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1. I SISTEMI ELETTORALI -...

Date post: 18-Feb-2019
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1 Dispensa De Luca R.: “I sistemi elettorali” Insegnamento “Sistemi elettoralia.a. 2018-19 1. I SISTEMI ELETTORALI 1. Premessa Un sistema elettorale in quanto “sistema” – è molto più di un semplice meccanismo per scegliere i rappresentanti di governo. Un sistema elettorale, infatti, è sì un complesso di norme che servono a regolamentare la partecipazione dei cittadini e i modi della rappresentanza, ma è anche una modalità che condiziona la strutturazione dei partiti e la selezione del ceto politico. In altre parole, il sistema elettorale è una componente fondamentale di un ancora più grande insieme che chiamiamo “sistema politico”. Per analizzare un sistema elettorale occorre, quindi, considerare vari elementi singolarmente e nel loro complesso, nelle interrelazioni esistenti fra le diverse componenti e fra queste ultime considerare aspetti, a volte, non immediatamente percepibili. Nella nostra disamina cercheremo di valutare il sistema nel suo complesso e le varie componenti, tenendo in opportuna considerazione i meccanismi di elezione vigenti in Italia e, soprattutto, i sistemi che sono adottati negli stati democratici. In Italia, attualmente, sono presenti per ogni tipo di elezione, dalle amministrative alle politiche, sistemi diversi, alcuni con evidenti somiglianze, ma altri contenenti modalità che differiscono notevolmente. Ciò fa sì che vi siano anche delle conseguenze sul piano del comportamento elettorale, come si può rilevare, ad esempio, dalla semplice analisi dei risultati di elezioni, per enti diversi, che si svolgono nella stessa giornata. Se è vero che “qualsiasi sistema elettorale costituisce un vero e proprio filtro tra la società e la politica” (Pasquino 1984, 333), l’adozione di uno specifico filtro può determinare effetti, più o meno desiderati, nel rapporto che i cittadini hanno direttamente con le istituzioni, ma anche effetti meno mediati che un sistema elettorale esercita sui partiti e sulla selezione del ceto politico. Non è, quindi, una questione di poco conto la scelta di un meccanismo elettorale se consideriamo che ogni sistema elettorale può condizionare sia il sistema politico che i caratteri del sistema partitico e di governo (Gambino 1991). 2. Le variabili in gioco nei sistemi elettorali Sono molti gli elementi che concorrono a costituire un sistema elettorale. Alcuni di questo sono ben evidenti, altri sembrano marginali e a volte neanche sono contemplati dalla stessa legge che disciplina la materia elettorale. Fra i principali elementi che devono essere considerati nel l’analisi di un sistema elettorale, oltre alla formula che traduce i voti in seggi, assumono particolare rilievo sia se considerati singolarmente sia che e con valenza maggiore - se valutati unitamente alle altre variabili come la formazione delle liste di candidati o la presentazione dei candidati nei collegi uninominali, la struttura della circoscrizione o del collegio, i tempi di convocazione delle elezioni, la formazione delle liste dell’elettorato attivo, la disciplina della campagna elettorale.
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Dispensa De Luca R.: “I sistemi elettorali”

Insegnamento “Sistemi elettorali”

a.a. 2018-19

1. I SISTEMI ELETTORALI

1. Premessa

Un sistema elettorale – in quanto “sistema” – è molto più di un semplice meccanismo per scegliere i

rappresentanti di governo. Un sistema elettorale, infatti, è sì un complesso di norme che servono a

regolamentare la partecipazione dei cittadini e i modi della rappresentanza, ma è anche una modalità che

condiziona la strutturazione dei partiti e la selezione del ceto politico. In altre parole, il sistema elettorale è

una componente fondamentale di un ancora più grande insieme che chiamiamo “sistema politico”.

Per analizzare un sistema elettorale occorre, quindi, considerare vari elementi singolarmente e nel loro

complesso, nelle interrelazioni esistenti fra le diverse componenti e fra queste ultime considerare aspetti, a

volte, non immediatamente percepibili. Nella nostra disamina cercheremo di valutare il sistema nel suo

complesso e le varie componenti, tenendo in opportuna considerazione i meccanismi di elezione vigenti in

Italia e, soprattutto, i sistemi che sono adottati negli stati democratici.

In Italia, attualmente, sono presenti per ogni tipo di elezione, dalle amministrative alle politiche, sistemi

diversi, alcuni con evidenti somiglianze, ma altri contenenti modalità che differiscono notevolmente. Ciò fa sì

che vi siano anche delle conseguenze sul piano del comportamento elettorale, come si può rilevare, ad

esempio, dalla semplice analisi dei risultati di elezioni, per enti diversi, che si svolgono nella stessa giornata.

Se è vero che “qualsiasi sistema elettorale costituisce un vero e proprio filtro tra la società e la politica”

(Pasquino 1984, 333), l’adozione di uno specifico filtro può determinare effetti, più o meno desiderati, nel

rapporto che i cittadini hanno direttamente con le istituzioni, ma anche effetti meno mediati che un sistema

elettorale esercita sui partiti e sulla selezione del ceto politico. Non è, quindi, una questione di poco conto la

scelta di un meccanismo elettorale se consideriamo che ogni sistema elettorale può condizionare sia il

sistema politico che i caratteri del sistema partitico e di governo (Gambino 1991).

2. Le variabili in gioco nei sistemi elettorali

Sono molti gli elementi che concorrono a costituire un sistema elettorale. Alcuni di questo sono ben evidenti,

altri sembrano marginali e a volte neanche sono contemplati dalla stessa legge che disciplina la materia

elettorale.

Fra i principali elementi che devono essere considerati nell’analisi di un sistema elettorale, oltre alla formula

che traduce i voti in seggi, assumono particolare rilievo sia se considerati singolarmente sia che – e con

valenza maggiore - se valutati unitamente alle altre variabili come la formazione delle liste di candidati o la

presentazione dei candidati nei collegi uninominali, la struttura della circoscrizione o del collegio, i tempi di

convocazione delle elezioni, la formazione delle liste dell’elettorato attivo, la disciplina della campagna

elettorale.

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In genere la formazione delle liste, la scelta dei candidati, è materia che attiene all’organizzazione dei partiti.

Un sistema elettorale in questa disciplina può intervenire, però, in diversi modi. Innanzitutto, stabilendo le

clausole di incompatibilità e/o di esclusione dell’elettorato passivo. In modo più indiretto, stabilendo delle

regole che, ad esempio, limitano il numero di candidati presenti nella competizione (come nelle formule

maggioritarie in collegi uninominali) o imponendo delle liste “bloccate” nelle quali sono i partiti a decidere

l’ordine di scelta dei candidati. Le influenze di queste regole ricadono soprattutto sui partiti che, nel primo

caso, si vedranno costretti a formare delle coalizioni con il sacrificio di non poter presentare propri candidati

in tutti i collegi e, nel secondo caso, imponendo delle regole interne di selezione del personale politico che

dovrà rappresentare l’intero partito nelle assemblee e, eventualmente, governare in sua rappresentanza.

La struttura della circoscrizione o del collegio assume rilevanza tanto essa risulta più piccola. In una

circoscrizione con pochi seggi, infatti, essendo elevato il quoziente di voti necessario ad acquisire un posto,

devono essere messe in campo tutte quelle strategie che non facciano disperdere voti. Per cui anche in

questo caso la costituzione di alleanze fra partiti, strategiche o programmatiche, si rendono indispensabili

per centrare l’obiettivo. Le circoscrizioni con molti seggi, invece, favoriscono la frammentazione partitica – a

meno che non siano presenti meccanismi di “sbarramento” - o, perlomeno, la presenza di numerosi partiti,

dato che il potenziale di voti per ottenere la minima rappresentanza risulta molto basso.

Il collegio, per numero di votanti in esso compresi, è una porzione di territorio molto più limitata rispetto alla

circoscrizione.

Sul diritto al voto, che ha interessato intensamente il processo di democratizzazione degli stati moderni,

ormai non vi sono più questioni di conflitto: esso appartiene ad ogni cittadino. Diversa è la questione, invece,

sulle facilitazioni che ha l’elettore per esprimere la propria preferenza politica. Ad esempio, la legislazione

italiana favorisce di molto il diritto effettivo dell’elettorato (iscrizione d’ufficio nelle liste elettorali, consegna a

domicilio della scheda di iscrizione nelle liste elettorali, agevolazioni per il viaggio di chi risiede lontano dal

seggio, ecc.) mentre in altri paesi, primo fra tutti gli Stati Uniti, l’iscrizione nelle liste elettorali avviene solo su

domanda, facendo sì che quei cittadini meno “motivati” ad andare a votare, facciano richiesta di iscrizione.

Infine, ma non ultimo, tra gli elementi da considerare in ogni sistema elettorale, una componente che è

entrata di prepotenza non solo nei meccanismi relativi al voto, ma nello svolgimento di tutta l’attività politica:

l’informazione e la propaganda. Se fino a qualche decennio addietro non c’era motivo di giungere ad una

disciplina ferrea delle campagne elettorali, potendo i partiti contare esclusivamente sulle “braccia” dei

militanti e dei candidati, l’era mediatica ha imposto dappertutto regole con l’intento di evitare sopraffazioni da

parte di chi detiene maggiori mezzi finanziari e accesso agli strumenti di informazione. Diventano centrali in

ogni sistema elettorale le norme che dovrebbero porre i partiti ed i candidati a competere ad armi pari, o, per

meglio dire in par condicio. Solitamente ogni legge elettorale stabilisce, quindi, i tetti di spesa per la

campagna elettorale dei candidati e delle liste, regolamenta le condizioni per l’utilizzo dei mezzi di

comunicazione di massa, istituisce facilitazioni per l’utilizzo di strutture pubbliche al fine di informare

adeguatamente l’elettore.

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3. Alcune classificazioni

Solitamente si hanno delle classificazioni per i sistemi elettorali in base alla formula adottata . Vedremo più

nel dettaglio le molteplici variabili utilizzate nei vari paesi che rappresentano elementi di distinzione pur

accomunati da un identico meccanismo.

Due sono, perciò, le grandi famiglie di sistemi elettorali ed una terza ne può rappresentare la combinazione

delle prime due. Il primo grande gruppo è quello delle formule maggioritarie, il secondo quello delle formule

proporzionali ed il terzo è quello di sistemi misti che adottano sia formule maggioritarie che proporzionali,

come nel caso del sistema per l’elezione della Camera dei Deputati e del Senato in Italia, il “mattarellum”,

adottato nelle elezioni del 1994, 1996 e 2001.

La principale differenza tra le due categorie di sistemi elettorali risiede nella modalità della rappresentanza.

Mentre il proporzionale tende a privilegiare la rappresentanza di tutte le componenti della società,

organizzate in partiti, il maggioritario tende, invece, a favorire la rappresentanza di gruppi, presenti in

coalizioni, o, comunque, in partiti che sono prevalenti ma non esclusivi della società civile. E’ abbastanza

evidente che la scelta di un sistema elettorale è legata alle finalità che esso si prefigge; finalità che quasi

sempre non vanno nella stessa direzione, confliggendo tra loro. A seconda degli obiettivi prefissi, le

differenze tra le due tipologie di sistemi elettorali possono essere interpretate, perciò, come la ricerca della

maggiore stabilità di governo dall’esito della consultazione maggioritaria e la ricerca della rappresentanza di

tutti i cittadini dalla consultazione che adotta una formula proporzionale.

4. Il maggioritario

All’interno dei sistemi maggioritari si è soliti distinguere fra majority e plurality, cioè formule che prevedono la

maggioranza assoluta dei voti per l’attribuzione del seggio e formule che prevedono, invece, anche la

semplice maggioranza relativa per determinare il vincente. Quest’ultima formula è quella più utilizzata per la

sua più semplice adozione: il requisito di maggioranze qualificate (il 50% + 1 dei suffragi) si può ottenere,

quasi sempre, a condizione di sottoporre l’elettorato a più turni di votazioni.

La caratteristica principale del plurality system è quella che chi ottiene più voti vince il seggio nel collegio

uninominale (con formula anglosassone: first past the post). Un tale meccanismo di assegnazione del

seggio, estremamente lineare nella sua applicazione e semplificatorio nella scelta che deve operare

l’elettore (in genere, l’elettore trova sulla scheda non più di 4 o 5 candidati o liste), lascia, però, molte

perplessità sulla sua “democraticità”. Infatti, in questo tipo di elezione, quasi sempre vengono considerati

soltanto i voti che vanno a segno, quelli, cioè, che determinano il vincitore nel collegio, mentre tutti gli altri

voti che non siano andati al vincitore del collegio restano senza rappresentanza pur essendo, in moltissimi

casi maggioranza nel collegio e, a volte, maggioranza assoluta nell’intera circoscrizione .

Altra questione legata a tale sistema è che l’elettore, sapendo in anticipo quali sono i candidati che

concorrono effettivamente per la conquista del seggio, utilizzerà la scheda in maniera “strategica”, votando,

cioè per il candidato effettivo più vicino alle sue posizioni e non scegliendo il candidato che ritiene “migliore”

sapendo che il suo voto non servirà a farlo eleggere. E l’identica questione si pone anche dal lato dell’offerta

dei partiti. Essendo ridotta a pochissimi candidati (solitamente solo due) la lotta per la conquista del seggio,

in un sistema partitico frammentato, molti partiti o si aggregheranno in una coalizione, dividendosi perciò le

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candidature nell’ambito della circoscrizione, oppure stipuleranno patti di “desistenza” con le coalizioni più

vicine alle proprie posizioni .

Come si può facilmente intuire, il sistema maggioritario penalizza le espressioni partitiche minoritarie, dato

che difficilmente esse trovano visibilità sulla scheda elettorale e conseguentemente l’elettore si trova

disorientato o scarsamente motivato a votare su un simbolo che non è quello del partito al quale è fedele. E

identico discorso, se si analizza il voto dal punto di vista delle candidature, può farsi per la scelta che si pone

all’elettore che sceglie le persone e non i simboli dei partiti. La presenza di pochi candidati può influire

sull’elettore che non gradisce la candidatura di una persona che pur si presenta per una coalizione di cui fa

parte il partito prescelto.

Nel sistema majority, le questioni esaminate nel plurality sono ancora più accentuate. La richiesta di una

maggioranza qualificata per la conquista del seggio non fa che aumentare le difficoltà nella scelta

dell’elettore in una competizione che, paradossalmente, risulta – proprio per le modalità del maggioritario –

estremamente semplificata. Sono pochi i casi in cui si ottiene una maggioranza elevata in un turno unico di

votazione, per cui, nella quasi totalità, questi sistemi utilizzano un doppio turno. La varietà del ricorso al

doppio turno di votazioni è molto ampia. Quella più utilizzata è il ballottaggio fra i due candidati che hanno

ottenuto nel primo turno le percentuali più alte dei voti validi. È questo, ad esempio in Italia, il caso delle

elezioni per i sindaci di comuni con popolazione superiore ai 15.000 abitanti. Con questa modalità, l’elettore

che non ha votato per alcuno dei candidati andati al ballottaggio ha la possibilità di utilizzare un voto

“strategico”, - cioè “a favore” del candidato più vicino alle sue posizioni oppure “contro” il candidato più

distante – o astenersi, cosa che succede in maniera massiccia nella competizione per l’elezione dei sindaci,

lasciando, così, il risultato parziale acquisito nel primo turno. In effetti, l’ottenimento del 50% + 1 dei consensi

avviene in modo molto artificioso per cui la maggioranza “assoluta” dei voti è quasi sempre soltanto una

maggioranza molto “relativa” del consenso degli elettori.

Dal punto di vista dei partiti, il ricorso al doppio turno non fa che portare acqua – e voti – al mulino dei partiti

maggiori. Sono, nella quasi totalità dei casi, i candidati che si presentano con i partiti più grandi quelli che

vanno al ballottaggio per cui i partiti esclusi dal doppio turno, per essere presenti in qualche modo nella

competizione, devono ricercare, a volte rincorrendoli, accordi con i partiti più grandi.

Un meccanismo di voto che evita il secondo turno è quello adottato in Australia, attraverso il voto alternativo

o preferential voting. Il sistema è molto complicato in quanto gli elettori, in pratica, devono stilare un ordine di

preferenza dei candidati e nello spoglio, nel caso nessun candidato abbia la maggioranza assoluta delle

preferenze, le scelte alternative assegnate nelle schede dei candidati in ultima posizione, e perciò esclusi, si

sommano ai candidati ancora in lizza. Come può intuirsi, questo sistema presuppone un elettorato

“avanzato” in grado di scegliere secondo un ordine che risulta tanto più complesso quanto più numeroso è il

lotto dei partecipanti.

5. Il proporzionale

I sistemi che hanno come formula il proporzionale dovrebbero tramutare i voti in seggi in maniera da far

corrispondere, all’incirca, la percentuale dei voti a quella dei seggi. Ma sono molti i meccanismi che ne

limitano l’effettiva proporzionalità, per cui può verificarsi in qualche caso che il maggioritario risulti molto più

equo nella rappresentanza rispetto al proporzionale.

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La caratteristica del sistema proporzionale è anzitutto la votazione in collegi plurinominali con voto di lista,

cioè porzioni di territorio dove sono presenti più liste di partiti che ha ognuna più candidati che, a volte,

possono essere prescelti attraverso un voto di preferenza. L’attribuzione dei seggi alle liste in competizione

avviene per mezzo di formule che sono più o meno proporzionali. La limitazione del fattore proporzionale

può derivare sia dal sistema stesso (ad esempio con l’introduzione di “soglie di sbarramento” che non

consentono l’accesso ai partiti che non raggiungono una data percentuale di voto oppure da modi di calcolo

che possono privilegiare nell’attribuzione i partiti più grandi o quelli più piccoli) che dall’esiguità dei seggi in

gioco (ad esempio, se i seggi da attribuire sono 5 e sono in lista 8 partiti, avremo innanzitutto che almeno 3

liste “disperderanno” i loro voti e che essendo altissima la percentuale di voti corrispondente ad ogni seggio

– il 20%, dato dal calcolo di 5 seggi su 100 – altri voti si “disperderanno” per quelle liste che non si

avvicineranno alla percentuale corrispondente ad un seggio o ad un suo multiplo ).

Le formule elettorali per la trasformazione dei voti in seggi nel proporzionale si basano essenzialmente sul

metodo del divisore e su quello del quoziente. Nel divisore i voti riportati da ogni lista vengono divisi per una

serie di numeri successivi ed i seggi attribuiti corrispondentemente alle liste che hanno i più alti quozienti fino

a completare il numero dei seggi in palio. Nel quoziente, invece, il numero complessivo dei voti validi viene

diviso per il numero di seggi da assegnare - solitamente maggiorata per evitare che, a causa dei resti della

divisione, rimangano molti seggi non assegnati – per stabilire il quoziente per il quale viene divisa la cifra

elettorale di ciascuna lista che ottiene tanti seggi pari al risultato della divisione.

Mentre nel metodo del divisore, alla fine dell’operazione di calcolo, non restano seggi da attribuire,

solitamente nel calcolo effettuato con il metodo del quoziente non tutti i seggi sono assegnati. Ci sono dei

posti, cioè, che vengono attribuiti con i cosiddetti “resti”. Anche qui sono presenti diverse possibilità di

applicazione di formule. La soluzione più praticata è certamente, in presenza di pochi posti vacanti, quella di

assegnare i seggi ai resti più alti, cioè alle liste che hanno, dopo aver utilizzato i voti per i quozienti pieni, il

numero più alto di voti rimanenti. Soprattutto in presenza di numerosi posti da attribuire, questo metodo di

calcolo non funziona adeguatamente, per cui si provvede con formule che tengono conto di nuovi fattori di

proporzionalità.

I metodi più conosciuti e diffusi di calcolo dei seggi nel proporzionale sono il metodo d’Hondt, il metodo Saint

Lagüe e il metodo Hare. Nella prima formula, i voti ottenuti da ciascun partito vengono divisi per 1, 2, 3 e

così via ed ottengono il seggio i maggiori quozienti fra tutti i partiti fino all’esaurimento dei posti in palio. Con

il metodo Saint Lagüe l’operazione di divisione e di attribuzione successiva è pressoché identica, solo che

cambiano i divisori utilizzati che sono 1, 3, 5, ecc. Infine, con il metodo Hare, il quoziente per cui effettuare la

divisione dei voti validi per ogni partito è dato dal rapporto fra tutti i voti validi della circoscrizione e numero di

seggi da assegnare. Il risultato della divisione (numero di voti validi per quoziente) per ogni lista dà il numero

di seggi spettanti. Mentre nei primi due metodi il numero dei seggi è assegnato in prima battuta, nella terza

formula rimangono dei seggi che vengono attribuiti alle liste con i più alti voti rimasti, non utilizzati cioè

nell’attribuzione dei precedenti seggi.

Le modalità di voto nei sistemi proporzionali sono indubbiamente più elaborate per l’elettore. Esse,

innanzitutto, implicano una scelta fra più liste e, a volte, all’interno delle liste occorre scegliere i migliori

candidati. Meno gravoso è, invece, nei sistemi proporzionali il compito per l’elettore di utilizzare il voto in

maniera strategica. Infatti, in questi sistemi la possibilità di disperdere il proprio voto (assegnandolo, cioè, a

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partiti che non otterrebbero rappresentanza) è alquanto limitata, a meno che non esistano soglie di

esclusione elevate che impediscano un’effettiva rappresentanza per i partiti minori.

Effetti più diretti delle formule proporzionali si hanno, invece, sul sistema partitico. E’ indubbio che l’adozione

di un sistema proporzionale deriva da una situazione storica, dove all’interno dello stato sono presenti più

attori politici.

6. I sistemi misti

Fra le varie combinazioni di meccanismi elettorali, ve ne sono alcuni che rappresentano un ibrido fra le due

principali tipologie, i sistemi cosiddetti misti. Come nel caso di Camera e Senato in Italia dal 1994 al 2001 (il

“mattarellum”), questi sistemi nascono da un compromesso che da una parte vuole fotografare la situazione

esistente del sistema partitico e dall’altro agire sulla stabilità delle maggioranze che escono dalle urne. In

questo tipo di sistemi può prevalere l’uno o l’altro aspetto, proporzionale o maggioritario, a volte con

percentuali di seggi espressamente stabiliti dalla legge per l’uno o l’altra sistema, altre volte con risultati

ascrivibili ai due distinti meccanismi in modo variabile.

Una particolarità dei sistemi misti è che l’elettore - nella pratica quasi sempre - esprime due voti. E li esprime

o attraverso due schede, come per la Camera, oppure con una sola scheda come, ad esempio, per le

regionali dove si può votare per il presidente della giunta e nello stesso tempo dare una preferenza ad una

lista, anche non appartenente alla coalizione del presidente votato . Nel caso della votazione per il Senato è

come se il voto valesse doppio, dato che l’elettore esprime un’unica possibilità, ma il suo voto viene

computato sia nel sistema maggioritario che in quello proporzionale.

La possibilità del doppio voto ha influenza sul comportamento elettorale soprattutto quando le motivazioni

del voto non sono legate alla componente ideologica. Il voto cosiddetto “disgiunto” – nel proporzionale il voto

ad una lista non appartenente alla coalizione prescelta nel maggioritario – è stata una costante delle tre

elezioni finora svoltesi in Italia per la Camera con il nuovo sistema elettorale . Nonostante il dibattito e gli

studi sul fenomeno, non vi sono elementi che possono dimostrare i fondamenti su cui si basa tale

comportamento, che sembra essere così poco “strategico”, da parte dell’elettore.

7. Le soglie di sbarramento

Tutti i sistemi elettorali contengono, in maniera esplicita o implicita, delle soglie di sbarramento, altrimenti

dette soglie minime di rappresentanza o clausole di esclusione, che rappresentano il risultato minimo che

deve essere conseguito da una lista o da un candidato per ottenere almeno un seggio.

E’ importante focalizzare l’attenzione su questo aspetto che potrebbe sembrare marginale in un sistema

elettorale, ma che ha, invece, notevole importanza per capire il funzionamento e verificare la validità di una

formula elettorale.

Siamo soliti riferirci alle soglie di sbarramento esplicite, cioè quelle stabilite dalla legge elettorale, perché ne

cogliamo l’effetto immediato, ma rivestono importanza notevole, dal punto di vista del sistema partitico e

delle sue ripercussioni sul comportamento degli elettori, anche le soglie implicite, quelle che dipendono da

alcuni fattori insiti nella legge elettorale.

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Le soglie esplicite in genere sono indicate nei sistemi proporzionali attraverso delle percentuali che hanno lo

scopo di ridurre la frammentazione partitica. In circoscrizioni molto ampie, cioè dove il numero dei seggi in

palio è elevato, infatti, si potrebbe verificare una presenza massiccia di liste in competizione proprio perché il

quoziente elettorale, necessario alla conquista di almeno un posto nella rappresentanza, sarebbe molto

basso. Ancora più incisivo ai fini del funzionamento del sistema e nell’equa ripartizione dei seggi è

l’applicazione di una soglia di sbarramento nei sistemi proporzionali che prevedono l’utilizzo dei resti per

l’assegnazione dei residui posti. In questi sistemi, sia con il ricorso ai resti più alti che alle più alte medie

(due dei metodi più comunemente utilizzati per assegnare i seggi rimasti nella circoscrizione, non compresi

nei quozienti pieni), l’applicazione di un limite si rende quasi indispensabile ad evitare che partiti con

percentuali di voto molto al di sotto di quelle corrispondenti ad un seggio ottengano la rappresentanza.

Nei sistemi elettorali vigenti, troviamo soglie esplicite molto alte – come nel caso dell’elezione del parlamento

francese dove il limite è fissato al 12,5% di tutti gli elettori e che calcolato sui voti validi, come si fa

solitamente, risulta essere pari a circa il 20% - ed altre bassissime, che non sortiscono concretamente alcun

effetto. Vi sono, poi, dei casi in cui la limitazione può essere aggirata attraverso altre condizioni. Ad esempio

è il caso del sistema regionale in Italia, nella sua prima formulazione del 1995, nel quale veniva fissata la

soglia di sbarramento al 3% ma che si applicava solo per quelle liste che appartenevano a coalizioni che non

abbiano raggiunto, a livello regionale, il 5% dei suffragi.

Le soglie implicite, invece, non hanno limiti prestabiliti dipendendo da alcune variabili che sono l’ampiezza

della circoscrizione, il numero dei partiti e, non ultima, la formula elettorale. La variabile più importante è

senza dubbio l’ampiezza della circoscrizione, cioè il numero di seggi in gioco in una determinata porzione di

territorio, che può avere notevole influenza sul fattore di proporzionalità nel processo di trasformazione di

voti in seggi. Così come una circoscrizione grande riesce ad essere più vicina al fattore di proporzionalità,

allo stesso modo può stabilire una clausola di sbarramento molto bassa e, conseguentemente, limitare la

dispersione di voti, quei voti, cioè, che non hanno rappresentanza effettiva.

Una sorta di soglia di rappresentanza può essere calcolata anche nei sistemi maggioritari dove, però, in

genere l’unicità del seggio nel collegio annulla, di fatto, tale variabile e rende del tutto pletorica la presenza di

candidati in rappresentanza di piccoli partiti. Generalmente gli effettivi contendenti nei collegi uninominali

non superano le tre unità per cui il valore della soglia di esclusione si aggira da un terzo addirittura alla metà

della percentuale dei voti validi.

Le soglie di rappresentanza, esplicite ed implicite, hanno effetto sul sistema dei partiti agendo o in favore

dell’aggregazione (con soglie elevate) o nel senso di dare autonomia ai partiti (Feltrin e Fabrizio 2003). Ad

esempio, se guardiamo al caso della Camera nelle elezioni del 2001, pur in presenza di una soglia esplicita

alquanto bassa (4%), più di un partito ha fatto ricorso all’aggregazione nella consapevolezza di non poter

raggiungere il livello minimo di voti per ottenere dei seggi. Dal patto elettorale alcuni partiti sono passati ad

alleanze più politiche dando vita a formazioni che hanno continuato la loro attività come partito unico . In altri

termini, l’esigenza strategica per alcuni partiti di aggregarsi diventa fattore politico, contribuendo non poco

anche in direzione della semplificazione del sistema politico e dei partiti.

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2. OBIETTIVI DI UN SISTEMA ELETTORALE

Allorquando viene introdotto un nuovo sistema elettorale, al legislatore dovrebbero essere presenti quali

obiettivi il meccanismo di votazione si prefigge. Un altro aspetto, di non minore importanza, dovrebbe essere

la verifica, attraverso delle simulazioni, del grado di funzionalità che il sistema contiene.

Vediamo di tratteggiare alcuni possibili obiettivi di un sistema elettorale, con l’avvertenza che nella

successiva trasposizione degli obiettivi in meccanismi elettorali, tali obiettivi dovranno avere un peso

specifico. Può capitare, infatti, che due o più obiettivi si pongano in contrapposizione, determinando una

impossibile quadratura del cerchio.

1. La rappresentanza territoriale

Il compito di dare adeguata rappresentanza al territorio, negli anni passati era affidato ai partiti che tra le

altre funzioni svolgevano quella di tenere a bada le spinte localistiche cercando di evitare squilibri di potere,

attraverso il principio dell’equa rappresentanza sia negli organi assembleari che in quelli di governo.

La contemporaneità della crisi dei partiti politici e il cambiamento avvenuto nella composizione della società

negli ultimi anni, pone un problema di non poco conto alla rappresentanza da dare nelle assemblee elettive.

Poiché i partiti, ormai, dappertutto non riescono a tenere che rapporti sporadici ed avere nient’altro che un

dialogo intermittente con la società civile, la rappresentanza territoriale diventa ancora più importante per

catapultare negli organismi elettivi le questioni che concernono le istanze di determinati gruppi sociali.

In verità, in Italia le questioni che possono generare conflitti di un certo rilievo sulla rappresentanza

territoriale sono abbastanza limitate. Le “diversità” (linguistiche, religiose ed etniche) sono alquanto

contenute e negli ultimi tempi hanno trovato giusti equilibri nella convivenza con le maggioranze. Guardando

a questo aspetto prettamente dal punto di vista del sistema elettorale, possiamo affermare che in tal modo si

riescono ad evitare complicazioni e “stranezze” nelle formule elettorali che, invece, sono presenti in quei

paesi dove il cosiddetto diritto di tribuna deve essere assicurato alle minoranze .

Sulla rappresentanza territoriale degli organi di governo è certamente più difficile trovare delle linee guida.

Generalmente gli incarichi di governo vengono dati secondo due criteri fondamentali che sono la

competenza e l’appartenenza partitica e difficilmente possono trovare una sponda nella rappresentanza

territoriale.

2. La formazione di una maggioranza (la governabilità)

Nel dibattito sulle riforme elettorali, il tema della stabilità di governo è stato da sempre l’argomento principe

sostenuto da chi propendeva per forme di sistemi maggioritari. Una formula elettorale che consentisse di

formare una maggioranza, seppure composta da una coalizione di più partiti, e dichiarata già prima dell’esito

elettorale, poteva essere il migliore antidoto all’instabilità di governo e a quella politica.

I sistemi maggioritari tendono senz’altro a favorire la formazione di maggioranze stabili. Ma verso questo

obiettivo possono tendere anche i sistemi proporzionali attraverso il cosiddetto premio di maggioranza (dei

seggi aggiuntivi da assegnare al partito o alla coalizione che ottiene complessivamente più voti) o evitando

la frammentazione prevedendo soglie di sbarramento elevate.

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3. La parità di accesso

Alla limitata presenza delle donne nelle istituzioni e negli organi di rappresentanza in Italia, il legislatore,

all’inizio degli anni ’90, aveva cercato di apportare un rimedio prevedendo una presenza di candidati donne

nelle liste elettorali, nella misura di almeno un terzo nei comuni e per le liste “bloccate” del nuovo sistema

elettorale per la Camera l’alternanza di candidati di sesso diverso. Come sappiamo, tali norme non hanno

avuto successo nella loro applicazione poiché è intervenuta la Corte Costituzionale a bocciarle perché in

contrasto con gli articoli 3 e 51 della Costituzione .

Dalle aperture che la sentenza della Corte Costituzionale ha, comunque, promosso in favore della maggiore

presenza delle donne nelle istituzioni, si è arrivati ad una nuova formulazione dell’art.51 della Costituzione,

divenuta legge nell’aprile del 2004. La modifica dell’art.51, che ha avuto il consenso quasi unanime delle

forze politiche presenti in Parlamento, aggiunge all’enunciazione della parità di accesso agli uffici pubblici e

alle cariche elettive la disposizione che “la Repubblica promuove con appositi provvedimenti le pari

opportunità tra donne e uomini” . Con questa modifica, in pratica, si vuole dare una adeguata “copertura

costituzionale a tutti quei provvedimenti legislativi ed amministrativi, con i quali si volessero garantire forme

di paritaria partecipazione tra donne e uomini, in particolare alla designazione di cariche elettive” (Frosini

2003).

Le norme da introdurre nelle leggi elettorali non possono predeterminare “alcuna garanzia di risultato”, ma

devono essere in grado di permettere “un innalzamento reale della soglia di partenza”. In altre parole,

nessun sistema elettorale può prevedere delle quote riservate di seggi, ma deve stabilire che vi siano quote

consistenti di candidati di sesso femminile e ciò allo scopo di sollecitare la partecipazione femminile alle

cariche elettive e nel contempo, dare delle maggiori opportunità agli elettori di votare per candidate donne.

4. La comprensibilità del sistema elettorale

Un ulteriore obiettivo che dovrebbe essere a fondamento di un buon sistema elettorale , è la comprensibilità

del meccanismo elettorale, sia da parte degli elettori e, a maggior ragione, degli addetti ai lavori.

In tutte le elezioni svoltesi con i nuovi sistemi elettorali vi è stata un’elevata percentuale di schede bianche e

nulle. Sappiamo che questa modalità di votazione resta pur sempre difficilissima da interpretare poiché la

volontà dell’elettore non è manifesta. La scheda bianca e nulla potrebbe rappresentare sia un voto di

protesta che una indecisione dell’elettore, mentre alla scheda nulla potrebbe addebitarsi una ulteriore

motivazione nell’errore tecnico. La protesta e l’indecisione, e il conseguente voto non valido, potrebbe

derivare anche dalla incapacità dell’elettore di operare una scelta convinta per l’impossibilità di decifrare

sulla scheda elettorale per chi effettivamente votare e quale effetto potrebbe avere il suo voto. Tanto per

citare uno dei casi possibili, capita che l’elettore vorrebbe dare un voto “disgiunto” (ad esempio ad un

candidato sindaco e ad un candidato consigliere per una lista diversa da quella del candidato sindaco in un

comune con popolazione inferiore a 15.000 abitanti) ma il sistema elettorale non lo consente. Oppure, altro

caso frequente nelle elezioni per la Camera con il sistema “mattarellum”, che in presenza di due schede,

l’elettore faccia confusione non trovando sulle due schede lo stesso simbolo che vorrebbe votare .

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L’aumento considerevole delle schede nulle è da attribuire senz’altro in buona parte alla non linearità del

sistema elettorale, anche se la rilevante presenza numerica di liste elettorali sulla scheda non agevola il

compito degli elettori, soprattutto di coloro che non sono adusi a seguire le vicende politiche.

Un sistema elettorale dovrebbe avere, quindi, questa immediatezza di comprensione, come, ad esempio, si

può riscontrare nei sistemi majority, dove ad aggiudicarsi il seggio è il candidato che ottiene il maggior

numero di voti. Ma non sempre è possibile votare, per scelta e/o per opportunità, con la chiarezza prevista

nel meccanismo majority. Compito del legislatore dovrebbe essere, però, quello di favorire la comprensione

del meccanismo e di assicurare all’elettore quanto più possibile che il suo voto vada a buon fine.

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3. ALCUNI ELEMENTI COSTITUTIVI DEL SISTEMA ELETTORALE

1. Criteri per assicurare parità di condizioni fra candidati

Il voto di preferenza non pone i candidati nelle stesse condizioni di parità. La possibilità di scelta del

candidato da parte dell’elettore, per tutta una serie di motivi, finisce per avvantaggiare, e non di poco, alcuni

su altri. Ad esempio, i neofiti della politica che non sono in grado di presentare come credenziali una fitta

rete di rapporti, politici e non, difficilmente, seppur dotati di indubbie qualità, avranno modo di approdare agli

scranni del consiglio regionale.

Qualsiasi sistema elettorale per riportare un qualche livello di parità fra candidati nella competizione, può

agire soltanto su poche leve. Il candidato incumbent partirà sempre avanti agli altri. Qualche leggero

beneficio in favore della parità potrebbe derivare da alcuni accorgimenti che il sistema elettorale potrebbe

prevedere nella legislazione di contorno , soprattutto nella parte riguardante la disciplina della campagna

elettorale. Il primo argomento che viene in mente a tal proposito è il tetto da fissare alle spese elettorali per

ogni candidato. Un investimento finanziario massiccio nella propaganda personale da parte di candidati più

abbienti, ad esempio, può risultare molto proficuo ai fini dell’elezione. Ovviamente non basta stabilire un

limite alle spese elettorali che si rivela, nella pratica, soltanto formale se non vi sono, poi, controlli reali su

quanto speso. L’altra limitazione potrebbe derivare dalla pesantezza della sanzione da comminare ai

contravventori. Il combinato disposto – controlli effettivi e sanzioni dure – potrebbe effettivamente allontanare

ogni tentazione di spendere somme eccessive per avere un “ritorno” con la conquista dell’elezione.

Se si interviene, in questo modo, sulla limitazione delle campagne elettorali, occorre anche prendere

iniziative sul versante opposto, quello di offrire maggiori informazioni agli elettori sulle scelte che devono

compiere. E’ ormai assodata l’influenza che ha la televisione sull’orientamento delle scelte politiche dei

cittadini e ancora di più il mezzo televisivo ha ascendente nel determinare il successo delle persone e dei

candidati. Se si riuscisse a stabilire, con il concorso delle emittenti che trasmettono sul territorio regionale,

una par condicio fra partiti e fra candidati si porterebbero alla valutazione degli elettori molti elementi utili per

una scelta più ponderata e consapevole.

La disparità fra candidati, come in una competizione regionale, è inversamente proporzionale al peso che

hanno i partiti politici nel sistema politico e nella società. Negli ultimi tempi è sensibilmente aumentata la

disparità fra candidati anche per la crisi che ha investito i partiti sia in fatto di presenza di militanti che,

complessivamente, come organizzazioni politiche. I vecchi partiti erano in grado, invece, di determinare in

massima parte gli esiti dei candidati proprio perché la selezione praticamente avveniva prima, sia con scelte

verticistiche che con la partecipazione degli attivisti che formavano la base dei partiti.

Una prerogativa degli attuali partiti è proprio quella di determinare le candidature a qualsiasi livello. Ad

esempio, una delle polemiche più accese delle ultime elezioni politiche ha riguardato le proteste della base

dei partiti verso i vertici nazionali che hanno deciso, in alcuni casi, di “paracadutare” candidati quasi

completamente estranei al territorio. Con la crisi organizzativa dei partiti permane quel “carattere autocratico

della scelta dei rappresentanti” – i candidati scelti da una oligarchia che dirige il partito - che Duverger (1978,

77) aveva individuato soprattutto in assenza di partiti organizzati.

Un modo per far contare di più i militanti dei partiti ed i singoli cittadini nelle scelte, ancora prima dello

svolgimento delle elezioni, sarebbe quello di affidare alle “primarie” la selezione dei candidati . Più volte è

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stato invocato negli ultimi tempi, proprio per sopperire alla poca democraticità in fatto di selezione delle

candidature da parte dei vertici dei partiti, il meccanismo delle primarie. Le primarie rappresentano una sorta

di autoregolamentazione dei partiti in fatto di selezione del personale, tant’è che solitamente non è la legge

che le impone, ma una libera scelta dei partiti medesimi in favore della democratizzazione interna e per il

coinvolgimento diretto di una base più ampia di militanti e simpatizzanti ai fini della propaganda e del

risultato elettorale. Nella classificazione delle elezioni primarie distinguiamo, infatti, il tipo “chiuso”, quando a

votare sono soltanto gli iscritti ai partiti - e secondo precise regole per evitare iscrizioni di massa dell’ultimo

momento – e il tipo “aperto”, se a decidere la scelta del candidato concorrono, oltre agli iscritti, anche

semplici cittadini.

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4. IL VOTO DI PREFERENZA

1. Premessa

Un elemento fondamentale in un sistema proporzionale è senza ombra di dubbio la possibilità di assegnare

un voto di preferenza ai candidati. Ci possono essere, infatti, molte ragioni da parte dell’elettore di scegliere

di votare sulla scheda un candidato al consiglio, senza tenere in nessuna considerazione né il partito per cui

si candida, né tantomeno la coalizione di cui fa parte ed il programma elettorale. Il voto di preferenza può,

perciò, condizionare l’esito elettorale complessivo. I risultati delle elezioni dove è previsto il voto di

preferenza ci danno numerosi spunti di riflessione sull’importanza del voto di preferenza stesso e sulla

influenza che un tale meccanismo può avere sui risultati.

2. Sistemi elettorali e voto di preferenza

Il referendum sulla preferenza unica del 1991 - passato alla storia politica italiana per avere rappresentato il

primo colpo assestato alla “partitocrazia”, che appariva come il male assoluto della “prima repubblica” -,

sembrava preludere ad una modifica sostanziale di tutti i sistemi elettorali vigenti in Italia (Legnante 1999). Il

significato più profondo del referendum, nelle intenzioni dei promotori, non era quello di portare il numero di

preferenze esprimibili sulla scheda da tre-quattro ad una sola, bensì quello di eliminare del tutto il voto di

preferenza che, nella comparazione con gli altri sistemi elettorali, sembrava un’anomalia che si aggiungeva

alle tante altre presenti nel sistema politico italiano.

Il nuovo sistema elettorale per le politiche del 1993 - in conseguenza dell’esito dell’altro referendum

sull’abolizione del proporzionale e delle mutate condizioni del sistema politico -, ha eliminato dalle sue

modalità il voto di preferenza, mentre il pur modificato sistema per il rinnovo dei consigli regionali (del 1995)

ha lasciato immutata questa possibilità. Se nelle elezioni regionali del 1995 i commenti del dopo-elezioni

avevano in genere trascurato il voto di preferenza e le sue implicazioni sui risultati elettorali, l’attenzione su

di esso è aumentato dopo le consultazioni del 2000, che hanno invece mostrato, in seguito all’utilizzo

massiccio di questa modalità di espressione della scelta da parte dell’elettore, la perdurante influenza della

preferenza sul voto dei singoli partiti. Infatti, se consideriamo la più semplice delle possibili misurazioni del

voto di preferenza, cioè l’indice di preferenza – dato dal rapporto percentuale fra voti di preferenza espressi

e voti di lista – passiamo dal 25,2% del 1995 al 44,2% del 2000. L’aumento considerevole del valore

dell’indice, che si è manifestato in tutte le regioni italiane, anche se con diversa incidenza, induce a riflettere

sulle specificità di un sistema elettorale basato sul voto di preferenza rispetto agli altri.

3. L’importanza del voto di preferenza nell’esito elettorale. Le elezioni regionali

A distanza di soli 5 anni, tra il 1995 ed il 2000 abbiamo visto cambiare sostanzialmente la modalità di votare

degli italiani. L’uso massiccio del voto di preferenza non è derivazione di qualche causa contingente e con

valenza locale. Ognuna delle 15 regioni dove si è votato può rappresentare un caso a sé, ma la crescita

delle preferenze è avvenuta in modo omogeneo e con tratti caratteristici almeno in parte simili.

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L’utilizzo del voto di preferenza, nonostante l’aumento fatto registrare nelle regioni del Nord, rimane una

pratica più diffusa nel Mezzogiorno. Nelle 6 regioni del Sud dove si è votato, il rapporto fra voti di preferenza

e voti di lista è passato dal 48,5% al 73,4%, con regioni come Basilicata, Molise e Calabria in cui questo

indice supera l’80%. Nelle regioni del Nord e in quelle “rosse” del Centro la percentuale di voti di preferenza

rimane ancora molto più bassa della media nazionale che è del 44,2%.

TAB. 1. Indice di preferenza elezioni regionali 1995-2000

Regione 1995 2000 Differenza 2000-1995

variazione 2000-1995 in

%

PIEMONTE 16,8 34,4 17,6 104,8

LOMBARDIA 11,6 23,9 12,3 106,0

VENETO 16,3 33,4 17,1 104,9

LIGURIA 26,3 41,6 15,3 58,2

EMILIA ROMAGNA 11,1 22,4 11,3 101,8

NORD 14,3 28,4 14,1 98,6

TOSCANA 15,4 28,6 13,2 85,7

UMBRIA 30,7 51,2 20,5 66,8

MARCHE 28,6 44,6 16,0 55,9

LAZIO 26,6 47,0 20,4 76,7

CENTRO 23,4 41,0 17,6 75,2

ABRUZZI 46,3 73,1 26,8 57,9

MOLISE 66,4 85,0 18,6 28,0

CAMPANIA 46,4 70,6 24,2 52,2

PUGLIA 41,0 69,8 28,8 70,2

BASILICATA 63,4 85,8 22,4 35,3

CALABRIA 61,5 82,3 20,8 33,8

SUD 48,3 73,4 25,1 51,9

TOTALE 25,2 44,2 19,0 75,4

Fonte: nostra elaborazione su dati Ministero Interni

Ciò che colpisce, però, nelle regioni del Centro-Nord è l’aumento che si è registrato dell’utilizzo del voto di

preferenza. Nelle elezioni del 2000 in Piemonte, Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna si è avuto un

raddoppio del voto di preferenza rispetto al 1995, certamente indicativo di una tendenza e di una diversa

modalità di considerare il proprio voto da parte degli elettori.

L’Emilia Romagna e la Toscana - le regioni della subcultura “rossa” nelle quali tradizionalmente gli elettori

votavano per “appartenenza”, con il voto quasi sempre sul simbolo e con ridotte indicazioni di preferenza per

i candidati - nelle elezioni dl 2000, pur conservando il livello più basso di preferenze, segnalano anch’esse

una crescita degli elettori che esprimono la loro scelta attraverso il voto ai candidati, in linea con quanto

succede nel resto d’Italia. L’Emilia aveva nelle elezioni del 1995 un indice di preferenza dell’11,1%, che ora

raddoppia, attestandosi al 22,4%; la Toscana nelle elezioni precedenti aveva il 15,4% che passa al 28,6%.

Pur con questo notevole balzo in avanti, l’indice di preferenza in queste due regioni resta ben lontano da

quello del Sud.

Come succedeva nelle elezioni con sistemi proporzionali, non tutti i partiti utilizzano il voto di preferenza con

la stessa intensità. Nel Mezzogiorno gli elettori dei partiti di governo sfruttavano maggiormente l’opportunità

di esprimere voti di preferenza, per cui il collegamento fra alto tasso di preferenze e clientela faceva pensare

quasi naturalmente a quella categoria che nella letteratura scientifica prima, nel lessico giornalistico e nel

codice penale poi, è stata indicata come voto di “scambio”.

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I minori beneficiari di questa modalità erano i partiti che raccoglievano il voto cosiddetto “di protesta”, nel

quale non occorre certamente indicare un candidato per veicolare il messaggio che si vuole indicare sulla

scheda.

Solitamente nei partiti a forte componente ideologica, l’elettorato vota in genere solo il simbolo. Per questo

tipo di elettore non è importante il voto al candidato: con la loro scheda votano un’idea, dichiarano una loro

appartenenza, che non ha bisogno di ulteriore specificazione con un voto anche ai candidati.

Nelle elezioni regionali del 2000 le differenze “tipiche” fra gli elettori, nel senso sopra indicato, sono diventate

meno marcate, se diamo una lettura del comportamento elettorale utilizzando il voto di preferenza. Non può

spiegarsi in altro modo, se non ricorrendo al voto alla persona, lo straordinario successo di alcune liste che -

con scarsa o nessuna precedente esperienza, senza alcuna strutturazione partitica, senza utilizzare il mezzo

televisivo, per il parziale blocco della legge che regolamenta le campagne elettorali – hanno ottenuto seggi

in molte regioni. Non è un caso che a beneficiare di questa ritrovata voglia degli elettori di appoggiare un

candidato prima che un partito siano state, principalmente, le liste eredi dei vecchi partiti che nel Sud

facevano incetta di voti, Dc e Psi.

4. I campioni delle preferenze

Per l’acquisizione del voto di preferenza da parte dei candidati, esiste un vasto repertorio di tecniche che in

parte ripropongono pratiche politiche del passato, ma che in altra parte sono state adeguate alle nuove

situazioni. La novità più rilevante è il drastico ridimensionamento (a volte la sparizione) dell’organizzazione di

partito che, ancora poco prima di questa fase, fungeva da supporto ad alcuni candidati. La struttura

organizzativa del candidato per la sua campagna elettorale, adesso, è posta quasi sempre all’esterno dei

partiti, in comitati elettorali entro cui operano attivisti che vantano spesso un bagaglio di esperienze derivanti

da precedenti militanze di partito.

Nell’ultima campagna elettorale per le regionali il mezzo più classico e abituale, il comizio, è quasi del tutto

scomparso o è stato riservato solo ai big della politica nazionale. L’incontro del candidato con gli elettori è

avvenuto quasi esclusivamente in ambiti ristretti, attraverso contatti diretti, organizzati dai referenti locali del

candidato, perché per riuscire a far convergere su uno stesso nominativo tanti voti occorre che il candidato

abbia dei “rappresentanti” in ogni comune della circoscrizione. E si possono avere dei referenti dappertutto

solo se si è in politica da molto tempo, oppure se per via professionale si hanno contatti con molte persone

influenti, cioè se si è in possesso di un vasto capitale sociale, oppure se si dispone di ingenti somme di

denaro.

L’altro caso di successo elettorale è quello del candidato influente localmente – quasi sempre un

amministratore del comune o della provincia – capace di far convogliare tanti voti di preferenza sul suo nome

in un certo ambito territoriale, che, però, al di fuori del suo circondario diventa quasi uno sconosciuto. In

questi casi è difficile ottenere l’elezione, quando si compete nei partiti maggiori. Diverso è il discorso per i

partiti più piccoli per i quali per essere eletto, ad un candidato possono bastare anche relativamente pochi

voti, purché risulti il più votato della lista nella circoscrizione. I meccanismi, a volte perversi del sistema

elettorale regionale, che prevede il recupero dei seggi non assegnati nel collegio unico regionale, possono

fare il resto.

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Questo sistema elettorale favorisce, quindi, coloro che hanno una maggiore visibilità, ed una rete di rapporti

consolidata, che supera i confini del proprio comune. Risultano, quindi, avvantaggiati nell’acquisizione delle

preferenze quei candidati con una precedente attività politica consolidata, magari da consigliere regionale

uscente o, ancora meglio, da assessore. Il successo ottenuto ovunque da questo tipo di candidato, al di là

dell’elezione - che, per quanto dicevamo sopra, è affidata ad un sistema elettorale non sempre lineare – ce

ne dà la conferma.

I “campioni delle preferenze” sono, per lo più, professionisti della politica che fondano la loro esperienza

sulla militanza in partiti dove la lotta personale molte volte viene anteposta agli obiettivi di partito. Lo

sfaldamento dei partiti e la conseguente mancanza di sostegno ai candidati, porta questi ultimi a moltiplicare

gli sforzi per acquisire consensi.

La competizione per il voto di preferenza nelle liste provinciali appanna o, in altri casi, rende difficile la lettura

del voto maggioritario - quello riservato ai candidati presidenti delle coalizioni -, il voto personale che

dovrebbe risultare più importante. Infatti, nelle regioni dove si è fatto maggiore uso del voto di preferenza,

con il conseguente maggiore voto per le liste dei singoli partiti, non si riesce a distinguere il “valore aggiunto”

dei candidati “governatori”, poiché sono poche le schede che riportano l’indicazione di voto solo per le liste

regionali (Agosta 2000).

Se nelle elezioni con sistema elettorale proporzionale i “campioni delle preferenze” riescono a primeggiare, è

arduo ipotizzare che essi riescano altrettanto bene nelle elezioni con sistema elettorale maggioritario. Infatti,

il voto personale non si espleta sempre con le stesse modalità, né sortisce gli stessi effetti. In un sistema

elettorale proporzionale con voto di preferenza, come quello regionale, un candidato che dispone di un certo

numero di voti personali – e, abbiamo visto, non sempre occorrono moltissime preferenze – può ambire

all’elezione, dato che la lotta si riduce, il più delle volte, ad un fatto interno alla propria lista. Ad una maggiore

competizione interna al partito corrisponde, di fatti, una migliore prestazione della lista.

In un sistema maggioritario i candidati, con il loro apporto eventuale di valore aggiunto, non sempre sono

determinanti nell’esito della competizione (D’Alimonte e Bartolini 1997b; De Mucci 1997; Mattina e Tonarelli

1997). Lo stesso candidato possessore di un precisato pacchetto di voti personali, in generale si trova in

difficoltà in un mercato elettorale dove, per vincere, occorre conquistare la fetta più grossa, a differenza di

quanto succede nel proporzionale dove anche con una percentuale minima di voti di preferenza si potrebbe

essere primi nella graduatoria della propria lista, in posizione utile all’elezione.

Né i voti personali basterebbero a determinare l’elezione di un sindaco (Baldini e Legnante 2000) in quanto

la scelta dell’elettore ricade, il più delle volte, nella forma di personalizzazione del “voto di leadership”

(Venturino 2000), una personalizzazione che presuppone il gradimento dell’elettore per il capo del partito o

della coalizione.

Da questa rapida rassegna dei sistemi elettorali vigenti e dalle modalità comportamentali dell’elettorato,

notiamo quasi un paradossale capovolgimento del senso dei due principali sistemi di voto: il proporzionale,

con la presenza di una moltitudine di liste di partito, diventa un voto per la scelta della persona; il

maggioritario, la cui competizione è ristretta a pochi candidati in un ambito territoriale limitato, diventa scelta

di un orientamento partitico o di coalizione nazionale, con un peso della persona candidata quasi del tutto

ininfluente.

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5. Le variabili del voto di preferenza

Le variabili che entrano in gioco nella determinazione del voto di preferenza possono avere maggiore o

minore incidenza in considerazione della posta in gioco. Nella classificazione che fa Ancisi (1976) delle

cinque variabili che bisogna considerare per la “cattura del voto”, almeno tre (intensità della competizione tra

i candidati della stessa lista; presenza fra i candidati di personalità di prestigio; grado di clientelismo nel

rapporto partiti/elettori) rimangono di stretta attualità. Queste tre variabili hanno connotazioni diverse – si

possono considerare di segno positivo le prime due e negativo la terza – che corrispondono ai due principali

e contrastanti filoni di pensiero tradizionali sull’utilizzo del voto di preferenza: quello che lo ritiene un indice

della maturità dell’elettorato, che utilizzerebbe l’espressione della preferenza come scelta razionale e quello

che - al contrario – lo interpreta come segno dell’arretratezza politica, equivalendo in questo caso il maggior

numero di preferenze alla crescita dei rapporti particolaristici (Calise e Mannheimer 1982).

Un’altra considerazione che è opportuno introdurre per inquadrare il voto di preferenza nel rapporto

elettore/partito, è relativa alla tipologia diversa a seconda che il partito di riferimento appartenga alla “area di

governo” o alla “opposizione” (D’Amico 1990). Nel modello del “partito di governo”, l’adesione al soggetto

individuale candidato precede l’opzione per il soggetto collettivo partito. Nel modello “partito di opposizione”,

i fattori localistici e particolaristici hanno poco peso a favore, invece, della competizione, che assume un

significato squisitamente politico.

6. Le differenze territoriali

In tutte le elezioni svoltesi finora, la differenza fra Centro-Nord e Sud nella percentuale dei voti di preferenza

espressi rispetto ai voti di lista è stata elevatissima. Negli anni delle prime consultazioni repubblicane si è

fatto risalire la diversità dell’uso del voto di preferenza sia al diverso livello di istruzione che all’approccio

verso la politica fra cittadini del Nord e quelli del Sud. Tali fattori indirizzavano l’elettorato meridionale

maggiormente per un voto ad personam.

TAB. 2. Indici di preferenza Camera 1963-1992

1963 1968 1972 1976 1979 1983 1987 1992

Nord 18,7 19,1 19,5 18,9 16,5 16,3 19,4 43,7

Centro 28,5 27,3 39,6 25,1 24,6 24,2 20,4 38,4

Meridione 46,1 50,8 52,0 44,3 45,3 45,2 44,0 69,6

Isole 44,9 46,0 46,2 37,4 41,1 40,5 45,6 74,9

Italia 29,2 30,2 31,0 27,5 27,0 26,9 30,2 54,0

Fonte: D’Amico 1990 per gli anni 1963-1987; nostra elaborazione per il 1992

Correlata all’utilizzo massiccio del voto di preferenza, ed in particolare al periodo in cui era possibile

esprimere preferenze multiple, è la questione delle “cordate”. Un buon argomento messo in campo dai

riformatori del sistema politico in occasione del referendum del 1991 è stato, appunto, quello che la

preferenza multipla ha alimentato nei partiti maggiori, la formazione delle “cordate”, cioè due, tre o quattro

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(secondo i casi) collegamenti fra candidati della stessa lista per lo scambio di voti di preferenza entro i

rispettivi elettorati. Questo sistema ha favorito l'elezione di politici che avevano quale fondamentale pregio

quello di appartenere alla corrente di un leader elettoralmente quotato, con la conseguenza di creare

all'interno dei partiti gruppi privilegiati, capaci di esercitare forti pressioni per l'ottenimento di incarichi di

prestigio necessari alla perpetuazione del potere, nonché con una selezione in negativo della classe

dirigente .

Quali siano state le cause dell'uso distorto della preferenza multipla, specie nel Mezzogiorno, è difficile da

determinare. Un riferimento possiamo trovarlo nella tradizione derivante dalla concezione della politica da

parte dell'elettorato attivo e passivo, dall'Unità d'Italia al fascismo. Quasi generalmente la rappresentanza

delle regioni meridionali nei parlamenti del Regno d'Italia era affidata a personaggi che spesso agivano

nell'assemblea legislativa al di fuori di logiche e lealtà collettive, dando vita a quel fenomeno passato alla

storia e nei manuali di scienza politica con il termine di “trasformismo”, che indica forme di collaborazione al

governo contrastanti rispetto alle coalizioni e ai partiti di riferimento dei parlamentari “trasformisti”.

Scaramozzino (1990), sostenitore della tesi della tradizione, afferma che “la gente del sud è abituata a

personalizzare il voto, e questa diffusa tendenza alla personalizzazione del voto è una costante del

comportamento elettorale nel mezzogiorno d'Italia che travalica i partiti e accomuna tutti gli elettori”.

Un’altra spiegazione delle differenze nell’espressione del voto di preferenza fra Nord e Sud è quella che

sottolinea il diverso rapporto che storicamente si è stabilito fra le popolazioni meridionali e la politica. In

questa parte dell’Italia gli iscritti ai partiti hanno sempre avuto minore il senso dell’appartenenza e della

fedeltà (Fantozzi 1996), privilegiando, invece, la relazione particolaristica o di natura familistica, clientelare

oppure localistica. L’alto tasso di avvicendamento degli iscritti ai partiti ne è l’evidente dimostrazione.

Anche i metodi adottati per la propaganda elettorale risentono di questa personalizzazione del voto. Un po’

tutti i partiti si sono giovati di tecniche di acquisizione del consenso che sottolineano il nome dei candidati

prima ancora del partito. Il Pci e le formazioni della estrema sinistra hanno espressamente bandito in

passato la propaganda a carattere personale. In pratica, erano i vertici del Pci che designavano i candidati

da mandare in Parlamento, stabilendone a priori la graduatoria. Era scontata l'elezione del capolista in

qualsiasi elezione , per gli altri candidati, tramite minuziosi dosaggi basati sulle previsioni dei voti di lista, i

vertici del Pci impartivano alle sezioni le indicazioni sui candidati da sostenere e fare eleggere.

Un argomento contrario al voto di preferenza è consistito nel ritenerlo abbinato al “voto di scambio”. In verità,

anche se ad esso è stato spesso collegato, si tratta di un nesso possibile ma non necessario. Un numero

elevato di preferenze ha caratterizzato tutti i partiti nel Mezzogiorno, sia quelli tradizionalmente al potere sia

quelli dell'opposizione. Se il collegamento fra voto di preferenza e voto di scambio è agevole per i partiti al

potere, risulta più arduo stabilire un legame per i partiti abitualmente schierati all'opposizione, per l'evidente

motivo che i candidati di quest'ultimi partiti hanno ben poco da scambiare.

Va comunque ricordato che i partiti che nel meridione riuscivano ad eleggere almeno un rappresentante in

una circoscrizione, e nello stesso tempo partecipavano alla coalizione di governo, risultavano avere un

indice di preferenza ancora più alto. Gli altri partiti che, pur rimanendo all'opposizione, riuscivano a

conquistare dei seggi al Parlamento nella circoscrizione, avevano un indice superiore alla media nazionale.

Ad esempio, il tasso di preferenza del Pci e del Msi, due partiti per decenni collocati all'opposizione, è

sempre stato assai alto nelle regioni meridionali, in riferimento alla media nazionale.

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