, 1997286, di cui ha modo

di seguire la nascita e le prime fasi del processo di creazione), nonché tutti gli spettacoli di strada e

in spazi aperti, consolidando il sodalizio professionale e umano con Vescovi, ma senza rinunciare al

desiderio di sperimentare in proprio. L’occasione si presenta con l’arrivo di Alessandro Rigoletti,

chiamato dal Teatro Tascabile di Bergamo per una sostituzione; con questi, Capula riprende il

training, il lavoro sulle azioni fisiche e sulla musica condotto precedentemente, affiancando lo

studio di opere di Catullo, Bachmann, Benjamin e Whitman, ma soprattutto dei romanzi Pao Pao

(1982), Biglietti agli amici (1986) e Camere separate (1989), tre delle opere principali di Pier

Vittorio Tondelli, scrittore cult della scena letteraria italiana degli anni Ottanta, morto di AIDS nel

1991, a soli 36 anni. Dopo una fase di gestazione di due anni, per un lavoro quotidiano di quattro

ore al giorno seguito da Vescovi e dagli attori del Tascabile, nasce Oggi è domenica domani si

muore (1996), uno degli spettacoli di maggiore circuitazione tra le produzioni di Capula.

La figura dello scrittore romagnolo viene sintetizzata attraverso un intreccio di biografia personale e

stralci di produzione letteraria, che in scena si traducono in movimenti rimontati in una coreografia,

una danza cadenzata da una selezione di brani musicali di generi differenti, dal Don Giovanni di

Mozart alle canzoni degli U2, dalle composizioni minimaliste alle melodie del liscio romagnolo 287.

La musica contribuisce a ricostruire l’eclettismo del personaggio, diviso tra la spensieratezza

libertina della gioventù, vissuta nei luoghi del divertimento della riviera adriatica, e la solitudine

degli ultimi anni di vita, segnati dal disagio per l’incomprensione per la propria omosessualità e

dalla morte annunciata da una malattia nascosta nel più stretto riserbo. In anni in cui la

284 Prima intervista a Simone Capula, 13 settembre 2011, sede del Teatro a Canone, Chivasso (TO), in Appendice 1.285 Regia di Renzo Vescovi e Else Marie Laukvik. Con Tiziana Barbiero, Bo Clausen, Else Marie Laukvik. Cfr. NOSARI, Pier Giorgio, Nemo propheta: per una storia del Teatro Tascabile di Bergamo, cit., pp. 34-35. 286 Regia di Renzo Vescovi. Con Caterina Scotti. Cfr. ibi, pp. 36-37.287 Cfr. Oggi è domenica domani si muore, in 4° Incontro Nazionale dei Teatri Invisibili, 10-20 settembre 1998, pp. 8-9.

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Page 69:  · Web viewLe stesse problematiche, addirittura in forma più evidente, si presentarono in Germania, considerando che la progettazione di un teatro popolare viene svincolata dalla

sieropositività era ancora un tabù fortemente presente nella società italiana, la rappresentazione

presso il Centro di Documentazione Pier Vittorio Tondelli, a Correggio (RE), alla presenza dei

familiari dello scrittore, risulta piuttosto complicata: Oggi è domenica domani si muore è giocato

sul rapporto doppio che Tondelli ebbe con la sua omosessualità, esposta tra eccessi e pudori, tra

desiderio di mostrarsi all’altro e volontà di vincere le paure per ottenere un riconoscimento, ma

soprattutto vissuta come forma di ribellione. Più di tutto, è uno spettacolo percorso costantemente

dal tema della morte e dell’abbandono e che per questo richiama con frequenza passi dell’ultimo

romanzo dello scrittore, Camere separate, cui la scena dove il personaggio sussurra nella cassa

acustica di una chitarra, a pochi centimetri dalle corde, affidando la sua sofferenza a un confidente

inanimato, si ispira esplicitamente288.

Attraverso Tondelli, Capula e Rigoletti cercano di filtrare la cultura degli anni Ottanta e di

rivalutarli come un periodo di grande evoluzione e di importanti eventi storici, proiettando lo

scrittore, che in scena chiede al pubblico «Lo sai quanti chilometri ci sono da Rimini a Sarajevo? 4,

6, 5: 465»289, al di là della sua sola biografia.

Io sono andato all’Odin, ma ho capito che dovevo fare altro, in particolare a proposito dei

contenuti. Io avevo una profonda conoscenza postmoderna della letteratura, mi interessavano i

romanzi e la storia; quando trattavo di storia e di storia legata alla politica, mi aiutavano sempre

i romanzi. Nella lettura, nel libro, anzi proprio nei romanzi trovavo delle figure, anche un po’

mitiche, che mi interessavano, di giovani morti giovani290.

Qualche anno più tardi saranno le vicende umane e politiche di Piero Gobetti, giornalista e

intellettuale torinese di inizio Novecento, morto appena venticinquenne a seguito dei postumi di un

pestaggio degli squadristi, a ispirare la produzione di Capula. In seguito alla partecipazione al

progetto commissionato dal festival di Volterra, nel 1998, che vede alcuni membri della prima

formazione del Teatro Tribù riunirsi per lavorare alla costruzione di una scena ispirata al canto XIII

dell’Inferno dantesco, in cui le storie dei suicidi si intrecciano ai numerosi suicidi registrati dalla

cronaca di quell’anno tra i casi di pedofilia291, Silvia Baudin decide di fermarsi a Bergamo e di

collaborare con il Teatro Tascabile, sostituendo alcuni attori laddove necessario. Si ricompone così

una sorta di secondo nucleo del Teatro Tribù, che si caratterizza per la sua attività doppia, divisa tra

288 Cfr. Quarto Incontro Nazionale dei Teatri Invisibili, in 9° Bollettino informativo dell’Associazione di Cultura Teatrale, pubblicato in occasione del quarto incontro nazionale dei Teatri Invisibili, ottobre 1998. 289 Dal testo dello spettacolo.290 Prima intervista a Simone Capula, cit.291 Non tutto ciò che luccica è lamè. Con Silvia Baudin, Silvia Bombara, Rosa Pilloni, Alessandro Rigoletti. Drammaturgia e regia di Simone Capula. Produzione Teatro Tascabile di Bergamo – Pontederateatro. Cfr. Teatrografia; per ulteriori approfondimenti, v. Seconda intervista a Simone Capula, cit.

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Page 70:  · Web viewLe stesse problematiche, addirittura in forma più evidente, si presentarono in Germania, considerando che la progettazione di un teatro popolare viene svincolata dalla

il percorso di formazione (attoriale per Rigoletti e Baudin e registica per Capula) e la prosecuzione

di un proprio allenamento con la creazione di spettacoli, in totale indipendenza.

Anche in Compagni (1999) la riscoperta di una fase storica avviene attraverso la focalizzazione su

una storia personale, umana, addirittura amorosa, poiché nata dalla passione di Capula per il

carteggio privato tra Piero e Ada Gobetti292, anch’essa giornalista e pedagoga animata da un forte

spirito partigiano. Il gruppo cerca di allontanare il rischio di banalizzare i momenti cruciali della

lotta politica e i progetti culturali, gli scatti di sdegno per la degradazione del costume politico

italiano e le riflessioni propriamente personali dei due coniugi nella forma dello spettacolo

propagandistico o nei codici del genere melodrammatico, attraverso un lavoro di astrazione dello

spazio scenico, grazie ai giochi di luce radente che colpiscono una struttura rettangolare chiusa sui

tre lati da teli bianchi, dalle cui trasparenze si intravedono le ombre degli attori che interagiscono, e

aperto sul quarto, per permettere l’entrata del pubblico in una sorta di ‘stanza nella stanza’. Le

cromie del bianco e del nero, che dominano la rappresentazione sino al lancio finale di un drappo

rosso, simbolo duplice della Liberazione e della morte di Gobetti, intendono restituire la «nostalgia

di un ambiente, quello torinese dei primi anni del secolo scorso, unico dal punto di vista politico e

culturale»293, l’immagine di una Torino che in quegli anni rinasceva come città industriale e operaia,

alimentando negli individui la formazione di una coscienza sociale e l’impegno politico attivo dei

suoi intellettuali.

Una sorta di spiazzamento, di tremolio alle gambe; come se i princìpi e la morale e la coerenza

politica potessero essere possibili solo quando qualche titano del pensiero e dell’azione è in vita,

e dovessero per forza scivolare nel ricordo e nell’impossibilità quando il titano muore e al suo

posto rimangono solo tanti nani. “Non è così, non è così”, vien da dire, dal momento che non ce

n’è motivo, e ognuno può diventare un titano, se solo si impegna un po’; ma allora, perché è

così, perché è così che succede?294

Accostarsi alla statura morale e intellettuale delle figure portate in scena è possibile, secondo il

regista, riconducendo al proprio presente le loro vicende e, attraverso di esse, rileggendo le

condizioni e le contraddizioni della realtà socio-politica contemporanea; in particolare, in Compagni

il regista propone un confronto tra l’Italia del periodo fascista, segnata dagli eventi bellici e

compromessa, nelle sue espressioni culturali, da una politica censoria e repressiva, e le dittature

292 Cfr. GOBETTI, Piero, GOBETTI, Ada, Nella tua breve esistenza. Lettere 1918-1926, a cura di Ersilia Alessandrone Perona, Einaudi, Torino, 1991.293 Seconda intervista a Simone Capula, cit.294 Cfr. TEDOLDI, Guido, «Compagni» di vita e teatro, in «Il nuovo giornale di Bergamo», 8 settembre 1999.

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sudamericane della seconda metà del secolo, che hanno visto la progressiva ascesa di governi

totalitaristi, per rifuggire una pericolosa tendenza al revisionismo storico o alla rimozione295.

Nei primi lavori curati da Capula, che spaziano dalla storia della Resistenza alla cultura giovanile

postmoderna, questo approccio storico-politico al contenuto dello spettacolo emerge attraverso la

tematizzazione di storie personali e particolari, legate alla biografia di intellettuali illustri della

scena culturale e artistica italiana, ma soprattutto nel tentativo di restituirne la dimensione di figure

esemplari, intrecciando il vissuto alla ricchezza delle loro opere, con cui si sono distinte, in tempi e

con modalità differenti, per l’affermazione di principi di libertà ed egualitarismo. Un primo

confronto, tuttavia, deve avvenire tra il teatrante e le tematiche veicolate dalla sua opera, un

confronto che non può prescindere, secondo il regista, da una presa di posizione chiara rispetto alla

propria professione, che attraversa trasversalmente la pratica teatrale, le relazioni con l’esterno e

l’organizzazione economica del gruppo: «In questo momento c’è un grosso rischio che ci venga

tolta la libertà. Come artigiani della cultura abbiamo l’obbligo di ricordare che la libertà è

importante, cercando di essere liberi innanzitutto nel nostro lavoro».296

Fin dalla prima costituzione, il Teatro Tribù ha finanziato la propria attività di ricerca grazie ai

guadagni ottenuti dalla rappresentazione degli spettacoli e dallo svolgimento di laboratori

pedagogici, ottenendo successivamente il grande sostegno del Teatro Tascabile di Bergamo, che

mette a disposizione sale e materiale tecnico in cambio delle prestazioni di Capula come assistente

di regia e di Rigoletti e Baudin come attori negli spettacoli di strada. È da un simile ‘scambio alla

pari’ che nel 1992 si avvia la collaborazione con il centro diurno Handirivieni di Chivasso297, a cui

Capula inizialmente si rivolse per usufruire di alcuni locali, adatti per svolgere le prove degli

spettacoli del Teatro Tribù; nonostante il trasferimento a Bergamo, il gruppo continua a condurre,

con cadenza settimanale, un laboratorio teatrale rivolto agli utenti dell’istituto, persone con

handicap intellettivo, psicofisico e sensoriale, e coadiuvato dalla presenza di educatori esperti del

centro. L’amore è una cosa meravigliosa (1999), che tematizza l’importanza dell’amore e delle

relazioni affettive nella vita di ogni individuo, dunque anche dei portatori di handicap, è l’ultimo

spettacolo-dimostrazione creato con il centro diurno, frutto di un lavoro durato due anni, con il

quale gli utenti di Handirivieni si presentano al festival organizzato dalla compagnia sociale

Laboratorio Artaud298 di Padova. Parlando del lavoro svolto nel campo della disabilità, Capula

295 Cfr. le dichiarazioni rilasciate da Capula in VERCELLONE, Cristina, Gobetti e la Resistenza in scena, in «Il Cittadino», 15 marzo 2000. 296 Ibi.297 Per una presentazione generale dell’istituto, cfr. Centro diurno Handirivieni, in http://www.ciss-chivasso.it/Come-siamo/area-disab/Centro-Diu/index.htm.298 Cfr. Laboratorio Artaud – Comunità per le Libere Attività Culturali, in http://www.clacpd.org/clac-in-festa/consociate/laboratorio-artaud/.

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prende le distanze dalle esperienze di animazione teatrale, per definirsi piuttosto come «un teatro

marginale rispetto ai marginali»299,

la marginalità, adesso come adesso, è Armando Punzo di Volterra ad esempio, un teatro

marginale, ma di fatto ben inserito nel sistema teatrale […]. Perciò non è più marginale, come

non lo è Pippo Delbono, che ha delle produzioni in cui lavora con i ‘marginali’ appunto, con gli

‘sciagurati’. Noi rimaniamo ancora più ai margini, l’unico posto in cui ci considerano […] Se io

metto i carcerati in scena e faccio milioni di incasso, perdo tutta la mia funzione politica,

secondo me, in questo momento; cioè cerco solo il successo e ho successo con la marginalità

altrui300.

Capula individua una prima, essenziale condizione per conferire efficacia all’intervento politico del

teatro - «“politico” nel senso della polis, che sia un qualcosa per la gente»301 - nella scelta di

rivolgersi a un numero ridotto di spettatori, secondo l’immagine «delle catacombe dei primi

cristiani, dove per salvarsi bisognava nascondersi e contarsi»302, poiché permette di creare, nel

momento dell’incontro, una rete di relazioni circoscritta ad attori, regista, spettatori e studiosi, in cui

confrontarsi con persone e realtà simili a sé; ma soprattutto, «non si tratta del problema dei

contenuti dello spettacolo, è un intervento politico il come produrre lo spettacolo e dove andare con

lo spettacolo»303. Più che per riferimenti stilistici o poetici, la marginalità sembra assumere una

caratterizzazione politica perché implica una presa di posizione fisica, concreta rispetto al sistema

teatrale e al circuito della comunicazione, definita da scelte relative alle modalità di produzione e ai

contesti in cui inserire la propria azione culturale, collocando così la propria attività «nei residui

delle istituzioni totali»304. In questi primi anni di lavoro condotto dal regista, ideologia, mestiere e

sopravvivenza si sovrappongono, nella ricerca di un’indipendenza economica e artistica dettata

tanto da esigenze personali quanto da necessità materiali; determinante deve essere stato il rapporto

con le istituzioni chivassesi, di cui Capula e il suo gruppo ebbero modo di sperimentare il

disinteresse per le attività promosse sul territorio:

Sia al commissario di giunta di sinistra che a quello di destra, a nessuno gliene ha mai fregato

niente di noi, e questo è fondamentale, perché non abbiamo debiti. Hanno forti debiti le

istituzioni nei nostri confronti perché noi abbiamo continuato a lavorare: da 7 anni un

299 Intervista per ‘L’amore è una cosa meravigliosa’, 1999, in Appendice 1.300 Ibidem.301 Ibidem.302 Ibidem.303 Ibidem.304 TEATRO DEL LEMMING, L’invenzione del presente, cit.

72

Page 73:  · Web viewLe stesse problematiche, addirittura in forma più evidente, si presentarono in Germania, considerando che la progettazione di un teatro popolare viene svincolata dalla

laboratorio con loro, col centro diurno; abbiamo fatto un festival che hanno visto penso circa

10.000, 12.000 persone in totale, perché facevamo anche degli spettacoli di strada; abbiamo poi

organizzato un convegno a livello nazionale su Tondelli; abbiamo fatto spettacoli per bambini

nelle scuole; tutto questo con 5 milioni da parte del comune di Chivasso, in 8 anni. Perciò noi

assolutamente ci siamo pagati la nostra permanenza; non abbiamo forte interesse, adesso, a

rimanere a Chivasso, sentiamo solo un obbligo intellettuale di far sapere che anche a Chivasso

si può non essere bottegaio, non vendere nei negozi in mano ai commercianti di Chivasso, non

essere figli di papà, ma si possono far delle cose, anche se è complicato. Ecco, questa è la cosa

fondamentale: a Chivasso, le istituzioni non ci hanno mai considerato. […] È fondamentale dire:

Esiste ancora questa cosa, che è un’alternativa all’omologazione totale.

Se inizialmente l’assenza di un riconoscimento da parte delle istituzioni ha forgiato la persistenza

della propria attività come una forma di resistenza culturale, in opposizione alle logiche

commerciali vigenti nei circuiti ufficiali, in seguito diventa per Capula un’assunzione consapevole,

come parte costitutiva del proprio fare teatro, programmaticamente volto al dialogo con un

«pubblico disparato»305, assistendo al progressivo «dissolversi del teatro in quanto teatro»306 per la

creazione di «una situazione di creatività e di azione culturale per cui alcune persone vengono da te

o tu vai da loro. Può essere nei teatri, nei centri sociali, nei centri d’incontro…»307. Una ricerca di

contesti marginali, decentrati rispetto ai principali centri di elaborazione delle proposte culturali,

che si approfondisce a partire dalla chiusura definitiva dell’esperienza teatrale con Alessandro

Rigoletti e Silvia Baudin, che vengono integrati nel Teatro Tascabile di Bergamo, dal quale invece

Capula intende allontanarsi, non condividendo più molte scelte politico-organizzative del gruppo.

«Non penso che bisogna ‘uccidere’ i maestri ma, come con la famiglia, bisogna allontanarsi. Non

puoi essere indipendente se stai sempre legato alla famiglia, perché questa detterà sempre le

leggi»308. Nonostante il desiderio di terminare l’apprendistato registico per avviare un percorso

autonomo, Renzo Vescovi rimane per Capula un interlocutore fondamentale, riconosciuto non solo

come mentore e maestro, ma in quanto esempio di un approccio alla professione teatrale che il

regista definisce ‘etico’, da intendersi come «un sistema personale di orientamento»309 per l’uomo e

per il teatrante; un atteggiamento assunto e promosso soprattutto dopo la sua scomparsa, avvenuta

nel 2005.

305 Prima intervista a Simone Capula, cit.306 Ibidem.307 Ibidem.308 Ibidem.309 BARBA, Eugenio, Conoscenza tacita: dispersione ed eredità, in «Teatro e Storia», XIII-XIV (1998-1999), p. 58.

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Page 74:  · Web viewLe stesse problematiche, addirittura in forma più evidente, si presentarono in Germania, considerando che la progettazione di un teatro popolare viene svincolata dalla

Renzo mi ha aiutato molto nel farmi capire l’approccio etico con la professione teatrale, più che

le cose tecniche. Dopo la sua morte mi son sentito molto responsabile nel portare avanti quella

che era la sua etica […]. Penso che Renzo abbia lasciato un vuoto incolmabile nel panorama del

teatro italiano, non solo per la sua maestria di regista e studioso di teatro orientale, ma come

promotore di un’idea teatrale come scelta di vita etica. Riassumendo, Renzo è stato per me,

amico, padre ed in ultimo maestro310.

2. Vagabondaggi Teatrali verso un progetto di pedagogia indipendente

«Il teatro politico non si è spento per niente, anzi, a volte addirittura è stato l’unico rifugio del

teatro, anche in termini economici»311: potrebbe essere questa un’introduzione alle esperienze

intraprese da Capula tra il 2000 e il 2004, anni di ricognizione sugli obiettivi della sua ricerca.

Trasferitosi in Trentino Alto Adige, il regista, nuovamente solo, riflette sulla possibilità di condurre

un lavoro di pedagogia senza un gruppo di riferimento, con il quale portare avanti una ricerca

continuativa. Capula non nasconde l’esigenza economica sottesa ai Vagabondaggi Teatrali:

I Vagabondaggi teatrali sono nati anche per una questione economica, per continuare a vivere

di questo lavoro, ma hanno dato anche cose interessanti. Ho lottato molto per fare i

Vagabondaggi, per capire cosa volevo fare della mia vita teatrale. A quel punto io non avevo di

che vivere e non sapevo che fare. Porto in uno zaino alcuni libri, tra cui un libro di poesie di

Brecht, che amo più come poeta che come drammaturgo; dei libri sulla dittatura cilena e un

film, Garage Olimpo312, sulla dittatura in Argentina. Chiamo amici teatranti e inizio ad andare

dove mi invitano; chiedo di avere un posto per dormire e per mangiare e persone che paghino

un’iscrizione modesta al laboratorio, giusto il necessario per pagarmi i viaggi e di che vivere313.

Tappa per tappa, si descrive un itinerario ondivago tra le realtà teatrali con cui Capula entrò in

contatto negli anni precedenti, passando anche e soprattutto per università e licei, circoli culturali e

centri sociali; un lavoro «fra l’autogestione dell’attività e le istituzioni»314 svolto con gruppi diversi

di persone, perlopiù partecipanti non professionisti. Anche in questi casi, tuttavia, il laboratorio

310 Prima intervista a Simone Capula, cit.311 Dal colloquio con Mirella Schino, 07/03/2012, Bergamo (BG). Registrazione in possesso dell’autrice.312 Garage Olimpo, regia di Marco Bechis, Classic Paradis Films Nisagra, Rai, Rai Cinemafiction, Tele+, Italia-Argentina-Francia, 1999.313 Seconda intervista a Simone Capula, cit.314 Ibi. Nell’ultimo caso, un esempio sono i corsi tenuti per tre anni presso il Teatro dei Sassi, nel contesto del progetto Aree Disagiate, sostenuto dall’ETI (Ente Teatrale Italiano), volto allo realizzazione di un ampio lavoro di pedagogia sul territorio. Cfr. GALLINA, Mimma (a cura di), Organizzare teatro: produzione, distribuzione, gestione nel sistema italiano, FrancoAngeli, Milano, 2003, pp. 136-142.

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Page 75:  · Web viewLe stesse problematiche, addirittura in forma più evidente, si presentarono in Germania, considerando che la progettazione di un teatro popolare viene svincolata dalla

pratico proposto da Capula si conclude con una dimostrazione di lavoro, una prassi che, ad esempio,

porta alla realizzazione degli spettacoli Il sogno di Diego Armando è in Technicolor (2001), con il

nascente e semiamatoriale Teatro Serraglio di Seriate (BG), promosso dalla comunità Ruah315 e

dalle Caritas della provincia bergamasca per sensibilizzare alle tematiche vicine all’immigrazione,

all’assistenza e all’inserimento lavorativo degli immigrati, e Quartiere. Racconto lirico in memoria

di Pasolini (2005), in occasione del trentesimo anno dalla morte di Pier Paolo Pasolini, con

Sottotracciateatro, formazione indipendente del circolo A.R.C.I. Murales di Fondi (LT)316.

Tutti i miei laboratori hanno sempre avuto una dimostrazione finale, magari con un pubblico di

sole dieci persone, ma c’è sempre stato un incontro con il pubblico. Il mio seminario è sempre

stato il far assaggiare un processo di creazione dello spettacolo, dall’allenamento dell’attore alla

presentazione finale: non c’è una via di mezzo per me. Non ho degli esercizi da insegnare,

voglio far vivere un’esperienza317.

Un’eccezione in questo girovagare solitario per l’Italia è la collaborazione con l’attore Franco

Acquaviva, conosciuto anni prima al Teatro Ridotto di Bologna, che nel frattempo aveva fondato,

con la moglie Anna Olivero, un piccolo gruppo sul lago d’Orta (NO), il Teatro delle Selve

(1998)318. Allievo di Iben Nagel Rasmussen nel gruppo internazionale Ponte dei Venti, Acquaviva

chiede a Capula di lavorare insieme a una dimostrazione di lavoro sui materiali elaborati, nella

quale confluisce la rielaborazione drammaturgica di testi amati da entrambi, appassionati lettori, tra

cui opere di Bulgakov e Brecht, ma anche a certa letteratura italiana della fine degli anni Settanta e

del decennio successivo, che segnò l’«irrompere, nella scrittura, del “corpo matto” (Celati), dei

ritmi dell’oralità (Scabia), e del rock (Tondelli)»319. Sogni d’amore e di (r)esistenza (2003) racconta

la biografia professionale e umana dell’attore, alternando «lo spazio degli affetti e lo spazio del

teatro»320; attraversando le storie legate alla casa del piccolo paese di provincia e all’abitazione

giovanile di Bologna, dove Acquaviva si trasferì per seguire gli studi universitari, ai viaggi in

Sudamerica e in India, fino ad approdare alle nuove dimore d’artista, i palcoscenici d’Italia e

d’Europa. Si snoda un romanzo di formazione che, ripercorrendo la memoria personale dei due

teatranti, legati dal comune imprinting odiniano, attraversa la storia di una generazione, affidando la

narrazione scenica solo al training d’attore, in cui le sequenze di esercizi sono rimontate in un

315 Si rimanda al sito www.cooperativaruah.it.316 Per ulteriori approfondimenti, v. Seconda intervista a Simone Capula, cit.317 Ibidem.318 Si rimanda al sito www.teatrodelleselve.it.319 Dalla scheda dello spettacolo, rintracciabile anche in Teatro delle Selve presenta SOGNI D’AMORE E DI (R)ESISTENZA, in http://www-static.cc.univaq.it/culturateatrale/pratiche/2004-pratiche/schedaSOGNI.htm.320 DEMARCHI, Andrea, Un Teatro in casa (riflessioni sopra uno spettacolo), in ibi.

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Page 76:  · Web viewLe stesse problematiche, addirittura in forma più evidente, si presentarono in Germania, considerando che la progettazione di un teatro popolare viene svincolata dalla

continuum fisico ritmato da una colonna sonora che assembla brani pop e rock degli anni Settanta e

Ottanta.

Questo è uno dei due spettacoli che Capula presenta all’incontro Uno sguardo da inizio secolo.

Incontro fra teatranti indipendenti, che organizzò l’anno stesso, dal 22 al 28 settembre, presso la

Casa-Laboratorio di Cenci, vicino Amelia (TR), che dal 1980 ospita i “villaggi educativi”,

laboratori creativi per bambini e ragazzi e seminari residenziali di ricerca ed esperienza per adulti,

seguendo la tradizione che affonda le sue radici nel Movimento di Cooperazione educativa e sul

Teatro delle Sorgenti di Grotowski, che vi si trasferì per tre mesi321. Il programma prevede sessioni

di lavoro mattutino, con i seminari condotti da Capula, Massimo Lanzetta (direttore artistico del

Teatro dei Sassi di Matera) e Raul Iaiza (direttore artistico del Teatro la Madrugada – I Servi di

Scena di Milano), su una scena del Giardino dei ciliegi, ognuno con attori di altri gruppi; nel

pomeriggio dimostrazioni di lavoro e di sera spettacoli di tutti i teatranti presenti322. Tra questi,

figura anche lo spettacolo che Capula dirige per l’occasione, Neanche al sole puoi chiedere di non

fare ombra, nato dalla collaborazione con Silvia Bombara, ex attrice del Teatro Tribù e fondatrice

dell’associazione culturale di ricerca educativa Dulcamara di Amelia323, che ne cura la

drammaturgia. Elaborando l’opera di William Borroughs e i racconti raccolti dalle esperienze

educative condotte con Dulcamara, lo spettacolo racconta l’arrivo dell’eroina in un quartiere delle

periferie di Roma, filtrato dall’esperienza vissuta in prima persona da Massimo Cassiani, collega di

Bombara, che al centro della scena racconta le piccole storie di vita di molti amici distrutte dalla

droga, in una scenografia scarna, ridotta a poche lampadine appese, un paravento di vecchi giornali

e a una rosa bianca, curata e protetta durante tutto lo spettacolo, immagine finale del fiore che orna

la tomba delle figure evocate324.

Più che una rassegna, l’iniziativa sembra essere «raduno di gente di teatro»325, realizzato con i

piccoli contributi degli enti locali e gli incassi del pubblico, perlopiù attendato nei prati intorno alla

Casa-Laboratorio, condividendo spazi per la convivenza e il dibattito, l’ultimo dei quali dedicato ai

rapporti tra teatro e mercato e alle personali, diverse esigenze sottese al lavoro dei gruppi teatrali.

Questa autoconvocazione di gruppi indipendenti rappresenta per Capula la possibilità di

«dimostrare che era possibile fare diversamente, e la cosa è riuscita: i gruppi hanno continuato a

321 Si rimanda a http://www.cencicasalab.it/.322 Evin (Amelia, Terni), I Servi di Scena-Teatro La Madrugada (Milano), Brucaliffo (L’Aquila), Teatro dei Sassi (Matera), Teatro delle Selve (Vacciago, Novara), Rogo Teatro (Castiglione Messer Marino, L’Aquila). RUFFINI, Franco, “Uno sguardo da inizio secolo”. Teatro clandestino a Cenci, inhttp://www-static.cc.univaq.it/culturateatrale/materiali/Ruffini/articoli-arca-noe-cenci.pdf.323 Si rimanda a www.edulcamara.org.324 RUFFINI, Franco, “Uno sguardo da inizio secolo”, cit.325 TIBERIO, Noemi, La Scuola Ambulante di Teatro: pedagogia teatrale, inhttp://www-static.cc.univaq.it/culturateatrale/materiali/Tiberio/articoli/Tiberio-SCUOLA_AMBULANTE.pdf.

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Page 77:  · Web viewLe stesse problematiche, addirittura in forma più evidente, si presentarono in Germania, considerando che la progettazione di un teatro popolare viene svincolata dalla

collaborare anche dopo l’incontro»326, facendo sue le parole di Antonio Neiwiller, scelte come

esergo al programma dell’incontro:

Voglio andare fino in fondo a me stesso

Voglio andare fino in fondo alla mia vocazione

Voglio uscire dai rapporti convenzionali

Voglio essere un clandestino

Voglio scoprire cose nella loro vitalità

Voglio approfondire la mia arte

Voglio capire se può esistere un teatro clandestino

“Clandestino” perché fuori dai rapporti che si sono consolidati, strutturati, irrigiditi.

Bisogna studiare nuove forme di presentazione al pubblico del proprio lavoro

L’arte nell’universo della comunicazione totale non può essere un prodotto fra gli altri

(anche se di buona fattura) deve alludere a qualcosa che va custodito327.

Neanche al sole puoi chiedere di non fare ombra viene replicato poche altre volte, e tuttavia

rappresenta un punto di svolta per Capula, «perché ho accettato di dirigere delle persone senza

cercare di fare della pedagogia, lasciandole lavorare come volevano. Chiaramente facevo fare degli

allenamenti, ma erano minimi; non c’era un lavoro di pedagogia, ma ne sentivo il bisogno»328, tant’è

che collabora ancora con Acquaviva alla preparazione di uno spettacolo sul filosofo Piero

Martinetti, uno dei dodici professori universitari, su 1250, che rifiutò di prestare giuramento di

fedeltà al fascismo per una scelta di matrice, prima ancora che civile, religiosa. Dopo la

dimostrazione di lavoro seguita al laboratorio con gli studenti dell’Istituto di Istruzione Superiore

Piero Martinetti di Caluso (TO), Capula decide di lavorare ancora sulle riflessioni del filosofo

torinese, sulle suggestioni del testo Preferirei di no. Le storie dei dodici professori che si opposero

a Mussolini di Giorgio Boatti329, in quanto intellettuale critico nei confronti della dittatura fascista

ma anche del socialismo marxista e degli stati di democrazia, «di cui colse gli aspetti degenerativi

dell'affarismo e dell'ultraparlamentarismo»330, oltre che studioso delle filosofia indiana e promotore

di una concezione della natura animale come altrettanto degna di quella umana. Sulla scena si

narrano i suoi ultimi anni di vita in un monologo frontale basato sul montaggio di testi dell’autore,

la cui linearità viene talvolta interrotta da brevi dialoghi che Acquaviva interpreta da sé, tramite un

326 Seconda intervista a Simone Capula, cit.327 Riportato in RUFFINI, Franco, “Uno sguardo da inizio secolo”, cit.328 Seconda intervista a Simone Capula, cit.329 BOATTI, Giorgio, Preferirei di no. Le storie dei dodici professori che si opposero a Mussolini, Einaudi, Torino, 2001.330 VIGORELLI, Amedeo, Piero Martinetti. La metafisica civile di un filosofo dimenticato, Bruno Mondadori, Milano, 1998, p. 292.

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Page 78:  · Web viewLe stesse problematiche, addirittura in forma più evidente, si presentarono in Germania, considerando che la progettazione di un teatro popolare viene svincolata dalla

lavoro sulla voce supportato dall’uso di un radiomicrofono, indicando il passaggio dal protagonista

ai suoi interlocutori. L’ambiente intimo e scarno, dove una poltrona, dei vasi colmi di terra e delle

piantane con piccoli fari agli angoli ricreano l’ultimo rifugio di Martinetti, viene sconvolto solo dal

ricordo dell’approssimarsi della guerra: i vasi si spaccano, cade la terra e la sala si riempie di

polvere.

Se Il filosofo con la pistola (2004) è la conferma della volontà di affrontare, attraverso lo spettacolo

e i dibattiti successivi, con i quali il regista invita il pubblico a un ulteriore confronto, delle

tematiche di carattere storico, in particolare riattualizzando discorsi su questioni e vicende assopite

del passato, è negli anni dei Vagabondaggi Teatrali che questa tendenza si riversa nelle proposte

laboratoriali, affiancando alla formazione teatrale, basata sul training e la costruzione di azioni

fisiche strutturate, degli approfondimenti tematici, attraverso la lettura di testi e la visione di film

correlati.

Gli ultimi spettacoli realizzati con Acquaviva hanno una circuitazione ristretta a piccoli festival

cittadini, teatri comunali e scuole, ma aprono la strada a una collaborazione più intensa con le

università di Roma e L’Aquila, dove Capula inizia a svolgere con frequenza laboratori rivolti agli

studenti dei rispettivi corsi di discipline teatrali, il DAMS (Discipline delle Arti, della Musica e

dello Spettacolo) e lo SPAMS (Storia e Pratiche delle arti, della Musica e dello Spettacolo).

Viaggiando in questi e in altri contesti, Capula sperimenta le difficoltà di approcciarsi a gruppi

amatoriali, non tanto per questa specifica caratteristica, quanto per l’impossibilità, connaturata alle

occasioni di lavoro temporanee e circoscritte a pochi giorni o settimane, come i seminari e i

laboratori, di dedicarsi a un’accurata formazione teatrale dei partecipanti e di progettare, con questi,

una quotidianità di vita e di lavoro. L’itinerario dei Vagabondaggi Teatrali fa maturare nel regista il

desiderio di avviare un progetto pedagogico di lunga durata, per dedicarsi a tempo pieno alla

formazione dell’attore e alla creazione di un gruppo di lavoro stabile e continuativo; precisamente,

l’idea è quella di una scuola della durata di almeno un anno e itinerante: gli ultimi laboratori

condotti nel 2003 sono le occasioni per incontrare le persone con le quali Capula darà vita alla

Scuola Ambulante di Teatro.

Prima di qualsivoglia impostazione teorica, premessa alla nascita della Scuola Ambulante di Teatro

è la biografia del fondatore331: dagli anni dell’apprendistato, nelle sessioni intensive con l’Odin

Teatret e negli anni vissuti al fianco di Vescovi e del TTB, al percorso teatrale intrapreso in

autonomia, Capula vive il fare teatro creando situazioni nelle quali operare nella clandestinità,

intesa come attività condotta “fuori dai rapporti che si sono consolidati, strutturati, irrigiditi”

all’interno del sistema teatrale, e all’insegna dell’extraterritorialità, svincolandosi dai legami

331 Cfr. TIBERIO, Noemi, La Scuola Ambulante di Teatro: pedagogia teatrale, cit.78

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territoriali per rivolgersi a pubblici differenziati, come scelta consapevole e funzionale

all’insegnamento che se ne può trarre a livello umano e professionale, rendendo flessibili se stessi e

il proprio lavoro in rapporto a circostanze differenti. I Vagabondaggi, prima solitari, si aprono alla

condivisione di situazioni di vita e di lavoro con altre persone.

3. Intermezzo. La ‘memoria corta’

Ripercorrendo le esperienze teatrali del regista fino ad ora analizzate e anticipando una riflessione

sulle produzioni successive, si può osservare che il punto di continuità dell’attività teatrale di

Capula, se non si può rintracciare nella permanenza fissa in un luogo specifico, come testimoniano

in modo esemplare i Vagabondaggi, già sintomatici di una extraterritorialità perennemente

connaturata al suo modo di operare, tuttavia non sembra limitarsi alla sola scelta di una tradizione

stilistica e formale nella quale inserirsi, quella del terzo teatro. In merito alle proprie origini

professionali, radicate nelle occasionali esperienze di formazione con l’Odin Teatret e nel lungo

apprendistato presso il Teatro Tascabile di Bergamo, Capula afferma:

Io ho sempre avuto una forte riconoscenza nei confronti di chi avevo deciso fosse mio maestro,

che non significa fare sempre la stessa cosa, ma anzi farla evolvere. Ho avuto, da un punto di

vista stilistico, un momento in cui volevo fare degli spettacoli uguali a quelli di Barba, uguali a

quelli di Renzo, ma poi ho capito che se non evolvevo, questo portava a inaridirmi. Nel lavoro

d’attore, sul training e sulla musica, l’approccio era originale e in certi aspetti si discostava dalle

regole del cosiddetto terzo teatro332.

Il filo rosso che inizia a snodarsi e a collegare in un’unica tessitura questi lavori, nati, più che da

una chiara coscienza progettuale, dalla naturale inclinazione a «cogliere le occasioni che si

presentavano senza tener troppo conto delle strategie di mercato»333, sembra essere costituito dalla

sua predilezione per il recupero della memoria storica, innescata dalla peculiare attenzione rivolta a

quella che lui stesso definisce la questione della “memoria corta”. Nel corso della sua carriera, con

questa espressione il regista formula la tendenza trasversale dei mezzi di informazione, delle

istituzioni e delle persone a tacere e infine rimuovere troppo rapidamente eventi e vicende

controverse del recente passato, senza un preventivo approfondimento delle circostanze e delle

cause che hanno costituito, a livello culturale, il sostrato atto al loro manifestarsi334.332 Prima intervista a Simone Capula, cit.333 Ibidem.334 Cfr. Terza intervista a Simone Capula, cit.

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Page 80:  · Web viewLe stesse problematiche, addirittura in forma più evidente, si presentarono in Germania, considerando che la progettazione di un teatro popolare viene svincolata dalla

La creazione di spettacoli che pongono al loro centro temi legati ai giovani, al viaggio e alla storia,

risponde all’esigenza di ‘discuterne pubblicamente’, attraverso la riflessione in forma di spettacolo,

che cerca la reazione immediata del pubblico: «trasformandoli in un prodotto artistico, è possibile

parlarne: è ricreare un tessuto piccolo, piccolo, piccolo, piccolo…»335. L’operazione che Capula

cerca di attuare sottende un obiettivo simile a quello che Ryan Claycomb individua in certa

produzione del panorama teatrale americano, che rielabora testimonianze di storia orale attuale o

afferenti persone o fatti realmente esistiti in forma drammaturgica e performativa. Queste opere non

portano alla luce informazioni che non siano già note, né si ispirano alla letteratura storica

revisionista, né operano infine per la decostruzione degli eventi trattati, ma tentano di valutare come

il passato viene gestito, considerato e presentato nella produzione culturale attuale; in particolare,

esse cercano di riorganizzare o creare ex novo un dialogo intorno alle voci e alle vicende del nostro

passato, non per modificare la sostanza di ciò che di questo è ormai noto e consolidato, quanto il

modo in cui noi guardiamo al passato, per prevenire, appunto, qualsiasi forma di revisione,

malintesi futuri e rimozioni storiche336.

Questo approccio risulta imprescindibilmente connesso alle convinzioni politiche del regista, che

hanno radici lontane:

Quando ho iniziato a fare teatro, ventisei anni fa, la mia intenzione politica era legata a dei

partiti di sinistra che certamente manipolavano e strumentalizzavano, ma ti rappresentavano in

qualche modo; adesso non c’è più nemmeno questo. Spesso lo scontro avviene con chi è più

simile a me, anche per il semplice fatto che ci mangiamo lo stesso pane337.

Anche la professoressa Mirella Schino, conoscenza di lunga data di Capula, asserisce:

Sicuramente è vero che lui è una persona che soffre a livello fisico ed esistenziale la questione

della politica. È un buon esempio di teatro politico; non perché i suoi spettacoli siano politici,

non perché il suo teatro sia un teatro politico, ma perché lui è una persona per cui la politica ha

un valore – come per altre persone può essere l’amore, le crisi esistenziali, i problemi della

vecchiaia e della giovinezza – primario, di pelle, reale338.

Per questo motivo, la Schino parla del teatro di Capula, con uno sguardo che, in retrospettiva,

abbraccia la totalità della sua produzione e della sua vita nel teatro, come di un «teatro politico

335 Ibidem.336 Cfr. CLAYCOMB, Ryan M., (Ch)oral History. Documentary Theatre, the Communal Subject and Progressive Politics, in «Journal of Dramatic Theory and Criticism», XVII (2003), n. 2, p. 110.337 Prima intervista a Simone Capula, cit.338 Dal colloquio con Mirella Schino, cit.

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Page 81:  · Web viewLe stesse problematiche, addirittura in forma più evidente, si presentarono in Germania, considerando che la progettazione di un teatro popolare viene svincolata dalla

anomalo»339, che si caratterizza come tale tanto per le tematiche affrontate negli spettacoli quanto

per le reti di relazioni consolidate nel tempo. Gli itinerari fin qui studiati preparano il terreno alle

esperienze teatrali successive, condotte con la Scuola Ambulante di Teatro e il Teatro a Canone,

fondate sulla creazione di una solida cultura di gruppo, che ha come immediata conseguenza la

riconversione delle modalità produttive, facendosi testimonianza concreta di un’istanza di

indipendenza e libertà artistica che poggia su una convinzione, umana e insieme professionale, che

il regista ha recentemente confermato:

Se ti devo dire onestamente qual è la mia istanza di vita, che mi porta a delle crisi nelle scelte

che devo compiere, è che non sopporto l’ingiustizia. Io ho visto il teatro piegarsi di fronte

all’ingiustizia sociale. Se il teatro diventa organico a questa ingiustizia, per me cessa di esistere;

io voglio la libertà e – sono intimamente legate – la giustizia sociale. Tutti devono avere da

mangiare, da dormire, da vestirsi, una casa dove vivere. Tutti. Questa è la lotta da portare avanti

a livello mondiale. È apocalittico, eh? Ma secondo te, perché i teatranti non fanno l’analisi di

questo? Ovvero, pensare che noi possiamo uscire da questo sistema, da questo gioco

economico, proprio perché siamo piccoli, in nome dell’essere piccole realtà?340

4. La Scuola Ambulante di Teatro. Nomadismo pedagogico, pedagogia nomade

L’atto fondativo della Scuola Ambulante di Teatro ha luogo il 22 giugno 2004 presso la Cascina

Autogestita Torchiera Senzacqua, centro sociale nei pressi del cimitero Maggiore di Milano, dove

Capula convoca i sei allievi-attori individuati nei laboratori condotti l’anno precedente presso

università, teatri e associazioni culturali, per illustrare ampiamente l’offerta formativa che vuole

proporre loro341. Come dichiarato nella lettera inviata a ciascuno per stabilire questo primo

appuntamento, il regista ribadisce a Francesca Cadeo, Raffaella Di Tizio, Lorenza Ludovico,

Michele Muradore, Claudia Musitelli e Luca Vonella, giovani tra i 22 e i 27 anni, che la scelta non

si è basata sulle loro capacità, bensì sulla disponibilità umana e l’interesse al lavoro riscontrati nei

rispettivi incontri:

Durante quegli anni di seminari in giro per l’Italia, infatti, ho cercato persone che mi piacevano

umanamente, non come attori. Ho osservato gli allievi durante il lavoro, ma non li ho scelti

339 Ibidem.340 Prima intervista a Simone Capula, cit.341 Cfr. VONELLA, Luca, La Scuola Ambulante di Teatro: tra apprendistato e spettacolo, tesi di laurea non pubblicata, relatore: Franco Ruffini, Corso di Studio in Discipline delle Arti, della Musica e dello Spettacolo, Facoltà di Lettere e Filosofia, Università degli Studi Roma Tre, anno accademico 2005/2006, p. 9.

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perché erano bravi; ho scelto quelli che, secondo me, avevano un’esigenza di fare. […] C’erano

dei piccoli momenti che hanno fatto scaturire il mio interesse, che mi hanno fatto scegliere uno

piuttosto che un altro […] c’era un interesse umano, di pelle, e poi piccoli particolari342.

Della nuova formazione farà parte anche Cristina Ricchiuti, conoscenza chivassese di Capula e

come lui socia fondatrice dell’associazione culturale Fiat Lux343, ora amministratrice della parte

organizzativa e gestionale delle attività; un ruolo fondamentale, in quanto la Scuola nasce come

realtà indipendente e non sovvenzionata, che da subito si trova ad affrontare il problema della

sopravvivenza. Un aiuto consistente per avviare il progetto è stato fornito dall’istituto di

microcredito Mag4 (Mutua AutoGestione) di Torino344, che per sua costituzione programmatica

concede prestiti a tassi agevolati alle realtà basate sulla cooperazione, sull’autogestione e

sull’associazionismo di base, cercando di creare modelli economici alternativi al sistema economico

tradizionale, fondato sull’accumulo del capitale:

La Scuola Ambulante ha iniziato grazie a Mag4, che ci ha dato la liquidità iniziale di cui

avevamo bisogno; le banche non ci prestavano soldi perché non facevamo investimento. Noi

investivamo sul nostro lavoro, mentre le banche vogliono che tu crei capitale. Mag invece è un

istituto di microcredito, è proprio un’altra cosa: prende atto della scarsità di risorse economiche

delle persone e le aiuta a creare un lavoro proprio, non a far capitale. Questo per me è un passo

fondamentale, dal punto di vista economico, cioè capire come creare un’impresa non secondo le

regole dell’economia vigente. Alla Mag4 io sono arrivato per caso, per la disperazione, non è

che avessi una coscienza così forte sulla Mag, ma andando avanti… all’inizio sono andato

molto d’istinto, con il buonsenso: io ho un piccolo negozio e deve fare in modo di vendere il

salame più buono invece che tanto salame345.

342 Seconda intervista a Simone Capula, cit.343 «Fiat Lux era un’associazione tra politica e cultura in cui il teatro non esisteva, facevamo informazione cultural-politica, in particolare facevamo parte dei cosiddetti social forum che si opponevano al G8 di Genova. Oltre a noi due, tra i fondatori c’erano Andrea Demarchi, Matteo Bagnasacco e Rosa Pilloni. Organizzavamo spettacoli, letture nelle biblioteche, laboratori teatrali e di scrittura». Ibi.344 «Dal 1987 la cooperativa MAG4 opera nell'ambito della finanza etica con l'obiettivo di creare modelli economici basati sulla cooperazione, sull'autogestione e sull'associazionismo di base in alternativa al sistema economico tradizionale e di dare sostegno a imprese operanti nel settore no profit che si basino su valori quali la cogestione d'impresa, il reinvestimento non speculativo degli utili, l'organizzazione democratica, l'inserimento di soggetti svantaggiati, la trasparenza, la democraticità, il rispetto dell'ambiente e la partecipazione. […] La cooperativa concede finanziamenti a cooperative, associazioni e società di mutuo soccorso che svolgono attività a favore della solidarietà e dell'integrazione sociale, del commercio equo, dell'educazione giovanile, della tutela ambientale e di tutte quelle attività che non danneggiano gli individui né l'ambiente. Le realtà finanziate devono essere socie della cooperativa; il finanziamento può essere restituito nell'arco di 5 anni, con un piano di rientro personalizzato e la possibilità di restituzione anticipata con equa riduzione degli interessi. I tassi di interesse richiesti variano in base all'inflazione ISTAT e della dimensione della realtà, senza altre spese accessorie; sono richieste a garanzia fideiussioni personali parziarie e non in solido dei responsabili della realtà». La Mag4 si presenta, in http://www.mag4.it/prima-pagina/139-prima-pagina/297-la-mag4-si-presenta.html.345 Terza intervista a Simone Capula, 15 settembre 2011, sede del Teatro a Canone, Chivasso (TO), in Appendice 1.

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Page 83:  · Web viewLe stesse problematiche, addirittura in forma più evidente, si presentarono in Germania, considerando che la progettazione di un teatro popolare viene svincolata dalla

I finanziamenti successivi derivano dalla stessa modalità di organizzazione interna alla Scuola, in

relazione alle sue condizioni costitutive di precarietà e itineranza. Nel primo incontro con i futuri

allievi, infatti, Capula spiega che l’attività della Scuola si svolgerà tra diverse realtà teatrali e non

teatrali, nelle quali verranno proposti seminari e dimostrazioni di lavoro il cui compenso economico

sarà utilizzato per coprire i costi di gestione, mentre vitto e alloggio dei componenti saranno a

carico di chi li avrebbe ospitati: l’unica spesa di cui dovranno occuparsi autonomamente gli allievi

saranno i costi di ogni viaggio per raggiungere le diverse città.

Il percorso di formazione è suddiviso in ‘tappe’ mensili della durata di 15 giorni circa e, di viaggio

in viaggio, si materializza in luoghi non istituzionali del teatro che descrivono un circuito

alternativo, variando tra teatri di ricerca (Teatro Tascabile di Bergamo, Teatro dei Sassi di Matera,

Sottotracciateatro di Fondi, Brucaliffo di L’Aquila, Casa del Teatro di Faenza), università (corsi di

discipline teatrali delle università di Roma Tre, L’Aquila, Firenze e Torino), circoli culturali,

direzioni didattiche e centri sociali.

Senza sede fissa, la Scuola Ambulante di Teatro si crea uno spazio di sperimentazione nei diversi

luoghi che la ospitano, trasformando la precarietà che la condizione girovaga sottende nel

presupposto per affermare il valore pedagogico del nomadismo e della convivenza. Ad ogni tappa,

infatti, gli allievi, il regista e l’amministratrice, senza prerogative di gerarchia, vivono e dormono

negli stessi posti e autogestiscono le mansioni pratiche delle pulizie dei locali e della preparazione

dei pasti, spingendo inevitabilmente ogni membro a modificare le proprie abitudini, affinché siano

compatibili con quelle definite collettivamente. L’insistenza di Capula nel ricordare che, ad

esempio, «lavare bene i piatti, rispettando il turno, ha la stessa importanza dell’esecuzione di

un’improvvisazione»346, marca l’intenzione di definire una forma di autoregolamentazione che

sancisca la coerenza tra vita quotidiana e lavoro teatrale, allo scopo di permettere una crescita al

contempo umana e professionale dei suoi componenti. Al riguardo, così si esprime Luca Vonella:

Nella Scuola Ambulante c’era un profondo rispetto per il lavoro, da quello più umile a quello in

sala. Erano alla stregua; questo permetteva che ci fosse un profondo rispetto anche tra noi

allievi, niente capricci e niente vezzi. La Scuola invitava all’umiltà. […] Non c’era solo questo

ovviamente; c’era un training abbastanza duro ed il lavoro sugli spettacoli. La Scuola

Ambulante mi ha fatto incontrare la giusta percezione della disciplina. Una canzone di Ferretti

dice: «la libertà è una forma di disciplina»347. […] La disciplina permetteva che il nomadismo

346 VONELLA, Luca, La Scuola Ambulante di Teatro: tra apprendistato e spettacolo, cit.347 CCCP, Depressione Caspica, in Epica Etica Etnica Pathos, Virgin Records, Italia, 1990. Per la versione completa del testo, v. FERRETTI, Lindo Giovanni, ZAMBONI, Massimo, Il libretto rozzo dei CCCP e CSI. Tutti i testi e scritti inediti, Giunti, Firenze, 1998.

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Page 84:  · Web viewLe stesse problematiche, addirittura in forma più evidente, si presentarono in Germania, considerando che la progettazione di un teatro popolare viene svincolata dalla

della Scuola non fosse uno ‘svacco’, ma un viaggio-studio avvincente, avventuroso ma dove

non si perdevano l’identità del gruppo e la qualità del lavoro348.

La situazione che la Scuola crea e ricrea ad ogni incontro, dunque, «più che un ambiente di lavoro»

è quella piuttosto di «un lavoro che crea un ambiente»349, inscrivendosi nel campo delle “scuole non

scolastiche”, secondo la definizione che Eugenio Barba attribuisce a quegli ambienti di lavoro che i

riformatori teatrali del Novecento cercarono di realizzare «contro l’ideologia (o l’illusione) delle

società industrializzate»350 che promuove una concezione del processo di apprendimento dell’attore

fondato solo sull’acquisizione di un “metodo” strutturato in un programma didattico efficace.

Allontanandosi dalla routine del mestiere e dall’obbligo di arrivare sulla scena prematuramente, gli

“ateliers”, gli “Studi”, i “laboratori” fondati nella prima metà del XX secolo da maestri come

Stanislavskij, Mejerchol’d, Copeau, Piscator e Dullin, si riproposero di rifondare il sapere

dell’attore a partire dalla costruzione di un ambiente favorevole all’acquisizione degli strumenti

tecnici dell’arte teatrale, spesso assunti da tradizioni artistiche codificate, in maniera discorsiva e

imitativa, e alla sua trasformazione in conoscenza attiva, incorporata da ogni allievo in forme

personalizzate – una “conoscenza tacita”, baricentro tra sapere collettivo e sapere individuale,

«equilibrio fra ciò che sappiamo di sapere e ciò che sappiamo senza saperlo»351. Ideale prosecuzione

di questa tradizione, le “scuole non scolastiche” sembrano così risolvere il problema principale

connesso all’apprendimento dell’arte teatrale, garantire la continuità creativa e la trasmissione del

sapere accompagnando gli allievi nel passaggio dalla formazione al professionismo. Aldilà delle

specifiche differenze stilistiche e poetiche, in queste scuole non istituzionali «la qualità

dell’apprendimento coincide con la qualità dell’ambiente»352, determinato a sua volta dalla qualità

delle relazioni interpersonali, una situazione che porta non solo e non tanto ad analizzare l’abilità

professionale degli allievi, ma ad addentrarsi soprattutto nelle «zone in cui la competenza tecnica si

intreccia all’identità professionale, a quel nucleo non detto di valori che fonda l’ethos della gente di

teatro e permette a ciascuno di costruirsi un sistema personale di orientamento – un’etica»353.

In questa prospettiva, la Scuola Ambulante di Teatro si presenta come un piccolo microcosmo

teatrale che, attraverso la costruzione di una specifica identità professionale, si propone di

individuare una propria forma di organizzazione sociale, basata sulla gestione, spesso complicata,

delle dinamiche di gruppo.

348 Intervista a Luca Vonella, 21 ottobre 2011, risposte a domande inviate via posta elettronica, in Appendice 1.349 TIBERIO, Noemi, La Scuola Ambulante di Teatro: pedagogia teatrale, cit.350 BARBA, Eugenio, Conoscenza tacita: dispersione ed eredità, cit., p. 48.351 Ibi, p. 40.352 Ibi, p. 57.353 Ibi, p. 58.

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Page 85:  · Web viewLe stesse problematiche, addirittura in forma più evidente, si presentarono in Germania, considerando che la progettazione di un teatro popolare viene svincolata dalla

Il lavoro pedagogico svolto nella e dalla Scuola si struttura per acquisizioni di tipo teorico e pratico,

tramite le lezioni offerte da professori universitari354 e le occasioni di lavoro pratico con registi e

attori professionisti. I primi pedagoghi che forgiano la formazione degli Ambulanti sono gli attori

del TTB, dai quali vengono introdotti al teatro-danza classico indiano, precisamente al Kathakali e

all’Orissi, rispettivamente rivolte agli attori-danzatori di sesso maschile e femminile. Stabiliti

appuntamenti ripetuti e distanziati per facilitarne l’apprendimento, la pratica delle danze indiane

viene riqualificata in chiave pedagogica e diventa parte costitutiva del training collettivo, in quanto

implica un’attenzione peculiare alla precisione dei movimenti di ogni singola parte del corpo,

introducendo alla stessa cura del dettaglio da dedicare allo svolgimento dell’allenamento fisico

dell’attore.

Il training della Scuola si fonda sull’esecuzione di esercizi semplici, neutri, anche questi introdotti

progressivamente, ma che richiedono un’intensa concentrazione per essere eseguiti in modo

preciso: l’elaborazione di diverse camminate, salti, lanci e cadute, l’esercitazione sull’allineamento

e l’allineamento sfasato355 servono a definire una grammatica comune tra i corpi degli attori, con la

quale possono manifestarsi e interagire in scena, rimontando queste piccole unità in sequenze

strutturate, dall’andamento ininterrotto. L’obiettivo principale di questo lavoro, infatti, è acquisire

un comportamento extraquotidiano che permetta di non recitare, ma piuttosto di scoprire il livello

pre-espressivo dell’espressione scenica, trasformando

un insieme di frammenti in un organismo unitario in cui i diversi dettagli ed elementi non sono

più distinguibili come entità separate. Eseguire un esercizio significa infondere vita a una forma

e a una struttura che non racconta niente. L’allievo apprende la forma esatta di ogni fase, la loro

successione, i cambi precisi di tensione e direzione. Attraverso la ripetizione, restaura un’unità

organica caratterizzata da un ritmo e un flusso sempre variante356.

I margini di libertà e autonomia creativa sono garantiti dalla possibilità di evolvere l’allenamento in

forma individuale, grazie alla creazione di improvvisazioni, che parte da spunti musicali o narrativi

proposti dal regista per poi «servirsi di una serie di sensazioni, pensieri, ricordi, atmosfere. Esse

legano il materiale proposto all’attore come persona ed egli vi attinge nel momento in cui crea

354 Tra questi, spiccano per frequenza e continuità della collaborazione Franco Ruffini, docente presso il DAMS dell’università di Roma Tre, Mirella Schino e Ferdinando Taviani, che dall’inizio sostengono il progetto della Scuola Ambulante di Teatro convogliando parte dei finanziamenti al corso SPAMS dell’università di L’Aquila.355 Per ulteriori approfondimenti, cfr. VONELLA, Luca, La Scuola Ambulante di Teatro: tra apprendistato e spettacolo, cit., pp. 12-14, 16-17, 55, 59-60, 64-65, 71-73.356 BARBA, Eugenio, SAVARESE, Nicola, L’arte segreta dell’attore. Un dizionario di antropologia teatrale, Ubulibri, Milano, 2005, p. 110.

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Page 86:  · Web viewLe stesse problematiche, addirittura in forma più evidente, si presentarono in Germania, considerando che la progettazione di un teatro popolare viene svincolata dalla

l’azione»357, una sequenza di movimenti organici, ritmici e ripetibili, associandosi alla ‘partitura

fisica’ di grotowskiana memoria.

I principi che strutturano questo allenamento, evidentemente riconducibili alla tradizione

dell’antropologia teatrale, trovano una loro caratteristica peculiare nell’attenzione posta a ritmi,

tempi, velocità, accelerazioni e rallentamenti, in stretta sintonia con la selezione di musiche che

accompagna sempre il lavoro in sala degli allievi. Il training che Capula propone nella Scuola

traduce la sua richiesta di «“ascoltare la musica con il corpo”»358, che sulla base di questa modulerà

il proprio andamento: il movimento sconfina nella danza, individuando la qualità teatrale della

musica.

Tutto il lavoro dal training, dallo studio alla creazione degli spettacoli, erano accompagnati da

questi suoni. In particolare il training era rivolto a incorporare le musiche, insomma il corpo

visualizzava i suoni, infatti venivano a far parte del training suoni, pause e tutto ciò che struttura

le composizioni musicali. Lo stesso capitava spesso con le musiche degli spettacoli; a volte

erano addirittura il sottotesto delle improvvisazioni359.

La centralità della musica e del “corpo intonato”360 che la assorbe e su di essa si modella, trova le

sue radici nella personale passione del regista, ma anche nella concezione del “corpo-orchestra”,

formulata da Vescovi per indicare un corpo scenico capace di concertarsi in una produzione

‘polifonica’, nella quale le singole membra hanno un grado di autonomia tale da poter eseguire

azioni differenti in simultanea361.

Alla pedagogia ‘interna’, costituita degli incontri funzionali ad arricchire il bagaglio artistico della

Scuola, comportando la creazione di uno spazio e di un tempo separati, corrisponde un’altrettanto

ricca attività pedagogica rivolta all’esterno, in cui gli allievi si sperimentano come coadiuvatori

nella conduzione di laboratori sulle tecniche di costruzione delle azioni fisiche e dello spettacolo.

Un’occasione, anche questa, per la formazione degli allievi in rapporto a una pluralità di contesti e

soggetti, in cui a loro volta sono guidati da Capula, come ricorda Lorenza Ludovico:

Da subito Simone ci inserisce nei laboratori. Li doveva fare nelle università ma anche nei teatri;

ci ha sempre affiancato ai partecipanti senza dover fare niente di che, semplicemente dare una

357 Le parole di Simone Capula sono riportate in VONELLA, Luca, La Scuola Ambulante di Teatro: tra apprendistato e spettacolo, cit., p. 14.358 Ibi, p. 38.359 Prima intervista a Simone Capula, cit.360 Cfr. TIBERIO, Noemi, La Scuola Ambulante di Teatro: pedagogia teatrale, cit.361 Per ulteriori approfondimenti sulla concezione dell’attore «lirico» e del «corpo-orchestra», v. NOSARI, Pier Giorgio, Nemo propheta: per una storia del Teatro Tascabile di Bergamo, cit. e in particolare SCHINO, Mirella (a cura di), Scritti dal Teatro Tascabile, Bulzoni, Roma, 2007.

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Page 87:  · Web viewLe stesse problematiche, addirittura in forma più evidente, si presentarono in Germania, considerando che la progettazione di un teatro popolare viene svincolata dalla

mano sui “compiti” da svolgere. Eravamo divisi in gruppi piccoli, uno per ciascuno di noi, con

l'idea di dare una mano… quello che mi proponevo io era di mettere le persone a proprio agio e

spiegare che qualunque cosa facessero, come diceva Simone, non c’era nessun giudizio,

nessuno poteva ridere o criticare il lavoro dell'altro362.

I laboratori condotti dalla Scuola sono momenti di lavoro ulteriore per gli attori, che al loro interno

sviluppano percorsi affrontati anche in separata sede. L’apertura all’esterno, dunque, corrisponde a

una condivisione del proprio lavoro di gruppo, nel quale i seminaristi vengono coinvolti anche con

la presentazione di spettacoli-dimostrazione finali. Attraverso questo modulo pedagogico, la Scuola

stabilisce un’assidua collaborazione con le università specializzate in discipline teatrali; in

particolare, i docenti Schino e Taviani propongono a Capula un progetto laboratoriale centrato sullo

Zio Vanja di Anton Čechov, da svolgersi come parte integrante del corso SPAMS dell’università di

L’Aquila. Questo lavoro prosegue per tre anni, diventando il nucleo centrale del lavoro della Scuola

Ambulante di Teatro, un progetto che si trasforma nel corso del tempo, integrando la proposta

iniziale con le vicende della recente guerra in Bosnia-Erzegovina e intersecandosi con la storia,

parallela ma complementare, dei due spettacoli che intanto gli allievi realizzano.

4. Many loves, Pier Paolo e Zio Vanja sui Balcani: dal laboratorio allo spettacolo

Nel progetto dedicato allo Zio Vanja di Čechov, l’interferenza della guerra bosniaca si delinea da

subito, come annota Vonella:

La prima tappa della Scuola avrà luogo a Fondi e sarà incentrata sul lavoro fisico e sulla

fruizione di materiali di vario genere relativi alla recente guerra nella ex-Jugoslavia. A tal

proposito, Simone ci consiglia delle letture: Zio Vanja di Anton Čechov; Le mie regie (2) Zio

Vanja di K. S. Stanislavskij; I Balcani di Paul Garde; Il centro del mondo di Dzevad Karahasan;

Sotto coperta di Vladimir Arsenijevic; L’arma dello stupro. Voci di donne della Bosnia di Elena

Doni e Chiara Valentini; Viaggio d’inverno ovvero giustizia per la Serbia, Appendice estiva ad

un viaggio d’inverno e Un disinvolto mondo di criminali di Peter Handke363.

Alla comparazione di traduzioni diverse del testo cechoviano e ai citati materiali di partenza, si

aggiungono in seguito altre fonti, testi che raccolgono testimonianze dirette e film che tematizzano

gli scontri civili o l’opera di Čechov, ma anche l’Antigone di Sofocle e lezioni di storia del teatro 362 Intervista a Lorenza Ludovico, 27 ottobre 2011, risposte a domande inviate via posta elettronica, in Appendice 1.363 VONELLA, Luca, Scuola Ambulante di Teatro: tra apprendistato e spettacolo, cit., p. 10.

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Page 88:  · Web viewLe stesse problematiche, addirittura in forma più evidente, si presentarono in Germania, considerando che la progettazione di un teatro popolare viene svincolata dalla

sull’universo drammaturgico dello scrittore russo. Particolarmente significativa e coinvolgente si

rivela la conferenza tenuta dal professor Paolo Taviani, docente di Antropologia presso l’università

di Roma Tre, nell’ambito del più ampio progetto “Adotta la pace”364. Sulla scorta di viaggi

intrapresi verso i luoghi del conflitto, Taviani riporta la sua esperienza diretta e ricorda la

semplificazione cui i mass-media sottoponevano gli avvenimenti, riducendone la complessità a una

guerra scoppiata per motivi di fanatismo etnico-religioso. Questa mole di materiali permette agli

Ambulanti affrontare uno studio approfondito della tematica su cui il loro lavoro va sempre più

concentrandosi, attraverso una visione d’insieme che la lezione di Taviani corona; illustrando, per

mezzo di diapositive, cartelli e mappe, un percorso storico che risale al Duecento, il docente cerca

di ricostruire le radici delle concause politiche e religiose che hanno portato allo scoppio del

conflitto, evidenziando come la convivenza tra persone di religione e lingua differente sia sempre

stata una condizione caratteristica della zona balcanica, resa insopportabile dalle forze di

rivendicazione indipendentiste365.

La scelta di contaminare il progetto iniziale, che avrebbe dovuto trattare la messinscena che

Stanislavskij fece dell’opera cechoviana e l’allenamento biomeccanico, con le storie della guerra

bosniaca, nasce dalla volontà di riportare alla percezione attuale eventi storici che hanno da poco

segnato profondamente la storia europea e nazionale:

La paura che nutro nei confronti dei giovani è che hanno una ripugnanza forte nel guardarsi

indietro, ma il passato recente è molto importante. Immagina cosa è stata la guerra nella ex-

Jugoslavia – parlo di vent’anni fa: una guerra in nome della religione. Ma la gente, lì, nei

Balcani, conviveva. È successo lì, vent’anni fa. La memoria corta: noi non abbiamo memoria,

ma non del passato più remoto. Sul fascismo sono più o meno tutti d’accordo, a parte qualche

revisionista, ma nessuno ad esempio ci racconta quali sono le colpe degli italiani in Bosnia, in

Kosovo; non ce lo raccontano. Perciò i giovani riprendono sempre tutto da capo366.

Per intensità e durata, il lavoro condotto su questi nuclei tematici sintetizza la lunga fase di

transizione che conduce il gruppo di lavoro verso una trasformazione della propria natura, prima

interamente votata alla pedagogia, in una forma ibrida tra la scuola e l’ensemble, che non vede più

separazione tra il momento dell’apprendimento e quello dell’esercizio della professione attoriale. La

Scuola Ambulante realizza così due spettacoli su commissione, che il regista definisce un

364 Progetto nato per realizzare iniziative informative e trovare aiuti umanitari per la Bosnia-Erzegovina concretizzatosi tra il 1995 e il 1997. Cfr. Ibi, p. 54.365 Cfr. Ibidem.366 Terza intervista a Simone Capula, cit.

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Page 89:  · Web viewLe stesse problematiche, addirittura in forma più evidente, si presentarono in Germania, considerando che la progettazione di un teatro popolare viene svincolata dalla

“inciampo utile”367, evidenziandone il carattere occasionale ma anche la possibilità di mettere alla

prova la preparazione degli allievi dopo un anno di lavoro:

Il lavoro dell’attore è il lavoro creativo. I rischi della pedagogia sono due: uno è

l’autoreferenzialità, cioè la possibilità che diventi un lavoro che fai su di te, un’autopedagogia

che porta ad inaridirti; l’altro è rapportarla con l’esterno solo perché fa guadagnare, il che è

altrettanto deleterio, perché se nello stesso tempo non hai in parallelo la possibilità di creare,

esaurisci gli allievi.

La pedagogia è un passaggio per l’attore, ma un attore deve fare spettacoli e incontrare lo

spettatore. Io lavoravo sugli spettacoli e davo delle linee guida, ma penso che un attore dopo un

anno di lavoro abbia tutte le capacità d’indipendenza e che con il regista abbia bisogno di altro,

di alcuni incontri dal punto di vista pedagogico e della sua presenza costante in sala. E

chiaramente, io ho bisogno dell’attore368.

J. B. La vita del teatro (2005), dedicato alla vita e al pensiero di Julian Beck e, per estensione, del

Living Theatre, rientra nel progetto Living theatre living per il ventennale dalla scomparsa del

regista, realizzato con il patrocinio del Comune di Roma e del corso DAMS dell’università di Roma

Tre, per il quale è previsto che la Scuola realizzi uno spettacolo come altri gruppi coinvolti, nonché

un laboratorio per il corso “Panorama del teatro contemporaneo” tenuto dal professore Franco

Ruffini. Se da una parte Capula afferma di non aver mai amato particolarmente il teatrante

americano e la pratica del suo gruppo, non stenta tuttavia riconoscere l’affinità con

una figura del teatro che probabilmente senza che io ne sia completamente consapevole è tra i

maggiori ispiratori del mio ultimo progetto teatrale, La Scuola Ambulante di Teatro, che proprio

nel suo essere nomade trova il suo punto di forza e il senso profondo. Il nomadismo come nel

caso del Living è una scelta di vita e di agire nel teatro standone ai margini369.

L’interesse per Beck, tuttavia, si estende anche alla sua natura di libertario370 e alle difficili

vicissitudini i coniugi dovettero affrontare per la costruzione del proprio teatro, condividendo

sostanzialmente le parole di Ruffini, che a proposito dei membri del gruppo americano parla di un

paradosso da questi incarnato, “l’anarchia disciplinata”:

367 Le parole di Simone Capula sono riportate in VONELLA, Luca, La Scuola Ambulante di Teatro: tra apprendistato e spettacolo, cit., p. 68.368 Prima intervista a Simone Capula, cit.369 CAPULA, Simone, Militare militante, cit., p. 41.370 Seconda intervista a Simone Capula, cit.

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Page 90:  · Web viewLe stesse problematiche, addirittura in forma più evidente, si presentarono in Germania, considerando che la progettazione di un teatro popolare viene svincolata dalla

Essi erano contestatari, a favore della liberazione del corpo dalle forme di costrizione della

società, erano sì per la libertà sessuale e di costume, ma non bisogna dimenticare la profonda

rettitudine che vi era all’interno di un simile modo di pensare e di agire. Alla fantasia, alla

creatività in teatro […] si arriva attraverso un tunnel grigio e lungo, per arrivare a vedere, forse,

un po’ di luce fioca371.

Il regista propone come principali materiali di lavoro per gli Ambulanti e gli studenti universitari, i

ricordi diaristici dei coniugi contenuti in La vita del teatro. L’artista e la lotta del popolo372, la

visione dei film documentario L’Utopia del Teatro Vivente373 e di Zero in condotta374, l’ascolto,

nella fase del lavoro che prevede la costruzione di azioni fisiche, di pezzi di musica jazz di Charles

Mingus, John Coltrane, Chet Baker e Charlie Haden, che questi vi associa, riprendendo uno studio

cui la Scuola fu avviata dal Teatro dei Sassi di Matera375 e facendone l’ambientazione sonora dello

spettacolo376.

Della prima versione dello spettacolo (che vede in scena anche Enrico D’Amario, studente dello

SPAMS che diventa membro della Scuola, in qualità di allievo-attore e di musicista, fino al 2006),

Many loves. A rock dream for Julian Beck (2006)377 è la rielaborazione ultima, che fa della figura

del teatrante un filtro per tematizzare la pena di morte, snodo problematico della giustizia

americana: nello spazio scenico, gli unici riferimenti evidenti a Julian Beck sono i suoi grandi

ritratti fotografici che campeggiano sulla parete di fondo, ripetuti e colorati nello stile delle

serigrafie di Andy Warhol. Gli oggetti di scena si riducono a una chitarra, che un attore (Michele

Muradore) suona e manovra come fosse un mitra; dei vestiti che gli attori, seduti tra il pubblico,

indossano, svestendosi e rivestendosi in scena; una sedia e dei libri, pronti per essere sfogliati, letti,

utilizzati nel corso dello spettacolo. L’azione di un’attrice (Lorenza Ludovico) che porta un fiore e

accende candele e incensi introduce subito in un’atmosfera cupa, cimiteriale, lontana dagli anni

floridi e spensierati del boom economico, per focalizzare l’attenzione sul risvolto più cruento della

concomitante guerra in Vietnam, richiamata anche dalla lettura di alcuni passi del Manuale dei

Marines, evidente citazione di The Brig (v. supra, par. 4.1, cap. 1). Deposte pistole e divise,

l’ultima scena vede gli attori confondersi in mezzo agli spettatori, ai quali si avvicinano sussurrando

371 Le parole di Franco Ruffini sono riportate in VONELLA, Luca, La Scuola Ambulante di Teatro: tra apprendistato e spettacolo, cit., p. 70.372 BECK, Julian, The life of the theatre, cit., tr. it. La vita del teatro, cit.373 Prima puntata di Cinque sensi del teatro. Cinque trasmissioni monografiche sulla filosofia del teatro, a cura di Mario Raimondo, Centro per la Sperimentazione e la Ricerca di Pontedera, RAI Radio Televisione Italiana - Sede Regionale della Lombardia, Dipartimento Scuola Educazione, 1992.374 Zero in condotta (Zéro de conduite. Jeunes diables au collège), regia di Jean Vigo, Franfilmdis, Francia, 1933.375 Cfr. VONELLA, Luca, La Scuola Ambulante di Teatro: tra apprendistato e spettacolo, cit., pp. 74-80.376 Cfr. Ibi, p. 70.377 Claudia Musitelli ha già abbandonato il gruppo.

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alcuni versi dell’Antigone sofoclea e le parole che Malina pronunciò per la scomparsa del suo

compagno378.

Nonostante lo spettacolo non fosse nato da una proposta del regista, Capula vi trova e incanala

un’esigenza personale379, affrontando criticamente gli anni della contestazione statunitense:

gli americani hanno trasformato la rivolta in business; l’industria della cultura giovanile ha

ucciso la spinta rivoluzionaria della rivolta, trasformandola in prodotti da vendere, vestiti,

dischi, libri ecc., una vera industria di cultura underground, quindi non più rivoluzionaria.

Hanno dato valore al livello estetico degli eventi e non al contenuto, come invece è avvenuto in

Europa e in particolare in Italia dove nacque la lotta armata, per la quale, in modo anche

discutibile, la loro azione era una continuazione della Resistenza380.

I frammenti di testo che costruiscono la drammaturgia dello spettacolo vedono già l’innesto della

vita e delle opere di Pasolini, di cui, tra l’altro si ricorda la collaborazione con Julian Beck, che

interpretò la parte di Tiresia nel suo Edipo re381. Anche il successivo Pier Paolo. Uno spettacolino

edificante (2006), realizzato per la commemorazione della morte di Pasolini, a trent’anni di

distanza, diventa un’occasione per discutere del controverso periodo sessantottino, questa volta da

una prospettiva nazionale, assumendo le riflessioni che Pasolini stesso formulò in quegli anni

tumultuosi.

Pasolini è un personaggio per me importante perché è un “personaggio etico”, condivido il suo

pensiero sull’omologazione della società moderna – omologazione = nuovo fascismo. Pasolini

per me è un riferimento per le sue acute analisi politiche, in particolare le analisi sul ‘68, di

come la borghesia cercasse di impossessarsi e quindi di “sminuire” la portata rivoluzionaria del

momento storico, momento che io reputo fra i più importanti del Novecento. Mi indispone il

fatto che si cerchi di sminuirlo in una ribellione giovanile: è stato un momento rivoluzionario,

anche con la sua evoluzione violenta (brigatismo), come succede in tutti i tentativi rivoluzionari:

non si possono fare le rivoluzioni lanciando cioccolatini, si fanno sparando e con la violenza.

Poi si può criticare, non condividere, ma dal ‘68 fino agli anni Ottanta inoltrati in Italia ci sono

stati tentativi rivoluzionari – falliti, ma ci sono stati382.

378 Cfr. DI BALDI, Natascia, «La Scuola Ambulante di Simone Capula». Many loves – a rock dream for Julian Beck, in «InScena», 4, 2005, pp. 40-43.379 Cfr. Prima intervista a Simone Capula, cit.380 Seconda intervista a Simone Capula, cit.381 Edipo re, regia di Pier Paolo Pasolini, Arco film, Italia-Marocco, 1967.382 Seconda intervista a Simone Capula, cit.

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A differenza di Many loves e di qualsiasi altra messa in scena del regista, questo spettacolo si

presenta agli attori con una drammaturgia quasi del tutto strutturata da Capula, in occasione del

lavoro svolto sulla dimostrazione-spettacolo Quartiere. Racconto lirico in memoria di Pasolini di

Sottotracciateatro, gruppo amatoriale interno al circolo ARCI Murales di Fondi (LT), e il tempo a

disposizione della Scuola per la preparazione in sala è limitata a soli venti giorni. Per questi motivi,

il regista decide che le entrate provenienti dalle repliche dello spettacolo verranno equamente divise

tra tutti i componenti della Scuola, per i quali costituisce il primo guadagno economico derivante

da un’attività teatrale383.

Rispetto allo spettacolo precedente, Capula annuncia che in Pier Paolo non sarà più centrale la

figura di Pasolini, bensì i collegamenti che da questa scaturiscono: innanzitutto la riflessione sul

Sessantotto, data cruciale per la storia della cultura e del costume, nella quale «i giovani presero

importanza, ma allo stesso tempo diventarono puri consumatori di cultura, si è creato il mercato

della “cultura giovanile”»384, di cui Pasolini colse i segnali «con la sua […] maleducata poesia

dedicata ai contestatari»385, riferendosi qui ai versi di Il PCI ai giovani!386, che quando furono

pubblicati, nel 1968, scatenarono dure repliche tra gli studenti. Oltre a questo testo, gli Ambulanti

dovranno studiare in particolare altre poesie pasoliniane, la canzone Confessioni di un malandrino

di Branduardi387, che verrà riproposta in una delle scene iniziali (Lorenza Ludovico alla voce,

Enrico D’Amario alla chitarra) e una scena dal film Querelle de Brest di Rainer Fassbinder388, che

in scena ripropone il duello filmico in una danza lenta e calibrata (Luca Vonella e Michele

Muradore). Ulteriore novità introdotta da questa produzione è l’attribuzione di un personaggio ad

ogni allievo, ognuno afferente la vita di Pasolini o le figure delle sue opere. Nella rappresentazione

diventa centrale la ripresa di alcune parti del Manifesto per un nuovo teatro389 che introduce allo

svolgimento vero e proprio dello spettacolo, rimontato in un discorso-proclama che D’Amario, il

“ragazzo di vita”, recita frontalmente con un tono altezzoso che vela il momento di ironia390.

Le condizioni di lavoro per la preparazione di questi due spettacoli (tempi ridotti, tanti materiali

eterogenei, concomitante conduzione di attività di laboratorio) mettono alla prova la flessibilità

degli allievi-attori e la loro capacità di trovare il giusto equilibrio tra concentrazione su di sé e

apertura a contesti esterni: in questa ottica la realizzazione dello spettacolo diventa esperienza

383 Ibidem.384 VONELLA, Luca, La Scuola Ambulante di Teatro: tra apprendistato e spettacolo, cit., p. 88.385 Ibidem.386 PASOLINI, Pier Paolo, Il PCI ai giovani!, in «L’Espresso», 16 giugno 1968.387 Angelo Branduardi, Confessioni di un malandrino, in La luna, RCA, 1975.388 Querelle de Brest, regia di Rainer Fassbinder, Tango film, Germania Ovest-Francia, 1982.389 PASOLINI, Pier Paolo, Manifesto per un nuovo teatro, in «Nuovi argomenti», n. 9, gennaio-marzo 1968.390 Per ulteriori approfondimenti, cfr. VONELLA, Luca, La Scuola Ambulante di Teatro: tra apprendistato e spettacolo, cit., pp. 87-91.

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Page 93:  · Web viewLe stesse problematiche, addirittura in forma più evidente, si presentarono in Germania, considerando che la progettazione di un teatro popolare viene svincolata dalla

formativa, in rapporto alla precarietà della professione teatrale condotta in contesti marginali, non

sempre adeguatamente forniti di tutto ciò di cui necessita l’attore.

Pier Paolo, spettacolo «non risolto»391 a detta del regista, muore dopo la rappresentazione presso il

teatro Fără Nume di Ostia (RM), situato proprio vicino al luogo nel quale venne rinvenuto il corpo

dell’artista, mentre Many loves è al centro di due piccole tournée che la Scuola Ambulante di Teatro

realizza in alcuni centri sociali di Roma (Acrobax Project, Torre Maura Occupata, Laurentino

Occupato-L38 Squat, Corto Circuito, Spartaco, Ex-Lavanderia), non di rado seguendo anche

seminari sull’incrocio tra lo Zio Vanja di Čechov e il contesto della guerra balcanica.

Un esempio di modalità d’azione degli Ambulanti in questi centri autogestiti è il laboratorio

condotto, nel 2006, nell’Acrobax Project, la cui sede, un ex cinodromo, diventa essa stessa oggetto

di una rielaborazione drammaturgica dello spazio, dislocando nei suoi spazi aperti le varie scene

della dimostrazione-spettacolo finale, solitamente preceduta da una cena, con la quale contribuire

alla raccolta di denaro per il pagamento del lavoro laboratoriale, e seguita da una festa aperta al

pubblico392. Incaricato dalla professoressa Schino di redigere una relazione dettagliata delle

esperienze vissute in questo circuito alternativo, Vonella conclude:

Credo che si capisca da questi resoconti che in questo viaggio nei centri sociali abbiamo

incontrato spesso molte difficoltà e poca sobrietà. Forse poco rispetto. Soprattutto nel secondo

giro, spesso mi accorgevo che eravamo stati invitati senza un vero interesse. Forse avremmo

potuto prevedere queste difficoltà. Ma forse fare teatro nei centri sociali può servire a fare in

modo che queste due realtà si conoscano meglio. Secondo me ne vale la pena. Da quel che ho

visto ci sono tuttora incomprensioni e pregiudizi. Reciproci.

Andando via dall’ultima riunione al Laurentino 38 ho avuto diverse sensazioni. Ne ero rimasto

quasi affascinato, ma allo stesso tempo mi sembrava del tutto inutile. In effetti da un certo punto

di vista sembra folle pensare a venti ragazzi che per tre ore discutono su come trasmettere alla

gente del quartiere del Laurentino, che ha già veramente molti problemi di suo, la solidarietà per

gli anarchici di Copenaghen. E poi su come organizzarsi per mettere a posto lo stipite di una

porta. In quanti avrebbero letto i loro manifesti, e in quanti se ne saranno interessati? Credo però

che quel “lavorare assieme”, quel “perdere tempo assieme” sia una delle motivazioni che mi

spingono a fare teatro e lo sento come il punto in comune che la Scuola Ambulante ha con loro.

Uno solo, ma secondo me non da poco. […] Quando li ascoltavo organizzarsi per i manifesti mi

domandavo “per chi tutto questo?”. Per chi lo fa e per quei pochi che lo vedono. Come il

Laurentino del resto: non è molta la gente che lo frequenta, ma per quei pochi è essenziale. Poi

391 Seconda intervista a Simone Capula, cit.392 Cfr. VONELLA, Luca, Tour romano nei Centri Sociali. Lettera, in «Teatro e Storia», XX (2006-2007), n. 27, pp. 113-117, ID., Seconda lettera sui Centri Sociali, in «Teatro e Storia», XXI (2008), n. 28, pp. 129-144.

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Page 94:  · Web viewLe stesse problematiche, addirittura in forma più evidente, si presentarono in Germania, considerando che la progettazione di un teatro popolare viene svincolata dalla

mi è venuta in mente un’altra risposta, pensando ad una frase che dice spesso Simone, e che a

lui diceva il suo maestro: “È per gli dèi”393.

Come anticipato appena sopra, il lavoro sullo Zio Vanja ‘rivisitato’ si modifica seguendo la

geografia tracciata dalla Scuola, che affronta le tematiche di base in laboratori diversi: ad ogni

tappa, infatti, corrisponde una nuova versione dello spettacolo, tanto da modificarsi anche nel titolo,

perché alle elaborazioni degli Ambulanti unisce e integra il contributo dei partecipanti394.

L’epicentro del lavoro, tuttavia, risiede nel percorso rivolto agli studenti aquilani; a fronte di un solo

anno di lavoro programmato, il seminario viene ripreso per tre anni, più o meno coincidendo con la

durata stessa della Scuola, dando tre risultati differenti: il primo anno si assiste a un saggio di

carattere prevalentemente buffonesco, sapore che va edulcorandosi nel secondo, per approdare, nel

2007, a Zio Vanja sui Balcani. Scene di vita dagli assedi395: uno spettacolo vero e proprio, «molto

verde, ancora chiuso. Ma indiscutibilmente uno spettacolo»396.

Presentata alla prima edizione (2007) del Festival Internazionale di Teatro, Musica e Danza Il

centro e la circonferenza397, nella versione definitiva dello spettacolo riaffiorano i segni disseminati

nei lavori temporanei e provvisori del passato. «La situazione è semplice. Viene spiegata fin

dall’inizio: si tratta di un gruppo di giovani attori della Bosnia in guerra che decide di mettere in

scena Zio Vanja. E dopo averlo deciso, riesce persino a farlo»398: il meccanismo drammaturgico del

“teatro nel teatro” (peraltro, presente in quasi tutti gli spettacoli prodotti con la Scuola e in quelli

successivi, solitamente con la presentazione degli attori stessi, sulla scena, in quanto tali; qui esso è

triplicato nei suoi effetti, considerando che in scena troviamo i quattro allievi della Scuola e otto

studenti dello SPAMS399) permette di vivere lo spettacolo per continue associazioni che procedono

per contrasto e simultaneamente: il tempo di pace e il tempo di guerra, le atmosfere claustrofobiche

create da Čechov e gli scenari dell’assedio balcanico, le composizioni rarefatte di Debussy con il

punk-rock esplosivo dei CCCP e dei CSI. Si può cogliere, nei giovani bosniaci, anche il tentativo di

ricreare una situazione di normalità attraverso l’attività teatrale, come ebbe modo di testimoniare,

nei territori devastati dagli attacchi, la messinscena di Aspettando Godot diretta da Susan Sontag400;

dalla normalità omologante invece rifuggono quei giovani che si avvicinano al teatro, per saggiarne

393 VONELLA, Luca, Seconda lettera sui Centri Sociali, cit., p. 144.394 Cfr. TIBERIO, Noemi, La Scuola Ambulante di Teatro: pedagogia teatrale, cit.395 La Scuola perde altri due membri, Francesca Cadeo ed Enrico D’Amario, mentre vede l’entrata di Simone Morosi, studente aquilano con esperienze precedenti nel teatro di strada.396 SCHINO, Mirella, Zio Vanja, dalla scheda dello spettacolo.397 Ideato e organizzato dal Teatro Tascabile di Bergamo. Si rimanda al sito www.centrocirconferenza.org.398 SCHINO, Mirella, Zio Vanja, cit.399 Cfr. Teatrografia.400 Per un approfondimento sullo spettacolo Waiting for Godot che la Sontag realizzò con persone dei luoghi sotto assedio, v. SONTAG, Susan, Waiting for Godot in Sarajevo, in «Performing Arts Journal», XVI (maggio 1994), n. 2, pp. 87-106.

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Page 95:  · Web viewLe stesse problematiche, addirittura in forma più evidente, si presentarono in Germania, considerando che la progettazione di un teatro popolare viene svincolata dalla

il processo e provare a farne parte. Gli spettatori posso assistere allo spettacolo comodamente

seduti, arrivando però ai loro posti camminando su un asse che attraversa la scena, un cimitero in

miniatura ricreato con file di piccole croci e lapidi, che gli attori scavalcano per tutto lo spettacolo. I

frammenti dell’opera di Čechov, rimontati in testo drammaturgico con la collaborazione della

studentessa Rosalba De Amicis, si calano in scene e azioni che richiamano odio, violenza e morte,

esaltandosi vicendevolmente per l’assurdità dell’accostamento. Le uniche parole che ricongiungono

lo spazio-tempo scisso tra pace e guerra, tra finzione e realtà, sono quelle con cui lo scrittore russo

chiuse Zio Vanja: «Riposeremo. Riposeremo. Sentiremo gli angeli. La nostra vita diventerà quieta e

serena». Se nel testo di Čechov queste parole delineano paesaggi desolati, proiettati verso un futuro

vacuo e sconsolato, nel contesto dei Balcani si levano come un canto di preghiera e speranza401.

Lo spettacolo del 2007, per il numero di persone che deve mobilitare, non farà più repliche, ma il

tema della morte persiste nella produzione successiva, questa volta legato agli affetti personali, in

stretta connessione con le vicende umane del regista, che in questi tre anni assiste alla morte di un

componente della sua famiglia e di Renzo Vescovi. Sonata a Chagall. Spettacolo realista carico di

sogni (2007) trasfigura questo vissuto e questa tematica in «una favola in movimento»402,

nell’esplosione di colore dei quadri di Chagall, di cui sono mostrate delle immagini e ricreate delle

pose allusive in scena, e nelle storie comiche tratte dalla cultura ebraica403. Questo spettacolo è

creato e diretto principalmente a bambini e ragazzi in età scolare, scoprendo così un nuovo pubblico

e una nuova possibilità di circuitazione, che il regista affronta secondo un atteggiamento radicato,

sia sul versante della costruzione teatrale, sia su quello relativo all’aspetto economico:

Nelle scuole devi pensare a un progetto pedagogico ben preciso, non puoi pensare di fare gli

spettacoli solo per guadagnare. No, non è onesto. Noi abbiamo fatto tre spettacoli per bambini

preparandoli come quelli per adulti, per noi era un momento di sperimentazione come tutti gli

altri.

Io faccio un tipo di teatro che ha bisogno di un numero ridotto di spettatori. Se stipo 500

bambini in un teatro, che pagano 5 euro per replica, faccio 2500 euro in una mattinata; per

guadagnare 2500 euro con i guadagni dei nostri spettacoli, dovevamo fare 10 repliche, perché

noi volevamo 25 persone per volta. Se io ho come mia ricerca artistica un lavoro sullo spazio,

sull’azione dell’attore, devono esserci anche negli spettacoli proposti ai bambini. Invece ho

visto troppa gente prescindere da questo. Questo è fondamentale: per noi non c’è stata

differenza, pensavamo che i bambini dovessero pagare ed era pedagogicamente ricco il fatto che

sapessero che pagavano perché quelle persone vivevano di quei guadagni, che non è dovuto

401 Cfr. SCHINO, Mirella, Zio Vanja, cit.402 Seconda intervista a Simone Capula, cit.403 Cfr. Ibidem.

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Page 96:  · Web viewLe stesse problematiche, addirittura in forma più evidente, si presentarono in Germania, considerando che la progettazione di un teatro popolare viene svincolata dalla

niente gratuitamente. Devi avere una politica di prezzi per cui sai che ti permette di non tagliare

fuori nessuno, in particolare nella scuola. Nella scuola si sa benissimo chi ha bisogno di soldi,

perciò tu, teatrante, fai come fanno tutti gli altri, non vai a gravare – ad esempio, puoi spalmare

il costo del biglietto su tutti gli altri bambini. Non bisogna far finta di vivere in una democrazia

fasulla. Esistono i poveri, allora troviamo il modo di non tagliarli fuori, ma non con

l’assistenzialismo, perché significherebbe di nuovo esercitare un potere politico becero, per cui

attiri il consenso di chi è svantaggiato: è una forma di dipendenza. Tu invece devi insegnare

l’indipendenza a queste persone, la libertà404.

Gli altri due spettacoli cui Capula fa riferimento in questo passo sono Ballata. Per uno spettatore-

visitatore curioso (2008) e Miracolo a Venezia – ovvero Le Quattro Stagioni (2011)405, che con il

lavoro su Chagall costituiscono una trilogia di spettacoli dedicati principalmente alla fruizione degli

spettatori più piccoli406, in una prospettiva che valorizza la funzione formativa del teatro nelle

scuole, dove a condurre progetti siano attori con una buona esperienza pregressa407. Questi ultimi

due spettacoli, tuttavia, appartengono a un periodo successivo, in cui la Scuola non esiste più.

Da una parte, la convinzione che il teatro nelle scuole possa essere un supporto all’insegnamento;

dall’altra, i cambiamenti in atto nella Scuola Ambulante di Teatro. Molte sono le cause che

innescano nella formazione una fase di transizione: la conclusione della collaborazione con le

università, in particolare quella di L’Aquila, che non ha più finanziamenti per supportare le attività

pratiche; l’assegnazione di una sede all’interno del Campus delle Associazioni (ex cantiere TAV)

nella Località Baraggino di Chivasso, per mezzo di un bando di concorso comunale cui Capula

partecipa; ma soprattutto, il regista e alcuni attori sentono crescere «una volontà di diventare

indipendenti»408. In altri termini, si potrebbe dire che il mancato rinnovamento dei finanziamenti da

parte delle istituzioni universitarie e la maturazione della formazione degli allievi-amatori in attori,

con una quotidianità di lavoro e un’esperienza sulle scene radicate in quattro anni di apprendistato,

spingono Capula alla ricerca di una sede per formare un gruppo teatrale professionistico, per il

quale i primi sostegni economici sono ottenuti tramite la Mag.

Il trasferimento nella provincia torinese viene accettato solo da Lorenza Ludovico e Luca Vonella,

mentre Cristina Ricchiuti non segue il nuovo progetto per incomprensioni con altri componenti,

peraltro condivise tra gli stessi allievi e tra alcuni allievi e il regista, nonché per l’incapacità di

rinnovare la sua figura professionale: l’obiettivo sotteso alla costituzione del Teatro a Canone è 404 Terza intervista a Simone Capula, cit.405 Per ulteriori approfondimenti sui due spettacoli, v. Seconda intervista a Simone Capula, cit., e Intervista a Lorenza Ludovico, cit.406 Per ulteriori approfondimenti sul teatro per bambini e la fruizione di questi ultimi, v. GAGLIARDI, Mafra, Nella bocca dell’immaginazione. La scena teatrale e lo spettatore bambino, Titivillus, Corazzano (Pisa), 2007.407 Cfr. Terza intervista a Simone Capula, cit.408 Seconda intervista a Simone Capula, cit.

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Page 97:  · Web viewLe stesse problematiche, addirittura in forma più evidente, si presentarono in Germania, considerando che la progettazione di un teatro popolare viene svincolata dalla

infatti quello di proporsi come «un microrganismo alternativo ma non antagonista»409 rispetto al

contesto sociopolitico e al sistema teatrale attuali.

409 Prima intervista a Simone Capula, cit.97

Page 98:  · Web viewLe stesse problematiche, addirittura in forma più evidente, si presentarono in Germania, considerando che la progettazione di un teatro popolare viene svincolata dalla

CAPITOLO 3 – TEATRO A CANONE

1. Teatro a Canone tra autogestione ed (extra)territorialità

Teatro a Canone è un nome dai molteplici significati. Ispirato principalmente al Canone di

Pachelbel, che aveva accompagnato costantemente il training e alcuni spettacoli della Scuola

Ambulante, esso richiama il procedimento di composizione musicale “a canone”, strutturato sulla

presenza di una linea melodica, detta ‘antecedente’, susseguita da una serie di variazioni, dette

‘conseguenti’; esso si riferisce anche alla coreografia in cui due danzatori ripetono gli stessi passi

ma, in relazione alla musica, trasposti in una o più battute410. L’espressione “a Canone” ribadisce la

passione di Capula per la qualità teatrale della musica e la confidenza con essa che Lorenza

Ludovico e Luca Vonella hanno allenato e affinato negli anni di apprendistato.

Questa piccola realtà teatrale, fondata nel luglio 2008 nel paese di Chivasso, mantiene una

sostanziale continuità con il progetto teatrale collaudato nei quattro anni precedenti, per la presenza

costante dei tre componenti e per la conseguente condivisione di una quotidianità di vita e di lavoro

che ha rafforzato la loro coesione intorno a valori comuni. Al riguardo, le dichiarazioni di Lorenza

Ludovico sono piuttosto chiare:

Quello che è successo dall’inizio della Scuola è semplicemente, almeno per me, un processo di

crescita personale e di conoscenza teatrale e culturale in tempi e spazi vari, in coincidenze

fortuite, ma cha ha sempre potuto contare sulla presenza di un’etica del gruppo; anche se si

trattava di maestro (con esperienza già alle spalle) e allievi alle prime armi… il gruppo c’era

già. […] La Scuola sarebbe dovuta durare un anno, siamo stati insieme quattro anni. Lo dico

perché questo periodo prolungato, le persone che sono entrate e quelle che sono andate via, le

discussioni e le pratiche attuate, tutto quello che Simone ci ha permesso di sperimentare, hanno

creato una memoria comune e hanno stimolato un certo modo di vedere le cose, il teatro e il

lavoro411.

In particolare, l’esperienza nomade e indipendente della precedente formazione modella lo spirito

della nuova, nonostante l’acquisizione, tramite bando di concorso pubblico, di una sede fissa di

lavoro. La condizione dei componenti, d’altronde, è quella di tre sradicati: Lorenza Ludovico è

410 Da una relazione inedita di Luca Vonella, gentilmente concessa all’autrice.411 Intervista a Lorenza Ludovico, cit., corsivi miei.

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Page 99:  · Web viewLe stesse problematiche, addirittura in forma più evidente, si presentarono in Germania, considerando che la progettazione di un teatro popolare viene svincolata dalla

aquilana, Luca Vonella è nato e cresciuto a Roma e il regista, originario di Chivasso, è lontano dal

paese d’origine da tempo.

Nei primi tempi non ci scontravamo con nessuno perché non sapevamo nulla di questa realtà e

questo, in alcuni casi, può portare all’autodistruzione. Non ho una certezza su questo; certo

radicarsi è più complesso dal punto di vista della produzione, perché c’è l’ulteriore problema di

avere “i vestiti buoni” per presentarsi sul territorio412.

L’occasione per una presentazione pubblica alla cittadinanza chivassese è data dall’iniziativa

culturale Alberi (7, 8 e 10 dicembre 2008), ideata e realizzata in collaborazione con Matteo

Bagnasacco, Andrea Demarchi e Marco Galati, ovvero l’associazione Fiat Lux (v. supra, n. 80, par.

4, cap. 2), per l’inaugurazione ufficiale della sede. L’apertura è affidata a Franco Fornasari,

cantautore piacentino e amico di Capula, che propone un concerto di musiche blues e ballate,

inframmezzate dalla lettura di poesie di Gandhi, Dolci, Tagore, Gualtieri ed Eluard; il secondo

giorno è dedicato alla lettura integrale di Lettera a una professoressa413, per creare la possibilità di

«far scaturire una riflessione sul panorama culturale sociale ed educativo del nostro Paese»414; in

chiusura, lo spettacolo di lettura Provincia Power 2: il ritorno, scritto e portato in scena da

Bagnasacco e Demarchi, costruito su racconti di piccole storie di vita dei borghi di provincia415.

La riflessione di Capula rispetto alla questione della territorialità, inizialmente positiva416, diventa

via via sempre più critica:

Penso che la permanenza fissa in un posto, la territorialità tanto sbandierata dai gruppi, sia la

morte della ricerca, perché entri in dinamiche competitive con le altre realtà locali. Certo, poi

dipende se radicarsi sul territorio si fa in attesa di avere il teatro grande, di andare a gestire il

teatro comunale, oppure se è veramente una scelta di vita. Però credo che la territorialità porti ai

particolarismi, perciò ti ammazza.

Questo è il grande problema. In questa fase storica, la territorialità è deleteria, perché non ci

sono i soldi per sostenerla417.

Sin dall’inizio, ciò che interessa al piccolo gruppo è consolidare la propria identità di formazione

indipendente sul piano economico ed organizzativo, in quanto premessa indispensabile per

412 Prima intervista a Simone Capula, cit.413 SCUOLA DI BARBIANA, Lettera a una professoressa, Libreria Editrice Fiorentina, Firenze, 1967.414 Fornasari e Don Milani danno vita ad «Alberi», in «La Nuova Periferia», 10 dicembre 2008.415 Cfr. Ibidem.416 Cfr. Prima intervista a Simone Capula, cit.417 Ibidem.

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Page 100:  · Web viewLe stesse problematiche, addirittura in forma più evidente, si presentarono in Germania, considerando che la progettazione di un teatro popolare viene svincolata dalla

l’autonomia artistica. Se la Scuola trova nell’esperienza del regista il terreno fertile per la nascita di

una cultura di gruppo, la cui manifestazione più evidente era il nomadismo, vissuto dagli allievi-

amatori come la possibilità di condurre un apprendistato insolito, dislocato in luoghi non

istituzionali e spesso non teatrali, la scelta del professionismo testimonia la volontà di condividere

fino in fondo un progetto di vita e di lavoro, comprendendone i principi motori. Non senza

difficoltà, come racconta Lorenza Ludovico, che definisce il lavoro del suo gruppo sotto il segno di

una “precarietà ricercata”,

l'esigenza di essere coerenti. Con il Teatro a Canone ho capito sempre più questo bisogno…

anche se ho fatto i conti con i miei di limiti e ho dovuto ammettere come questa ricerca difficile

diventi a volte insostenibile. Simone me l’ha mostrata con il suo lavoro, con la creazione di una

realtà concreta e indipendente che ha spesso, nella mia testa, più similitudini con una comunità

che con una compagnia di teatro (intendo quelle istituzionali e finanziate). Alla base c'è la

ricerca della libertà…

Fondamentalmente c'è una precarietà ricercata nel fatto che ci sia una scelta precisa, quella di

organizzare il lavoro in progetti specifici e a tempo… questo ci mette sempre ‘in ballo’... finito

uno subito si deve partire con un nuovo… non si può mai stare fermi e poi facendo un certo tipo

di ricerche, parlando di certe cose è difficile che qualcuno finanzi il tuo lavoro quindi devi

metterti in gioco e costruirti ogni giorno la possibilità di poter finanziare il tuo lavoro418.

La salvaguardia dell’indipendenza artistica ed economica porta il Teatro a Canone a «cogliere le

occasioni che si presenta[va]no senza tener troppo conto delle strategie di mercato»419,

sperimentando nuove modalità di produzione legate all’autogestione e all’autofinanziamento delle

attività, riqualificando così le stesse competenze dei membri del gruppo420 per

tentare di mettere in atto pratiche culturali e dinamiche organizzative che viaggino su binari

diversi da quelli della crescita economica, che riconducono ogni cosa irreversibilmente verso

l’aumento del PIL. […] Ma la cultura, il teatro non devono produrre PIL. Possono fare molto,

molto di più421.

418 Intervista a Lorenza Ludovico, cit.419 Prima intervista a Simone Capula420 In particolare, Vonella si occupa della promozione e della distribuzione di attività e spettacoli, mentre Ludovico si occupa della contabilità: «Entrare nel Teatro a Canone significava anche rivedere i nostri ruoli, nella Scuola non avevamo grandi responsabilità, di tutto si occupava Simone con Cristina [Ricchiuti], l’organizzatrice. Ora tutto doveva essere diviso tra Luca, Simone e me. Così si impara a fare un po’ di tutto e non solo a fare training o a creare gli spettacoli». Ibidem.421 VONELLA, Luca, Lettera da un teatro che chiude, prima versione inedita di Da un teatro che chiude, in «Teatro e Storia», XXV (2011), n. 3 (nuova serie), pp. 23-38, gentilmente concessa all’autrice.

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Page 101:  · Web viewLe stesse problematiche, addirittura in forma più evidente, si presentarono in Germania, considerando che la progettazione di un teatro popolare viene svincolata dalla

Realizzando spettacoli, cui spesso seguono delle cene preparate dai tre componenti, e svolgendo

attività pedagogiche, il Teatro a Canone compie la scelta di non avvalersi di finanziamenti pubblici

e di prestiti erogati dalle banche in relazione a una ricognizione della propria identità nella società

del teatro e, più in generale, nella realtà sociopolitica attuale. In particolare, Capula non condivide

le rivendicazioni avanzate da molti teatranti per spronare le istituzioni a sostenere economicamente

la loro attività: «Pensare che la mia ricerca sia così importante che posso, devo fare una lotta

sindacale per avere un finanziamento pubblico, è di una presunzione mostruosa»422. Senza negare

l’indubbio beneficio che scaturirebbe da un sostegno statale volto alla concessione di spazi per lo

svolgimento del lavoro e di agevolazioni fiscali, il regista, al contrario, lo auspicherebbe, sempre

che non convergano solo ed esclusivamente ai teatri stabili; tuttavia, egli esclude preliminarmente

l’ipotesi perché, sostiene, «la crisi del teatro, adesso, non credo sia una crisi circoscritta, ma una

crisi di sistema»423, coinvolgendo un’intera società che, di conseguenza, non pensa «possa farsi

carico dei costi dei gruppi»424. Allo stesso modo, Capula rivolge un invito alle persone che al Teatro

a Canone si avvicinano, precisando che

il fatto di venire a teatro e pagare il biglietto è un grande aiuto al mantenimento della cultura

libera, indipendente, autoprodotta. Il lavoro come il nostro non potrà mai avere finanziamenti da

parte delle istituzioni sia che siano amministrate da politici di destra che di sinistra; ai politici di

questi anni non piacciono le voci fuori dal coro e che pensano, magari sbagliando, con la loro

testa. Anche in questo modo si salvaguarda l'indipendenza delle produzioni culturali, per il

teatro ma non solo425.

Il contributo politico dell’attività teatrale e culturale nell’età contemporanea, allora, non consiste

nell’antagonismo a un sistema economico e politico inevitabilmente più pervasivo e potente di

quelle microsocietà che le forme di associazionismo culturale creano, poiché rischia di rafforzare

quel sistema che si vorrebbe corrodere, finendone assorbiti e subordinati, oppure cessando

totalmente di esistere426.

Quella che Capula definisce «la creazione di un microrganismo alternativo»427 non è altro che il

tentativo di progettare e proporre una pratica di lavoro e di vita reale, appunto, alternativa; né

complementare né complice del sistema osteggiato, bensì una condotta altra, che a sua volta

definisce un nucleo di cultura attiva radicato nella società, ma alla ricerca di realtà simili alla

422 Prima intervista a Simone Capula, cit.423 Ibidem.424 Ibidem.425 DUTTO, Frediano, Capula racconta il ’68 e la nascita delle Brigate Rosse, in «La Gazzetta», 1 settembre 2009.426 Terza intervista a Simone Capula, cit.427 Prima intervista a Simone Capula, cit.

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Page 102:  · Web viewLe stesse problematiche, addirittura in forma più evidente, si presentarono in Germania, considerando che la progettazione di un teatro popolare viene svincolata dalla

propria. La prospettiva utopica sottesa a questa operazione è quella di concorrere a formare un

ambiente culturale «ecosolidale»428, le cui cellule interne non siano solo le formazioni teatrali, ma

da tutte le forme di artigianato, tra le quali Capula inserisce l’attività di Teatro a Canone429, che

possano trovare l’una nell’altra la forza di allontanare da sé le logiche meramente commerciali e

consumistiche.

In questo momento, il teatro deve prendere di nuovo coscienza che è l’unica forma artigianale e

artistica che ha un rapporto diretto artista-spettatore e perciò ha un effetto devastante in questa

società, in cui c’è la sistematica eliminazione della felicità. Il teatro è una delle poche forme che

permette di raccontare delle cose e il potere in quel momento non ti controlla: sei lì. Allora non

puoi farlo in posti finanziati: devi crearti degli spazi ‘liberati’430.

Questa riflessione è conseguente a un progressivo distanziamento dalla strategia organizzativa che

consiste nel «fare rete»431, espressione con la quale Capula indica polemicamente lo scambio di

produzioni interno e autoreferenziale di alcuni teatri che, in virtù di sovvenzioni esterne, possono

praticare attività diversificate che tuttavia hanno una circuitazione perlopiù in istituzioni o luoghi

teatrali. Dall’altra parte, però, il regista riconosce il pericolo costante di trasformare questo

approccio alla professione, fondato sulla consapevolezza di essere minoritario e, come tale, di poter

agire in modo efficace su un gruppo ristretto di persone, in una soffocante ideologia, che

inevitabilmente confonde la ‘separatezza’ con l’isolamento.

Un rischio avvertito anche da Vonella e Ludovico, che nella casetta B11 del Campus delle

Associazioni di Chivasso continuano a condurre il lavoro sul training e sulla costruzione di

spettacoli, affiancando saltuarie conduzioni di laboratori per esterni, rivolgendosi soprattutto a

realtà esterne al paese, come ricorda Ludovico:

anche stazionando a Chivasso non siamo mai stati tanto sedentari... infatti abbiamo continuato a

lavorare per lo più fuori dal Piemonte e non abbiamo ricercato, se non nella parte finale, una

relazione con la realtà chivassese.

Non so se questa sia stata una debolezza o una forza... forse è stata a periodi entrambe le cose432.

428 Ibidem.429 Cfr. Ibidem e Un’intervista per Amleto, 28 novembre 2009, Casa del Sole (TN), in Appendice 1.430 Prima intervista a Simone Capula, cit.431 Ibidem.432 Intervista a Lorenza Ludovico, cit.

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Page 103:  · Web viewLe stesse problematiche, addirittura in forma più evidente, si presentarono in Germania, considerando che la progettazione di un teatro popolare viene svincolata dalla

2. A ferro e fuoco. Spettacolo segreto

La qualità dei rapporti che il Teatro a Canone instaura sul territorio di residenza e con il mondo

teatrale emerge in tutta la sua complessità nelle vicissitudini che circondarono la prima

rappresentazione di A ferro e fuoco. Spettacolo in LA min. (2010), la seconda produzione del

gruppo433. Dall’idea di lavorare sulle figure femminili della lotta armata, nata ai tempi della Scuola,

l’attenzione del gruppo si focalizza sulla persona di Margherita Cagol, detta Mara, compagna di

lotta e di vita di Renato Curcio, ideologo e fondatore delle Brigate Rosse, uccisa nel 1975 in uno

scontro armato con le forze di polizia, sulle colline di Casale Monferrato, a una cinquantina di

chilometri proprio da Chivasso, in seguito al sequestro di persona ai danni dell’industriale Vittorio

Vallarino Gancia. Sulla scorta della lettura di Nome di battaglia Mara. Vita e morte di Margherita

Cagol il primo capo delle Br di Stefania Podda434, che si interroga sulle cause della morte della

brigatista, ancora dubbie, e racconta la vita della giovane, rivoluzionaria di origine borghese,

ripercorrendone gli eventi cruciali, il gruppo intende restituire il ritratto della Cagol come ragazza e

militante; alla costruzione della drammaturgia si aggiungono poesie scelte di Alda Merini sulle

atmosfere milanesi, per ricostruire liricamente gli scenari urbani attraversati da Mara, e la canzone

Laudate hominem di Fabrizio De Andrè435, di cui le sonorità e il testo vengono proposti

separatamente.

Dopo un anno di lavoro, il Teatro a Canone accoglie nella sua sala piccoli gruppi di spettatori,

secondo la prassi consolidata delle ‘prove aperte’, che attraverso il confronto con il pubblico, che

spesso termina in accese discussioni, permettono apportare delle modifiche continue all’azione

scenica e ad altri particolari drammaturgici, realizzando spettacoli dalle versioni molteplici.

Le prove aperte fanno parte della fase del processo, ma pian piano si arriva a un livello sempre

più compiuto del lavoro. Alle prime repliche, il pubblico vede già uno spettacolo, ma il giorno

dopo puoi cambiarlo in funzione di quello che è successo, del suo impatto con il pubblico. […]

Arrivi ad un punto in cui devi mostrare lo spettacolo, per cui fai delle repliche in sede – è

sempre stato così, per noi – dove lo fai vedere a pubblici disparati, piccoli gruppi che ti dicono

‘a caldo’ quello che pensano; però ho sempre chiesto che lo si facesse davanti agli attori, mai in

disparte. […] Gli spettacoli si fanno negli interstizi, diceva sempre Renzo. È vero: sono quelle

piccole sfumature che cogli nella reazione del pubblico, nella reazione del bambino che non

433 Dopo Ballata. Per uno spettatore-visitatore curioso, v. supra, par. 4, cap. 2.434 PODDA, Stefania, Nome di battaglia Mara. Vita e morte di Margherita Cagol il primo capo delle Br, Sperling & Kupfer, Milano, 2007.435 Fabrizio De Andrè, Laudate hominem, in La buona novella, Produttori Associati, 1970.

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Page 104:  · Web viewLe stesse problematiche, addirittura in forma più evidente, si presentarono in Germania, considerando che la progettazione di un teatro popolare viene svincolata dalla

capisce. Non puoi partire dal presupposto che il pubblico non capisca: se non ha capito, spesso è

perché c’è qualcosa che non è andato in te, nel tuo lavoro.

Noi volevamo comunicare. Per noi il teatro era comunicazione: avevamo delle cose da dire al

mondo! Per questo noi eravamo disposti a cambiare delle cose, non il contenuto complessivo…

si doveva sempre passare attraverso la forma, in particolare l’azione dell’attore, per permettere

di comprendere meglio. […] A ferro e fuoco l’abbiamo cambiato mille volte […] perché

sapevamo che era uno spettacolo difficile sui contenuti436.

Richiamando i momenti principali della breve esistenza della Cagol, Capula aggiunge un ulteriore

tassello al suo percorso sulla memoria storica italiana, affrontando uno dei capitoli più controversi

della storia recente, il Brigatismo e i suoi principi fondanti; «un argomento scomodo in modo

trasversale»437, senza differenze partitiche: «la destra ne ha paura, la sinistra non vuole ammettere

che il Brigatismo affondò le sue radici nella sinistra storica e nella Resistenza»438, senza contare la

presenza ancora viva di questa forma di lotta al potere. La tematizzazione della vita di Mara Cagol,

dunque, è un pretesto per (ri)discutere le origini delle Brigate Rosse, al fine di creare i presupposti

per un dialogo che non è mai esistito intorno a queste vicende; non è un caso se negli spettacoli del

nuovo gruppo si assiste a uno sviluppo del lavoro di sala verso una valorizzazione della dimensione

narrativa della drammaturgia, che non necessariamente porta all’adozione della forma del teatro di

narrazione:

A un certo punto ho sentito il bisogno di far convivere azione, musica e parole in una forma

teatrale che ponesse lo spettatore nella dimensione di capire ciò che gli stavo proponendo […].

Il modo di partire che abbiamo avuto negli spettacoli era molto simile a quello del

documentario, ovvero da una forte documentazione, per poi arrivare alla messa in scena. Non

abbiamo abbandonato la centralità del corpo, ma abbiamo iniziato a lavorare per far convivere il

corpo con il testo trovando il modo di ‘dirlo’, affinché si capisse, perché pensavamo che le cose

che dicevamo fossero importanti439.

Questa ricerca si estende anche alla scelta delle musiche, che testimonia l’interesse per la canzone

italiana e straniera, che con il loro testo si prestano a un’integrazione paritaria del testo principale

portato in scena, in quanto selezionate non solo per la melodia, ma anche per i significati, che

spesso sono tradotti fisicamente nelle azioni degli attori. A ferro e fuoco, inizialmente concepito

come monologo, propone quindi un testo molto denso, che intreccia immagini poetiche a fatti di

436 Prima intervista a Simone Capula, 437 DUTTO, Frediano, Capula racconta il ’68 e la nascita delle Brigate Rosse, cit.438 Ibidem.439 Prima intervista a Simone Capula, cit.

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Page 105:  · Web viewLe stesse problematiche, addirittura in forma più evidente, si presentarono in Germania, considerando che la progettazione di un teatro popolare viene svincolata dalla

cronaca, le confessioni amorevoli della giovane Cagol alla madre ed episodi della lotta condotta al

fianco di Curcio e dei compagni. In una delle sue ultime versioni, lo spazio scenico, contornato da

sei lampadine, due su canne di bambù e le altre quattro a terra, è diviso a metà da un filo rosso che

si conficca in un secchio pieno di terra, insieme a un bastoncino al quale era attaccato un ramo di

pesco, a delineare due diversi ambienti che rappresentano le due vite, le due anime di Mara.

Da una parte si costruisce una camera da letto, si cerca cioè di individuare una realtà quotidiana

di normalità, anche di tenerezza, di umanità. D’altro lato si crea una specie di campo di

battaglia, o meglio è il corpo che esprime azioni più violente e esce fuori la parte più dura, a

volte contraddittoria, ma anche molto vera, della scelta della clandestinità, del voler cambiare il

mondo a tutti i costi. Quando Luca è entrato nello spettacolo440, si è formata la cornice: l'inizio e

la fine sono una sorta di specchio del presente… l'indifferenza, l'incapacità di agire o di credere

in qualcosa. In scena c'è l'essenziale: c'è la terra nella quale è sepolta una pistola, c'è un bastone,

c'è un cambio d'abito – e tutto cambia; ci sono delle lenzuola con i fiori441.

Per il regista, questo spettacolo rappresenta la summa della sua attività teatrale, soprattutto perché

rafforza i legami tra i componenti del Teatro a Canone, i cui caratteri complementari qui sembrano

collaborare in virtù di tematiche che li coinvolgono profondamente, animando appassionati

discussioni442.

Non si può parlare allo stesso modo del momento in cui il lavoro di sala si apre all’esterno, dove

iniziano invece ad emergere maggiori perplessità tra amici, parenti, colleghi, professori e politici

che assistono alle prime repliche dello spettacolo, segnalando il rischio sotteso all’«impostazione

“politicamente scorretta”»443 dello spettacolo. A tal riguardo è emblematica la testimonianza di

Mirella Schino:

Quando io l’ho visto e Nando l’ha visto, nella versione senza Luca – la prima versione, noi gli

abbiamo detto, tutti e due: Sei matto. Sei matto, tu non puoi prendere Mara Cagol, farne un

santino e non sapere quello che stai facendo. […] Mara Cagol da giovane era così? Sì, ma…

dimmi che cosa stai facendo. Era veramente uno spettacolo anche un po’ strano, bizzarro

insomma… con questa partitura di Lorenza molto bella, bellissima, molto lirica… ma se tu

440 Nato come monologo di Lorenza Ludovico, lo spettacolo, nelle sue ultime versioni, vede in scena anche Luca Vonella, integrato dopo un periodo di degenza per problemi fisici.441 Intervista a Lorenza Ludovico, cit.442 Cfr. Prima intervista a Simone Capula, cit.443 VONELLA, Luca, La storia deve essere raccontata. Dossier su “A ferro e fuoco-spettacolo in LA min.” , testo inedito e incompiuto gentilmente concesso all’autrice.

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prendi un anarchico, che ammazza le persone; un bombarolo, e fai uno spettacolo lirico-mistico

su di lui, stai facendo una cosa chiara, una cosa grossa; non ti puoi stupire! Perché ti stupisci?!444

Lo stupore cui fa riferimento la Schino è quello condiviso da Capula e dagli attori quando il

Sindaco di Chivasso, Bruno Matola, vieta l’uso del Teatrino Comunale per l’anteprima nazionale

dello spettacolo, che lì doveva tenersi il 10 settembre 2009; la revoca dello spazio, già affittato e

pagato dal gruppo nel mese di agosto, viene motivata ufficialmente come segue:

A seguito di esame del programma della rappresentazione, si ritiene che la stessa contenga

espressioni che possano essere ritenute offensive della dignità e della morale pubblica e pertanto

potenzialmente lesive dei sentimenti e degli interessi pubblici collettivi che questa

Amministrazione è tenuta a tutelare445.

A fronte di questa censura, da considerarsi preventiva, in quanto né il Sindaco né i Consiglieri

comunali hanno assistito allo spettacolo (l’unico elemento di valutazione a disposizione è la

locandina), il Teatro a Canone pubblica un comunicato per denunciare l’accaduto, parlando di

un’esplicita violazione dell’articolo 21 della Costituzione italiana, che sancisce la libertà di

espressione del pensiero “con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di comunicazione” 446. Nel

frattempo, testate locali e nazionali (La Stampa, L’Altro) riportano il fatto e si mobilita una parte

della cittadinanza chivassese, che sostiene il gruppo e rivendica il diritto di assistere allo spettacolo,

per valutarlo autonomamente. In particolare, nei giorni immediatamente successivi il Centro di

Documentazione Paolo Otelli447 e l’associazione Fiat Lux, con l’appoggio del Teatro a Canone,

promuovono un incontro pubblico in piazza Carlo Alberto Dalla Chiesa, di fronte al Teatrino

Comunale, alla conclusione del quale si approda alla decisione di intraprendere una raccolta firme

in favore di una petizione popolare con cui richiedere a Matola «di concedere l’uso dei locali

comunali per la rappresentazione»448. Il divieto di rappresentare lo spettacolo nei locali pubblici del

comune chivassese porta il gruppo a presentare l’anteprima di A ferro e fuoco presso il Teatro del

Lemming di Rovigo, tra le realtà teatrali che esprimono solidarietà al Teatro a Canone.

Capula vive i sommovimenti scatenatisi dall’atto censorio, ormai noti anche al di fuori del territorio

chivassese, con profonda sofferenza e un certo imbarazzo449:

444 Colloquio con Mirella Schino, cit.445 La riproduzione del documento che reca come oggetto: Utilizzo del Teatrino Comunale per anteprima nazionale spettacolo “A ferro e fuoco”, in Appendice 2; corsivi miei.446 Cfr. VONELLA, Luca, La storia deve essere raccontata, cit.447 Si rimanda a centrotelli.blogspot.com/448 Tante firme contro la censura di Matola, in «La Nuova Periferia», 23 settembre 2009.449 Cfr. ARCUDI, Daniela, Quando l'Italia si ricorda della “morale pubblica”, in http://www.klpteatro.it/component/index.php?option=com_content&view=article&id=1010%3Aa-ferro-e-fuoco-teatro-

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Page 107:  · Web viewLe stesse problematiche, addirittura in forma più evidente, si presentarono in Germania, considerando che la progettazione di un teatro popolare viene svincolata dalla

Lì è stato soffocato un momento per me altissimo di creatività. Per me era un non

riconoscimento di un’onestà intellettuale e umana che non ho mai avuto in altri spettacoli – l’ho

sempre cercata, ma non è mai stata così forte. […] Nessuno, neppure chi ci ha difeso dopo la

censura, ha capito che per noi era un pezzo di vita che ci veniva negato; un pezzo di vita, di

difficoltà, di gioie, di confronto sotto tutti i punti di vista, da quello politico a quello

professionale a quello sentimentale. È il non riconoscimento del tuo impegno nel lavoro; che tu

non hai fatto una cialtroneria per inneggiare alle Brigate Rosse, ma hai fatto un lavoro di ricerca

profondo, sul contenuto e su di te; su di te come persona, sulla parte più profonda di te450. […]

I teatranti e non che ci hanno sostenuti sono arrivati fino a un certo punto, poi […] ci hanno pian

piano lasciati…451

È il regista stesso, tuttavia, a manifestare ostinatamente la volontà di non far morire A ferro e fuoco,

«per i suoi tratti politici»452: oltre alla circuitazione presso centri sociali e spazi autogestiti, il gruppo

si mobilita attraverso nuove forme di promozione e presentazione dello spettacolo. Senza avvalersi

di locandine né comunicati stampa, ma solo grazie a mail di invito e al passaparola, il Teatro a

Canone mostra lo spettacolo quasi clandestinamente, riunendo nella propria sede gruppi di un

massimo di quindici spettatori paganti, che subito dopo condividono con i componenti pasti cucinati

da Capula e si fermano per confrontarsi su temi e contenuti.

Le vicissitudini legate allo spettacolo A ferro e fuoco mettono a dura prova i componenti del

gruppo, a partire da Capula, che a fronte dell’allontanamento di chi, nel furore degli eventi, lo

sosteneva, inizia a nutrire una profonda «delusione per alcuni gruppi di cui avevo stima, di cui poi

mi sono accorto che esteticamente mi erano vicini, ma non lo erano eticamente»453. Inizia per il

regista un periodo di riflessione sulla propria attività, probabilmente sollecitata dal periodo difficile

che il Teatro a Canone sta attraversando, segnato dalla precarietà economica e dalle contraddizioni

che emergono dal sistema di relazioni creato in questi primi anni di vita, così sintetizzate da

Ludovico:

dopo la censura la nostra estraneità a Chivasso ci ha permesso di trovare fuori appoggio da teatri

come il Teatro del Lemming a Rovigo; allo stesso tempo, se avessimo avuto un contesto intorno

probabilmente non ci avrebbero abbandonati tutti come hanno fatto454.

a-canone&catid=49%3Agenerale&Itemid=90.450 Prima intervista a Simone Capula, cit.451 Ibidem.452 Ibidem.453 Terza intervista a Simone Capula, cit.454 Intervista a Lorenza Ludovico, cit.

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3. Soave sia il vento. Spettacolo di/in comunità

«Come dire lo zefiro che arriva dopo un incendio»455: Soave sia il vento. Amleto e Ofelia gridano e

sussurrano le loro strane storie (2010) nasce dal soggiorno del Teatro a Canone presso la Casa del

Sole456, una struttura interna all’Azienda Provinciale per i Servizi Sanitari di Trento, nella quale gli

viene concesso di trasferire il lavoro che avrebbe condotto in sala, l’allenamento sulle danze

indiane, il training e le prove su Amleto di Shakespeare. Il progetto che Capula propone a Renzo De

Stefani, primario del Servizio di Salute Mentale, prevede che lo spettacolo che nascerà dopo i

quarantacinque giorni di permanenza del gruppo presso la struttura di accoglienza, relazioni la

tragedia shakespeariana con le storie degli UFE. L’acronimo indica gli utenti del Servizio di salute

mentale, in questo caso otto utenti psichiatrici in fase riabilitativa, familiari di utenti ed esperti,

ovvero persone che hanno vissuto una qualche forma di malattia o l’hanno esperita tramite familiari

stretti, che mettono a disposizione la propria esperienza per aiutare altre persone affette da disagio

psichico. L’approccio alla cura psichiatrica della Casa del Sole, infatti, non si limita alla

somministrazione di farmaci, ma adotta il metodo del “fare assieme”457 o auto-mutuo-aiuto; in

particolare, educatori, familiari ed esperti si adoperano per aiutare gli utenti a gestire

autonomamente mansioni e compiti da svolgersi all’interno della Casa del Sole e del bed&breakfast

al piano inferiore, in quanto considerata una pratica atta al reinserimento progressivo della persona

in dinamiche quotidiane, che affronterà all’uscita dalla struttura.

Il lavoro qui condotto dal Teatro a Canone si sviluppa in modo completamente diverso rispetto alla

precedente esperienza: «Il nostro era un laboratorio “a vista”: chiunque passasse alla Casa del Sole

poteva osservare e dialogare con noi»458, aprendosi così al contatto immediato con persone che in

ogni momento possono collaborare attivamente, contribuendo con un ricordo o una riflessione

personale, o anche solo partecipando agli esercizi del training attoriale. In questo progetto

residenziale, infatti, Capula non intende coinvolgere direttamente gli utenti, avviando un’esperienza

di teatro sociale, bensì creare la prima struttura di uno spettacolo che abbia per oggetto una

«psichiatria umana»459; una produzione «che, per la prima volta, sia il frutto delle storie che

abbiamo colto da chi ci è stato vicino»460, contribuendo così a un percorso di sensibilizzazione che,

con il sostegno di persone esperte, possa portare le testimonianze raccolte in contesti scolastici.

455 VONELLA, Luca, Lettera da un teatro che chiude, cit.456 Si rimanda al sito www.casadelsole.info/457 Per ulteriori approfondimenti, v. Le buone pratiche del fare assieme al Servizio di salute mentale di Trento, inhttp://www.fareassieme.it/?page_id=49.458 VONELLA, Luca, Lettera da un teatro che chiude, cit.459 Un’intervista per Amleto, 28 novembre 2009, Casa del Sole (TN), in Appendice 1.460 Ibidem.

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La scelta di questo ambiente, se da una parte si comprende adottando la consolidata percezione del

regista, per cui le «situazioni che bordeggiano il teatro»461 permettono di trovare dei finanziamenti

senza sacrificare la propria identità di teatrante, dall’altra rappresenta la volontà di formarsi

umanamente ma anche professionalmente «in situazioni di forte disagio»462.

La convivenza quotidiana con gli utenti della Casa del Sole, infatti, pone il regista e gli attori di

fronte alle loro inesperienze, facendo i conti con quelle stranezze che, in un contesto simile,

costituiscono la normalità463. In particolare, Lorenza Ludovico parla del pregiudizio con il quale è

entrata in questa struttura, l’associazione della malattia mentale alla violenza e dunque alla paura

che da questa doveva scaturire464, mentre Luca Vonella racconta della tendenza a farsi travolgere dal

mondo interiore dei malati psichiatrici per una sorta di fascino per il ‘diverso’. Alla fine del

percorso, entrambi testimoniano la possibilità di rifuggire da questi pericolosi atteggiamenti,

trovando un equilibrio relazionale nell’avvicinarsi con disponibilità a persone che soffrono di

patologie che sono alla portata di tutti, ma al tempo stesso distanziandosi dai sentieri più intimi che

costituiscono la loro interiorità, un mondo fatto per uno solo, nel quale è impossibile inabissarsi.

Se istintivamente i due attori sono portati ad osservare più da vicino gli utenti, traducendo da subito

in azione fisica sensazioni e impressioni sul loro vissuto, difficilmente formulabile dai soggetti

interessati, è in un secondo momento che scoprono la ricchezza dell’esperienza degli UFE, che,

consapevoli del proprio passato, forniscono dei racconti drammaturgicamente vivi, capaci di

cristallizzarsi in immagini, parole e gesti concisi, che confluiscono direttamente sulla scena,

rivivendo nel corpo degli attori, nei testi presentati e nella strutturazione delle scene465.

L’esperienza condotta a Trento si conclude con il montaggio dei materiali ‘vivi’ in Soave sia il

vento, che debutta al festival Pergine Spettacolo Aperto466 presentando gli approdi della ricerca di

Capula, che da una parte insiste sull’azione fisica concepita come danza, che si muove sulle

composizioni di Einaudi e di Verdi, in uno spazio scenico strutturato sulla forma armoniosa del

cerchio, e dall’altra ritorna sull’esigenza di raccontare, ricostruendo i vissuti sulla scena, i cui

sgabelli disposti tutt’intorno per il pubblico richiamano i gruppi di ascolto dell’auto-mutuo-aiuto,

invitandolo a farsi testimone di esperienze di umana fragilità.

Alcune delle suggestioni che hanno nutrito questo spettacolo confluiscono in Poemi Umani (2011),

«una passeggiata teatrale»467 che conduce gli spettatori negli spazi fisici dell’ex manicomio di

Pergine (TN) per ripercorrere le storie che lo hanno animato; a differenza del precedente, questo

461 Ibidem.462 Ibidem.463 VONELLA, Luca, Lettera da un teatro che chiude, cit.464 Un’intervista per Amleto, cit.465 Ibi.466 Si rimanda al sito www.perginefestival.it.467 I Poemi Umani di Simone Capula, in http://www.perginefestival.it/dettaglio.aspx?ID=ELE0001579&L=it.

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spettacolo ricostruisce scene e situazioni del mondo dei servizi psichiatrici, così come lo ha esperito

il Teatro a Canone nel piccolo itinerario che attraversa Pergine, Trento e Roma, unendovi anche il

viaggio immaginario nelle vite di Alda Merini, che fu ricoverata in un manicomio, e soprattutto di

Franco Basaglia, neurologo e psichiatra che con la legge 180 (legge Basaglia)468 impose la chiusura

dei manicomi e regolamentò il trattamento sanitario obbligatorio, rivoluzionando il mondo della

psichiatria italiana. Un’eccezione singolare al racconto per azioni degli attori è l’intermezzo

costituito da una sorta di talk-show tra esperti della psichiatria469, con i quali Capula, in qualità di

mediatore, vuole fare il punto sulla storia e sull’attualità della cura psichiatrica ospedaliera. Gli

ambienti sonori sono creati dalle composizioni minimaliste di Wim Wenders e dalle canzoni

italiane di musica leggera, con forti riferimenti autobiografici che lo stesso Capula dichiara 470,

partecipando al suo ultimo spettacolo anche in qualità di attore.

L’abbandono della professione teatrale, in particolar modo, viene sancita in presenza con la

dimostrazione di lavoro finale di un laboratorio condotto al centro diurno Handirivieni di Chivasso,

con cui Capula collabora da anni (v. supra, par. 1, cap. 2); anche in questa occasione, Capula si

inserisce nell’azione, condotta da Vonella e Ludovico, che si conclude con una festa in cui il

pubblico condivide un piccolo aperitivo. In seguito, le vite dei tre componenti si dividono: Lorenza

Ludovico torna a L’Aquila, lavorando in una piccola impresa familiare di produzione e vendita

diretta di vino, mentre il regista cede sede e ragione sociale del Teatro a Canone a Luca Vonella,

intenzionato a continuare nell’attività attoriale.

468 Per ulteriori approfondimenti, v. Legge 13 maggio 1978, n. 180 "Accertamenti e trattamenti sanitari volontari e obbligatori ", in http://www.tutori.it/L180_78.html.469 Piera Volpi Janeselli, ex infermiera; Valerio Fontanari, volontario in contesti psichiatrici e Franco Oss Noser, direttore del Centro Servizi Culturali Santa Chiara di Trento.470 Ibidem.

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CONCLUSIONI

Nella Lettera aperta e presuntuosa sulla chiusura del nostro teatro, Capula dichiara conclusa

l’attività del Teatro a Canone e la sua attività di «teatrante militante»471, per una decisione che

sottende ragioni economiche e politiche, che lo portano a considerare la sua figura di professionista

indipendente in stretta connessione con la società teatrale attuale, dalla quale non si sente più

rappresentato (v. supra, Introduzione).

Qualche mese dopo la pubblicazione di questo scritto, Capula ritorna al momento della chiusura del

teatro, cogliendo l’occasione delle interviste che mi ha rilasciato per insistere in particolar modo su

una delle concause precedentemente rimaste inesplorate.

Quando tu hai finito e tiri le fila, perché è inevitabile di chiedersi cos’è stata umanamente, cos’è

stata professionalmente questa esperienza, ti accorgi che in nome di un ideale astratto, quasi

rivoluzionario, neoriformatore, hai trascurato quello che è il motore principale del teatro, cioè i

rapporti umani. […] Il problema è che il teatro di gruppo è impregnato di ideologia e perciò poi

crolla sulle cose umane. Io non ne ero così cosciente verso la fine del teatro, addirittura; avevo

dei sentori di questo, ma ero convinto che la fine del teatro, da parte mia, fosse legata a una

stanchezza più dovuta al fatto che non riuscivo a stare più in quei parametri ideologici, ma non

che io stavo cedendo umanamente472.

Al termine del suo percorso, l’ex regista individua la problematica centrale nello sfaldamento delle

relazioni interpersonali all’interno del Teatro a Canone, che stavano radicalizzandosi secondo i

dettami di quella che definisce l’“ideologia dei teatri di gruppo”: un’ideologia a tutti gli effetti,

trasposta dal campo politico a quello artistico, che alla causa del teatro sacrifica l’equilibrio delle

dinamiche tra i singoli, le loro personali esigenze, non ultima la necessità di godere di una stabilità

economica. Senza rinnegare la sua formazione artistica ed etica, forgiata dagli esempi dell’Odin

Teatret e del Teatro Tascabile di Bergamo, Capula sostiene che proprio a causa di questa

radicalizzazione ideologica stiamo assistendo, in questi anni, alla fine dei teatri di gruppo, poiché

non ci sono più persone disposte a sacrificare la vita privata a quella professionale; se anche ci

fossero, d’altronde, confermerebbero l’immagine del gruppo che, con il passare degli anni, «cade

471 CAPULA, Simone, Lettera aperta e presuntuosa sulla chiusura del nostro teatro, cit.472 Prima intervista a Simone Capula, cit.

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nei cliché professionali e in dinamiche di gruppo malate. Diventa autoreferenziale e si isola,

creando una comunità malsana che porta ad allontanarsi dal mondo reale»473.

Più che alla fine del modello proposto dal teatro di gruppo e al pari dello sgretolamento delle

relazioni interpersonali tra compagni di lavoro, nella chiusura di questa esperienza teatrale, la cui

caratterizzazione politica si era concretizzata, negli anni, nella scelta di mezzi produttivi autonomi,

nel dislocamento in luoghi ‘marginali’ e nella proposta teatrale effettiva, con spettacoli nati per

integrazioni successive, spesso dal contributo attivo di amatori e spettatori, e di frequente centrati su

tematiche storico-sociali, ritengo sia stato determinante l’isolamento nel quale il Teatro a Canone si

è trovato verso la fine della sua esistenza. Un isolamento concreto, che non permise di individuare

nessun interlocutore, anche in virtù di una continua negazione della ‘rete’. Concordando sul rifiuto

di uno scambio autoreferenziale, chiuso tra teatro e teatro e volto al solo ottenimento dei

finanziamenti pubblici, tuttavia sostengo che, nel momento in cui è venuta a mancare la solidarietà

dell’ambiente teatrale di riferimento, ma soprattutto i teatranti cui Capula si rivolse dopo la censura

di A ferro e fuoco, non ci sia stata la capacità, la volontà e la forza di trovare nuovi interlocutori con

i quali condividere o creare un nuovo ambiente, quello che Capula, nelle prospettive utopiche degli

inizi, identificava con una ‘situazione ecosolidale’, da costruire all’interno e attraverso le forze delle

piccole realtà costitutive della polis – sia essa geografica o, più estensivamente, teatrale.

473 Ibidem.112

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APPENDICE 1 - Interviste

Prima intervista a Simone Capula13 settembre 2011, sede del Teatro a Canone, Chivasso (TO).

Se devo tirare le fila, in questo momento, della mia fine nel teatro, non solo nel teatro ma del teatro, io non ho mancanza di far teatro. Ho un’esigenza di raccontare – con grande fatica, con grande dolore, perché è un coltello che gira nella piaga – che i gruppi di teatro (quelli del terzo teatro in particolare) hanno un’idea enorme dietro cui si nascondono, ma invece stanno insieme per le cose umane.Quando tu hai finito e tiri le fila, perché è inevitabile di chiedersi cos’è stata umanamente, cos’è stata professionalmente questa esperienza, ti accorgi che in nome di un ideale astratto, quasi rivoluzionario, neoriformatore, hai trascurato quello che è il motore principale del teatro, cioè i rapporti umani.Ecco perché il terzo teatro finisce, secondo me: perché non puoi pensare che quella microsocietà non stia alle regole di tutta la società. Non siamo delle tribù, non siamo asettici, e invece ci siamo raccontati per troppo tempo questa storia e tutti noi, i più giovani, abbiamo ripreso a fare e pensare a questa cosa, cioè “si sta insieme a prescindere da, perché il teatro è cosa più importante al mondo…” No, perché la cosa più importante al mondo è stare bene al mondo! E fai teatro per stare meglio.Ovviamente è fortissimo il mio disagio in questo momento, perché è chiaro che mi trovo non senza il teatro, ma senza quello che era fondamentale, ovvero i rapporti umani. Alla fine della storia di un teatro c’è una sensazione di solitudine. Sempre, sempre. Ne abbiamo fatto un punto di forza, a lungo, ma qualsiasi persona crei un gruppo nel 2011, non può prescindere da quelle regole. Ecco perché c’è una crisi, perché con la fine di Barba finisce tutto, perché nessuno può accettare quel modo. Noi accettavamo supinamente il fatto di star male, da un certo punto di vista, e di crogiolarci nello star male. Io l’ho capito nel momento in cui a me il teatro non interessava più, prima non ne ero così cosciente.Tutto questo comporta un rapporto politico con l’esterno che il teatro risolve solo in parte. Però questa è la parte più oscura per me. Ti sto parlando appunto di quello che è avvenuto nella chiusura, cioè dell’evoluzione mentale di qualcuno che ha deciso di abbandonare le cose, di fare altro. Questo è il post. Di solito si parla in modo molto positivo delle persone che hanno fatto parte dei gruppi, ma invece penso che non si uniscano sulle forza delle persone, ma sulle debolezze delle persone. Non si può andare in astratto: il teatro si fa perché queste persone hanno questo modo di essere e il teatro diventa quello che è per queste persone. Avere i soldi per vivere è una parte di questo, una parte fondamentale, anche perché non avere soldi porta delle tensioni personali tra le persone.

Noi siamo stati vittime dell’ideologia, in parte; in parte no, perché siamo andati avanti per sette anni, di fatto, perché son tre anni abbondanti di Teatro a Canone e gli anni della Scuola prima. Il problema è che il teatro di gruppo è impregnato di ideologia e perciò poi crolla sulle cose umane. Io non ne ero così cosciente verso la fine del teatro, addirittura; avevo dei sentori di questo, ma ero convinto che la fine del teatro, da parte mia, fosse legata a una stanchezza più dovuta al fatto che non riuscivo a stare più in quei parametri ideologici, ma non che io stavo cedendo umanamente: io dovevo ammazzare quei parametri per poter salvare, se volevo, il gruppo, ma col mio stato d’animo non potevo. Ho fatto da cuscinetto tra le istanze degli altri e non tra le mie. Ognuno deve avere uno stipendio, una vita privata, non annullare tutto in nome di qualcos’altro… questo l’hanno sempre fatto i gruppi. Se tu leggi i libri sui gruppi teatrali, sembra tutto idilliaco, ma quella è un’astrazione, io sto parlando di praticità: i libri raccontano un sacco di frottole; il gruppo esiste perché i rapporti funzionano, non perché sono riusciti a mettersi d’accordo sulla cosa ideologica. La cosa ideologica sovviene dopo semmai.Le persone giovani adesso non possono più sposare questo approccio perché non concordano con questa idea politica del gruppo. I giovani di adesso sono individualisti fondamentalmente. In un certo senso, io penso sia positivo, addirittura. Sono coscienti che unirsi per un progetto e poi lasciarsi non è una cosa così deleteria come io pensavo. Non voglio che sembri che sto rinnegando qualcosa, sto solo ragionando con il senno di poi. Simone ora pensa su delle dinamiche in modo diverso da come pensava in passato.

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Il concetto politico di un gruppo, del nostro gruppo, ultimamente era un altro rispetto a quello che ci dicevamo idealmente: era quello di creare un microrganismo alternativo ma non antagonista.Tu crei degli spettacoli e devi creare un nuovo mercato, non puoi andare contro il mercato, ma non puoi nemmeno starci dentro, perché non hai la possibilità di gareggiare. Noi siamo stati molto bravi in questo, siamo stati bravissimi; noi per tre anni abbiamo fatto un’altra cosa. La forza lì l’abbiamo avuta: abbiamo dimostrato al mondo che era possibile, fino a quando non abbiamo “disturbato” e non ci siamo stancati. Perché è chiaro che vieni logorato, i rapporti personali vengono logorati, è chiaro che tutti i rapporti interpersonali saltano.

Il Teatro a Canone non aveva niente di alternativo, ma dal punto di vista organizzativo non avevamo niente a che fare con il passato. Ci siamo creati una situazione di lavoro ‘ecosolidale’, direi, però senza avere dei modelli precedenti. Ho provato, da quando ho iniziato ad avere questo teatro, a pensare che cosa fosse: c’erano dei modelli di ‘artisticità’, c’erano dei modelli di pratica – il terzo teatro – ma non abbiamo fatto ‘rete’ ad esempio. Noi rifuggivamo al ‘fare rete’, agli scambi; non ci piaceva, eravamo contrari. Noi proponevamo i nostri spettacoli e quei pochi che ci hanno potuto ospitare lo facevano a prescindere dal filone cui ti rifacevi: perché ti piaceva lo spettacolo o il processo – abbiamo sempre pensato che lo spettacolo fosse importante quanto il processo, a differenza di molti che prediligono il processo.La crisi del teatro, adesso, non credo sia una crisi circoscritta, ma una crisi di sistema: il sistema dei finanziamenti è finito, le persone dovranno rimettersi insieme e darsi da fare. C’è una crisi economica, a breve le piccole botteghe torneranno ad avere un peso, perché la gente andrà a comprare ogni giorno quello di cui ha bisogno con i soldi che ha. È questo che ha fatto il nostro teatro: cogliere le occasioni che si presentavano senza tener troppo conto delle strategie di mercato. La parola più usata dai gruppi che erano vicini a noi era ‘strategia’: unirsi per una strategia. Noi non l’abbiamo mai fatto, l’abbiamo rifuggito. E l’abbiamo pagata! Per dirla in un modo presuntuoso, noi avevamo un rapporto etico con il lavoro. La questione morale era innanzi tutto.

Secondo me non c’è più un’evoluzione di quella concezione di teatro. Il teatro che c’è adesso non è un’evoluzione di quello che si chiama terzo teatro. Non vuol dire che non ci saranno delle pratiche simili, però quel sistema è imploso, ne sono quasi sicuro. È una scelta molto personale, perché il sistema economico non te lo permette, purtroppo, in questa parte del mondo, ma non penso che il teatro, ad oggi, possa pretendere di essere finanziato ancora. C’è una crisi economica, le persone non hanno di che campare: il teatro deve diventare una situazione di autoproduzione: una bottega a tutti gli effetti. Devi diventare mecenate di te stesso, perché non esistono più persone illuminate che possono pensare di dare soldi. Devi trovare i soldi con la tua attività. Sai che devi crearteli tu i soldi o te li può dare qualcuno che è cosciente della qualità del tuo lavoro. In parte, nel mio caso è stato il pubblico, senza distinzioni; dal pubblico delle scuole al pubblico che veniva in sede al pubblico che incontravamo in altri luoghi… Puoi pensare di avere degli spazi dall’ente pubblico, questo sì, degli spazi dove il pubblico compra i biglietti, venga a vedere gli spettacoli, partecipi ai seminari, ma non si può pensare che finanzi la ricerca fine a se stessa. Può darsi che sia sbagliato, ma è la realtà; il fatto che si continui a sostenere che il teatro sta finendo perché non è finanziato… il teatro sta finendo perché non ha idee.Io sono un po’ più liberista dei liberisti, sulla questione del teatro. Penso di dare un servizio, ma non voglio darlo gratuitamente: la gente deve iniziare a pensare che deve pagarlo questo servizio, come altri servizi; le tasse non possono essere sufficienti. Io voglio che tornino i finanziamenti ai teatri, ma in modo che tutti giochino ad armi pari. Che mi frega che finanzino i teatri stabili, se sono solo nomi famosi? Perché io devo lottare per un finanziamento pubblico, quando altri…? Io non penso che sia una cosa così essenziale il finanziamento pubblico. Una parte dei teatranti dicono che l’unico modo per far campare il teatro di ricerca sia quello; io non penso, io, Simone Capula, di Teatro a Canone, faccio spettacoli che possano vedere tutti.Bisogna finirla di pensare che la ricerca è per un’élite. Vuol dire che io ho una professionalità tale, un artigianato tale che posso fare spettacoli costruiti per le persone che possono vederli. Sembra che stiamo scoprendo l’acqua calda, ma è da troppi anni che il teatro di ricerca non pensa a questo, che non pensa che il pubblico debba pagare un biglietto per andare a vedere gli spettacoli. Pensare che la mia ricerca sia così importante che posso, devo fare una lotta sindacale per avere un finanziamento pubblico, è di una presunzione mostruosa. “Noi facciamo la cosa più importante del mondo”: no! Noi stiamo facendo la cosa più importante per noi e per quei pochi spettatori.

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Noi non siamo stati finanziati per scelta: abbiamo dimostrato che è possibile. Abbiamo ceduto perché il contesto intorno è fatto in un certo modo e per ragioni personali, interne, profondamente personali. L’intervento politico del teatro in questo momento è stare in questo mondo in un altro modo. Penso che tutto ciò che è la politica, in generale, sia questo.Quando ho iniziato a fare teatro, ventisei anni fa, la mia intenzione politica era legata a dei partiti di sinistra che certamente manipolavano e strumentalizzavano, ma ti rappresentavano in qualche modo; adesso non c’è più nemmeno questo. Spesso lo scontro avviene con chi è più simile a me, anche per il semplice fatto che ci mangiamo lo stesso pane.

È chiaro che far convivere l’esigenza economica con l’esigenza artistica di una ricerca da portare avanti è una questione molto complessa, però ti posso subito dire che gran parte dei teatri passa una parte del tempo su scartoffie di bandi di concorso dell’Unione Europea invece di andare in sala. Allora io passo un po’ più di tempo a cercare di preparare e vendere gli spettacoli, ma non passo tempo sulla burocrazia, a chiedere al funzionario di turno il favore, ad andare in una fondazione bancaria. Ma come posso io, che mi dichiaro ‘alternativo’, criticare il sistema quando poi vivo con i soldi delle fondazioni bancarie? Come fanno i miei colleghi a criticare quel sistema economico? Io esco da quel sistema economico, vado da un istituto di microcredito. Penso che sia sbagliatissimo, da parte dei gruppi di teatro, affidarsi alle fondazioni bancarie, perché così la libertà artistica non ce l’hai, non puoi averla. E non conta niente che le istituzioni di riferimento siano di destra o di sinistra: la banca mette un bavaglio.

Tutto questo penso che porti ad avere sempre ben chiara l’idea politica di partenza: non ho abbandonato quell’ideale in cui credevo all’inizio del mio percorso. Se ti devo dire onestamente qual è la mia istanza di vita, che mi porta a delle crisi nelle scelte che devo compiere, è che non sopporto l’ingiustizia. Io ho visto il teatro piegarsi di fronte all’ingiustizia sociale. Se il teatro diventa organico a questa ingiustizia, per me cessa di esistere; io voglio la libertà e – sono intimamente legate – la giustizia sociale. Tutti devono avere da mangiare, da dormire, da vestirsi, una casa dove vivere. Tutti. Questa è la lotta da portare avanti a livello mondiale. È apocalittico, eh? Ma secondo te, perché i teatranti non fanno l’analisi di questo? Ovvero, pensare che noi possiamo uscire da questo sistema, da questo gioco economico, proprio perché siamo piccoli, in nome dell’essere piccole realtà?Se noi facessimo un’indagine su dieci serate di gruppi che si scannano fra di loro, ci sono sempre gli stessi spettatori. Io penso che la fine di questo meccanismo ci sia quando porti il tuo spettacolo in un circolo culturale, ad esempio: hai venticinque persone che non vanno a teatro in genere. I teatranti non vanno a teatro per il teatro, a parte una minoranza, per i più andare a teatro è uno status quo. Sono vecchi discorsi, ma è questo: si sono spostati dal teatro di tradizione a quello di ricerca. Se vai nei luoghi sacri della ricerca, vedi sempre le stesse facce, vedi le cinque file riservate ai critici, per poi sentirti dire che non ci sono posti… questo succede nei festival di teatro. Hanno preso il peggio del teatro di tradizione abbandonando completamente quella che era la loro funzione, che era quella di creare un pubblico nuovo. L’hanno creato: hanno creato un pubblico di tossicodipendenti che va a teatro per abitudine, che prima di tutto decide dove andare a mangiare la pizza quando è finito lo spettacolo.Il teatro ha perso la possibilità di incontrare il pubblico disparato e questo è l’evoluzione di quella idea politica iniziale. I miei spettacoli non sono mai andati contro questa idea. Ho sempre creato spettacoli con un’esigenza; anche gli spettacoli su commissione – sono stati pochi, ma ci sono stati – riuscivo sempre a ricondurli a questa mia esigenza di parlare dell’ingiustizia più grande, per me – è stata un’ossessione, in tutti questi anni di lavoro, quella dei giovani che muoiono giovani, spesso per le colpe dei vecchi. Anche la società del teatro è una società di vecchi legati ai loro privilegi, che ammazzano i giovani. E, ancora più grave, troppi giovani imitano i vecchi.

Teatro è creare un rapporto con lo spettatore, non è provocazione, la provocazione avviene nel dialogo.Questo è stato un punto fisso nel mio far teatro, ma nell’ultima fase lo è stato molto di più: andare sempre più verso una dimensione narrativa, che non voleva dire fare la narrazione bloccati nello spazio, con inizio svolgimento e fine, ma raccontare a partire dalle esperienze dirette. Noi abbiamo sempre rifuggito la dimensione della narrazione, è un teatro che non mi interessa particolarmente, o meglio, penso che questa sia una forma letteraria più che teatrale, ma a un certo punto ho sentito il bisogno di far convivere azione, musica e parole in una forma teatrale che ponesse lo spettatore nella dimensione di capire ciò che gli stavo proponendo: ero stufo di sentir dire che erano gli spettatori che non capivano, spesso eravamo noi teatranti a

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non essere chiari. Il che non vuol dire che non sto facendo ricerca, anzi la ricerca è profonda e importante, ma va verso la direzione di non essere fine a se stessa. Il modo di partire che abbiamo avuto negli spettacoli era molto simile a quello del documentario, ovvero da una forte documentazione, per poi arrivare alla messa in scena. Non abbiamo abbandonato la centralità del corpo, ma abbiamo iniziato a lavorare per far convivere il corpo con il testo trovando il modo di ‘dirlo’, affinché si capisse, perché pensavamo che le cose che dicevamo fossero importanti; per questo abbiamo rifuggito sempre i virtuosismi vocali, che a mio avviso distraggono (a meno che si vuol fare una operazione puramente estetica, ma a me non interessava).Negli ultimi tre spettacoli in particolare, l’obiettivo era ‘creare una piccola enciclopedia’ di quello che stavi raccontando. Può sembrare brutto, semplicistico, ma la sfida era: Io racconto queste cose perché voglio raccontare queste storie, perché ho un passaggio di sapere. La sfida era non cedere la mia idea di teatro, fatta di movimento, del rapporto con la musica… era difficile, perché rischi di bloccarti; il problema è creare una drammaturgia complessiva. I testi sono sempre pretesti che poi diventano azione e creazione; la creazione implica la presenza d’attore complessiva, dal movimento al testo parlato al canto.Da sempre io pensavo gli spettacoli per "immagini" musicali, quindi iniziavo ad ascoltare le musiche che mi venivano in mente e tutto il lavoro dal training, dallo studio alla creazione degli spettacoli, erano accompagnati da questi suoni. In particolare il training era rivolto a incorporare le musiche, insomma il corpo visualizzava i suoni, infatti venivano a far parte del training suoni, pause e tutto ciò che struttura le composizioni musicali. Lo stesso capitava spesso con le musiche degli spettacoli; a volte erano addirittura il sottotesto delle improvvisazioni. Spesso capitava, nell'ultima fase in particolare, che si creava una vera e propria drammaturgia con le musiche. Poi nell'ultimo anno si è lavorato molto sul concetto che le canzoni con le melodie e le parole erano dei veri e propri momenti drammaturgici; il corpo non lavorava a mettere in scena, come in un clip, la canzone, ma a elaborare l'idea della canzone o della composizione. Si può anche dire che spesso era la musica stessa che conduceva il training, grazie alla musica si faceva un ottimo lavoro su spazio, direzioni, sguardo ecc… tutti i principi base del training. Io direi che la musica è stata sempre la vera protagonista dei nostri spettacoli, chiaramente dopo il corpo degli attori, che però erano molto allenati a convivere con la musica – con ‘corpo’ intendo anche la voce, il corpo e la voce lavoravano sulla stessa musica. La musica che più di altre nel periodo d'oro del nostro lavoro, l'ultimo anno e mezzo, ci ha accompagnati, è stata quella minimalista, in particolare le composizioni di Wim Mertens.

Negli anni Ottanta c’è stato un boom di ricerca, esperienze teatrali che hanno dato registi adesso molto rinomati – Tiezzi, Vacis, Martone che adesso dirige il Teatro Stabile di Torino… Negli anni Sessanta è stata provocazione stilistica, negli anni Settanta è stato l’intervento politico, nelle forme del teatro politico, del teatro di strada; negli anni Ottanta è stato un tirar le fila di queste esperienze, non più provocare ma riprendere a dialogare. Il problema è che non è mai stato messo in discussione il modello produttivo. Dal punto di vista della poetica…Io sono cresciuto negli anni Ottanta e ho visto la Raffaello Sanzio, la Valdoca, gruppi che tutt’ora esistono e anzi non vogliono andarsene via!Invecchiare è biologico, e così sono invecchiate le persone che fanno parte dei gruppi. Le persone più adulte non possono fare ricerca pura per tutta la vita. Ad un certo punto hai delle cose da dire prima di morire.In tutti i lavori stiamo lottando per non andare in pensione troppo vecchi; in teatro stiamo lottando per lavorare fino a novant’anni: qui c’è qualcosa che non quadra! È chiaro che quando sei giovane sei aspro, poi c’è una mezza età, poi c’è un’età matura e poi c’è un declino. Questo è nella natura umana! Come puoi fare sempre il giovanile e piacere sempre ai giovani quando hai proprio un’altra vita? Anche io, ad un certo punto, avevo degli attori giovani, eravamo un gruppo, ma io ho chiaramente delle esigenze di comunicazione diverse rispetto a quelle che avevo all’inizio. Non sto dicendo che tutti devono finire, ma che si debbano evolvere è un dato di fatto. La cosa che mi angoscia del teatro è che tutti sono sempre giovani… Invece c’è un altro tipo di bellezza, anche.

Quando abbiamo fatto A ferro e fuoco la domanda di base che ci ponevamo era: noi abbiamo uno spettacolo ideologicamente forte, ma quale forma possiamo dargli? Non può essere un manifesto politico, deve essere qualcosa di artistico. È quello che più ha dato fastidio dello spettacolo. Quando tu dai una forma bella a qualcosa, a un contenuto che per tutti è brutto, dai fastidio.In questo momento, il teatro deve prendere di nuovo coscienza che è l’unica forma artigianale e artistica che ha un rapporto diretto artista-spettatore e perciò ha un effetto devastante in questa società, in cui c’è la sistematica eliminazione della felicità. Il teatro è una delle poche forme che permette di raccontare delle cose

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e il potere in quel momento non ti controlla: sei lì. Allora non puoi farlo in posti finanziati: devi crearti degli spazi ‘liberati’.

Con il senno di poi, posso dire che il Teatro a Canone doveva affittarsi un posto suo, lavorare per creare un circolo culturale, focalizzandosi sul teatro ma non riducendosi solo ad esso. Non ci siamo aperti abbastanza e siamo caduti, come fa gran parte del teatro, in una spirale di autoreferenzialità, che porta a perdere il contatto con il mondo, con la vita quotidiana e quindi con gli spettatori.Noi abbiamo provato a farlo solo in parte, lavorando nelle scuole e replicando A ferro e fuoco in sede, ed ha funzionato. Secondo me, questo sarà il futuro del teatro. Lavorare come se fosse una piccola impresa privata: non ha altro modo. Con una forte componente stilistica. Ovvero, devi aver chiaro quello che vuoi fare, in modo che la gente venga in quello spazio e tu possa usare il momento dell’incontro per contarti. Per contarti, capire quanta gente la pensa come te, può pensarla come te, a cui piace quello che dici e quello che fai.La gente va a teatro per sentirsi raccontare e per trattare con te delle questioni anche sgradevoli in una forma bella. Questo obiettivo l’ho rincorso sempre, ma non sempre con una coscienza così forte. Io fatto mio il pensiero di Renzo, che pensava che “Il bello salverà il mondo”, come si legge in Dostoevskj, però all’inizio per me era uno slogan. Poi lui è morto in un momento in cui questa poetica si stava evolvendo, perciò non si può dire quale sarebbe stata l’evoluzione del suo pensiero. Io vi ho partecipato, però non mi sento autorizzato a dire qualcosa. Ne abbiamo parlato tanto insieme… è stato importante per me, ho capito che ci deve essere un lavoro continuo di preparazione per creare questa “forma bella e piacevole”.

Io sono andato all’Odin, ma ho capito che dovevo fare altro, in particolare a proposito dei contenuti. Io avevo una profonda conoscenza postmoderna della letteratura, mi interessavano i romanzi e la storia; quando trattavo di storia e di storia legata alla politica, mi aiutavano sempre i romanzi. Nella lettura, nel libro, anzi proprio nei romanzi trovavo delle figure, anche un po’ mitiche, che mi interessavano, di giovani morti giovani. Questo è un elemento fondamentale per me, che ha le sue radici in due spettacoli. Uno è Talabot, l’altro è Elementi di struttura del sentimento di Gabriele Vacis, tratto da Le affinità elettive di Goethe, che per me fu un’illuminazione perché rispondeva alle mie esigenze rispetto al teatro – sulla musica, il corpo dell’attore, la scenofonia, ovvero il rapporto dell’attore dentro una sorta di magma musicale, una scenografia sonora. Quello spettacolo mi sconvolse! Avevo vent’anni… mi colpì perché non pensavo che da un libro di Goethe potesse nascere uno spettacolo così contemporaneo.

C’è una forte ignoranza da parte dei giovani nei confronti della storia, sia di storia del teatro che di storia generale, per cui si pensa che si è ‘nati imparati’. Io ho sempre avuto una forte riconoscenza nei confronti di chi avevo deciso fosse mio maestro, che non significa fare sempre la stessa cosa, ma anzi farla evolvere. Ho avuto, da un punto di vista stilistico, un momento in cui volevo fare degli spettacoli uguali a quelli di Barba, uguali a quelli di Renzo, ma poi ho capito che se non evolvevo, questo portava a inaridirmi. Nel lavoro d’attore, sul training e sulla musica, l’approccio era originale e in certi aspetti si discostava dalle regole del cosiddetto terzo teatro. Ho sempre ammirato molto Barba, ma non lo reputo un mio maestro anche se ho frequentato l’ISTA, a differenza di Renzo.Il rapporto tra me e Renzo, dopo una prima fase da allievo–maestro, si è trasformato in un rapporto d’amicizia profondo; data la grande differenza d’età che ci separava è diventato quasi un rapporto tra padre e figlio. Renzo è comunque stato per me un grande maestro, io senza di lui non sarei esistito come regista; grazie al rapporto con lui ho intrapreso un percorso professionale che non potevo intraprendere senza i suoi consigli e il suo credere in me, lui è stato molto bravo a far crescere in me l’autostima in quanto regista, a farmi capire che io ero in grado di fare il regista di professione. Renzo mi ha aiutato molto nel farmi capire l’approccio etico con la professione teatrale, più che le cose tecniche. Dopo la sua morte mi son sentito molto responsabile nel portare avanti quella che era la sua etica; non mi son mai sentito un allievo di Renzo se non dal punto di vista etico e morale. Penso che Renzo abbia lasciato un vuoto incolmabile nel panorama del teatro italiano, non solo per la sua maestria di regista e studioso di teatro orientale, ma come promotore di un’idea teatrale come scelta di vita etica. Riassumendo, Renzo è stato per me, amico, padre ed in ultimo maestro.Non li ho mai imitati neanche dal punto di vista produttivo. Ho sempre usato quelle conoscenze, quelle tradizioni; ho sempre avuto e ho tutt’ora profondo rispetto per queste persone. Non penso che bisogna ‘uccidere’ i maestri ma, come con la famiglia, bisogna allontanarsi. Non puoi essere indipendente se stai sempre legato alla famiglia, perché questa detterà sempre le leggi. Il maestro è colui che sa comunicarti delle

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cose ma non te le dice, te le fa capire in qualche modo affinché tu possa crescere. È un motivo per il quale, ad esempio, non si riesce a tenere insieme il gruppo: perché le persone non riescono a staccarsi, perché le persone non riescono a capire che oggi far teatro significa andare a vivere in una situazione che è diversa dal comune modo di vedere. Non si può pensare di essere ragazzi a trent’anni, che è la convinzione dei teatranti – e non solo: a trent’anni sei un adulto. Qui sta il problema dei teatranti: a trent’anni devi pretendere di avere il tuo teatro. Non puoi essere presuntuoso nei confronti dei ‘vecchi’, non puoi scalzarli, ma devi dire: Io sto dicendo delle cose importanti! Parliamoci chiaro, a trent’anni non puoi nasconderti dietro al fatto che sei un ragazzino, non lo sei! Uno non può tornare dalla famiglia, uno non può ribellarsi alla famiglia a trent’anni – questo lo sto dicendo dei miei attori ed è stata una mia debolezza non farglielo capire.

Il lavoro dell’attore è il lavoro creativo. I rischi della pedagogia sono due: uno è l’autoreferenzialità, cioè la possibilità che diventi un lavoro che fai su di te, un’autopedagogia che porta ad inaridirti; l’altro è rapportarla con l’esterno solo perché fa guadagnare, il che è altrettanto deleterio, perché se nello stesso tempo non hai in parallelo la possibilità di creare, esaurisci gli allievi.La pedagogia è un passaggio per l’attore, ma un attore deve fare spettacoli e incontrare lo spettatore. Io lavoravo sugli spettacoli e davo delle linee guida, ma penso che un attore dopo un anno di lavoro abbia tutte le capacità d’indipendenza e che con il regista abbia bisogno di altro, di alcuni incontri dal punto di vista pedagogico e della sua presenza costante in sala. E chiaramente io ho bisogno dell’attore. Non ho mai detto: Fai così. E l’attore che dice: Io sono libero di fare di tutto, è presuntuoso. Sì, c’è quella direzione indipendente nel lavoro, ma in funzione di un lavoro di gruppo, non di un lavoro individuale.

Penso che la permanenza fissa in un posto, la territorialità tanto sbandierata dai gruppi, sia la morte della ricerca, perché entri in dinamiche competitive con le altre realtà locali. Certo, poi dipende se radicarsi sul territorio si fa in attesa di avere il teatro grande, di andare a gestire il teatro comunale, oppure se è veramente una scelta di vita. Però credo che la territorialità porti ai particolarismi, perciò ti ammazza.Questo è il grande problema. In questa fase storica, la territorialità è deleteria, perché non ci sono i soldi per sostenerla. Le Residenze sono puro mercato, sono sostenute dalle fondazioni bancarie; attuano uno scambio fra di loro fatto semplicemente dei loro spettacoli e basta.Io mi sono fermato perché non potevo fare diversamente. Quando avevo partecipato al bando per la sede, ero ancora un po’convinto che la territorialità potesse essere positiva, ma quando siamo arrivati qua, io Lorenza e Luca eravamo tre sradicati. Nessuno era del posto: io mancavo da quindici anni, Lorenza è aquilana e Luca è romano, perciò non sapevamo niente delle dinamiche del luogo. Nei primi tempi non ci scontravamo con nessuno perché non sapevamo nulla di questa realtà e questo, in alcuni casi, può portare all’autodistruzione. Non ho una certezza su questo, certo radicarsi è più complesso dal punto di vista della produzione, perché c’è l’ulteriore problema di avere “i vestiti buoni” per presentarsi sul territorio.

All’inizio, la Scuola era questo: il viaggio come scoperta, in modo molto banale. Inoltre, io dovevo spostarmi continuamente per vendere seminari e pensavo che queste persone dovevo portarle via da casa, altrimenti non mi avrebbero seguito neanche per due anni, perché le pressioni delle famiglie sono fortissime, lo sono anche quando sei adulto. Occhio non vede, cuore non duole: tu te ne vai e dopo potrai instaurare un rapporto fortissimo, ma più avanti, a distanza o al ritorno. Io penso che il ritorno alla tua realtà di origine, da cui te ne sei andato, non sia mai positivo in quanto tale. Questo era il motivo per cui viaggiavo.Ricordiamoci che c’era l’Università di l’Aquila che ha sponsorizzato la Scuola, e non poco. Il progetto era mio a tutti gli effetti; con [Ferdinando] Taviani parlavo continuamente dei contenuti degli spettacoli, dell’allenamento degli attori e di come realizzare questo progetto. Dal dialogo si è passati a concretizzare questa idea. Era una vita comunitaria a tutti gli effetti. Una situazione difficile da sostenere, ma ero cosciente che era l’unico modo, a meno di non avere i soldi necessari e uno spazio fisso.

Mi è stato chiesto: Perché fai tante repliche? Perché uno spettacolo non può avere un processo lunghissimo. C’è un processo di alcuni mesi, ma poi lo devi far uscire, lo devi portare fuori. Le prime repliche sono quasi delle prove, perciò è necessario fare circa 100 repliche affinché lo spettacolo arrivi ad essere completamente ‘finito’. Le prove aperte fanno parte della fase del processo, ma pian piano si arriva a un livello sempre più compiuto del lavoro. Alle prime repliche, il pubblico vede già uno spettacolo, ma il giorno dopo puoi cambiarlo in funzione di quello che è successo, del suo impatto con il pubblico. Questo per le prime 15-20 repliche. In partenza lo spettacolo è finito, ma sai che può avere un’evoluzione. È una questione che verte più

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sulla forma che sul contenuto. Stiamo parlando di processi che possono durare da sei a otto mesi di lavoro quotidiano: sei giorni alla settimana lavoravamo per otto ore al giorno.Arrivi ad un punto in cui devi mostrare lo spettacolo, per cui fai delle repliche in sede – è sempre stato così, per noi – dove lo fai vedere a pubblici disparati, piccoli gruppi che ti dicono ‘a caldo’ quello che pensano; però ho sempre chiesto che lo si facesse davanti agli attori, mai in disparte. Quando c’era una certa sicurezza (non c’è una regola precisa) lo fai uscire con una prima ufficiale, solo che tu sai che può cambiare. Gli spettacoli si fanno negli interstizi, diceva sempre Renzo. È vero: sono quelle piccole sfumature che cogli nella reazione del pubblico, nella reazione del bambino che non capisce. Non puoi partire dal presupposto che il pubblico non capisca: se non ha capito, spesso è perché c’è qualcosa che non è andato in te, nel tuo lavoro.Noi volevamo comunicare. Per noi il teatro era comunicazione: avevamo delle cose da dire al mondo! Per questo noi eravamo disposti a cambiare delle cose, non il contenuto complessivo…si doveva sempre passare attraverso la forma, in particolare l’azione dell’attore, per permettere di comprendere meglio. A ferro e fuoco l’abbiamo cambiato mille volte… A ferro e fuoco ha avuto una lunga fase di prove aperte, con amici e non, e man mano è cambiato, perché sapevamo che era uno spettacolo difficile sui contenuti.

Il mio unico rimpianto è A ferro e fuoco, perché penso che sia lo spettacolo più bello io che abbia fatto. Perché io in quello spettacolo – è importante dirlo, anche se può sembrare un po’ scostante – ho raccontato una storia che volevo raccontare, con un risultato finale per cui è l’unico spettacolo di quelli che ho realizzato di cui penso: Ecco, questi sono gli spettacoli che piacciono a me! Con un rapporto fortissimo di adesione ideologica, in funzione del contenuto e del processo creativo, con Lorenza [Ludovico]. C’è stato un culmine del nostro rapporto, che ovviamente passa anche attraverso la storia privata. Lo spettacolo è nato come un monologo perché Luca [Vonella] era stato operato, e solo dopo è diventato un ‘duologo’. Lì Luca era una figura secondaria, non ha lavorato così tanto, è sempre stato in sala, ma io non ho avuto un rapporto così forte con nessun altro attore come con Lorenza, nella preparazione di questo spettacolo. Quello è stato il momento massimo della mia carriera artistica perché combaciarono la curiosità forte di Lorenza per i temi e per la loro messa in scena con la mia esigenza di comunicare a un’attrice giovane queste cose. Non mi era mai successo, neanche con Oggi è domenica domani si muore, perché io e Alessandro [Rigoletti] eravamo quasi coetanei, abbiamo sei anni di differenza; là trattavo un tema estremamente personale, qui invece raccontavo una storia pubblica che a me interessava raccontare e avevo una persona che mi chiedeva continuamente il perché di certe scelte, che mi stimolava, che si poneva delle domande nel raccontare quella storia. Questi discorsi sugli spettacoli, a livello di contenuto-pretesto e di contenuto profondo, non sono sempre stati affrontati con tutti i componenti, perché la Scuola Ambulante era una scuola, perciò i ragazzi erano allievi. C’è stata una fase finale, quando abbiamo lavorato allo spettacolo su Julian Beck, che indicava l’evoluzione della Scuola verso un qualcos’altro, allora lì si è discusso, ci si confrontava; con Chagall c’erano già meno persone rispetto all’inizio, era un andare verso una compagnia. Zio Vanja era il risultato di un laboratorio di L’Aquila, infatti c’erano i seminaristi sul palcoscenico, però non è mai stato considerato uno spettacolo, a parte il fatto che ha inaugurato il Festival di Bergamo.È stato un processo unico. Infatti è stato quadruplo il dolore per la censura, nessuno può capire cosa ho provato. Lì è stato soffocato un momento per me altissimo di creatività. Per me era un non riconoscimento di un’onestà intellettuale e umana che non ho mai avuto in altri spettacoli – l’ho sempre cercata, ma non è mai stata così forte. Per i suoi tratti politici, mi sono ostinato a volerlo fare anche dopo la censura; siamo andati in tutti le realtà a noi simili, non ha mai avuto meno di una settimana di prove prima di qualsiasi replica, una settimana di prove nella quale bloccavamo tutto il resto del lavoro. Era sacro e lo è tutt’ora. Per me quello spettacolo è la summa del mio far teatro.Parla di vita e, è una cosa banale, si è mescolata la vita privata al lavoro professionale. Non è che volessimo fare i brigatisti; noi stavamo raccontando una storia che per me, Lorenza e Luca in un secondo tempo, era molto vicina alla nostra esperienza, al nostro vivere, in parte. Non c’è mai stata un’immedesimazione, ma A ferro e fuoco è stato un momento intellettualmente alto, umanamente alto, non politicamente. È la ragione per cui ha dato fastidio lo spettacolo. Tutti arrivavano lì pensando: Adesso ci sono gli slogan, i pugni chiusi, le bandiere rosse... non c’era niente di tutto questo. Lo senti anche dal suono della registrazione radiofonica, molto rarefatto; dal vivo, lo spazio sembrava quasi un giardino zen, con una cura del dettaglio della scena che non avevamo mai avuto prima. Avevamo sempre curato molto le scenografie, ma non il dettaglio fino a questo punto.

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Nottate intere passate a discutere su come realizzare questo spettacolo. Abbiamo maneggiato la storia delle Brigate Rosse! Un gruppo di ex militanti scrisse che era la prima volta che vedevano una cronaca e non una presa di posizione sulle Brigate Rosse – questo diventava molto pericoloso, non lo fanno i giornalisti, immagina i teatranti! Ecco, questa è l’unica amarezza che ho nei confronti del passato del Teatro a Canone. Nessuno, neppure chi ci ha difeso dopo la censura, ha capito che per noi era un pezzo di vita che ci veniva negato; un pezzo di vita, di difficoltà, di gioie, di confronto sotto tutti i punti di vista, da quello politico a quello professionale a quello sentimentale. È il non riconoscimento del tuo impegno nel lavoro; che tu non hai fatto una cialtroneria per inneggiare alle Brigate Rosse, ma hai fatto un lavoro di ricerca profondo, sul contenuto e su di te; su di te come persona, sulla parte più profonda di te.Durante le prove, non c’è mai stato un momento di tensione – a parte che il Teatro a Canone non ha mai avuto grandi momenti di tensione… è stato sorridente.Questa remora non è politico-ideologica, ma politica in quanto parlavamo con la polis, con la città, o avremmo voluto. Abbiamo pagato il fatto di vivere in questo posto. Allora ci siamo inventati una nuova pratica e lì la nostra sede è stata preziosa, perché abbiamo replicato lo spettacolo molte volte, con una cena in chiusura, per piccolissimi gruppi di spettatori. Dopo la censura a Chivasso l’avremo fatto una trentina di volte, più o meno, però è stato stancante subire quello che abbiamo subìto.I teatranti e non che ci hanno sostenuti sono arrivati fino a un certo punto, poi pensavano ‘Adesso il gioco si fa troppo duro’, e ci hanno pian piano lasciati… Abbiamo avuto uno scontro molto forte con la presidentessa dell’A.N.P.I. di Chivasso, Tiziana Siragusa, che ci chiedeva di fare la prima dello spettacolo a Chivasso alla presenza dei familiari delle vittime delle Brigate Rosse: un processo. Noi non abbiamo accettato e da quel momento c’è stato un abbandonarci ed etichettarci come brigatisti. Tutto questo senza che nessuno avesse nemmeno visto lo spettacolo, solo una piccolissima parte dei consiglieri comunali l’aveva visto. L’abbiamo fatto esclusivamente in centri sociali e in spazi autogestiti, a parte Rovigo, al teatro del Lemming. Poi abbiamo realizzato una versione radiofonica, una cosa molto interessante. Federico Raponi, redattore di una rubrica di teatro su Radio Onda Rossa, vide lo spettacolo al Forte Prenestino; noi eravamo molto titubanti, poi abbiamo capito che poteva funzionare. Chiaramente la versione radiofonica dura 45 minuti, lo spettacolo durava un’ora e tre quarti: manca un’ora di azione…capisci che è tanto!Questo è quello che è stato e che adesso è A ferro e fuoco: un nervo scoperto, tutt’ora.

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Seconda intervista a Simone Capula. Formazione e spettacoli da Apdav alla Scuola Ambulante di TeatroIntervista per tappe, seguendo le tracce della teatrografia. 13-14 settembre 2011, Chivasso (TO).

Segni di TerraSimone Capula: È stata la mia prima regia in assoluto. Era all’interno di un progetto dove eravamo un gruppo di semiprofessionisti, che avrebbero voluto fare teatro come lavoro ma non riuscivano ancora a camparci. Succede questo, che c’è una spaccatura all’interno dell’associazione, ognuno ha delle idee diverse su come condurre il lavoro, allora si decide che quattro persone curano una regia ciascuno, usando gli altri, a turno, in un evento unico. Lo spettacolo veniva presentato dentro questo capannone industriale, in cui venivano creati diversi ambienti, divisi da teli che si aprivano, come separè, e potevi passare da uno all’altro; il pubblico veniva portato da una parte all’altra. Queste scene duravano più o meno mezz’ora l’una e non avevano un legame se non gli stessi attori, ma non c’era un legame contenutistico o stilistico.La mia regia era il punto di partenza; erano scene dalla Vita di Alfieri, io volevo fare più che altro uno spettacolo che parlasse di viaggio e rivoluzione; inoltre volevo che il protagonista fosse un personaggio piemontese. Allora Alfieri per me si prestava molto. Ecco che abbiamo preso delle scene minime dalla Vita di Alfieri e l’abbiamo elaborata in due scene. Era molto, molto visivo e risentiva molto dell’influenza del Teatro Settimo. Allora io seguivo molto Teatro Settimo, avevo seguito delle prove di Teatro Settimo, cioè lo frequentavo da amico proprio – era possibile seguire le prove. Allora Teatro Settimo iniziava questo lavoro profondo sulla musica, creando questi ambienti sonori, le ‘scenofonie’, e quello mi interessava; un’altra cosa era una profonda ricerca sull’immagine, ad esempio con l’uso di diapositive. Perciò noi abbiamo creato una vera e propria installazione artistica: un pavimento cosparso di sabbia, dove il proscenio era dato da delle piccole luci e c’erano circa duecento bottigliette di vetro, che riflettevano tutta la luce; sulle pareti, alle spalle degli spettatori,venivano proiettate delle piantine di città settecentesche. Questo perché c’era una forte influenza che già si sentiva in [Teatro] Settimo ma influenzava me in quel periodo, i film di Peter Greenaway, in particolare I misteri del giardino di Compton House (1982) e Il ventre dell’architetto (1987).Perciò ricreando delle immagini, nel nostro piccolo, avevamo uno spettacolo di forte impatto visivo ma con materiale poverissimo. Infatti mi ricordo che durante la lavorazione andammo a vedere al castello di Rivoli una mostra dei maestri dell’arte povera, Merz ed altri, che sono vere e proprie installazioni di una certa teatralità. Il testo era costituito da frammenti tratti dall’opera di Alfieri, rimontati come slogan, quasi. La scena verteva intorno al viaggio di Alfieri, visualizzato attraverso un ruotare, un ritmo minimalista molto incalzante, fino ad arrivare al momento rivoluzionario dove Alfieri veniva spogliato dei suoi vestiti di nobile. Molto plateale! Ma ero giovanissimo, avevo ventun’anni.L’abbiamo replicato per molte sere all’interno della nostra sede. Divenne una sorta di evento questo nostro spettacolo ‘a pezzetti’, perché era fatto per piccoli gruppi di spettatori, mentre allora gli spettacoli erano fatti per tanti.Dopo la mia, seguiva una scena abbastanza strutturata; poi c’era una terza scena, un monologo su una violenza sui bambini, fatto dall’attrice che era l’unico legame di tutto lo spettacolo, accompagnava il pubblico durante la serata e poi diventava la cameriera a tavola perché l’ultima scena avveniva a tavola, dove gli spettatori mangiavano una cena vera e propria, semplice, durante il racconto di Andrea Demarchi, che stava finendo il suo primo romanzo allora, che faceva l’Alfieri nel mio pezzo. Demarchi leggeva questo suo racconto a tavola e ad un certo punto arrivava lo spezzatino con le patate nel punto in cui il racconto parlava di una storia di cannibalismo, di un uomo che abbordava dei vecchi sull’autobus, poi se li portava a casa e ne faceva lo spezzatino con le patate. E questo finiva la serata...!Ecco, Segni di terra era una cosa fatta molto a ‘uso famiglia’, uno spettacolo molto ‘casalingo’.Tra l’altro le storie legate a quel periodo del nostro far teatro sono raccontate in un libro di Andrea Demarchi che si chiama Sandrino e il canto celestiale di Robert Plant.

Intanto avevamo fatto anche spettacoli per bambini come attori, perché io lavoravo anche come attore in un gruppo di teatro ragazzi di Aosta. Viaggiavo, facevo laboratori per gran parte del tempo e recitavo in due spettacoli. Era una bella struttura di teatro ragazzi, ma è stata un’esperienza molto negativa, non ho dei bei ricordi e infatti poi ho smesso, perché lì c’era un improvvisarsi e a me dava fastidio; a me dopo un po’ stava stretta questa cosa, perché non ti potevi esprimere, facevi l’impiegato del teatro. Però c’era questo gruppo di

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teatro qui a Chivasso, perciò avevo trovato una valvola di sfogo. Non l’ho fondato io, io sono entrato dopo il servizio militare; l’ultimo mese, gennaio ’86, ho incontrato queste persone perciò ho iniziato a fare queste cose.Ho iniziato all’istituto magistrale perché mi ero innamorato di una ragazza… non me ne importava niente del teatro, proprio niente niente! Seguivo molto il cinema, ascoltavo musica… Durante un’occupazione, c’era un Collettivo Teatrale – si chiamava così – e cercammo di mettere in scena un testo di Kafka, Il custode della cripta. Dopo il militare ho incontrato queste persone interessate, intanto quella ragazza che avevo conosciuto era diventata la mia fidanzata, si interessava di teatro e perciò ho continuato. Poi, dopo un anno, ho provato a fare questa regia e la fine di questa regia combacia con la visione di Talabot, dell’Odin, e lì c’è una svolta, perché Talabot mi colpisce profondamente. Era uno spettacolo particolarmente bello, faceva convivere la forma con il contenuto, cosa che io non avevo trovato ad esempio in Teatro Settimo, dove il contenuto mi interessava ma non in modo così forte come per lo spettacolo dell’Odin: Talabot era uno spettacolo denso dal punto di vista dei contenuti. Ero rimasto molto colpito, perciò volevo conoscere quelle persone. Tra l’altro in quei giorni stavo seguendo un seminario con l’Odin, con Torgheir, come attore. Io allora non sapevo niente di queste cose, per me l’Odin era completamente sconosciuto, avevo solo letto degli articoli su di loro.

Allora lì rimaneva da andare a incontrare le persone che avevano fatto questo spettacolo, quindi scrissi a Barba. Io ho scritto il giorno dopo lo spettacolo, a Barba, proprio. “Caro Eugenio Barba… – io non sapevo che fosse così importante! – io trovo interessante il vostro lavoro… mi è piaciuto il vostro spettacolo.” E dico: “A me piacerebbe venire a vedere le vostre prove”. Barba mi rispose, con una lettera scritta a mano (che io non trovo più…eh sai con i traslochi, sai quante case ho cambiato? Non ho nemmeno la prima lettera di Renzo; l’unica cosa che io ho di Renzo è una dedica su un libro di Camus), scrivendo: “È molto interessante, sono contento che ti interessa quello che facciamo noi; noi terremo un incontro internazionale che inizia il 15 agosto, di teatranti, di attori… se vuoi venire sei il benvenuto.” Era il 1991.Io rispondo: “Sì, certamente sono interessato a venire.” Io poi non lo conoscevo; a quel punto avevo capito che era una persona importante, non uno dei tanti gruppi; cioè bisogna pensare anche che nel mondo del teatro allora eravamo tutti amici e quando arrivavano questi mostri sacri non ti rendevi neanche ben conto… Allora io dissi sì a Barba, ma non avevo i soldi per andare e andai in autostop! Sono partito da solo e ho impiegato due giorni arrivando tre giorni in anticipo.Immagina che il ’91 era un culmine dell’Odin dal punto di vista della loro permanenza all’interno del mondo teatrale mondiale: erano un punto di riferimento per tantissimi gruppi europei e in particolare italiani e i numeri uno in Sudamerica; la gente faceva a pugni per andare all’Odin. Questo era un primo esperimento dell’Odin week.Quando sono arrivato all’Odin, ho trovato subito un ambiente. Noi che arrivavamo là, ci sentivamo subito coinvolti in una ‘situazione’, partecipi di un qualcosa: è quello che manca al teatro di questo momento. La solitudine del teatrante non è una solitudine reale; è che non trovi tu il tuo ambiente. Questo penso che ci sia un po’ in tutte le forme di artigianato; nel teatro, almeno in quella forma di teatro, io ho scoperto che potevi far parte di un ambiente. Che poi poteva essere funzionale ad avere altri spettatori, quello è un altro discorso, però tu ti sentivi partecipe. C’era una promiscuità buona, si viveva tutti insieme, si condividevano delle esperienze…La giornata di lavoro iniziava il mattino molto presto, verso le 6.30 mi pare, con una corsa leggera, di una ventina di minuti, nel bosco; poi si andava in sala e si faceva la prima ora e mezza di training con Roberta Carreri, che per me è stato la base del training fino a luglio di quest’anno, con il Teatro a Canone. Era un allenamento sulla scomposizione del corpo e sul rallentatore, perciò su come scomporre e controllare qualsiasi piccola parte del corpo. Era un lavoro quotidiano e continuo, dal lunedì mattina alla domenica sera. Poi c’era una pausa, facevi uno spuntino molto leggero e riprendevamo; c’era un incontro con Barba, in cui ‘smontava’ la regia con delle dimostrazioni degli attori; delle conferenze e una parte libera in cui ad esempio potevi andare a vedere i video nella sala video. Ogni sera si vedeva uno spettacolo, e lì ho rivisto Talabot in danese, ho visto per la prima volta Itsi bitsi in danese, Il castello di Holstebro, Judith. Le sale erano aperte anche alla popolazione di Holstebro, ma c’era pochissima gente, sì e no una decina di persone.Mi colpì come davano un peso al testo quando io pensavo che invece non glielo dessero. Questo è stato uno dei grandi insegnamenti, per loro il testo era fondamentale nello spettacolo.

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L’ultimo giorno è finito tirando le fila, con Roberta Carreri sul training e Barba sul lavoro sulla regia, e con una festa finale.Immagina che per me era arabo; dei libri di Barba ne avevo letto solo uno. A me aveva veramente colpito Talabot. Io mi resi conto che c’era un qualcosa … Quello spettacolo aveva innanzi tutto una disposizione del pubblico che ti rendeva partecipe dello spettacolo. Io ne ricordo gli odori…mi colpì l’odore di pesce e di birra mescolati; mi ricordo che gli attori recitavano alle spalle del pubblico; cantavano, suonavano, ballavano – lì era un teatro totale. Io nella mia ingenuità avevo capito che aveva un qualcosa di più di quello che avevo visto fino a quel punto. Per me allora il massimo era Teatro Settimo, direi, però gli attori di Teatro Settimo non erano come quegli attori! Cioè, loro creavano delle forme; tu invece in quello spettacolo vedevi che c’era una vita interna, del profondo – questo senza togliere niente agli altri spettacoli, dipende proprio da una scelta artistica diversa e soprattutto, gli attori dell’Odin erano più vecchi, erano cinquantenni già allora. Alla fine di questo mese avevamo una struttura di training, potevi avere la tua quotidianità di training attraverso quello che Roberta ti aveva insegnato – lanci, disequilibri, cadute… Infatti quando sono tornato volevo provare quegli esercizi, a tutti i costi.Io guadagnavo con il teatro d’Aosta, però a quel punto andai in crisi perché avevo trovato il teatro che volevo fare, perciò quando sono ritornato mi sono detto: “Ma perché fare ancora ‘ste stupidate?” Quindi me ne andai anche dall’Apdav, li ho proprio maltrattati, però nell’Apdav non ero mai andato d’accordo con Nino [Ventura]. Avevo bisogno di un riscatto perché ero considerato l’incapace del gruppo da Nino [Ventura], che era il leader e obiettivamente era il più carismatico. Io avevo delle idee ma lui non le ha mai tenute in considerazione. Nino [Ventura] pensava che io non fossi all’altezza, lo pensava sinceramente, e io dovevo scalpitare! Ecco perché a quel punto c’è stata la rottura: io lì non avrei potuto innanzitutto provare quello che avevo visto all’Odin, perché nessuno mi prendeva sul serio! E poi ognuno di noi stava andando a degli interessi particolari. A noi del teatro interessava utilizzare dei mezzi e dei contenuti che erano nostri, per me ad esempio la preparazione della scena sull’Alfieri era proprio innanzitutto partire dalla letteratura, dal libro, una cosa che Nino rifuggiva.

Torno dall’Odin con l’indirizzo del Tascabile e la voglia di lasciare le esperienze precedenti, quelle cose che non erano più interessanti per me, mi stavano strette. Chiedo ai membri del gruppo Anpdav se vogliono fare un esperimento; solo una parte di loro vuole, Andrea [Demarchi], Jane [Marinoni], Francesca [Falletti] e Paola Tella, così ce ne andiamo nelle campagne del vercellese e iniziamo a studiare La Malora di Fenoglio. Ne nasce una strana cosa, una via di mezzo tra la narrazione, che Settimo praticava molto nei suoi spettacoli, e quello che io avrei voluto ma che non ero in grado di fare. Ne è uscita una specie di deposizione: eravamo seduti e raccontavamo. Questo è il I° studio su ‘La Malora’ di Beppe Fenoglio.

I° studio su ‘La Malora’ di Beppe FenoglioFondamentalmente era una lettura di monologhi elaborati da episodi del testo, contro un muro, a lume di candela; un insieme di frammenti il cui nucleo centrale era la religiosità domestica. Io ho sempre amato molto Fenoglio; in Fenoglio ritrovi la giornata scandita dal suono delle campane e dai ritmi religiosi, in una pseudoreligiosità del focolare, cosa che ho sempre rifuggito personalmente, però nella rielaborazione funzionava. Ma siamo stati un weekend a fare questa cosa, non pensare a chissà che cosa!Era una stupidaggine, però da un altro punto di vista è stato uno scatto in avanti di anni luce perché per la prima volta si sperimentava. Cioè invece di dire “Mettiamo in scena il testo”, non c’era niente: si era arrivati a un grado zero e abbiamo capito che si poteva fare una ‘mente collettiva’.Ne risultava una specie di Deposizione, che poi è diventata una fucilazione; ma la cosa importante era innanzi tutto, per me, aver potuto sperimentare una cosa nuova e dire una cosa mia – forse usciva già questo mio brutto carattere; dall’altra parte si è capito che non bisognava avere per forza il testo con le battute per creare uno spettacolo, perché noi partivamo da quello, ma… Oh, il teatro non era così avanti in quegli anni! A parte Teatro Settimo, c’era molta sperimentazione, ma rimanevamo sconvolti dalle sperimentazioni! Cioè, quando abbiamo visto la Raffaello Sanzio con Santa Sofia. Teatro Khmer, ci sconvolse, ci sconvolse alla lettera! O quando vedevi la Valdoca che in scena bruciava i giocattoli con le fiamme ossidriche; quando vedevi Tiezzi e i Magazzini Criminali che portavano in scena Beckett [in Come è, 1987] e non si capiva niente, niente – cioè: bello, ma non c’ho capito niente! Eravamo dieci a Vercelli a vedere quello spettacolo… Questo è fondamentale, perché si parla tanto, ma qui stiamo parlando degli anni dall’ ’88, ’89, ’90; non era così avanti il teatro… le cantine romane erano a Roma, non erano a Torino! Questo bisogna un po’ ricordarlo… Qua a Torino c’era proprio questa pesante egemonia del Teatro Stabile e del teatro ragazzi,

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perciò non avevi altri spazi. Quando abbiamo fatto Punti di vista, la gente di Torino è arrivata qua, sono arrivati gli attori del Teatro Settimo… eravamo diventati anche noi, per un momento, un riferimento; si capiva che poteva nascere qualcosa…Nino non la visse bene, per noi invece è stata una forza. Allora la questione era impormi con una profonda esigenza di sperimentazione. Quindi ho lasciato l’Anpdav e mi sono ricordato di Aldo Pasquero, che teneva un laboratorio nel liceo dove insegnava, dove io ho potuto sperimentare, mentre facevo ancora parte del teatro d’Aosta. È stato interessante sperimentare con altri il training. L’evoluzione del training che avevo visto a Holstebro fu violentissima; chi vedeva il nostro training rimaneva sconvolto perché era di una durezza… ci sbucciavamo proprio le ginocchia… lo definirei addirittura militare.Da lì nasce un vero e proprio gruppo di allievi e nel frattempo nasce un laboratorio interno al liceo, che si svolgeva nelle ore serali. All’interno ci sono già Alessandro [Rigoletti], Silvia [Baudin]… eravamo una decina, quasi tutte persone che poi hanno continuato a fare teatro dal punto di vista professionale, chi con il Teatro Tribù e altri andando a fare altre esperienze.…Fino a che non arriva l’estate e i ragazzi finiscono la scuola. Noi diciamo che c’è da fare un salto di qualità, che dovranno lavorare molto. Questo implica che ci trasferiamo in una cascina sopra Chivasso, su una collina, viviamo lì e proviamo il nostro primo spettacolo.

Il Teatro Tribù, all’inizio, era composto da otto persone, poi si defilavano sempre con il passaggio al professionismo. Io penso che la propensione deve essere vivere di questo lavoro, di teatro, non può essere dilettantismo, anche nel senso migliore del termine. Il riconoscimento è fondamentale, non essere riconosciuti è frustrante. Abbiamo deciso di chiamarci Teatro Tribù perché vivevamo come una tribù quando ci siamo trasferiti in una cascina abbandonata su una collina, in un posto molto isolato. Il gruppo grosso è stato all’inizio, con Volo di farfalle; abbiamo fatto anche uno spettacolo di strada, Atlante, fallimentare, perché io non so creare spettacoli di strada, e poi c’è stato subito uno scioglimento. abbiamo fatto alcuni piccoli studi legati a Brecht, ma già c’era lo sfaldamento del gruppo.

Volo di farfalleMentre portiamo avanti questi esperimenti e il training, penso di riprendere la vecchia idea di Fenoglio, della Malora, però unisco lo studio sul Il partigiano Johnny. Iniziamo a fare esperimenti di montaggio dello spettacolo, mescolando i due universi della vita contadina e delle storie partigiane; iniziamo a costruire delle scene e iniziamo a fare un training molto forte.Volo di farfalle lo portavamo nelle aie, anche quando andavamo in altre città. Era uno spettacolo senza scenografia, nel pieno stile del Terzo Teatro, del teatro povero di Grotowski; il problema era che aveva bisogno di un porticato con un arco i cui pilastri avessero una distanza di 5 m l’uno dall’altro, altrimenti non si poteva fare, perché era tutto calcolato al millimetro, perciò era peggio di una scenografia mastodontica!Lì rimaniamo in otto, se ne vanno via un po’ di persone perché era molto dura questa vita comunitaria, ad esempio non c’era l’acqua corrente, così ogni tanto scappavamo a casa... Facciamo una prima versione dello spettacolo e invitiamo delle persone di Chivasso a vederlo. Nella preparazione di Volo di farfalle, io davo dei compiti agli attori, chiedendo loro di lavorare su dei frammenti dei romanzi; da questi frammenti e da quello che gli attori elaboravano Aldo scriveva il testo di giorno in giorno. Anche la riscrittura del testo è stata fatta a frammenti, non ‘a tavolino’, diciamo. Io e Aldo parlavamo continuamente; lui al mattino non dava niente, io davo agli attori quello che avevo preparato (a volte nasceva qualcosa anche dai dialoghi tra noi due) e da quello lui elaborava il testo, perciò non era più Fenoglio, obiettivamente, era altro quel testo. I termini erano quelli di Fenoglio, dai due libri La Malora e Il partigiano Johnny nelle edizioni di Maria Corti e Lorenzo Mondo. Il titolo era nato dalla nipote di Aldo: provavamo nel garage di Aldo e a un certo punto c’era un’azione dove Roberta si soffiava su una mano, come se facesse volare una piuma, e la nipotina di Aldo dice: Ah, volano le farfalle! Nel silenzio si sentì questa voce di bambina. Poi Renzo volle aggiungere il sottotitolo ‘dramma lirico’, lui diceva che doveva sempre esserci un sottotitolo che chiariva; ‘dramma lirico’ non chiariva molto secondo me, però!Volo di farfalle era uno spettacolo itinerante in due stazioni. Al pubblico veniva dato appuntamento sul posto, dove trovava un cerimoniere che lo avrebbe accompagnato per una cinquantina di metri; a metà strada incontrava un partigiano (era Alessandro Rigoletti) che con un monologo, spiegava l’antefatto della storia. Alla fine di questo monologo sentivi degli spari e delle voci di donne in lontananza che chiamavano il partigiano: si capiva che c’era una guerra. Dopo un’altra camminata – 300, 400 metri, a seconda dello spazio – il pubblico andava a sedersi, su delle sedie messe a semicerchio, davanti a un porticato.

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Questo spettacolo non aveva luci, era illuminato solo da torce e il fuoco sopra il quale cuocevamo la polenta, oltre ad un fascio di luce per il finale, per permettere il deflusso del pubblico, perché di solito lo facevamo in posti molto tortuosi. La storia era molto semplice, era la storia di una famiglia di quattro donne che aspettavano il fratello partito in guerra, che sarebbe tornato a casa morto. Era uno spettacolo molto danzato, non era una riduzione dei testi di Fenoglio; della Malora e del Partigiano Johnny c’erano l’ambientazione e i personaggi di riferimento, creavano un ambiente – in indiano si direbbe il rasa, il sapore. Era una drammaturgia di stile fenogliano che ricreava l’ambientazione contadina della Malora anche dal punto di vista sonoro, con le musiche di fisarmonica e i piemontismi del testo, in cui si inserivano altre storie partigiane che avevamo raccolto, di origine popolare diciamo. La mia esigenza era quella di parlare dell’antifascismo, perché io vedevo pericolosissimo l’oblio in cui stavano cadendo all’epoca i valori fondanti della repubblica, i valori della Resistenza.Lo spettacolo finiva con una dedica ai partigiani del posto, infatti in ogni posto dove andavamo, andavo a cercare i nomi dei partigiani. Finiva con un rosario di nomi di morti, 120 nomi, che Tatiana imparava a memoria, nome e cognome, e con la poesia di Primo Levi Se questo è un uomo.Nel frattempo io frequentavo il TTB.

Al TTB mi presento con un doppio biglietto da visita: da una parte ero stato dall’Odin; dall’altra, facendo un laboratorio in un liceo di Caluso, scopro che una persona, Corinna [Poggi], a cui è dedicato lo spettacolo Oggi è domenica domani si muore, era una ex attrice del Tascabile, aveva partecipato ad Amor Comenza ma poi non frequentò più Bergamo. Erano venti anni che non vedeva Renzo, allora unisco l’utile al dilettevole: per farli incontrare invito Renzo a vedere lo spettacolo. Sarebbe venuto lo stesso, lui andava molto spesso a vedere gli spettacoli dei giovani.L’incontro avviene una sera in cui il TTB organizza una full-night di Kathakali. Io non sapevo neanche cosa fosse il Kathakali, una ‘full-night’ neanche, però dovevo andare a trovare questo gruppo e io e Renzo ci vediamo a questa nottata. […] Incontro Renzo, che mi delude molto perché è la persona più normale al mondo, io mi aspettavo uno completamente strampalato; poi, conoscendolo, era strampalato, ma non si vedeva, era un professionista. Lui mi parlava a smozzichi fra una cosa e l’altra; l’evento è durato tutta la notte ed è finito alle 6.30 del mattino – mi ricordo, e questo è uno dei più bei ricordi che ho di Renzo, che mi parlava ancora, bevendo il caffelatte con il Buondì Motta, e lui inzuppava il Buondì Motta dentro il caffelatte. Eravamo rimasti in quindici a quel punto, e Renzo mi lasciò dicendo: Tu stai preparando il tuo spettacolo; io vengo a vederlo e rivedo Corinna dopo tanti anni. Io assisto a questo incontro dopo vent’anni tra Corinna e Renzo; Renzo vede lo spettacolo a Gassino Torinese e ne rimane entusiasta, ma dice che ci sono delle cose su cui lavorare. Mi dice: ‘Fa’ una ripresa video e vieni a Bergamo; lavoriamo sul video e intanto vedi le prove del Tascabile, poi tu tornerai a Chivasso, farai delle prove con il tuo gruppo e poi io torno a vedere, se ti va, lo spettacolo’. Io accetto.Lì c’è veramente la svolta, perché Renzo vede lo spettacolo e ne è entusiasta, perciò dice Ci sono delle cose che non vanno, però… E poi lui, a detta di Corinna – anche se può sembrare un po’ presuntuoso – rimane molto colpito da me, personalmente; c’è stato proprio un forte feeling da subito, semplicemente perché Renzo, l’ho capito dopo, sentiva forte in sé una questione morale: lui voleva avere un rapporto etico col teatro.Vado da Renzo e il TTB stava provando Esperimenti con la verità, perciò ho la fortuna di assistere alle prove di questo spettacolo, prove molto complesse. Tra l’altro in quel periodo il TTB iniziava la giornata di lavoro con uno strano rito: stavano seduti e leggevano il De vulgari eloquentia ad alta voce…magari uno immaginava che leggessero altro, e invece iniziavano ogni mattina, ogni giorno con il De vulgari eloquentia di Dante! Una parte della giornata la dedicavamo a vedere e rivedere il video, Renzo mi indicava i pezzi dove secondo lui c’erano delle cose da ritoccare. Sono stato lì una settimana più o meno, vivevo a casa di Renzo. Tornato a Chivasso, riprendiamo in mano questo spettacolo; poi Renzo venne e disse: Funziona.Nell’arco di una settimana mi chiamano da Cagliari, un gruppo che si chiama Cada Die mi chiede se andiamo a presentare il nostro spettacolo, così come il Teatro dell’Aleph di Bellusco: erano gruppi che conosceva Renzo. Perciò noi ci troviamo dall’oggi al domani ad andare per festival, anche se piccoli. Abbiamo avuto una stroncatura mostruosa di Andrea Porcheddu per la replica a Bellusco, che io non trovo più, ma era una stroncatura pazzesca! Torniamo, l’abbiamo replicato nella ‘nostra’ cascina e in qualche paese, ma era molto difficile trovare lo spazio adatto e avevamo bisogno di due-tre giorni per allestirlo.La sera della prima al Teatro dell’Aleph succede una cosa molto bella: arriva tutto il TTB direttamente dall’aeroporto, erano stati in Sudamerica e ora erano venuti a vedere il nostro spettacolo, tutti. Con i fusi

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orari, non avranno capito niente! Renzo l’aveva visto, ma gli altri non l’avevano mai visto…E allora alla fine loro ci chiedono se a settembre lo facciamo alla chiusura del festival Sonavan… le vie dintorno. Il giorno in cui dovevamo replicarlo piove e viene rimandato, ma l’ultimo giorno riusciamo a fare lo spettacolo. Si era creata un’aspettativa tale! Lo abbiamo fatto, direi, in una cascina che adesso non c’è più, che si trovava dove adesso c’è il campo nomadi, lungo la ferrovia per Brescia, infatti la prima scena, l’incontro con il partigiano, avveniva sui binari del treno. Calcolando gli orari dei treni, si riusciva a farlo. […]

Atlante (con il ritmo di una danza)Iniziammo a lavorare ad Atlante perché c’era questo forte legame con il TTB e volevamo fare anche noi del teatro di strada. Io ho sempre odiato il teatro di strada perché “bisognava farlo”, allora era così: un gruppo che si rifaceva al Terzo Teatro doveva sperimentarsi nel teatro di strada. Iniziammo a esercitarci sui trampoli con risultati un po’ traballanti… Nacque Atlante, che però è stato fallimentare; uno spettacolo di piazza, di cui abbiamo fatto appena tre repliche. Si voleva fare uno spettacolo sui bambini di strada del Sudamerica, centrato sulla morte...infatti finiva l’uccisione di un angelo. L’angelo era spudoratamente copiato da Iben con il costume bianco; c’era Aldo in scena, vestito da prete (noi avevamo forte il pensiero della colpa della Chiesa in Sudamerica; adesso ho tutta un’altra posizione io, però allora pensavo che la Chiesa avesse delle colpe pazzesche). Però quello spettacolo è stato un fallimento; abbiamo fatto a Chivasso la prima; poi a Chiaverano e al Forte Guercio di Alessandria, e basta. Non funzionava, proprio era uno spettacolo che non decollava, io non avevo lo sguardo per il teatro di strada, non ero in grado.C’era un bellissimo video che abbiamo perso, delle prove di Atlante nel cortile del liceo, con Mirella Schino, alle due del mattino, con un plaid sulle spalle, infreddolita, che guarda le nostre prove. Immagina di pensare adesso a un professore universitario che va a vedere le prove alle due del mattino, in un cortile di un liceo, al freddo, così…!

Festival “Nuove tradizioni” A Bergamo c’è stato un incontro con i professori di discipline teatrali che erano venuti a vedere il festival del TTB, Taviani, Ruffini e in particolare la Schino, che insegnava all’Università di Torino, Silvia era sua allieva. Da lì nasce l’idea di organizzare un festival nostro a Chivasso, l’anno dopo, per radicarci sul territorio, che però aveva una caratteristica particolare. Era una monografia: si invitava un solo gruppo a presentare i suoi lavori per una settimana. Avevamo l’idea di invitare il TTB e perciò per una settimana ha riempito il paese di spettacoli; in quell’occasione il TTB ha fatto il primo frammento della Valse e ha presentato tutti i suoi spettacoli, dal Kathakali ai clown. In più ci sono stati un seminario di drammaturgia di Nando Taviani, che non ne faceva mai, e delle conferenze di Schino, Taviani, Savarese e Renzo: Mirella sulla Duse, aveva pubblicato un libro a riguardo [Il teatro di Eleonora Duse, Il Mulino, Bologna, 1992]; Taviani sulla concezione dello spazio nel teatro; Savarese sul teatro greco e Renzo sul teatro di gruppo. Il nome del festival era preso da uno scritto di Taviani, la nuova tradizione era il TTB secondo lui.L’unica cosa che discostava dal TTB e dai professori erano alcune nostre repliche serali Volo di farfalle, di cui abbiamo avuto occasione di parlare molto con i professori. Quello spettacolo è stato un po’un mito nel chivassese perché potevi andarlo a vedere solo nelle cascine; poi ne aveva parlato benissimo Nicola Savarese, che disse che ‘questi ragazzi’ sono dei matti perché si mettono a parlare della resistenza quando nessuno ne parlava. Di questo festival non c’è stata una seconda edizione. Poi c’è stato un altro momento di lavoro che esulava dal TTB, una dimostrazione di lavoro di Claudia Contin sulla Commedia dell’Arte, perciò ci sono stati dei momenti di pedagogia, con le conferenze e le dimostrazioni di lavoro.Per noi è stato un arricchimento e la cittadinanza di Chivasso ha risposto benissimo. Lì riuscimmo veramente a trasformare la città in una città-festival, è stato un festival molto partecipato, c’era movimento; c’erano sempre circa 200 persone, che per Chivasso è un numero impensabile. Usavamo diversi spazi: le piazze per gli spettacoli di strada, la chiesa sconsacrata di proprietà del Rotary Club per le danze indiane, il teatrino civico, tutto il paese.Fu l’unica volta che abbiamo ricevuto un finanziamento pubblico: cinque milioni di lire, per una settimana di festival…! Però a noi non interessava, perché i professori non li abbiamo pagati, abbiamo pagato il TTB anche grazie ai molti introiti e a uno sponsor privato.Alla fine del festival, io dico a Taviani che mi piacerebbe partecipare all’ISTA e lui mi suggerisce di scrivere a Barba. Ho scritto a Barba e dopo pochissimo mi squilla il telefono: “Ciao, sono Eugenio Barba”. C’era la possibilità di andare il 15 agosto alla sessione dell’ISTA in Brasile e io dissi sì chiaramente. L'ISTA di Londrina è durata un mese, nel quale le giornate erano scandite dal training mattutino, in un grande spazio

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all’aperto; poi c'erano le classi con i maestri orientali, dall’India, Bali, Giappone, una classe con Augusto Omolù e una classe di mimo corporeo di un allievo di Decroux. Dopo pranzo e una breve pausa, incontri con Barba, dimostrazioni di lavoro e montaggio di frammenti dello spettacolo finale con tutto l'ensemble dell'ISTA; dopo cena, spettacoli di tutti i maestri. L'ultima settimana abbiamo partecipato tutti a una sessione dell'ISTA all'Università di Londrina, aperta a studenti e pubblico vario.

Questa è stata la fine del Teatro Tribù, della prima formazione, dalla spaccatura tra me e Aldo, perché al ritorno dall’ISTA sono tornato cambiato; avevo voglia di provare altre cose, di sperimentare. Aldo ci stava, ma gli veniva a mancare un tassello, questo dell’ISTA, e così litigammo. Poi, per far tutte quelle cose ci voleva tanto tempo, implicava il passaggio al professionismo. Io litigai con Aldo, che era professore, perché lui non hai mai fatto tuttora la scelta del professionismo; con il suo gruppo, il Faber Teater, lui lavora molto bene, ma continua a fare il professore; per me era inconcepibile, io ho fatto una scelta di vita diversa.Questa rottura ha portato prima a dividerci in due e poi allo sfaldarsi del gruppo. Io rimango solo con Silvia Bombara e Silvia Baudin, con cui ho una storia d’amore che quando finisce porta alla fine di questo progetto. Alessandro [Rigoletti] tra l’altro va a fare uno spettacolo con un gruppo quasi amatoriale della zona, nel frattempo ed io mi sento molto triste. Renzo, a sua volta, in quel periodo aveva avuto una delusione amorosa; ci incontriamo molto più di quanto eravamo già molto legati – eravamo amici profondi, a quel punto. Allora decisi di trasferirmi a Bergamo per fare l’assistente a Renzo. Una sera, mi pare fosse novembre – una nebbia! – parto con uno zaino e nient’altro. Lì mi ospita i primi tempi Sonia [Bombardieri, ex addetta all’ufficio stampa e alle pubbliche relazioni del Teatro Tascabile di Bergamo], poi mi trasferisco al terzo piano del Teatro Sociale. La formazione più grossa è stata con Renzo Vescovi, dal ‘94, ma già prima, quando lui iniziò a vedere le nostre cose, ci invitò al festival ecc. Dal 1994 fino al 2000 fu un lavoro grosso: feci l’assistente al suo Peer Gynt con Else Marie [Lukvik], dell’Odin; a Il principe dei gigli, lo spettacolo singolo di Caterina; poi seguii tutti gli spettacoli di strada, facevo dei sopralluoghi… fino al progetto de I Promessi Sposi…io ho imparato a fare il regista lì. Mentre faccio l’assistente c’è bisogno di una sostituzione in uno spettacolo del TTB e Alessandro [Rigoletti], che sapeva andare sui trampoli, viene chiamato dal Tascabile per provare. Noi non avevamo nessuna intenzione di lavorare insieme, ma dopo un po’ di tempo penso: Proviamo, io ho un’idea. E allora proviamo, anche nei ritagli di tempo, a fare le nostre cose; riprendiamo il nostro training, il lavoro sulla musica e lavoriamo sui libri di Pier Vittorio Tondelli, in particolare Camere separate per preparare uno spettacolo sull’abbandono.

Oggi è domenica domani si muoreAbbiamo lavorato per due anni a questo spettacolo. Era uno spettacolo molto danzato, sonoro e visivo, perciò pur essendoci molto testo si capiva. L’abbiamo replicato anche per la famiglia di Tondelli. Il Centro di Documentazione Pier Vittorio Tondelli di Correggio (RE) ci ha invitati e la madre, il padre e il fratello di Tondelli sono venuti a vederlo. È stato un po’ complicato, perché era uno spettacolo basato molto sulla morte – Tondelli era morto di AIDS quando ancora non se ne parlava tanto e i genitori non amavano molto questo; ha un curatore testamentario molto rigido…però è stata una bella esperienza, sicuramente.Oggi è domenica ha fatto più di cento repliche fra teatri ufficiali e posti meno noti – dico i primi luoghi ufficiali che mi vengono in mente: siamo stati a Pontedera, al Teatro Settimo, al teatro comunale di Ivrea, al Teatro Ridotto di Bologna, al TTB. Poi è stato a Rio de Janeiro; lo traduceva Ricardo [Gomes, regista del Teatro Diadokai], con un’introduzione e una postfazione.

Non tutto ciò che luccica è lamèIl festival di Volterra, diretto da Roberto Bacci, ci commissiona un lavoro per il progetto Volterra – L’Inferno; tra gli altri gruppi invitati quell’anno c’erano anche il Teatro dei Sassi, L’Impasto, Domenico Castaldo, La Nuova Complesso Camerata. Ognuno doveva creare una scena tratta da un canto dell’Inferno di Dante; noi scegliemmo il canto di Pier delle Vigne e dei suicidi, ma noi lo unimmo a delle storie di pedofilia. In quel periodo c’era stata un’ondata di arresti per pedofilia, che partiva dal Belgio e si sviluppava in tutta Europa; alcuni degli arrestati si suicidarono, ed ecco l’accostamento dei due temi dei suicidi e dei pedofili. Era una forte denuncia sulla pedofilia e sulla stupidità razzista di molti moralisti che affrontavano il problema parlando di pena di morte e castrazione chimica…

Alla fine del progetto ognuno ritorna sulla strada, ma Silvia Baudin decise di rimanere a Bergamo. Dopo lo spettacolo, quindi, io, Alessandro Rigoletti e Silvia torniamo a Bergamo: Silvia fece la bambina della Valse,

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Alessandro andava sui trampoli e io facevo l’assistente alla regia; decidiamo che metà del nostro tempo lo dedichiamo al Tascabile e l’altra metà alle nostre cose, ovvero continuavamo a fare il nostro training, in totale indipendenza: nasceva la seconda formazione del Teatro Tribù. Noi abbiamo sempre portato avanti un’attività doppia: lavoravamo negli spettacoli del TTB e facevamo i nostri spettacoli. Ecco perché ci sono queste coproduzioni TTB-Teatro Tribù. Intanto il TTB ci segue, come già nella preparazione di Oggi è domenica.Poco dopo voglio fare uno spettacolo sul primo antifascismo: scopro Gobetti. Gobetti mi interessava in quanto intellettuale e in quanto persona che da giovane si ribellò e venne ucciso dai fascisti. Era a modo suo uno spettacolo sulla nostalgia di un ambiente, quello torinese dei primi anni del secolo scorso, unico dal punto di vista politico e culturale. E poi ero estremamente affascinato dalla breve vita di Gobetti e del suo rapporto d’amore con Ada, le loro lettere le trovavo sublimi. Una delle caratteristiche dei miei spettacoli è che c’è sempre la storia umana al centro, la storia delle persone.

Compagni. Lettere d'amore tra Ada e Piero GobettiIniziamo a costruire questo spettacolo lavorando sulle figure di Ada e Piero Gobetti e costruendo una grande struttura di teli bianchi molto complessa da montare, in cui poter entrare. Era uno spettacolo di sala, al chiuso, per soli quaranta spettatori alla volta: risultava una stanza dentro la stanza. Abbiamo questa idea di uno spettacolo in bianco e nero. Tutto è in bianco e nero, si capisce per lo più nel finale perché viene buttato un drappo rosso. Il TTB lo coproduce e Renzo ci segue durante le prove; ha avuto un processo molto lungo. Era basato su una struttura fisica molto forte, con degli intermezzi qua e là di musica dal vivo, che si mescola a quella registrata. Compagni fa un’anteprima al Centro studi Piero Gobetti di Torino, alla presenza degli eredi dell’opera di Gobetti, che ‘approvano’ il nostro spettacolo. Prima di presentare la prima dello spettacolo, abbiamo voluto sapere l’opinione del Centro Gobetti – di fatto l’ha visto la nuora di Gobetti che invitò personalmente gli altri spettatori – altrimenti non l’avremmo portato in giro. Poi segue un debutto al festival del TTB, con un’interruzione all’interno dello spettacolo, un’intervista a me con il critico Pier Giorgio Nosari.

Seratina maleficaSeratina malefica era uno spettacolino che io, Silvia e Alessandro, con Andrea Demarchi, potevamo fare nelle discoteche e nelle feste; facevamo delle azioni teatrali con dei frammenti di testi molto intimisti di Demarchi, che lui stesso leggeva. Noi proponevamo dei frammenti di nostri spettacoli rimontati e delle azioni nuove, cosa che io non amo, perché erano frattaglie di scarti, c’era un solo pezzo organico di uno degli spettacoli. Da un’esperienza terribile di una sera, in una discoteca di Brescia, un posto di cocainomani, decisi che non avrei più voluto fare cose simili perché non c’era più una dignità umana e tutti erano d’accordo.

Qui nel frattempo si rompe qualcosa fra di noi, non riusciamo più a lavorare. Io ho una grossa spaccatura con il TTB, senza litigi, perché non ho più voglia di fare l’assistente e non condivido più le scelte del TTB. Avevo bisogno di creare un mio gruppo completamente autonomo, portare avanti un discorso pedagogico, che vedrà la luce solo anni dopo, con la Scuola Ambulante. Renzo non condivideva la mia scelta della Scuola, seppur avesse deciso di ospitarla, ma morì prima che noi andassimo a Bergamo; facemmo tappa, ma con i soli attori perché lui era morto da poco. Poi non condividevo molte scelte della politica organizzativo-produttiva che il TTB aveva intrapreso, in particolare il loro rapporto con la committenza, soprattutto il loro andare a fare spettacoli in convention commerciali private.Questo porta a uno scombussolamento al nostro interno. Alessandro entra nel gruppo; Silvia si prende un anno di pausa e in seguito ha chiesto di entrare nel TTB; io rimango a Bergamo ma disperato, perché non ho più niente. Spostatomi nel Trentino, dopo un po’ mi dico: Che posso fare? Posso iniziare a fare dei seminari. Iniziano i Vagabondaggi.

I Vagabondaggi teatrali sono nati anche per una questione economica, per continuare a vivere di questo lavoro, ma hanno dato anche cose interessanti. Ho lottato molto per fare i Vagabondaggi, per capire cosa volevo fare della mia vita teatrale. A quel punto io non avevo di che vivere e non sapevo che fare. Porto in uno zaino alcuni libri, tra cui un libro di poesie di Brecht, che amo più come poeta che come drammaturgo; dei libri sulla dittatura cilena e un film, Garage Olimpo, sulla dittatura in Argentina [regia di Marco Bechis; Italia, Argentina e Francia, 1999]. Chiamo amici teatranti e inizio ad andare dove mi invitano; chiedo di

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avere un posto per dormire e per mangiare e persone che paghino un’iscrizione modesta al laboratorio, giusto il necessario per pagarmi i viaggi e di che vivere.Inizio a girare per i centri sociali (il Gabrio di Torino, il Forte Guercio di Alessandria), al Teatro dei Sassi di Matera, al Teatro Serraglio di Seriate che stava appena nascendo…un sacco di posti, ricostruirli è quasi impossibile. Era una cosa a metà fra l’autogestione dell’attività e le istituzioni – quello del Teatro dei Sassi era un progetto dell’ETI, Aree Disagiate, un lavoro di pedagogia ampio che avevano avviato. Io sono andato tre anni al Teatro dei Sassi a condurre seminari; il primo anno ricordo, tra gli altri, Cesare Ronconi della Valdoca e Romeo Castellucci della Socìetas Raffaello Sanzio. Da lì mi spostai al circolo Arci Murales di Fondi (LT), al circolo Bertold Brecht di Formia e in altri posti simili. A conclusione dei laboratori si elaboravano sempre delle dimostrazioni di lavoro, quasi degli spettacoli, come Il sogno di Diego Armando è in Technicolor e Quartiere. Tutti i miei laboratori hanno sempre avuto una dimostrazione finale, magari con un pubblico di sole dieci persone, ma c’è sempre stato un incontro con il pubblico. Il mio seminario è sempre stato il far assaggiare un processo di creazione dello spettacolo, dall’allenamento dell’attore alla presentazione finale: non c’è una via di mezzo per me. Non ho degli esercizi da insegnare, voglio far vivere un’esperienza.

Il sogno di Diego Armando è in TechnicolorUna delle tappe del Vagabondaggio è a Seriate, presso il Teatro del Serraglio, che era nato da Franco Resta, un amatore che prima lavorava con Gianfranco Bergamini [Direttore Artistico e Regista del Laboratorio Teatro Officina], e decidiamo di fare uno spettacolo dove denunciavo quello che si sta denunciando adesso alla Lega: il razzismo più spietato. Lo spettacolo iniziava con una mia lettura delle sparate della Lega dal suo giornale La Padania. A Bergamo, dove tra l’altro allora c’era un gran consenso per la Lega. Abbiamo avuto il patrocinio e l’aiuto della comunità Ruah e perciò iniziammo un giro nelle parrocchie – 40-50 repliche in giro per le Caritas della bergamasca, per sensibilizzare alle tematiche vicine all’immigrazione, all’assistenza e all’inserimento lavorativo degli immigrati; spesso ci seguiva un mediatore culturale senegalese. Ad un certo punto quel gruppo non resse più quei ritmi perché non erano dei professionisti e perciò decidemmo di far morire lo spettacolo. C’erano, a quel punto, anche un po’ più di pressioni politiche, ma non da parte della Caritas o dalla Comunità Ruah, i comuni non ci invitavano più perché c’erano le giunte leghiste. Quando hanno iniziato a capire che si prendevano un po’ per i fondelli…era comico questo spettacolo, allegro e spensierato. Lo spettacolo esordiva con la lettura sulla Lega ma poi si mescolavano delle storie fantastiche, quelle di Dagli Appennini alle Ande di De Amicis e la storia del ghiaccio da Cent’anni di solitudine di Marquez. Il tutto era narrato da Diego Armando, un bergamasco che era emigrato in Argentina e al suo ritorno, da sfruttato in Sud America, diventa sfruttatore dei poveri extracomunitari che vanno a lavorare nella sua “aziendina”. Il personaggio di Diego Armando era lo stereotipo del leghista ignorante, mentre gli extracomunitari erano gli stereotipi degli immigrati.

Uno sguardo da inizio secolo.Incontro tra teatranti indipendenti È la fine dei Vagabondaggi teatrali e l’origine della Scuola Ambulante, della volontà di fare incontrare dei gruppi indipendenti e creare un qualcosa di nuovo. È stata una tre giorni in Umbria, un’autoconvocazione di gruppi indipendenti in cui volevo dimostrare che era possibile fare diversamente, e la cosa è riuscita: i gruppi hanno continuato a collaborare anche dopo l’incontro. Io fondai la Scuola perciò non ho avuto tempo di continuare in quella direzione.Il programma prevedeva al mattino seminari con i registi presenti – io, Massimo Lanzetta [direttore artistico del Teatro dei Sassi di Matera] e Raul Iaiza [direttore del I Servi di Scena-Teatro la Madrugada di Milano] – su una scena del Giardino dei ciliegi; al pomeriggio dimostrazioni di lavoro e di sera spettacoli dei gruppi presenti. Tutto fatto con lavoro gratuito e incassi del numeroso pubblico.

Neanche al sole puoi chiedere di non fare ombraNel frattempo Silvietta [Silvia Bombara] si trasferisce in Umbria e inizia a organizzare, con suo marito, dei progetti educativi, alla Casa-Laboratorio di Cenci, dove visse anche Grotowski, quando si interessò di parateatro. Partendo da un’esperienza personale, una storia d’amore con un ragazzo eroinomane, dai testi di William Borroughs, dai racconti raccolti nelle esperienze educative condotte con il centro Dulcamara scrive un testo e incontra Massimo Cassiani, che racconta la vita dei tossicodipendenti delle periferie romane, che lui conosceva molto bene, in particolare raccontava di una famiglia distrutta dalla droga a cavallo tra gli anni ‘70 e ‘80. Nasce uno spettacolo sulla dipendenza dalle sostanze.

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Questo spettacolo è stato un punto di svolta per me, anche se ha fatto dieci repliche a dir tanto, perché ho accettato di dirigere delle persone senza cercare di fare della pedagogia, lasciandole lavorare come volevano. Chiaramente facevo fare degli allenamenti, ma erano minimi; non c’era un lavoro di pedagogia, ma ne sentivo il bisogno. Infatti dopo questo spettacolo collaboro ancora con Franco Acquaviva.

Sogni d’amore e di (r)esistenzaAvevo conosciuto Franco Acquaviva al Teatro Ridotto di Bologna, molti anni prima, ma ci conoscevamo più che altro perché anche lui era un appassionato lettore di romanzi: parlavamo di letteratura, quasi mai di teatro. Lui nel frattempo si stacca dal Teatro Ridotto e fonda un piccolo gruppo sul lago d’Orta, il Teatro delle Selve, con la moglie. Allievo di Iben [Nagel Rasmussen, attrice dell’Odin Teatret dal 1966] al Ponte dei Venti, mi chiede di lavorare insieme a una dimostrazione sui materiali elaborati. Dato che a entrambi piace molto leggere, abbiamo composto dei frammenti di testo attraverso i romanzi che avevano formato entrambi e abbiamo realizzato uno spettacolo sulla sua crescita d’attore. Tutta la prima fase del lavoro avviene a tavolino, sostanzialmente ci leggiamo a vicenda parti di testi che ci piacciono: Tondelli, Celati, De Carlo, Scabia…tutti autori legati agli anni ’70-’80. Anche nelle musiche c’è una forte componente drammaturgica, perché abbiamo usato musiche dell’epoca. Dopo una lunga fase di creazione e di prove, nasce Sogni d’amore e di (r)esistenza.Questo spettacolo non ha una circuitazione enorme, ma da questo punto per me è un continuo andare per università, allo SPAMS di L’Aquila, al DAMS di Roma e al DAMS di Bologna e altri teatri. Questo spettacolo piace più a persone interessate alla letteratura che ai teatranti, perché ha dei testi molto ricchi, rimontati in funzione dell’azione.

Decidiamo, mentre ancora giravamo con Sogni d’amore e di (r)esistenza, di lavorare ancora insieme su un altro spettacolo. Io intanto avevo tenuto un seminario al liceo Piero Martinetti di Caluso (TO) dedicato proprio a Martinetti, per il centenario dalla sua nascita. Io non sapevo nemmeno chi fosse: scopro che era un filosofo ‘matto’. Così alla dimostrazione dei ragazzi partecipanti chiamo Franco Acquaviva e iniziamo a lavorare sulla storia di Martinetti. Martinetti fu, tra le altre cose, uno dei fondatori della facoltà di Filosofia dell’Università di Milano, negli anni Venti, ma noi avevamo scelto di lavorare su di lui perché da poco era stato pubblicato un volume di Boatti, Preferirei di no, sui dodici professori che si rifiutarono di giurare fedeltà al fascismo, dodici coraggiosi intellettuali su 1250; Martinetti era uno di questi dodici. A me interessava lavorare sulla storia dell’antifascismo.

Il filosofo con la pistolaIl filosofo con la pistola è uno spettacolo quasi tradizionale nella costruzione del testo; era un monologo frontale basato sul montaggio di frammenti dei testi di Martinetti. C’era anche un dialogo ad un certo punto; noi avevamo messo un radiomicrofono che, a seconda che Acquaviva lo indossasse o meno, indicava il passaggio da un personaggio ad un altro. Lo spazio era molto semplice, c’erano una poltrona, dei vasi che delimitavano gli angoli dove c’erano delle piantane e, in cima, dei faretti che illuminavano la scena. Solo nel finale, un faro veniva puntato rasoterra perché veniva versata la terra dai vasi e nella scena regnava la distruzione, con l’approssimarsi della guerra: si spaccavano i vasi, cadeva la terra e la sala si riempiva di polvere. È uno spettacolo, anche questo, che abbiamo fatto in diverse situazioni, da festival piccoli a stagioni in teatri comunali a centri della resistenza a scuole, molto nelle scuole.

A questo punto, oltre allo spettacolo con Franco Acquaviva, seguivo molti seminari, ma non volevo più tenere seminari brevi e da qui inizia a nascere quest’idea folle della Scuola Ambulante di Teatro.

Quartiere. Racconto lirico in memoria di Pasolini Prima però c’è lo spettacolo Quartiere. Il 2005 era il trentesimo anno dalla morte di Pasolini. Un gruppo di soci del circolo ARCI Murales di Fondi, con cui da tempo avevo dei rapporti, voleva commemorare con uno spettacolo e mi hanno chiesto di curarne la regia. Io ho accettato e abbiamo fatto uno spettacolo sulla vita di Pasolini, anzi, abbiamo cercato degli agganci autobiografici nei suoi testi. Erano tutte persone dilettanti che avevano lavorato con gruppi amatoriali, ma non hanno retto come gruppo; abbiamo fatto alcune repliche in zona e all’università di Roma, ma poi è crollato tutto ed è morto lo spettacolo.

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Quando avevo deciso di non seguire più seminari brevi, a L’Aquila avevo ormai una permanenza fissa tra i laboratori interni all’università; parlando con Taviani, dico che volevo creare una vera e propria scuola, di almeno un anno e itinerante: ho ripreso l’idea del vagabondaggio, però con degli allievi.La Scuola doveva durare un anno e invece è durata tre anni. L’atto fondativo è avvenuto a Milano, nel Centro Sociale Autogestito Torchiera Senzacqua.Durante quegli anni di seminari in giro per l’Italia, infatti, ho cercato persone che mi piacevano umanamente, non come attori. Ho osservato gli allievi durante il lavoro, ma non li ho scelti perché erano bravi; ho scelto quelli che, secondo me, avevano un’esigenza di fare – che poi erano Luca [Vonella], Lorenza [Ludovico], Michele [Muradore], Raffaella [Di Tizio], Francesca [Cadeo], Enrico [D’Amario], Claudia [Musitelli] e poi si è aggiunto Simone [Morosi]. Gli abruzzesi avevano la meglio perché i seminari dell’università di L’Aquila costituivano il nucleo centrale del nostro lavoro. Ci sono stati dei piccoli momenti che hanno fatto scaturire il mio interesse, che mi hanno fatto scegliere uno piuttosto che un altro, io te li posso anche dire: c’era un interesse umano, di pelle, e poi piccoli particolari. Luca aveva una follia: diceva di poter imparare tutte le lingue in una settimana. Luca non sa parlare le lingue, però lui dice che se va in un posto impara la lingua del posto, prende addirittura l’inflessione… ma lui parla romano sempre! Michele, che ho conosciuto al manicomio di Udine perché facevo un seminario per il Centro Servizi e Spettacoli di Udine, aveva una fisicità prepotente (sembrava uscito da un film di Fassbinder; alto, nerboruto, giocava a calcio…) e in una scena in cui avrebbe dovuto dire ‘Vaffanculo’ non riusciva, perché si vergognava di dirlo in pubblico. Questa cosa mi ha incuriosito ancora di più. Raffaella perché era uguale, fisicamente e caratterialmente, alla signorina Rottenmaier di Heidi; Claudia di Bergamo aveva una sua strafottenza, era così presuntuosa. Francesca si è unita perché me l’ha chiesto lei, voleva seguire Claudia. Enrico l’ho scelto per la sua faccia. Lorenza perché era così minuta quando l’ho conosciuta; un giorno ero di corsa, stavo andando ad un appuntamento con Taviani, sbatto contro una persona, pum!, vicino all’università, eravamo tutti e due bagnati fradici ed era lei, un’allieva del mio seminario, che mi dice: ‘Mi scusi’. Ma ero io ad aver investito lei e dico: ‘Ma come mi scusi?! Sono io che ti sono venuto addosso! Scusami tu; sono di corsa, ci vediamo domani.’Fra gli allievi, Lorenza e Luca sono sempre stati i più forti, già all’origine, tanto che quando è finita l’esperienza della Scuola sono stati gli unici ad accettare.Nella Scuola c’era anche Cristina Ricchiuti, anche lei chivassese, che organizzava e coordinava il lavoro. Faceva parte di Fiat Lux, un’associazione tra politica e cultura in cui il teatro non esisteva, facevamo informazione cultural-politica, in particolare facevamo parte dei cosiddetti social forum che si opponevano al G8 di Genova. Oltre a noi due, tra i fondatori c’erano Andrea Demarchi, Matteo Bagnasacco, Cristina Ricchiuti e Rosa Pilloni. Organizzavamo spettacoli, letture nelle biblioteche, laboratori teatrali e di scrittura.

Many Loves. A rock dream for Julian Beck Il titolo viene da una frase degli scritti di Julian Beck, da La vita del teatro [ed. it. a cura di Franco Quadri; Einuadi, Torino, 1975]. Many loves ha diverse versioni ed era uno spettacolo realizzato su commissione del DAMS di Roma, per un progetto con il comune di Roma. Io non ho mai amato particolarmente Julian Beck né il Living; tutte le persone a cui ho chiesto di lui mi hanno detto che umanamente era una persona straordinaria, ma anche gli scritti non mi hanno mai esaltato. Mi piaceva perché era un libertario e io fondamentalmente mi riconosco nei libertari. Di tutto questo parlo nella presentazione dello spettacolo.Lo spettacolo è stato replicato, oltre che a Roma, al Teatro delle Selve di Franco Acquaviva e al Teatro del Lido di Ostia, in alcune scuole di Bergamo e Crema…

Pier Paolo. Uno spettacolino edificanteQuartiere era stato invitato al teatro Fàrà Nume di Ostia, per una replica di fronte al luogo in cui hanno ucciso Pasolini, ma le persone di Fondi non volevano farlo; allora chiesi ai ragazzi se avessero voluto fare un esperimento: rimontare quello spettacolo in venti giorni. Loro non avevano mai preso soldi, mentre questa volta ci siamo divisi i guadagni in parti uguali. È stato il loro primo guadagno in teatro. L’abbiamo fatto una volta a L’Aquila, in anteprima, per capire se funzionava, e poi siamo andati in questo teatro di Ostia, ma sapevamo che dovevamo farlo morire, non ci interessava portarlo avanti ulteriormente.

Beck e Pasolini erano per me due personaggi/intellettuali da prendere come esempi positivi del tempo che vivevano; Beck non lo amavo particolarmente, mentre Pasolini è un personaggio per me importante perché è

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un “personaggio etico”, condivido il suo pensiero sull’omologazione della società moderna – omologazione = nuovo fascismo. Pasolini per me è un riferimento per le sue acute analisi politiche, in particolare le analisi sul ‘68, di come la borghesia cercasse di impossessarsi e quindi di “sminuire” la portata rivoluzionaria del momento storico, momento che io reputo fra i più importanti del Novecento. Mi indispone il fatto che si cerchi di sminuirlo in una ribellione giovanile: è stato un momento rivoluzionario, anche con la sua evoluzione violenta (brigatismo), come succede in tutti i tentativi rivoluzionari: non si possono fare le rivoluzioni lanciando cioccolatini, si fanno sparando e con la violenza. Poi si può criticare, non condividere, ma dal ‘68 fino agli anni Ottanta inoltrati in Italia ci sono stati tentativi rivoluzionari – falliti, ma ci sono stati. In Many loves c’è una polemica sul ‘68 americano, perché gli americani hanno trasformato la rivolta in business; l’industria della cultura giovanile ha ucciso la spinta rivoluzionaria della rivolta, trasformandola in prodotti da vendere, vestiti, dischi, libri ecc., una vera industria di cultura underground, quindi non più rivoluzionaria. Hanno dato valore al livello estetico degli eventi e non al contenuto, come invece è avvenuto in Europa e in particolare in Italia dove nacque la lotta armata, per la quale, in modo anche discutibile, la loro azione era una continuazione della Resistenza.

Noi stavamo seguendo questo grosso progetto triennale dell’università di L’Aquila su Zio Vanja, che io ho unito alla storia della guerra sui Balcani, perché avevo sempre questa idea della guerra e dei giovani…(questo discorso meriterà un approfondimento, perché è il nucleo centrale del lavoro della Scuola; oggi stiamo più sulla forma…) Pensa all’idea di Susan Sontag, che in Bosnia ha provato Aspettando Godot in un rifugio antiaereo; noi abbiamo riproposto più o meno la stessa cosa, ma con gli studenti dell’università in un progetto triennale. Zio Vanja sui Balcani. Scene di vita dagli assediDopo questo progetto si decide che deve debuttare, ma a Bergamo mi arriva la notizia della morte di Maria Luisa, mia moglie. Lì c’è stato un forte insistere da parte dei professori, che mi sono stati vicini in un momento drammatico chiaramente, che insistono che io faccia questo spettacolo ugualmente. Il lavoro al TTB è stato anche un tentare di tirare avanti. Io ero molto scorato, non era facile. Lì è stato un momento che non poteva che essere così, che bisognava, quel poco che si aveva, farlo fruttare al massimo per trovare la forza di andare avanti. Non potevamo far diversamente.Insomma, ho accettato questa sfida di fare la prima. Ho fatto un primo incontro con gli allievi della Scuola – a questo punto non c’era più Michele; loro vanno a Roma, fanno un periodo di lavoro senza di me, che nel frattempo dovevo sistemare delle cose, e lavorano a L’Aquila con gli studenti dell’università. Dopo due o tre giorni dal funerale di Maria Luisa, li chiamo dicendo che a breve li avrei raggiunti per riprendere il lavoro e che avremmo debuttato a Bergamo. L’università di L’Aquila si fa carico dei viaggi degli studenti universitari, cioè diventa coproduttore di questo progetto insieme al TTB, che lo compra per due repliche. Lo sapevamo che facevamo solo quelle due repliche: con venti e più persone in scena, era impensabile portarlo altrove.

Sonata a Chagall. Spettacolo realista carico di sogni Alla morte di Maria Luisa scopro nel suo comodino un sacco di libri sulle opere di Chagall. Io sapevo che le piaceva Chagall però non sapevo di questa passione e allora penso di fare uno spettacolo per bambini che tratti Chagall. Fra questi libri, tra l’altro, io e Maria Luisa avevamo comprato in viaggio di nozze un libro di storie di Chagall per bambini, per Giulia, perché era già grande quando ci siamo sposati.Nasce a Crema, nel circolo culturale Nodo dei desideri, dove abbiamo fatto una sorta di residenza e il debutto dello spettacolo.Io sono stato il produttore ma con una ‘scommessa’: se facciamo più di 80 repliche da quando debutta, in autunno, a maggio io mi prendo tutti gli incassi, anche quelli di più, e tolte le spese e il vitto chiaramente, ma anche se è di più me li tengo; se facciamo di meno io ho perso i soldi. E ho vinto la scommessa: ho preso più soldi. Poi lo spettacolo è rimasto, nel teatro, e abbiamo fatto molte repliche.Chagall è stato l’esperienza di creare una favola in movimento attraverso i quadri del pittore. Da Chagall iniziava una trilogia; questo spettacolo era più onirico, meno didascalico di Ballata e Miracolo a Venezia, dove avevamo deciso di fare un teatro didattico. Chagall andava già in quella direzione, però non giriamoci intorno: si è mescolato il mio rapporto con la morte di una moglie. Era per bambini e perciò non c’era niente di pesante, ma finiva con degli angeli che volavano… che poi erano due, gli angeli, c’era anche Renzo per

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me … Ma la morte era presente in questa forma nello spettacolo anche perché era molto presente in Chagall, nei suoi quadri e nella cultura ebraica.

Subito dopo Chagall nasce Ballata. Ci stavamo rendendo conto che nelle scuole potevamo essere un supporto nell’insegnamento e questo ci interessava. Con le università non abbiamo più quei legami di prima, perché non hanno più soldi; abbiamo i legami intellettuali, ma non è più possibile portare avanti progetti come gli anni passati. Le università ci hanno dato sempre tanti soldi per andare avanti, ci hanno sempre comprato dei lavori, sia a Roma che a Torino, sempre… Sì, certo, i rapporti con i professori sono continuati, ma a titolo personale, non più come istituzione, di queste lezioni con gli studenti, di laboratori e, fra noi, nottate intere a discutere…era proprio diverso.Però qui c’è proprio una volontà di diventare indipendenti: creare un mercato che ci dava di che vivere. Non andavamo più nelle banche, avevamo un prestito dal microcredito, già a partire dalla Scuola. Non si vede così violentemente, ma non si pensi che l’andare a lavorare per l’università vuol dire finanziamento assicurato; vuol dire avere dei lavori pagati, ma non era un finanziamento continuo, assolutamente no. Mi sono rivolto ancora alla Mag 4 di Torino; in parte è coscienza, ideologia, e in parte non era possibile fare diversamente: a noi le banche i soldi non li davano. Noi eravamo convinti che quella fosse la via giusta, ma la banca non ci prestava soldi per fare questi progetti, perché da questi progetti non c’era un ritorno economico, apparentemente non c’era la possibilità di guadagnare.Qui siamo alla fine della Scuola, nel frattempo esce il bando di concorso per la sede a Chivasso. Era agosto, io ero in vacanza, vedo per caso questo bando su un muro: io e Cristina decidiamo di partecipare. Lei è rimasta fino alla fine della Scuola, ma non funzionava più il nostro rapporto né il suo rapporto con alcuni attori e non c’è stata la capacità di rinnovare la sua figura professionale all’interno della nuova formazione. Così Cristina se ne va. Nel frattempo ci viene assegnata questa sede e si doveva arrivare a Chivasso: l’ho proposto agli allievi, in una riunione. Solo Luca e Lorenza hanno deciso di seguirmi: Luca perché voleva andare via da Roma, allora era una sua esigenza; anche Lorenza voleva provare ad andarsene da casa. E veniamo a Chivasso.Loro arrivano qua innanzi tutto sono senza una casa, come avevo fatto io spostandomi da Chivasso a Bergamo, e vivevano a casa mia, per sei-sette mesi; poi decidiamo – chiaramente non potevamo continuare a vivere così – di affittare una casa che paga il teatro.Questo porta ad avere una libertà creativa molto forte, a uno stare ai margini e a vivere un rischio – che Luca ti esprimerebbe in un altro modo, io te lo dico in negativo – di isolamento e autoreferenzialità. È chiaro, lo dico col senno di poi, ma lo dico. Quello che noi abbiamo fatto in tre era impensabile, da un certo punto di vista, anche sulla lotta alla censura, ad esempio, con una forza tale… però a un certo punto non hai più il dialogo con gli altri, è inevitabile. Siamo crollati per un isolamento non artistico, ma politico. È su questo punto che io ho grosse remore sul fatto che si possa fare un teatro indipendente in Italia. Forse all’estero, o forse si deve trovare un equilibrio fra quello che eravamo noi e quello che era il sistema teatrale – questo in tutti i lavori, ma in particolare in un lavoro come questo… Questo è un forte tema di discussione fra me e Lorenza – con Luca non ce n’è bisogno, perché so cosa pensa. Luca dice: Io devo ripartire creando una cosa tale e quale, secondo me già partendo con un piede sbagliato perché non può essere tale e quale, da un punto di vista economico-politico… della parte artistica, io che ne so che vuole fare, ma per me la sala deve funzionare molto più pubblicamente. Lorenza dice: Io smetto di far teatro; ho imparato delle cose da un punto di vista organizzativo e le riporto in quello che sto facendo a L’Aquila. Io produco vino, ma voglio mantenere delle regole etiche, come ho fatto per il teatro. Sarà in grado? Non lo so. Per me è difficile, non impossibile.Questo è interessante: come quest’evoluzione politica è un qualcos’altro adesso, in ognuno di noi. Per me è una forte crisi personale, ad esempio, perché io adesso mi chiedo se sia meglio che faccia un lavoro tipo cameriere o simili, se posso pensare a un altro lavoro eticamente…o magari me ne frego? Non lo so; non voglio far teatro, questo lo so. Non mi interessa far teatro, non è una forma di comunicazione per me – per me, non sto dicendo in assoluto, per me. Te l’ho detto, io farei teatro per rimettere in piedi A ferro e fuoco, non per altro, però è un’esigenza mia, privata.È politica, è profondamente politica questa questione: il teatro, il tentativo di tenere in piedi una microsocietà indipendente, è fattibile? È quanto più si va avanti che capisci quanto le loro convinzioni sono radicate e profonde…Voglio pensare che siano tutti e due intelligenti.

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Terza intervista a Simone Capula15 settembre 2011, sede del Teatro a Canone, Chivasso (TO).

Il cuore della problematica non è politico, nel senso di ‘pubblico’ , è la problematica dei rapporti interpersonali. È facile nascondersi dietro ‘la regola’. Nei monasteri quando ci sono problemi interpersonali, subentra una persona preposta a risolverli. Questo è il grande errore, come modello. Non sto parlando della parte artistica, ma della questione pratica di ‘come tirare avanti la baracca’. Artisticamente, un gruppo può fare spettacoli belli o brutti, ma è un fine, è chiaro che tu stai insieme alle altre persone perché hai bisogno di comunicare attraverso il teatro. Adesso, chi vuole fare teatro deve tener conto di queste problematiche. Non puoi pensare che in nome del teatro non hai una vita privata… È troppo comodo. Prima guidava l’ideologia. Lo leggi, ma nella pratica non è così, perché un gruppo con il passare degli anni cade nei cliché professionali e in dinamiche di gruppo malate. Diventa autoreferenziale e si isola, creando una comunità malsana che porta ad allontanarsi dal mondo reale. Perché tutti sono gruppi longevi? Abbiamo il coraggio di dirlo? Il teatro di gruppo è morto. Perché i grandi gruppi si trasformano in musei? Perché la gente giovane non può far evolvere quel modello? Io penso che i vecchi, ad un certo punto, debbano andare in pensione e debbano prendersi le loro responsabilità. Questo perché le esigenze personali di quotidianità, di vita e di convivenza sono diverse da quelle dei giovani.

Il teatro deve liberarsi dei libri. Lo dice uno che ha mangiato a pane e libri! Io ho avuto la fortuna di andare a fare una pratica, di non aver appreso tutto ciò che riguarda i teatri di gruppo dai libri, perché nei libri è tutto bello. I professori sono disonesti da questo punto di vista, perché ti fanno vedere solo la parte più esterna. Quegli scritti sono da buttare nel cesso, perché sono molto belli dal punto di vista storico, per i professori, ma noi tutti ci siamo basati troppo su quelle cose, mentre la realtà sono le mani filettate di nero. Allora, noi possiamo dirci un sacco di belle cose, che sono scelte di vita, e c’è anche un’onestà di fondo – l’ho fatto anch’io! Io ti parlo dell’onestà e del fallimento ultimo. Il problema è che spesso incontri persone che sono impregnate di quell’ideologia che trovi sui libri.

Come non penso che il teatro sia provocazione, in quest’epoca. Il teatro in questo momento è comunicazione, non può essere altro. Queste sono tutte cose che vanno di pari passo! Allora, primo: parlare di ‘avanguardie’, di ‘ricerca’ mi fa un po’ sorridere, il che non vuol dire che non credo nella pratica quotidiana, anzi tutt’altro, ma devi essere cosciente che fai quello perché vuoi arrivare a quell’altro: non fai ricerca pura. Quella cosa c’è solo sui libri. Infatti io non penso che i centri di ricerca debbano continuare ad essere finanziati, ma dove sta scritto? Secondo: non puoi unire delle persone in nome di un’idea, ma in nome dell’esigenza di quelle persone. Chiaramente anche lasciando cadaveri lungo la strada! Il concetto ‘politico’ di tutto questo sta nell’individualismo: tanti individui si uniscono dove c’è un’idea. L’idea è campare e crearmi un artigianato tale che porti avanti un’idea artistica e creativa, che mi porta a comunicare verso l’esterno. Penso che sia fattibile nel momento in cui lasci perdere l’idea per cui la cosa più importante al mondo è il teatro. No! La cosa più importante al mondo sono le persone che si uniscono tramite il teatro.

Chi è il grande erede di Barba? Uno che ha lottato sempre contro Barba e non è mai stato riconosciuto: è Cesar Brie. Ma Cesar Brie cos’ha fatto? È andato via dall’Europa, questo è fondamentale, da questa Europa corrotta, totalmente in mano ai partiti e ai poteri economici, si è tirato fuori da questi giochi di potere. Il problema è che tutto viene trasformato in slogan e immediatamente dopo in mercato. Tu qua non hai un ruolo sociale, in questo momento. Hai un ruolo per quella piccola comunità, che sei tu, le persone che vogliono vivere in quel modo, le persone che vogliono venire a vedere il tuo lavoro; ma nella complessità del sistema non sei nessuno.Adesso è dura. Lo dice uno che ha smesso perché non aveva abbastanza soldi, probabilmente ho fatto spettacoli che non funzionavano abbastanza, e perché c’erano problemi personali o meglio esigenze personali diverse. Per me il teatro non era più l’unica cosa nella vita; e poi sentivo forte il bisogno di una militanza politica, vedevo che il teatro non mi permetteva questa cosa e che per poter andare avanti avrei dovuto cedere a dei compromessi che mi avrebbero fatto cozzare contro le mie idee politico-sociali. Perciò dico che le colpe sono mie. Se nasceranno tanti polmoni come questi, allora si formerà qualcosa; ma nel momento in cui diventi sistema e ‘fai rete’, quello che non ti dicono è che è solo economica, non ideale. È possibile costruire una rete, non

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fra teatranti, ma fra persone che credono nell’artigianato e nel creare un’economia diversa. È una rete, ma non è sul teatro, la rete del teatro è autoreferenziale.

L’isolamento è venuto. A me è venuto a mancare l’ambiente in cui io mi ero formato, quello del terzo teatro, mi è venuto a mancare a causa della morte di Renzo e dalla delusione per alcuni gruppi di cui avevo stima, di cui poi mi sono accorto che esteticamente mi erano vicini, ma non lo erano eticamente.Ho sottovalutato una cosa: ti dicevo che la territorialità secondo me non funziona. Da una parte hai delle tue regole di convivenza, ma dall’altra devi stare alle regole del vivere civile, devi avere la forza di rapportarti con l’esterno. Non puoi pensare di prendere i soldi da chi ne ha tanti e portarli a casa tua; non puoi discostare i livelli economico, sentimentale e artistico. Chi pensa di farlo è matto, è dissociato, e penso che il teatro sia fatto troppo da persone così. Io non ho una soluzione, però sono di un realismo estremo su questo punto. Le regole in quanto regole non funzionano; ci sono invece regole che sono quelle che definiscono un rapporto etico – la questione morale, torniamo su questo punto. Quindi: io credo che questa società non va. Creo una mia microsocietà non per isolarmi, ma per vivere in questa società. Io faccio teatro, ho un altro di fianco che fa il barista: io posso unirmi a questa persona; non posso guardare dall’alto in basso. Magari a quel barista basta fare un caffè molto buono, i tramezzini più buoni al mondo e guadagnare lo stipendio e non accumulare capitale. È questo che io ho tenuto fisso, ma non sono stato capito dai miei due colleghi. Hanno accettato, però ad un certo punto sono subentrate questioni personali, però non erano separate dal resto.

Io penso che il teatro non abbia più il pubblico, ma quel tipo di teatro, quel sistema. Non vuol dire che se aumenti gli abbonati, c’è più pubblico, semplicemente c’è gente che va in un teatro. Tu invece devi creare una situazione di creatività e di azione culturale per cui alcune persone vengono da te o tu vai da loro. Può essere nei teatri, nei centri sociali, nei centri d’incontro…cioè un dissolversi del teatro in quanto teatro. Il teatro in quanto teatro non ha più senso d’esistere. Tu devi trovarti situazioni ed ambienti in cui tu fai teatro, però quando facevamo le serate con la cena, ad esempio, a noi interessava far vedere lo spettacolo, ma per il pubblico era uguale lo spettacolo o la cena, mettiamocelo in testa! Loro venivano per stare in questa situazione.

Non penso che la gente debba finanziare il teatro perché ‘fa parte della cultura’. Noi teatranti non abbiamo fatto spettacoli per anni in nome della purezza! Ma perché? Perché volevamo i soldi. Ne abbiamo usati troppi di soldi pubblici, noi teatranti. Perché l’ente pubblico deve darci i soldi? Per far star bene noi? Io non mi sento parte di un sindacato, sono contro le sindacalizzazioni in genere. A me non importa che non diano finanziamenti, mi interessa come riversano questi soldi. Penso che ci sia un obbligo da parte dello Stato e dell’ente pubblico, ossia gli spazi: se una persona dimostra di valere con il suo lavoro, deve dargli uno spazio dove agire; possono esserci agevolazioni fiscali, ma non penso che la società attuale possa farsi carico dei costi dei gruppi.Sì, io voglio che chiudano i teatri! Io voglio far piazza pulita! Io non mi riconosco! Ci sono degli spettacoli che mi piacciono, ma è un’altra questione! Il concetto di spettacolo non è quello che a me interessa, per me è fondamentale l’incontro con il pubblico – non è il processo; non credo a questa cosa scritta dappertutto, che il processo sia più importante di tutto: è importante per te e di certo non è neanche un servizio. Ci sono persone che chiedono che si finanzi tutto, azzerando i loro conti. Dicono: Noi agiamo su una parte del PIL perché creiamo posti di lavoro… le residenze piemontesi hanno fatto un manifesto su questa cosa! Ma a me non importa se tu stai creando PIL, se stai creando posti di lavoro; oppure sei cosciente che fai un teatro di consumo. Io non mi riconosco in questo, infatti ho deciso di non fare più teatro.Abbiamo il coraggio di dire che troppi gruppi oggi sono musei, che sono autoreferenziali? È apocalittica la mia visione? No, anzi, è molto protesa verso il futuro. Penso che i giovani debbano prendere quello che è stato il concetto di teatro di gruppo, ma non dal punto di vista politico-strategico, bensì dal punto di vista stilistico. L’Odin è stato interessante, per me, per la forma.(Io volevo mettere i puntini sulle i, col discorso che ti sto facendo. Se andassi in un convegno, mi picchierebbero alla lettera, i teatranti!)

La mia ultima lettera ha infastidito tutti. Mi hanno risposto tutti non teatranti; due soli teatranti mi hanno risposto, due - anzi, tre: uno insultandomi. Il Teatro Due Mondi, si è scusato del fatto che non si erano della mia situazione, ma il Teatro Due Mondi è un’altra scheggia impazzita che non sta alle regole. L’altro è

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Vacis, che mi chiese di leggere questa lettera ad una conferenza pubblica, in cui c’era anche Baricco, ma io non me la sono sentita, perché mi sembrava che diventasse una lamentela. […]Non penso che l’antagonismo sia la lotta giusta in questo momento, perché nel momento in cui ti dichiari antagonista fai parte del sistema. Questo sistema economico-politico è tale che nel momento che tu sei antagonista, non gliene importa ai potenti. Da una parte c’è il più forte e dall’altra il più debole: dopo poco quest’ultimo viene inglobato. Qualcuno si corrompe, rimane subordinato o muore. Funziona nel momento in cui sono piccoli nuclei – non voglio usare la parola ‘resistenza’– di vita reale, che si uniscono per fare qualcosa insieme, come i Gruppi di Acquisto Solidali: lo spettatore sa che, pagando 10 euro, ti aiuta nel finanziamento. Si chiama libero mercato. La premessa fondamentale è che tu sai di essere piccolo e importante per quelle poche persone che devono crescere, diventeranno di più, diventeranno altro… Questo è fondamentale: il tuo lavoro deve darti da campare. Se non c’è questo, vuol dire che non funzionano i tuoi spettacoli, innanzi tutto; quando hai bisogno dell’ordine pubblico che ti finanzia, hai bisogno di resistere, di sopravvivere; hai fatto qualcosa che non va.Il problema è, e lo ripeterò fino alla nausea, non caricare questo lavoro di ideologia. L’ideologia sta solo nella consapevolezza di essere minoritario, ma non devo crogiolarmi nell’essere tale. Io faccio questo perché so che se questa indipendenza cresce, do una spallata a quel sistema. A quel punto, però, sono diventato sistema anch’io, perciò devo essere pronto a qualcun’altro che darà una spallata a me. I più vecchi di noi hanno fatto in modo che nessuno desse loro una spallata.Io non sono riuscito perché è subentrata una stanchezza e non sono riuscito rispetto alle persone specifiche. Penso che invece gran parte del teatro pensi ancora al mondo dei finanziamenti: stanno facendo una lotta perdente in partenza.

La “rete” esiste quando si fa concorrenza; così lo scambio non è più rete, è stare alle regole del mercato di tutto il resto del sistema… ci si sfrutta a vicenda?! Un esempio: io ho il mio spettacolo, per una replica chiedo 2000 euro, però io non pago il tuo e tu non paghi il mio, perché poi ci danno i finanziamenti, non perché io devo avere il pubblico che paga il biglietto! Ti danno finanziamenti se tu crei e stai alle regole del mondo dello spettacolo – ad esempio, se fai uno spettacolo di strada spesso puoi avere un finanziamento perché fai vendere ai commercianti tutt’intorno e crei un bacino di voti per il politico. Si chiamano clientele: crei dei gruppi, i tuoi clienti, perché sai che crei consenso. È la cultura che crea consenso e non crea politica. Dà voti.Laddove sussistono questi rapporti nessuno osa ad attaccare la cultura, perché l’intellettuale è organico al potere. Ma questo è avvenuto prima del nazismo, anche! C’era il fior fiore degli intellettuali che si vendevano al potere in nome dell’apparire, per avere soldi e comodità. Qui è uguale. Qui siamo all’inizio di una dittatura, che sia mediatica non importa – non ti picchiano, non ti picchiano per adesso.Io ho questa visione di questo sistema, perciò nella mia conduzione dell’attività teatrale sapevo qual era la società, ne faccio parte, ma sapevo che dovevo creare un ambiente che è un’altra cosa, che non stesse a quelle regole. Un’altra cosa è dire “Io resisto”. Ma a cosa resisto? È da anni che resisto! Adesso ho bisogno di esserci – non di resistere, ma di esistere! Che non vuol dire avere il riconoscimento delle istituzioni, vuol dire che io posso fare il mio lavoro. Esisti quando un pubblico ha esigenza di venire a vederti. Io non posso pensare di essere antagonista, io porto avanti un’attività culturale, non faccio parte dello show business. È chiaro che devi lottare perché tutti abbiano la possibilità di esprimersi, ma non per resistere.

Devono andare in pensione i vecchi! I giovani devono dire: Adesso vi togliete di mezzo perché sennò noi non lavoriamo! Copeau ha fatto teatro fino alla vecchiaia, ma erano altri anni, ed era Copeau! Di Copeau, di Barba, di Grotowski, ne nasce uno ogni quanti anni?! Non paragoniamoci a queste persone! Che poi, se andiamo a vedere Copeau, che è proprio l’esempio del teatro di gruppo per eccellenza, ha una forte concezione mistica, era ipercattolico. Grotowski ad un certo punto non fa più spettacoli e non lo possiamo portare come esempio: a lui interessava tutt’altro. Julian Beck voleva fare la rivoluzione. Ma quelle sono le eccellenze, di mezzo ci sta tutta una meschinità… in cui mi metto anch’io, eh! È chiaro che tu cerchi, poi, di differenziarti, di fare delle cose tue, evolvi il modello iniziale. Ma, appunto, non puoi sempre portare avanti il modello perché altrimenti muore il terzo teatro: l’estinzione fa parte della natura.

Nelle scuole devi pensare a un progetto pedagogico ben preciso, non puoi pensare di fare gli spettacoli solo per guadagnare. No, non è onesto. Noi abbiamo fatto tre spettacoli per bambini preparandoli come quelli per adulti, per noi era un momento di sperimentazione come tutti gli altri.

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Io faccio un tipo di teatro che ha bisogno di un numero ridotto di spettatori. Se stipo 500 bambini in un teatro, che pagano 5 euro per replica, faccio 2500 euro in una mattinata; per guadagnare 2500 euro con i guadagni dei nostri spettacoli, dovevamo fare 10 repliche, perché noi volevamo 25 persone per volta. Se io ho come mia ricerca artistica un lavoro sullo spazio, sull’azione dell’attore, devono esserci anche negli spettacoli proposti ai bambini. Invece ho visto troppa gente prescindere da questo. Questo è fondamentale: per noi non c’è stata differenza, pensavamo che i bambini dovessero pagare ed era pedagogicamente ricco il fatto che sapessero che pagavano perché quelle persone vivevano di quei guadagni, che niente è gratuitamente. Devi avere una politica di prezzi per cui sai che ti permette di non tagliare fuori nessuno, in particolare nella scuola. Nella scuola si sa benissimo chi ha bisogno di soldi, perciò tu, teatrante, fai come fanno tutti gli altri, non vai a gravare – ad esempio, puoi spalmare il costo del biglietto su tutti gli altri bambini. Non bisogna far finta di vivere in una democrazia fasulla. Esistono i poveri, allora troviamo il modo di non tagliarli fuori, ma non con l’assistenzialismo, perché significherebbe di nuovo esercitare un potere politico becero, per cui attiri il consenso di chi è svantaggiato: è una forma di dipendenza. Tu invece devi insegnare l’indipendenza a queste persone, la libertà.

Nel periodo della Scuola Ambulante non volevo formare persone che aspettavano di andare nel sistema maggioritario, io volevo continuare questo lavoro. È chiaro che il mio desiderio era di raddoppiare la sala a un certo punto, perché avrei avuto il doppio delle persone, perché avrei avuto bisogno di più spazio per costruire delle scene più grandi. Quando sono andato a lavorare allo Stabile di L’Aquila, mi sono divertito a realizzare quello spettacolo-dimostrazione [conclusione del laboratorio Poemi Umani condotto nel corso SPAMS dell’Università di L’Aquila], ma non ho mai pensato di essere entrato nel sistema maggioritario. Il patto con il Teatro Stabile era che io facevo quello che volevo: se entro nel meccanismo di dover rendere conto del mio lavoro, non faccio più questo tipo di lavoro, vado a fare qualcosa che mi dà più soldi, obiettivamente. Io penso che il fatto che il teatro tutt’ora dia molto peso all’opinione dei critici e non al pubblico sia uno dei problemi più deleteri. I festival hanno non so quanti posti riservati ai critici perché il critico possa fare buone recensioni, dire che c’erano tantissime persone a vedere uno spettacolo; ma allora tutto il teatro che ha numeri ridotti di spettatori non vale? Io ho un po’ di paura di questo pensiero, si chiama omologazione, che per me è un sinonimo di fascismo.

Dal punto di vista politico, nel senso più tradizionale del termine, vedo delle somiglianze impressionanti con le dittature latinoamericane di 30-40 anni fa: una dittatura mediatica, perciò un’informazione che detta delle regole; una crisi economica concomitante… Ho paura quando sento dire che ‘queste cose sono vecchie’, passate: non lo si può dire del fascismo mussoliniano, a maggior ragione di quelle dittature. La nostra attuale dittatura culturale è molto più simile a quella latinoamericana. Penso che ci sia uno studio da fare su quello che sono stati gli inizi di queste dittature, che nella società si sono manifestate con l’omologazione – aver paura del diverso, di perdere i privilegi… I giovani dovrebbero un po’ studiare questo: bisogna ricordare che è successo trent’anni fa – io c’ero già, non è la storia dei nostri nonni! Pinochet non è stato scalzato via, è morto di morte naturale, perciò quella gente che lo affiancava nella dittatura, c’è adesso, è lì, è al suo posto.Gli intellettuali e i teatranti stanno aiutando l’opposizione, pensando che loro possano dialogare, ma io non penso sia così, perché stanno nascendo gli stati di polizia – c’è razzismo, c’è xenofobia. Non c’è una presa di posizione degli intellettuali su queste cose; in nome dell’economia trangugiano tutto, per far girare l’economia trangugiano tutto. Ma dov’è scritto che noi dobbiamo pagare le tasse perché dobbiamo salvare i banchieri? Perché non c’è una presa d’atto della situazione e la scelta di lottare se non quando toccano i tuoi interessi, cioè quando decidono di tagliare i finanziamenti? Io non posso stare sempre e solo chiuso nella mia sede, è chiaro che do un esempio come microsocietà diversa da quella esistente, però ci sono delle cose per cui ad esempio posso andare a manifestare. I teatranti non vanno, perché hanno paura delle ritorsioni e quando hai paura delle ritorsioni, vuol dire che non c’è più libertà.La paura che nutro nei confronti dei giovani è che hanno una ripugnanza forte nel guardarsi indietro, ma il passato recente è molto importante. Immagina cosa è stata la guerra nella ex-Jugoslavia – parlo di vent’anni fa: una guerra in nome della religione. Ma la gente, lì, nei Balcani, conviveva. È successo lì, vent’anni fa. La memoria corta: noi non abbiamo memoria, ma non del passato più remoto. Sul fascismo sono più o meno tutti d’accordo, a parte qualche revisionista, ma nessuno ad esempio ci racconta quali sono le colpe degli italiani in Bosnia, in Kosovo; non ce lo raccontano. Perciò i giovani riprendono sempre tutto da capo.

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I giovani, il viaggio, la storia: ho un’ossessione per questi temi. Trasformandoli in un prodotto artistico, è possibile parlarne: è ricreare un tessuto piccolo, piccolo, piccolo, piccolo… Questa è stata la parte più politica, diciamo, del mio lavoro, però la si vedeva…

C’è, in questo momento storico – quella che era agli inizi fino a qualche anno fa – una crisi di sistema, c’è un’implosione del sistema, perciò io posso stare qua, ma devo capire cosa sta succedendo intorno. Non è che dici: Adesso io voglio cambiare il sistema, ma piuttosto: Io cambio questa mia piccola società. Il localismo funziona, ma non lo chiamo localismo, per me è fare le cose che mi va di fare e che posso fare. Quella è ideologia. L’ideologia non funziona, implica che ci siano capi e ‘capetti’.Penso che noi dovremmo essere coscienti di far parte di un’economia che sta implodendo, che così com’è non esiste più. Noi non ci siamo mai affidati alle banche, perciò non abbiamo pagato interessi passivi e quant’altro: abbiamo la coscienza pulita su questo. La Scuola Ambulante ha iniziato grazie a Mag4, che ci ha dato la liquidità iniziale di cui avevamo bisogno; le banche non ci prestavano soldi perché non facevamo investimento. Noi investivamo sul nostro lavoro, mentre le banche vogliono che tu crei capitale. Mag invece è un istituto di microcredito, è proprio un’altra cosa: prende atto della scarsità di risorse economiche delle persone e le aiuta a creare un lavoro proprio, non a far capitale. Questo per me è un passo fondamentale, dal punto di vista economico, cioè capire come creare un’impresa non secondo le regole dell’economia vigente. Alla Mag4 io sono arrivato per caso, per la disperazione, non è che avessi una coscienza così forte sulla Mag, ma andando avanti… all’inizio sono andato molto d’istinto, con il buonsenso: io ho un piccolo negozio e deve fare in modo di vendere il salame più buono invece che tanto salame. […]

Devi essere cosciente di questo: io produco in questo modo perché mi va di produrre in questo modo. Sia chiaro, io ce l’ho fatta in parte, nel momento in cui sono arrivato a questa elaborazione non ho portato avanti questo pensiero. Penso che un sistema del genere sarebbe meno stancante, più sostenibile – non doverti opporre ma dover fare. Noi invece abbiamo dovuto opporci tanto.Che la gente riscopra il bello di fare un lavoro perché piace farlo e che abbia la giusta paga per farlo! Se in un mio spettacolo gli spettatori totali pagano 500 euro, perché devo farne uno da 1500 euro una volta l’anno? Per lavorare di meno? No, a me piace fare tante repliche, perciò mi va bene guadagnare 300 euro a replica. Come uno che lavora al ristorante: una volta che ho guadagnato il mio stipendio mensile, sono contento, perciò se c’è qualcosa in più posso creare qualcos’altro – è utopico? Può darsi, ma mi sembra molto più realista e semplice di tante altre possibilità.Bisogna aver la forza di non cadere nella logica del mercato. Il mercato è la nuova peste; è il mercato la vera dittatura politica. I politici non sono più politici, sono funzionari di mercato. Io ho fatto teatro perché non mi andava quella logica, ma non perché ero in una fase adolescenziale, ma perché sapevo che io non potevo lavorare secondo quelle regole. Magari bisogna avere la capacità, a volte, di scendere a un compromesso, ma non cadere nella reiterazione del compromesso. (È facile, quando inizi a guadagnare…) Io penso invece che debba valere la qualità. Un conto è il pescatore che pesca buttando la dinamite in mare e un conto è il pescatore che ogni mattina vende il pesce al mercato; un conto è il produttore di vino che ‘aggiusta’ il vino, lo profuma a seconda delle mode dell’happy hour e un conto è il produttore di vino che produce vino da tavola e vende le bottiglie direttamente al consumatore…in tutti i campi è così. Questo è il futuro secondo me. È possibile? Io penso di sì, mi auguro che sia così. Ma dovranno farlo tutti, con la crisi economica; l’avessimo fatto un po’ prima saremmo già avanti. Noi, in questo caso, siamo stati avanti. Questa è la parte politica del nostro lavoro; mi rendo conto che detta così è piuttosto rozza, o forse molto raffinata, non lo so.

Penso anche che il teatro e i teatranti debbano riscoprire una certa aristocrazia di modi. Siamo stati un po’ troppo beceri. L’inizio dei teatri di gruppo era aristocratico, era un gusto del bello che a un certo punto abbiamo perso, e questo è amareggiante. Però questo nasce quando combaciano i modi di produzione e il prodotto. Le persone hanno perso di vista questo, hanno rinunciato a una forma di “snobismo” in senso buono, a un volersi bene perché stai facendo una cosa importante per te e per qualcun’altro.Per poter fare tutto questo, bisogna partire dalla piccola comunità, che è fatta da individui che amano, mangiano, si odiano, litigano… Non perdere mai di vista che sono persone, con delle dinamiche e delle esigenze propriamente umane e personali. Non fare in astratto, in nome di un’idea; questo non vuol dire livellarsi su tutte le esigenze, ma sapere che esistono. Un gruppo è fatto da persone che dipendono l’una dall’altra, ma sanno di dipendere, sanno che hanno bisogno l’uno dell’altro, non si sfruttano, ma convivono.Qui s’è provato a farlo. Probabilmente non c’era una convergenza di intenti e non ne abbiamo parlato abbastanza.

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È tutta pratica; è stata una pratica – e ci tengo a specificare, una pratica non isolata. Noi eravamo ben piantati al centro della società e volevamo rapporti con l’esterno, volevamo che la gente venisse qua – gente comune, non i teatranti che si complimentano con te e quando si girano sono pronti a sparlare.È chiaro che è difficile per chi è più giovane, quando incontrano chi dice che il sistema teatrale è quello. Il sistema teatrale è quello, ma ci sono mille modi possibili di viverlo – mille no, ma almeno uno l’ho trovato.

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Intervista a Lorenza Ludovico27 ottobre 2011, risposte a domande inviate via posta elettronica.

Domande-spunti di riflessione:

Il primo laboratorio con Simone e le tue impressioni.

E quali sono state, invece, le tue impressioni, quando Simone ti ha proposto di partecipare alla Scuola?

Un giorno mi hai parlato della 'precarietà ricercata' come condizione vissuta nel periodo della Scuola e del Teatro a Canone. Puoi spiegarmi meglio cosa intendi con questa espressione?

Da 'apprendista teatrante', come vivevi il fatto di aiutare a condurre laboratori e a partecipare agli spettacoli? Che senso avevano per te quegli spettacoli, incentrati su figure specifiche?

Il nomadismo della Scuola è stata un'occasione formativa, secondo te? Come l'hai vissuta?

Che cosa è cambiato con il passaggio al Teatro a Canone? In particolare, aggiungo uno spunto: il passaggio da una condizione nomade, di chi staziona e poi riparte, secondo te è stata abbandonata dal gruppo? Secondo te, a fronte di uno sradicamento di tutti e tre rispetto al territorio di Chivasso, avevate una 'cultura di gruppo' in cui potervi riconoscere?

Ti chiedo di parlarmi liberamente di spazio ed elementi scenici, azione e contenuto, degli spettacoli Pier Paolo, Ballata, Miracolo a Venezia e soprattutto A ferro e fuoco. In merito a questo spettacolo, Simone mi parlava di un lavoro molto intenso tra voi, fatto di domande e riflessioni continue, di ricerche... e quindi mi piacerebbe sentire la tua.

Lorenza Ludovico: Ho conosciuto Simone a L'Aquila nel 2002, io avevo venti anni e frequentavo il secondo anno dell'Università di Lettere e Filosofia, indirizzo in Storia e Pratica delle arti, della musica e dello spettacolo (SPAMS), una specie di Dams. Ferdinando Taviani e Mirella Schino insegnavano in aula ma facevano anche in modo di farci “toccare con un dito” il fare teatrale con attività pratiche. Così ho “toccato con un dito” il fare di Simone.Ritrovo il quaderno di appunti di quel seminario…il tema del seminario: la resistenza. Terra e Libertà di Ken Loach e il primo capitolo di Uomini e No di Vittorini, il primo ricordo di quel seminario e del suo modo di lavorare con noi studenti. L'approccio che ho avuto con il suo modo di lavorare e di creare un ambiente fertile per la condivisione e l'espressione è stato importante e molto forte. In poche parole mi ha commossa.Non avevo fatto esperienze teatrali importanti, avevo seguito qualche altro laboratorio universitario e non avevo mai pensato seriamente di potermi interessare in maniera seria e costante al teatro. Lo studiavo, punto e basta… forse è stato proprio per questo che ho trovato così stimolante il suo lavoro. Un lavoro di 5 giorni che prevedeva una parte di allenamento fisico con esercizi vari, dalle camminate ai salti che lui stesso ci mostrava, ma soprattutto una parte culturale, “politica” nel senso più ampio del termine, una coscienza del fare teatro per dire quello che ci indigna, quello che ci fa rabbia, quello che è accaduto, che accade e che accadrà se non si cambiano le teste e la cultura delle persone... (non so se riesco ad essere chiara…)Ricordo di aver pensato che tutto ciò mi sembrava strano e a volte incomprensibile ma col tempo ho scoperto l'importanza e la necessità del “fare teatro” in questo modo.L'anno seguente, nel 2003, Taviani e Schino ripropongono una settimana di lavoro con Simone, aiutato dall'attore Franco Acquaviva. Lo stesso anno Simone portava lo spettacolo con Franco e un altro con l'Ass. Dulcamara Neanche al sole puoi chiedere di fare ombra, uno spettacolo sulla droga, sulle dipendenze. Noi studenti abbiamo visto i due spettacoli e osservato un primo frammento di quello che sarebbe diventato Il filosofo con la pistola, un terzo spettacolo debuttato se non sbaglio nel settembre seguente (2004) sulla figura di Martinetti, uno dei 12 professori, su 1250, che rifiutarono di giurare fedeltà al fascismo.

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Questo secondo laboratorio doveva essere condotto da Simone aiutato da Franco, come ho detto, e da una delle attrici dell'ass. Dulcamara che per problemi di salute non è rimasta e Simone ha “improvvisato” la parte che sarebbe spettata all'attrice. Il tema di questo secondo seminario era la dipendenza. In poche parole il frammento del Filosofo con la pistola mi ha colpito molto e ancora oggi penso che sia lo spettacolo di Simone che amo di più... l'ho visto negli anni parecchie volte ed è lo spettacolo di Simone che più mi ha toccata.Alla fine del laboratorio, Simone chiede la mail di due studentesse (una ero io) con la promessa di scrivere una piccola proposta di far parte di una esperienza che sarebbe nata di lì a poco. L'esperienza era la Scuola Ambulante di Teatro e io conservo ancora la mail con la quale Simone ci chiedeva di farne parte.Quello che è successo dall'inizio della Scuola è semplicemente, almeno per me, un processo di crescita personale e di conoscenza teatrale e culturale che aveva tempi e spazi vari e coincidenze fortuite ma che ha sempre potuto contare sulla presenza della ricerca di un’etica del gruppo, anche se si trattava di maestro (con esperienze già alle spalle) e allievi alle prime armi… il gruppo c'era già. Ecco, pensavo, come sarebbero stati piacevoli gli anni di scuola se l'impegno dei professori fosse stato quello di creare un vero gruppo con il quale sentire e comunicare.La Scuola sarebbe dovuta durare un anno, siamo stati insieme quattro anni. Lo dico perché questo periodo prolungato, le persone che sono entrate e quelle che sono andate via, le discussioni e le pratiche attuate, tutto quello che Simone ci ha permesso di sperimentare, hanno creato una memoria comune e hanno stimolato un certo modo di vedere le cose, il teatro e il lavoro.Così riesco a riallacciarmi alla tua domanda sulla precarietà ricercata, che secondo me è l'esigenza di essere coerenti. Con il Teatro a Canone ho capito sempre più questo bisogno… anche se ho fatto i conti con i miei di limiti e ho dovuto ammettere come questa ricerca difficile diventi a volte insostenibile. Simone me l'ha mostrata con il suo lavoro, con la creazione di una realtà concreta e indipendente che ha spesso, nella mia testa, più similitudini con una comunità che con una compagnia di teatro (intendo quelle istituzionali e finanziate). Alla base c'è la ricerca della libertà…Fondamentalmente c'è una precarietà ricercata nel fatto che ci sia una scelta precisa, quella di organizzare il lavoro in progetti specifici e a tempo… questo ci mette sempre ‘in ballo’... finito uno subito si deve partire con un nuovo… non si può mai stare fermi e poi facendo un certo tipo di ricerche, parlando di certe cose è difficile che qualcuno finanzi il tuo lavoro quindi devi metterti in gioco e costruirti ogni giorno la possibilità di poter finanziare il tuo lavoro.

La scuola aveva una struttura molto complessa anche se da fuori può sembrare semplice. Ognuno doveva avere il suo compito e doveva ‘far andare avanti la macchina’. È vero però che noi allievi non lavoravamo a tempo pieno. Per Simone la Scuola e la sua ideazione erano sicuramente in linea con la sua visione del teatro ma per me tutto questo suo modo di vivere è arrivato dopo. All'inizio era una bella esperienza teatrale attraverso la quale giravamo l'Italia, conoscevamo altre realtà teatrali, imparavamo ciò che Simone ci insegnava, spesso e volentieri mostrandoci dei video. Tutto questo mescolare lavoro e convivenza, persone diverse, musica, cinema, teatro, incontro con maestri, registi, attori maturi dai quali imparare… beh, tutto questo è stato la Scuola e tutto questo è stato formativo e fondamentale per quello che è diventato poi il Teatro a Canone; è stato il terreno fertile per avere un sentimento comune (a questo punto si aprono tutte le parentesi del caso). Ognuno ha un proprio sentire che evidentemente si differenzia da quello dell’altro, però condivido l'idea che il Teatro a Canone avesse una sua linea etica che nasceva dalla scuola e dalle esperienze fatte in quei 4 anni.Entrare nel Teatro a Canone significava anche rivedere i nostri ruoli, nella Scuola non avevamo grandi responsabilità, di tutto si occupava Simone con Cristina, l’organizzatrice. Ora tutto doveva essere diviso tra Luca, Simone e me. Così si impara a fare un po' di tutto e non solo a fare training o a creare gli spettacoli.

Da subito Simone ci inserisce nei laboratori. Li doveva fare nelle università ma anche nei teatri; ci ha sempre affiancato ai partecipanti senza dover fare niente di che, semplicemente dare una mano sui “compiti” da svolgere. Eravamo divisi in gruppi piccoli, uno per ciascuno di noi, con l'idea di dare una mano… quello che mi proponevo io era di mettere le persone a proprio agio e spiegare che qualunque cosa facessero, come diceva Simone, non c'era nessun giudizio, nessuno poteva ridere o criticare il lavoro dell'altro.

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La domanda su sedentarietà e nomadismo...sai, penso che in realtà anche stazionando a Chivasso non siamo mai stati tanto sedentari... infatti abbiamo continuato a lavorare per lo più fuori dal Piemonte e non abbiamo ricercato, se non nella parte finale, una relazione con la realtà chivassese.Non so se questa sia stata una debolezza o una forza... forse è stata a periodi entrambe le cose.Pensa per esempio alle contraddizioni: dopo la censura la nostra estraneità a Chivasso ci ha permesso di trovare fuori appoggio da teatri come il Teatro del Lemming a Rovigo; allo stesso tempo, se avessimo avuto un contesto intorno probabilmente non ci avrebbero abbandonati tutti come hanno fatto. L'ultimo periodo è stato per noi importante... abbiamo cercato di crearci un nostro pubblico o meglio un gruppo di amici ai quali piaceva seguirci e ci sostenevano. La censura di A ferro e fuoco è stato il motivo per il quale abbiamo cominciato a proporlo in forma “segreta”, seguito da una cena tutta cucinata da Simone… a me e Luca il compito di servire e i commensali... bello!

Gli spettacoli sono sempre state tappe di una grande passione di Simone... raccontare ciò che lo indigna. Julian Beck e la pena di morte, Pasolini e la violenza, il dramma di Čechov ambientato durante la guerra in ex Jugoslavia e poi Mara Cagol, Basaglia e Mandela… ogni spettacolo mi ha lasciato qualcosa, sicuramente il fatto di averli potuti studiare, d'aver potuto approfondire i vari temi e far crescere una posizione “critica” rispetto a questi; poi tutto il processo di spettacolo, di creazione, di emotività, di fatica, di partecipazione, di amore e odio nei confronti di personaggi dei quali, ce lo hanno fatto capire, non è facile oggi parlare..A ferro e fuoco è lo spettacolo per me più complicato perché sono per gran parte sola in scena e perché lo amo e odio… è stato difficile sotto più punti di vista non ultimo, come dicevo prima, il fatto che ognuno di noi, sulla memoria della storia recente, ha idee e sentimenti che sono il risultato di più fattori (es. il tipo di educazione che hai avuto, la tua cultura, le idee tra le quali sei cresciuta e molto ancora).Spiegare la scena di A ferro e fuoco… si può dire che uno spazio era contornato da sei lampadine, due su canne di bambù e le altre quattro a terra e in mezzo uno spazio diviso a metà da un filo rosso che andava a conficcarsi in un secchio con della terra; conficcati nel secchio anche un bastoncino al quale era attaccato un uccellino dentro la gabbia e un ramo di fior di pesco.La divisione a metà dello spazio delimita due diversi ambienti che durante lo spettacolo si sviluppano. Da una parte si costruisce una camera da letto, si cerca cioè di individuare una realtà quotidiana di normalità, anche di tenerezza, di umanità. D’altro lato si crea una specie di campo di battaglia, o meglio è il corpo che esprime azioni più violente e esce fuori la parte più dura, a volte contraddittoria, ma anche molto vera, della scelta della clandestinità, del voler cambiare il mondo a tutti i costi. Quando Luca è entrato nello spettacolo, si è formata la cornice: l'inizio e la fine sono una sorta di specchio del presente… l'indifferenza, l'incapacità di agire o di credere in qualcosa. In scena c'è l'essenziale: c'è la terra nella quale è sepolta una pistola, c'è un bastone, c'è un cambio d'abito – e tutto cambia; ci sono delle lenzuola con i fiori. Il lavoro intenso tra di noi ma anche con Luca è stato fondamentale, sarebbe stato troppo pesante accettare le idee di Simone senza trovare un punto critico… quindi io dovevo capire… poi in realtà le discussioni non sono state tanto incentrate sullo spettacolo dal punto di vista pratico ma più sulle nostre opinioni personali… quindi secondo me è stato un periodo straordinario proprio perché si aveva voglia di confrontarsi sulle idee!

Chagall era sempre della Scuola, per me un bel ricordo della Scuola ancora unita e forte. È per Chagall che abbiamo cucino tanti tappeti a farne uno solo di 4 x 4 m, che abbiamo anche riutilizzato per Ballata. Chagall era uno spettacolo molto sognante... si spaziava dall'arte alla condizione di esule dell’artista. Per questo spettacolo abbiamo lavorato molto... mi ricordo tanto materiale accumulato poi scartato da Simone… molto ricco!Ballata con Frida Kalho e Pollock è stato più complicato… eravamo già a Chivasso, già in tre ed era estate e Simone non aveva una idea precisa di quello che avrebbe voluto dire... il travaglio è stato lungo ma alla fine si è definito lo spazio, vuoto e coperto da una plastica trasparente; sotto il telo io e Luca, statue nell'ombra, poi tutto prende colore e forma e man mano le storie dei protagonisti si intrecciano alle storie dei quadri di Degas, Picasso, Diego Rivera, Bacon...Miracolo a Venezia è l'ultimo per bambini e forse dei tre è quello che facevo con più piacere! Un telo di nylon pesante viene srotolato in scena e due senzatetto si trasformano in Vivaldi e Mandela, io e Luca. Portiamo in scena due vasche e due bidoni, in uno l'acqua e nell'altro la sabbia: le due vasche riempite diventano Venezia e l'Africa... due Paesi, diverse culture, diversi cibi, diverse lingue ma una possibile comunicazione, un dialogo.

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Intervista a Luca Vonella21 ottobre 2011, risposte a domande inviate via posta elettronica.

Domanda: Quando e dove hai incontrato Simone Capula? Quali sono state le tue impressioni quando hai lavorato per la prima volta con lui?

Luca Vonella: A dirti la verità le due cose che ho provato sono state quel po' di narcisismo che mi ha fatto provare piacere a stare sul palcoscenico e la sensazione di intimità con i partecipanti, persone che vedevo all'università ma che ignoravo e mi ignoravano; invece nel laboratorio era come se avessi imparato a volergli bene, come se ci fossimo denudati e rispettati.Simone l'ho incontrato ad un laboratorio al DAMS dell'Università di RomaTre nel 2003. Un laboratorio organizzato da Ruffini; di lui io seguivo tutti i corsi con un interesse tutto nuovo per me: l'interesse per lo studio. Volevo però provare quel teatro di cui mi parlava. Il seminario si intitolava Ricominciare da Grotowski ed era un lavoro incentrato sulla musica di Bob Dylan. Nacque una dimostrazione dal titolo Antigone dylaniata. All'inizio Simone chiese a tutti i partecipanti per quale motivo fossimo lì; io risposi che ero lì ma non volevo assolutamente fare l'attore, che per me era come un trampolino dal quale avevo paura a tuffarmi; ero attratto e avevo paura e questo mi eccitava. Con lui riuscii a tuffarmi. Lavorammo su azioni fisiche, sui salti in relazione alla musica, sull'improvvisazione. In occasione di quel laboratorio Simone pensò a me come ad uno degli allievi della Scuola Ambulante perché, diceva, parlavo tutte le lingue del mondo. Infatti nella dimostrazione-spettacolo parlavo italiano, leggevo Blowing in the wind in inglese e la poesia Antigone di Brecht in tedesco. Sostenevo di saper imparare le lingue stando qualche giorno nel posto in cui si parlavano (in realtà ancora lo sostengo). Alla fine del seminario mi accennò del progetto della Scuola Ambulante, mi sembrava bello ma non immaginavo minimamente che in realtà stava proponendo a me di parteciparvi. Io dissi che lavoravo, facevo l'operatore socio-sanitario a domicilio in una cooperativa per mantenermi gli studi. Mi mandò una lettera scritta a mano che aspettai con ansia alla quale risposi senza esitazione alcuna.

Domanda: Quali sono state le tue impressioni quando Simone ti ha proposto di partecipare al progetto della Scuola Ambulante di Teatro? Che cosa è cambiato con il passaggio a questa vita nomade e comunitaria, che cosa ti ha lasciato?

Luca Vonella: Nella lettera ciò che mi attirò tanto da non aver dubbi era il fatto che in questa Scuola di teatro si sarebbe viaggiato molto e avremmo condotto una vita comunitaria. E fu così. Io ero in un momento della mia vita in cui sentivo il bisogno di disciplina. Avevo cominciato anni prima a suonare la batteria in un gruppo punk-grunge molto scarso. Smisi perché non studiavo, preferivo andare a fumare e bere al parco. Smisi in particolare quando un mio amico vomitò sulla batteria. Il laboratorio di Simone e la Scuola mi diedero l'opportunità di dedicarmi a qualcosa senza rifare gli stessi errori.Nella Scuola Ambulante c'era un profondo rispetto per il lavoro da quello più umile a quello in sala. Erano alla stregua; questo permetteva che ci fosse un profondo rispetto anche tra noi allievi, niente capricci e niente vezzi. La Scuola invitava all'umiltà. Io ad esempio adoravo i turni per il lavaggio dei piatti perché per la prima volta prendevo parte a delle regole che realmente garantivano un'equità tra di noi, qualcosa che dava a tutti le stesse possibilità. Era bello cucinare o lavare i piatti per gli altri. Non c'era solo questo, c'era un training abbastanza duro ed il lavoro sugli spettacoli. La Scuola Ambulante mi ha fatto incontrare la giusta percezione della disciplina. Una canzone di Ferretti dice: «la libertà è una forma di disciplina». Questo, mi ha lasciato la Scuola Ambulante. La disciplina permetteva che il nomadismo della Scuola non fosse uno ‘svacco’, ma un viaggio-studio avvincente, avventuroso, ma dove non si perdeva l'identità del gruppo e la qualità del lavoro. Il nomadismo ci ha fatto fare esperienze anche con altri registi e attori più esperti. A volte esperienze che non ci piacquero molto. Ci fece incontrare contesti culturali come l'ARCI di Fondi, le danze indiane al TTB, i "Sassi" di Matera e i centri sociali. Ma, come dicevo, faceva incontrare soprattutto noi allievi, Simone e Cristina con il lavoro. Crescevamo.

Domanda: Passiamo al Teatro a Canone, o meglio, a quegli spettacoli il cui pubblico era principalmente composto da bambini e ragazzi. Consapevoli di questo, come avete cercato di strutturare gli spettacoli Ballata? Che cosa volevate far passare dei soggetti e delle tematiche trattate? Ci sono state modalità diverse

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di proporle in scena oppure confermi che avete mantenuto lo stesso approccio alla costruzione degli spettacoli di contenuto diverso?

Luca Vonella: Gli spettacoli per bambini li costruimmo alla stessa identica maniera di come lavoravamo per gli adulti, semplicemente Simone usava testi colti da libri per bambini, come Il mondo dell’arte per ragazzi [Phaidon, London, 2006] o libri su Vivaldi, Mandela rivolti ad un pubblico di bambini. Ci sono case editrici molto belle che fanno questo lavoro e ce ne sono molte. Libri veramente ben fatti. Per noi, fare spettacoli per bambini, era come preparare una "torta della nonna" consapevoli di rivolgerci a piccoli esseri abituati a mangiare la ciambella del McDonald's. Un composto "fatto in casa" nell'era della globalizzazione e dell'omologazione. Per ciò che riguarda i contenuti, cercavamo di far passare messaggi semplici, come l'importanza del rispetto delle altre culture o che l'artista è un essere libero nell'esercizio della sua fantasia. Usammo anche una fiaba del Sub comandante Marcos, sui colori [La storia dei colori, Minimum Fax, Roma, 1999]. Cose dette semplicemente ma cose importanti. Non volevamo rinunciare a un messaggio ‘edificante’. Miracolo a Venezia lo portammo anche nelle scuole di Seriate dove il 60% degli alunni è asiatico, africano o dell'est Europa. Il nostro spettacolo più ‘innocuo’ diventava quasi politico. Era più frequente, poi, che cercavamo un briciolo di comicità in questi spettacoli, ma cercando di non fare superficialmente i clown, perché le competenze del clown non le avevamo.Per il resto era tutto uguale al nostro normale modo di lavorare, sulla musica e sulle azioni fisiche.

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Intervista per ‘L’amore è una cosa meravigliosa’

A cura del Centro diurno per disabili Handirivieni. Video in possesso di Simone Capula.Centro diurno per disabili Handirivieni – Chivasso (TO), 1995.

Simone Capula: Abbiamo materiali più che per fare uno spettacolo; alcuni vengono rimontati, altri buttati via, altri rimarranno per spettacoli futuri, forse. Nell’insieme delle improvvisazioni subentra abbastanza forte un livello psicologico, obbiettivamente; non ci son solo motivazioni fisiche nel montaggio dell’azione ma c’è anche una motivazione psicologica, è abbastanza inevitabile in questo caso. Anche perché poi il gruppo è fatto di 14 persone, perciò subentrano un sacco di personalità e problematiche diverse. E poi è il più scarso tempo che abbiamo a disposizione: una volta alla settimana e più o meno montiamo in un anno, cioè poche ore.

Domanda: Cioè nella pratica voi avete fornito una traccia su cui lavorare e…

Simone: No. La traccia s’è formata già col lavoro. Abbiamo iniziato con un allenamento; abbiamo lavorato su delle musiche, inizialmente, e su un concetto di amore. La prima traccia che c’era, era fatta solo dagli educatori; erano nati dei materiali, con un seminario solo per educatori del Centro Diurno, anche quelli che non partecipano al laboratorio, e abbiamo avuto la prima traccia e sono rimasti solo due pezzetti di fatto, di quello, ed erano le azioni con le canzoni I love you, je t’aime e la Canzone dell’amore perduto di De André, che è piuttosto importante perché qui i testi delle canzoni danno la cosiddetta ‘drammaturgia’, però non ne parlo perché non so assolutamente cos’è la drammaturgia, non so, non è ironica la mia cosa… ‘Drammaturgia’…Boh, speriamo di fare presto un convegno e di risolverlo!Improvvisare con delle musiche perciò, sempre e solo col corpo, e poi viene montato successivamente il testo, perciò si potrebbe anche iniziare a lavorare a uno spettacolo sul problema dei pneumatici usati, lisi, quelli lisci, per poi arrivare invece a lavorare sul concetto di amore universale, ecco. Cioè, è veramente il materiale degli attori, di chi partecipa allo spettacolo, che dà lo spettacolo; non c’è niente di precostituito. Tutto il materiale che si vede in scena nello spettacolo di stasera, è materiale nato dagli attori, non c’è niente di imposto dall’esterno. È solo il montaggio imposto dall’esterno.

D: Ale, per te, in quanto attore, che differenze ci sono tra questo laboratorio e gli altri che fai abitualmente al di fuori di questa realtà?

Alessandro Rigoletti: Qui c’è il fatto che io la considero una compagnia, cioè per me…sono delle persone con cui riesco a andare in sala e essere a mio agio, per cui c’è il grande vantaggio di essere rilassato e quindi di poter lavorare come se fossi tranquillo in sala. Mi capita molto di rado ultimamente, semplicemente è successo quando ho potuto lavorare con i miei ex colleghi, a Volterra, perché prima di potersi lasciare un po’ andare in sala, sembra assurdo ma in questo tipo di lavoro bisogna aver condiviso una buona fetta di vita insieme. E con loro è così; con alti e bassi, con una presenza più costante o meno, sono passati degli anni: io so con chi ho a che fare e loro pure, purtroppo [sorride], e così si lavora in armonia. C’è un desiderio che è quello di far capire sempre di più qual è la prassi del lavoro d’attore; e spero che in futuro, in particolare con questo spettacolo che secondo me ha un livello superiore rispetto agli altri, ci possa essere anche la fase di ‘affinazione’ del lavoro e non si concluda quindi con la replica finale [Simone: Non si dice ‘affinazione’ comunque!] Affinamento! Cioè provando anche a lavorare di nuovo su ciò che è già stato definito, senza abbandonarlo, ed è, dal punto di vista attoriale, la cosa più interessante. Vedremo…

D: Un’altra domanda a voi due… una domanda sulla marginalità; adesso in realtà non so neanche come porvela, magari fatevela voi e poi rispondete.

Simone Capula: La marginalità del Centro diurno o del teatro?

D: Di tutti e due, cioè la domanda era sostanzialmente: Voi già lavorate in un teatro marginale, rispetto al teatro---

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Simone: Noi lavoriamo in un teatro marginale rispetto ai marginali. Questo è abbastanza importante, perché la marginalità, adesso come adesso, è Armando Punzo di Volterra ad esempio, un teatro marginale, ma di fatto ben inserito nel sistema teatrale, tanto che dirige il secondo festival di teatro d’Italia dopo Santarcangelo, a parte Spoleto. Perciò non è più marginale, come non lo è Pippo Delbono, che ha delle produzioni in cui lavora con i marginali appunto, con gli ‘sciagurati’. Noi rimaniamo ancora più ai margini, l’unico posto in cui ci considerano… non so quanto per scelta o quanto per bisogno. Questo porta a una poetica probabilmente… Noi abbiamo poca ‘poetica della marginalità’; penso che i nostri spettacoli siano ‘poco marginali’, di fatto. Questo ci ha portato a essere più amati, ad esempio, dai professori universitari che non dal pubblico – questo è stranissimo. Perciò noi ci consideriamo un gruppo marginale come lo son stati i nostri maestri, l’Odin e il Teatro Tascabile. Penso che loro sono i marginali – l’Odin, più che il Teatro Tascabile.

D: Ma la questione della ‘poetica della marginalità’ che tu accennavi, non diventa un po’ pericolosa nel momento in cui vuoi mettere in scena qualcosa che non voglia essere marginale, cioè che pretenda di essere visto con dei canoni di ‘normalità’, tra virgolette?

Simone: Se uno parte e va a vedere un lavoro con dei canoni di ‘normalità’, non può venire a vedere un nostro spettacolo semplicemente, vada da un’altra parte. Secondo me non è possibile essere marginali e andare nei teatri coi venduti – cioè avere un impegno politico, detto in altri termini; “politico” nel senso della polis, che sia un qualcosa per la gente. Perciò l’unico modo per un intervento politico del teatro è quello di rivolgersi a un pugno di spettatori, non alle masse; secondo me il modello dovrebbe essere, dico una parola grossa, quello delle catacombe dei primi cristiani, dove per salvarsi bisognava nascondersi e contarsi.[…] Se io metto i carcerati in scena e faccio milioni di incasso, perdo tutta la mia funzione politica, secondo me, in questo momento; cioè cerco solo il successo e ho successo con la marginalità altrui. È complicata questa cosa… Io non parto dal contenuto dello spettacolo, anzi lo spettacolo su Tondelli è addirittura uno spettacolo ‘alla moda’, perciò… Cioè, non penso prima: Adesso faccio una cosa marginale; no, assolutamente, tanto che a volte i cosiddetti ‘marginali’, i gruppi della terza onda, ci considerano molto snob e molto integrati.Non si tratta del problema dei contenuti dello spettacolo, è un intervento politico il come produrre lo spettacolo e dove andare con lo spettacolo. E poi è marginale nel momento in cui servi a pochi spettatori, non sia pensabile di raggiungere molta gente col teatro. L’altra cosa di cui mi sto rendendo conto proprio in questi giorni, una delle cose che mi ha colpito dei Convegni dei Giovani Europei, è che si parla sempre di ‘ritmo’ dello spettacolo, che deve avere più ‘ritmo’. Penso che una delle utilità del teatro sia quella di disabituare i pochi spettatori che vanno a teatro al ritmo televisivo, perciò viva gli spettacoli lenti! […] Secondo me è fondamentale: il teatro è diverso dalla televisione, non può essere influenzato, perciò non è teatro quello di Claudio Bisio, di Paolo Rossi, che ha tutti questi sketch, che non reggono poi a teatro – velocissimi, incalzanti; ma il teatro è un’altra cosa, è ritmi dilatati – tempi dilatati, non ritmi dilatati – perciò non è che non ha ritmo, ma ha un altro ritmo: è il termine di paragone sbagliato. Questa è un’altra cosa della marginalità: il non usare i codici dei media, ma usare i codici teatrali – che vuol dire, poi, il lavoro dell’attore.

D: Parlami un attimino dell’interesse, o piuttosto, del disinteresse dell’istituzione rispetto al lavoro che state facendo qui a Chivasso da 8 anni.

Simone: Mah, la cosa molto interessante è quella che sia al commissario di giunta di sinistra che a quello di destra, a nessuno gliene ha mai fregato niente di noi, e questo è fondamentale, perché non abbiamo debiti. Hanno forti debiti le istituzioni nei nostri confronti perché noi abbiamo continuato a lavorare: da 7 anni un laboratorio con loro, col centro diurno; abbiamo fatto un festival che hanno visto penso circa 10.000, 12.000 persone in totale, perché facevamo anche degli spettacoli di strada; abbiamo poi organizzato un convegno a livello nazionale su Tondelli; abbiamo fatto spettacoli per bambini nelle scuole; tutto questo con 5 milioni da parte del comune di Chivasso, in 8 anni. Perciò noi assolutamente ci siamo pagati la nostra permanenza; non abbiamo forte interesse, adesso, a rimanere a Chivasso, sentiamo solo un obbligo intellettuale di far sapere che anche a Chivasso si può non essere bottegaio, non vendere nei negozi in mano ai commercianti di Chivasso, non essere figli di papà, ma si possono far delle cose, anche se è complicato. Ecco, questa è la cosa fondamentale: a Chivasso, le istituzioni non ci hanno mai considerato. Questo è fondamentale per noi… è

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fondamentale poter dire: Esiste ancora questa cosa, che è un’alternativa all’omologazione totale. Probabilmente noi siamo omologati da un’altra parte, stando al punto di vista delle istituzioni chivassesi, dove la giunta è del tutto disinteressata a qualsiasi progetto culturale – Chivasso da anni deve fare una biblioteca e non ha ancora trovato l’edificio per farla; non esistono i gruppi di base musicali a Chivasso, figuriamoci; in tutto il resto del mondo esistono gruppi di base musicali, a Chivasso non si son formati dei gruppi; ma non perché alla gente, ai giovani non interessi suonare, ma perché proprio non c’è possibilità. C’è stato un tentativo di fare un centro sociale ma è fallito anche quello, perché le stesse persone che cercavano di fare il centro sociale erano molto simili a quelle a cui si opponevano, e perciò è successo uno scontro di interessi. Perciò qual è la funzione? Non possiamo andar via completamente da Chivasso perché ci sentiamo un dovere nei confronti di questo territorio e quindi resistiamo. Questo è abbastanza forte; del resto non siamo neanche mai andati a fare lo spettacolo a Torino, abbiamo fatto più o meno 30 date in tutta Italia ma a Torino non l’abbiamo fatto. Torino e Chivasso sono le città della Fiat e noi non abbiamo ruote, anzi le abbiamo, ma quadrate, perciò non andiamo veloci e non siamo molto interessanti e dal punto di vista elettorale non abbiamo nessun peso, assolutamente.

D: Da questi laboratori che state facendo, cosa vi rimane per il vostro lavoro prettamente teatrale e da un punto di vista umano?

Simone: Sicuramente il lavoro sulle azioni fisiche prosegue sempre, questo lavoro dell’attore, perciò diversi modi di rapportarsi a questa visione tecnica. L’altra cosa forte è che il teatro è relazione, perciò è l’incontro fra il regista e l’attore, fra l’attore e lo spettatore, fra l’attore e l’altro attore, l’attore, il regista e lo studioso; perciò è creare una rete di relazioni. Sicuramente in queste relazioni si creano le relazioni più forti, perché c’è uno scambio quasi alla pari; in particolare quello al Centro diurno è alla pari, altri non lo sono, perché dobbiamo insegnare qualcosa, ci pagano per quello. Però la cosa più forte che rimane è il rapporto umano, che è al servizio sempre del teatro: cioè noi facciamo teatro, non facciamo assolutamente un lavoro di animazione sociale; non ce ne importa niente, ci sono altre persone che lo fanno meglio di noi. Questo è un altro dei grossi problemi che incontriamo a Chivasso, che sovente ci scambiano per animatori, ma noi non lo sappiamo fare, ci sono molte altre persone che lo fanno bene – anzi, in passato l’abbiamo fatto ma abbiamo poi deciso di fare teatro, di fatto. Questo è forte: noi portiamo il teatro tra gente che forse ne sa meno di noi ma un po’alla volta cresce e scambiamo questa relazione umana e anche teatrale.

D: Mi dici qualcosa di te, chi sei, cosa fai…?

Carla Bernardi [educatrice al Centro diurno di Chivasso]: Io ho fatto l’educatrice per caso, da otto anni, nove, circa. Attualmente non sto lavorando molto con i ragazzi perché ho un compito più… Tengo le ‘public relations’ tra virgolette, però mi son mantenuta l’attività del laboratorio perché mi mancava, quando l’abbiamo iniziato c’ero anch’io e quindi mi mancava.

D: Quanti anni è che stai seguendo il laboratorio?

Carla Bernardi: Dall’inizio. È stato frutto di uno scambio, perché il Teatro Tribù cercava dei locali dove far le prove dei loro spettacoli e noi avevamo dei locali al Centro diurno. […] Provavano la sera, e poi ci hanno detto ‘In cambio, possiamo provare a inventare un laboratorio’. E appunto, di anno in anno l’abbiamo sempre reiterato; i primi due anni forse addirittura era gratis, cioè era proprio uno scambio, un luogo fisico per questa azione.

D: L’idea di coinvolgere voi educatori nel laboratorio, come vi è nata?

Carla Bernardi: Diciamo che dall’inizio, perché forse Simone e chi c’era con lui allora non erano molto sicuri, pensavano di non essere preparati, adeguati o in grado di gestirlo da soli; non sapevano le proposte se erano adeguate ai ragazzi. E così ci hanno coinvolto e abbiamo fatto uno “stage’ tra virgolette, tutti gli educatori, e abbiamo presentato sempre degli spettacoli. […] Il gruppo dei ragazzi è sempre stato un numero di sette-otto, tutti gli anni…e si è cambiato molto, insomma, si è cresciuti con il laboratorio; uno spettacolo come quello di quest’anno era impensabile anche solo l’anno scorso magari.

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D: E per te cosa ha significato e cosa significa questa esperienza di laboratorio con Simone, Alessandro e i ragazzi?

Carla Bernardi: Infatti… Prima, quando Simone diceva degli spettacoli che si creano in modo fortuito, no, secondo me è una combinazione di momenti, non lo so, di relazioni, di crescita personale di tutti, sia degli educatori, sia del regista, sia dell’attore che ci lavora, dei ragazzi, che sono diventati tutti bravi, ed è uno scambio appunto alla pari, secondo me, ci si dà delle cose a vicenda, e quest’anno siamo arrivati a parlar d’amore perché secondo me c’è molto amore che si respira.

D: Un’ultima cosa: quest’esperienza dei laboratori ha cambiato in qualche modo il vostro rapporto con i ragazzi, il vostro modo di relazionarvi a loro…?

Carla Bernardi: Sì, secondo me sì, la relazione, la nostra modalità di interagire con loro; ognuno ha un modo diverso di approcciarsi tra di noi e anche coi ragazzi. Ora è cambiato anche tra di loro: […] persone che magari al Centro, in altri momenti, non si relazionavano, avevano poco da dirsi, poco in comune, facendo il laboratorio hanno trovato un momento di condivisione; fanno gruppo. Siamo andati a Volterra a vedere lo spettacolo di Simone ed è stata un’esperienza molto bella; una sfacchinata incredibile, in un giorno e mezzo abbiamo fatto Chivasso–Volterra e ritorno! E c’erano anche loro [i ragazzi del centro diurno di Chivasso] che si sono relazionati con gli attori degli altri gruppi che facevano lo spettacolo lì. Abbiam fatto le tre di notte, andando a parlare in giro con gli altri, e loro si presentavano come gli attori del Centro diurno, del laboratorio del Cento diurno…e facevano delle considerazioni sugli spettacoli che hanno visto […] ognuno ha espresso delle sensazioni, delle cose che avevano percepito dello spettacolo e degli spettacoli; han detto la cosa che gli piaceva di più, cosa gli piaceva di meno, sono andati a far domande agli attori degli spettacoli. Sono molto coinvolti.

D: Voglio solo che mi racconti un po’ da quanto tempo è che lavori in questo laboratorio, innanzi tutto.

Silvia Bombara: Quattro anni che lavoro a Chivasso, appena sono arrivata dovevo sostituire Carla che era in maternità – Carla collaborava con il gruppo teatrale – ma io assolutamente ho detto di no, che mai e poi mai avrei fatto parte del gruppo di teatro per problemi miei, perché sono timida, perché non l’avevo mai fatto, […] per cui non volevo fare questa cosa. Dopodiché invece l’anno scorso è andata via un’altra ragazza, si vede che ero in un momento buono e ho deciso che mi sarebbe piaciuto, e ci ho provato, e mi sono trovata in questa cosa. E devo dire: Perché non l’ho fatto prima? Mah; son contenta soprattutto di esserci, perché non avrei visto delle cose mica male, durante l’anno, tra di noi, tra i ragazzi, delle cose molto belle secondo me, aldilà di quello che è poi il prodotto finale, che è comunque importante, però durante l’anno c’è stato un processo di relazioni che si sono via via intensificate. Secondo me l’argomento ha scatenato delle emotività che sicuramente sono represse, ma ha tirato fuori delle esperienze di vissuto, qualcosa di primordiale, tra noi e tra i ragazzi, che sono tangibili; lo vedi anche nei momenti di pausa.

D: Secondo te, a seguito del laboratorio, è cambiato il vostro modo di relazionarsi tra voi, coi ragazzi, anche il modo di relazionarsi dei ragazzi tra di loro?

Silvia Bombara: Non proprio stravolto, però ci sono delle cose che si sono, secondo me, modificate –minimamente, in alcune parti, però sì, secondo me si sono modificate. […] Poi rispetto all’amore, secondo me, questo tema è stato scelto da Simone, che ha voglia di sperimentarsi in questa cosa, probabilmente voleva…visto che i primi spettacoli erano un po’ difficili da cogliere, ha voluto scegliere un tema complesso ma che, se non altro, questa volta rende lo spettacolo un po’ più digeribile al pubblico; comunque meno criptico, meno ossessivo, cioè una cosa abbastanza intuibile per le persone che lo vedranno.

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Un’intervista per Amleto Sbobinatura parziale dell’intervista filmata nel periodo di preparazione dello spettacolo Soave sia il vento. Amleto e Ofelia gridano e sussurrano le loro strane storie. A cura degli operatori della Casa del Sole. Video originale in possesso di Simone Capula.28 novembre 2009, Casa del Sole (TN).

Simone Capula: Come siamo capitati qua… […] Io sapevo dell’esistenza di una psichiatria che funzionava in questo modo, dell’auto-mutuo aiuto, che qui si chiama ‘fareassieme’, e ho detto: Proviamo a pensare a un progetto che potrebbe andare in una realtà di psichiatria. Non avevo assolutamente nessuna idea, però pensavo che la cosa interessante fosse non lavorare con gli utenti, non lavorare con gli educatori, ma lavorare solo noi. Ho pensato: Prendiamo armi e bagagli, trasferiamo tutto in una realtà che vedremo con loro e vediamo di costruire uno spettacolo sulle storie esistenti lì.Ho avuto un primo incontro solo io con il primario, che era un po’distaccato, diciamo, però nel finale del dialogo mi dice: Rivediamoci. Ci siamo rivisti, tutti e tre siamo andati a questo incontro, e si è capito che era molto più disponibile. Lui ha questo carisma positivo, capisci che può fare quello che fa perché ha questo carisma e può permetterselo. A quel punto avevamo scoperto che c’era la Casa del Sole e pensiamo che potremmo andare a vivere alla Casa del Sole per un periodo e raccogliere storie, in particolare di queste figure che sono gli UFE (Utenti Familiari Esperti), e lui mi ha chiesto di andare a incontrare questi UFE. È passato circa un mese. Arrivai a Trento, dove mi dissero che ci sarebbero state una riunione e una cena in pizzeria.Il primario mi ha assegnato a una ragazza che sta facendo il servizio civile per cercare i finanziamenti, cioè lui ci ha detto dove potevano esserci dei finanziamenti, abbiamo elaborato un progetto e, dopo tira e molla – lui a quel punto molto presente con le mail e con le telefonate – siamo riusciti a fare un progetto, di cui è passato il 96% di quello che avevamo chiesto, per la formazione dei volontari. Perciò questi incontri con gli UFE sono una formazione per loro. Chiaramente noi ci siamo impegnati: lo spettacolo servirà per la sensibilizzazione, cioè lo spettacolo potrà andare nelle scuole. Lui – a me interessa dire questo – ha detto: “Io non metto mano e voce neanche per l’1%: voi rispondete del vostro lavoro alla fine. Vediamo alla fine. Voi avete il finanziamento della situazione e chiedete aiuto dove avete bisogno”; ad esempio abbiamo chiesto, una volta, un incontro di un’ora; fondamentalmente lui butta lì ogni tanto qualche input qua e là, noi avevamo un po’di problemi nell’incontrare gli Ufe, perché alcuni sono molto bravi, alcuni, a parlare in pubblico, altri molto titubanti. Allora ha preso un foglio e ha evidenziato dodici nomi di Ufe, quelli secondo lui più tranquilli nell’esporsi, e noi li stiamo incontrando in questi giorni. La partenza del progetto è quando siamo arrivati qui insomma, abbiamo preso possesso delle stanze, abbiamo avuto i primi incontri con i pazienti. E poi un po’ alla volta siamo diventati anche amici…Le storie che stiamo raccogliendo dagli Ufe adesso ci mettono davanti a un’evidenza forte, che è quella che si pensa che una parte della psichiatria sia finita da un sacco di tempo e poi invece non è così. Questa è la forza d’urto che hanno queste storie che ci raccontano: che ci sembra che tutto questo non esista più perché hanno chiuso i manicomi e invece ci sono stati fino a poco tempo fa di sicuro, adesso non più, speriamo. Ad esempio l’elettroshock: a Verona, esiste un ospedale che è famoso per aver fatto l’elettroshock fino a poco tempo fa; la mamma di una ragazzina ce l’ha raccontato.Poi abbiamo scoperto una traduzione dell’Amleto di Shakespeare, perché in modo molto banale è il testo su cui stiamo lavorando. Abbiamo scoperto questa traduzione di Garboli, nuovissima, stupenda di Amleto, e due film su Amleto molto belli, uno è Amleto si mette in affari di Aki Kaurismäki [Hamlet liikemaailmassa, Finlandia, 1987] e l’Amleto di Kenneth Branagh [Hamlet, Regno Unito, USA, 1996] che è molto tradizionale ed è un kolossal, però molto bello.

Mauro Danesi [attore del Teatro Tascabile di Bergamo, presente all’intervista]: Ma – è una domanda personale - che senso ha? Cioè, hai fatto questo progetto perché il finanziamento era qui, o perché…? Ci sarà un senso profondo, mi pare, in questa cosa…

Simone: Ah sì. Allora, io non nascondo che in parte il finanziamento ha un peso. Il teatro in Italia – sarò brevissimo su questo, e anche cinico – in teatro quasi nessuno hai soldi, a parte le grosse istituzioni. Allora devi trovare dei finanziamenti in situazioni che bordeggiano il teatro per fare teatro, non perdere la tua identità di teatrante. Questo progetto ci permetteva di trovare delle storie e di trasferire l’attività, di chiudere

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la sala prove a Chivasso e di aprirne una qua. Hanno accettato questo. Allora, qual è la questione? Noi l’anno scorso abbiamo vinto il bando di concorso della regione per l’handicap: qual è il modo di rendere piacevole e utile a noi e agli altri un finanziamento sulla carta? È di metterti in una difficoltà tale che ti faccia piacere in qualche modo il progetto. Qui sapevamo che il luogo dava lo spettacolo, tanto che ha messo a repentaglio il progetto, perché se il progetto che veniva richiesto doveva essere molto centrato sugli Ufe, quando tu arrivi qua non lo incentri più sugli Ufe, ma lo incentri sui pazienti di questa struttura, che sono così diversi da te. Allora fin quando tu non capisci che anche gli Ufe hanno un fascino, all’inizio il rischio è di attorcigliarti su te stesso e continuare a dire: Faccio uno spettacolo su Andrea, su Ivano… [alcuni utenti della Casa del Sole incontrati dal Teatro a Canone]. E invece abbiamo capito che quelle storie sono ricche altrettanto e sono già fatte, fondamentalmente, non sono neanche da elaborare. Sono da elaborare in azione scenica, ma non in quanto drammaturgia, in quanto storia.Allora, ecco perché venire qua: penso che, in questo momento, se vuoi far teatro devi andarti a cercare il teatro dove il teatro non c’è. Ma non è quello che era anni fa il “baratto”; no, questi incontri ci aiutano con la tecnica, cioè siamo regista e attori che riescono a stare in situazioni di forte disagio. È molto più difficile fare un laboratorio in una scuola che qua. Qua è difficile vivere, perché stai dal mattino alla sera, devi stare a degli orari precisi – qui si mangia a mezzogiorno meno dieci, si mangia alle sette meno dieci, sette quando è un po’tardi, sette e cinque se siamo in ritardo. Perciò tu hai degli orari di lavoro precisissimi: 10-12 e 14-18. Quelli sono gli orari. All’interno di questo hai massima libertà, hai da trovare tutto quello che vuoi; noi abbiamo mantenuto tutta la prima della giornata come era in sala: danze indiane e training, tutte le mattine.[…]

Simone: Allora, cos’era il senso? Il senso è – adesso ce l’ho un po’ più chiaro di quando ho iniziato il progetto: vado, porto il mio teatro per venti giorni, un mese, trentacinque giorni – staremo di più probabilmente; provo, creo uno spettacolo lì, come avrei fatto da noi, in sala; almeno, creiamo la prima struttura. Cosa lascio a queste persone? Sicuramente la nostra presenza qua. Adesso lo posso dire: la presenza, qua, nostra, e ad esempio di voi oggi che siete venuti a trovarci, fa star bene. Lo posso dire senza presunzione o altro: serve. […] E spero di fare uno spettacolo che, per la prima volta, sia il frutto delle storie che abbiamo colto da chi ci è stato vicino […]. Qua, qua loro sono molto più ricchi, è ovvio, ma non fintamente, cioè son persone con delle esperienze pazzesche; poi non le sanno comunicare. Gran parte del loro problema è che non stanno bene a questo mondo e non si relazionano a quel mondo – se no non sarebbero qui – non avrebbero questo tipo di malattia.Allora è come portar fuori da qua uno spettacolo che li rappresenti, ci rappresenti e rappresenti il rapporto che noi abbiamo avuti in questo periodo. E che sia quasi ‘promozionale’ – in senso buono, per la prima volta – faccia pubblicità a una psichiatria umana, che qua pare sia così, magari ce ne sono altre mille così; ma noi qui abbiamo trovato innanzitutto la disponibilità: il fatto che si accetta di far stare una compagnia di teatro dentro una struttura anche un po’ chiusa, senza filtri; noi non abbiamo filtri fra noi e utenza, noi e educatori, noi e infermieri, perciò possiamo dire quello che vogliamo. Il fatto che il primario ci abbia detto ‘Alla fine, rispondete voi del vostro lavoro’, ma nulla sul contenuto. E il tema libero è difficile, è molto difficile; però, insomma, in questo modo ci permette probabilmente di ridare almeno in parte i soldi che abbiamo preso per fare questo lusso che ci stiamo permettendo; tanto che si pensa, dopo una anteprima, di farlo poi debuttare ad un festival più grande, chissà.

Simone: Tutto questo mi porta a pensare che è uno spettacolo che, secondo me, potrà viaggiare con le sue gambe in certe realtà ed essere affiancato da presenze di persone esperte in altre, cioè ad esempio nelle scuole. Cioè che spieghi veramente da dove è nato; la cosa importante sarà anche la scheda: spiega che ‘Questo spettacolo è frutto di…’, ‘Queste storie sono…’, ‘Queste persone che hanno questi problemi…’. Non penso che lo spettacolo sia sufficiente già in partenza; è un tassello in più in un percorso di sensibilizzazione. E in questo percorso di sensibilizzazione, cercherò […] di non cedere per niente al campo del sociale, ma di rimanere sul piano dell’arte. Io di solito son molto titubante a usare la parola ‘artistico’ per il teatro, e in particolare per il nostro lavoro; e invece no, qui bisogna prepotentemente dire: ‘Io, quella poca percentuale di artisticità che ho nel mio lavoro – ma non sto dicendo con finta modestia, perché lo penso: abbiamo, penso, un buon artigianato, ma l’artisticità non lo so […] - bisogna scoprirla e portarla in questo progetto, sennò non funziona; se non ha quello scarto in più…’

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Chi è l’artista? È chi fa crescere un fiore da qua, non su un terreno arato, su un terreno arato chiunque lo fa crescere un fiore. Magari è uno di quei fiori che si chiamano ‘occhi della Madonna’, piccoli piccoli… Cioè più riusciamo a […] far vedere quel fiorellino, allora forse ce l’abbiamo fatta. Mah, chissà.

Simone: Noi dovremo fare uno spettacolo molto più bello di quelli che abbiamo prima, perché l’abbiamo come dovere nei confronti di chi ci sta aiutando a scriverlo, che sono i volontari, gli operatori… Prima del soggiorno è stato duro ad esempio; adesso veniamo portati come esempio di ‘bravi ragazzi’ qua dentro, insomma…perché riusciamo a convivere bene qua. Noi dobbiamo convivere bene, perché per aver le storie dobbiamo ‘rubarle’, è anche molto funzionale e, come si può dire, cinico… senza niente togliere loro, ma è necessario distaccarsi. Anche se non siamo tanto bravi. [sorride]

Simone: Tra persone, adesso, non c’è più quel problema; i problemi sono altri, dare delle cure adeguate, strutture belle… ma se devo continuare a pensare: Ah, quella roba là [psichiatria nei manicomi] era brutta! Sì, quella roba là era brutta, lo si sa, lo si sa; […] facciamo vedere dove c’è del bello e che è possibile […] Basta, su un’ora di spettacolo, massimo un accenno di due minuti a quella psichiatria. Noi abbiamo Basaglia in scena […]

[…]

Lorenza Ludovico: Allora io che mi chiederei?... Qual è l’impressione con cui sei arrivata e qual è l’impressione con cui partirai – e lo so già, perché è come se partissi stasera – ecco, se partissi stasera, che impressione avresti e quando sei arrivata che impressione avevi? Perché queste sono le due cose che ho più chiare per adesso. La prima settimana a ottobre, qua alla Casa del Sole, io avevo in mente sempre questa forte…il termine ‘pregiudizio’ mi tornava spesso, perché ero arrivata qui con una forte paura. E io sono arrivata qui con la paura fisica di determinate persone e anche con il pregiudizio che la malattia mentale fosse comunque collegabile o legata alla violenza, e quindi al timore che io dovevo avere di questa violenza. E quindi durante il primo soggiorno qua, la prima cosa che proprio ho capito, che mi è rimasta stampata nella mente è questa abolizione del pregiudizio, questo errore stupido che si fa di unire le due cose. Perché una signora, una UFE, e anche delle infermiere che ci sono qua il pomeriggio, mi dicevano ‘È stupido pensarlo, perché spesso la violenza è molto più frequente in casi esterni a queste realtà che qui dentro’. […] Tra le persone che sono seguite in una struttura come questa, io non ho mai visto atti di violenza, e questo m’ha fatto pensare. Quindi quando sono entrata qua dentro, la paura di una situazione come questa era forte e adesso non c’è, non c’è proprio.In questi giorni, ho sentito anche forte la sensazione di una potenziale appartenenza a una categoria UFE, perché l’UFE ti racconta una storia e tu ti commuovi a quella storia perché potenzialmente sei come lui, o ti auguri di poter fare il percorso che ha fatto lui, quindi di non cadere in una depressione e non riuscire a uscirne. Però mi faceva pensare il fatto che lei raccontava delle cose e diceva ‘Sai, il mio rapporto con mia madre, il mio rapporto con la famiglia è morboso; il mio non sentirmi adeguata; il mio non sentirmi capita…’, son cose che spesso si ritrovano in tutti noi, o almeno io le ritrovo in me. Quindi il senso di appartenenza è forte: cadere, inciampare è facile, quindi ti senti molto più vicino a una persona. Ovviamente, vedi Andrea [utente della Casa del Sole], ti specchi in Andrea e la vedi la differenza; invece ti specchi in Mara, ti specchi in Mariella, ti specchi in tante persone che sono uscite dalla malattia e non la vedi la differenza […] Forse io poi l’ho letta anche in maniera diversa, la sensibilizzazione forse è molto portata a farti capire e a farti accettare una realtà; nel mio caso, che questa realtà l’ho accettata perché ci sto dentro, un secondo livello è quello di sentirsi così vicini che certe volte ti fa paura anche, questa relazione, questa somiglianza, questa vicinanza.

Simone: […] Potrebbe anche essere fatto così lo spettacolo, un talk show… Sì, perché potrebbe funzionare, per assurdo potrebbe funzionare…

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APPENDICE 2 - Sulla censura dello spettacolo A ferro e fuoco. Documenti ufficiali

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TEATROGRAFIA

Apdav (Associazione Promozione e Diffusione delle Arti Visive)

Segni di terraCon Fabrizio Dassano, Andrea Demarchi, Massimo Formia, Francesca Falletti, Licia La Porta, Franco Malvicino, Jane Marinoni, Giorgio Scapecchi. Drammaturgia e regia di Simone Capula. Frammento all’interno di Punti di vista. Produzione Apdav. Prima rappresentazione a Chivasso (TO), 1987.

I° studio su ‘La Malora’ di Beppe FenoglioCon Andrea Demarchi, Francesca Falletti, Paola Tella, Jane Marinoni. Drammaturgia e regia di Simone Capula. Produzione Apdav. Prima rappresentazione a Palazzolo Vercellese (VC), 1991.

Teatro Tribù

Volo di farfalle. Dramma lirico dedicato a Beppe FenoglioCon Silvia Baudin, Alessia Bertotto, Tatiana Biadente, Silvia Bombara, Alessandro Rigoletti, Roberta Vigna. Drammaturgia di Aldo Pasquero. Regia di Simone Capula. Produzione Teatro Tribù. Prima rappresentazione a Gassino Torinese (TO), 1992.

Allons enfant… paratinaCon Silvia Baudin, Alessia Bertotto, Tatiana Biadente, Silvia Bombara, Aldo Pasquero, Alessandro Rigoletti, Roberta Vigna. Drammaturgia e regia di Simone Capula. Produzione Teatro Tribù. Prima rappresentazione a Torino (TO), 1993.

Atlante (con il ritmo di una danza)Con Silvia Baudin, Alessia Bertotto, Tatiana Biadente, Silvia Bombara, Aldo Pasquero, Alessandro Rigoletti, Roberta Vigna. Drammaturgia e regia di Simone Capula. Produzione Teatro Tribù. Prima rappresentazione a Chiaverano (TO) 1993.

Oggi è domenica domani si muoreCon Alessandro Rigoletti. Drammaturgia e regia di Simone Capula. Produzione Teatro Tascabile di Bergamo. Prima rappresentazione a Bergamo (BG), 1996.

L'amore è una cosa meravigliosaCon Silvia Baudin, Alessia Bertotto, Tatiana Biadente, Silvia Bombara, Alessandro Rigoletti, Roberta Vigna e gli utenti del Centro diurno Handirivienidi Chivasso. Drammaturgia e regia di Simone Capula. Coproduzione centro diurno Handirivieni di Chivasso e Cooperativa Valdocco. Prima rappresentazione a Padova (PD), 1997.

Non tutto ciò che luccica è lamè Spettacolo per il "Progetto Volterra" (festival di Volterra, ed. 1998). Con Silvia Baudin, Silvia Bombara, Rosa Pilloni, Alessandro Rigoletti. Drammaturgia e regia di Simone Capula. Produzione Teatro Tascabile di Bergamo – Pontederateatro. Rappresentazione unica a Volterra (PI), 1998.

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Page 156:  · Web viewLe stesse problematiche, addirittura in forma più evidente, si presentarono in Germania, considerando che la progettazione di un teatro popolare viene svincolata dalla

Compagni. Lettere d'amore tra Ada e Piero GobettiCon Silvia Baudin e Alessandro Rigoletti. Drammaturgia e regia di Simone Capula. Produzione Teatro Tribù – Teatro Tascabile di Bergamo. Prima rappresentazione a Bergamo (BG), 1999.

Seratina maleficaCon Silvia Baudin, Andrea Demarchi, Alessandro Rigoletti. Drammaturgia di Andrea Demarchi. Regia di Simone Capula. Produzione Teatro Tribù. Prima rappresentazione a Chivasso (TO), 2000.

Vagabondaggi Teatrali

Il sogno di Diego Armando è in TechnicolorCon Teatro Serraglio. Drammaturgia e regia di Simone Capula. Prima rappresentazione a Seriate (BG), 2001.

Sogni d’amore e di (r)esistenzaCon Franco Acquaviva. Drammaturgia di Franco Acquaviva e Simone Capula. Regia di Simone Capula. Produzione Teatro delle Selve – Associazione culturale Fiat Lux. Prima rappresentazione a Roma (RM), 2003.

Neanche al sole puoi chiedere di non fare ombra Con Silvia Bombara, Massimo Cassiani, Ruben Santomauro e Diana Scarponi. Drammaturgia di Silvia Bombara. Regia di Simone Capula. Produzione Dulcamara (Associazione Culturale di Ricerca Educativa). Prima rappresentazione a Terni (TR), 2003.

Il filosofo con la pistolaCon Franco Acquaviva. Drammaturgia di Franco Acquaviva e Simone Capula. Regia di Simone Capula. Produzione Teatro delle Selve – Associazione culturale Fiat Lux – Liceo Martinetti di Caluso (TO). Prima rappresentazione a L’Aquila (AQ), 2004.

La monaca di Monza e Il tumulto di San MartinoEpisodi del Corteo manzioniano del Teatro Tascabile di Bergamo, spettacolo di strada allestito con 250 attori. Regia di Simone Capula. Produzione Teatro Tascabile di Bergamo – Comune di Lecco. Rappresentazioni uniche a Lecco (LC), 2004.

Quartiere. Racconto lirico in memoria di PasoliniCon Sottotracciateatro. Drammaturgia e regia di Simone Capula. Produzione A.R.C.I. Murales. Prima rappresentazione a Fondi (LT), 2005.

Scuola Ambulante di Teatro

J. B. La vita del teatroCon Enrico D’Amario, Francesca Cadeo, Raffaella Di Tizio, Lorenza Ludovico, Michele Muradore, Claudia Musitelli, Luca Vonella. Drammaturgia e regia di Simone Capula. Produzione Università di Roma Tre – Comune di Roma (RM). Prima rappresentazione a L’Aquila (AQ), 2005.

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Pier Paolo. Uno spettacolino edificanteCon Enrico D’Amario, Raffaella Di Tizio, Lorenza Ludovico, Michele Muradore, Claudia Musitelli, Luca Vonella. Drammaturgia e regia di Simone Capula. Produzione Università di Roma Tre – Comune di Roma (RM). Prima rappresentazione a Roma (RM), 2006.

Many loves. A rock dream for Julian BeckCon Francesca Cadeo, Raffaella Di Tizio, Lorenza Ludovico, Michele Muradore, Claudia Musitelli, Luca Vonella. Drammaturgia e regia di Simone Capula. Produzione Università di Roma Tre – Comune di Roma (RM). Prima rappresentazione a L’Aquila (AQ), 2006.

Zio Vanja sui Balcani. Scene di vita dagli assediCon Raffaella Di Tizio, Gemma La Cecilia, Lorenza Ludovico, Simone Morosi, Minoo Norouzy, Chiara Putrella, Naomi Ranieri, Ivan Roselli, Giulia Tomassi, Ambra Valeriani, Martina Vigano, Luca Vonella. Drammaturgia di Simone Capula e Rosalba De Amicis. Regia di Simone Capula. Produzione Università di L'Aquila – Teatro Tascabile di Bergamo – Festival internazionale "Il Centro e La Circonferenza". Prima rappresentazione a Bergamo (BG), 2007.

Sonata a Chagall. Spettacolo realista carico di sogniCon Raffaella Di Tizio, Lorenza Ludovico, Simone Morosi, Luca Vonella. Drammaturgia e regia di Simone Capula. Produzione Associazione culturale Nodo dei Desideri – Associazione culturale Fiat Lux. Prima rappresentazione a Crema (CR), 2007.

Teatro a Canone

Ballata. Per uno spettatore-visitatore curiosoCon Lorenza Ludovico e Luca Vonella. Drammaturgia e regia di Simone Capula. Produzione Teatro a Canone. Prima rappresentazione a Chivasso (TO), 2008.

A ferro e fuoco. Spettacolo in LA min.Con Lorenza Ludovico e Luca Vonella. Drammaturgia e regia di Simone Capula. Produzione Teatro a Canone. Prima rappresentazione a Rovigo (RO), 2010.

Versione radiofonica dello spettacolo A Ferro e FuocoVoci recitanti di Lorenza Ludovico e Luca Vonella. Radio Ondarossa, 12 marzo 2010.

Soave sia il vento. Amleto e Ofelia gridano e sussurrano le loro strane storieCon Lorenza Ludovico e Luca Vonella. Drammaturgia e regia di Simone Capula. Produzione Teatro a Canone. Prima rappresentazione a Pergine Valsugana (TN), 2010.

Miracolo a Venezia - ovvero Le Quattro StagioniCon Lorenza Ludovico e Luca Vonella. Drammaturgia e regia di Simone Capula. Produzione Teatro a Canone. Prima rappresentazione a Cigliano (VC), 2011.

Poemi UmaniCon Franco Fornasari (musico), Lorenza Ludovico e Luca Vonella. Drammaturgia e regia di Simone Capula. Con la partecipazione di Piera Volpi Janeselli, Valerio Fontanari e Franco Oss Noser. Produzione Festival Pergine Spettacolo Aperto – Teatro a Canone. Rappresentazione unica a Pergine Valsugana (TN), 2011.

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