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Date post: 23-Jan-2021
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Il duello finale (I) (Eneide, XII, 676-790) I patti con i quali si è stabilito il duello tra Turno ed Enea vengono violati, a causa dell’intervento della ninfa Giuturna, sorella di Turno: ella infatti, mutatasi in Camerte, un guerriero particolarmente autorevole, insinua il dubbio nell’animo degli Italici, e poi fa comparire un segno nel cielo, che aizza gli uomini alla battaglia: l’augure Tolumnio, credendo di riconoscere un presagio favorevole, scaglia per primo l’asta contro i nemici, scatenando di nuovo la battaglia. Enea viene ferito, non si sa da chi, e poi risanato miracolosamente dall’intervento di Venere. Il Troiano torna più che mai furioso alla guerra, cercando il solo Turno. Allora Giuturna prende le sembianze dell’auriga del fratello, Metisco, e sottrae il giovane alla ricerca di Enea, portandolo sul carro lontano dall’eroe troiano. La furia di quest’ultimo raggiunge l’apice, ed egli comincia una strage senza distinzioni: la battaglia si fa terribile, perché da una parte infuria Enea, dall’altra Turno. I Troiani sono alle porte della città. Amata, la regina, credendo che Turno sia morto, si uccide. I lamenti delle donne salgono dalla città. E’ il segno di resipiscenza per Turno, il quale si rivolge alla sorella, che ha riconosciuto: è ora di smettere la fuga, è ora di affrontare il destino; Giuturna si ritiri, e lasci che il fratello compia il proprio dovere: Il destino è più grande di noi, sorella, ormai; smetti di trattenermi. Andiamo dove chiamano il dio e la dura sorte. E’ stabilito che io affronti Enea, che patisca quanto c’è di aspro nella morte; non mi vedrai più vergognoso, sorella. Ti prego, ora lascia che io mi infurii prima di questa furia”. 680 (Turno) disse così e saltò giù dal carro velocemente a terra e si precipita tra i nemici, tra i dardi, e abbandona la triste sorella e con una corsa rapida rompe le schiere. E come quando un sasso, staccato dal vento dalla cima di un monte, precipita rovinosamente, forse perché la torbida pioggia lo ha dilavato, 685 o forse perché lo scorrere del tempo, negli anni, scalzandolo, lo ha sgretolato; la frana sfrenata rotola nel precipizio con grande spinta e rimbalza al suolo, trascinando con sé alberi, bestie, uomini: così Turno attraverso le schiere sconvolte si precipita alle mura della città, dove la terra ovunque 690 trasuda di sangue versato e l’aria stride di proiettili; fa segno con la mano e insieme comincia a gran voce: Rutuli, risparmiate i colpi, e anche voi, Latini, trattenete le frecce; qualunque sia la sorte, è la mia: è più giusto che io da solo rispetti il patto per voi e combatta con la spada”. 695 Tutti si ritirano e quelli che erano nel mezzo creano uno spazio. Ma il padre Enea, sentito il nome di Turno, lascia le mura, lascia l’alta rocca, rompe ogni indugio, interrompe ogni impresa, esultando di gioia, e risuona orrendamente con le armi: 700 sembra grande come il monte Athos, o l’Erice, o lo stesso padre Appennino, quando freme nelle selve, e gode della cima innevata, levandosi al cielo. E già i Rutuli a gara, e i Troiani, e tutti gli Italici volsero lì lo sguardo, e quelli che occupavano 705 le alte mura, e quelli che dal basso colpivano i muri con l’ariete, Tutti tolsero le armi dalle spalle. Lo stesso Latino stupisce che due uomini così grandi, generati in parti diverse del mondo, si siano trovati faccia a faccia e combattano con la spada. E quelli, non appena i campi si aprirono in una vasta distesa, 710 correndo avanti rapidamente, scagliate da lontano le lance, cominciano la battaglia con gli scudi e le armi di bronzo sonoro. La terra geme; raddoppiano i colpi fitti con le spade: virtù e destino si mescolano insieme. E come quando nella vasta Sila o sull’alto Taburno 715
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Page 1: , XII, 676-790)...la dea figlia di Dauno9, assunto di nuovo l’aspetto dell’auriga Metisco10, corre in mezzo e restituisce la spada al fratello. 785 Venere, indignata che un simile

Il duello finale (I)

(Eneide, XII, 676-790)

I patti con i quali si è stabilito il duello tra Turno ed Enea vengono violati, a causa dell’intervento della

ninfa Giuturna, sorella di Turno: ella infatti, mutatasi in Camerte, un guerriero particolarmente autorevole,

insinua il dubbio nell’animo degli Italici, e poi fa comparire un segno nel cielo, che aizza gli uomini alla

battaglia: l’augure Tolumnio, credendo di riconoscere un presagio favorevole, scaglia per primo l’asta

contro i nemici, scatenando di nuovo la battaglia. Enea viene ferito, non si sa da chi, e poi risanato

miracolosamente dall’intervento di Venere. Il Troiano torna più che mai furioso alla guerra, cercando il solo

Turno. Allora Giuturna prende le sembianze dell’auriga del fratello, Metisco, e sottrae il giovane alla

ricerca di Enea, portandolo sul carro lontano dall’eroe troiano. La furia di quest’ultimo raggiunge l’apice,

ed egli comincia una strage senza distinzioni: la battaglia si fa terribile, perché da una parte infuria Enea,

dall’altra Turno. I Troiani sono alle porte della città. Amata, la regina, credendo che Turno sia morto, si

uccide. I lamenti delle donne salgono dalla città. E’ il segno di resipiscenza per Turno, il quale si rivolge alla

sorella, che ha riconosciuto: è ora di smettere la fuga, è ora di affrontare il destino; Giuturna si ritiri, e lasci

che il fratello compia il proprio dovere:

“Il destino è più grande di noi, sorella, ormai; smetti di trattenermi.

Andiamo dove chiamano il dio e la dura sorte.

E’ stabilito che io affronti Enea, che patisca

quanto c’è di aspro nella morte; non mi vedrai più vergognoso, sorella.

Ti prego, ora lascia che io mi infurii prima di questa furia”. 680

(Turno) disse così e saltò giù dal carro velocemente a terra

e si precipita tra i nemici, tra i dardi, e abbandona

la triste sorella e con una corsa rapida rompe le schiere.

E come quando un sasso, staccato dal vento dalla cima di un monte, precipita

rovinosamente, forse perché la torbida pioggia lo ha dilavato, 685

o forse perché lo scorrere del tempo, negli anni, scalzandolo, lo ha sgretolato;

la frana sfrenata rotola nel precipizio con grande spinta

e rimbalza al suolo, trascinando con sé

alberi, bestie, uomini: così Turno attraverso le schiere sconvolte

si precipita alle mura della città, dove la terra ovunque 690

trasuda di sangue versato e l’aria stride di proiettili;

fa segno con la mano e insieme comincia a gran voce:

“Rutuli, risparmiate i colpi, e anche voi, Latini, trattenete le frecce;

qualunque sia la sorte, è la mia: è più giusto che io da solo

rispetti il patto per voi e combatta con la spada”. 695

Tutti si ritirano e quelli che erano nel mezzo creano uno spazio.

Ma il padre Enea, sentito il nome di Turno,

lascia le mura, lascia l’alta rocca,

rompe ogni indugio, interrompe ogni impresa,

esultando di gioia, e risuona orrendamente con le armi: 700

sembra grande come il monte Athos, o l’Erice, o lo stesso

padre Appennino, quando freme nelle selve, e gode della cima

innevata, levandosi al cielo.

E già i Rutuli a gara, e i Troiani, e tutti

gli Italici volsero lì lo sguardo, e quelli che occupavano 705

le alte mura, e quelli che dal basso colpivano i muri con l’ariete,

Tutti tolsero le armi dalle spalle. Lo stesso Latino stupisce

che due uomini così grandi, generati in parti diverse del mondo,

si siano trovati faccia a faccia e combattano con la spada.

E quelli, non appena i campi si aprirono in una vasta distesa, 710

correndo avanti rapidamente, scagliate da lontano le lance,

cominciano la battaglia con gli scudi e le armi di bronzo sonoro.

La terra geme; raddoppiano i colpi fitti con le spade:

virtù e destino si mescolano insieme.

E come quando nella vasta Sila o sull’alto Taburno 715

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due tori, in scontro ostile, fronte contro fronte,

si affrontano (e i pastori, impauriti, si sono allontanati,

tutta la mandria è ferma e silenziosa per il terrore, e le giovenche mormorano,

attendendo chi comanderà il bosco, chi sarà seguito da tutto l’armento)

quelli fra loro con grande violenza mescolano le ferite, 720

facendo forza, conficcano le corna e lavano di sangue abbondante

i colli e le zampe: tutto il bosco riecheggia il gemito;

non diversamente il troiano Enea e l’eroe figlio di Dauno

si scontrano opponendo gli scudi; l’immenso fragore riempie il cielo.

Giove in persona dopo aver bilanciato i due piatti1 725

li tiene sospesi, e pone su ciascuno il destino dei due contendenti,

quale sia condannato dalla battaglia e quale piatto la morte faccia inclinare col suo peso.

Qui Turno balza, ritenendolo un gesto sicuro,

e con tutto il corpo insorge sulla spada sguainata

e dà un colpo: danno un grido i Troiani e i trepidanti Latini, 730

entrambe le schiere sono irrigidite. Ma la spada infida

si spezza e abbandona il giovane ardente a metà del colpo,

se non subentrasse come aiuto la fuga. Fugge più veloce dell’Euro2,

quando vede l’elsa sconosciuta3 e la mano priva dell’arma.

Si sa infatti che Turno, correndo, quando i cavalli scendevano 735

appaiati all’inizio della battaglia, lasciata la spada del padre,

preoccupato, aveva preso in fretta la spada dell’auriga Metisco.

E quella a lungo, finché i Teucri fuggivano qua e là,

era stata adeguata: ma dopo il contatto con le divine armi di Vulcano4,

il gladio mortale, come fragile ghiaccio, si dissolse 740

al colpo: i frammenti luccicano nella bionda sabbia.

Allora, fuori di sé, Turno fugge qua e là nella pianura

e ora in un posto, ora in un altro, compie incerti giri;

ovunque infatti i Teucri lo chiudono in una fitta corona,

e da un lato lo frena una vasta palude, dall’alto le impervie mura. 745

Nondimeno Enea, benché le ginocchia indebolite dalla ferita5

talora lo impediscano e rifiutino la corsa,

lo insegue e furente incalza col piede il piede di quello tremante:

come quando, a volte, un cacciatore si è imbattuto in un cervo

impedito da un fiume o dalle penne rossastre6, 750

e lo incalza con la corsa e i latrati del cane;

e quello, atterrito dalla trappola e dall’alta riva,

fugge e rifugge per mille strade; ma il cane umbro7, pieno di vita,

gli sta addosso fiatando, e ormai lo tiene e, come se già lo tenesse,

schiocca le mandibole e viene deluso dal morso dato invano. 755

A questo punto si leva un clamore, le rive e il lago

fanno eco all’intorno e il cielo tuona di tutto il tumulto.

Turno fugge e allo stesso tempo grida a tutti i Rutuli,

chiamando ciascuno per nome, e bramosamente chiede la sua spada.

Enea d’altro canto minaccia morte e fine immediata 760

A chiunque si avvicini, e terrorizza quelli già tremanti

minacciando di distruggere la città, e, pur ferito, incalza.

Fanno cinque giri interi, e poi di nuovo ne ripetono altri cinque

qua e là: infatti non si gareggia per un premio

da poco, non è un gioco: la posta è la vita e il sangue di Turno. 765

Era un tempo in quel luogo un oleastro dalle foglie amare, sacro a Fauno8,

un tempo pianta venerabile per i marinai

che, se si salvavano dalle onde, erano soliti là apporre doni

al dio laurente e appendere le vesti che avevano dedicato.

Ma i Teucri, senza prendere in considerazione la sacralità del luogo, 770

avevano tagliato il ceppo, perché i due potessero contendere in un campo mondo.

Lì stava l’asta di Enea, lì l’impeto l’aveva scagliata

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e ora stava fissa, trattenuta dalla radice tenace.

Enea si chinò, tentando di svellere l’asta

per incalzare Turno con un’arma da lancio, visto che non riusciva 775

a raggiungerlo correndo. Allora Turno, fuori di sé per il terrore, disse:

“Fauno, ti prego, abbi pietà, e tu, ottima terra,

trattieni l’arma, se è vero che vi ho sempre onorato,

mentre invece gli Eneadi vi profanarono con la guerra”.

Disse così, e chiese l’aiuto del dio con preghiere non vane. 780

E infatti Enea, pur lottando a lungo, pur insistendo sulla tenace radice,

pur con tutte le forze non riuscì ad allentare il morso

del legno. Mentre lui si sforza con caparbietà e insiste,

la dea figlia di Dauno9, assunto di nuovo l’aspetto dell’auriga Metisco10,

corre in mezzo e restituisce la spada al fratello. 785

Venere, indignata che un simile gesto fosse permesso alla coraggiosa ninfa,

si avvicinò e divelse l’asta dalla profonda radice.

I due, alteri, rinfrancati per avere ottenuto le armi,

l’uno confidando nella spada, l’altro fremente e coraggioso con l’asta,

si fermano l’uno contro l’altro, bramosi del duello di Marte. 790

1. La scena della pesatura delle anime (psychostasìa), segnala l’impotenza di Giove di fronte al destino

ingovernabile, cui anche il signore degli dei deve sottostare. Il modello è costituito dall’analoga situazione

dell’Iliade. La topicità della scena è però evidente: l’intero poema è costruito sulla predestinazione di Enea

alla vittoria, e quindi sarebbe incongruente pensare che ora Giove non conosca la sorte del duello. Si deve

dunque leggere la situazione nell’attualità degli eventi: Giove pesa le anime per stabilire che il momento

della morte di Turno è giunto, non per sapere effettivamente chi dei due eroi dovrà morire. Tuttavia qui la

scena aggiunge drammaticità alla situazione, ed è dopo il responso della bilancia che Giove convoca

Giunone e le ingiunge di desistere dalla sua caparbia protezione nei confronti di Turno.

2. L’Euro è un vento meridionale, spesso ricordato per la sua violenza.

3. L’elsa è sconosciuta perché, come si apprenderà nei versi successivi, quella non era la spada di Turno, che

aveva preso per sbaglio l’arma del proprio auriga, Metisco.

4. Le armi di Enea sono state forgiate da Vulcano, su richiesta di Venere (VIII, vv. 369-453). E’ la dea stessa

a consegnarle al figlio, mentre questi sta tornando da Pallanteo. Un’ampia sezione del libro ottavo è dedicata

a queste armi, giacché lo scudo porta istoriate le vicende di Roma, dalla lupa ad Augusto, e costituisce quindi

uno dei segni del grande destino della città (VIII, 608-731).

5. Enea era stato ferito da una freccia volante, non si sa scagliata da chi: nessuno infatti deve potersi gloriare

di avere ferito il grande eroe. Il medico Iapige si era trovato impotente di fronte al male, ma Venere,

impietosita dalle sofferenze del figlio, versa dittamo nell’impacco preparato dal medico, e la ferita si

rimargina miracolosamente in pochi secondi, pur lasciando indebolito Enea.

6. Si tratta di una corda, cui venivano appese penne rosse, usata dai cacciatori per intimorire il cervo e

accerchiarlo.

7. I cani umbri erano particolarmente famosi.

8. Fauno è dio autoctono del Lazio arcaico: è, insieme a Pico, uno dei re-animali del popolo degli Aborigeni,

i primi abitatori della regione. Legato alla natura selvaggia, è protettore delle greggi e dei pascoli. Dotato di

straordinaria vigoria sessuale, è legato alla fecondità degli armenti; ha potere oracolare ed è lui a predire a

Latino il destino di Lavinia. Talora raffigurato con piedi e coda di capra, fu poi assimilato al Pan greco, con

cui condivide l’attributo che lo lega al mondo ferino dei lupi: è chiamato infatti anche Luperco, come a Pan è

attribuito l’epiteto di Liceo (da lykos, il lupo).

9. Giuturna è figlia di Dauno e sorella di Turno. Amata da Giove, fu da lui resa immortale e le venne affidata

la signoria sulle fonti e sulle acque del Lazio.

10. Giuturna aveva già assunto le sembianze di Metisco per sottrarre il fratello allo scontro con Enea.

(Eneide, XII 887-952)

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Il duello finale (II) (Eneide, XII, 887-952)

Abbiamo lasciato gli eroi uno di fronte all’altro, nel momento di massima tensione. E’ in gioco il destino del

Lazio. Lo scioglimento finale viene però rimandato da Virgilio, che inserisce a questo punto un dialogo fra

Giove e Giunone: il padre degli dei intima alla sposa di desistere dai suoi tentativi di salvare Turno; che

Enea sia destinato ad essere vincitore è dato non controvertibile. Giunone accetta, se pure ancora a

malincuore, di non intervenire più, chiedendo però, in cambio della propria remissività, un compenso:

perisca il nome dell’odiata Troia; dopo le nozze che concluderanno la pace, il popolo nuovo viva felice, ma

non perda né il nome, né la lingua, né i costumi italici: siano tutti Latini. Giove acconsente, e Giunone si

ritira definitivamente. A questo punto il dio invia sulla terra una delle Furie che stanno vicino al suo trono

(probabilmente Alletto, già inviata da Giunone ad infiammare di furor Turno e Amata), e questa, come una

freccia velenosa che porta morte, vola rapida sulla terra, si trasforma in una civetta e comincia a volare sul

viso di Turno e a cozzare con le ali contro il suo scudo. Il giovane viene preso da un torpore insolito (novus)

e si sente privo di forze. Giuturna, vedendo l’animale, comprende il segno: si scioglie i capelli, si graffia il

petto, maledice la propria immortalità, che non le consente la speranza di poter sfuggire al disumano dolore.

La ninfa, accusando sarcasticamente Giove di averla davvero ben ricompensata in cambio del dono della

propria verginità, si tuffa nel fiume per non ricomparire più (cfr. V5). Il fuoco della scena, come se non ci

fosse stata sospensione dal v. 790, torna sui due eroi, uno di fronte all’altro.

Aeneas instat contra telumque coruscat

ingens arboreum, et saevo sic pectore fatur:

“Quae nunc deinde mora est? aut quid iam, Turne, retractas?

Non cursu, saevis certandum est comminus armis. 890

Verte omnis tete in facies et contrahe quidquid

sive animis sive arte vales; opta ardua pennis

astra sequi clausumque cava te condere terra.”

Ille caput quassans: “Non me tua fervida terrent

dicta, ferox; di me terrent et Iuppiter hostis.” 895

Nec plura effatus saxum circumspicit ingens,

saxum antiquum ingens, campo quod forte iacebat,

limes agro positus litem ut discerneret arvis.

Vix illum lecti bis sex cervice subirent,

qualia nunc hominum producit corpora tellus; 900

ille manu raptum trepida torquebat in hostem

altior insurgens et cursu concitus heros.

Sed neque currentem se nec cognoscit euntem

tollentemve manu saxumve immane moventem;

genua labant, gelidus concrevit frigore sanguis. 905

Tum lapis ipse viri vacuum per inane volutus

nec spatium evasit totum neque pertulit ictum.

Ac velut in somnis, oculos ubi languida pressit

nocte quies, nequiquam avidos extendere cursus

velle videmur et in mediis conatibus aegri 910

succidimus; non lingua valet, non corpore notae

sufficiunt vires nec vox aut verba sequuntur:

sic Turno, quacumque viam virtute petivit,

successum dea dira negat. Tum pectore sensus

vertuntur varii; Rutulos aspectat et urbem 915

cunctaturque metu letumque instare tremescit,

Enea incombe e palleggia l’asta grande,

simile a un albero e parla così, con cuore

crudele: “Che indugio, adesso? Perché,

Turno, esiti? Non bisogna combattere

correndo, ma con armi crudeli, da vicino.

Trasformati pure in ogni forma, metti

insieme quanto sei capace di fare, vuoi con il

coraggio, vuoi con l’inganno; prova a seguire

in volo le stelle irraggiungibili, o a

nasconderti chiuso nella cava terra”. Quello,

scuotendo il capo: “Non mi fanno paura le

tue parole di fuoco, feroce: mi fanno paura

gli dei, e Giove nemico”.

Senza dire di più, dopo aver rivolto intorno

lo sguardo, vede un sasso enorme, un antico

enorme sasso, che giaceva per caso nel

terreno, pietra di confine posta al campo, per

potere discernere le contese relative ai

terreni: a stento dodici uomini scelti

l’avrebbero sollevato sul collo , corpi

d’uomini come quelli che la terra genera ora.

Quell’eroe, ergendosi più alto e dato impulso

alla corsa, cercava di scagliarlo contro il

nemico, dopo averlo sollevato con mano

tremante. Ma non riconosce se stesso al

correre, all'andare, né al sollevare il sasso né

allo smuoverlo; le ginocchia cedono, il

sangue gelido di freddo si si rapprende.

Allora la pietra gettata dall’eroe, scagliata nel

vuoto, non percorse tutto lo spazio e non

colpì l’avversario. Come nei sogni, quando di

notte una languida quiete preme sugli occhi,

ci sembra di volere allungare una corsa

bramosa, e, stremati, in mezzo ai tentativi

veniamo meno: la lingua non ha vigore, non

ritroviamo le forze del corpo che ci sono

solite, la voce, le parole non escono; così la

dea nefasta nega a Turno il successo, per

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nec quo se eripiat, nec qua vi tendat in hostem,

nec currus usquam videt aurigamve sororem.

Cunctanti telum Aeneas fatale coruscat,

sortitus fortunam oculis, et corpore toto 920

eminus intorquet. Murali concita numquam

tormento sic saxa fremunt nec fulmine tanti

dissultant crepitus. Volat atri turbinis instar

exitium dirum hasta ferens orasque recludit

loricae et clipei extremos septemplicis orbis; 925

per medium stridens transit femur. Incidit ictus

ingens ad terram duplicato poplite Turnus.

Consurgunt gemitu Rutuli totusque remugit

mons circum et vocem late nemora alta remittunt.

Ille humilis supplex oculos dextramque precantem 930

protendens “Equidem merui nec deprecor” inquit;

“utere sorte tua. miseri te si qua parentis

tangere cura potest, oro (fuit et tibi talis

Anchises genitor) Dauni miserere senectae

et me, seu corpus spoliatum lumine mavis, 935

redde meis. Vicisti et victum tendere palmas

Ausonii videre; tua est Lavinia coniunx:

ulterius ne tende odiis.” Stetit acer in armis

Aeneas volvens oculos dextramque repressit;

et iam iamque magis cunctantem flectere sermo 940

coeperat, infelix umero cum apparuit alto

balteus et notis fulserunt cingula bullis

Pallantis pueri, victum quem vulnere Turnus

straverat atque umeris inimicum insigne gerebat.

Ille, oculis postquam saevi monimenta doloris 945

exuviasque hausit, furiis accensus et ira

terribilis: “Tune hinc spoliis indute meorum

eripiare mihi? Pallas te hoc vulnere, Pallas

immolat et poenam scelerato ex sanguine sumit.”

Hoc dicens ferrum adverso sub pectore condit 950

fervidus; ast illi solvuntur frigore membra

vitaque cum gemitu fugit indignata sub umbras.

qualunque strada egli tenti la via con il

valore. Allora nel petto si muovono

variamente le sensazioni; guarda i Rutuli, e la

città, e indugia per il terrore, e trema al

pensiero che la morte gli è addosso, e non

vede né dove potersi sottrarre (alla morte), né

con quale forza scagliarsi contro il nemico,

né carri, da nessuna parte, né la sorella

auriga. Enea palleggia, verso di lui che sta

esitando, l’asta fatale, dopo essersi procurato

la fortuna con gli occhi, e con tutto il corpo la

scaglia da lontano. Pietre, scagliate da una

macchina da guerra per abbattere le mura,

non sibilano mai così, né così violenti

balzano i tuoni dal fulmine. L’asta vola come

un nero turbine, portando funesta distruzione

e squarcia il bordo della corazza e dello

scudo a sette strati; stridendo trapassa a

mezzo la coscia. Il grande Turno, colpito,

cade a terra, piegate le ginocchia. Con un

grido i Rutuli si alzano tutti insieme e tutto il

monte intorno muggisce e i profondi boschi

fanno eco per largo tratto. Lui, a terra,

supplice, levando gli occhi e la destra in

preghiera, disse: “certo. L'ho meritato e non

ti imploro; usa il tuo destino. Ti prego, se una

qualche preoccupazione per un padre può

toccarti, abbi pietà delle vecchiaia di Dauno

(anche tu hai avuto un padre così, Anchise) e

restituisci ai miei me o, se preferisci, il mio

corpo spogliato della vita: hai vinto, e gli

Ausoni mi hanno visto vinto, tendere le

mani; Lavinia è tua moglie. Basta con

l’odio”. Enea si fermò, infiammato in armi,

girando gli occhi e trattenne la mano. E

ormai, ormai le parole di Turno

cominciavano a piegare lui che esitava,

quand'ecco che apparve, in cima alla spalla di

Turno, il triste balteo del giovane Pallante, e

le cinghie risplendettero nelle borchie ben

note, Pallante che Turno aveva abbattuto,

vinto dalla ferita, e ora portava sulle spalle il

trofeo nemico. Quello, dopo che bevve con

gli occhi le spoglie, ricordo di un dolore

crudele, acceso di furore e terribile d’ira,

disse: tu, vestito delle spoglie dei miei,

dovresti sfuggirmi ? E' Pallante a immolarti

con questa ferita, Pallante a vendicare il

sangue scaturito da una violenza scellerata”.

Dicendo questo affonda, ribollente d’ira, la

spada proprio nel petto; a quello invece è nel

freddo che si sciolgono le membra, e la vita,

con un gemito, fugge sdegnosa sotto le

ombre.

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I PROTAGONISTI

Al momento dell’epilogo, Virgilio ci presenta i due contendenti sottolineandone lo statuto di eroi epici: la

terra non genera più uomini di tale caratura. Il testo è disseminato di richiami all’enormità dei personaggi e

degli oggetti da loro maneggiati: ingens, arboreum, è il giavellotto di Enea (v.888); ingens, tanto che a fatica

lo solleverebbero dodici uomini, è il sasso scagliato da Turno (v.896-7), così come ingens è lo stesso Turno

(v.927), Enea è implicitamente paragonato ad una macchina da guerra (v.921-922). Siamo in una dimensione

mitica, di regressione ad uno scontro di forze titaniche.

Tuttavia Turno non è più se stesso: la consapevolezza del proprio destino di morte, rappresentata, secondo lo

statuto dell’oggettività epica, dall’intervento della Furia, lo debilita e lo fiacca: il paragone con l’impotenza

talora sperimentata in sogno, di matrice omerica (vedi scheda), diventa la dimensione stessa del racconto,

che si fa onirico, rallentato (sette versi per descrivere il lancio del sasso), claustrofobico.

Ma è difficile riconoscere anche Enea, abituati come siamo a conoscerlo come pius: l’aggettivazione insiste

sulla sfera della violenza e della crudeltà (e non solo nelle parole di Turno, che definisce fervida i dicta e

ferox l’avversario ai vv. 894-895): saevo pectore (v.898), acer (v. 938), furiis accensus et ira terribilis

(vv.946-947), fervidus (v.951).

L’INVERSIONE DEI RUOLI

In questi versi, che richiamano in modo consapevole e sistematico il duello iliadico che vede Achille

uccidere Ettore, le motivazioni intrinseche del testo virgiliano impongono una trasformazione del

protagonista.

Abbiamo visto (cfr. Introduzione sezione A) che Enea ci è stato presentato fin dall’inizio del poema come un

secondo Ettore e che, coerentemente con il suo ruolo di antagonista, Turno ci viene presentato dalla profezia

della Sibilla come un alius Achillis (VI, 89).

Ma ora i ruoli si devono invertire: il lettore conosce già l’esito dello scontro, e sa che sarà Enea, come

Achille, il vincitore; il lettore ricorda anche la violenza di Achille, che dichiara di desiderare di uccidere a

morsi l’avversario, che infierisce orrendamente sul corpo di Ettore, pascendosi della vendetta con una gioia

ferina. Ed è difficile immaginare il pio Enea, che vorrebbe dar pace non solo ai morti, ma anche ai vivi (XI,

111), in questo nuovo ruolo di feroce vendicatore.

Per questo la trasformazione, incoerente dal punto di vista dell’ethos del personaggio, deve essere resa

credibile e giustificabile sotto il profilo della narrazione, ed è preparata fin dal libro X: la chiave che

consente la trasformazione di Enea in giudice vendicatore è costituita dal duello di Turno contro Pallante (cfr.

T11). In quell’occasione Virgilio aveva esasperato la violenza di Turno, per rendere in qualche modo

giustificabile la futura vendetta (giustificabile ovviamente non in sé -la vendetta è comunque legittima nel

codice eroico- ma relativamente alla costruzione della personalità di Enea).

Dal momento in cui viene a conoscenza della morte del giovane alleato, Enea considera invalidato da Turno

il codice che regola i rapporti tra nemici, e procede ad una strage indifferenziata di quanti gli capitino sotto

tiro (cfr. X, 532-533: “queste consuetudini di guerra le ha distrutte ormai Turno per primo, uccidendo

Pallante”, dirà a un nemico supplice prima di ucciderlo). E’ il primo segnale: ma l’equilibrio nella personalità

dell’eroe si ristabilisce nuovamente nel duello con Lauso, in cui ritroviamo un Enea pietoso e rispettoso, che

riconosce il coraggio e la giovinezza, e li onora (cfr. T12).

Un nuovo elemento di legittimazione della vendetta è costituito dalla richiesta di Evandro, che dichiara di

mantenersi in vita solo per la speranza che Enea, per rispettare i patti di allenza sanciti tra i due, vendichi la

morte del figlio, sacrificando Turno ai Mani di Pallante (XI, 177-181; cfr. T13).

Anche gli interventi di Giuturna (la violazione dei patti, la sottrazione di Turno al proprio avversario)

esasperano l’eroe troiano, facendo scaturire in lui la furia, davvero degna di un eroe iliadico, con cui lo

troviamo ad affrontare il duello finale, ormai più simile ad Achille che ad Ettore.

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LA CONCLUSIONE

L’esito del duello, che costituisce la necessaria premessa al processo che si concluderà con la fondazione di

Roma, è anticipato nel dialogo tra Giove e Giunone. Il giavellotto scagliato da Enea, che ferisce Turno, è uno

strumento del destino. La fatalità del colpo è sottolineata, come abbiamo visto, dalla densità semantica dei

vocaboli selezionati ai vv. 919-920 (telum fatale, sortitus, fortunam). In fondo qui più che altrove si

riconosce la natura di Enea quale strumento del destino, il che, tutto sommato, lo deresponsabilizza a livello

personale: la morte di Turno è necessaria.

Tuttavia, la conclusione del poema resta, comunque la si guardi, ambigua.

Abbiamo visto come la legittimazione dell’atto di Enea sia stata scrupolosamente preparata sul piano

narrativo; abbiamo visto come l’esito del duello sia stato stabilito ad un piano di superiore provvidenzialità

della storia.

Eppure Virgilio mette deliberatamente in luce proprio l’incoerenza del codice della vendetta, meccanico e

amorale, regressivo rispetto al codice della pietas, consapevole, responsabile e morale, di cui Enea è

portatore: infatti il poeta rappresenta Turno come humilis supplex (v. 930). La supplica di Turno, che fa

appello, in nome della vecchiaia del padre Dauno, alla condizione di figli che accomuna i due avversari, non

era una necessità narrativa. Perché dunque incrinare la granitica statura morale di Enea proprio negli ultimi

versi? Perché rappresentarlo mentre uccide un uomo ferito, disarmato, inginocchiato, che lo sta supplicando

nel nome di Anchise?

Con questo rovesciamento Virgilio ha voluto suggellare la propria opera nel segno della problematicità:

Enea, personaggio complesso, a “statuto doppio”, che faticosamente mantiene la propria coerenza nella

fedeltà ad un destino che non si è scelto, alla fine tradisce se stesso, il suo tratto peculiare, la sua pietas, quasi

a segnalare che la disumanità della guerra contamina anche i puri; che non c’è scampo dal conflitto; che non

c’è vittoria che sia pulita; che un vincitore presuppone sempre un vinto, e un vinto presuppone sempre una

quota di sofferenza che, per quanto si possa credere giustamente inflitta, mantiene un margine di

incomprensibile gratuità.

E forse proprio questa infedeltà a se stesso costituisce il nocciolo più dolente della malinconia del victor

tristis.

Non a caso il poema si conclude sull’immagine dell’anima di Turno che scende sdegnosa sub umbras:

nessun trionfalismo, non una parola per il vincitore, per il destino della grande Roma.

Alcuni critici hanno trovato questo finale incoerente con la finalità encomiastica, asse paradigmatico del

poema, ed hanno ipotizzato che proprio questa parte dovesse essere ancora oggetto di revisione o che non

dovesse costituire il finale dell’opera.

Noi crediamo invece alla deliberata volontà di Virgilio di chiudere l’opera con questa umbratile malinconia,

con una violenza in fondo non necessaria, con lo sdegno di un giovane aoros, con il tormento del

protagonista, cunctans anche nel momento fatale.

Non fosse così, sarebbe stato facile spostare nel finale la sezione di versi relativa al colloquio fra Giove e

Giunone, che, quella sì, si conclude encomiasticamente con la menzione del valore italico e con la

riconciliazione del popolo futuro con la saeva regina degli dei.

E invece l’ultimo sguardo, coerentemente con la struttura polifonica del poema, è per un vinto. E un vinto

violento, feroce, oltraggioso: ma l’essere vinto riscatta la tracotanza di Turno in una sorta di solidarietà

universale al dolore, con quanto di insensato e inaccettabile inevitabilmente esso comporta, sempre e per

tutti.

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La conclusione del duello tra Ettore e Achille

(Iliade, XXII, 136-148, 157-161, 199- 201, 208- 213, 247- 268, 297- 366)

Il modello per la scena finale dell’Eneide è costituito, ovviamente, dal duello tra Achille ed Ettore, narrato

nel XXII libro dell’Iliade. Alcuni richiami sono puntuali, ma nella sostanza la imitatio omerica produce un

testo di una autonomia sorprendente rispetto all’antigrafo.

L’episodio occupa l’intero libro XXII. Achille infuria. Grazie ad un intervento di Apollo, che storna

l’attenzione dell’eroe, i Troiani riescono a guadagnare le mura e a mettersi in salvo. Ma Ettore è rimasto

chiuso fuori dalle porte della città. Dalle mura il padre e la madre, con discorsi strazianti, lo incitano a

rientrare. Achille si sta avvicinando, paragonato a una stella luminosa e funesta, Orione, ed Ettore valuta

rapidamente il da farsi: non può rientrare, per non incorrere nell’aidòs, il giudizio che i Troiani darebbero di

lui, riempiendolo di vergogna. Decide pertanto di battersi, ma nel momento in cui Achille si fa davvero

vicino, egli non resiste, e scappa (XXII, 136-161 e 199- 201).

Come Ettore lo riconobbe, un tremore lo prese: e non aveva più il coraggio

Di rimanere ancora fermo, ma si lasciò alle spalle le porte, e scappò il preda al terrore:

e il Pelide anche si mosse, fidando nei piedi veloci.

Come un nibbio montano, il più veloce fra le creature alate,

senza difficoltà assale una colomba trepida,

e quella , sotto di lui, ha paura, e quello, stridendole acutamente vicino,

le vola sopra ossessivamente, e l’animo lo spinge a cacciarla:

così Achille, furioso, volava incombente, ed Ettore tremava

sotto le mura dei Troiani, e muoveva rapide le ginocchia.

I due oltre la torre e il caprifico ventoso

lungo la strada dei carri, sempre più lontano dalle mura

giunsero alle due fontane dalla bella corrente: là

zampillano le due fonti dello Scamandro vorticoso.

(...)

Là correvano i due, uno fuggendo, e l’altro inseguendolo dietro.

Davanti un nobile guerriero fuggiva, dietro lo inseguiva l’altro, di molto più forte,

rapidissimo, perché non cercavano di ottenere una vittima, o una pelle di bue,

splendidi premi per la corsa degli eroi,

ma correvano per la vita di Ettore, domatore di cavalli.

(...)

Come in un sogno non non si riesce ud ainseguire uno che fugge:

uno non riesce a sfuggire né l’altro a inseguire,

cos’ quello non riusciva ad afferrarlo correndo, né l’altro a raggiungerlo.

Mentre sulla piana di Ilio Achille insegue senza successo Ettore, sull’Olimpo si svolge un dialogo fra Zeus

ed Atena. Il Padre degli dei soffre al pensiero della probabile sconfitta di Ettore, che è un uomo religioso e

devoto e giusto, ma Atena lo dissuade dall’intervenire in suo aiuto: Ettore deve morire. La sanzione di

questo destino è rappresentata dal momento della pestura delle anime (XXII, 208- 213):

Ma quando giunsero per la quarta volta presso le fonti,

allora il Padre appese la bilancia d’oro

e sopra pose i due destini di morte dal largo lutto,

su un piatto quello di Achille, sul’’altro quello di Ettore domatore di cavalli,

la prese nel mezzo e la tenne sospesa: e si inclinò il giorno fatale di Ettore,

scese nell’Ade: e allora Febo Apollo lo abbandonò.

Atena invece può correre in aiuto del suo protetto, e lo fa ingannando Ettore: gli si palesa sotto le spoglie

del fratello Deifobo; Ettore, commosso dall’intervento di quello che crede il fratello (e il lettore accoglie le

manifestazioni di gratitudine di Ettore ben sapendo che in realtà Deifobo è ben al sicuro in città), trova il

coraggio per fermarsi ad affrontare l’avversario (XXII, 247- 268):

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Disse così Atena, e con l’inganno lo incitò:

così, quando i due si avvicinavano, andandosi incontro,

fu Ettore dall’elmo lucente a parlare per primo:

“Figlio di Peleo, da ora non avrò più paura di te,

come prima, quando correvo come un pazzo intorno alla rocca di Priamo:

per tre volte l’ho fatto.

E non tollero più di star fermo, ad aspettare che arrivi.

Adesso di nuovo il coraggio mi spinge

a starti ben saldo di fronte: forse ti vincerò, forse sarò battuto.

Ma ora, qui, chiamiamo gli dei:

saran loro, infatti, i testimoni migliori,

garanti di quello che stabiliremo equamente:

infatti io non voglio sconciarti orribilmente,

se sarà a me che Zeus concederà di resistere

e di strapparti la vita:

dunque, se pure ti spoglierò delle armi gloriose, Achille,

il tuo cadavere lo darò indietro agli Achei: e anche tu devi fare così.”

Allora Achille dai piedi veloci lo guardò torvo da sotto le ciglia, e disse:

“Ettore, maledetto, non venire con me a parlare di accordi:

fra leoni e uomini non si danno giuramenti credibili;

i lupi e gli agnelli non concordano mai,

anzi, non fanno altro che escogitare reciproci mali:

è così per noi due: non è possibile fra me e te la fiducia

e non ci sarà nessun giuramento,

prima che uno di noi, morendo,

riempia di sangue la bocca di Ares, guerriero gagliardo.

Achille scaglia la lancia, ma Ettore riesce a schivare il colpo: il giavellotto di Achille si conficca a terra,

lontano, ma Atena nascostamente gliela restituisce. Ettore gioisce del fallimento del colpo, e a sua volta tira,

colpendo lo scudo di Achille: ma la sua lancia rimbalza, perché lo scudo è opera del divino Efesto. Allora il

Troiano si volge per chiedere a Deifobo che gli procuri un’altra lancia, ma quello, cioè Atena, è ovviamente

scomparso (XXII, 297- 366):

“Ah: è certo che gli dei m’han davvero chiamato alla morte:

ho creduto che Deifobo, l’eroe, fosse qui:

ma quello se ne sta al riparo delle mura,

e Atena mi ha tessuto un inganno.

E adesso mi è addosso una morte cattiva,

ormai non è lontana, non la posso evitare:

è chiaro che, già da tempo, l’han consentito

Zeus e l’arciere figlio di Zeus,

loro che prima mi proteggevano, perché m’avevano a cuore.

Ma ora la Moira mi raggiunge.

Ma non voglio morire senza combattere, senza aver fama.

Voglio invece compiere qualcosa di grande,

che la sappiano anche quelli che ancora devono nascere.”

Finì di parlare, sguainò la spada dalla punta acuta,

così grande e pesante da gravare sul fianco;

si rannicchiò e prese lo slancio,

come un’aquila che vola eccelsa,

che va verso la piana attraverso nubi atre,

a ghermire un agnello tenero, o una lepre impaurita:

fu così che Ettore prese lo slancio, vibrando la spada dalla punta acuta.

Ma si mosse anche Achille, con l’animo pieno di forza bestiale:

alzò davanti al petto, a riparo, lo scudo, bello, intarsiato,

e fece ondeggiare i quattro pennacchi dell’elmo splendente:

si agitavano i bei crini dorati: Efesto ne aveva riempito il cimiero.

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E come nel cuore della notte fra le stelle la stella della sera

è la stella più bella nel cielo,

così mandava bagliori la lancia dalla punta acuminata:

Achille la bilanciava con la destra

meditando il male per il divino Ettore,

e guardava la bella pelle, cercando il punto in cui fosse più tenera.

Ma la sua carne era tutta coperta dall’armatura di bronzo,

bellissima: Ettore l’aveva presa al forte Patroclo, quando l’aveva ammazzato.

Ma un punto era scoperto, dove le clavicole separano gli omeri

dal collo: proprio la gola, dove l’anima muore in un attimo.

E fu lì che il divino Achille lo colpì con la lancia,

proprio mentre quello prendeva lo slancio, furioso.

la punta trapassò del tutto il tenero collo:

però l’asta di bronzo pesante non gli trapassò la trachea:

poteva ancora dire qualcosa, restituire qualche parola.

Stramazzò nella polvere: e il divino Achille si gloriava:

“Dunque, Ettore: hai preso le armi di Patroclo:

credevi di scampare? Non ti curavi di me, perché ero lontano?

Ingenuo! Ero lontano, ma restavo vicino alle navi

io, di gran lunga più forte, e l’avrei vendicato!

Io, che ti ho sciolto le membra.

Adesso tu sarai straziato da cani ed uccelli,

mentre lui acquisterà gloria fra gli Achei”.

Ed Ettore dall’elmo lucente gli parlò, ormai privo di forza:

“Ti scongiuro: per la tua anima, per le ginocchia, per i genitori,

non mi lasciare vicino alle navi a far da pasto ai cani degli Achei.

Puoi avere bronzo, e oro senza fine:

te li daranno in dono mio padre, e la nobile madre: accettalo!

Restituisci alla casa il mio corpo, perché i Troiani e le spose dei Troiani

possano porre sul fuoco il mio corpo.”

Allora Achille dai piedi veloci lo guardò torvo da sotto le ciglia, e disse:

“No, cane! Non supplicarmi, non per le ginocchia, non per i genitori.

Vorrei piuttosto aver animo e forza da farti a pezzi la carne,

e mangiarla: hai fatto cose indicibili!

Nessuno potrà tenere lontani i cani dalla tua testa,

nemmeno se venissero qui a pesarmi un riscatto

di dieci, di venti volte più grande, infinito!

Nemmeno se ne promettessero altro.

Nemmeno se Priamo, il figlio di Dardano,

comandasse di riscattarti con l’oro a peso!

No, nemmeno così la nobile madre

potrà stendere su un letto

e piangere il figlio che ha partorito:

ti divoreranno invece cani ed uccelli, tutto intero..”

Allora Ettore dall’elmo lucente parlò, che già stava morendo:

“Certo, ti conosco bene, e potevo prevederlo: non riuscirò a persuaderti.

Infatti hai un animo di ferro, nel petto.

Ma ora sta’ attento: gli dei potrebbero sdegnarsi con te a causa mia,

il giorno in cui Paride, e Febo Apollo,

ti uccideranno, in tutta la tua nobiltà, sulle porte Scee”.

Mentre diceva così, la morte si compì, e lo coperse:

l’anima alata se n’era andata via dal corpo, all’Ade,

e gemeva, per la propria sorte, perché lasciava il vigore e la giovinezza.

Ma il divino Achille gli parlò ancora, lo stesso, anche se era già morto:

“Muori! Anch’io accoglierò il mio destino,

quando lo decideranno Zeus e gli altri dei immortali”.

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Dopo che tutti i Greci si avvicinano al cadavere di Ettore, per schernire colui che avevano tanto temuto

quando era vivo, Achille decide di infierire sul corpo del nemico (XXII, 396-404):

Trafisse da dietro entrambi i tendini delle caviglie,

dal tallone al malleolo, e vi fece passare attraverso corregge di cuoio;

poi lo legò al carro, e lasciò che la testa si trascinasse giù:

Poi saltò sul carro, tenendo alta l’armatura gloriosa,

e incitò i due cavalli con la frusta:

e quelli presero il volo, pieni di desiderio di correre.

E si alzava una nuvola di polvere,

quando il corpo, trascinato, passava,

e i capelli si spandevano, bluastri,

e la testa intera giaceva nella polvere: e un tempo era bella!

Ma allora Zeus concesse alla forza maligna dei nemici

di sconciare Ettore, nella sua terra.

L’autonoma rielaborazione del modello

A proposito di una relazione come quella fra i due testi che stiamo confrontando Gian Biagio Conte propone

un’interpretazione più articolata dell’idea di “modello”: “Ma esiste anche (...) il concetto di modello inteso

come codice, o istituto letterario. (...) Di fatto un’opera può essere letta solo in connessione con altri testi o

contro di loro: questi forniscono un reticolato attraverso cui essa è percepita secondo aspettative che mettono

il lettore in grado di cogliere i tratti più significativi e di organizzarli in una struttura di senso complesso. (...)

Rispetto a questi modelli di fondo, l’opera letteraria entra sempre in un rapporto di realizzazione, di

trasformazione o di trasgressione”.

Pertanto, se il duello omerico costituisce l’ambiente letterario nel quale Virgilio inserisce il suo duello, è

anche vero che, all’interno delle coordinate segnate da Omero, la narrazione virgiliana si presenta più come

una rottura che come un processo imitativo. Infatti i personaggi omerici combattono secondo un codice da

essi accolto con un’adesione granitica (la “bella morte” per Ettore, la vendetta per Achille), completamente

immanente ai destini e alle scelte individuali dei due; se c’è un altissimo pathos nel passo che tra breve

leggeremo, non c’è però tragedia, perché non c’è crisi.

L’orizzonte assiologico dei due protagonisti virgiliani pare lo stesso (la “bella morte” per Turno, la vendetta

per Enea), ma sia per Turno che per Enea l’adesione al codice risulta drammaticamente vissuta.

Rispetto ad un Ettore che chiede ad Achille la restituzione del proprio cadavere al vecchio padre, Turno

pronuncia una significativa aggiunta: me seu corpus spoliatum lumine mavis/ redde meis (“e restituisci ai

miei me o, se preferisci, il mio cadavere”). Nell’orizzonte di Ettore l’alternativa, stabilita dal destino e dal

valore, è fra la bella morte e la vittoria. Nell’orizzonte di Turno, coerentemente con i suoi furori che talora

paiono segno più di debolezza e di inquietudine profonda che non di audacia, si fa strada un’alternativa

(prioritaria nel suo desiderio, come si può evincere dalla disposizione dei termini) improponibile per Ettore:

la grazia, concessa dal vincitore, e la vita.

E per quanto riguarda Enea l’incrinatura del monolitico codice achilleo della vendetta è ancora più evidente:

il braccio trattenuto, manifestazione di esitazione e riflessione, è segno di una vitalità interiore del tutto

sconosciuta all’eroe omerico. Per Achille la morte di Ettore è inadeguata alla propria sete di sangue, tanto

che egli dice all’avversario, che ha già la lancia conficcata in gola e che gli chiede di non lasciarlo in pasto ai

cani: “vorrei piuttosto aver animo e forza da farti a pezzi la carne e mangiarla”. La sua rabbia ha bisogno di

sconciare il cadavere, di pascersi del dolore dei genitori che guardano dalle mura, e non si esaurisce che al

momento della restituzione del cadavere. Per Enea, invece, la morte di Turno è un punto di crisi, e

l’osservazione del codice della vendetta ha bisogno di un impulso esterno: la vista del balteo di Pallante. Ed è

da notare che, se tale il dolore per la morte dell’amico necessita, per riaccendersi, della vista del balteo,

evidentemente nel corso del combattimento Enea non era spinto da una brama di vendetta personale.

Possiamo davvero pensare che per lui il valore del duello contro Turno fosse costituito dalla possibilità, in

esso insita, di terminare l’orrida guerra e la serie delle inutili morti. Se dunque il codice eroico,

letterariamente incarnato dal testo omerico, costituisce una giustificazione al comportamento di Enea, e ne

incanala di fatto le scelte, le inquiete esitazioni dell’eroe segnano la problematica distanza tra il testo e il suo

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modello.

Inoltre: se l’orizzonte del duello iliadico è del tutto immanente, e la pesatura delle anime costituisce

effettivamente il momento in cui anche gli dei apprendono il destino dei loro protetti, e Apollo si ritira,

mentre Atena si reca sul campo di battaglia a portare aiuto al suo Achille, il senso del duello virgiliano si

coglie a pieno solo se proiettato sul piano provvidenziale, la fondazione di Roma, di cui esso costituisce il

primo atto. Un piano noto, a minore o maggiore livello di consapevolezza, a tutti gli attori del dramma,

uomini e dei.

Un’ultima osservazione. Mentre, come abbiamo visto (T16), il duello tra Turno ed Enea costituisce, con il

suo destabilizzante margine di ambiguità, la conclusione del poema, il duello omerico è seguito da quasi

duemila versi, nei quali, attraverso i giochi in onore di Patroclo e la restituzione del cadavere di Ettore, si

ricostituisce quell’ordine che era stato violato al momento della contesa fra Achille ed Agamennone: non si

tratta dunque della ricomposizione della pace (la guerra non è ancora finita), perché l’orizzonte iliadico non

può prescindere dalla guerra. Nell’Eneide, laddove non esiste ricomposizione e riscatto sul piano personale

(nulla sappiamo del cadavere di Turno, del dolore di Dauno, della reazione di Enea), si apre invece la

prospettiva provvidenziale della pace e della gloria di Roma.

Il lettore avvertito non può prescindere dall’orizzonte omerico, che gli consente di riconoscere la

trasformazione operata dal testo virgiliano, sia a livello della costruzione dei personaggi, che della vitalità del

codice, e infine del disegno del piano dei valori.


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