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000FI Ottobre2009 pag1-16 - Frate Indovino · la fortuna di avere la sua barca di legno che...

Date post: 30-Dec-2019
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Mensile di cultura religiosa e popolare Mensile di cultura religiosa e popolare www.ofmcappuccini.umbria.it/indovino Mensile di cultura religiosa e popolare Anno 50 - Gennaio 2007 / n. 1 Mensile di cultura religiosa e popolare Anno 52 - Ottobre 2009 / n. 10 Poste Italiane SpA – Sped. In abb. Post. – DL 353/2003 (CONV. IN L. 27/02/2004 N° 46) Art. 1, com. 2, DCB PG. Tassa pagata. www.frateindovino.eu - [email protected] Abbonnement - Poste - Taxe Perçu di Rosella del Castello FOCUS Q ualcuno comincia a dubitarne. Ma i più restano fedeli. Qua- si fedelissimi. Alla Lega, i le- ghisti perdonano tutto. Ci so- no i paesini della Lombardia che non possono spendere un euro per le strade per smette- re di vivere in coda, mentre il Governo ripiana il deficit mi- lionario della sudista Cata- nia. Qualcuno brontola, ma poi gli spiegano, e capisce: è l’ultimo strappo per consenti- re ai ministri lumbard di la- vorare alacremente per il fe- deralismo che riporterà i “solcc” nelle casse dei munici- pi del Nord. Spuntano parla- mentari del Carroccio che fanno i pianisti in Transatlan- tico, accodandosi agli imbro- glioni di Roma considerata da sempre ladrona. Lassù in Padania c’è chi minaccia di andarsene, subito, però intui- sce che è là, nella capitale, che bisogna votare le leggi tanto amate, per esempio quelle anti-stranieri. Il come è un dettaglio, l’importante è il risultato. Sono fiduciosi i sostenitori della Padania, fi- duciosi e pazienti. Alle prese con una crisi mai vista dal dopoguerra, con lo stipendio ridotto per via della cassa in- tegrazione, oppure addirittu- ra in mobilità laddove (e suc- cede spesso nelle piccole aziende, l’emblema del Nord Italia) gli ammortizzatori so- ciali non si possono utilizzare, si concentrano sul Va’ pensie- ro che forse sostituirà quell’o- dioso Inno di Mameli. Oppure dissertano con gli amici al bar del dialetto nelle scuole: ba- sta con i prof terroni, i nostri figli imparino la lingua dei nostri nonni. Hanno avuto di che chiacchierare questa estate i simpatizzanti del Ver- de nordista: ogni giorno un’i- dea nuova, dal Bossi, dal Cal- deroli, dal Maroni e anche da quell’originale di un Salvini, l’europarlamentare ripreso mentre cantava ad una festa di partito: “Senti che puzza… arrivano i napoletani”. Com- plice la carenza di “fattacci” e “notizione”, tipiche del Fer- ragosto, i giornali e i telegior- nali han dedicato pagine e ampi servizi alle dichiarazio- ni di Ponte di Legno e din- torni: tra un articolo sul Su- perenalotto ultramilionario e uno sull’afa, ecco spuntare nuove idee sul versante delle tradizioni locali: dal “prendia- moci quel che è nostro” fino a “alla larga chi è diverso”. Ma non solo idee: nel bel mezzo delle vacanze ecco spuntare nuovi nemici. Tra i più recen- ti il Vaticano. O meglio al- cuni esponenti del Vaticano che hanno osato stigmatizza- re l’assalto ai clandestini, il nuovo reato anti-immigrazio- ne, il via libera alle ronde. Sono cattolici i leghisti, da sempre: si scagliano con vee- menza contro chi propone di togliere il crocifisso dalle scuole, difendono la famiglia da tentazioni troppo moder- ne… ma non tollerano che il mondo cattolico critichi le loro scelte, o meglio le scelte del senatur e degli altri mini- stri. Insomma, nemici da cui difendersi e difendere le pro- prie città (gli stranieri e il Va- ticano), proclami a tutela dei propri usi e costumi (il dia- letto e i docenti local), punti- gli localistici e altro ancora: l’autunno sarà caldo in Pada- nia e non basteranno slogan. Portare il dialetto a scuola. È stato uno dei tanti temi che hanno animato l’estate della politica fra gabbie salariali, rimedi alla crisi, ronde, esami di idoneità all’insegnamento per i docenti che arrivano dal sud, inno nazionale. Sul dialetto si è fatta una semplificazione politica. Il tema era già stato affrontato negli anni Venti e poi rimosso da Mussolini. Servizi di Ulderico Bernardi e Magda Bonetti a pagina 4 (foto Jo Locatelli) di LORETTA DALPOZZO M uhammad Yatim ci aspetta nel piccolo por- to locale di Batam, quello che porta i residenti e i tu- risti sull’isola di Belakang Pa- dang, in Indonesia, un covo di pirati fino al 2000. Ha 43 anni, ma, seppur minuto e atletico, ne dimostra di più. È chiaro che sul suo volto ci sono i segni di un passato avventuroso e non sem- pre facile. Sa che siamo interes- sati a sapere chi sono e chi erano i pirati dello Stretto di Malacca, quelli temuti per anni, tanto che un’assicurazione britannica, nel 2005, ha definito il corridoio ma- rittimo che separa l’Indonesia dalla Malaysia, zona di guerra per l’alto numero di attacchi alle navi in transito. Yatim sa che dopo gli attacchi in Somalia, i pirati sono tornati d’attualità e si vuole capire chi sono veramente, da dove vengo- no. Non è timido, non ha più nulla da nascondere, e quindi ci racconta subito che è stato un pi- rata per venti anni, fino al 2000. Ci dice che, negli anni ot- tanta, non c’era lavoro nella zo- na e, influenzato dagli amici, si è dato alla pirateria: “Erano sol- di facili — ci spiega — all’i- nizio non avevo famiglia e al- lora usavo i soldi per anda- re a Giacarta, per vivere e divertirmi”. Ha cambiato vita per la moglie e i cinque figli che non approva- vano il suo stile di vita, sebbene fosse comune nel villaggio. Ora accompagna i turisti in barca, ha la fortuna di avere la sua barca di legno che accomoda una deci- na di persone; un lavoro a tem- po pieno che in passato serviva da copertura, per depistare la poli- zia: “Dieci, vent’anni fa, non c’erano molti turisti, ora, co- me taxista di una barca, pos- so sfamare la famiglia. Ma mi pento di ciò che ho fat- to, rubare i soldi ad altri è un peccato, lo dice anche la mia religione”. Yatim è stato arrestato quattro volte ed in prigione un anno. Qualcosa che non si perdonereb- be più se dovesse accadere anco- ra, perché vorrebbe dire far sof- frire la propria famiglia: “Lo di- co sempre a chi ancora fa questa attività. Cerco di con- vincerli a trovare un lavo- ro, a pensare alla famiglia e alla sicurezza”. continua a pagina 10 L’italiano e il dialetto Sul CARROCCIO Intervista con David Grossman POLITICA AL VERDE Zois alle pagine 16-17 OSSERVATORIO Povertà e solidarietà sconfinate 7, 8 e 9 Se il potere fosse più donna Mario Collarini 11 GIULIO TERZI Dagli USA con vista sul mondo Giuseppe Zois 3 MONTAGNA Dolomiti patrimonio universale Bruno Del Frate 12 Malacca, una vita da pirati
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Page 1: 000FI Ottobre2009 pag1-16 - Frate Indovino · la fortuna di avere la sua barca di legno che accomoda una deci-na di persone; un lavoro a tem-po pieno che in passato serviva da copertura,

Mensile di cultura religiosa e popolare Anno 51 - Ottobre 2007 / n. 10Mensile di cultura religiosa e popolare Anno 51 - Agosto 2007 / n. 8Mensile di cultura religiosa e popolare Anno 51 - Luglio 2007 / n. 7www.ofmcappuccini.umbria.it/indovino Mensile di cultura religiosa e popolare Anno 50 - Gennaio 2007 / n. 1Mensile di cultura religiosa e popolare Anno 52 - Ottobre 2009 / n. 10

Poste Italiane SpA – Sped. In abb. Post. – DL 353/2003 (CONV. IN L. 27/02/2004 N° 46) Art. 1, com. 2, DCB PG. Tassa pagata.

www.frateindovino.eu - [email protected] - Poste - Taxe Perçu

di Rosella del Castello

FOCUS

Qualcuno comincia adubitarne. Ma i piùrestano fedeli. Qua-

si fedelissimi. Alla Lega, i le-ghisti perdonano tutto. Ci so-no i paesini della Lombardiache non possono spendere uneuro per le strade per smette-re di vivere in coda, mentre ilGoverno ripiana il deficit mi-lionario della sudista Cata-nia. Qualcuno brontola, mapoi gli spiegano, e capisce: èl’ultimo strappo per consenti-re ai ministri lumbard di la-vorare alacremente per il fe-deralismo che riporterà i“solcc” nelle casse dei munici-pi del Nord. Spuntano parla-mentari del Carroccio chefanno i pianisti in Transatlan-tico, accodandosi agli imbro-glioni di Roma consideratada sempre ladrona. Lassù inPadania c’è chi minaccia diandarsene, subito, però intui-sce che è là, nella capitale,che bisogna votare le leggitanto amate, per esempioquelle anti-stranieri. Il comeè un dettaglio, l’importanteè il risultato. Sono fiduciosii sostenitori della Padania, fi-duciosi e pazienti. Alle prese

con una crisi mai vista daldopoguerra, con lo stipendioridotto per via della cassa in-tegrazione, oppure addirittu-ra in mobilità laddove (e suc-cede spesso nelle piccoleaziende, l’emblema del NordItalia) gli ammortizzatori so-ciali non si possono utilizzare,si concentrano sul Va’ pensie-ro che forse sostituirà quell’o-dioso Inno di Mameli. Oppuredissertano con gli amici al bardel dialetto nelle scuole: ba-sta con i prof terroni, i nostrifigli imparino la lingua deinostri nonni. Hanno avutodi che chiacchierare questaestate i simpatizzanti del Ver-de nordista: ogni giorno un’i-dea nuova, dal Bossi, dal Cal-deroli, dal Maroni e anche daquell’originale di un Salvini,l’europarlamentare ripresomentre cantava ad una festadi partito: “Senti che puzza…arrivano i napoletani”. Com-plice la carenza di “fattacci”e “notizione”, tipiche del Fer-ragosto, i giornali e i telegior-nali han dedicato pagine eampi servizi alle dichiarazio-ni di Ponte di Legno e din-torni: tra un articolo sul Su-

perenalotto ultramilionario euno sull’afa, ecco spuntarenuove idee sul versante delletradizioni locali: dal “prendia-moci quel che è nostro” fino a“alla larga chi è diverso”. Manon solo idee: nel bel mezzodelle vacanze ecco spuntarenuovi nemici. Tra i più recen-ti il Vaticano. O meglio al-cuni esponenti del Vaticanoche hanno osato stigmatizza-re l’assalto ai clandestini, ilnuovo reato anti-immigrazio-ne, il via libera alle ronde.Sono cattolici i leghisti, dasempre: si scagliano con vee-menza contro chi propone ditogliere il crocifisso dallescuole, difendono la famigliada tentazioni troppo moder-ne… ma non tollerano cheil mondo cattolico critichi leloro scelte, o meglio le sceltedel senatur e degli altri mini-stri. Insomma, nemici da cuidifendersi e difendere le pro-prie città (gli stranieri e il Va-ticano), proclami a tutela deipropri usi e costumi (il dia-letto e i docenti local), punti-gli localistici e altro ancora:l’autunno sarà caldo in Pada-nia e non basteranno slogan.

Portare il dialetto a scuola. È stato uno dei tanti temi che hanno animato l’estatedella politica fra gabbie salariali, rimedi alla crisi, ronde, esami di idoneità

all’insegnamento per i docenti che arrivano dal sud, inno nazionale. Sul dialetto si è fatta una semplificazione politica. Il tema era già stato affrontato

negli anni Venti e poi rimosso da Mussolini.

Servizi di Ulderico Bernardi e Magda Bonetti a pagina 4 (foto Jo Locatelli)

di LORETTA DALPOZZO

Muhammad Yatim ciaspetta nel piccolo por-to locale di Batam,

quello che porta i residenti e i tu-risti sull’isola di Belakang Pa-dang, in Indonesia, un covo dipirati fino al 2000. Ha 43 anni,ma, seppur minuto e atletico, nedimostra di più. È chiaro che sulsuo volto ci sono i segni di unpassato avventuroso e non sem-pre facile. Sa che siamo interes-sati a sapere chi sono e chi eranoi pirati dello Stretto di Malacca,quelli temuti per anni, tanto cheun’assicurazione britannica, nel2005, ha definito il corridoio ma-rittimo che separa l’Indonesiadalla Malaysia, zona di guerraper l’alto numero di attacchi allenavi in transito. Yatim sa che dopo gli attacchi inSomalia, i pirati sono tornatid’attualità e si vuole capire chisono veramente, da dove vengo-no. Non è timido, non ha piùnulla da nascondere, e quindi ciracconta subito che è stato un pi-rata per venti anni, fino al2000. Ci dice che, negli anni ot-tanta, non c’era lavoro nella zo-na e, influenzato dagli amici, siè dato alla pirateria: “Erano sol-di facili — ci spiega — all’i-nizio non avevo famiglia e al-lora usavo i soldi per anda-re a Giacarta, per vivere edivertirmi”.Ha cambiato vita per la mogliee i cinque figli che non approva-vano il suo stile di vita, sebbenefosse comune nel villaggio. Oraaccompagna i turisti in barca, hala fortuna di avere la sua barcadi legno che accomoda una deci-na di persone; un lavoro a tem-po pieno che in passato serviva dacopertura, per depistare la poli-zia: “Dieci, vent’anni fa, nonc’erano molti turisti, ora, co-me taxista di una barca, pos-so sfamare la famiglia. Mami pento di ciò che ho fat-to, rubare i soldi ad altri èun peccato, lo dice anche lamia religione”.Yatim è stato arrestato quattrovolte ed in prigione un anno.Qualcosa che non si perdonereb-be più se dovesse accadere anco-ra, perché vorrebbe dire far sof-frire la propria famiglia: “Lo di-co sempre a chi ancora faquesta attività. Cerco di con-vincerli a trovare un lavo-ro, a pensare alla famiglia ealla sicurezza”.

➣ continua a pagina 10

L’italiano e il dialetto

Sul CARROCCIO

Intervista con David Grossman

POLITICA AL VERDE

Zois alle pagine 16-17

OSSERVATORIO

Povertàe solidarietàsconfinate

7, 8 e 9

Se il poterefossepiù donnaMario Collarini

11

GIULIO TERZI

Dagli USAcon vistasul mondoGiuseppe Zois

3

MONTAGNA

DolomitipatrimoniouniversaleBruno Del Frate

12

Malacca,una vitada pirati

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2 / Ottobre 2009

C’era un formidabiletraguardo per il 2015:far scendere nel mon-

do a 400 milioni circa il nume-ro degli “affamati”, ossia diquelli che non hanno neppureil minimo indispensabile per so-pravvivere. Ufficialmente restatutt’ora sull’orizzonte quell’o-biettivo, che venne pom-posamente enunciato in unvertice della Fao nel 1996,quando alcuni leader dissero:“Dimezzeremo il numero dei pri-vi di tutto sulla faccia della Terra”.Purtroppo però esso - a menodi… un miracolo- non verrà rag-giunto, perché,anziché avvici-narsi, nello scor-rere degli anni ilsignificativo tra-guardo si è, ad-dirittura, allon-tanato. Tredicianni or sono gli“affamati” nelmondo risultava-no 800 milioni;adesso sono diventati un miliar-do e venti milioni, pari a circaun quinto degli abitanti del no-stro pianeta. Perché è accadu-to? Ha inciso la “crisi globale”degli ultimi due anni?Indubbiamente; ma non in ma-niera determinante. La tenden-za (a dire “Lasciamo che gli affa-mati aspettino…”, ed a compor-tarsi di conseguenza) era giànell’aria e abbastanza praticatadai Paesi benestanti. Lanciare

proclami, si sa, è facile. Tradur-li in pratica…Al G8 di quest’estate all’Aqui-la, con molto clamore, fu sban-dierato lo stanziamento (pro-prio all’ultimo giorno, mentrei lavori si stavano concluden-do) di venti miliardi di dollariper aiuti ai Paesi poveri, in par-ticolare dell’Africa. Di fronteall’annuncio, qualcuno ha vo-luto fare due conti: la apparen-temente enorme somma si è ri-velata corrispondente a… tre-dici millesimi della cifra ero-gata dagli stessi Paesi ricchi e

da altri meno ric-chi per evitare ilnaufragio delleloro banche e del-le loro economienei gorghi dellasupercongiunturafinanziaria avvia-tasi dai mutuiamericani di ma-trice “creativa”. Inpiù di un “sum-mit” internazio-nale, sempre di

recente, si è vista nelle mani diuna certa parte degli insignipartecipanti una tazza rossa diplastica. I cronisti più zelanti sisono premurati di indicare inessa il simbolo della “campagnainternazionale per l’alimentazio-ne scolastica”; campagna voltaad assicurare ogni giorno alme-no una zuppa di cereali e vita-mine a circa ventidue milionidi bambini di una settantina diPaesi tra i meno progrediti. In

quale entità questo progetto hapotuto, può e potrà andare a se-gno nell’anno in corso?Ancora, nel cuore dell’estate ap-pena trascorsa, il Programmaalimentare mondiale (organizza-zione legata alle Nazioni Uniteche normalmente sfama, di do-dici mesi in dodici mesi, circacento milioni di persone in unaottantina di Paesi sottosviluppa-ti) ha manifestato “crescenti dif-ficoltà, a causa della drammaticascarsità di fondi, a mantenere ope-rativi i voli del proprio Servizio ae-reo” per i rifornimenti di vive-ri ad areedell’Asia e delcontinente neroin situazioni diestremo bisogno(o per la presenza,in esse, di campidi profughi e di ri-fugiati, oppure percarestie senza fi-ne). Josette Sheeran,direttrice dellostesso Programma alimentaremondiale, ha prospettato il ri-schio, per il 2009, di un “dimez-zamento” degli interventi nor-malmente effettuati dall’enteda lei guidato in ciascuno di nonpochi degli anni passati. Nellaprogressiva flessione dei contri-buti delle Nazioni “possidenti” aquelle “nullatenenti” ci sono ca-si in controtendenza: per la lo-ro continuamente ribadita edanche accresciuta generositàspiccano, per esempio, il

Giappone ed il Belgio. Ma pa-recchi Paesi ricchi (dagli StatiUniti al Regno Unito, dalCanada alla Germania,all’Olanda, alla Svezia) sono pas-sati dalla propensione agli au-menti (nelle erogazioni per leemergenze internazionali) a ta-gli via via più drastici. E in talegruppo (dei sempre più tirchi)compare con note assai amare,da un certo periodo in qua, pu-re l’Italia, la quale è scesa - se-condo rivelazioni di pochi me-si fa - al quattordicesimo postodella graduatoria dei Paesi che si

sono formalmenteimpegnati a com-battere la famenel mondo; e pur-troppo anche inaltre graduatoriesimilari il nostroPaese è sceso e stascendendo sem-pre più in basso.In un non lonta-no passato siamostati capaci di di-

stinguerci con iniziative solida-ristiche di ogni tipo in vari con-tinenti. Ora, un po’ per la “crisiglobale” e un po’ per nostre par-ticolari problematiche interne,stiamo imitando… i gamberi.L’Italia, in altre epoche paladi-na della destinazione al TerzoMondo e al Quarto Mondo del-l’uno per cento del Pil (Prodottointerno lordo) pare si stia ridu-cendo, in questo 2009, ad appor-ti equivalenti a non più dello0,09/014% (del medesimo Pil).

Brusca frenata nella generosità

Le cronache, non di rado, parlano de-gli attentati che vengono compiuticontro le truppe italiane impegnate

nell’Afghanistan accanto a quelle di altre na-zioni; quasi mai invece si occupano di ciò chegli italiani fanno nel medesimo lontanoPaese a beneficio dei malati e dei disagiati:quanti sanno che determinante è stato l’ap-porto dei “nostri” per assicurare il pieno fun-

zionamento di un secondo ospedale pubbli-co a Kabul? All’indomani di una delle piùrecenti “emergenze belliche” nella striscia diGaza, sono state inviate dall’Italia decine ditonnellate di generi di assoluta necessità al-la popolazione palestinese; e in più una de-cina di bambini bisognosi di urgenti cure spe-cialistiche sono stati portati (accompagna-ti dai loro genitori) in ospedali della

Toscana. Nel Libano, con la “E-CaravanPhoenix”, dotata di una decina di computer,di uno schermo gigante e di altri aggeggi, lenuove tecnologie della comunicazione ven-gono messe a disposizione della gente dei vil-laggi più isolati e privi di tutto. “La Cooperativa italiana allo sviluppo - ha spie-gato Elisabetta Belloni, che ne è la direttri-ce generale - è parte integrante della politica delnostro Ministero degli Esteri. D’intesa con i Paesidestinatari, gli interventi della Cooperazione ven-gono attuati o direttamente o cointeressando en-ti pubblici (come Regioni, Province, Comuni,Università) oppure attraverso associazioni priva-te, come le Ong (Organizzazioni non governa-tive, di servizio civile)”. Nelle scelte operati-ve, di solito, la priorità viene data alle areepiù povere ed arretrate dell’Africa edell’America Latina, del Medio Oriente, deiBalcani, o di particolari zone dell’Asia. Nel2006 vennero spesi circa 3.600 milioni di dol-lari. Nel 2008 si è arrivato a circa 4.800 mi-lioni di dollari. Per il triennio 2009-2011, nelsolco d’esperienze ed orientamenti ormai col-laudati, sono stati varati nuovi progetti riguar-danti la salute, l’istruzione, l’agricoltura,l’ambiente, l’appoggio alle micro e alle pic-cole imprese, la valorizzazione dei patrimoniculturali e naturali. Voci autorevoli sostengo-no che in questo campo - della Cooperazioneinternazionale ed italiana allo sviluppo - si puòe si dovrebbe fare molto di più.

CONTROLUCE Effetto collaterale della crisi

Il cuore che batte per gli altriDALL’AFGHANISTAN ALLA STRISCIA DI GAZA E OLTRE Enzo Dossico

ADOLFO CELLI

Tagli assai consistentiagli stanziamenti anche per i bisogni

fondamentali della gentedelle zone più depresse.Si fa strada una perico-

losa cultura egoistica

La congiuntura globaleha accentuato e acuitouna tendenza che era

già iniziata da qualchetempo. Pure il nostro

Paese ha stretto i cordonidella propria borsa

Di fronte alla stratosfericasomma sborsata dal RealMadrid per l’acquisto di

Cristiano Ronaldo, fino allapassata stagione rimasto in forzaal Manchester United, i cronistisono andati ovviamente alla ri-cerca delle “follie” in preceden-za offerte dal… mercato dei su-perprotagonisti del mondo delpallone. Nessuno è risalito sinoa quello che fu il clamorosissimocolpo nel campo delle compra-vendite footbaliere. Esso avven-ne in Italia nel 1952; videl’Atalanta di Bergamo riceveredal Napoli (a quell’epoca nellemani dell’armatore AchilleLauro) 105 milioni di lire incambio del tesserino dell’attac-cante svedese Hans “Hasse”Jeppson. Questi aveva alloraventisei anni; aveva cominciatoa mettersi in luce nella sua terrad’origine nel 1948; nel 1950,con due suoi goal, aveva contri-buito a… far tornare a casa inanticipo (dopo altre sconfitte epareggi) la nazionale azzurra dai“mondiali” ambientati inBrasile; nel 1950-1951 avevavinto la classifica dei cannonierinel massimo campionato del suoPaese; prima di approdare inItalia, era stato per una stagioneil primo svedese arruolato nel-la… serie A inglese. Per avere un’idea abbastanza chia-ra dell’entità della cifra incamera-ta nel 1952 dall’Atalanta, posso-no tornare utili alcuni riferimentistorici non strettamente sportivi. Quattro rapidi calcoli consentonodi affermare che - in rapporto al…costo corrente della vita quotidia-na - con i 105 milioni di lire del1952 si rimase comunque, comevalore oggettivo della somma, pa-recchio al di sotto dei 94 milionidi euro ora versati dal Real Madridnelle casse del Manchester Unitedper ottenere le prestazioni calcisti-che di Cristiano Ronaldo. Per va-lutare meglio la consistenza effet-tiva della spesa-record sostenutadal club spagnolo, vanno conside-rati questi dati: nel 1973 JohanCruyff passò dall’Aiax al Barcel-lona per 650.000 euro (cifra ri-calcolata sulla base delle moneteoggi correnti); nel 1975 GiuseppeSavoldi passò dal Bologna al Na-poli per un milione di euro; nel1982 Diego Armando Maradonapassò dal Boca (Argentina) alBarcellona per 6,4 milioni di eu-ro e poi nel 1984 dal Barcellonaal Napoli per 6,750 milioni di eu-ro; nel 1987 il Milan ebbe RuudGullit dal Psv per 7 milioni; nel1990 la Juventus diede 9 milionialla Fiorentina per avere RobertoBaggio; nel 1992, ancora la “vec-chia signora” in bianconero die-de 15 milioni alla Sampdoria perassicurarsi Gianluca Vialli. Nel1999 l’Inter diede più di 48 mi-lioni alla Lazio per ottenere il car-tellino di Cristian Vieri. Fino al …tetto ora raggiunto da CristianoRonaldo, il più pagato era statoZinedine Zidane: la Juventus vol-le quasi 69 milioni di euro per la-sciarlo andare al Real Madrid.

Arturo Consoli

Cari, anzicarissimi

Frate Indovino - Perugia

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3 / Ottobre 2009

Giulio Terzi di Sant’Agata, co-me è arrivato in America, pri-ma all’ONU e ora comeAmbasciatore?La mia nomina al Palazzo diVetro è seguita ad un percorsoche mi ha visto come DirettorePolitico della Farnesina, in pre-cedenza come Ambasciatore inIsraele e prima ancora della pas-sata esperienza a New York, al-la NATO, in Canada e a Parigi.

Se considera la sua esperienza,come è cambiato il modo di vi-vere il suo impegno? In altre pa-role, nel passato come si svol-geva l’attività? La modernitàcon i suoi ritmi e soprattuttocon le nuove tecnologie in chemisura e come ha modificato ilpanorama dei suoi esordi?I diplomatici della mia genera-zione, e mi riferisco non soltan-to alla Farnesina, ma ai colle-ghi dei principali Paesi Europeiche hanno cominciato ad ave-re posizioni di responsabilità al-l’inizio di questi due ultimi de-cenni di prodigiosi cambia-menti sulla scena internaziona-le, condividono una stessa sen-sazione: che si è avuta una for-te accelerazione nella trattazio-ne multilaterale e globale del-le questioni; che l’efficace solu-zione di una crisi dipende sem-pre più dal coinvolgimento diuna pluralità di paesi e sempremeno da soluzioni derivanti da-gli equilibri tra super-potenze,come era avvenuto sino al crol-lo del muro di Berlino; è quin-di mutata la piattaforma politi-ca e la prospettiva storica.

In questa prospettiva e davan-ti a questo orizzonte, come ve-de il futuro prossimo e conquale carico di nuove respon-sabilità per chi svolge incari-chi delicati come i suoi?Altri fattori essenziali sono sta-ti il processo di integrazione po-litico e monetario europeo; laglobalizzazione con i riflussi at-tuali; il prepotente emergeredella Cina e dell’India. Paralle-

La diplomazia è una costoladella politica o viceversa:guardando dal suo osservato-rio privilegiato, che panora-ma osserva? Per un italiano la politica este-ra ha certamente dei contenu-ti di promozione dell’interessenazionale, come dicevo prima;al tempo stesso ha dei contenu-ti etici, radicato com’è in noil’imperativo del dialogo, il rifiu-to della sopraffazione e della vio-lenza, il rispetto puntuale senzacondizionamenti di sorta dei di-ritti e della dignità dell’uomo.

In quale atteggiamento si po-ne rispetto al presente e allecontinue, esaltanti ma anchedure, esigenti e stressanti sfi-de del giorno d’oggi?Ecco, le Nazioni Unite, rappre-sentano null’altro che lo spec-chio di un’immagine riflessa:quella di 192 paesi che ne fan-no parte, di realtà culturali di va-lori, di interessi spesso diversi,non di rado in stridente conflit-to tra loro, talvolta ancorati a po-sizioni dogmatiche difficili da su-perare. Peraltro in questo Par-lamento del mondo c’è sempreun gruppo di persone e di Go-verni che è mosso dalla motiva-zione e dalla speranza. Importan-ti sono i risultati nel negoziare ac-cordi di pace, nel pervenire o ri-solvere i conflitti, nel soccorre-re decine di milioni di rifugiati,di vittime di catastrofi naturali ocreate dall’uomo, con l’afferma-zione progressiva dei diritti deideboli, della lotta contro la po-vertà e il sottosviluppo.

lamente, e questo vale ancora dipiù negli ultimi 10-15 anni, si so-no accelerati, soprattutto graziealle nuove tecnologie, i mecca-nismi attraverso i quali acquisia-mo informazioni e di conseguen-za formuliamo analisi e propo-ste, e concorriamo alle decisio-ni di Governo. Per consultare intempo reale una decina di prin-cipali interlocutori italiani ostranieri su una questione urgen-te non devo impiegare più unagiornata di telefonate, ma cin-que minuti al blackberry. Cosìcome nella politica, è cambiatoil linguaggio della diplomazia. Ilmeno possibile retorico, me-taforico, attorno alle questioni;sempre più concreto, essenziale,mirato al risultato. Essenziale in-fine è il rapporto con i media:l’opportunità cioè di far conosce-re e divulgare le posizioni che siesprimono rispetto ai fatti rile-vanti del mondo.

Da Washingtoncon vista sul mondo

Come si percepiscono i problemi del mon-do dal cuore delle Nazioni Unite e qual èil tormento di uno che lavora ogni giornoper la causa del dialogo, della mediazione,dell’incontro e della costruzione della pa-ce e poi vede focolai mai spenti di tensio-ni, violenze e guerre e altri che via via siaccendono?Le Nazioni Unite di oggi sono orientate eaperte verso la società civile. Una tendenzarafforzatasi in questi ultimi anni che vedonol’Organizzazione costituire ormai un punto di

riferimento fondamentale per il volontariatointernazionale e un fattore di impulso per af-fermare i valori fondamentali della società de-mocratica e dell’individuo. Tutto ciò rappre-senta il senso e la vita delle Nazioni Unite, isentimenti che animano tutti coloro che a di-verso titolo vi partecipano, cercando ognigiorno di dare un contributo concreto e rea-le alla speranza di rispetto e giustizia che è nelcuore di tutti, per dare un futuro di pace al-la nostra e alle prossime generazioni, comescritto nella Carta Costituente dell’ONU.

ONU, impegno per la pace e la giustizia

di Giuseppe ZoisGiulio Terzi di Sant’Agata è il nuovo amba-

sciatore a Washington. Ha 63 anni, è ber-gamasco, ed è entrato in diplomazia nel 1973

dopo la laurea in Giurisprudenza a Milano. Il via li-bera è arrivato dal Consiglio dei Ministri. Attual-mente Giulio Terzi di Sant’Agata è il rappresentan-te italiano all’Onu. In passato ha ricoperto incari-chi nelle ambasciate di Parigi, Ottawa e Tel Aviv. La sua famiglia ha le radici a Bergamo da moltissi-me generazioni. Il padre di Giulio, GiuseppeAlessandro era un appassionato conduttore di un’a-zienda agricola alle porte della città. Aveva cono-sciuto la moglie Alfonsina appena prima della guer-ra, nel periodo in cui il nonno materno di Giulio,Francesco Ballero era prefetto a Bergamo. I due sisposarono nell’estate del 1940 e l’anno dopo nacquela primogenita Francesca, pura bergamasca DOC,professoressa di lettere alle superiori e mai allonta-natasi dalla sua casa di Brembate Sopra, Tresolzio. Giulio, classe 1946, ha frequentato il Ginnasio a Lodidai Padri Barnabiti, poi il liceo classico alSant’Alessandro, per poi laurearsi in Giurisprudenzaalla Statale di Milano. Successivamente ha prose-guito una serie di studi internazionali che lo hannointrodotto alla carriera diplomatica.

Quando è nato l’interesse e come è cresciuta la de-terminazione a fare quello che poi ha fatto? Perchéha deciso di prendere questa strada? Sono stato sempre fortemente attratto dalla politica,fin da ragazzo con mio padre, con una base di forma-zione intellettuale legata agli interessi del Paese e alladignità dell’uomo. L’interesse per la storia, l’economiae il confronto con la realtà internazionale mi hannoportato sin dai primi anni di università ad approfon-dire questo orientamento, anche se è stata l’occasioneuna borsa di studio vinta all’ISPI a darmi più concre-tamente l’idea di affrontare il concorso diplomatico.

Come si trova in questo mondo non facile della di-plomazia, dove tutte le parole, gli stessi gesti ven-gono pesati, a volte amplificati, distorti, con rischiodi pericolose esagerazioni? Rappresentare e promuovere gli interessi dell’Italia inambito internazionale, in genere, ma ancor più in uncontesto globale come le Nazioni Unite, dove 192 pae-si interagiscono tra loro su tutte le principali questio-ni della pace, dello sviluppo, dei diritti dell’uomo si-gnifica essere fortemente motivati e disporre di unaformazione ed un’esperienza che metta un diploma-tico in condizioni di competere efficacemente sul pia-no negoziale, di essere credibile nei confronti dei suoiinterlocutori, di sapere convincere e di comunicare conl’opinione pubblica. È per questo che la sede di NewYork, oltre che una grande scuola, come è già stata perme negli anni ’90, quando per la prima volta vi sonostato destinato, è stato un test quasi quotidiano: concompetizioni elettorali in Assemblea Generale, connegoziati su processi di pace, con la definizione di pro-grammi di sviluppo; un confronto quotidiano per chilavora alla Rappresentanza, per il Capo Missione maanche per ciascuno dei suoi collaboratori. Forse leNazioni Unite costituiscono l’esempio più evidenteche si ottengono risultati solo se si fa squadra.

GIULIO TERZI DI SANT’AGATA

Ambasciatore d’Italianegli Stati Uniti

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4 / Ottobre 2009

Un problema non nuovo affrontato con semplificazione politica

dove peraltro le lingue ufficialisono francese e inglese. Antro-pologi e linguisti insistono dadecenni: quando muore una lin-gua, si spegne una parte dell’u-manità. Per sempre. Ma in Ita-lia, la salvaguardia delle culturelocali, con i loro parlati, diven-ta solo occasione di scontro frai partiti. In via ordinaria, tutticoncordano sul fatto che la lin-gua, ogni lingua, sia essenzialeper la tutela di ciascuna specifi-ca cultura, con tutti i suoi con-tenuti: un certo modo di pen-sare e di credere, di vedere lavita, di materializzarla nel pae-saggio, di incarnarla nel lavo-ro, nell’arte. Non si possono farconoscere e apprezzare alle nuo-ve generazioni le bellezze del-l’Italia, se non facendo matura-re in loro l’amore per il luogoche li ha generati, con tutti i

suoi millenni di accumulazioneculturale. Per questo è ridicoloridurre la questione a una pole-mica su “l’esame di dialetto per iprofessori”, oppure, ancora unavolta, buttarla nel mucchio del-le polemiche tra Nord e Sud.Indegne semplificazioni per unaproblematica che merita ben al-tra attenzione e rispetto. Del re-sto in passato persone di grandelevatura avevano riflettuto suquesti aspetti.

La riforma della scuola ita-liana, elaborata dal mini-stro dell’istruzione Gio-

vanni Gentile, con il supportodel pedagogista Giuseppe Lom-bardo Radice, previde con i pro-grammi per le scuole elementa-ri del novembre 1923 l’insegna-mento delle culture regionali.Fiorirono i sussidiari, con poe-

sie, proverbi, leggende e testiteatrali in ogni dialetto italia-no. Poi Mussolini decise che, almassimo, le culture locali an-davano bene solo come folclo-re nell’Opera Nazionale Dopo-lavoro. Ma l’Italia repubblica-na, che sta tentando di realiz-zare le sue aspettative federali-ste, nell’Europa delle culture,non può avere paura delle sueradici plurietniche e multicul-turali. La sua unità non è que-stione di inni e di bandiere, madel riconoscimento effettivoche la forza genuina del Paeseviene proprio dalle sue diver-sità. Ritrovando lo spirito di ap-partenenza nelle comuni radi-ci cristiane. Bisogna ricordareche il patrimonio dell’umanitàè formato da un universo di cul-ture locali. Che vogliono vive-re. Parlando le mille lingue diBabele, senza per questo rinun-ciare al dialogo planetario, per ilquale è sufficiente un codice in-termediario, il solito inglese omagari l’italiano che il mondomostra tuttora di amare, per isuoi contenuti storici e artistici.Smantellare la diversità lingui-stica, in Italia e nel mondo,vuol dire mortificare e spegne-re le capacità creative delle pic-cole e grandi nazioni che popo-lano la terra. E questo sarebbedavvero un delitto.

*docente di sociologia dei processi culturali all’Università

di Ca’ Foscari, Venezia

Dialetto di classeSettecento, Ottocento, No-

vecento. Noi li crediamosecoli lontani. Chiusi die-

tro a porte serrate per sempre.E invece è là che dobbiamo cer-care qualche risposta a certo di-sagio del presente. Un tempo,il nostro, tormentato da eventie idee nate allora. Cento, due-cento anni fa. A partire da quel-la Rivoluzione francese che, seebbe il merito di smantellarel’arroganza aristocratica, intro-dusse il falso dogma del supera-mento ormai irreversibile dellareligione. Proclamando che idestini dell’uomo sono solo nel-le sue mani, che i valori, la vita,la morte, sono questioni perso-nali. L’homo religiosus poteva alpiù essere tollerato come inge-nuo, non certo onorato comesaggio. In nome della Moder-nità, nuovo idolo a cui si sonosacrificati milioni e milioni diuomini. Sempre sostenendo chetutto questo (guerre, rivoluzio-ni, massacri) andava conside-rato come ultimo sforzo per la“redenzione” dell’umanità. D’in-venzione in invenzione siamoarrivati al trionfo odierno dellatecnica, e all’umiliazione delpensiero. Nessuno nega i van-taggi che si traggono dalle mac-chine. Il benessere economico,la salute, l’informazione, la co-municazione, sono enormemen-te cresciuti. Ma non altrettantola conoscenza dell’uomo sull’uo-mo. E questa è la piaga che ri-schia la cancrena.

L’immenso patrimoniodella tradizione, che neimillenni ha tradotto la

fede in bellezza, continua ad es-sere dissacrato, oltraggiato, ri-dotto alle miserie della politi-ca. Prendiamo il caso, tutto esti-vo, del “dialetto nelle scuole”.Non c’è dubbio che ciascunodebba essere orgoglioso dellapropria lingua materna, ed è ne-cessario che venga insegnata dadocenti responsabili. Lo ha ri-badito di recente anche Fran-çois Rivière, direttore cultura-le dell’Unesco. Il braccio cul-turale delle Nazioni Unite hapubblicato l’Atlante delle lin-gue a rischio di estinzione, cir-ca 2500 sulle 6500 stimate inuso nel mondo. Giustamente cisi preoccupa, per dire, che nonvengano cancellati i 250 dialet-ti che si parlano in Camerun,

Acommento di una monumenta-le ricerca sul linguaggio parlatoattualmente in Italia, il prof.

Tullio De Mauro ha affermato che segli italiani parlano la lingua nazionale avanvera - e ancora peggio la scrivono -non è colpa dei dialetti locali, ma del fat-to che non leggono libri, e segnatamentei classici della letteratura.Una cosa che ho sempre pensato, fin daiprimi anni da maestra nei nostri paesidove la lingua principale era appunto ildialetto e dove i bambini imparavano l’i-taliano come una vera e propria secon-da lingua, cioè tenendo ben distinti i di-versi codici espressivi. E questa secon-da lingua non la imparavano dalla tv,ma dai vari Pascoli, Pezzani, DeAmicis, Valeri, e via dicendo, gente chel’italiano lo sapeva scrivere bene; e chelo approfondivano, fin dalle elementa-ri, leggendo a turno, uno per settima-na, i - pochi - libri per ragazzi della bi-bliotechina della scuola: pochi ma buo-ni, nel senso che, oltre che ben scritti,erano interessanti e divertenti.In un paesino delle valli alpine, in quel-l’ormai lontano 1968, i ragazzi delle ele-mentari erano 38, divisi in due aule:quella della prima e della seconda (allo-ra si diceva 1° ciclo) e quella della ter-za, quarta e quinta (il 2° ciclo).

Maestrina fresca di diploma, di concor-so e di relativo ruolo ma di nessuna espe-rienza, il Direttore Didattico mi avevaaffidato il secondo ciclo, pensando cheai bambini già grandicelli la mia inespe-rienza non avrebbe fatto troppo dan-no… I piccoli di prima e seconda li ave-va invece affidati ad una maestra piùgrande e dunque presumibilmente piùesperta, una siciliana di Catania, cheperò aveva il difetto di parlare un ita-liano decisamente… sicilianizzato e dinon conoscere, ovviamente, una paro-la di bergamasco.

La collega siciliana non era affattoentusiasta del suo incarico in unascuola di montagna: aveva dovuto

lasciare a casa due figli piccoli e il mari-to, pativa molto il freddo ed era addirit-tura terrorizzata dalle montagne impo-nenti che vedeva per la prima volta a di-stanza così ravvicinata: diceva che lesembravano sempre sul punto di caderleaddosso, e a nulla servivano le mie ras-sicurazioni sul fatto che quelle monta-gne erano lì ferme da secoli e probabil-mente lo sarebbero state ancora per unbel po’. Quando poi sentiva il rumoresordo di qualche slavina che si staccavadai versanti, andava letteralmente in pa-nico, e toccava ai suoi stessi scolari ras-

sicurarla circa la sua sopravvivenza. La tragedia vera e propria, tuttavia,scoppiò al quarto giorno dall’inizio del-la scuola. Ai bambini di prima la colle-ga stava presentando, una per giorno, levocali dell’alfabeto, e finché aveva loromostrato i disegni dell’ASINO - il cui no-me comincia con A-, quello dell’ERBAper presentare la E e quello dell’OCAper presentare la O tutto era filato ab-bastanza liscio. Adesso bisognava presen-tare la I, e il cartellone colorato recavail disegno di un IMBUTO. Bisogna dire, per amore di verità, che lacollega siciliana pronunciava “imbuto”in modo che si sentiva “émbudo”, e chedi fronte a quel suono i bambini poteva-no anche aver ragione di essere un po’perplessi… Dopo parecchi tentativi - lamaestra ripeteva “émbudo” e i bambi-ni rispondevano ostinatamente - la col-lega venne nella mia aula: piangeva, po-veretta, e mi raccontò tra le lacrime quel-lo che succedeva coi “primini”: guardan-do il disegno dell’imbuto pronunciavanouna strana parola, a suo parere non sol-tanto sbagliata, ma addirittura “erre-petìbbele”!.Come restare impassibili di fronte a tan-ta disperazione ed alla comprensibile per-plessità dei bambini, che pure aveva la suagiustificazione? Assegnai un esercizio ai

miei scolari e mi recai nell’altra aula, do-ve mi resi conto della natura e dei termi-ni del problema. Non ci volle molto a ri-solverlo: bastò dire loro che in italianoquell’oggetto veniva chiamato “imbuto” eche quella stanghetta verticale, alla qualesi poteva anche mettere un bel puntino so-pra a mo’ di cappellino, era una delle cin-que “sorelline” chiamate vocali, la I.

Quel giorno, al ritorno da scuola,passai dal Direttore perché miaveva raccomandato di tenerlo

informato qualora fossero sorti problemicon la collega (per la quale, peraltro, siera già attivato ai fini di ottenere il tra-sferimento tanto agognato). Gli spiegaiquel che succedeva e lui, saggiamente,decise che ci saremmo scambiati le classi,visto che io conoscevo il dialetto e chequindi coi bimbi avrei potuto facilmenteoperare i necessari continui confronti trail dialetto e la lingua italiana. E così fu, ineffetti, finchè la maestra di Catania otten-ne il tanto desiderato trasferimento a lidipiù familiari, e venne a sostituirla unamaestra che parlava anche lei il dialetto. Così il resto dell’anno scolastico filò vialiscio come l’olio. È indimenticabile, per-ché il primo anno di scuola è come il pri-mo amore: non si scorda mai.

Magda Bonetti

I bambini che non capivano… l’IMBUTO

Ogni volta sembrail primo mattinodel mondo. Per

il dialetto, ad esempio,si dimenticano le iniziative di

Gentile e LombardoRadice nel 1923

poi il declassamentocon Mussolini

di ULDERICO BERNARDI*

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5 / Ottobre 2009

Èfuor di dubbio che la Legaha tenuto banco in questimesi estivi confermando-

si - nel bene e nel male - comel’unica forza politica in grado nonsolo di condizionare il governo,ma l’intera vita politica del pae-se. Le esternazioni di UmbertoBossi - ma non solo di Bossi -hanno, infatti, occupato uno spazio po-litico che nessuno, oggi, è in grado dioccupare né vuole occupare, mostrandol’intrinseca fragilità e pochezza dell’at-tuale compagine politica. Questo è ilvero (e drammatico) problema e nongià le proposte che - in un vero e pro-prio “fuoco di fila” - hanno occupato lecolonne dei giornali e i resoconti radio-televisivi: dall’inno di Ma-meli, alle bandiere regio-nali, al dialetto nelle scuo-le, alle gabbie salariali ecosì via. Proposte che, inrealtà, sono dei “ballond’essai” lanciati ad arte (econ intelligente fragoremediatico) in un accorto“gioco di squadra” sia perseminare lo sconcerto nelcampo avversario sia persondare, cautamente, leforze “amiche” nel proprioterritorio: quello del parti-to berlusconiano e degliex militanti di Alleanza Nazionale. Nes-suno - che non sia un ingenuo - è tan-to superficiale da pensare che il gruppodirigente della Lega sia disposto vera-mente ad ingaggiare una “battaglia al-l’ultimo sangue” per l’inno nazionale oper l’inserimento del dialetto come lin-gua di studio accanto all’italiano. Quel-lo che preme alla Lega è dimostrare lasua unità, la sua capacità di proposta edi mobilitazione in un momento in cuitutte le forze politiche sembrano per-vase da un immobilismo che si prospet-ta di lunga durata. Immobili sono le

truppe berlusconiane bloccate dalle di-savventure del premier che sembra in-capace - malgrado i sondaggi - di riac-quistare lo smalto del passato e la ca-pacità di agire, incisivamente, sull’eco-nomia. Immobile si rivela il Partito De-mocratico dilaniato dalla lotta per lasegreteria ed incapace sia di progettarealcunché sia di decidere quale atteggia-

mento tenere nei confron-ti di Di Pietro: che li ero-de dall’interno. Ma immo-bili sono anche gli ex ade-renti di Alleanza Nazio-nale, da un canto polariz-zati verso il centrismo diBerlusconi e dall’altro at-tratti dalle scelte di Finiche persegue - oramai èchiarissimo - una politicanon più di destra (in sen-so stretto), ma che miraad accreditarlo come unfuturo premier: al di sopradelle parti.

Naturalmente, il tutto va contestualiz-zato in una situazione di grave disagioeconomico e di sempre maggiore ten-sione sociale: sia dal punto di vista oc-cupazionale, che di ordine pubblico (si-curezza dei cittadini, ecc.). Così, a fron-te di un paese che sembra - sempre più- una realtà ingovernabile, la Lega sipone come un punto di indiscutibilestabilità, accreditando l’idea di esseretanto forte e coesa da poter interveni-re anche su problemi-tabù come l’in-no nazionale, il tricolore, la lingua e legabbie salariali. Va da sé che il messag-

gio nascosto è quello di accreditarsi co-me l’unica ad essere capace di gover-nare, l’unica ad avere proposte incisi-ve e popolari, l’unica in grado di pola-rizzare l’attenzione e il consenso. D’al-tronde, ad oggi, i provvedimenti più po-polari (anche se da molti non condi-visi) agli occhi dell’opinione pubblicasono stati quelli proposti e realizzati dal-la Lega: la legge sull’immi-grazione clandestina è si-gnificativa in proposito.Ma, a questo punto, nonci si può esimere dal faredue riflessioni. La prima -che è oramai ripetitiva -riguarda l’incapacità del-le forze politiche ad ave-re e proporre progetti:reali, credibili e fattibili. Èveramente inaudito chenessuno sia in grado dipercepire il disagio dellacittadinanza cercando didare una risposta al mal-contento che - al Nord come al Sud -sta montando in maniera inquietante.Nessuno dei politici di rango - occupa-to in meschini giochi di potere - sem-bra accorgersi che alla sfiducia verso laclasse che ci governa si sta sostituen-do, progressivamente, la rassegnazionea cui farà, poi, seguito la rabbia: con tut-to ciò che essa comporta. È come se ungenerale senso di rassegnata derespon-sabilizzazione stesse invadendo chi cigoverna, lasciando al caso o alla con-tingenza il compito di risolvere i gigan-teschi problemi di un paese che si sta,

sempre più, terzomondizzando.Come più volte si è detto. Il chenon solo significa lasciare cam-po libero alla Lega, ma anche ri-nunciare al proprio ruolo di rap-presentanti dei cittadini e delleloro istanze: con un effetto dierosione della Democrazia.La seconda riflessione riguarda,

invece, la Lega. Certamente, per la Le-ga il vento - in siffatte circostanze - èestremamente favorevole: anzi favore-volissimo. Ma il rischio è quello - aven-do come avversari dei muri di gomma- di dover, continuamente, alzare la po-sta in gioco per non essere giudicati po-co credibili. Significa dover seguire sem-pre più gli umori della base: in una con-

tinua dialettica di rilancioe di arretramento obbliga-to. Dialettica che puòportare, alla fine, per unverso ad un pericoloso lo-goramento e per l’altro adun estremismo non piùcontrollabile: con esiticatastrofici per la stessaLega costretta a posizionisempre più hard per nonperdere consensi a favore,magari, di nuovi e più pe-ricolosi estremismi.Come si vede, la situazio-ne che si prospetta non è

delle migliori e, al momento, non ci so-no alternative. Perciò, fermo restandoche non c’è mai limite al peggio, nonresta che augurarsi una coraggiosa pre-sa di coscienza da parte dei politici in no-me di quel buonsenso spicciolo che - neimomenti più difficili - vorrebbe tuttiuniti e coesi nel lavorare per il bene co-mune. La situazione lo richiede, gli ita-liano lo vogliono: tocca, ora, a chi di do-vere rimboccarsi le maniche.

*Docente di Filosofia delle ScienzeSociali all’Università di Varese

“ DOVE STA ANDANDO IL PAESE?FINESTRA APERTA con Claudio Bonvecchio*

Nell’estate non soltantometeorologicamente cal-dissima di questo 2009

ha tenuto banco pure la questionedelle celebrazioni per il secolo emezzo dall’unità d’Italia, che sicompirà nel 2011. Sull’appunta-mento non ci sono stati gli scontriideologici e dialettici che si sonoaccesi sulla legge per il testamen-to biologico, sulla pillola abortivaRu486 e specialmente sulle appli-cazioni delle nuove norme control’immigrazione clandestina - pro-blema, quest’ultimo, che ha vistoalcuni degli esponenti più in vistadella Lega mettersi in contrappo-sizione alla Chiesa ed ai suoi ri-chiami con un’asprezza di toni edi modi praticati in Italia neppuredal marxi-comunismo più incal-lito. Non c’è stato neppure il cla-more che ha accompagnato il ri-lancio, sotto il solleone, sempread opera di leader del “Carroc-cio”, di progetti cari ai “lumbard”come quelli delle bandiere regio-nali esposte accanto al “tricolo-re” nazionale, del test di “culturalocamista” per i docenti che dalSud approdano al Nord, dei dia-letti lasciati in primo piano nelle

aule scolastiche. Anche il cento-cinquantesimo della proclamazio-ne dell’Italia unificata ha avutoperò il suo spazio. Già il governopresieduto da Romano Prodi viaveva fatto più di un pensiero. Ol-tre a far predisporre il logo - unacomposizione di tre vessilli trico-lori al vento, accompagnata dallascritta “1861-2011” - aveva vara-to un cospicuo piano di opere pub-bliche distribuite praticamente intutto il Paese; piano comprenden-te, tra l’altro, un Centro Con-gressi con Palacinema a Venezia,un auditorium per il Maggio mu-sicale fiorentino, il completamen-to dell’aeroporto di Perugia, la si-stemazione di una serie di parchi aTorino, un auditorium ad Isernia,il restauro del teatro San Carlo aNapoli ed altro ancora. A questiinterventi il governo, capeggiatoda Prodi, pensava di aggiungeremanifestazioni culturali ed eventiprettamente commemorativi. Perun certo numero delle opere pub-bliche sono stati almeno formal-mente aperti i cantieri. Ma poitutto è scivolato nell’ombra. Ariaccendere i fari sulla scadenzache si stava avvicinando è stato

Ernesto Galli Della Loggia, il qua-le, a metà luglio, in un editorialesul più diffuso quotidiano italianoha parlato, a proposito della ricor-renza centocinquantenaria dell’I-talia, non solo di “vuoto di idee”ma anche di una certa “assenzadi spirito nazionale”. L’articoloha trovato il pieno assenso dell’expresidente della Repubblica Car-lo Azeglio Ciampi, che RomanoProdi aveva chiamato alla testa delComitato dei trenta Garanti delleiniziative da mettere in campo peril 2011. Carlo Azeglio Ciampi haminacciato le dimissioni qualora, abreve, non ci fossero stati passiconcreti verso scelte chiare e riso-lutive. Accanto al suo predeces-sore al Quirinale, si è presentatoschierato Giorgio Napolitano, ilquale ha mandato una lettera distimolo a Palazzo Chigi. Si è fat-ta a poco a poco largo l’idea di uncalendario e di un programma al-ternativi, con opere meno nume-rose ma “più significative” e conun più ampio ventaglio di mani-festazioni culturali fortemente di-vulgate attraverso la televisione diStato: manifestazioni localizzatespecialmente a Roma, Firenze e

Torino, ossia nelle tre città-chiavedel cammino verso l’unità nazio-nale.

Afrenare la marcia avviatada Prodi era intervenuta laLega, coerente con le sue

posizioni di sempre. Mario Borghe-zio ha affermato che “è possibilevalorizzare tutto ciò che riguardail patrimonio storico con prov-vedimenti senza spese”. E Rober-to Cota, capo dei “lumbard” aMontecitorio, ha puntualizzato:“Vanno evitate le celebrazionielefantiache così come le speseinutili”. Il ministro per la Sempli-ficazione legislativa Roberto Calde-roli ha lanciato un’idea che ha sor-preso non poco i cronisti che lo sta-vano ascoltando: “Si potrebbecommissionare un grande studio,qualcosa di epocale, sugli osta-coli che hanno impedito e im-pediscono la nascita di quello spi-rito nazionale di cui parlava Er-nesto Galli della Loggia”.Roberto Calderoli ha confidato aicronisti di essere stato esortato ami-chevolmente da Giorgio Napolita-no a leggere un paio di libri di uncerto contenuto sul Sud dell’Italia.

E probabilmente Roberto Calderolisi è ricordato - ma questo ai croni-sti non lo ha detto - che proprio isuoi conterranei sono stati in am-pia misura protagonisti di quella spe-dizione di Giuseppe Garibaldi ver-so la Sicilia che non solo fu il fattoprincipale del Risorgimento, ma an-che il preludio all’Italia unita. DaBergamo nella primavera del 1860partirono in trecento per mettersi alseguito dell’eroe dei due mondi.C’era gente in pratica di tutto ilNord Italia. Fra i “mille”, che nel-la notte tra il 5 e il 6 maggio salpa-rono da Quarto, in Liguria, allavolta di Marsala (approdo l’11maggio), i bergamaschi doc eranoalmeno centottanta; tra gli storici c’èchi dice qualcuno in più, e c’è chidice qualcuno in meno. Ad un se-colo esatto da quella spedizione, il4 maggio 1960, l’allora presidentedella Repubblica, Giovanni Gron-chi, giunse in treno a Bergamo e du-rante una solenne cerimonia nel-l’antico Palazzo della Ragione, inPiazza Vecchia, conferì al capoluo-go orobico il titolo di “Città deiMille” per il “contributo fonda-mentale dato dai Bergamaschiall’unità d’Italia”. (G.C.)

Pare sempre più evidenteche a orientare la politicanazionale sia il partito

del Carroccio con l’apoteosi ricorrente

dei localismi a oltranza:dal dialetto nelle scuole

alle gabbie salariali,all’inno d’Italia

e alle ronde

La Lega si vuole accreditare come partito di indiscutibile stabilità,

grazie anche alla passivitàdella coalizione di centro-destra più attenta ai giochidi potere che alla politica.

Il rischio di posizionisempre più “hard”

per i padani

Vento del Norde muro di gomma

“Divisi” sull’unità d’Italia

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6 / Ottobre 2009

Quando si parla di estateil pensiero vola subitoalle vacanze, spiagge,

mare e sole. Momenti di relaxe svago che si attendono conimpazienza e che durante l’an-no ci motivano a sopportare lelunghe code di traffico delle oredi punta quando si va in ufficioo si torna a casa la sera, le orestraordinarie passate di fronte alcomputer intenti a lavorare suqualche tabella o documentonoioso oppure le fredde serateinvernali chiusi in casa a guar-dare la televisione… insommasenza il sogno delle vacanze lavita di tutti i giorni sarebbe si-curamente meno sopportabile.

Per i fortunati che vivononel Sud della Californial’estate dura tutto l’anno

e spiagge, oceano e sole fannoparte delle vita di tutti i giorni.Per trecentosessantacinquegiorni all’anno, tanto d’estatecome d’inverno, il sole riscaldale coste del Golden State (laCalifornia è conosciuta anchecome Stato dell’oro dall’epocadei cercatori del secolo scorso)in quella che potrebbe esseredefinita un’estate senza fine. Perchi vive a Los Angeles, una gi-ta in spiaggia è l’attività tipicadel weekend. Le spiagge dellaCalifornia, rese celebri da serietelevisive come Baywatch op-pure The OC, per citarne al-cune delle più recenti, sono fa-mose per l’estensione e per glisport che sono nati da questeparti: surf, beach volley, skateboard e body building.I surfisti sono la specie più dif-fusa. Grandi e piccoli, anziani edadolescenti, tutti accomunatidalla passione per le onde dell’o-ceano e per la tavola da surf.Questo sport, nato alle Hawaii,

è diffusissimo tra i teenagers del-la costa californiana ed è diven-tato un must (una cosa da fareassolutamente) per tutti coloroche vivono da queste parti.Ci sono spiagge riservate ai sur-fisti i quali per poter rimanerein acqua più a lungo vestonowetsuit (mute) studiate per po-ter isolare il corpo dalle freddeacque dell’Oceano Pacifico. Isurfisti si ritrovano al largodella costa e rimangono in at-tesa dell’onda perfetta ancheper ore ed ore. Sono una tribùi cui simboli distintivi sono latavola, la wetsuit e i numerositatuaggi sparsi un po’ su tutto il

corpo. Leggende da bar raccon-tano di surfisti temerari che nonsi fanno scoraggiare nemmenodalla vista di squali, i quali avolte scambiano la tavola dasurf per il dorso di una foca at-taccando il malcapitato surfista.In realtà capita più spesso di as-sistere a spettacolari evoluzionidi gruppi di delfini che si diver-tono ad accompagnare l’ondacavalcata dai surfer.E mentre qualcuno si diverte acavalcare le onde, sulla spiaggial’azione non manca. Le immen-se spiagge di SoCal sono spes-so equipaggiate di strutture perchi ama il beach volley, palla-

canestro e squash. Le partite po-meridiane sotto il sole batten-te sono un classico per mette-re in mostra un fisico atletico osemplicemente per divertirsicon gli amici in sfide epiche chepossono durare anche tutto ilpomeriggio. Alcune spiagge,come quella di Venice Beach,sono anche attrezzate per chiama i rollerblade o skateboard:rampe e paraboliche in cemen-to permettono agli skaters diesibirsi in acrobazie mirabolan-ti che rappresentano lo spetta-colo domenicale per chi si an-noia in spiaggia e non praticanessuno sport. Ci sono anche

palestre all’aperto per il body-building. È famosissima la pale-stra Gold Gym di Venice Beachdove si sono allenati ArnoldSchwarzenegger ora Governa-tore della California e Lou Fer-rigno che interpretò Hulk nel-la serie degli anni settanta.

Infine, la spiaggia rappresen-ta un’attrazione anche per lefamiglie ed anziani. Durante

l’estate, quando la temperaturasale è possibile rinfrescarsi in ri-va all’oceano, giocare con aqui-loni, prendere il sole o fare unpic-nic in famiglia. Per gliamanti del wild life watching (os-servare la natura selvaggia), lespiagge sono lo scenario idealeper osservare gabbiani, pellica-ni ma anche foche, trichechi edelfini. Se si dispone di una buo-na vista o di un cannocchiale,durante alcuni mesi dell’anno èpossibile vedere anche baleneche transitano al largo della co-sta. Ed al calar del sole, dopo leattività della giornata, la spiag-gia diventa il luogo ideale perun bondfire (falò attorno al qua-le ci si riscalda in riva all’ocea-no) o un barbecue tra amici.Niente alcool però in quanto lalegge (è così in quasi tutti gliStati Uniti) vieta di bere bevan-de alcoliche in luoghi pubblici,inclusa la spiaggia. Insomma,un party senza birra e vino nonsuona molto divertente ma è si-curamente in linea con la die-ta salutare scelta dagli sportivicaliforniani. Per chi non voles-se rispettare la legge c’è semprela possibilità di comperare bic-chieri in plastica colorata chenon permettono di “vedere” ilcolore della bevanda che si stabevendo (un piccolo strata-gemma per poter bere un bic-chiere di vino in spiaggia spe-rando di non essere scoperti).

da Los Angeles, CLAUDIO TODESCHINI

Ed oltre alla spiaggia, un’altra attra-zione di SoCal è rappresentata daldeserto che si trova a poche miglia

dalla costa. Partendo dalle spiagge affol-late del Sud della California, basta gui-dare un’oretta verso est per ritrovarsi nelbel mezzo di un paesaggio lunare dove so-lo serpenti a sonagli, scorpioni, road run-ner e coyote riescono a vivere in una cer-ta forma di armonia. Procedendo versol’interno anche la vegetazione va via viascomparendo. Solo gli alberi di Joshua(chiamati così per la forma quasi umanache secondo alcuni ricorderebbe il per-sonaggio biblico da cui prendono il no-me), i cactus e le palme presenti nelle po-che oasi che si trovano sparse nel deser-to resistono al calore ed alla solitudine di

queste lande brulle e desolate in cui pio-ve solo qualche giorno all’anno. Agli ini-zi della primavera è possibile assistere adun miracolo della natura: cactus ed al-tre piante del deserto fioriscono e per al-cuni giorni il paesaggio brullo e mono-cromatico si trasforma in un giardino co-lorato, quasi si trattasse di un miraggioprovocato dal sole e dal caldo.Il deserto offre anche molte opportunitàper gli sportivi che amano l’offroad: moto-cross, fuoristrada, quads e per i più teme-rari anche mountain bike o camminate neicanyon. Qualsiasi attività si faccia è impor-tante non dimenticare di portare con séuna buona riserva d’acqua: l’idratazione èuna cosa fondamentale nel deserto.Durante l’inverno, quando la temperatu-

ra si abbassa ad un livello accettabile, èmolto comune per i californiani fare cam-peggio nel deserto. Ritrovarsi tra amici in-torno ad un fuoco nell’oscurità e nel silen-zio rotto solamente dagli ululati dei coyo-te è un’esperienza unica ed indimentica-bile. L’assenza di luci artificiali permette diosservare la volta celeste con l’infinità distelle e galassie remote difficilmente osser-vabili in città o nei centri abitati. Nel de-serto l’assenza della civiltà, il silenzio as-soluto, impossibile da trovare altrove, il cal-do secco che d’inverno riscalda e d’estatebrucia i polmoni, il sole ed il blu intensodel cielo hanno un fascino indescrivibileper chi vuole fuggire dal caos di Los An-geles e ritrovarsi solo per qualche giornoa riflettere lontano da tutto e da tutti.

La moda di fare campeggio nel deserto

Passata l’estate si ripensa sempre alle vacanze appena finite con un po’di nostalgia. Si riparte per un altro anno di lavoro o di studi e si cominciagià a pensare alle vacanze dell’anno prossimo. Ma per chi vive nel Sud

della California (soprannominata SoCal dai locali) l’estate dura tutto l’annoe spiagge, sole ed oceano fanno parte della vita quotidiana dei californiani

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7 / Ottobre 2009

Il tasso di risparmio di una fa-miglia media americana ènegativo. Per dirla in altre pa-

role le famiglie americane spen-dono in media più di quanto gua-dagnano. Con un tenore di vitabasato sull’assenza di risparmio edun forte indebitamento è eviden-te che, anche un minimo proble-ma economico, possa tramutar-si in un incubo da cui è difficileuscire. Il principio dello spende-re facendo ricorso al credito, in-fatti, funziona nell’ipotesi diun’economia costantemente increscita (vale il concetto che, daun punto di vista reddituale, l’a-spettativa di guadagni futuri siamigliore dei guadagni attuali).Ma, quando la crescita si ferma,tutto crolla rovinosamente e siassiste al dilagare di fenomeni dipovertà all’interno di classi socia-li un tempo considerate bene-stanti.Negli USA il passaggio da ric-chezza a povertà è spesso breve:dapprima la perdita del lavoro,

poi i debiti a cui non si riesce piùa far fronte, come il mutuo sul-la casa, il leasing dell’automobi-le, le rate del college dei proprifigli, fatture mediche non più co-perte dall’assicurazione. I debitiaumentano ed i creditori, di fron-te a segnali di possibili insolven-ze, attivano immediatamenteprocedure legali per il recuperodei crediti. All’ammontare deldebito inizialmente dovuto sisommano gli interessi e le pena-li per i ritardi nei pagamenti (gliinteressi di mora che gli istitutidi credito applicano a situazionidi insoluto vanno di solito dal20% al 25% su base annua), gliinteressi sugli interessi, le speselegali per il recupero del creditoed altri addebiti che le banche ole compagnie che gestiscono lecarte di credito applicano a chiè in ritardo sui pagamenti. InAmerica quando si finisce in si-tuazioni di insolvenza il mondocrolla improvvisamente comeun castello di carte. I creditori,

come tanti avvoltoi, non si arre-stano di fronte a nulla ed espro-priano tutto ciò che si possiedeper recuperare il credito. Il debi-tore incapace di far fronte ai pro-pri impegni è, in generale, obbli-gato a dichiarare fallimento (ne-gli USA anche i privati possonodichiarare fallimento). Ed è co-sì che scompare il tetto sotto ilquale ripararsi, scompare l’auto epiù in generale scompare uno sti-le di vita fittizio che, in fondo,non ci si poteva permettere. Equando si vive in uno Stato chenon ha ammortizzatori sociali co-me gli Stati Uniti, non rimanealternativa che cercare di soprav-vivere, tirando avanti, nella spe-ranza di una ripresa economicaimminente che rimetta tutto aposto.

Dilagano i senzatetto (ho-meless in inglese) che du-rante il giorno popolano

le strade delle grandi città in cer-ca di elemosina e di notte cerca-

no rifugio nei luoghi più dispara-ti. A Nashville, in Tennessee, lapolizia era solita far rimuovere icampeggiatori abusivi da sotto iponti e dai parchi pubblici. Oggi,a causa dell’alto tasso di disoccu-pazione e dei senzatetto che af-fligge la città, la polizia è moltopiù tollerante. Ci sono associazio-ni non-profit che cercano di aiu-tare i senzatetto portando quoti-dianamente legna per il fuoco, ac-qua e pasti caldi in questi accam-pamenti improvvisati per aiuta-re i nuovi poveri. Nashville sti-ma infatti che quotidianamenteci siano in città almeno 4000 ho-meless ed i letti disponibili neidormitori pubblici siano solamen-te 765. In altre città la situazio-ne è pressoché simile. Nella ric-ca California per esempio, la mu-nicipalità di Ventura, cittadinapoco distante da Los Angeles, harivisto il regolamento comunaleper consentire ai senzatetto didormire in auto. Il comune ha te-nuto a specificare che tale ordi-

nanza ha valore eccezionale ed hadurata temporanea. Uno dei dor-mitori pubblici di Los Angeles hadichiarato che negli ultimi pe-riodi si è visto costretto a chiu-dere le porte a circa 350 persone.Solo due anni fa in media veni-vano allontanate circa 25 perso-ne. Vicino alla spiaggia sono sta-ti, inoltre, installati dei finti par-cometri color azzurro (foto) perchi volesse donare qualche spic-ciolo senza dover ricorrere al ge-sto umiliante di fare l’elemosina.Molte municipalità si sono atti-vate con differenti iniziative pertrovare abitazioni temporaneeda destinare ai più sfortunati chenon hanno una casa ma le limi-tate risorse economiche non per-mettono di poter dare un riparoa tutti coloro che ne avrebberobisogno.

Povertà made in USAdi CLAUDIO TODESCHINIGli economisti americani hanno decretato la

fine della crisi economica ma la ripresa appa-re ancora lontana. Negli ultimi mesi milioni

di americani si sono ritrovati a vivere in situazionidi precarietà: senza lavoro, sommersi dai debiti,spesso espropriati della propria casa sulla quale gra-va un mutuo esorbitante che non riescono più a pa-gare e senza assistenza medica. Per molti il sognoamericano si è tramutato in una sistemazione tempo-ranea in tende nascoste sotto i ponti o in campeggiabusivi alla periferia delle grandi città. La crisi è fi-nita e gli indici azionari festeggiano l’annuncio conuna timida risalita. Il Prodotto Interno Lordo ameri-cano si è finalmente stabilizzato e quella nuvola nerache gravava da mesi sull’economia statunitense sem-bra essersi diradata. Ma il pallido sole che è ricom-parso dopo mesi di tempesta non è che una magraconsolazione per tutte le persone che si ritrovano avivere in situazioni di povertà a causa della crisi. Perpoter guarire da tutte le ferite profonde inflitte dauna crisi economica definita per intensità pari soloalla Grande Depressione del 1929, saranno necessa-ri anni di forte crescita economica, ma nessun indi-catore lascia ad oggi intravedere una ripresa a breve.

Suo fratello John, classe 1917, morì assassinatonel novembre del 1963 a Dallas, quando dadue anni circa, come presidente, stava portando

gli Stati Uniti verso una “nuova frontiera” in prece-denza mai immaginata. L’altro fratello Bob, oppureRobert (classe 1925), cadde il 6 giugno 1968 a LosAngeles, ucciso mentre, pure lui, puntava ad impu-gnare il timone a Washington. Ted o Edward, classe1932, si disse pronto a raccogliere a sua volta l’impe-gno alla Casa Bianca. E con ogni probabilità vi sa-rebbe arrivato se l’anno dopo un incidente stradale aChappaquiddick non gli avesse tarpato le ali: l’autosulla quale viaggiava piombò in acque alte; egli riuscìa mettersi in salvo, ma la ragazza che era in suacompagnia, Mary Jo Kopechne, finì annegata. Tedavrebbe potuto fare qualche cosa per salvarla? Gliamericani sono durissimi di fronte a domande di que-sto tipo. Adesso, nella notte tra il 25 e il 26 agosto,nella sua abitazione di Hyannis Port, a Cape Cod, siè spento anche lui, all’età di 77 anni, stroncato da untumore al cervello. I familiari, con quel qualcosa inpiù che gli americani riescono sempre ad avere in cer-te circostanze, hanno annunciato la sua scomparsa

con queste parole: “Perdiamo il nostro centro inso-stituibile e una luce gioiosa nelle nostre vite; mal’ispirazione della sua fede e del suo ottimismo vi-ve nei nostri cuori”. Dopo i funerali a Boston, conorazione commemorativa pronunciata da BarackObama, presidente degli Stati uniti in carica, Ted èstato sepolto all’Arlington National Cemetery diWashington, in quello che tutti chiamano “il cimite-ro degli eroi”. I mass media in coro nel dargli l’ulti-mo saluto, hanno scritto: “Si è chiusa un’era. È fi-nita la saga del XX secolo, che ha accompagnatogli Stati Uniti e il mondo dalla guerra fredda alprimo leader afroamericano insediato nello studioovale più importante del globo”.I Kennedy - è di loro che si sta parlando - erano tanti.Nella vita, Joseph - cattolico di origine irlandese, abilenel gestire i propri affari, ma pure ambasciatore statu-nitense in Gran Bretagna tra il 1938 e il 1940 - e RoseFrancio Fitzgerald - come il marito, arrivata dall’Irlan-da e figlia del sindaco di Boston - crebbero nove figli.Adesso ne resta una soltanto, Jean, classe 1928. In unclan così vasto, nello scorrere dei decenni sono accadu-te un’infinità di cose; e purtroppo non sono mancate al-

tre tragedie (in aggiuntaagli omicidi di John e diBob). Ted, innamoratodella politica non meno deidue fratelli con i quali ripo-sa ad Arlington, riuscì a farsi eleggere senatore del Mas-sachusetts nel 1962. Non ha più lasciato il seggio.Qualcuno lo ha ricordato come “il più grande senato-re della storia americana”. Dal fronte democratico,ma sempre pronto a dialogare con tutti, ha promossoleggi di ogni tipo, risultate fondamentali per il progres-so sociale e culturale degli statunitensi. Le nuove im-postazioni della sanità pubblica sono state al centro del-le sue premure sino ai suoi ultimi giorni. Dopo l’occa-sione sfumata nel 1969, Ted ritentò nel 1980 la corsaalla Casa Bianca. Ma erano cambiate troppe cose. Peròè stato lui, nel gennaio del 2008, a dare la spinta riso-lutiva a Barack Obama per superare Hillary Clinton eprendere poi il posto di George Bush. Addio “patriarca”, dunque. Ma la storia dei Kennedy puòriavviarsi. Ci sono rampolli pronti e in grado di raccoglie-re l’eredità politico-sociale dei loro padri, zii e nonni.

(G.C.)

Ted, l’ultimo dei KennedyTed Kennedy era soprannominato il ”leone”

per le sue coraggiose battaglie al Senato. Era l’ultimo patriarca di una dinastia, ma ci sono

figli e nipoti pronti a raccogliere l’eredità politica.

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8 / Ottobre 2009

Lo stesso studioso ha ag-giunto: “Sono emersinon lievi problemi di tra-

sparenza e di tutela dei dirittidelle popolazioni locali; accor-di di siffatto tipo possono an-che risultare positivi per lo svi-luppo dei Paesi africani arre-trati; ma essi vanno fatti concriteri di equità”.Anche l’International FoodPolicy Research Institute (Ifpri)di Washington ed una orga-nizzazione non governativa(Ong) catalana (denominataGrain) si sono impegnati -ciascuno su linee proprie - perun approfondimento dellagrossa questione che sta sem-pre più venendo a galla. Dalleindagini di questi due enti èscaturito che Corea del Sud,Cina, Arabia Saudita edEmirati Arabi Uniti ormai giàcontrollano in zone depressedell’Africa, dell’Asia e del-l’America Latina superfici pa-ri all’intero territorio austria-co. In particolare nel Sudan,dove, con un Programmamondiale si sta cercando di ri-solvere l’annosa e tragica si-tuazione di tre milioni di pro-fughi del Darfur, sono statiavviati negoziati con i quali,con l’obiettivo di attirare in-vestimenti per un miliardo didollari, il governo di Kartoumè parso propenso ad appaltaread altri Paesi - Paesi ricchi -l’utilizzo di oltre un milionedi ettari di terreni.A far scattare l’attenzionedegli osservatori sul fenome-no in atto è stato il tentativo- poi non andato in porto -dei sudcoreani del Daewoo

Logistics di avere la disponibi-lità (praticamente a titologratuito) di un milione e tre-centomila ettari di terra nelMadagascar. Nel venire allaluce, i termini del ventilatopatto non solo hanno pro-dotto uno sconquasso politi-co ai vertici del paese africa-no, ma hanno fatto scattarel’allarme tra le forze politico-sociali più sensibili ai bisognilocali di diversi Stati delcontinente nero: è accadutoin Uganda, nello Zambia, inTanzania, nel Kenia e altro-ve. Il fermento si è diffusograzie anche ai più modernimezzi di comunicazione, acominciare da Internet. I piùquotati mass media interna-

zionali, ovviamente, nonhanno potuto attivarsi. Puretutto questo sicuramente hacontribuito a far nascere tra igovernanti del Giappone l’i-dea di proporre già nell’ambi-to del G8 di luglio in Italia,all’Aquila, un “codice etico”di portata mondiale volto afar sì che certi tipi d’investi-menti sui terreni dei Paesipiù poveri non si risolvano atotale vantaggio - per l’enne-sima volta - dei soli Paesi ric-chi, ma diventino strumentie occasioni per aiutare anchele nazioni finora rimaste insituazioni precarie, per nondire di peggio, ad avviarsiverso un futuro migliore, invirtù della messa a frutto dirisorse di loro… naturale eprimaria appartenenza.Nelle scorse settimane su di-verse riviste è apparsa unacartina dell’Africa con l’in-dicazione delle zone piùesposte alla nuova, “moder-na” ondata di colonizzazionemessasi in movimento.L’auspicio, a questo punto,non può essere che uno: chenelle stesse aree fiorisca in-vece una vera e profonda,genuina cooperazione tra iPaesi ricchi - che hanno loroobiettivi di ulteriore crescita- e i Paesi poveri - i quali alcontrario hanno ancoraenormi bisogni basilari dasoddisfare -, così che si con-cretizzi quel “progresso globa-le” o globalizzazione positiva,della quale molti continua-mente trattano, ma che nonriesce mai a mettersi davveroin marcia.

Predoni all’attaccodei Paesi più miseri

È partita una moderna offensiva di nuovi colonizzatori

di Gino Carrara

L’11 gennaio del 1951 in Italia venne varatauna riforma fiscale studiata dal docenteuniversitario valtellinese (di Morbegno)

Ezio Vanoni, che da circa tre anni era ministrodelle Finanze nei governi presieduti da Alcide DeGasperi. Pure a quel tempo la mano del fisco nonera leggera: su un reddito mensile di 25 mila lireprelevava 10.500 lire; su un reddito mensile di100 mila lire prelevava 45 mila lire; su un redditoannuo di cento milioni, ben 91 sarebbero dovutifinire nelle casse dello Stato. Il risultato di siffattasituazione era che quasi tutti coloro che ne aveva-no la possibilità cercavano di… eludere le tasseanche se lo Stato faceva… l’inquisitore. La leggefirmata da Ezio Vanoni venne varata sulla base diquesta premessa-compromesso: nei riguardi dei cit-

tadini che ogni anno, su un apposito modulo - la“denuncia Vanoni”, antenata della attuale di-chiarazione dei redditi -, indicheranno corretta-mente e onestamente tutti i loro guadagni, lo Statodiminuirà sensibilmente la propria pressione. Difatto non si ottenne quella equità di trattamentoche era nei progetti: prese infatti già allora a deli-nearsi la situazione poi in gran parte rimasta neidecenni seguenti; situazione che vede i percettori direddito fisso pagare i tributi fino all’ultimo centesi-mo dovuto e i percettori di un reddito difficile dadeterminare con esattezza trovare mille vie per …pagare, abbastanza spesso, meno del dovuto o ad-dirittura niente. La data della scadenza del tempoutile per la presentazione di quella che fu la primadichiarazione dei redditi da parte dei cittadini ita-

liani venne fissata nel 10 ottobre 1951.Complessivamente arrivarono 3.932.786 denun-ce, delle quali 3.756.773 firmate da singoli citta-dini e 176.013 sottoscritte da ditte collettive o so-cietà. Dall’analisi dei dati contenuti in quelle“Vanoni” saltarono fuori non poche sorprese: soloun italiano ammise di aver guadagnato più di 200milioni in un anno; quattro scrissero di aver avutoun reddito superiore ai 100 milioni; venti disserodi aver superato i 50 milioni, 97 i venticinque mi-lioni, 644 i dieci milioni; i più dichiararono di ave-re avuto in un anno, al netto delle detrazioni, en-trate tra le 200 mila e le 250 mila lire.Agli inizi degli Anni Cinquanta del Novecento i gior-nali quotidiani a quattro pagine costavano in Italia 20lire, oppure 25 lire se di pagine ne avevano sei.

Quando nacque la riforma Vanoni nel 1951

Secondo alcuni - come Jacques Diouff, diret-tore della Fao, organismo delle Nazioni Uni-te - c’è il rischio di un neocolonialismo

avanzato; altri parlano di “sconsiderata razzia” da-gli effetti che potrebbero risultare incontrollabili.In concreto: mentre parecchi Paesi progrediti sistanno adoperando in direzioni diverse per favori-re lo sviluppo delle aree più povere e depresse delnostro pianeta, altri Paesi, non meno dotati dimezzi, hanno cominciato a dare l’assalto ai terri-tori del Terzo/Quarto Mondo per sfruttarli a pro-prio vantaggio, lasciando di fatto alle popolazionilocali l’unico tornaconto: la possibilità di un la-

voro continuo, ma non adeguatamente pagato. Inquesta propensione, i bene informati dicono chestanno in prima fila la Cina, l’Arabia Saudita, gliEmirati Arabi, la Libia, la Corea del Sud; al paridi altri, per ora meno intensamente attivi, questiStati cercano di ricavare dalla coltivazione di areealtrui prodotti alimentari e non, che non riesconoa procurarsi nelle quantità adeguate alle proprieesigenze entro i loro confini.Un rapporto redatto dall’International institutefor environment and development (Iied) in colla-borazione con la Fao e con l’Ifad (ente purequesto legato all’Onu) segnala, facendo leva

sull’esito di accurate rilevazioni, che in Etiopia,Ghana, Mali, Madagascar e Sudan dal 2004 inqua, sono stati lasciati ad investitori stranieri2,5 milioni di ettari di terreni; in pratica unazona ampia quanto la metà di tutte le estensio-ni coltivate in Gran Bretagna. Uno dei ricerca-tori dell’Iied ha rimarcato che molti dei con-tratti esaminati riguardanti le operazioni messea segno nei cinque Paesi citati “sono lacunosisulle percentuali di prodotti che possono essereesportati (dagli stessi cinque Paesi, ad opera degliinvestitori esterni) e alla fin fine lasciano mano li-bera agli investitori stranieri”.

Il rischio di una sconsiderata razzia

La povertà e la miseria affliggonooltre un miliardo di esseri umani.La fame continua a farla da padrona e a imporre situazionidi sfruttamento e di schiavitù che umiliano la dignità umana.Foto Jo Locatelli

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9 / Ottobre 2009

Nel contesto del sempre più vertigi-noso football-business, ormai sal-damente radicatosi nei tempi che

corrono, hanno fatto sensazione ed alimen-tato commenti di ogni genere le astronomi-che somme sborsate, all’avvio del suo “mer-cato” di rinnovamento, dal Real Madridper legare ai propri colori l’asso di origineportoghese Cristiano Ronaldo (prelevatodal Manchester United) e il brasiliano Ric-cardo Kakà (strappato al Milan). Oltre chesulla cifra complessivamente investita nellaacquisizione dei loro cartellini (circa 165milioni di euro), il tam tam si è soffermatosui trattamenti economici che il blasonatis-simo club iberico ha assicurato a ciascuno deisuoi due nuovi superalfieri: grazie alle mol-teplici voci dell’articolato contratto sotto-scritto, l’atleta lusitano intascherà ogni an-no, secondo i bene informati in materia,tredici milioni di euro netti; dal canto suoil calciatore sudamericano ne incamererànove (milioni di euro, netti) ogni anno.

Nell’imperversare delle discussioni sulla“accettabilità” o meno (alla luce di de-terminati principi e parametri etico-socia-li) di siffatti compensi, qualche commen-tatore non si è trattenuto dal far presen-te che con meno della metà della cifra ched’ora in avanti il Real Madrid darà a Cri-stiano Ronaldo, ossia circa sei milioni dieuro, nell’Amazzonia brasiliana (in unavasta area, dunque, del Paese di prove-nienza di Riccardo Kakà) è stata attuatabuona parte del “Programma fuochi” vol-to a bloccare il continuo proliferare di spa-ventosi deleteri incendi: dall’anno 2000in qua, infatti, sono state fatte rientrarepessime abitudini dei contadini locali (co-me quella di “pulire” i terreni appiccan-do fiamme alla vegetazione), sono statesalvate enormi foreste (insieme ai villag-gi ad esse vicini) e si sono persino creaticospicui cordoni di piante ignifughe.Lo spunto per un richiamo del controva-lore socio-ambientale o politico-sociale o

socio-culturale per il Terzo/QuartoMondo, potenzialmente insito nei “fiumidi denaro” che vengono applicati ai livel-li più alti dello sport-business (dal calcioall’automobilismo, a tante altre specialità),dilagante nel cosiddetto mondo progredi-to (in particolare in alcuni dei suoi Paesipiù ricchi), è venuto dalla sfera stessa del-l’agonismo. Durante le tre settimane del-l’edizione di quest’anno (svoltasi nel me-se di maggio) del Giro ciclistico d’Italia -edizione che, con variegate proposte, hacelebrato il secolo dalla nascita della po-polarissima manifestazione -, la “Gazzettadello sport” (ente organizzatore dellacompetizione tramite uno specifico ramo)ha varato una inconsueta iniziativa. Par-tendo dalla prassi che spesso, quando iltraguardo di una corsa non è posto in vet-ta ad un’ardua salita, vede tutti i pedala-tori di un team mobilitarsi nel “fare tre-no” per favorire lo sprint vincente di unproprio compagno, il giornale ha rimar-

cato che anche nella vita quotidiana, neirapporti tra gli individui ma specialmen-te tra i popoli, è fondamentale mettersi in-sieme, darsi una mano, unire le forze invista di un obiettivo edificante per tutti;e per concretizzare efficacemente il sensodella sua sollecitazione e dimostrarne lafondatezza, la “rosea”, ogni giorno (dal9 maggio al 1° giugno) ha ricavato nellesue pagine, zeppe di note su eventi ago-nistici, lo spazio per una piccola rubricamolto eloquentemente intitolata: “Oggi ti-riamo la volata a …”. Con essa quoti-dianamente ha focalizzato l’attenzione deisuoi lettori, naturalmente tutti sportivi, oquasi, non su questo o su quel pedalato-re, più o meno prossimo ad un exploit, ma- di volta in volta - su uno dei progetti chela Cooperazione italiana allo sviluppo (di-ramazione del Ministero degli Esteri diRoma) sta attuando oppure ha già realiz-zato in una delle infinite zone arretrate edisastrate del nostro pianeta.

Gli italiani che tiranovolate per gli ultimi

Con la cifra del Real per Kakà si potrebbe…“

Dall’Africa all’Americalatina e all’Asia, l’Italiasi prodiga con solida-

rietà in 45 Paesi per il migliora-mento di strutture materiali eorganizzative eventualmente giàesistenti, contro la mortalità in-fantile e delle neomamme, con-tro la malaria, contro la tuber-colosi, contro l’Aids. Sulla basedi un altro progetto di vasta por-tata, già dagli anni ’80 del ‘900,si sta lavorando per cercare disradicare la pratica delle muti-lazioni genitali femminili nel-l’età infantile nelle numerosearee del continente nero nellequali essa tuttora è notevolmen-te diffusa. Con il programma“Cuore per l’Africa”, invece, sivogliono istituire almeno altriquindici Centri cardiologici ecardiochirurgici completi da ag-giungere ai soli cinque attual-mente funzionanti in un conti-nente che, ogni anno, registracentomila nuovi casi di bambinicon gravi cardiopatie congeni-te.Oltre che della terapia, ci sipreoccupa, ovviamente, dellaprevenzione delle malattie:“Cinema-Arena” è la denomina-zione scelta per carovane che sispostano incessantemente, perfare educazione sanitaria e persensibilizzare sull’importanzadelle vaccinazioni, avvalendo-si, appunto, delle proiezioni difilm e di documentari.Si sa quello che sosteneva spes-so Muhammad Yunus: “La gen-te povera è gente bonsai. Nei semidi queste persone non c’è niente dinegativo: semplicemente la societànon ha mai concesso loro una piat-taforma per crescere”. Da tale af-fermazione ci si è mossi con pro-grammi di microfinanza tesi, at-traverso crediti concessi in misu-re assai contenute, ad aiutarecontadini, allevatori, artigiani,piccoli commercianti e persinomadri di famiglia dell’India odell’Argentina, del Senegal op-pure del Madagascar, a darsi pro-spettive per il futuro con il pro-prio spirito di intraprendenza.Spesso gli interventi della Coo-perazione italiana allo sviluppo

hanno affrontato o affrontanopure problemi specifici di singo-le realtà. Nella valle di Keita, nelNiger (Africa occidentale), nelcontrastare le conseguenze di unainterminabile carestia si è anchebloccata la desertificazione atti-vando ventimila donne in lavo-ri confacenti e alla loro portata.In circa duecento villaggi delRajasthan, in India, in cinqueanni, sono stati costruiti impian-ti idrici evitando così alle popo-lazioni i disagi e gli inconvenien-ti connessi alla necessità diuna… permanente caccia all’ac-qua. A Bumbuna, a circa trecen-to chilometri da Freetown, concantieri rimasti aperti circa ven-

ti anni, si è costruita sul fiumeSeli una maxidiga per garantireenergia elettrica a più della metàdei cinque milioni e mezzo di abi-tanti della Sierra Leone final-mente uscita dalla lunghissima“guerra dei diamanti”, nella qua-le vennero schierati in gran nu-mero anche bambini-soldati.Nel medesimo Paese africano,che può contare su non più dicento medici per le cure alla pro-pria gente, è stato creato unCentro chirurgico ove si alterna-no volontariamente, con turni ditre mesi, specialisti italiani. Conl’adesione al programma interna-zionale “Ribeira Azul” si è offer-ta la sistemazione in centinaia di

nuove accoglienti case a famiglieche prima stavano in palafitte so-pra acque stagnanti e colme dispazzatura nella zona di NovosAlagados, dalle parti di Salvadorde Bahia, in Brasile. Nel Mo-zambico (dove il 44 per centodegli abitanti ha meno di quin-dici anni, più della metà deibambini va al lavoro anziché ascuola e prestissimo comincianoa consumare droga ed a bere al-colici) è stato lanciato il proget-to “Bici, sport e salute” per ten-tare di coinvolgere le nuove ge-nerazioni in corretti stili di vita.A Huà, nel Vietnam, nel ricor-do di un medico italiano colà di-stintosi per la sua dedizione, si è

costruito un Centro di ricerca ediagnosi delle malattie respirato-rie. Con lo slogan “Includendo vi-ta, realizzando sogni” nellaRepubblica del Salvador(America centrale) ci si sta im-pegnando sul piano educativo epedagogico per il recupero e ilreinserimento sociale dei bam-bini disabili finora emarginatinelle loro stesse famiglie.La Cooperazione italiana allosviluppo, quando ne ravvisal’opportunità e ne ha la possibi-lità, non esita a spostare le sueattenzioni dal terreno socio-umanitario, sanitario ed am-bientale su quello strettamenteculturale. In questo ambito rien-trano, per esempio, i finanzia-menti accordati al recupero-re-stauro dei grandi mosaici del pe-riodo bizantino (quarto/quintosecolo circa dopo Cristo) scoper-ti verso la metà del ‘900 in lo-calità del Nord della Siria ed oraesposti nella Galleria dellaCittadella di Damasco, e quellierogati a sostegno delle attivitàper la salvaguardia delle “biblio-teche del deserto”, ossia delle de-cine di migliaia di manoscritti(su tematiche religiose, scienti-fiche, filosofiche, storiche) tro-vati nella Mauritania ed estre-mamente preziosi per la cono-scenza delle civiltà del Sahara edel Sahel in epoche assai remo-te. È risaputo che, praticamente,sin da subito dopo l’epilogo del-la guerra divampata tra il 1991e il 1995, tecnici e soldati ita-liani si sono mobilitati nellaBosnia Erzegovina non solonello sminamento, ma anchenella rivalorizzazione delle areeintensamente investite da quelconflitto.

Enzo Dossico

Nell’ambito della Cooperazione internazionaleallo sviluppo, con attività del Ministero degli

Esteri, attraverso anche il coinvolgimento di entipubblici e privati, ma specialmente delle Ong,

numerosi nostri compatrioti portano avanti

progetti di basilare importanza nelle aree piùpovere ed arretrate del mondo. Le iniziativespaziano dal campo socio-sanitario al settore

ambientale, dal sostegno economico delle mini-imprese alla salvaguardia della cultura

Foto Jo Locatelli

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10 / Ottobre 2009

➣ dalla prima

Qui, famiglia e religione hanno piùimportanza della legge, perchéper tanti anni, la legge non esiste-

va. Inerzia e corruzione sono sempre sta-ti i limiti della lotta contro la pirateria nel-la regione. Il villaggio ha contato per annisull’omertà generale, spesso perché i ladridel mare usavano i soldi per aiutare la co-munità povera, costruendo scuole e mo-schee. Ancora oggi nessuno parla delle at-tività notturne di amici e famigliari, anchese molte cose sono cambiate. L’isola si èsviluppata: offre più possibilità di lavoro edi guadagno, conta su migliori infrastrut-ture ed anche su una nuova e più efficien-te autorità. La media annuale degli attac-chi dei pirati è scesa considerevolmente gra-zie all’impegno e alle risorse dei governi.Nicholas Teo, vice direttore di RecAAP,un’agenzia che opera a Singapore controi crimini marittimi, spiega che nessun pae-se può risolvere la situazione da solo: “Ab-biamo adottato un approccio multina-zionale, lavoriamo con 16 paesi, con-dividiamo informazioni, lavoriamo sul-la presa di coscienza, sulla prontezza neldare l’allarme, sulle risorse e le lacunedei nostri vicini e ci aiutiamo a vicen-da. Tra il 2003 e il 2007 ilnumero degli incidenti nel-lo stretto di Malacca è scesodi 2/3”. Più pattuglie, più satel-liti sono stati introdotti tre annifa quando lungo lo stretto i pi-rati intensificarono gli assaltimunendosi di armi automati-che. Misure che non potevanoaspettare visto che nel corridoiomarittimo di 937 km transitanoil 40% del commercio mondia-le e il 50% dell’energia mon-diale. Un passaggio chiave edanche il più breve che unisce itre paesi più popolosi del mon-do: Cina, India e Indonesia.Yatim ci spiega che normalmen-

te ci volevano 10 minuti per raggiungerel’obiettivo al largo di Singapore e otto pira-ti. Di solito sceglievano barche medio-pic-cole, provenienti da Singapore, dagli Sta-ti Uniti, dal Giappone. Quattro uominirimanevano in mare, sulla barca a vigila-re, altri quattro si arrampicavano sull’im-barcazione: “Le informazioni ci veniva-no date da amici che lavoravano sullenavi. Con i dettagli degli spostamenti edell’imbarcazione, ci si poteva prepa-rare”. Yatim e i suoi colleghi ci mostrano ipassamontagna che usavano per coprirsi ilvolto ed anche come preparavano la cordache serviva per legare il capitano una vol-ta saliti a bordo: “Il macete veniva usa-to per autodifesa, se necessario. Nonc’era mai l’intenzione di ferire qualcu-no, anzi si usava la parte meno affila-ta”. L’ex pirata ci spiega che del resto nonpotevano affrontare l’equipaggio comple-tamente disarmati. Per darsi ulteriore co-raggio i pirati avevano l’abitudine di lavar-si il viso e bagnare la barca con l’acquabenedetta da uno sciamano che, credeva-no, li rendeva invisibili e in grado di cam-minare sull’acqua. Rubare lo stipendio delpersonale a bordo era il loro unico obietti-vo e quando le cose andavano bene riu-scivano a tornare a casa con 15-20 mila

dollari americani e qualche cellulare. Perquesto Yatim si sente diverso dai pirati vi-sti in Somalia, che usano le armi e spessosequestrano le navi per chiedere un riscat-to. Loro non lo hanno mai fatto. Ma EricFrecon, un ricercatore francese che hatrascorso 6 mesi con i pirati della zona,sostiene che la natura dei pirati è la stessain tutto il mondo: “In genere si trattasempre di poveracci, disoccupati, checercano di farsi qualche soldo. Nel ca-so dell’Indonesia si tratta di personeche vedono il miracolo economico del-la vicina Singapore e vorrebbero parte-ciparvi, ma non possono, e quindi at-taccano le navi”. Il contrasto con Sin-gapore, la città stato del sud est asiaticopresa d’esempio da molti paesi della regio-ne, non viene mai menzionato da Yatim,ma è sicuramente evidente. I grattacieliluccicanti si vedono dalla piccola isola in-donesiana, dove la maggior parte della po-polazione vive ancora in piccole case dilegno sull’acqua senza gabinetto. Povertàe disoccupazione hanno sempre alimenta-to la pirateria, non si tratta quindi di ideo-logia, ma di economia e, secondo Frecon,soltanto problemi socio-economici potreb-bero spingere molti “pirati in pensione”a tornare all’attacco, anche se, dice, i go-

verni hanno interesse a far-ne un’emergenza pressan-te: “Credo che si possa di-re che molti stati mani-polano la minaccia percercare di controllare levie commerciali. È capi-tato prima nello stretto diMalacca, quando gli Sta-ti Uniti colsero l’occasio-ne per dire — attenzionei pirati potrebbero allear-si con i terroristi — e inrealtà ambivano a posizio-narsi nella regione percontrollare i flussi maritti-mi verso la Cina”.

Loretta Dalpozzo

Una vita da pirati

La definiscono il prossi-mo Vietnam per il po-tenziale dei suoi giova-

ni, per l’energia che cresce esprigiona e per le opportunitàche offre, ancora tutte dascoprire. La Cambogia, terradi templi e monaci buddisti,di conflitti e povertà, potreb-be non amare il paragone conil rivale di sempre, ma allostesso tempo i successi eco-nomici del Vietnam spronanoil Paese a fare sempre meglio.Per questo la Cambogia nonsi lascia sfuggire la possibilitàdi presentare il suo lato im-prenditoriale alle innumere-voli delegazioni che visitanoil Paese; gruppi israeliani,americani, francesi, svizzeri.

da Phnom PenhLORETTA DALPOZZO

L’entusiasmo attorno alVietnam ha raggiunto il suoapice nel 2007 con l’adesionedel Paese all’organizzazionemondiale del commercio. Mal-grado la recessione globale, cheha colpito anche l’Asia, e mal-grado il fatto che molti inve-stitori si siano ritirati dalVietnam quando la recessioneha cominciato a farsi sentire,gli esperti credono che il Paesedi Ho Chi Minh sarà una del-le prime economie a riprender-si e il suo potenziale rimane in-variato. Ma in tempo di crisialtri Paesi, come la Cambogia,suscitano l’interesse degli inve-stitori che cercano opportunitàsostenibili lontane dai merca-ti occidentali.Lo sa bene Pierre Tami che inCambogia vive e lavora da 16anni. Tami accoglie le varie de-legazioni economiche in veste didirettore della Camera di com-mercio cambogiana (Inter-national business club of Cam-bogia), anche se lui è prima ditutto Presidente di HagarInternational, un’organizzazioneumanitaria finanziata principal-mente dalle donazioni dell’asso-ciazione della Svizzera italianaABBA. In oltre dieci anni di im-pegno, Hagar ha dato rifugio apiù di 100 mila donne e bambi-ni, abbandonati e maltrattati.Negli anni, il centro ha svilup-pato attività di business sociale,offrendo formazione e impiego aimeno fortunati grazie alla produ-zione di latte di Soja (HagarSoja), alla fabbricazione di ac-cessori in seta (Hagar Design) eai pasti per aziende ed alberghi(Hagar Catering). Per Tami portare nuovi investi-menti in Cambogia significacreare posti di lavoro per ledonne del centro e, in genera-le, per i più vulnerabili che sen-za impiego sono facilmenteesposti agli abusi. Tami si è det-to incoraggiato dalle recenti vi-site di delegazioni estere, comequella svizzera: “Per anni ho cer-cato di spingere diversi paesi oc-cidentali a guardare al laCambogia da un’altra prospetti-va. Non è più soltanto una desti-nazione per l’aiuto umanitario, èanche un Paese con cui si può

commerciare e dove si può inve-stire” dice. “Conosciamo bene ilPaese, abbiamo relazioni strettecon il governo e sebbene laCambogia non sia il paradiso de-gli investimenti, è competitiva epuò contare su una stabilità poli-tica, che manca in paesi vicini co-me la Thailandia”.

Per molti in Occidente, laCambogia rimane unPaese povero, dipendente

dagli aiuti, ferito dal regime ul-tra-maoista di Pol Pot che, ne-gli anni settanta, decimò la suapopolazione. Ma nell’anno incui i processi contro i leadersancora in vita dei Khmer rossi

hanno finalmente preso avvio,la Cambogia è determinata a la-sciarsi alle spalle il suo passato. Singapore, Cina, Corea e Ma-laysia hanno già investito mas-sicciamente, incoraggiati dauna crescita pari al 5% malgra-do la recessione globale, e da-gli incentivi fiscali offerti alleditte straniere. I punti franchi,il basso costo della terra e del-la manodopera, le risorse natu-rali non ancora sfruttate, lespiagge aperte allo sviluppo delturismo di lusso, sono alcuni deivantaggi. Se da una partePhnom Penh pianifica gratta-cieli, almeno tre, ed ambisce adaprire la borsa valori, dall’altra,

in periferia, si ara la terra conil bufalo e un terzo della po-polazione vive ancora con me-no di un dollaro al giorno. Perquesto molti investitori si dico-no cautamente positivi. È chia-ro che la Cambogia ha ancoramolta strada da fare per risolve-re i suoi problemi, ma chi visi-ta il Paese anche soltanto peralcuni giorni, si rende contodella speranza e del cambia-mento. La Cambogia gode diuna popolazione intellettual-mente avanzata ed aperta, so-prattutto se paragonata ad altripaesi poveri in Africa. Molti deisuoi giovani studiano all’estero,conoscono le lingue straniere e

vogliono contribuire con urgen-za allo sviluppo. Ma quando sidiscute di affari in Cambogia,non si può non affrontare laquestione della corruzione, unproblema che del resto non èestraneo nemmeno al Vietnam,dove del resto non esiste anco-ra l’economia di mercato comela si conosce in Occidente. Ilgoverno di Hanoi è presentedappertutto, anche nelle impre-se private. In Cambogia inve-ce, non sempre le leggi vengo-no implementate e il fatto chei tribunali non siano davveroindipendenti scoraggia spessogli investitori stranieri, chenon vedono prevalere il diritto.

Investire in Cambogia, il prossimo Vietnam?Se il Vietnam rimane una destinazione interessante per le multinazionali, la Cambogia è attraente per le imprese medio-piccole, soprattutto nell’eco-turismo e nell’agricoltura.

Come avvenivano gli attacchinello stretto di Malacca,

un’isola indonesiana con un corridoio marittimo

dove transitano il 40% del commercio mondiale e il 50% dell’energia.

“Ci volevano 10 minutiper ragiungere l’obiettivo

e racimolare 15-20 mila dollari”

L’analisi di Frecon: moltistati manipolano

la minaccia dei pirati per padroneggiare le vie commerciali. L’obiettivo di controllare i flussi

marittimi verso la Cina.Il sogno e l’aspirazione a ripetere il miracolo

economico e il modello divita della vicina Singapore

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11 / Ottobre 2009

“Se il mondo fosse gover-nato da donne sareb-be migliore, più sicuro

e più produttivo”: lo ha detto El-len Johnson Sirleaf, che nel tar-do autunno del 2005 riuscì adribblare l’ex calciatore del Mi-lan George Weah, suo princi-pale antagonista nelle elezioni,diventando così, dalla metà digennaio del 2006, presidentessadella Liberia in un evento sen-za precedenti in Africa.La pensa più o meno come l’exfunzionaria della Banca mon-diale, buttatasi con successonella politica, Hillary Clinton,ora mobilitata come Segretariadi Stato degli Stati Uniti dopoaver tentato invano di ottene-re le chiavi della Casa Bianca.“La cosiddetta questione femmi-nile è una questione di stabilità,di sicurezza: dove alle donne so-no negati pari diritti, l’instabilitàfunge da incubatrice per l’estremi-smo”. A conclusione di un’am-pia indagine, condotta nelle zo-ne più arretrate del nostro pia-neta, e documentata in un suomagazine, il “New York Times”,dal canto proprio, ha scritto:“Ben istruite ed aiutate a cresce-re imprese, le donne dei Paesi po-veri possono portare avanti le lo-ro Nazioni oltre che le loro fami-glie”. In altri termini, la batta-glia per la crescita del Terzo edel Quarto Mondo può esserepiù agevolmente vinta coinvol-gendo appieno, in ogni ambi-to, il genio muliebre. Ma, nel-l’epoca che corre, ci sono lecondizioni e, soprattutto, esisteuna “volontà politica” in tal sen-so? Dall’inchiesta del prestigio-so giornale che prende nomedalla Grande Mela emerge chein troppe parti del globo terre-stre l’“altra metà del cielo” vie-ne snobbata, angustiata, bi-strattata, avvilita, tremenda-mente umiliata. Il riconosci-mento definitivo ed il rispettopieno dei diritti delle donne -asseriscono ormai molti deileaders più illuminati - dovreb-bero essere la “grande sfida” del-l’umanità in questo XXI seco-lo, come nel secolo XIX sipuntò all’eliminazione dellaschiavitù e nel secolo XX ven-nero combattuti tenacemente itotalitarismi.

Poco oltre la metà del secoloXIX il filosofo empirista edumanitarista John Stuart Millcon il saggio “The subjection ofwomen” ovvero “La schiavità del-le donne”, edito nel 1869, offrìuna base assai consistente alle ri-vendicazioni femminili chesempre più stavano non solorinvigorendosi, ma pure artico-landosi sul piano economico(per un’ammissione al lavoro

senza discriminazioni) e sul pia-no giuridico-politico (per unaparità nei diritti civili e nell’ac-cesso all’elettorato sia attivo siapassivo). Emmeline Pankhursrcon la “Women’s social and poli-tical union”, fondata nel 1903 inInghilterra, e le suffragette o suf-fragiste capitanate da MillicentGarret Fawcett connotarono,con le loro iniziative, alcune

delle fasi salienti della “marcia”delle donne verso la partecipa-zione al voto politico-ammini-strativo nei rispettivi Paesi;marcia che toccò il traguardo,fra il 1906 e il 1915, anche inFinlandia, in Norvegia, inDanimarca, e nel 1917 inRussia, nel 1920 negli StatiUniti e successivamente un po-co ovunque. In Italia il dirittodelle donne al voto scattò nel

1945, dopo la cadutadel regime fascista.

Con obiettivinuovi, più va-sti, e con mo-

dalità diverse, il mo-vimento femminista siriaccese vistosamenteall’indomani della se-conda guerra mondia-le, in particolare apartire dagli anni ’60del ’900. Nel segno diuna via via più mar-cata “emancipazione”o “liberazione” delladonna esso dilagò da-gli Stati Uniti all’Eu-ropa; e poi altrove.Però, ancora ai nostrigiorni, in parecchiearee dell’Asia meri-

dionale, per esempio, resiste unafortissima disparità nell’alfabe-tizzazione tra le donne e gli uo-mini, mentre tantissime bam-bine sono praticamente costret-te in una sorta di schiavitù en-tro le loro stesse famiglie o co-munità; in Cina - altro esem-pio - la politica del figlio unicoha alimentato infanticidi, abor-ti, abbandoni specialmente di

neonate; nel Pakistan non sicontano i matrimoni “forzati”con “spose” che sono fanciullequasi in tenera età; nell’Afgha-nistan continuano ad essere ap-plicate e vengono persino in-trodotte ex novo leggi di stam-po tribale; in Egitto, Sudan,Etiopia, Somalia, Eritrea per-mane diffusissima la prassi del-le mutilazioni femminili; in al-tri Paesi del continente neronon sono infrequenti gli stuprietnici. E intanto, in proporzio-ni enormi, in tutte le terre quicitate e altrove, sussistono purei problemi, non meno rilevantidi quelli accennati, della attua-zione di un’equa presenza delladonna nella società in generale,delle sue possibilità di adeguataoccupazione e remunerazione,della tutela della sua salute. InIrlanda una donna su 47.000 ri-schia di morire durante un par-to; negli Stati Uniti, una su4.800; nel Niger una su sette.

Nell’Arabia Saudita -Paese indubbiamentenon collocabile tra

quelli “poveri” oppure “arretra-ti” quanto a progresso tecnico-economico - le donne non han-no ancora il diritto di guidareun autoveicolo; nelle universitàdel medesimo Paese, esse sonoin netta maggioranza (pari a cir-ca il 70 per cento degli studen-ti); ma tra gli “impiegati” negliuffici e negli stabilimenti essenon superano il cinque per cen-to del totale del personale. InIndia i maschietti (da uno acinque anni) hanno il doppiodelle chances delle loro coeta-nee femminucce di riuscire a…diventare grandi. Non di radotra gli studiosi si sente, anchein questi nostri tempi, parlaredi “genericidio” nel senso di unapratica negazione alle donne,in certi Paesi, per cause molte-plici, del diritto di vivere sinoin fondo la propria naturale esi-stenza così come, quel diritto,l’hanno invece gli uomini, purtra le mille insidie e traversie,purtroppo anche adesso, “tipi-che” delle terre rimaste… altempo che fu. Nel secolo cheabbiamo appena iniziato, e alpiù presto, si arriverà ad elimi-nare questa doppia ingiustizia(che colpisce le donne)?

Già sul finire del secoloXVIII si cominciò a di-scutere ufficialmente di

“diritti delle donne”. Al momen-to dello scoppio della Rivolu-zione francese qualcuno mise incircolazione anche un “Cahierdes doléances des femmes”. Olym-pe De Georges, pioniera asso-luta (o quasi) del femminismo,dopo aver pubblicato un ro-manzo con le tesi che le stava-no a cuore o dopo es-sersi attorniata da pic-coli gruppi di sosteni-trici, fece arrivare suitavoli della assembleacostituente pariginaaddirittura la propostadi una “Déclaration desdroite des femmes”. I“deputati rivoluzionari”ne discussero a lungoe accanitamente. Ro-bespierre si collocò trai contrari al varo deldocumento. Nel 1793ordinò ad Olympe DeGeorges di smetterla,di starsene calma e zit-ta insieme a tutte lesue amiche più o me-no fanatiche ammira-trici del progetto cheella portava avanti. SiccomeOlympe De Georges non gli ob-bediva e insisteva con le sue ri-chieste, Roberspierre la spedìsotto la ghigliottina, convintodi risolvere il problema. Ma sisbagliava. Movimenti analoghia quelli animati da Olympe DeGeorges stavano sviluppandosiin quegli stessi anni in Inghil-terra ed in Germania.

Con più poterealle DONNE…

Se il mondo fosse governato maggiormente da loro…

Secondo la presidente della Liberia,ma anche a giudizio di Hillary Clinton,

il nostro globo “sarebbe migliore, più sicuro e più produttivo”. Una “battaglia” iniziata

già all’epoca della Rivoluzione francese e che ha avuto i suoi momenti più significativi nel secolo XX.

Dalla conquista della partecipazione al votoalla rivendicazione della emancipazione

a tutto campo. Però ancora oggi in parecchiezone del pianeta, e in particolare dell’Asia

e dell’Africa, tante bambine si trovano di fatto in una situazione di schiavitù mentrele loro sorelle maggiori e le loro madri sono

esposte a soprusi e traversie indicibili

di Mario Collarini

Elen Johnson Sirleaf, presidente della Liberia Rigoberta Menchù, un’altra accelerazione per la dignità Il Nobel Aung San Suu Kyi imprigionata dal regime per paura

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12 / Ottobre 2009

“Nelle montagne clas-siche c’è un ordined’autorità. Qui c’è

sobillazione: ogni cima tenta dirompere i legami con le vicine; equando li tollera, nasce un capric-cio. Le rocce sono esseri ebbri, in-sofferenti, anarchici, tumultuosa-mente personali, ansiosamenteanelanti ad un segno svincolatodalla solidità del vero, pervase insommo grado di inquietudine, ditormento, di ardore, di eccitazione;esseri la cui passione predominasul raziocinio (…). Un paesaggioche è prima di ogni altra cosa un’il-lusione d’incanto”. Non è il ca-so di stare a chiedersi se anchequeste parole, scritte parecchiotempo fa da un escursionista,abbiano contribuito a far pro-clamare - da parte dell’Unesco -le Dolomiti “patrimonio natura-le dell’umanità”. Un auspicio intal senso correva sin dalla se-conda metà degli anni ’80 del’900. La proposta venne ufficial-mente concretizzata nel 1993 suiniziativa della associazioneMountain Wilderness. Ci sonovoluti quattro anni per appron-tare gli incartamenti. Nel cuoredella recente estate è giunto ilverdetto favorevole. Per la “fe-sta” dell’obiettivo centrato il 25agosto è arrivato ad Auronzoanche il presidente della Repub-blica, Giorgio Napolitano, ilquale ha colto l’occasione perribadire l’invito agli italiani asentirsi orgogliosi, tutti insieme,dal Nord al Sud, dei tesori delloro Paese ed a difenderli ade-guatamente. Le celebrazioni vo-lutamente sono state sobrie;qualche giorno prima, nei din-torni della località scelta comesede dell’evento, quattro perso-ne erano decedute precipitan-do con un elicottero duranteun’operazione di soccorso alpi-no.Il riconoscimento tanto sospi-rato, e finalmente giunto da unorganismo legato all’Onu, insie-me alle manifestazioni di com-piacimento ha avviato discus-sioni, fermenti, schermaglie divario genere.

Il comprensorio “nobilitato”e posto sotto speciale prote-zione comprende le zone

Pelmo - Croda dal Lago, Mar-molada, Pale di San Martino,Dolomiti friulane, Catinaccio,Dolomiti settentrionali, Puez-Odle, Rio delle Foglie, Brenta.Si sono levate voci per lamenta-re presunte discriminazioni esollecitare chiarimenti sull’e-sclusione di aree e vette eccel-lenti (del tipo Sassolungo, Sel-la, Tofane, Cristallo, Civetta).Entro la fine di quest’anno, opoco oltre, si dovrà dar vita al-la Fondazione per la “gestione”del prestigioso marchio ottenu-to, ossia per il coordinamentodi tutte le attività connesse al-l’incremento del turismo (valu-tato attorno al 20-30 per cen-to) che dovrebbe intervenire abreve (secondo previsioni det-tate da quanto, in casi analoghi,è capitato altrove). Come ver-ranno distribuiti i ruoli, i pote-ri entro la Fondazione?Il territorio diventato “patrimo-nio dell’umanità” abbraccia set-

tori di cinque province: Bolza-no, Trento, Pordenone, Udine,Belluno; a quest’ultima provin-cia (Belluno) appartiene la por-zione più vasta (41% del tota-le); statuti, leggi, normative (epersino gli idiomi) si differen-ziano notevolmente tra provin-cia e provincia; sarà possibileapprodare a una sintesi opera-tiva condivisa? Ecco l’interroga-tivo corso insistentemente (al-l’indomani dell’annuncio del ri-conoscimento dell’Unesco) in-sieme a quello concernente lasede della Fondazione: Cortinaè apparsa immediatamente lalocalità con maggiori chances.Ma hanno alzato la mano - cioèsi sono dette … disponibili - pu-re Bolzano, Trento, Agordo,Bressanone, Belluno, Tolmezzo,Auronzo, Pieve di Cadore…Non si sa se provocatoriamen-te o meno si è fatto avanti pu-re Erto, il piccolo paese che nel1963 venne investito in pienodalla frana (con quel che seguì)del Vajont e vide morire 318 deisuoi 1917 abitanti in quell’epo-ca. Con parole che parecchihanno condiviso, Luciano Pez-zin, il sindaco del borgo, ha os-servato: “Cortina non ha bisognodi un alone in più. Mi pare assur-do che chi ha già, abbia ancora dipiù. La scelta di Cortina (quale se-

de della Fondazione) svilirebbe lostesso riconoscimento dell’Onu.Noi invece rappresenteremmo lepiccole realtà e siamo anche unluogo emblematico: la tragedia cheabbiamo alle spalle è l’esempio diquello che accade quando l’uomolavora contro la natura”.

Spingendo nelle concretez-ze quotidiane il senso di al-cune delle considerazioni

del primo cittadino di Erto, unmontanaro, dal canto suo, ha ri-marcato: “Spero che grazie all’in-tervento dell’Unesco si metta pureun freno a chi privatizza l’acqua ea chi distrugge i greti dei torrentiper poter vendere la ghiaia a pesod’oro. Non ho nulla contro lamontagna di Serie A; ma è am-missibile che chi sta in serie B deb-ba farsi non di rado dieci chilome-tri per poter acquistare una coset-ta da nulla?”.Il nocciolo della “questione”che l’innalzamento delleDolomiti al rango di “patrimonionaturale dell’umanità” ha apertoe sta, a ben guardare, proprioqui: questione già presente datempo in tutti i centri di questotratto della catena alpina - maovviamente pure degli altri(tratti) - che maggiormente so-no stati raggiunti dallo svilupposocio-economico-culturale deidecenni più recenti; questionesostanzialmente riconducibilealla ricerca delle forme adatte afar coesistere e convivere l’“ani-ma” ambientalista: due “anime”normalmente più propense ascontrarsi che ad intendersi suuna rotta compartecipata. Conil marchio dell’Unesco, che hamesso su una scala più vasta,comprensoriale una “questione”sinora dibattuta, vissuta, in tan-te più o meno “piccole” situazio-ni locali, le Dolomiti, in sostan-za, si sono… trovate con una“parete” in più da affrontare di-rettamente: quella della propriamassima valorizzazione senzasnaturamenti del proprio am-biente, né minuscoli né vistosi.

Dolomitiuna parete in più

La chiusura della Val Gardena, dellaVal Badia e della Val di Fassa al traf-fico automobilistico privato, ogni

giorno dalle ore 9 alle ore 16: e questo perportare la gente a capire che “le monta-gne sono silenzio e tranquillità: esse nonvanno aggredite, non vanno girate tragas di scarico e suoni di clacson, ma vis-sute con lentezza”. Non ha usato mezzemisure o perifrasi dai vaghi contenutiReinhold Messner nel far proposte per il“nuovo corso” da instaurare nelle Dolo-miti dopo la qualifica loro attribuita di “pa-trimonio naturale dell’umanità”. Il “redegli ottomila”, orgoglioso di averne tra iprimi indicata l’importanza e di essere sta-to tra i più attivi nel cercare di ottenerlo,si è detto ovviamente felicissimo del rico-noscimento dato dall’Unesco a quelle che,come altoatesino, considera in maniera spe-ciale le “sue” montagne. Ma con estremaschiettezza Reinhold Messner ha parlatopure della “responsabilità” che “per lagente che vive nei luoghi ora tutelati”comporta la realizzazione del “sogno” alungo coltivato: “Questa eredità affidata-

ci - ha precisato lo scalatore - ci impegnadirettamente ad assumerci dei doverinei confronti di questo territorio. D’orain poi non saranno ammessi errori. Biso-gna tentar di riportare l’agricoltura inalta montagna. Senza la cultura dell’au-tosufficienza dei nostri contadini nonavremmo il fascino di queste valli e diqueste vette. È fondamentale non fram-mentare troppo le proprietà agricole”. Nei mesi scorsi colui che resta una “stel-la” ineguagliata dell’Alpinismo italiano halanciato in Germania, come preludio allapubblicazione pure in Italia entro l’anno,un suo nuovo libro: “Vi racconto - ha spie-gato - la mia vita dai 15 ai 25 anni, quan-do ero un rocciatore fanatico delle pa-reti verticali e consideravo il MonteBianco una… montagna piana”. Ed haaggiunto: “Fino a qualche tempo fa erainimmaginabile che io scrivessi paginedi… autocritica. E invece…”.Ormai sessantacinquenne, neomarito -“per far felici i figli, in particolare” - diSabine Eva Stehle, da venticinque anni suacompagna inseparabile, Reinhold Messner,

è stato invitato a pronunciarsi sullo stilli-cidio di disgrazie tra le cime registrato inquesti ultimi mesi. Forte delle personaliesperienze ha detto: “Eliminare gli inci-denti è impossibile. La montagna è di-versa dalla palestra. La montagna è sem-pre nuova, caotica e pericolosa. Basta di-strarsi un attimo o compiere il minimoerrore e lei ti punisce. Molti adesso si al-lenano nelle palestre, su pareti artificia-li. È una bella pratica, non si corrono pe-ricoli. Ma in montagna tutto è diverso;l’appiglio non è di cemento, il chiodonon è fisso, e può rompersi; l’abbiglia-mento è altra cosa; e poi devi sapere chead ogni passo può arrivarti un sasso intesta. La montagna va conquistata cen-timetro dopo centimetro”. A Castel Firmiano, in provincia diBolzano, l’alpinista ha inaugurato un al-tro “Messner Montain Museum”: ormaisono quattro quelli funzionanti e forse nel2010 sarà pronto anche il quinto. ReinholdMessner li ha pensati e li sta realizzando co-me “luoghi di incontro con la montagna,e con l’umanità che in montagna vive”.

Messner chiede silenzio e lentezza

di BRUNO DEL FRATE

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13 / Ottobre 2009

Intervista con LORENZO BRANDI

Le meravigliedella volta celeste

Guardare il cielo per rea-lizzare di essere partedi un universo immen-

so, infinito. Osservare le stel-le, i pianeti, sperare un giornodi scoprire qualcosa di nuovoe, perché no, riuscire a dare ilproprio nome a una stella o aun esopianeta. Nel mezzo ci so-no anni di studio, ricerche, not-ti trascorse incollati a un can-nocchiale. È la vita dell’astro-nomo, di chi ha fatto del cielola propria vita come quella diLorenzo Brandi, astronomo eastrofisico fiorentino, ricerca-tore esperto in didattica e co-municazione della scienza. Luicome altri ama guardare lonta-no, nel profondissimo cielo, nel-l’extra galattico, laddove ad og-gi si conoscono “solo” un mi-liardo di stelle, mentre sarebbe-ro 600 miliardi gli astri presen-ti, ma ancora sconosciuti. E perquesto anno dedicato all’astro-nomia si dice fiducioso in un ri-torno di sensibilità verso ciòche è al di là del cielo.

Come si è avvicinato a questamateria?È una domanda a cui non so-no ancora riuscito a dare una ri-sposta. Diciamo che ho segui-to una passione, una sorta diistinto che avevo sin da bam-bino. Mia mamma raccontache quando ero in carrozzina edancora non parlavo indicavo agesti il cielo perché magaritransitava la Luna o Venere.Ricordo che negli anni dellascuola materna dicevo a tuttiche una volta cresciuto sarei

andato all’Osservatorio Astro-nomico di Firenze. Arrivato a19 anni mi sono trovato difronte il bivio, Facoltà di Fisicao astronomia. Alla fine ho op-tato per Fisica ma non ho ab-bandonato il sogno così, dopola tesi, mi sono iscritto alla fa-coltà di Astronomia a Bologna.

Cosa l’affascina di più delmondo dell’astronomia?Senza scomodare Aristotele, ilsogno dell’uomo è di conosce-re. Volenti o nolenti abitiamol’Universo e scusate se vi sem-bra poco occuparci della no-stra casa. La voglia di conosce-re appartiene all’uomo, allasua natura. Per quanto mi ri-guarda, da sempre, ho volutoapprofondire il tema dell’a-stronomia per incrementare il

mio bagaglio di conoscenze.Mi sono specializzato sulprofondissimo cielo, sull’extragalattico. Diciamo che mipiace guardare lontano, lonta-nissimo: prendere il mio can-nocchiale e scrutare il cielo.

La domanda a cui vorrebbetrovare una risposta?Guardando infinitamente lon-tano, il tasso di produzione distelle, ma anche i “mostri” co-me le galassie infrarosse ultra-luminose o le esplosioni di su-pernovae (distinguibili in duecategorie apparentemente traloro inconciliabili). Vicino in-vece il Sole, non c’è ancora unateoria convincente che spieghicome in superficie ci siano6000 gradi e in corona milio-ne di gradi circa.

Come lavora oggi un astro-nomo?Si tratta principalmente di unlavoro di équipe in cui tutticontribuiscono, con le propriecompetenze, a raggiungere unobiettivo. Si tratta di gruppi di20-40 astronomi. Purtroppo oper fortuna non si può più par-lare di lavoro singolo principal-mente per due motivi: primo fratutti quello economico perchéi macchinari sono costosi e unasola persona non può permet-tersi una tale spesa; il secondoriguarda la mole di lavoro chenecessita di più persone su unostesso progetto.

Come si struttura una classi-ca giornata di lavoro?Gli astronomi si dividono in duecategorie: il teorico che lavoramolto al computer, esegue unaserie di simulazioni e verifica laveridicità di certe intuizioni ri-spetto a determinate teorie.L’altra categoria è composta da-gli astronomi sperimentali, dicui faccio parte anch’io; si trat-ta di persone che lavorano coor-dinandosi con un osservatorio.Si spostano continuamente, unasettimana magari sono alle Ca-narie per raccogliere un po’ didati, poi tornano a casa per ela-borarli, la notte sono svegli perscrutare il cielo e poi ripartonoper un’altra destinazione.

ASTROFISICAscienza che tenta di capirela natura degli astri (astro-fisica=natura degli astri)

ASTRONOMIAscienza che mediante calcoli cerca di prevedere la posizione degli astri a determinati tempi

BIG BANGgigantesca esplosione di materia ed energia, conla quale si pensa abbia avuto inizio la storia delnostro universo. La materiaera inizialmente concentra-ta in uno spazio infinitesi-mo, a temperature e densitàelevatissime; dopo l’esplosione, man mano che l’universo si espandeva, essa è diventata via via più fredda e rarefatta

CANNOCCHIALEstrumento ottico impiegatonell’osservazione e nellostudio dei corpi celesti. Essosi compone di un obbietti-vo, il quale ha il compito di raccogliere la luce proveniente dall’oggetto osservato e di concentrarla nel fuoco, e di un oculareper l’osservazione visuale

COSTELLAZIONEuna configurazione di stellenel cielo che viene associa-ta ad una figura riconoscibi-le. Servono esclusivamenteper identificare dove le stelle appaiono nel cielo

GALASSIAinsieme di miliardi di stelle,unite dalla reciproca attrazione gravitazionale. Le galassie sono i mattoniche costituiscono l’univer-so. Possono essere singole oriunite in gruppi e ammassi.Hanno in media diametri di un miliardo di miliardi di Km, e possono contenereda 1 a 1000 miliardi di stel-le. Ce ne sono di vari tipi:ellittiche, spirali, irregolari

ESOPIANETAè un pianeta che non appartiene al nostro sistemaplanetario (il sistema solare) in quanto orbita attorno ad una stella diversa dal Sole

SUPERNOVAstadio finale dell’evoluzionedi una stella massiccia, durante il quale essa esplode raggiungendo un eccezionale splendore,pari anche a quello di un’intera galassia.L’esplosione della stella puòdistruggere completamente la stella o lasciare come residuo una stelladi neutroni o un buco nero.

(LdT)

Piccolodizionario

In campo astronomico naturalmente, c’èuna scoperta che le piacerebbe fare?Trovare una supernova e perché no un al-tro pianeta. Nei sogni di tutti gli astrono-mi penso ci sia la voglia di lasciare unatraccia e contribuire ad arricchire il patri-monio astronomico. Si pensi che ad oggiconosciamo gli otto pianeti e stiamo sco-prendo gli esopianeti, pianeti che orbita-no attorno a una stella diversa dal Sole, aun tasso di una quindicina all’anno. Ad og-gi ne conosciamo 340 circa. Le scopertedi esopianeti sono iniziate nel 1992. Perquanto riguarda le stelle siamo arrivati amapparne oltre un miliardo, che sono laminima parte di quelle che realmente po-trebbero esserci nella nostra galassia; si par-la di 600 miliardi di stelle.

Quali sono le scoperte che, secondo lei,hanno segnato la storia dell’astronomiadegli ultimi anni? Sicuramente l’esperimento Boomerangportato a termine dal professor Paolo de

Bernardis. Durante il volo antartico del1998 Boomerang (telescopio a microonde)ha misurato per la prima volta le oscillazio-ni del plasma primordiale e dimostrato l’as-senza di curvatura dell’universo, stimandocosì la densità totale di massa ed energia cheha permesso di determinare le dimensioniangolari delle fluttuazioni nella radiazionecosmica di fondo. È la prova evidente chela teoria del big bang come la conosciamonoi è probabilmente quella vera. La secon-da scoperta riguarda gli esopianeti.

Parliamo di telescopi. Qual è l’immagi-ne più lontana che si riesce a vedere equale la più suggestiva?Tutto dipende da quanto l’oggetto è lumi-noso e quanto è esteso. Ai telescopi chie-diamo luce e ingrandimento; per poter au-mentare l’area di raccolta si fanno “padel-loni” sempre più grandi. Oggi tecnicamen-te siamo in grado di realizzare un telesco-pio da 100 m, quel che mancano sono isoldi per poterlo fare, ed allora si ripiega

(si fa per dire) su telescopi come l’E-Elt da30 o da 42 metri. Gli oggetti più lontanirilevati sono i quasar. Per andare oltre civogliono i telescopi radio (in questo casoi padelloni hanno già raggiunto e supera-to i 100, il più grande è quello di Arecibo,intorno a 300 m di diametro. Con essi cap-tiamo la radiazione cosmica di fondo checi proviene da circa 13 miliardi di anni-luce di distanza (un valore che è pratica-mente impossibile scrivere in chilometri).Questo, in pratica, è il limite invalicabi-le della ricezione telescopica. Più in lon-tananza non si può giungere perché la lu-ce, per quanto veloce rispetto agli standardterrestri, da più lontano non ci è ancoraarrivata. Nella ricerca l’uomo non mettepiù l’occhio all’oculare. Al suo posto c’èuna macchina (prima fotografica oraCCD) per cui l’immagine più suggestival’ho vista da astrofilo. Ne ricordo due: M42in Orione col 40 cm di Piazzano (Empoli),avevo sui 17 anni ed un’altra volta, sem-pre M42, ad Arcetri col telescopio Amici.

Qualcosa come 600 miliardi di stelle

LAURA DI TEODORO

L’astronomia è un mondo fatto di sacrificio, passione e tanta ricerca. Dallestelle ai pianeti, dagli esopianeti alle supernovae fino ad arrivare

al Sole con i suoi 5 miliardi di anni ancora da vivere.

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14 / Ottobre 2009

La saggia mentalità ampia-mente affermatasi negliultimi decenni ci ha or-

mai insegnato che il solo mo-do per valutare la realizzazionedi una persona è l’esito dellasua carriera professionale. Inquesta maniera, milioni di gio-vani, diventati più tardi ragaz-zi di mezza età, hanno potutoinvestire tutto il loro meglio inuna vita sulla cresta dell’onda.Col tempo, però, si è aggiuntoun nuovo “must”, un obbligosociale senza il quale una vita-carriera non può essere vera-mente compiuta: un figlio. Lacosa sorprende, perché l’e-mancipazione della donna dalsuo ruolo di madre è stata unadelle miriadi di preclare con-quiste del Sessantotto, la qua-le però è stata sordidamentescalzata dalla tendenza a con-siderare un figlio comunqueuna cosa determinante nellavita di una persona. Così, nel-lo schema delle caselle dariempire per completare ilgrande gioco della vita imma-ginata, adesso è necessario:avere una casa elegante o ec-centrica, godere di fama inter-nazionale - non importa comeviene ottenuta e per cosa si ac-quisisce -, fare viaggi entusia-smanti per il mondo con com-pagno, rispettivamente compa-gna, avvenente (attenzione:“compagno/a”, non marito omoglie), essere vegetariani,animalisti, ecologisti con abi-tuali ritiri di meditazione incentri benessere, possederel’Ipod e, da ultimo, avere un fi-glio, gadget supremo da procu-

Maier, la quale spiega perchénon bisogna avere figli. (Se ilvolume non gioverà a tutti,certamente servirà ai suoi figli,i quali potranno contare suiproventi seguiti alle vendite in-genti). Al di là delle scelte del singo-lo, valutabili soltanto essendoa conoscenza delle mille circo-stanze in cui ciascuno le fa ma-turare, a me sembra che il pun-to di partenza sia comunquesbagliato. Io. Io e i miei proble-mi sul lavoro, io e la mia li-bertà, io e il mio corpo, io e lamia realizzazione, io e la miavoglia di reagire alla pressioneche mi fa il nuovo conformi-smo. È stupido e fortementeegoistico fare un figlio per as-secondare questo genere dispinta, tuttavia è assurdo con-tinuare a vedere una mater-nità, o una paternità, come unaminorazione, una fonte di me-diocrità, di regressione, persi-no di infelicità. Un figlio cam-

bia le abitudini, costringe a ri-pensare l’organizzazione delproprio tempo, tuttavia nonpreclude nulla, anzi amplificale possibilità di comprensionedella vita e accresce la capacitàdi percepire l’intensità dell’e-sistenza, elementi questi chesono in grado di scuotere, diaprire visioni sconosciute e, so-prattutto, di evitare la cadutanella routine. Naturalmente,per stare con un figlio e inve-stirsi in una vita attiva, occor-re mettere in moto risorseemotive e fisiche che normal-mente restano sopite, quindiinutilizzate. È chiaro, dunque,che un figlio costituisce un’im-mensa possibilità. Questo perbuona pace di chi parte sempredal punto di vista dell’io.

Per chi invece si volessespingere un po’ più in là,potremmo aggiungere che

è assurdo prendere in esameuna questione centrale nella vi-

ta di un individuo consideran-do soltanto lo stato d’animo diun preciso momento del nostropercorso, guardandolo attra-verso la lente di quanto ci ac-cade o di quanto pensiamo inquell’istante, con la maturità,spesso un po’ scarsa, alla qualesiamo giunti a quel punto. Oc-corre fare uno sforzo, sollevarelo sguardo più in alto e pensa-re ad un io dentro un nuovorapporto con un tu che è il fi-glio. In quell’incontro c’è unadimensione sconosciuta ai ne-gatori dell’importanza di un fi-glio e ai conformisti che lo fan-no per moda. Per fare un figlio,occorre essere davvero liberi ein questa libertà, c’è un’infini-ta gioia.

rarsi dopo i quarant’anni. Que-st’ultimo oggetto, purtroppo,mal si concilia con gli altri, for-se per il fatto che non è pro-priamente un oggetto. Per suanatura, infatti, ha dei diritti,una volontà, la quale non puòessere piegata al nostro gioco,alla vita immaginata.

Ecco allora che, finalmen-te, le donne più impor-tanti del mondo, le gran-

di attrici, le psicologhe, le po-litiche, si ribellano: basta conquesta costrizione! La donnadeve emanciparsi e avere lapossibilità di affermare in tut-ta libertà: “Io non ho bisogno diun figlio”. Si tratta di una di-chiarazione di ElisabettaCanalis riportata dalla“Stampa”, ma parole analogheha usato Cameron Diaz su“Cosmopolitan” e altre attrici ointellettuali in sedi diverse. Èuscito anche un libro, No Kid,della psicanalista Corinne

Dove sta la libertà? Io. Io e il mio corpo

Quelli che vedono il figlio come capriccio e come limitazione

di Luca Saltini

MODI DI DIRE“A iosa” Bernardino Telesio

Ad eccezione di un’im-probabile e forzata in-terpretazione secondo

cui “a iosa” sarebbe una corru-zione linguistica di “solo Diosa”, gli studiosi concordano nelritenere l’origine di questo mo-do di dire come certa ed inoppu-gnabile: si fa derivare dal termi-ne chiosa, una moneta con valo-re fittizio e convenzionale fab-bricata in passato per i giochi deibambini. Si trattava di dischettio piastre ottenute con l’impiegodi materiali diversi, generalmen-te legno, piombo, rame e otto-ne, che rimpiazzavano il denarocorrente nel corso dell’attivitàludica. Non va in effetti dimen-ticato che l’utilizzo infantile de-gli stessi dischetti portò in segui-to alla diffusione nelle sale dagioco di fiches con valore corri-spondente e senza alcuna spen-dibilità, ma che una volta con-vertite alla cassa diventavanomoneta sonante. Un modo deltutto lecito per eludere i frequen-ti controlli sul gioco d’azzardoesercitati un tempo dalla polizia,fino all’adozione, verso la finedell’Ottocento, di un sostituti-vo del denaro: le fiches abilmen-te maneggiate al giorno d’oggidai croupiers ai tavoli delle rou-

lettes, sono pertanto mutuatedalle chiose infantili. Tuttaviafu l’abbondanza di prodotti desti-nati al commercio a mettere incircolazione nel linguaggio ordi-nario l’efficace locuzione avver-biale: quando era piuttosto fa-cile trovare certi articoli sul mer-cato, si diceva allora che ve n’e-rano a iosa, intendendo con que-sto che se ne registrava una taleeccedenza da poter essere acqui-stati persino con le chiose deibambini, moneta senza effetti-vo valore e quindi di inutile co-nio nel rapporto fra domanda edofferta. Nel paradosso, signifi-cava che il venditore possedevaquantità così elevate di una de-terminata merce, da essere di-sposto ad accettare come paga-mento anche le chiose dei bam-bini, pur di disfarsene. Sul pia-no squisitamente letterario l’e-spressione è in uso presso LuigiPulci, che la impiega con sar-castico acume ne Le frottole perun dettagliato inventario dellederrate alimentari stivate su unveliero; in Francesco Berninelle Rime, VII Capitolo de’ghiozzi; poi in AlessandroManzoni, nell’Introduzione a“I Promessi Sposi”.

Giuseppe Muscardini

Nell’anno in cui si cele-bra il quinto centena-rio della nascita di

Giovanni Calvino, con impo-nenti festeggiamenti nei Paesiin cui la Riforma trovò i piùconvinti sostenitori, è dovero-so menzionare un’analoga e nonmeno importante ricorrenza sto-rica: i cinquecento anni dellanascita di Bernardino Telesio.Doveroso, perché si corre il ri-schio, tra incertezze economi-che del Paese e dimenticanze,di non rendere giustizia ad unfilosofo e naturalista di primagrandezza che godette della pie-na ammirazione di Francis Ba-con e di Tommaso Campanel-la per la nitidezza e l’onestà in-tellettuale che ne caratterizza-rono il pensiero. Lasciano bensperare le lodevoli iniziative de-dicate alla figura e all’opera del-l’illuminato pensatore cosenti-no, promosse fin dai primi me-si di quest’anno. Nel febbraioscorso si è svolto presso la Bi-blioteca Nazionale di Cosenzaun convegno dal titolo “Il sensodel tatto. Telesio e Braille. La co-noscenza sensoriale tra filosofia etecnica”, cui è seguita l’inaugura-zione di una mostra bibliografi-co-documentaria a cura di Mas-

simo De Buono e Rita Fiorda-lisi. Entro la fine dell’anno, saràrappresentata a Cosenza, un’o-pera lirica su Bernardino Telesionata dalla recente collaborazio-ne fra il paroliere e studioso,Manlio Sgalambro e il musici-sta siciliano Franco Battiato. Nato a Cosenza nel 1509, ilgiovane Telesio fu avviato aglistudi dal colto zio maternoAntonio, per poi proseguirli aMilano, a Roma, a Padova e aNapoli. L’impegno costante, laricerca, la riflessione, uniti aglistimolanti spostamenti geogra-fici al seguito dello zio, favori-rono in lui l’elaborazione di unateoria sulla conoscenza ancorprima che il Rinascimentoorientasse il pensiero filosoficoverso lo studio del mondo fisi-co come ambito governato daleggi e regole da indagare accu-ratamente, soppiantando laconcezione della natura comerappresentazione del divino.Telesio perfezionò ed espose leproprie idee nell’opera De re-rum natura. Iuxta propria princi-pia (La natura secondo i propriprincipii), uscita nel 1565 aRoma dai torchi tipografici diAntonio Baldo, stampatore Ca-merale sotto Paolo IV. Con

questa ed altre opere divulgati-ve Bernardino Telesio seppefornire nuovi e necessari stru-menti metodologici alla scien-za moderna, sempre più propen-sa ad indagare il reale, parten-do dalla puntuale osservazionedei fenomeni, piuttosto che daastrattismi teologico-filosofici.Telesio ebbe inoltre un indiscu-tibile merito; quello di averconferito alla preesistente Ac-cademia Cosentina, nata nel1511 su impulso di Aulo GianoParrasio, un assetto più funzio-nale e in linea con le esigenzeculturali del suo tempo, riorga-nizzandola con tanta sapienza erispetto che il prestigioso istitu-to mutò la sua denominazionein Accademia Telesiana. Nellacittà di nascita, dove ritornònel 1553, Telesio ebbe il privi-legio di spegnersi all’età di ot-tanta anni. Al centro di PiazzaXV Marzo campeggia la sua im-magine fiera, fusa nel bronzo ecollocata su un alto basamen-to di marmo istoriato. A darecontinuità estetica allo scorcioincantevole della piazza, si er-ge sullo sfondo l’elegante fac-ciata dell’Accademia che pre-se il suo nome.

Giuseppe Muscardini

RICORRENZE & RITRATTI

Qui una bella immagine di mamma felice e realizzata. Il figlio oggi, invece che una sceltadi paternità e maternità responsabili, è considerato spessocome un “oggetto” di cui disporrepiù o meno a piacimento.

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15 / Ottobre 2009

Sono molti i ricordi, i sentimenti,le sincerità che colpiscono nelraccontarsi amabile di Davide.

C’è per esempio un arresto con ritor-no in carcere, quando aveva appenacompiuto 18 anni. Gli accenti sonotoccanti e delicati: “Mi avevano trova-to addosso cocaina e fumo. Il brutto gior-no in cui mi misero le manette ai polsi e mifecero salire senza troppi complimenti inmacchina, capitò lì mia sorella in predaalla disperazione e chiese se mi poteva sa-lutare. Ricordo che mi abbracciò forte epiangeva. Mentre la macchina si allonta-nava sgommando, vidi la sua figura di-ventare sempre più piccola, fino a scom-parire. Il mio cuore batteva forte e final-mente piansi anch’io. Avevo l’impressio-ne che si fosse allontanata da me per sem-pre, anzi che l’avessi persa per sempre”.

Questi sono accentidi umanità rara chevanno dritti al cuo-re.Un altro passaggio che fa pensare èl’accenno alla coscienza. Ricorda Davi-de. “Ero stato sbattuto in una delle stan-ze più grandi e squallide del padiglioneAvellino, la numero 31. Eravamo in 23 làdentro. Chi la voleva cotta e chi cruda,spesso scoppiavano risse, o almeno con-trasti per le cose più stupide. Io che eronovellino non potevo dire la mia, non po-tevo avere voce in capitolo. Dovevo su-bire e stare zitto. Anche lì c’era una gerar-chia che andava rispettata. E al verticestava chi poteva vantare il maggior nu-mero di anni di prigione e il maggior nu-mero di delitti sulla coscienza (ma quei ti-pi, la coscienza, non sapevano nemmenocosa fosse, non ne avevano mai sentito

parlare, e se qualcuno avesse tirato fuoriquel termine, si sarebbero messi a sghi-gnazzare chiedendogli se fosse scemo)”.Queste “Ali bruciate” alla fine aiutanoa riscoprire la bellezza del volo: è unatraiettoria di speranza di cui abbiamoun particolare bisogno in questo tem-po, con una società che dà segni diegoismi, calcoli e chiusure. Davide haritrovato il sentiero giusto grazie alladedizione di molti e al sacrificio di al-cuni. La nostra scommessa diventaquella di rovesciare la scala, correggen-do l’illusione che il valore supremo siacostituito dal successo, dal denaro e daisuoi simboli.

(en.to.)

Dentro i gironi di un inferno d’oggi

Un VOLO verso la VITA

Èun libro che nasce nei gironi dell’inferno e diven-ta un sentiero sicuro di speranza. Il cammino, mol-to faticoso, passa tra raffiche di vento, tempesta, ful-

mini e nubifragi devastanti. A volte il sentiero pare im-mettere in un tunnel oscuro, esposto a tutti i rischi, atutte le più impensabili imboscate, ma alla fine, per chivuole, c’è sempre una fiammella, tenue magari, sempre lìsul punto di essere spenta dai venti che soffiano incessan-ti e impetuosi: decisiva però per imboccare il pertugiogiusto, che porta al sicuro e al riparo dai rischi più duri.L’inferno è Scampia, a Napoli: è uno dei tanti che so-no attivi già qui sulla terra, senza bisogno di attende-re l’aldilà. È l’esteso arcipelago dell’illegalità, della cri-minalità, della corruzione, un terreno ideale dove nel-l’emarginazione e nel sottosviluppo prosperano la ca-morra, la ‘ndrangheta, la mafia. E non pensiamo che ciòabbia una localizzazione geograficamente precisa, per-ché lì, in “quei posti”, storicamente è così e nessuno riu-scirà mai a sradicare questo cancro che corrode le cel-lule, anche quelle che apparentemente diresti di un or-

ganismo sano. Ci siamo globalizzati anche nel peggioe ormai, le metastasi sociali non risparmiano più nes-sun luogo, nessun ambiente, nessuna comunità.Viviamo tutti l’attrazione fatale dei soldi, tanti soldi,vita facile, comodità, lussi. Poco importa se poi moltidi questi miraggi conoscono percorsi bagnati di sangue,perché lo Stato tollera, ma la criminalità è spietata enon perdona. Chi parla più di coscienza nel nostro tem-po? Chi sa che cos’è? I valori oggi diffusi e celebrati daimass media sono l’effimero, il lusso, gli abiti firmati, ilmito della bellezza ad ogni costo, della notorietà, ve-line e calciatori. Basta leggere il curriculum di parec-chie ragazze d’oggi che inseguono la visibilità, la famaad ogni costo e poco o nulla importa lo spessore di cer-ti ambienti definiti eufemisticamente come ricreativi.Una si è presentata così, in questo inizio d’estate chesa di guardonismo dilagante: partecipante a “Uomini edonne”, poi billionerina per tre anni, poi aspirante me-teorina di un noto personaggio televisivo. Il tutto si tra-duce - come un acuto osservatore qual è Michele Serra

- in “anni di gavetta attorno alle promesse di maschi po-tenti e fanfaroni, qualche regalo costoso, qualche viaggiogratis, la periferia del lusso frequentata a tratti ma sempreda comparsa”. Il dramma è che molte di queste figure- nani, veline, ballerine, una sconfinata corte dei mi-racoli - millantano felicità. E forse allora, davvero so-no infelici coloro che vedono in queste persone il fan-tasma della libertà.Questo tuttavia è l’“humus” che fa crescere le aspira-zioni, i comportamenti, le abitudini che abbiamo sot-to gli occhi e che portano da tempo a parlare di emer-genza educativa diffusa. Scampia è un indirizzo mol-to noto in Italia del degrado in atto, dell’infezione so-ciale che ammorba questo quartiere, di cui è icona“Gomorra”, il libro scritto da Roberto Saviano. Quisi tocca con mano la disperazione: forse, viverci, è di-ventato per molti una rassegnazione al peggio, al so-pravvento della delinquenza. Ma un barlume di lucetrapela: viene dalla storia di Davide Cerullo, uno cheha deciso di cambiar vita.

Quel brutto giorno

Avvincente e umana-mente tesa l’ambienta-zione della scena fatta

con la creatività ben nota e ri-conosciuta ad Alessandro Pron-zato, uno scrittore che ha supe-rato i cento titoli di opere pub-blicate. Siamo nella bibliotecadel carcere di Poggioreale a Na-poli. Pronzato afferra il lettore,gli dice che lì c’è una Bibbia al-la quale mancano alcune pagi-ne. Il racconto parte da questoricordo. A staccare quelle pa-gine fu, qualche anno fa, Davi-de Cerullo, uno finito dentroper storie di droga infinitamen-te più grandi di lui, pedina usa-ta dai pupari che muovono i fi-li dei traffici. I cambiamenti divita, le conversioni possonopartire anche da un libro pococonsiderato, in genere, dagli“inquilini” di quelle stanze. Unascossa improvvisa. C’è sempreun qualcosa che può rovesciareuna tendenza. Nell’Innominatodei Promessi Sposi fu il suonodelle campane; con Davide

dimenti e abbandoni e, in ge-nere, manda messaggi chiari eultimi, affidati a una pallotto-la della famigerata “lupara bian-ca”. Non si contano le vittimeche hanno saldato così il loro“debito” con i capi della tribùdei veleni. Davide, quandosmerciava, guadagnava in po-chi giorni ciò che ora gli toccasudare per un mese, lavorandoper dieci e anche dodici ore algiorno, pilotando bisonti dellastrada. Di più: ha dovuto an-che lasciare la sua terra, cono-scere le lacerazioni di uno strap-po affettivo e le umiliazioni dichi intende il lavoro comesfruttamento bestiale. Ma nonc’è paragone tra la vita di ierie quella nuova di oggi. Ora hatrovato la serenità, la gioia, lapienezza affettiva. È un’esisten-za rifatta. E con la sua testimo-nianza vuole quasi gridare aquelli che sono uncinati dalladroga che con la volontà si puòspezzare la catena. Le paginedel libro sono percorse da que-sto anelito del piacere dellanormalità, della festa di uncompleanno, di un sorriso cheillumina un nuovo giorno.“Non si può classificare Davidenella categoria dei pentiti. È qual-cosa di meglio - rileva don Pron-zato - lui ha pagato alla giustizia ilprezzo che doveva pagare, senzaaccampare giustificazioni sociolo-giche o attenuanti (la giovane età,l’ambiente familiare, lo stato dinecessità, la perfida rete che ave-va catturato un pesce ingenuo…).È riuscito a liberarsi. E poi ha vol-tato decisamente la schiena a quelmondo spregevole, imboccando lasua strada”. Non ce l’ha fattada solo, non è stata una scaladi velluto, anzi: ora però “è sal-damente aggrappato a certi valo-ri umani e cristiani e non intendepiù mollare la presa”. Gli hannoteso la mano alcuni sacerdoti esuore: ora è circondato da unarete di solide amicizie.

(en.to.)

qualche pagina di un libro sco-modo scritto da don Pronzato,molto potente come messaggiose ha fatto presa su un cuore co-munque indurito. Don Pronza-to paragona il protagonista-vit-tima, Davide a Lazzaro. Da re-cluso gli arriva quel “pugno”scritto che lo prende allo sto-maco. La donna che poi diven-terà sua moglie, Patrizia, si fabraccio di Davide e insiemescrivono a don Sandro. Scoccala scintilla che farà divampareun incendio di vita e di spirito,al punto che il prete scrittorediventerà anche colui che bat-tezza i figli del matrimonio diDavide e Patrizia, Alessandroe Chiara. Certo, rinnegare unambiente, dargli una spallata edecidere il cambiamento com-porta rischi in un mondo chenon è abituato a tollerare tra-

I bambini di Scampia e la storia di Davide Cerullo

La copertina del libro “Ali bruciate” scritto da Alessandro

Pronzato con il protagonista della vicenda, Davide Cerullo.

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16 / Ottobre 2009

Si presenta affabile, mite,con uno sguardo aperto esereno nonostante il tor-

mento che lo affligge dentro.Tende la mano, saluta con ungesto che trasmette calore, di-ce in inglese parole d’augurioche afferrano tutti senza biso-gno dell’interprete. Un uomodi pace che ha perso un figlioin guerra, un mediatore che nonsi rassegna alla cupa spirale del-l’odio e della parola alle armi. David Grossman è consideratotra i più grandi scrittori e ro-manzieri contemporanei: si è af-fermato in virtù di uno stilemolto creativo, avvincente esemplice al tempo stesso. Sul fi-nire del 2008 ha dato alle stam-pe un nuovo toccante romanzo,in cui affronta la tragedia del fi-glio Uri, morto il 12 agosto 2006nel conflitto israelo-libanese,due giorni prima di una treguaper altro già decisa. Il nuovogiardino di parole nel qualeGrossman semina, coltiva e facrescere fiori di ragione e di spe-ranza è attraversato da un fortevento simbolico. Eccolo: “A uncerbiatto somiglia il mio amore”(Mondadori). È la toccante sto-ria di Avram, Ilan e Orah, chedurante la Guerra dei Sei Giornisi ritrovano nel reparto di isola-mento di un ospedale. Con Grossman non si può gira-re al largo dello scoglio-guerra eil giudizio è netto e inequivoca-bile: “Si tratta dell’azione più inu-mana possibile”. È stato giusta-mente osservato che la posizionedell’intellettuale e scrittore israe-liano è di un uomo disponibile alconfronto, di un costruttore didialogo che non ci sta e non sipiega al meccanismo della ven-detta e alle soluzioni muscolaridel “rispondere colpo su colpo”. Non c’è alternativa: tocca allapolitica e non alle armi piegar-si sulle questioni irrisolte, suidrammi aperti, sui processi di in-tegrazione e di convivenza da ri-solvere. La politica è sforzo dicapire le ragioni dell’altro pursapendo che esiste una zonad’ombra, quella che delimita ap-

punto l’“altro”, nella quale nonsi potrà mai penetrare sino infondo, proprio perché l’“altro” èdiverso, ma non inferiore.Con i suoi interventi pubblici,i suoi scritti, il suo non sottrar-si, David Grossman ha costitui-to un esempio e una strada. So-lamente su quanti, come lui,fanno attività di resistenza econtinuano a sforzarsi di pensa-re alle soluzioni possibili risie-de la speranza, flebile, di un fu-turo non di guerra, che possadare un senso, finalmente, aduna storia piena di dolore, chepure non si potrà mai cancella-re. Lo scrittore, che vive a Me-vasseret Zion, vicino a Gerusa-lemme, ha lavorato come gior-nalista e attore radiofonico edha scritto 7 romanzi, tra i qua-li “Qualcuno con cui correre”,“Ci sono bambini a zig zag”, “Chetu sia per me il coltello” o “Vedialla voce: amore”.

Il 2009 è incominciato con la dura re-pressione di Israele contro Hamas sul-la Striscia di Gaza. In molti hanno ri-tenuto eccessivo l’intervento della pe-sante macchina bellica di Tel Aviv…Io vivo in un Paese, Israele che è anco-ra oberato da questo profondissimo e pe-santissimo trauma della Shoah. Più di ses-sant’anni dopo la fine della secondaguerra mondiale, che per noi ha volutodire la fine della Shoah, ancora tutta lanostra vita è permeata da questa trage-dia, a volte in modi anche sottili che nonriusciamo a cogliere come correlati allaShoah. La Shoah è correlata al modo incui noi educhiamo i nostri figli; al mo-do in cui viene gestita la politica; al mo-do in cui c’è un senso dominante inIsraele secondo cui potrebbe non esser-ci un futuro. La nostra esistenza è mol-to fragile e nessuno sa se riusciremo dav-vero a sopravvivere. Questa è la vera an-sia che permea la nostra vita in Israelee a volte questo può spiegare perché rea-giamo in maniera esagerata a qualunquetipo di minaccia. Avete visto in questoinizio di 2009 la tragedia che si è abbat-tuta sulla nostra regione. Ancora unavolta abbiamo avuto una guerra. Avrete

sicuramente visto sugli schermi televi-sivi le atrocità, le brutalità che sono av-venute. Israele ha usato una forza ecces-siva contro il nemico, Hamas dal cantosuo, in maniera esagerata, ha sparato raz-zi contro il territorio israeliano. Sia gliisraeliani che i palestinesi si sono ritro-vati su una via programmata, quella del-la violenza e dell’odio.

Qualcuno ha paragonato l’interventodi Israele sulla Striscia di Gaza a unasorta di pulizia etnica. Da vittima del-la Shoah, Israele ha indossato i pannidel carnefice…Ho sentito spesso fare un raffronto tra laShoah e quanto ha fatto Israele sullaStriscia di Gaza. Questo paragone è scan-daloso e inaccettabile. Io sono molto cri-tico rispetto a quanto ha fatto Israele percolpire Hamas sulla Striscia: non si sa-rebbe dovuto usare un potere militare ec-cessivo contro i civili a Gaza. Però, perfavore, non si faccia l’errore di simili ac-costamenti: niente può essere paragona-to alla Shoah. Gli ebrei, sotto il TerzoReich, non avevano alcuna aspirazionea conquistare la Germania o a marcia-re su Berlino oppure a togliere dalla fac-

cia della terra i tedeschi. Nella dichia-razione di identità di Hamas c’è la chia-ra volontà di spazzare via Israele. EIsraele ha un conflitto molto profondo,molto amaro con i palestinesi, non so-lo per i Territori, ma anche per altri con-tenziosi. E tuttavia Israele non ha maivoluto eliminare i palestinesi, non haun’ideologia razzista. Noi, purtroppo,israeliani e palestinesi, siamo bloccati inuna stessa trappola. Ma occorre dire sen-za giri di parole che gli ebrei sono staticonfrontati con questo atteggiamentorazzista e distruttivo da parte dei nazisti.Il fatto solo di paragonare questo inter-vento di Israele contro Hamas allaShoah rende la Shoah banale, la sminui-sce e questo non serve neanche alla cau-sa dei palestinesi.

La via della violenza e dell’odio

Fare i conti con la Shoah

Leggendo, valutando, com-mentando gli interventi,i giudizi, le interviste del-

lo scrittore sulla antica e irri-solta questione palestinese, suifocolai di violenza, di attacchi,di razzi lanciati sul nemico israe-liano, si comprende bene comela presenza pubblica e l’atteg-giamento espressi da DavidGrossman in questi anni posso-no costituire un esempio, l’uni-co forse possibile, per pensarealla soluzione di una piaga checontinua a lacerare il mondo.

Dobbiamo ricordare la Shoahper scongiurare un’altra “not-te della ragione”. Ma come evi-tare che il ricordo sia un mo-mento vuoto?Dobbiamo ricordare. Ma a vol-

te l’atto di ricordare può diven-tare un cliché, nel senso che noidiciamo le cose, senza peròsentire l’essenza stessa di quel-lo che noi diciamo. Quando noipronunciamo la parola Shoah, avolte questa diventa un simbo-lo con il rischio che rimangavuota. Per ricordare veramente,occorre mettersi lì, nei pannidelle vittime ma anche deicarnefici, in quelle stesse situa-zioni e chiederci che cosaavremmo fatto noi, comeavremmo reagito se vittime eanche se carnefici. Questo è l’u-nico modo per ricreare in vita,quel dilemma morale, quelladurezza della vita quotidiana, ladisperazione dell’umanità inquelle condizioni. Solo cosìpossiamo ricordare.

Perché bisogna fare i conti conla Shoah?Ho scritto un libro, “Vedi allavoce amore” perché c’è statoun momento nella mia vita incui ho capito che non avreipiù saputo chi ero come ebreo,israeliano, scrittore, padre,uomo, se non avessi fatto iconti con la Shoah. In effettichiunque, uomo o donna, in-segnante, giornalista, tassista,carpentiere dovrebbe porsiquesta domanda, se noi vo-gliamo veramente evitare chesi ripeta questa catastrofeumana e disumana. Essereebreo e israeliano non è sem-pre sovrapponibile, a volte ledue identità sono persino inlotta. Eppure io non potrei ri-nunciare a nessuna.

Parlarsicapirsiper

Intervista con lo scrittore David Grossman sulla pace, sul futuro di Israele, sul dialogo

Incontro con lo scrittore israeliano che sogna spazi di dialogo e frontieredove possano transitare liberamente persone, idee e merci.

Spiragli di un possibile e necessario cambiamento con l’arrivo di Barack Obama alla Casa Bianca, un Presidente bifocale.

“Troppo spesso imprigionati da parole di tragedia”. Lo scrittore ha pubblicato il romanzo “A un cerbiatto somiglia il mio amore”

di Giuseppe Zois

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17 / Ottobre 2009

Per gli israeliani e i palestinesi, realisticamente…

La soluzioneè in due STATI

David Grossman, esiste qual-che spiraglio di cambiamentocon Barack Obama alla CasaBianca?La tregua tra noi e Hamas è an-cora molto fragile e non pen-so che possiamo uscire da solida questa situazione in cui citroviamo. Abbiamo bisognodi un aiuto esterno. E questomi riporta all’intervista cheBarack Obama ha concesso al-l’emittente “al Arabiya”: per laprima volta in molti anni ab-biamo l’opportunità di unPresidente americano che nonha una personalità conflittua-le e, anzi, è aperto al dialogo.Obama è portatore di molti se-gnali di apertura: quando ha af-frontato la questione del mon-do arabo, ha parlato di tutti glielementi che la configurano,inclusa “Al Qaeda”. Mi augu-ro che possiamo essere abba-stanza intelligenti da favorirequesto tipo di approccio. Noiisraeliani e i leaders palestine-si dovremmo parlare, perchésolo attraverso il dialogo noipossiamo far capire all’altro lanostra storia, la nostra tragedia,il nostro senso di giustizia, inmodo tale che tutto questopossa essere veramente integra-to all’interno della questione.È l’unico modo per cambiare lasituazione nella Striscia. Ci at-tendiamo molto dalla politicae dalle aperture di Obama. Ilnuovo Presidente USA è unuomo che venendo da duegruppi etnici diversi, i bianchie i neri, per sua natura ha unavisione bifocale della realtà: èun uomo bidimensionale enon ha una visione conflittua-le come è avvenuto nel passa-to. Siamo in un momento sto-

rico importante per israeliani epalestinesi che possono, inqualche modo, approfittare delgrande privilegio che la storiaoffre, di avere un uomo così.Non ha un’ottica univoca deiproblemi. Bush non ha avutosuccesso e non ci ha nemme-no provato, perché aveva unatteggiamento appiattito, su-perficiale, monodimensiona-le. Obama è diverso: sta a noicogliere questa particolarità.

Quale soluzione vede DavidGrossman dal suo osservatorioper israeliani e palestinesi?Se noi vivessimo in un mondoperfetto, sarebbe bello viveresenza bisogno né dello Stato nédelle frontiere. Ovviamentequesto mondo perfetto appar-

tiene al sogno. Realisticamentela soluzione è in due Stati perdue popoli, così che i palestine-si possano veramente vivere laloro vita al meglio, nella pace,investendo tutti i loro talenti ele loro qualità per costruire unasocietà dove far crescere i figlisenza l’umiliazione dell’occupa-zione. E anche Israele ha dirit-to ad uno Stato sovrano, sicu-ro, indipendente, che abbia unfuturo possibile, per poter sfrut-tare al meglio tutto il suo po-tenziale. Io vedrei due Stati chepossono vivere insieme, connormali frontiere, come quelleche dividono tutti i Paesi, do-ve non esiste un muro e doveci sono tanti punti di passaggio,attraverso i quali transitare permotivi commerciali, perché c’è

un libero movimento delle per-sone, delle idee e delle merci.

Di che cosa ha bisogno soprat-tutto la pace?Occorre che ciascuno si assumale proprie responsabilità e ab-bia anche il coraggio di chiede-re scusa per i crimini commes-si contro l’Altro. Si sa da tem-po che cosa si deve fare. Quan-to sangue dovrà ancora esseresparso e quanto tempo ci vorràprima che si giunga alla pace?Se non acceleriamo il passo,cresceranno la frustrazione el’odio, spianando la strada aper-ta da Hamas. È necessario chei moderati di entrambe le par-ti si mettano insieme per isola-re gli estremisti.

Giuseppe Zois

Come vanno le cose con ilpregiudizio antisemita nelmondo? Per lo scrittore Da-vid Grossman non c’è dub-bio… Ancora oggi l’ebreo viene visto non per quello che è macome un simbolo, contornatoda una specie di mito, di parabola, di metafora diqualcos’altro. Anche questo faun po’ parte della tragedia delpopolo ebraico, che non è con-siderato come un popolo in sé:siamo sempre guardati comequalcosa di allegorico, di me-taforico. Qualunque cosa facciamo abbiamo quest’eco: mai visti come glialtri. Sono felice quando i lettori dei miei libri mi diconoche dalle mie pagine hanno ca-pito com’è la vita quotidiana di chi vive inIsraele, la concretezza dellarealtà da affrontare. La nostra realtà è molto più interessante di tutti i vecchisimboli che ci accompagnanoda secoli ed ai quali sembriamo condannati. Sonoconvinto che solo la pace ci libererà da questa blindatura.

Lei ha sostenuto la necessitàche le parti si parlino alme-no per capirsi. Quale poten-zialità di ascolto e di acco-glienza ha una posizione co-raggiosa come la sua?Io non rappresento la maggioranza, anche se le mieposizioni sono considerate positive dalla minoranza. Èchiaro che la maggioranza nonmi segue. Le persone inIsraele, oggi, sono terrorizzatee quando si è terrorizzati nonsi è aperti al dialogo conl’Altro. Si vuole prima sconfig-gere l’Altro e poi magari ascol-tare. Io, invece, non voglio sconfiggere l’Altro: ritengo checi debbano essere due parti, che siano abbastanzaforti da potersi parlare e farsireciprocamente concessioni do-lorose ma necessarie. Sonoparte di una minoranza come imiei amici Oz e Yehoshua: le nostre parole che noitrent’anni or sono avevamopropugnato - ed erano stateaccolte e bollate come un tradimento - oggi le sentiamoriprese e pronunciate dalPrimo Ministro della destra. Èun lungo processo il superamento di questi ostacoli psicologici, del sospetto e dellapaura, del pregiudizio nei con-fronti degli Altri. Penso che al-la fine ce la faremo e la spun-teremo, perché le nostre idee ei nostri ideali sono molto più potenti e portanoverso la vita piuttosto che imprigionarci dentro un labi-rinto di pura sopravvivenza,tra una catastrofe e l’altra.

(G.Z.)

La tragediadel popoloebraico

David Grossman: “Per Israele realisticamente la soluzione è in due Stati per due popoli, così che i palestinesi possano veramente vivere la loro vita al meglio, nella pace, investendo tutti i loro talenti e le loro qualità per costruire una società dove far crescere i figli senza l’umiliazione dell’occupazione”.

Gli scrittori possono contribuire a farequalcosa sulla strada del dialogo e del-la pace? E in che modo?Gli scrittori pensano di poter cambiare ilmondo più di quanto nella realtà avviene.Se le parole bastassero, il mondo sarebbegià migliore rispetto a come si presenta.Noi usiamo il potere delle parole: le paro-le sono idee che lentamente, come un pro-cesso educativo riescono, in qualche mo-do, a cambiare il cuore della gente, perchésono nuove formulazioni. Molto spesso noiviviamo in una formulazione di parole ditragedia che ci imprigiona. In Israele si sen-te dire che si è obbligati ad avere un con-flitto con i palestinesi, una sorta di decre-to divino che ci obbliga a vedere i pale-stinesi come nemici, senza avere mai lapossibilità di uscire da questo tunnel di di-

struzione e di morte. Lo stesso pensano, aloro volta, i palestinesi. Se noi invece, cisforzassimo di vedere tra i nostri nemici -perché purtroppo siamo in guerra - le per-sone in carne ed ossa, troveremmo diver-se sfumature, magari persone che la pen-sano in maniera diversa, perché non so-no tutte dello stesso stampo. Noi usiamomolti cliché, gli stessi che vengono appli-cati dai media, dai governi, dai politici. Inquesto modo ci intrappoliamo, diventia-mo vittime del nostro stesso destino, per-ché rimaniamo sempre allo status quo delpassato. Questo non solo mi fa arrabbia-re, ma in qualche modo mi sconvolge: ineffetti, Israele ha costruito il proprio Statoperché gli israeliani non fossero più vitti-me. Noi siamo lo Stato più forte nel MedioOriente, abbiamo il miglior esercito, la mi-

glior aeronautica militare eppure siamo vit-tima della grande tragedia del passato, nonsolo della Shoah. La stessa cosa fanno i pa-lestinesi, perché anch’essi compiono erro-ri, non è che possiamo scusarli per i cri-mini che commettono, per gli errori chefanno. Se noi li scusassimo nella loro re-sponsabilità morale, li tratteremmo comebambini e sarebbe un errore, in quanto lirispetto troppo per far questo. Comescrittori possiamo scegliere di usare paro-le diverse per vedere la realtà da un pun-to di vista diverso, soprattutto dal puntodi vista dell’altro. Non possiamo fossiliz-zarci nelle nostre pur giustificate narrazio-ni di vittime, perché questo ci impedirà diuscire dalla trappola. Gli scrittori, invece,servono a intrecciare le narrazioni, perchépossano poi svilupparsi le azioni.

Dalle narrazioni all’azione

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18 / Ottobre 2009

adozioni privilegia come prin-cipio il “legame di sangue” con la famiglia di origine, per quanto dissestata essa sia. Così a volte, accusano molte associazioni che chiedono la revisione della legge, bastano le sporadiche visite di un pa-rente, e i tempi distratti della giustizia, perché un minore resti sine die in una casa fa-miglia, senza che possa essere dichiarato lo stato di abban-dono che porta all’adottabi-

Pena di morte:

quasi seimila

esecuzioni

Nessuno Tocchi Caino, l’associazione interna-zionale che si batte da

più di 15 anni per l’abolizione della pena di morte, ha pub-blicato il Rapporto annuale sulle esecuzioni capitali nel mondo. Dal 1993, da quando Nessuno Tocchi Caino ha pre-so vita, ben 51 Paesi hanno abbandonato la pratica della pena capitale. Quattordici di questi lo hanno fatto negli ultimi due anni, dopo la Moratoria del 18 di-cembre 2007, proposta dall’Ita-lia e approvata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite. Novantasei Paesi l’hanno can-cellata. Ma in altri 46 resta una pratica consueta. Il boia ha ucciso 5.700 condannati l’anno scorso. Il 90% delle esecuzioni sono state eseguite in Cina. Ma la Fondazione Dui Hua, diretta da John Kamm, un ex dirigente d’af-fari che si è votato alla difesa dei diritti umani, ha stimato che “il numero delle esecuzio-ni nel suo Paese si è triste-mente avvicinato a 7.000”. E poi c’è l’Iran con 346 esecu-zioni e l’Arabia Saudita con 102 decapitati. Neppure l’Eu-ropa è totalmente libera dalla pena di morte. Anche dopo la fine dell’Unione Sovietica, continua ad essere applicata in Bielorussia. La Cina rimane in testa alla lista nera, anche se le esecuzio-ni sono diminuite, dopo che la legge ha stabilito che ogni condanna a morte deve essere rivista dalla Corte Suprema, che ha già annullato il 15% delle condanne.Dopo la Cina, l’Iran: 346 esecuzioni nel 2008, ma il numero non è ufficiale perché le autorità non forniscono sta-tistiche ed è voce comune tra le organizzazioni umanitarie che le pene di morte eseguite siano molte di più. Impiccati, fucilati o chiusi in un sacco e gettati giù da una rupe: la Sharia in Iran si concentra sui membri delle minoranze religiose e degli oppositori politici. Esecuzioni fuori le moschee in Arabia Saudita, il primo Pae-se al mondo per percentuale di condannati a morte sulla popolazione.. La decapitazione in pubblico è la pena a cui sono sottoposti i condannati in Arabia, Nei cortili fuori dalle moschee, dopo la pre-ghiera del venerdì, almeno 102 condannati sono stati giustizia-ti, compresi tre minorenni. Negli Usa cala il numero dei condannati. “Solo” 111 con-dannati a morte, il numero più basso da quando la pena

di morte è stata rein-trodotta nel 1976.

La fi la si allunga e la montagna di scartoffi e cresce, pratica su prati-

ca, documenti su documenti. Ventimila richieste, poco più di quattromila i piccoli adot-tati. La statistica è di uno a cinque. Per gli altri ciò che resta è attesa, desiderio, sogno mancato. Pochi ce la fanno, i più rinunciano, sconfi tti da un intrico di lentezze buro-cratiche, attese infi nite. Paesi che d’un tratto chiudono le frontiere, enti inaffi dabili, accordi bilaterali inesistenti, politica estera pigra, leggi da riscrivere. Un vero paradosso il mon-do delle adozioni, dove il bisogno e l’offerta di amore hanno enorme diffi coltà ad incontrarsi, dove un enorme patrimonio affettivo viene gettato alle ortiche. Dove, nel percorso a ostacoli delle ado-zioni, i minori abbandonati diventino ostaggio di giochi politici, di prove di forza tra stati, vittime di un’assurda legislazione e di fantozziana burocrazia.Eppure, in gran parte del mondo gli orfanotrofi sono pieni, i numeri dell’infan-zia abbandonata crescono. Anche in Italia esiste un congruo numero di minori in istituto dichiarati “non adottabili” in base alle norme attuali, ma che di certo avreb-bero bisogno di una famiglia. Ventiseimila bambini e ra-gazzi, secondo le statistiche dell’Istituto degli Innocenti di Firenze, massimo organo di osservazione dell’infanzia in Italia. Per la gran parte di loro, il futuro ha il colore grigio dell’incertezza: la legge sulle

lità. Ricordando però che in questo numero, forse sottosti-mato, ci sono anche i “fi gli” che nessuno vuole: bimbi portatori di handicap, ragazzi e ragazze più grandi con storie pesanti, amare, diffi cili.Togliere una patria potestà, così come lavorare sulla fa-miglia d’origine, richiede im-pegno, volontà, mezzi. Tutte strutture di cui la giustizia minorile è drammaticamente carente.

NAZZARENO CAPODICASA

E il futuro sarà peggiore: aumenteranno le domande che corrono in parallelo alla crescita del problema del-l’infertilità nel nostro Paese, diminuiranno i bambini. C’è la tendenza dei Paesi da cui fi nora sono arrivati i bambini, l’Europa dell’Est, il Sudame-rica e l’Asia, a chiudere le proprie frontiere. In alcuni casi il motivo è perché effetti-vamente le condizioni di quei Paesi sono migliorate, come in Thailandia e in India, dove le adozioni nazionali sono diventate una realtà. In altri casi perché, per ragioni di immagine, gli Stati cerca-no di nascondere quali siano le reali condizioni dell’infan-zia ostacolando l’adozione. Oppure, ed è la situazione dell’Africa, a fronte di milioni di bambini affamati, non esi-stono i “canali” perché l’ado-zione si compia: tribunali per i minori, leggi, strutture.Così, nell’attesa, ragazzi e bambini restano lì, senza sapere cosa li attende, senza sapere se mai, anche a loro, spetterà il diritto ad avere una famiglia. Ma il proble-ma non è la legge, che è una buona legge perché cerca di recuperare fi no in fondo il le-game con i genitori biologici, tenendo conto che, spesso, le situazioni di disagio derivano dalla povertà. Il punto è l’ap-plicazione della legge, spesso disattesa. E i ragazzi restano lì, in attesa di una sentenza...

ADOZIONI quasi impossibili

La prima avvisaglia di quella che sa-rebbe diventata la calda estate della Lega Nord è arrivata a maggio con

l’allora deputato Matteo Savini. Propose posti riservati ai milanesi sulle carrozze della metropolitana. Chi pensava che la sua fosse solo una sparata ha dovuto ri -credersi. Da allora è stato un crescendo di pro -poste e provocazioni: l’inno regionale al posto di quello nazionale, il tricolore, le gabbie salariali, il dialetto in televisione, al bando docenti e presidi del Sud, va-lutazione sulla conoscenza della cultura regionale, crociata contro i cibi etnici e corbellerie varie.Sul forum del movimento politico giova-nile della Lega Nord, nella sezione “poli -tica e cultura”, è stato un susseguirsi di invettive verso i preti e i vescovi che, a detta dei commentatori, dovrebbero “ta-cere” rispetto a temi come il dramma

dei migranti morti in mare e le politiche sull’immigrazione del governo. La Chiesa, per i giovani leghisti, è for-mata da “un branco di ipocriti”. Qualcu-no scherza: “L’età media dei preti e dei vescovi è dalla nostra parte, non dalla loro, per fortuna”. L’immigrazione, per il Vaticano, sarebbe un business, come scrive un altro: “Per loro l’immigrazione è un affare miliardario, in altre parole campano sulla disperazione della gente mentre loro si fanno fare i baciamano con le mani coperte d’anelloni con rubino”. Scrive un utente che si firma Picinet e fa parte del movimento dei giovani padani: “I vescovi dovrebbero tacere, perché sono una razza in via d’estinzione”. Uno “spiritoso” scrisse sul muro d’un edi-ficio: “Dio è morto. Firmato Nietzsche”. Passò poi un altro più intelligente che aggiunse: “Nietzsche è morto. Firmato Dio”!

Nietzsche e i giovani leghisti

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19 / Ottobre 2009

Straordinaria scoperta in MozambicoMABU, la montagna inviolata

In Mozambico, sul Monte Mabu, alcuni ricercatori si sono introdotti in una

delle ultime foreste vergini del nostro pianeta.La localizzazione dell’area era avvenuta nel 2005 grazie ad Internet. L’ecosistema, prati-camente inviolato dall’uomo, infatti, era stato individuato su Google Earth. Il famoso motore di ricerca che, da qualche anno, ha messo a disposizione dei “navigato-ri” un’applicazione gratuita che permette di visionare le mappe satellitari di ogni qualsiasi parte della Terra. Detta foresta, considerata dai ricercatori primaria, cioè non modificata da alcun in-tervento umano, si estende su un’area di circa settemila ettari (80 Kmq). È la più va-sta giungla di montagna del sud dell’Africa ed è ubicata ad una quota che varia dai mille ai millesettecento metri di altitudine. Solo le popo-lazioni locali ne conoscevano l’esistenza, sicché nessuna spedizione di ricercatori l’aveva ancora attraversata.Ad esplorarla da un punto di vista scientifico, è stata, lo scorso novembre, una spedizione organizzata da Johnathan Timbelake, del britannico Royal Kew Gar-den. In pochi giorni, una trentina di scienziati, tra i quali botanici, ornitologi, erpetologi ed entomologi, hanno scoperto: centocin-quantasei specie di farfalle, di cui cinque ancora scono-sciute; centoventisei specie di uccelli, di cui cinque in via di estinzione; e una nuova vipera dalle piccole dimen-sioni e dagli occhi gialli che è stata chiamata Atheris ma-buensis, nome, chiaramente, derivato dal luogo dove è stata rintracciata. “Per quanto riguarda le piante raccolte sul Mabu, sono così numerose che le stiamo ancora catalogando”, ha dichiarato alla stampa internazionale il professor Timberlake. “La straordinaria ricchezza biologica di questo luogo è la dimostrazione di come la vita si adatti a ogni nicchia ecologica. Adesso dobbiamo fare di tutto per proteggerla”.La ricercatrice dell’Istituto di Agraria di Maputo al seguito della spedizione, Tereza Al-ves, spiega che la foresta del Monte Mabu era solo un puntino bianco sulle mappe geografiche. Uno dei pochi rimasti. “Volevamo studiare — dice sempre la Alves — la

biodiversità delle montagne del Mozambico. Ora, vista la loro vastità, siamo ricorsi a Google Earth: le foto satel-litari scattate sul Mabu mo-stravano una zona di colore verde intenso. Così intenso che poteva essere solo una foresta vergine”. Conferma che poi è arrivata con il sopralluogo in questione. “Durante le poche ore trascorse sul Monte Mabu — dice ancora la ricercatrice —, abbiamo incontrato uccelli, rane, camaleonti, farfalle, co-leotteri e fiori di ogni forma e colore. Sulla chioma di un albero alto una trentina di metri, abbiamo anche in-travisto la scimmia samango e, ai piedi dello stesso, un curioso topolino con il naso a forma di tromba”.Infine, c’è da dire che il pic-colo eden naturalistico con-siderato dal mondo scienti-fico così tanto prezioso è, purtroppo, a rischio. Prima di tutto, lo è per il pericolo di deforestazione dovuta alla pressione demografica che ha procurato già diverse modifi-che ambientali nei territori limitrofi. Lo è, anche, per la caccia indiscriminata. In una nazione come il Mozambico, economicamente povera, la caccia è un’attività molto diffusa. Un Paese che, dal 1975 al 1992, fu devastato da una feroce guerra civile, dove le etnie dei Frelimo e dei Renamo, uccidevano dagli elefanti ai leoni ecc, vuoi per ricavarne cibo per le rispettive soldatesche, vuoi per ricavarne trofei con cui comprare armamenti. In parte, questo impoveri-mento zoologico, è capitato anche nella foresta del Mabu, dove durante gli anni della guerra, le popolazioni locali si rifugiavano. Anche se le impervie pareti della mon-tagna l’hanno sempre difesa

da insediamenti umani nu-merosi. E, in questo senso, l’intera area non ha cono-sciuto, se non in minima parte, modifiche ambientali dovute all’antropizzazione. “A proteggere il Monte Mabu sono state anche le pianta-gioni di tè che lo circonda-vano per centinaia di ettari, e dove i proprietari europei lasciavano entrare solo una manodopera così schiavizzata che aveva poco tempo da dedicare alla caccia”, spiega Tereza Alves.Dette piantagioni, da circa cinquant’anni, sono state abbandonate. Oggi chi vo-glia avvicinarsi al Mabu, è costretto ad attraversare una sorta di bosco prodottosi

La foresta resterà “incantata”

dagli arbusti da tè abban-donati che, nel tempo, si sono trasformati in alberi. Oggi ci vivono popolosi in-sediamenti di etnia macaca. Un abitante del luogo, Diru Eltan, che ancora lavora con la compagnia di tè per la manutenzione delle strade delle piantagioni, in attesa di una riconversione ad altre colture, intervistato da una ricercatrice, dice che “Nean-che il fuoco riuscirebbe a distruggere questo bosco di tè”. Il bosco forse, ma la foresta vergine invece è in pericolo. Dato che la spedi-zione ha trovato, ai margini della foresta, alcune zone an-date in fumo. Nella regione, non essendoci elettricità che

impedisce l’utilizzo delle se-ghe elettriche, per abbattere gli alberi non rimane che il fuoco. Gli alberi, infatti, ostacolano la formazione di insediamenti umani, in quanto non permettono di coltivare la manioca. Quel-li che cacciano o danno fuoco — sostiene ancora Tereza Alves —, non sono né bracconieri né piromani: sono solo persone disperate che cercano di sfamare i loro figli. Credo che oggi l’unica strada percorribile sia quella dell’ecoturismo. Al momento non vedo altre soluzioni”. Anche se, per ora, la distruzione di aree boschive riguarda solo picco-li appezzamenti, il fenomeno desta preoccupazioni per ciò che potrebbe accadere nel futuro. Una cosa è certamente chiara. Se non si interverrà, tra pochi anni la foresta sul Mabu potrebbe andare incontro a un irreversibile degrado, per quanto con-cerne flora e fauna, di un habitat che, per adesso, si è conservato praticamente allo stato primitivo. Sicché, si può purtroppo ipotizzare che, in mancanza di iniziati-ve che tutelino la montagna, una moltitudine di orticelli di manioca, in un tempo più o meno lungo, prenderà il suo posto.

Da Maputo, capitale del Mozambico, nel luglio scorso è arrivata la notizia che in molti stavano aspettando. La foresta plu-

viale del Monte Mabu, per decisione del Governo locale, sarà tutelata da un’apposita legge che ne permetterà la conservazione, evitando interventi che potrebbero compromettere le notevoli biodi-versità di cui essa è depositaria. Una conquista che ha visto protagonisti alcune organizzazioni ambientaliste, tra cui l’africana Mulanje Moun-tain Conservation Trust (MMCT) e un gruppo di scienziati. Fu proprio un ricercatore della Mmct, Julian Bayliss, consultando le fotografi e satellitari messe a disposizione su Internet da Google, a ca-pire che in quella zona poteva trovarsi una foresta inesplorata.Dunque, se questa decisione diventerà operativa — e niente, al momento, impedisce di pensare il contrario —, la foresta “incantata” si salverà dai pericoli dell’antropizzazione. Il 27 giugno, infatti, il Ministero per l’agricoltura del Mozambico ha emanato un regolamento apposito, il quale sta-bilisce che l’intera zona del Monte Mabu viene ad essere considerata un’oasi naturalistica, da proteggere e conservare inalterata, in quanto, in fatto di fl ora e fauna, vi risiedono delle particolari rarità e alcune specie fi nora sconosciute al mondo

botanico e zoologico. Tutte caratteristiche, queste, di grande interesse scientifi co e, assieme, turistico. Insomma, la foresta del Mabu potrebbe diventare fonte di guadagno per le popolazioni locali e per l’intero Mozambico, attraverso fl ussi turistici orga-nizzati e severamente regolamentati, attratti dalla unicità del luogo. Tutto ciò, una volta realizzato, potrebbe essere la miglior soluzione riguardo, an-che e soprattutto, alle necessità di una popolazione che vive ai margini della montagna e che riversa in condizioni di estrema povertà. Una povertà appesantita dalla guerra civile, iniziata nel 1975 e conclusasi quasi vent’anni dopo, e dalla chiu-sura delle piantagioni di tè nella estesa pianura ai limiti del Mabu. La compagnia proprietaria delle piantagioni, dopo la chiusura, aveva promesso di riconvertirle ad altro tipo di produzione agricola, ma non se ne è fatto ancora niente; tant’è che i terreni, lasciati all’incuria, ora sono invasi da una fi tta boscaglia. Infatti, la distruzione mediante in-cendio di tratti di foresta, in verità per il momento molto pochi e soltanto in zone marginali, che la spedizione guidata da Johnathan Timbelake, di cui riportiamo in questa pagina, ha registrato, è dovu-ta al fatto che per coltivare piccoli appezzamenti di manioca, principale fonte di cibo delle popolazioni locali, bisogna, naturalmente, abbattere gli alberi.

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20 / Ottobre 2009

F

Per produrre un vino di buona qualità, bisogna partire da un’uva che

detta qualità sia in grado di assicurarla. Lapalissiano, ma non così scontato. Fare il vino in proprio può consentire un certo risparmio, ma nessuno si lasci tentare dal risparmio sull’uva. Se si pensa al lavo-ro che comporta e anche ai soldi che si spendono per le attrezzature, di certo non ne vale la pena. In questo senso, è bene informarsi a fondo e, quindi, scegliere un vigneto che faccia al caso nostro: dove il rapporto prezzo-qualità sia il più conveniente. Meglio se il viticultore ha una varietà di uve da offrire, con possibilità di ricavarne uvaggi partico-lari sia per i rossi che per i bianchi.Bisogna tener conto che il periodo migliore per la rac-colta varia a seconda del tipo di vitigno e, anche, dei fattori climatici che hanno infl uen-zato la maturazione. Altra cosa di massima impor-tanza è la cantina. L’ambiente o gli ambienti che si hanno a disposizione devono essere estremamente puliti, ben areati e non devono essere soggetti a forti escursioni ter-miche (tra i 12°C e i 17°C). L’impianto elettrico deve essere a tenuta stagna e deve essere provvisto del salvavita. Sicuramente, in ambienti ru-rali è più facile allestire una cantina modello, però anche in città si possono ottenere risultati soddisfacenti. Ad esempio, si possono coibenta-re le pareti adoperando mate-riali relativamente economici ma perfettamente effi cienti e installare un condizionatore d’aria. Si perderà un po’ di quel fascino che caratterizza la cantina nell’immaginario collettivo, ma il vino non ne subirà alcuna conseguenza negativa. E ora passiamo alla fase attiva. Supponiamo che si vogliano produrre più o meno cento litri di vino, dal momento che un quintale d’uva, se passata al torchio, è in grado di dare una resa che va dai 60 ai 70 litri di prodotto fi nito, biso-gnerà approvigionarsi di due quintali d’uva, almeno, per essere sicuri.Una volta che gli uvaggi sono stati trasferiti in cantina, si darà inizio alla pigiatura e alla diraspatura. Si tratta di separare i raspi dagli acini. Esistono in commercio delle

l’acidità, con un aumento di tannino di cui abbisognano solo i grandi vini da invec-chiamento e, in questo caso, la tradizionale pigiatura con i piedi è la migliore.Sicché, a questo punto, si è ottenuto il mosto, che andrà messo in un recipiente (tino) di acciaio inox (un recipiente di 100 litri sta intorno ai 200 euro), molto più igienico e sicuro dei vecchi tini in legno. Se già adoperato l’anno prima, dovrà essere perfettamente pulito e disinfettato con la solfi tazione. È importante

pigiadiraspatrici di tipo ma-nuale ed elettrico: il costo va da circa 200 euro in su. Per quantità domestiche vanno benissimo quelle manuali. Durante questa fase di lavo-razione è consigliabile usare il metabisolfi to nelle quantità indicate dagli enologi. Svolge azione antisettica e antiossi-dante. Consente, inoltre, di eliminare più facilmente le varie sostanze in sospensione facendole precipitare. Man-tenere nel mosto la presenza di raspi, così come di foglie e acini acerbi, fa aumentare

riempire il tino solo per tre quarti e tenerlo convenien-temente aperto durante la prima fermentazione, per dare sfogo all’anidride carbonica, sviluppata dal mosto, che solo in parte deve permanere all’interno. In questa fase di fermentazione, detta tumul-tuosa e di macerazione, vanno espletate due importanti ope-razioni al fi ne di ottenere un vino di qualità: la follatura e i rimotaggi. La follatura, affo-gamento delle bucce in super-fi cie, evita l’ossidazione delle stesse, che comprometterebbe

È tempo di vino. Se vi prendesse voglia di farvi il vino da soli, sappiate che è un lavoro che richiede tempo, precisione, esperienza e passione, ma alla fi ne la sod-disfazione di avere un vino genuino compensa ogni fatica. Il grande intenditore di vini, il giornalista Luigi Veronelli, sosteneva che il peggior vino contadino è

migliore del miglior vino industriale.

Se va di moda l’orto,perché non farsi il Vino?

il risultato fi nale. Un’opera-zione che va fatta due volte al giorno. I rimotaggi, invece, si fanno per ottenere una buona ossigenazione atta a migliorare l’attività dei lieviti. L’operazio-ne consiste nel portare sopra il mosto spillandolo da sotto. Il numero dei rimotaggi dipende dai tempi di macerazione, in genere da 5 a 15 giorni. Tempi brevi per i vini novelli, lunghi per quelli da invecchiare. Ora il mosto-vino è pronto per la svinatura. Si tratta di separare il mosto dalle bucce (vinacce), travasandolo in una o più botti (i prezzi delle botti variano talmente, che non è facile ricavarne una me-dia utile). Comunque sia, se si vuol risparmiare, si possono usare le damigiane di vetro. Dalle bucce, con un’ulteriore torchiatura, va poi recuperato il liquido che ancora conten-gono e messo insieme al resto. Per circa un mese, continuerà la fermentazione lenta del mo-sto che già si può considerare vino, dopodiché, terminata la fase di vinifi cazione, per eliminare l’aria, si procede alla colmatura. La colmatura si può fare anche con il vino dell’anno precedente, purché sia sano e dello stesso tipo. Durante il travaso, è buona norma prelevare un cam-pione di vino e portarlo ad analizzare da un enologo, che, eventualmente, sarà in grado di prescrivere dei correttivi (costo: intorno a una decina di euro).Tra novembre e dicembre si attua il primo travaso al fi ne di eliminare la feccia che ormai si sarà depositata com-pletamente sul fondo della botte. Frate Indovino consi-glia di farlo in una giornata di tramontana e ci ricorda un antico proverbio che dice: «Se volete che il vino abbia for-tuna travasare sempre al calo della luna». Altri due travasi andranno effettuati a gennaio e a fi ne febbraio o primi di marzo. In primavera il vino è pronto per la conservazione nelle bottiglie.Frate Indovino, ancora, rac-comanda: «Le bottiglie siano di vetro nero o verde; vanno collocate in luogo molto buio a temperatura costante. L’area-zione della cantina deve essere orientata verso nord. Usate tappi a corona così le bottiglie potranno essere conservate dritte o adagiate.», anche se su quest’ultimo punto, i puristi, come il già citato Veronelli, non sono affatto d’accordo e raccomandano di impiegare tassativamente solo tappi di ot-timo sughero. Le bottiglie pos-sono contenere da tre quarti di litro ai due litri, ma se si vuole valorizzare il proprio vino, sarà bene utilizzare le prime. Qui di lato troverete una sorta di glossario che illustra i vari tipi di bottiglie tradizionali e il loro specifi co impiego.

La forma, il colore e il nome delle bottiglie per il vino di una certa qualità, più diffuse,

dipendono, sempre, dalle loro origini. Sicché, la bordolese, impiegata soprattutto per i vini da invecchiamento, muove i suoi primi passi nella tanto decantata area vitivinicola francese del Bordeaux, nel dipartimento della Gironda, da cui, chiaramente, deriva il nome. Ma andiamo per ordine, e vediamo come vengono chiamate le varie parti in cui si suddivide una bot-tiglia. Abbiamo così, la base, il corpo, la spalla e il collo. La base: consente alla bottiglia di stare in posizione verticale. Può essere concava, cioè rien-trante verso l’interno, oppure praticamente piat-ta. La prima è più usata per vini che producono sedimenti. L’altra, in tutti gli altri casi. Abbiamo poi il corpo, che caratterizza la parte cilindrica più lunga e larga. Va dalla base alla spalla della bot-tiglia. Quest’ultima inizia là dove la bottiglia va a restringersi in modo più o meno accentuato. La spalla accentuata, serve a trattenere i sedimenti quando si versa, evitando di inclinare troppo la bottiglia, il vino in un bicchiere o in una caraffa. Il collo ha l’evidente funzione di ospitare il tappo e, al contempo, di evitare che il vino fuoriesca troppo velocemente durante la mescita. Infi ne, c’è il cercine: una sporgenza circolare, più o meno accentuata, alla fi ne del collo.Vediamo allora, le bottiglie più utilizzate; quasi tut-te, fatte per contenere 3/4 di litro di vino. Sia ricor-

dato per carità di patria: il vino fatto con l’uva, una volta stappato, se non si consuma subito, dovrebbe, il condizionale è d’obbligo, prendere d’aceto. La Bordolese, ha forma cilindrica, spalle molto accentuate e collo corto. È tra le bottiglie più usa-te, sia per i bianchi che per i rossi. Incolore per i bianchi, verde o marrone per i rossi, ma anche per alcuni bianchi. La Borgognona, ha forma cilindrica, spalle slan-ciate e collo lungo, utilizzata prevalentemente per bianchi. Flauto, detta anche Renana o Alsaziana, dalle regioni d’origine, è usata solo per bianchi. È slan-ciata, senza spalle e senza rientranza sulla base, si usa per bianchi da bere giovani.La Champagnotta, della zona della Champagne, è destinata esclusivamente a contenere gli spumanti. Simile alla Borgognona, ha vetro più spesso e un cercine molto sporgente al fi ne di trattenere la gab-bietta che impedisce al tappo di saltare per via dei gas che caratterizzano gli spumanti.L’Albeisa, della zona di Alba, ospita sia i vini bianchi che rossi del Cunese. La sua forma ricorda quella della Borgognona.La Marsalese, per il Marsala, è praticamente una bordolese con il collo leggermente rigonfi ato. Più o meno come quella per il Porto e lo Sherry. Tutti vini dolcifi cati. L’Ungherese da 1/2 litro per il Tokaji Aszú, è di forma cilindrica e incolore. Bruno Del Frate

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21 / Ottobre 2009

A Pisa, sul Lungarno Pacinotti, c’è un palazzo del ‘600 da poco restaurato, chiamato da tutti

Palazzo alla Giornata per via di una scritta miste-riosa incisa sul frontone della porta. Il “Dizionario Geografi co Fisico della Toscana” di Emanuele Repetti (1756-1852) di esso dice: “Conta-si pure fra le curiosità il palazzo de’ Lanfreducci, ora Upezzinghi, dove sopra l’arco della porta maggiore havvi un pezzo di catena, e nell’architrave scolpita a lettere cubitali la parola “ALLA GIORNATA”. Ri-spetto alla catena è noto solamente che nel palazzo suddetto fu incorporata la chiesa di S. Biagio alle Catene di padronato della famiglia Lanfreducci. In quanto poi al motto ALLA GIORNATA non vi è tradizione né memoria alcuna che ne indichi la ragione”. Ma in un settimanale illustrato del 22/1/1928 (“Tutto”, fondato da Cesare Sobrero) ho trovato una storia che, pur se leggenda, potrebbe essere verosimile. Insomma, pare che la catena sia un “ex voto”, il motto un “memento”, e ve lo narro in poche parole.Un nobile Cavaliere pisano veleggiava verso la Sardegna a bordo della sua galea quando, al-

l’improvviso, venne abbordato da cinque fuste barbaresche piene di corsari algerini; dopo un feroce combattimento, i corsari ebbero la meglio e lo fecero prigioniero. Ad Algeri, il fatto ebbe gran risonanza, soprattutto per il pubblico riconoscimen-to da parte dei corsari del coraggio e della resistenza dell’equipaggio cristiano; il Cavaliere fu affi dato a uno dei favoriti del Bey, che lo tenne incatenato come schiavo, prezioso trionfo di guerra.

Il padrone Algerino ammirava moltissimo la bravu-ra marinara e guerresca del Cavaliere; non chiese, dunque, nessun riscatto, ma cercò di convincerlo in tutti i modi a rinnegare la sua fede, indossare un

turbante e mettersi al servizio del Bey. E più questo rifi utava, più dura rendeva la sua prigionia. Un giorno, avendo notato con quanto rigore il suo schiavo – già tenuto a stecchetto – osservava il digiuno magro del venerdì, in tono di scherno gli disse: “Giuro che sarai libero il giorno in cui, di venerdì, mangerai a crepapelle e di grasso”. Trascorsero molti mesi; un giorno, il Cavaliere chiese al padrone un lauto pasto a base di carne e ogni leccornia, e lo mangiò voracemente. Il padrone allora, convinto di avergli fatto rinnega-re per sempre la fede cristiana, lo liberò donandogli la catena che per tanto tempo lo aveva avvinto dall’anca al piede; non sapeva, l’Algerino, che quel venerdì cadeva il 25 dicembre, giorno di Natale, in cui la rottura del digiuno era più che consentita.Fatto sta, che, il Cavaliere lasciò col primo vascello il porto di Algeri, tornò a Pisa e qui, a imperitura memoria del fatto, murò sull’architrave del porto-ne del suo palazzo la catena da schiavo e vi fece incidere le parole “alla giornata” che a sé e ai suoi discendenti dovevano ricordare che per l’uomo retto e di fede costretto alle diffi coltà, giungerà sempre “una giornata” in cui avversità e dolori otterranno la loro giusta ricompensa.

Ma che corretti…Altre vittime, in Gran Bretagna, del cosiddetto “politicamente corretto”, dopo il presepe, gli alberi natalizi e le croci appese alle catenine. Tutte cose che potrebbero “offendere” chi pratica altre religioni. Numerosi enti pubblici chiedono ai dipendenti di evitare espressioni come gentleman’s agreement (accordo tra gentiluomi-ni), che potrebbe essere offensivo verso le donne. O come black day (giornata nera) per non alludere al colore della pelle. Si potrebbe maga-ri usare il termine “abbronzato” di berlusconiana memoria!Indifferenza“Siamo stati alla deriva per più di venti giorni, abbiamo incrociato almeno dieci imbarcazioni, ma sola-mente un pescatore si è fermato per darci cibo e acqua. Eravamo partiti in 78, siamo arrivati in 5. Gli al-tri sono morti e abbiamo gettato i

corpi in mare”. L’ennesima tragedia nel canale di Sicilia. Bene ha fatto Avvenire a scrivere e a denunciare l’“indifferenza” dell’Europa sazia, grassoccia e spaventata davanti al-l’olocausto continuo di disperati non colpevoli d’altro che di essere nati con la pelle e nel posto sbagliati.

Tengo famiglia anch’ioL’autorevole quotidiano della Confin-dustria, Il Sole 24 Ore, ci fa sapere che Renzo Bossi (il figlio) è stato scelto per far parte della speciale Commissione che avrà il difficile compito di sorvegliare per conto delle piccole imprese la realizzazio -ne dell’Expo 2015 a Milano e la

distribuzione di fondi e commesse. Difficile pensare che sia avvenuto per il poco brillante curriculum del rampollo, reduce da tre bocciature all’esame di maturità. Non resta, allora, che pensare che anche i teorici di “Roma ladrona”…tengono famiglia!

Soffi are sul fuoco“Immigrati clandestini: torturali! E’ legittima difesa”. Lo slogan apparso su Facebook sembra troppo anche per leghisti come Borghezio e proba-bilmente si tratta di un truce scher-zo goliardico. Tuttavia, dopo le bat-tute vere di troppe “camicie verdi”, al videogiochino contro i barconi di

immigrati, i coretti di Salvini contro i napoletani, l’editoriale della Pada-nia contro i Patti Lateranensi, ci si chiede se esista davvero un limite all’imbarbarimento e all’inciviltà. Si sa, che a forza di soffiare sul fuoco, prima o poi scoppia l’incendio…

Scuola e palloneL’estate sta finendo! Così cantavano qualche annetto fa i Righeira. Ai miei tempi (ahi, sto invecchiando!) le scuole iniziavano il 1° ottobre e subito il 4 era vacanza (San Francesco). Altre feste facevano da corollario all’anno scolastico, tutte poi abolite in nome dell’economia. Compravamo il diario di Jacovitti, avevamo 3 mesi di vacanze estive, ci siamo diplomati e laureati. E oggi? Nell’era della globalizzazione, del-l’informatizzazione la scuola sforna sempre di più “asini”. Consolatevi, tuttavia, sono tornati i “pallonari”!

Gli spilli di Erasmo

MITÌ VIGLIERO

La giornata del Cavaliere

La sentenza è stata emessa qualche anno fa: abbaiare è un “diritto esistenziale” dei cani. Con quella motivazione un giudice di pace

di Rovereto ha respinto il ricorso di un pensiona-to. L’uomo, esasperato dal continuo abbaiare dei due dobermann dei vicini, aveva chiesto un risar-cimento danni, rigettato dal giudice. La sentenza, inoltre, ha definito strumento “lesivo dei diritti dell’animale” il collare anti-abbaio, uno strumento a pile che emette suoni ad alta frequenza quando il cane abbaia e lo costringe ad abbassare il volume.Ci rallegriamo della sentenza, ma non del tutto. Più che sacrosanto e doveroso rispettare le bestioline che il Creatore ha sparso per la terra, nell’aria e in acqua. Ma è doveroso anche rispettare i diritti dell’essere creato a Sua immagine e somiglianza.Al migliore amico dell’uomo, come giustamente viene chiamato, spetta, per l’italica legge, uno spazio in recinto non inferiore a 20 metri qua-drati da condividere al massimo con un altro cane o 9 metri quadrati in un box tutto per lui.Ma se fosse un detenuto gli andrebbe peggio, molto peggio. Gli spette-rebbero sì e no 7 mq in singola e 4 mq in celle collettive. Ammesso che non vi sia il sovraffollamento, come da sempre accade nelle patrie

galere.Un cane, nel comune di Roma non possono te-nerlo legato ad una catena per più di 8 ore al giorno e la catena deve essere lunga almeno 6 me-tri, garantendogli il movimento, l’accovacciamento, l’abbeveramento e tutte le sue normali funzioni fisiologiche. A un malato di mente, invece, i me-

dici di un noto policlinico di Milano potrebbero costringerlo a seguire le linee guida interne dell’ospedale in materia di contenzione fisica. In armonia con la legge italiana e la prassi tristemente diffusa in tanti reparti psichiatrici. Potrebbero tenerlo legato, mani e piedi, ad un letto fino a 12 ore consecutive, sempre che la sua condizione non richieda un prolungamento della contenzione. A discrezione dei medici, non sempre nel rispetto della sua dignità di essere vivente.Se si trovasse un cane per strada o in mare, senza microchip, le isti-tuzioni lo curerebbero e lo coccolerebbero. Ma se fosse un profugo su di uno sgangherato barcone, senza cibo e acqua, o già nel nostro paese senza documenti e pure malato, farebbe meglio a nascondersi e morire. E chissà se il clandestino non abbia mai pensato: “Se fossi un cane mi sentirei più tranquillo in Italia”. Ma purtroppo è solo…un essere umano!

Nazzareno Capodicasa

Se il profugoavesse quattro zampe

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22 / Ottobre 2009

Ad Assisi, il 3 e 4 di ottobre, sarà festa e festa grande. Come si sa, il 3 ottobre del 1226, al

tramonto, si concludeva la straordi-naria vicenda umana di Francesco di Bernardone e aveva inizio quella ce-

leste. Appena due anni dopo, il 16 lu-glio, sarebbe stato dichiarato santo da papa Gregorio IX. Mentre nel 1939 Papa Pio XII lo avrebbe proclamato Patrono d’Italia.Classifi che di santità non se ne posso-no né se ne debbono fare, ma è noto a tutti che san Francesco è amato e riverito in tutto il mondo. Tant’è che è ancora sono in essere nella Chiesa anglicana e in quella luterana i ri-

spettivi Ordini francescani, dato che “il carisma francescano ha seguito la divisione delle Chiese”. Ed è ricono-sciuto universalmente, come ecologi-sta ante litteram e araldo di pace. Non ci sarebbe mai stata la possibilità

di concertare, negli anni Cinquanta, la prima Marcia della Pace, Peru-gia Assisi, se Aldo Capi-tini non si fosse ispirato alla straordinaria testi-monianza di fede lasciata da san Francesco. Senz’altro la nozione di pace è essenziale nel pensiero e nelle opere del Santo. Sicuramente fu un buon cristiano, anzi ottimo — “quasi un altro Cristo” lasciò scritto Pio XI —, sicché non poteva che desiderare ardente-mente la pace e tentare di redimere ogni confl it-to tra gli uomini, anche il più piccolo. E di esempi, nella sua vita di per sé esemplare, se ne trova-no tanti. Esempi come quello del famoso episo-dio del lupo di Agobbio (Gubbio), raccontato ne “I Fioretti”. Sostengono alcuni, che doveva trat-

tarsi di un signorotto prepotente che si chiamava Lupo. Atterriva le genti eugubine. Fu ricondotto alla ragione e incoraggiato a mitigare il proprio ca-rattere proprio da Francesco. Oppure come quello di Siena, dove, sempre nei Fioretti, si dice: “Giungendo ivi, santo Francesco predicò loro sì devo-tamente e sì santamente, che li ridusse tutti a pace e grande unità e concordia insieme”.

Ma il fatto più signifi cativo avviene durante il suo viaggio in Egitto, risa-lente al 1219. In realtà, c’erano stati altri due viaggi, andati falliti per cause diverse, nel tentativo di raggiungere i territori dell’Islam: la Siria prima (si legga Palestina), e il Marocco poi. Il terzo ed ultimo, invece, riesce. E così, a Damietta, città assediata dai crociati, durante la V Crociata, voluta da innocenzo III con l’approvazione del IV Concilio lateranense da lui stesso proclamato nel 1213, Francesco dimostra, ancora una volta, la sua “di-versità”. Si reca quindi, a dispetto di tutto e tutti, in campo saraceno, insie-me a fra Illuminato e altri compagni, per tentare il dialogo con il nemico, nella persona del sultano Malik Ka-mil. Uomo considerato feroce dalla cristianità dell’epoca, ma che la storia ci riconsegna come uomo dotto, cle-mente e assai avveduto: perfettamen-te in grado di distinguere i diavoli dai santi. E in Francesco riconosce le buo-ne intenzioni e l’animo sinceramente aperto al dialogo in nome del Padre comune, per evitare le atrocità di una guerra fratricida durata fi n troppo. Tant’è che questo fatto, singolare non solo per le modalità di svolgimento, è riportato anche da fonti musulmane, dove il Santo assisiate è trattato col massimo rispetto. San Francesco d’Assisi allora aprì un nuovo solco: un nuovo modo di porsi di fronte alle altre religioni. Quel dia-logo interreligioso di cui tanto si parla, e che, a partire da Giovanni XXIII, ha portato la Chiesa a compiere dei passi decisivi, partendo proprio da Assisi e dunque da san Francesco. Ché Assi-si, senza lo spirito francescano che si irraggia, ancora oggi integro nel mon-do, sarebbe solo una delle tante belle città medievali di cui l’Italia è piena.

San Francesco, araldo di pace

“In quel tempo, Gesù e i suoi discepoli attraversavano la Galilea, ma egli non voleva che alcuno lo sapesse.

Insegnava infatti ai suoi discepoli e diceva loro: Il Figlio dell’uomo viene consegnato nelle mani degli uomini e lo uccideranno; ma, una volta ucciso, dopo tre giorni risor-gerà. Essi però non capivano queste parole e avevano timore di interrogarlo. Giunsero a Cafàrnao. Quando fu in casa, chiese loro: Di che cosa stavate discutendo per la strada? Ed essi tacevano. Per la strada infatti ave-vano discusso tra loro chi fosse più grande. Sedutosi, chiamò i Dodici e disse loro: Se uno vuole essere il primo, sia l’ultimo di tutti e il servitore di tutti. E, preso un bambino, lo pose in mezzo a loro e, abbracciandolo, disse loro: Chi accoglie uno solo di questi bambini nel mio nome, accoglie me; e chi accoglie me, non accoglie me, ma colui che mi ha manda-to” (Mc 9,30-37).

Spesso ci capita di fare una con-statazione antipatica e amara: quando ci guardiamo con spietata

sincerità allo specchio della nostra co-scienza e riusciamo a vedere lucidamen-te il fondo poco limpido delle nostre intenzioni più recondite, ci sentiamo percorrere da una irresistibile sensazio-ne di vergogna. Anche gli atteggiamen-ti più retti, perfi no i comportamenti più corretti e i gesti più generosi ci appaio-no spesso corrosi dal verme clandestino di quell’inconfessabile desiderio di fare del nostro io un piccolo Dio. L’evangelista Marco ci porta ancora più avanti. rimarcando l’incolmabile distanza tra Gesù e i suoi. Il Maestro è ormai diretto decisamente verso Gerusalemme e per la seconda volta annuncia la sua passione, ma i discepoli “non comprendono” e non osano do-mandare spiegazioni. Il malinteso non potrebbe essere più irriducibile. Gesù parla di servizio, i discepoli sognano il successo. Gesù parla di una strana “classifi ca” in cui i primi sono gli ultimi e viceversa, mentre i discepoli si sbrac-ciano ostinatamente per conquistare il podio del vincitore. Gesù parla di croce, i suoi vogliono solo trionfi e applausi, scettri e corone.Ma il Maestro non ha paura di portare la questione allo scoperto: chi è dunque il più grande? Per rispondere, Gesù sale “in cattedra”. Marco lo inquadra “sedu-to”, perché questa è la posizione carat-teristica di Gesù, quando deve dare una lezione importante. Per farsi capire il Maestro compie un gesto decisamente controcorrente. Prende un bambino, lo mette al centro e poi lo abbraccia. Come a dire: “Atten-zione! Voi discepoli siete abbagliati dal mito del super-uomo e cercate di sgomi-tare per salire sempre più in alto. Ma la gerarchia nel regno dei cieli è come una scala rovesciata: colui che è veramente grande è piccolo, e viceversa; e chi è ve-ramente primo è l’ultimo, e viceversa”. Il bambino infatti, secondo la mentalità del tempo, era il simbolo dell’uomo non realizzato, l’ultimo di tutti. Diventa per-ciò l’immagine del discepolo, perché è la copia conforme dell’originale, il Maestro, il quale “pur essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio, ma spogliò e umiliò se stesso.

Se il discepolo vuole essereil primo

Divorzio alla radice TEOBALDO RICCI

Il celebre testo, dove Gesù interpellato sulla liceità del divorzio, lo condanna senza appel-lo, può essere letto in due modi, soprattutto

quando egli dice di ritornare all’inizio. Ricordiamo la frase: Per la durezza del vostro cuore Mosè ha per-messo di scrivere un atto di ripudio e di rimandarla (la propria moglie). Ma all’inizio della creazione non fu così, Dio li creò maschio e femmina, per questo l’uomo lascerà suo padre e sua madre e i due saranno una carne sola. L’uomo dunque non separi ciò che Dio ha congiunto.Quel all’inizio ha, prima di tutto, un valore crono-logico, partendo dal disegno di Dio, passando suc-cessivamente con Mosè alla pratica del divorzio, rimasto valido e necessario anche per i discepoli di Gesù e infine, dopo i secoli di accoglienza all’inse-gnamento di Gesù, la mentalità corrente che vanta il divorzio come una conquista di civiltà.Ma molto più importante è il valore antropologico da dare alla parola all’inizio della creazione che ri-porta al fondamento stesso della unione coniugale,

che nessuno può negare, che sta nell’amore, perché senza vero amore il matrimonio sarebbe tragica finzione e rapporto destinato al fallimento.Per sua natura, è questo il senso da dare alla parola ‘all’inizio’, l’amore vero non è qualcosa di provvi-sorio, ma rapporto che, una volta iniziato, non si cancella più. Pensiamo all’amore materno, vincolo incancellabile e indissolubile tra madre e figlio, e così un’amicizia vera che non smentirà mai se stessa. In astratto siamo tutti d’accordo che una professione di amore fatta in questi termini: ‘ti amerò finché mi piace’, non ha senso. Ma poi, nella pratica, il matrimonio nasce oggi con inconfessato senso di provvisorietà e il divorzio ne è prevedibile conseguenza.Mentre, nel caso che l’amore sia convinzione pro-fonda di amare una persona per sempre, non im-porta che cosa possa succedere, il divorzio sarebbe allora ombra sinistra da escludersi al solo pensarci. Manca, spesso, la radice vera dell’amore, e il divorzio ne è il frutto.

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23 / Ottobre 2009

83Che fine fanno i mozziconi chesono scampati al lancio dal fi-nestrino? Vanno nel posacenere,

naturalmente, che va regolarmente svuota-to. Ma non ai bordi della strada o sul sen-tierino di campagna dove abbiamo sostatoper un po’ di relax e il pic-nic. Ogni tanto sene incontrano mucchietti, nei parcheggi pa-noramici, o ai bordi delle spiagge, sporchi einquinanti, destinati a rimanere lì per i pros-simi sette anni. E non è una bella vista.

84Quando sento dire che i giovaninon si sposano perché costatroppo, mi vengono in mente

tre voci di spesa particolarmente indigeste: ifiori, le bomboniere, l’auto degli sposi. I fio-ri però fanno parte della festa, le bombonie-re sono un obbligo sociale (e se si scelgono“solidali” almeno a qualcuno servono)… sucosa possiamo, anzi dovremmo risparmiare,se non sull’inutilissima Bentley con autista inlivrea, la Topolino d’epoca, l’improbabile Li-mousine? Se non la tenete nel garage sotto-casa, l’auto di lusso per il trasporto sposa ol-tre ad essere dispendiosa, rischia di descri-vervi come persone affezionate al nulla, al-l’apparenza, alla vacua vanteria. Sceglietevi

piuttosto un caro amico dotato di auto di-gnitosa e ben pulita e chiedete a lui di farvida autista. Vi accompagnerà nei chilometripiù lunghi e importanti della vostra vita,condividerà con voi scherzi, emozioni e ri-cordi. Il tutto magnificamente gratis.

85Secondo i manuali più punti-gliosi, la sposa dovrà sedere adestra, mentre alla sinistra, pri-

ma della cerimonia naturalmente, si acco-moderà il padre o comunque colui che l’ac-compagnerà all’altare.

86Capita di vedere sulle antennedelle auto di chi ha recente-mente partecipato a un matri-

monio (non come sposo o sposa, tra l’al-tro, ma come semplice invitato) un fioccobianco di quelli da fiorista. Capirei se fos-se la macchina degli sposini in luna di mie-le, che con quel vessillo intendono attirar-si gli sguardi affettuosi di nonnette e dibambini, in piena tradizione anglosassone,che “Just married” (appena sposati) lo por-tano scritto a grandi lettere sul cofano osul baule. Ma che senso ha che gli ospitiesibiscano il fatto di avere partecipato, una

volta, magari dieci giorni fa, a un matri-monio? Mah… non è nemmeno bello…

87E qui vi aspetterete che, dato ilbrontolio continuo, io mi lancicontro l’abitudine di strombaz-

zare ai matrimoni: e invece vi sbagliate.Anche se fanno rumore, tutti quei pot potmettono allegria e soprattutto, sono un mo-do un pochino goliardico e festoso di atti-rare l’attenzione e gli sguardi di tutti suigrandi protagonisti della giornata, gli spo-sini. Che, dati i tempi, hanno tutti i dirit-ti di essere festeggiati dal mondo intero,anche con un bel corteo strombazzante.C’è un’altra occasione in cui gli strombaz-zamenti sono consentiti (entro un certo li-mite, anche di orario notturno): quando lavostra squadra vince lo scudetto o la na-zionale si aggiudica il campionato mondia-le. Anziani e benpensanti, per una volta,sopportino i festeggiamenti. Ma, chi se neva in giro con la macchina imbandieratae i bambini che se la spassano, non appro-fitti per svegliare la città: un giretto in cen-tro è consentito, poi, si rientri nei ranghi.

8 - continua

Galateo per giorni di festa speciale“

78 Sia che vogliate o meno dar loro una mo-netina, siate sempre gentili: non spruzzatel’acqua sul vetro mentre il lavavetri vi av-

vicina con la spazzola, non scacciate il ragazzino amale parole. C’è chi viaggia con una raccolta di spic-cioli, sempre pronti all’uso, chi regala (ma solo a mam-me e bambini) qualche frutto della spesa, o un abitosmesso alla donna ferma al solito semaforo, ma la gen-tilezza, e un sorriso, quelli non devono mancare mai.

79 A San Marino è vietato per legge, conl’efficace deterrente di ben 100 euro dimulta: al volante non si può fumare.

Non solo perché fa male ai polmoni, del guidatorecome dei passeggeri, ma anche perché quelle scar-se manciate di secondi, persi ad accendere la siga-retta possono costare preziosi metri di frenata e do-

lorosi incidenti. La disposizione è legge anche inalcune zone degli Stati Uniti e in Canada. E speria-mo che diventi universale: per ora affidiamoci albuon senso e alla buona educazione. Intanto con-tinuiamo a suggerire a chiunque, anche ai più incal-liti fumatori, di non fumare in auto. Le signorinericciolute che aspirano voluttuosamente, le signo-re che con piglio manageriale sbattono la ceneredal finestrino, aspettando il verde, sappiano: non èun bel vedere. In questi gesti, così esibiti, c’è benpoca eleganza, un nonsoché di greve, di pesanteche ricorda le balere di periferia, le donne dellamala, con la sigaretta penzoloni e le mani aggrap-pate sul volante. Non che per i signori uomini l’ef-fetto sia migliore, è semplicemente meno peggio.L’abitacolo si impregna, il cattivo odore ristagna esi appiccica sui capelli, sui vestiti, sulla pelle. Non

bastano gli alberelli magici devotamente appesi al-lo specchietto retrovisore, che di loro non fannoche aggiungere un aroma ben poco adatto a chiun-que soffra minimamente l’auto. Quell’odore è desti-nato a rimanere, ad accompagnarci a casa, a passa-re a eventuali futuri proprietari.

80 L’estate 2009 ha portato novità sul fron-te della lotta al fumo anche in uno Sta-to a noi vicino e al quale amiamo, spes-

so, fare riferimento per alcune sue leggi oltre che perl’affinità di comportamenti fra popoli neolatini. LaFrancia ha sferrato un attacco contro i conducentiche fumano in auto: con un duplice obiettivo, la sa-lute dell’automobilista e la sicurezza stradale. Parigivuole usare il pugno di ferro per centrare questo im-portante traguardo di salvaguardia sociale.

Un’offensiva a tutto campo

81“Posso fumare?” Nonformulate mai que-sta domanda nell’au-

to di un non-fumatore. Si ve-drà costretto a una dura lottainteriore: rispondere con gen-tile tolleranza alla vostra cor-tese (benché infida) richiesta,rinunciando per sempre al pia-cevole benessere della sua au-to, all’aria fresca, al tessuto pu-lito del tettuccio? Oppure ve-dersi costretto a deludere le vo-stre aspettative, imporvi un ri-fiuto (e se siete la donna deisuoi sogni o il neo superiore,non è facile), alambiccarsi pertrovare ragioni condivisibili an-che dal più vizioso dei fumato-ri, inventarsi storie lacrimevo-li di passate malattie e presen-ti malesseri, sentirsi un esserespregevole che non vi fa “nem-meno” fumare… Prendetelo co-me un principio basilare delbon ton di tutti i giorni: nelleauto altrui non si fuma, a menoche, naturalmente non sia lostesso autista ad offrirvi una si-garetta. E se è il proprietario a

fumare come un tabaccaio tur-co (ammesso che i tabaccai tur-chi fumino…)? Si trattenga,per il bene dei suoi passeggeri,che vanno trattati alla streguadi ospiti, con tutto il rispetto,in particolare poi se si tratta disignore e di bambini. Ancheper lui è vietato, per le stesseragioni di cui sopra, chiedere ilpermesso di fumare. Se la ri-nuncia vi pesa troppo, informa-tevi sui gusti dei vostri compa-gni di viaggio prima di un tra-gitto che superi il quarto d’ora:almeno saprete regolarvi. Seanche solo uno degli occupan-ti soffre il mal d’auto, è un nonfumatore, una persona anzianao un bambino o una donna in-

cinta, non fumate. E se normal-mente fumate pipa o sigari, nonfumate ancora di più.

82In vacanza, in unasplendida localitàdel Sud Italia, non

posso fare a meno di soffrireogni volta che percorriamo unastrada della campagna assolata.Ai bordi della strada abbonda-no bottiglie di plastica, cartac-ce, sacchetti, vaschette gelato,persino un pannolino (usato).Dalla macchina si butta di tut-to con una inconsapevolezzaleggera e sconcertante. Chi si li-bera del bricco del succo o delpacchetto di sigarette vuoto.lanciandolo dal finestrino, hamai pensato che nessuno li rac-coglierà e che rimarranno lì,sporchi e maleodoranti? O siaspetta che la Fatina del Boscopassi a ripulire stradine di cam-pagna e raccordi anulari? Se èvietato gettare oggetti dall’au-to, è vietatissimo disfarsi deimozziconi di sigaretta più o me-no accesi, quelli responsabili ditanti disastrosi incendi che poisi leggono sui giornali. Il moz-zicone, in volo, non si spegne;semmai acquista vigore e anchese non dovesse causare incen-di catastrofici, qualche proble-mino può sempre darlo. Unadelle rarissime volte che ho vi-sto mio padre alterarsi davverocon mia madre è stata la voltain cui lei, tutta presa dalla con-versazione, aveva gettato ilmozzicone acceso dal finestrinosenza accorgersi che anche ilmio finestrino, dietro di lei, eraaperto. La sigaretta, birichina,era così rientrata velocementeandando a ribalzare sui miei ca-pelli e sul mio braccio, atterran-do sul rivestimento in tessutodella Peugeot celeste appenacomprata. Il buco lasciato daquella sfortunata avventura ri-mase lì per anni, triste e lugu-bre memento: non si gettano imozziconi dall’auto.

Vademecum di REGINA FLORIO

SICUREZZA e SALUTEniente fumo al volante

Disegno di Cristina Mazzoleni per Frate Indovino.

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24 / Ottobre 2009

“Ho spiegato a mio nipote cos’è il compromesso: se per le vacanze tua madre vuole andare al mare e tuo padre invece in montagna, il compromesso è che si va al mare, ma il papà può portarsi gli sci”.

Dino VerdeHo visto gente di Parigi visitare il Louvre e poi andare a mangiare da MacDonald. Ho visto gente di Londra andare a visitare il British Museum e poi andare a mangiare da MacDonald. Ho visto gente di Milano andare a visitare MacDonald, e poi non sapere dove andare a mangiare.

Paolo Rossi

L’1 di Italia intorno alle ore 6,07e tramonta intorno alle 17,52.Il 15 di ottobre sorge mediamente in Italia intorno alle ore 6,23e tramonta intorno alle 17,29.Il 31 di ottobre sorge mediamente in Italia intorno alle ore 6,40e tramonta intorno alle 17,06.

Testi a cura di fratemarco

Risotto ai porriIngredienti per 4 per so ne: 350 gr. di riso, 60 gr. di burro, 4 porri fi nemente tritati, 200 cl. di brodo vegetale, 1/2 bicchiere di vino bianco, 1 bustina di zafferano, 3 foglie di salvia, 60 gr. di grana grattugiato.In una pentola riscaldate il brodo che avrete già preparato e filtrato. Nel frattempo, ponete in una padella metà del burro e quando sarà fuso metteteci i porri. Quando comin-ceranno a colorirsi, unite il riso e fatelo tostare. Quindi versateci il vino e lasciate che evapori a fuoco alto. Abbassate la fiamma e aggiun-gete un mestolo di brodo. Lasciatelo assorbire dal riso e continuate a versare a mestoli ogni volta che il brodo si asciugherà. A metà cottu-ra, aggiungete lo zafferano diluito in mezzo mestolo di brodo tiepido. Dopo circa mezz’ora il risotto sarà cotto a puntino. Spegnete e mantecate con il grana e il burro rimasto, che avrete fatto sciogliere, a fuoco moderato, in un tegamino con la salvia.

ALLORO (Laurus nobilis)Secondo la mitologia greca l’alloro nacque dalla metamorfosi di Dafne, la bella ninfa che cambiò sembianze per sfuggire alle insidie amorose di Apollo. Pianta sempreverde, consi-derata sacra, la si usava, e ancora in qualche caso la si usa, per cingere il capo dei poeti, atleti e condottieri vittoriosi. In erboristeria si utilizzano le foglie e le bacche. Le foglie giovani sono lievemente tossiche. L’alloro è considerato anti-settico, digestivo, stimolante delle funzioni cerebrali, sudori-fero, espettorante. L’infuso delle sole foglie, a piccole dosi, purifica l’apparato digerente e favorisce l’eliminazione dei gas intestinali. Rinforza le pareti e ne protegge le mucose gastriche. Per uso esterno, le foglie vengono utilizzate per strofinamen-to, hanno un’ottima capacità di lenire i dolori procurati dai reumatismi. Sempre per uso esterno, è un ottimo rimedio anche il decotto, che ha proprietà antisettiche e lenitive. Aggiunto all’acqua calda per un pediluvio o per un bagno completo, ha un’azione defatigante e antisudorifera. L’olio ottenuto dai frutti ha azione lenitiva, mediante frizio-ne sulle parti dolenti a causa di reumatismi e contusioni.In cucina, si aggiunge agli arrosti, alle patate fritte, alle ca-stagne bollite, ai fichi secchi, alle olive in salamoia, ai pesci marinati, ai cereali integrali e ai legumi. Qualche foglia

nei barattoli di vetro delle farine e dei cereali integrali evita lo sviluppo delle camole.

Richiedere a: E.F.I. - via Marco Polo, 1bis

06125 Perugia Tel. 075.506.93.42 - Fax 075.505.15.33

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Prezzo: Euro 20,50 (spese di spe di zio ne comprese)

“Ottobre: vino e cantina, da sera a mattina.”“D’Ottobre compra il porco, che d’agosto ha già due lune.”“Ottobre, il più brioso e spiritoso.”“A San Francesco, va via il caldo e torna il fresco.”“Vento d’ottobre urla come l’orco, che fa cascar la ghianda, che fa ingrassare il porco.”“D’ottobre il vino nelle doghe.”

Vino“Bellezza senza bontà è come vino svanito.” “L’acqua fa male e il vino fa

cantare.”

OTTOBRE“Io porto vanghe e tordi a Santa Teresa ,a san Crispino vento e ghiande a distesa,

marroni e nespole per San Simeone chi le ha raccolte ne mangia e ne ripone.”

La Sagra del Pan-zal si svolge a Rosa di San Vito al Tagliamento, in provincia di Pordenone, durante il terzo e quarto fine settimana di ottobre, in concomitanza con il giorno di San Luca (18 ottobre). La festa paesana di San Luca ha origini antiche ed è sempre stata colle-gata al pan-zal (pane giallo), il dolce a base di zucca bollita, farina di mais e segala, fichi secchi, semi di finocchio e grappa della povera tradizione locale che, in particolare per questa occasione, veniva pre-parato in grande quantità dalla gente di Rosa. Dal 1986 la sagra è organizzata dal Comitato di Rosa. Grande attenzione è rivolta alla qualità del servizio ed al rispetto delle tradizioni.La manifestazione si svolge in un telo-tenda di 2000 metri quadra-ti, riscaldato e pavimentato, all’interno del quale vengono allestiti i vari chioschi.

Sagra del Pan-zal

S. Francesci d’AssisiSi celebra il 4 ottobre Dopo aver condotto una giovinezza spensierata e aver partecipato alla guerra contro Perugia, all’età di 24 anni rinuncia ad ogni ricchezza de-dicandosi completamente ai poveri e ai lebbrosi, e predicando la fraternità e la pace. A Bernardone, suo padre, con gesto clamoroso restituisce perfino i vestiti. Nell’autunno del 1205, a S. Damiano, sente la voce di Gesù che gli dice: «Va’ e ripara la mia Chiesa...». Da quel momento spende il resto dei suoi giorni per riproporre l’ideale evangelico di amore, al fianco degli “ultimi”. Costituisce con un gruppo di amici il primo nucleo di quello che successivamente diventerà l’Ordine dei frati minori, con l’approvazione di Innocenzo III prima e Onorio III poi. Sul monte della Verna, il 14 settembre 1224, riceve la grazia delle stimmate. Il 3 ottobre del 1226, muore a soli 44 anni presso la Porziuncola di S. Ma-ria degli Angeli. Viene canonizzato due anni dopo. Nel 1939 Pio XII lo proclama Patrono principale d’Italia.

Erbe aromatiche e spezieLe erbe aromatiche e le spezie vengono utilizzate, fi n da tempi immemorabili, in cucina per caratterizzare il gusto di un deter-minato piatto, ma anche per questioni di igiene e profi lassi. Ad esempio, il pepe è un conservante naturale che viene impiegato nella preparazione degli insaccati e altro, mentre aglio, prezzemo-lo, timo, cannella, menta, origano ecc. hanno azione antibiotica e antibatterica. Altre erbe e spezie, come i chiodi di garofano, han-no proprietà antiossidanti che evitano l’irrancidimento di molte pietanze, prolungandone la commestibilità. Tutte provocano degli stimoli olfattivi, dato che i diversi odori che emanano rag-giungono la parte superiore delle cavità nasali e quindi il limbo. Cioè la parte più antica del cervello che è deputata alle funzioni neurovegetative e alle reazioni emozionali. L’olfatto, in epoche remote, era utilizzato dall’uomo anche per trovare il cibo con cui nutrirsi. Attualmente, invece, viene impiegato prevalentemente

dal nostro organismo per predisporsi alla digestione mediante l’emissione di saliva e succhi gastrici.

Questo numero è andato in stampa il 14 settembre del 2009.

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